Luigi
Speranza -- Grice e Capella: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. Africano di Cartagine, di religione
pagana, scrive il "De nuptiis Philologiae et Mercurii" in nove
libri. Il titolo dell’opera (che è una mescolanza di prosa e di versi e
perciò è simile a una satira menippea), si applica propriamente ai due primi
libri introduttivi, in cui si parla delle nozze del Dio dell'attività
intellettuale (Mercurio = Hermes) con la personificazione della erudizione
enciclopedica. Principale fonte di questi libri si ritengono gli scritti
teologici di Varrone, mediati probabilmente da | Cornelio Labeone. Il
contenuto vero dell’opera, che è un'enciclopedia, è costituito dai libri III-IX,
in cui, sono trattate le sette arti liberali considerate dall'autore
(grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica),
presentate come donne che accompagnano la Filologia. Marziano ricorda
altre due discipline incluse da Varrone nella sua enciclopedia (medicina è
architettura), ma non vuole considerarle.Può darsi non sia stato il primo a
procedere così, ma è probabile che da lui il Medio Evo abbia preso la
distinzione delle arti del trivium e del quadrivium. Marziano deve avere preso
a modello l'enciclopedia varroniana, che gli è anche servita sino a un certo
punto come fonte; ma è probabile che abbia attinto principalmente a lavori spe-
ciali più tardi. Sebbene sia una compilazione priva di valore intrinseco e
piena di cose male intese e anche di contraddizioni, l’opera di Marziano fu
studiata appas- sionatamente nel Medio Evo che l’usò anche come testo
scolastico, la commentò e la tradusse. Per la storia della filosofia hanno
importanza, più della trattazione della dialettica (1. IV), ciò che dice il
libro VII (De arithmetica) sulla sacra monade, identificata a Giove e quali-
ficata altrove pater ultra mundaniis. Essa è il padre di ogni essere, è il
seme degli altri numeri e da essa sono.procreate tutte le altre cose. La monade
è prima che siano le cose esistenti e permane quando esse si
distruggono, perciò deve essere eterna. È così presentato un monismo
che dalla forza causatrice di quella realtà ideale e in- telligibile, fa
provenire sia i puri numeri che gli esseri numerabili che si collegano a
quelli. In tal modo dal- l’unità prima sono generate la diade, che è riferita
alla materia procreante, e la triade che conviene alle forme ideali e all'anima
(in quanto, secondo Platone, include tre parti); e dalla diade provengono gli
elementi che in- sieme costituiscono il mondo, che come tale ha per nu- mero il
cinque. Questa derivazione dall'unità è molto confusa, ma si collega
evidentemente alle teorie del- Neo-Pitagorismo. Secondo Macrobio univa in
sè il sapere di Carneade (neo-accademico), di Diogene (stoico) e di Critolao
(peripatetico) ; aveva conosciuto tutte le scuole, ma seguiva la più credibile
: ciò fa pensare che aderisse al probabilismo di Carneade. Marziano
Capella Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Retorica, illustrazione del
De Nuptiis Philologiae et Mercurii, Biblioteca Apostolica Vaticana ms. Urb.
lat. 329 f 64v (seconda metà del XV secolo) Marziano Minneio Felice Capella (in
latino: Martianus Mineus Felix Capella; Madaura) è stato un grammatico romano,
noto per il suo trattato didattico De nuptiis Philologiae et Mercurii che ebbe
grande fortuna nel Medioevo. Indice 1Biografia 2De nuptiis
Philologiae et Mercurii 3Riconoscimenti 4Edizioni e traduzioni 5Note
6Bibliografia 7Voci correlate 8Altri progetti 9Collegamenti esterni Biografia
Le informazioni disponibili sulla vita di Marziano, che si faceva chiamare
Felice o Felice Capella, sono molto scarse e in parte dubbie, ricavate da
allusioni autobiografiche presenti nelle sue opere. Mancano informazioni
cronologiche e nella ricerca sono state espresse opinioni molto diverse sulle
date della sua vita; le congetture hanno oscillato tra la fine del III e
l'inizio del VI secolo, e oggi si ipotizza di solito il V o l'inizio del VI
secolo. Marziano nacque probabilmente a Madaura (secondo quanto riferisce
Cassiodoro). In ogni caso, sembra che abbia trascorso la maggior parte della
sua vita a Cartagine. Anche le ipotesi sulla sua professione e sulle sue
origini sociali sono speculative. Si è ipotizzato che provenisse da un ambiente
contadino e fosse autodidatta. Secondo un'altra opinione, più diffusa nella
ricerca, egli apparteneva alla classe superiore. Da una formulazione poco
chiara, si è dedotto che fosse un proconsole in Africa. Non è inoltre
chiaro se Marziano fosse cristiano. È da notare che la sua opera non contiene
alcuna allusione al cristianesimo. Questo silenzio e alcuni altri indizi, tra
cui la descrizione dei luoghi abbandonati degli oracoli del dio Apollo,
suggeriscono che egli fosse un seguace dell'antica religione, i cui contenuti
principali volle riassumere nella sua opera. I ricercatori hanno persino
sospettato una velata spinta anticristiana.[1]. De nuptiis Philologiae et
Mercurii Ci è noto per il trattato didattico indirizzato a suo figlio, Le nozze
di Filologia con Mercurio, noto anche come "De septem disciplinis" o
"Satyricon", scritto in forma di prosimetro, ossia un misto di prosa
e versi di vari metri. L'opera è peculiare per il suo impianto allegorico, con
l'ascesa al cielo di Filologia accompagnata dalle arti liberali per sposare
Mercurio, ovvero l'Eloquenza. I nove libri dell'opera sono così
intitolati: Liber I: De nuptiis Philologiae et Mercurii Liber II: De nuptiis
Philologiae et Mercurii Liber III: De arte grammatica Liber IV: De arte
dialectica Liber V: De rhetorica Liber VI: De geometria Liber VII: De
arithmetica Liber VIII: De astronomia Liber IX: De harmonia Le arti liberali
sono ridotte dall'Autore da nove a sette, poiché, dopo le dotte esposizioni
delle arti del Trivio - Grammatica, Dialettica, Retorica - e del Quadrivio -
Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica - alle ultime due, Medicina e
Architettura, non viene permesso di parlare alla festa nuziale, che si è
prolungata troppo. L'autore utilizza varie fonti nella compilazione della
sua opera, fra cui Varrone Reatino e Apuleio. Il suo non è certo un latino
molto raffinato: la prosodia talvolta lascia a desiderare e molte metafore
appesantiscono la narrazione. In età medievale e rinascimentale vennero
effettuate aggiunte e rettifiche di ogni tipo al testo originario. Essa
risulta, in effetti, una specie di enciclopedia dell'erudizione classica
diffusissima nel Medioevo cristiano. Un noto commento fu pubblicato dal
grammatico neoplatonico Remigio d'Auxerre che lesse Boezio alla luce del consimile
filosofo Scoto Eriugena. Riconoscimenti Il cratere C., sulla Luna, è
stato battezzato in suo onore. Edizioni e traduzioni C. Afri Carthaginiensis, De Nuptiis
Philologiae et Mercurii et de septem artibus liberalibus Libri novem, edidit
Ulricus Fridericus Kopp. Francofurti ad Moeunum: apud F. Varrentrapp, Martianus
Capella, accedunt scholia in Caesaris Germanici Aratea, Franciscus Eyssehardt
(a cura di), Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri, 1866. (LA) De Nuptiis
Philologiae et Mercurii, ed. Adolfus Dick, Stuttgart Martianus Capella, ed. J.
Willis, Leipzig . Le nozze di Filologia e Mercurio. Introd., trad., comment. e
appendici di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani Martianus C. and the Seven Liberal Arts, edd. W.H. Stahl, R. Johnson, E.L. Burge, The Marriage of Philology and
Mercury, New York-London, Columbia, Martianus Capella. Die Hochzeit der
Philologia mit Merkur, ed. Hans Günter Zekl, Würzburg Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre I, ed. critica e traduzione di
Jean-Frédéric Chevalier, Parigi, Les Belles Lettres, . Martianus C,. Les noces de Philologie et de
Mercure. : la dialectique, ed. critica e
traduzione di M. Ferré, Parigi, Les Belles Lettres, . Martianus Capella. Les noces de Philologie et
de Mercure. Livre VI : la géométrie, ed. critica e traduzione di M. Ferré,
Parigi, Les Belles Lettres, Martianus Capella. Les noces de Philologie et de
Mercure : l'arithmétique, ed. critica e traduzione di J.-Y. Guillaumin, Parigi,
Les Belles Lettres. C,. Les Noces de Philologie et de Mercure. Livre IX :
L'harmonie, ed. critica e traduzione di Jean-Baptiste Guillaumin, Parigi, Les
Belles Lettres, C. De nuptiis Philologiae et Mercurii liber IX, introd. trad. e
comm. di L. Cristante, Padova, Antenore Le nozze di Filologia e Mercurio, a
cura di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, Scoto Eriugena, Remigio di Auxerre,
Bernardo Silvestre e Anonimi, Tutti i commenti a Marziano Capella. Testo latino
a fronte, a cura di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, . Note ^ William H.
Stahl, To a Better Understanding of Martianus Capella, in "Speculum",
Bovey, Disciplinae cyclicae: L'organisation du savoir dans l'œuvre de Martianus
Capella, Trieste, Edizioni Università di Trieste, . Brigitte Englisch, Die
Artes liberales im frühen Mittelalter. Das Quadrivium und der Komputus als
Indikatoren für Kontinuität und Erneuerung der exakten Wissenschaften zwischen
Antike und Mittelalter, Stuttgart Glauch, Die Martianus-Capella-Bearbeitung
Notkers des Deutschen, Tübingen (Münchener
Texte und Untersuchungen) (Max-Weber-Preis der BADW 1Sabine Grebe, Martianus
Capella, De Nuptiis Philologiae et Mercurii. Darstellung der Sieben Freien
Künste und ihrer Beziehungen zueinander, Stuttgart-Leipzig Fanny Lemoine,
Martianus Capella: a literary re-evaluation, München . Claudio Leonardi, I Codici
di Marziano Capella, Milano . R. Schievenin, Nugis ignosce lectitans. Studi su Marziano C,, Trieste . D. Shanzer, A Philological and
Philosophical Commentary on Martianus Capella's De Nuptiis Philologiae et
Mercurii Book I, Berkeley-Los Angeles, University of California Publications, .
William Harris Stahl, Richard Johnson and E. L. Burge, Martianus Capella and
the Seven Liberal Arts, The Quadrivium of Martianus Capella: Latin Traditions
in the Mathematical Sciences (Columbia University Press: Records of
Civilization: Sources and Studies), New York . Mariken Teeuwen,
Harmony and the Music of the Spheres. The Ars Musica in Ninth-Century
Commentaries on Martianus Capella, Leiden Voci correlate Agogica Altri progetti
Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Marziano
Capella Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina
dedicata a Marziano Capella. Capèlla, Minneo Felice, su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata
Gino Funaioli, CAPELLA, Minneo Felice Marziano, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930. Modifica su Wikidata Marziano
Capèlla, Felice, su sapere.it, De Agostini. Martianus Minneus Felix Capella, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
(LA) Opere di Marziano Capella, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata (LA)
Opere di Marziano Capella, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di Marziano Capella, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere
di Marziano Capella, su Open Library, Internet Archive. C., in Catholic
Encyclopedia, Appleton. V · D · M Grammatici romani Portale Antica Roma
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romaniRomani del IV secoloRomani del V secoloNati nel IV secoloMorti nel V
secoloScrittori africani di lingua latina[altre]. Marziano Minneo Felice Capella.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capella” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Capitini: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Perugia –
filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Perugia). Filosofo
perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Perugia, Umbria. Grice: “I love
Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he prefers, echoing Plato and Kuhn) of
‘compresenza conversazionale’ is genial and Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I am
born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally
implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”).
Fu uno tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento
gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano. Nato in
una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per
necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La
madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del
campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per
ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi
della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno
anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da
autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto
lavoro di approfondimento interiore e filosofico. In questi anni legge
autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura
letteraria e filosofica: Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier,
Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard
(profondamente influenzato dal Vangelo), Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In
questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico
indiano. Vince una borsa di studio presso la Scuola Normale Superiore di
Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. C. critica
aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una
"merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie
ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In
uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo
al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa
diversa dall'istituzione. Nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il
periodo trascorso a Pisa, C. matura la scelta del vegetarianismo come
conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della
Normale diventa un comizio efficace e silenzioso, un'affermazione della
nonviolenza in opposizione alla violenza del regime fascista. Insieme a Baglietto,
suo compagno di studi, promuove tra gli studenti della Scuola Normale riunioni
serali dove diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna.
Allorché Baglietto, recatosi all'estero con una borsa di studio, rifiuta di
tornare in Italia in quanto obiettore di coscienza al servizio militare,
scoppia lo scandalo e il direttore della Scuola Normale Gentile, per reazione,
chiede a C. l'iscrizione al partito fascista. C. rifiuta e Gentile ne decide il
licenziamento. Sergio Romano scriverà: «Gentile e C. si separarono poco
tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo
disse di sperare che "le future esperienze gli facessero vedere la vita e
la realtà delle cose sotto un aspetto diverso"; e C. rispose che non
poteva fare altro che contraccambiare l'augurio. Fu certamente una
rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si
voltò verso Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse
"Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo. Croce;
in riferimento a lui C. scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai
valori. Croce è greco-europeo, perché la
civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto C.
torna a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Compie
frequenti viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare
numerosi amici antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di
contatti. A Firenze, a casa di Russo, ha modo di conoscere Croce, a cui
consegna un pacco di dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel
gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo
Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno
tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. In
seguito alla larga diffusione del suo libro, C. promuove assieme a Calogero un
movimento culturale che negli anni successivi cercherà di trasformare in un
progetto politico atto a realizzare le idee di libertà individuale e di
uguaglianza sociale contenute negli "Elementi". Nasce così il
Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio dei Fratelli
Rosselli, dalla morte di Gramsci e da
una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle
attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Amendola, Bobbio e Ingrao. La polizia
fascista effettua una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente
liberalsocialista, in seguito alla quale C. e gli altri partecipanti alla
riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro
mesi C. viene rilasciato, grazie alla sua fama di religioso. Quale tremenda
accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei
religiosi», commenterà più tardi. Nasce il Partito d'Azione, la cui
dirigenza proviene direttamente dalle file del liberalsocialismo. C. rifiuta di
aderire a qualsiasi partito, poiché a suo giudizio il rinnovamento è più che
politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica
e dell'economia. Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei
partiti, C. rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla
Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della
Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di
opposizione morale al fascismo. C.viene nuovamente arrestato e rinchiuso,
questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato. C.
cerca di realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di
decentralizzazione del potere, fondando a Perugia il primo Centro di
Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla
libera partecipazione dei cittadini, uno spazio nonviolento, ragionante, non
menzognero, secondo la definizione data dallo stesso C.. Durante le riunioni
del COS i problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi
liberamente assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al
dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte
dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e
tutti controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse
città d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi,
Gubbio, Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi. Aldo C.
nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio
nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con
l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su
scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere
sperimentati con successo nelle riunioni dei COS. Nel secondo dopoguerra C.
diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come Commissario), un
incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle fortissime pressioni
della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove ricopre il ruolo di
docente incaricato di Filosofia morale presso l'università degli Studi.
Parallelamente all'attività didattica, politica e pedagogica, C. prosegue la
sua attività di ricerca spirituale e religiosa, promuovendo il Movimento di
religione insieme a Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed
audace teologo, che però se ne allontanerà. Il Movimento di religione organizza
una serie di convegni con cadenza trimestrale, che culminano con il "Primo
congresso per la riforma religiosa" (Roma). Pinna, dopo aver
ascoltato C. in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di religione,
matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore del
dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di Torino e a nulla serve
la testimonianza a suo favore di C.. Pinna subisce una serie di processi,
condanne e carcerazioni, fino al definitivo congedo per una presunta
"nevrosi cardiaca". Si dimetterà dal suo impiego in banca per
raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno si trasferirà a Perugia per
diventare il più stretto collaboratore di C.. Dopo l'arresto di Pinna, C.
promuove una serie di attività per il riconoscimento dell'obiezione di
coscienza, convocando a Roma il primo
convegno italiano sul tema. Il Centro di Orientamento Religioso
(COR) In occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, C. promuove un convegno internazionale e fonda il
primo Centro per la nonviolenza. C. affianca ai Centri di Orientamento Sociale
il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas
(una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui
trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i
gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei
COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla
cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato
alle questioni religiose. La Chiesa locale vieta la frequentazione del
Centro di Orientamento Religioso, e quando C. pubblica Religione Aperta il
libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri proibiti. Nonostante
l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, C. stabilisce ugualmente degli
efficaci rapporti di collaborazione con alcuni cattolici come Milani e Mazzolari.
C. organizza a Perugia un convegno su La nonviolenza riguardo al mondo animale
e vegetale e, insieme a Edmondo Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e,
al pari di C., mai iscritto al partito fascistafonda la prima organizzazione
nazionale di coordinamento delle tematiche del vegetarianismo, la "Società
vegetariana italiana". La polemica tra C. e la Chiesa Cattolica
continua anche dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro
Severità religiosa per il Concilio. C. insegna all'Cagliari come docente
ordinario di Pedagogia e ottiene un definitivo trasferimento a Perugia. Tra i
fondatori dell'ADESSPI, l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola
Pubblica in Italia. C. arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere più
annoverato nella Chiesa, lui profondamente religioso, della quale non
condivideva più i metodi e le idee. La prima Bandiera della
pace Bandiera della pace portata da C. nella prima marcia Perugia-Assisi,
attualmente custodita presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune
di Perugia. C. organizza la Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un
corteo nonviolento che si snoda per le strade che da Perugia portano verso
Assisi, una marcia tuttora proposta in media ogni due/tre anni dalle
associazioni e dai movimenti per la pace. In questa occasione viene per la
prima volta utilizzata la Bandiera della pace, simbolo dell'opposizione
nonviolenta a tutte le guerre. C. descrive l'esperienza della marcia nel libro
Opposizione e liberazione: «Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza,
non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in
lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle
solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle
denunce aperte, è un grande risultato della Marcia». Aderiscono molte
personalità, tra cui lo scrittore Calvino. L'impegno di C. per la pace
infranazionale e internazionale (con particolare attenzione al pericolo
atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione con Bobbio, il quale
raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della guerra e le vie della
pace. Negli ultimi anni della sua vita C. fonda e dirige un periodico
intitolato Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che lui definì
"omnicrazia", la gestione diffusa e delocalizzata del potere da lui
contrapposta al centralismo dei partiti. In questi anni C. promuove anche il Movimento nonviolento per la
Pace e il mensile "Azione nonviolenta", l'organo di stampa del
movimento, che attualmente viene pubblicato a Verona. Dedito
completamente al suo lavoro di divulgatore della nonviolenza, C. non si sposò
mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte le proprie energie alla sua
attività. C. muore circondato da amici e allievi, dopo aver subìto un
intervento chirurgico che consuma le sue ultime energie. Il leader socialista
Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto C..” Una eccezionale figura di
studioso. Fautore della nonviolenza, disponibile per ogni causa di libertà e di
giustizia. Mi dice Longo che a Perugia e isolato e considerato stravagante. C'è
sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e C. e andato contro corrente all'epoca del fascismo
e nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma
bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Thomas.
Il pensiero Religione e laicità Il Mahatma Gandhi C. aveva l'abitudine di
definirsi un religioso laico. Egli accomunava la religione alla morale in
quanto essa critica la realtà e la spinge al cambiamentoin positivo. Quella di C.
era un'opposizione religiosa al fascismo. Il sentimento religioso, inoltre,
nasce nei momenti di difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto
individuale con la morte. L'idea di laicità nasceva dal distacco di C. dalla
Chiesa cattolica, complice del regime: egli sosteneva che col Concordato la
Chiesa avesse legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze
squadriste e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte
alla maggior parte della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione
religiosa. C. è molto distante dalla religione istituzionalizzata. Dio, come
Ente, non esiste per C.: per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della
sua concezione religiosa da quella corrente, C. preferirà parlare di
compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per indicare la vita
religiosa così intesa non parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il
termine persuasione. C. si dichiara post-cristianoevidente anche dal suo
"sbattezzo"e non cattolico, ma ama e si ispira alle figure religiose.
Ogni figura con una profonda credenza, anche laica, è per lui un
"religioso". Egli nega con decisione la divinità di Gesù Cristo:
convinzione senza la quale non si può essere cristiani. Contesta, come Tolstoj,
tutti gli aspetti leggendari e non dimostrabili dei Vangeli, compresa la
Risurrezione. Ciò che apprezza sono le Beatitudini, il modello spirituale di un
agire verso gli ultimi. Gesù ha insegnato dove può giungere una coscienza
religiosa, è stato più di un uomo: "fu anche lui, come tutti, un essere
con certi limiti; ma d'altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la
qualità della coscienza che va oltre i limiti, che è in lui come in un
mendicante" scrive negli Elementi. L'imitazione di Cristo secondo C. non è
altro che realizzazione della propria realtà umana. Si potrebbe ugualmente
parlare di una imitazione del Buddha, d’Assisi, di Gandhi, di Tolstoj e molti
altri. Persuasione, apertura, compresenza, omnicrazia Col termine
"persuasione", ripreso da Michelstaedter e da Gandhi, C. indica la
fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda credenza in determinati
valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di persuadere gli altri della
bontà del proprio ideale. L'apertura è l'opposto della chiusura
conservatrice ed autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima verso
l'alto e verso Dio. Un concetto chiave nella filosofia C.ana era la
compresenza di tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra loro ad un
livello trascendente, uniti e compartecipi nella creazione di valori.
Nella vita sociale e politica la compresenza si traduce in omnicrazia, o
governo di tutti, un processo in cui la popolazione tutta prende parte attiva
alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica. La nonviolenza e il
liberalsocialismo Non può mancare il concetto di nonviolenza, un ideale nobile,
sinonimo di amore, coerenza di mezzi e fini, la forza in grado di sconfiggere
il fascismo, che non è solo un regime, ma anche un modo di essere violento e
autoritario. Il liberalsocialismo di C. e di Calogero si sviluppa in modo
autonomo dal socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si forma infatti in un
periodo posteriore, quando il regime fascista è vicino al collasso,
nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed insegnato alla Normale
di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede temporalmente, essendosi
forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia e in Europa, già a
partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella tradizione
socialista. C. per liberalismo intende il libero sviluppo personale, la libera
ricerca spirituale e la produzione di valori. Il socialismo è invece nei suoi
intendimenti la realizzazione nel lavoro, l'assistenza fraterna dell'umanità
lavoratrice soggetto corale della storia. Anche se «...il socialismo liberale
di Rosselli è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è
un'eresia del liberalismo» (Piane), si può affermare tuttavia che entrambi
condividessero la critica ai totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una
visione laica della politica e l'obiettivo di una profonda riforma morale e
sociale dell'Italia distrutta dalla guerra. L'educazione e la civiltà
L'educazione "profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al
futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a
costo di sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà
pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede
nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo
aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione,
alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. A C. sono
intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze, Roma, Pisa,
Milano, ecc Riconoscimenti A C. sono oggi intitolati un Istituto di
istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro congressi a Perugia,
un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi umanistici. Altre
opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa, Cappelli,
Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul soggetto
della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del soggetto in
Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani, Milano); “La
realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta, Libreria
Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa,
Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione
aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la
religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione,
Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria);
“Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani,
Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore,
Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano
(rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma);
“Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti,
introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti
sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e
religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, Guerra
Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza,
Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le ragioni della
nonviolenza. Antologia degli scritti, Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere; "Epistolario di Aldo C., 1"con
Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di Martini). Lettere,
"Epistolario di C., 2"con Dolci, Barone e Mazzi, Carocci, Roma); La
religione dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La
meridiana, Molfetta); Lettere; "Epistolario di C., 3"con Calogero,
Casadei e Moscati, Carocci, Roma. L'atto
di educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.
Lettere, "Epistolario di Aldo C., 4"con Edmondo Marcucci, A.
Martellini, Carocci, Roma. Religione
Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari.
Lettere; "Epistolario di C., 5"con Bobbio Polito, Carocci,
Roma. Lettere familiari,
"Epistolario di C., 6"M. Soccio, Carocci, Roma. Un'alta passione, un'alta visione. Scritti
politici; L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia:
il potere di tuttiL. Binni e Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. La mia nascita è quando dico un tu, quaderno
per la ricercaLanfranco Binni e Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di
Aldo C.», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione
Centro studi C., Firenze. Nuova
socialità e riforma religiosa, collana «Opere di C.», Il Ponte Editore,
coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi C., Firenze. La compresenza dei morti e dei viventi,
collana «Opere di Aldo C.», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni
e Fondazione Centro studi Aldo C., Firenze.
Educazione aperta collana «Opere di C.», Il Ponte ditore, coedizione con
Fondo Binni e Fondazione Centro studi C., Firenze. Note Incontro con il "Gandhi" italiano,
La Stampa; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è condiviso con altri,
come Dolci e Corbelli C. ricorderà:
«Gentile era impaziente che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero
divenuto di colpo vegetariano (per la convinzione che esitando davanti
all'uccisione degli animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla
guerraesitassero ancor di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a
Gentile infastidiva che io, mangiando a tavola con gli studenti, come
continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia novità». (citato in
Guadagnucci, Restiamo animali, Milano, Terre di mezzo); Romano, C. e il
pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera; C., La compresenza dei
morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano; Da Le lettere di religione in. C. Marcucci,
Che cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana; Angioni, Tutti dicono
Sardegna, Cagliari, Edes. Dal sito del COS fondato da C. Testimonianza di
Luciano C., figlio del cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di C.;
Vigilante, Religione e nonviolenza in C.; Martini, C. e le possibilità
religiose della laicità, Nuova antologia, Firenze (FI): Le Monnier,. Aveva
reso visita a Martinetti, ritiratosi nella sua villa di Spineto a
Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una grande sintonia. Per un approfondimento, vedi i seguenti
testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati, Milano; Bovero,
Mura, Sbarberi, I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica,
Roma; C., Liberalsocialismo, e/o, Roma, che raccoglie una serie di scritti; Premio
letterario Viareggio-Rèpaci, su premio letterario viareggiore paci; Craveri, C.
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Bobbio, La filosofia di C., Religione e politica in C., in Id.,
Maestri e compagni, Firenze, Passigli Editori, Areddu, La via italiana al
gandhismo in “Il Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. C. ed
Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica; Zanga, C.. La sua vita, il suo pensiero,
Torino, Bresci; Capanna, Speranze, Rizzoli, Mario Martini, L'etica della nonviolenza e
l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte", Martini, C. ispiratore di
Bucchi. La sintesi di pensiero del Colloquio corale, in "Esercizi Musica e
spettacolo", Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e
nonviolenza in C., Foggia, Edizioni del Rosone; Martini, I limiti della
democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi, C. tra
socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro Polito, L'eresia
di Aldo C., prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos, Moscati, La presenza alla
persona nell'etica di Aldo C.: considerazioni in alcuni scritti minori, in
"Kykeion", n. 7, Firenze; Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di C.,
Critica letteraria. Napoli: Loffredo; Martini, Mazzini, C., Gandhi: una
religione umanitaria per la democrazia, in "Il Pensiero Mazziniano", Rocco
Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Biografia intellettuale di C., 1ª ed. BFS;
Pisa, BFS; Martini, Laicità religione nonviolenza, in M. Soccio, Convertirsi
alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei Gabrielli; Martini, Religiosità, ateismo e laicità: la
religione aperta, in D. Tessore, L'evoluzione della religiosità nell'Italia
multiculturale, Roma, Settimo Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere la
nonviolenza. La filosofia di Aldo C., Assisi, Cittadella; Sanctis, Il
socialismo morale di C. Firenze, CET; Pedretti, Spirito profetico ed educazione
in C.. Prospettive filosofiche, religiose e pedagogiche del post-umanesimo e
della compresenza, Milano, Vita e Pensiero; Pomi, Al servizio dell'impossibile.
Un profilo pedagogico di Aldo C., Firenze, La Nuova Italia, Tortoreto, La
filosofia di Aldo C.. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze, Clinamen;
Cavicchi, C.. Un itinerario di vita e di pensiero, Bari, Piero Lacaita; Martini, La nonviolenza e il pensiero di C.,
in, La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella; Zazzerini, di Scritti su C., Perugia, Volumnia. Caterina
Foppa Pedretti, primaria e secondaria di
C., Milano, Vita e Pensiero, Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della
nonviolenza di Aldo C., Torino, EGA, Vigorelli, La nostra inquietudine.
Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal
Pra, Segre, C., Milano, Bruno Mondadori; Martini, Lo stato attuale degli studi C.ani,
in "Rivista di storia della filosofia", Paolini Merlo, La teoria
della compresenza di Aldo C.. Fisionomia logica di una categoria religiosa, in
"Itinerari"; 'Erba, C., in Id., in "Intellettuali laici",
Padova, Martini, C. oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una rassegna, in
"Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2,. Mario Martini, C.,
maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il Ponte"; Martini, C.
e le possibilità religiose della laicità, in "Nuova Antologia",
Furiozzi, C. e Matteotti, Nuova antologia. APR. GIU; Rigano, Religione aperta e
pensiero nonviolento: C. tra d'Assisi e
Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista di storia(Milano: Franco Angeli). Polito,
Pietro, editor; Impagliazzo, Pina, editor, Bobbio: testimonianze e ricordi su
Aldo C., Nuova antologia: (Firenze (FI): Le Monnier). Martini, C. e le
possibilità religiose della laicità, Nuova antologia: (Firenze (FI): Le Monnier). C. (Lanfranco
Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4, luglio-agosto. Danilo Dolci Pietro Pinna Calogero Mahatma
Gandhi Nonviolenza; Abate; C. Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; C. in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. C., su
sapere, De Agostini. Opere di C.,.
Associazione "Amici di C.", su citinv. Puntata de "La
grande storia", su rai; Tesi di laurea: Calogero, C., BobbioTre idee di democrazia per tre proposte
di pace, su peacelink. Predecessore Rettore dell'Università per Stranieri di
Perugia Successore Lupattelli commissario
Sforza Filosofia Politica Politica Filosofo
Politici italiani Antifascisti italiani Perugia PerugiaAccademici italiani del
XX secolo Attivisti italiani Educatori italiani Nonviolenza Pacifisti Persone
legate alla Resistenza italiana Poeti italiani Politici del Partito
d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici dei diritti animali. con C.
Questo disegno di mani intrecciate in una stretta che cancella ogni differenza
di razza. Guttuso l'ha inviato a C. con l'augurio che la marcia della pace sia
un gesto che faccia profondamente riflettere gli uomini e dia loro
quel senso di responsabilità che non hanno. :he la "Normale" a Pisa.
Dopo la laurea e assistente ri... di. Momigliano, quin- co- di
segretario del collegio te, universitario. Ma Giovan- al- ni
Gentile mi ordina di pa- iscrivermi al partito fascista:cia e io rifiutai.
Venne cacciarle to. Torna a Perugia e visse on dando lezioni private. Il
suo ìon studio e uno sgabuzzino me della torre: i fascisti
(co¬ in- me poi faranno anche i ele¬ vo- ricali ) cominciarono a
chiamarlo il gufo. Ma era un gufo che da fastidio, che tene
contatti con antifascisti come Pintor, Banfi, Flora, Alicata, Ingrao,
Corona, Bufalini,. Ragghianti, Dessi, Natta, Spinella,
Casagrande, Agnoletti, Ramat, Calogero. Allora eravamo entrambi
radicai-socialisti — dice Calogero —: ma lui in senso laburista, io
rivoluzionario. Venne arrestato e portato a Firenze. C’era una
trama in tutta Italia, ricorda, ma non riuscirono a scoprirla. Dopo tre
mesi di carcere, e rimesso in libertà. Con l’aiuto di Croce pubblica “Elementi
di un'esperienza religiosa,” che, come scrìve un giornale e allora letto
e meditato da non pochi giovani che poi si ritrovano nella guerra
partigiana contro la repubblica di Salò e i tedeschi. E di nuovo
arrestato. Dopo la liberazione, pensa di iscriversi ai Partito
d'azione. poi non ne fece nulla . Ha un programma troppo limitato, di
tipo radical-repubblicano, che non della non-violenza. In Inghilterra ne
fanno una ogni anno, a Pasqua, ricorda, da Aldermaston a Londra. Il
corteo e lungo 5 chilometri: camminano in silenzio assoluto, soltanto un
tamburo batte le lettere “d” e “ n,” disarmo nucleare, in alfabeto morse.
Addirittura, le marce sono state due. Una è partita da Aldermaston, Tal
tra da Wetherfields, dove si trova una base della Nato. I due cortei
si sono fusi a Londra: c'è stata un'imponente manifestazione davanti al
ministero della Difesa. I dimostranti erano migliaia,
rappresentavano europei tutti uniti contro la guerra del nostro
inviato MAGAGNINI rale alTuniversità di Cagliari. Parlate il meno
possibile di me dice —. Non è che
io sia modesto, ma ho paura delle contraddizioni. Sono su con gli
anni, non posso camminare per tanti chilometri. E’ seccante, ma è
così. Organizzo la marcia è non vi partecipo. Quand’ero giovane, invece. Cera
un pretore ad Assisi, un amico mio, un anti-fascista. Ogni giorno,
si può dire, lo andavo a trovare a piedi. Parla svelto: a prendere
appunti, quasi si fatica a stargli dietro. Piccolo, grassoccio,
nasconde gl’occhi vivi sotto uno spesso paio di lenti: tutto in lui
è passione, energia, vitalità. A Perugia abita in un attico, con un
grande terrazzo, che superando la parte nuova della città guarda
verso Perugia, settembre
PARTIRÀ’ da Perugia, il 24 settembre, la prima « marcia della pace
italiana. È una marcia breve, 23 chilometri in tutto, fino ad
Assisi. Ma non per questo avrà minor significato, un minor valore.
Vi parteciperanno migliaia di persone: verranno da tutta l’Umbria, dal Lazio,
dalla Toscana, dalla Liguria, dall’altre regioni d'Italia. Cammineranno quasi
in fila indiana, sul lato sinistro della strada, per non turbare il
traffico, perché da noi solo per le processioni la polizia si
mostra larga di maniche e di vedute. Cammineranno in silenzio. Per
loro, parleranno i cartelli. Tutto per la pace, niente per la guerra. Più scuole
niente bombe. Viva la coesistenza pacifica. Libertà per i popoli coloniali. No
all’imperialismo. Liquidiamo il razzismo. Per la pace e la sicurezza
disarmare la Germania. Scuòle, case, ospedali : non armamenti. Fianco
a fianco, inarceranno comunisti, democristiani, socialisti,
repubblicani, socia 1 democratici, radicali, uomini di ogni partito e di
ogni condizione. Da Genova, persino Un terziarie francescano ha inviato
la sua commossa adesione : verrò anch'io, non si può soltanto
pregare..Padre delTiniziativa è C., filosofo. ALTRI nomi? Rossi, Donini,
Ragghianti, Peretti Griva, Gavazzani, Spini, Jemolo, Segre, Lombarde
Radice, Borghi, Bucchi, Carocci, Benedetti, Arpino, Guaita, Butitta,
Zavattini. Sono uomini politici, giornalisti, musicisti. scrittori, pittori,
giuristi, docenti universitari : sano tanti, non posso ricordarli
tutti... Non credevo che la iniziativa venisse subito cosi compresa :
persino dalla India mi hanno scritto, persino protestanti,
quacqueri, obiettori di coscienza. C. non ha avuto una vita facile.
Perugino della generazione di Gobetti », come ama definirsi, nacque da
una povera famiglia. Suo padre era il custode delia torre del campanile. Ero
tanto povero dice -rry che studiai in ritardo il latino. Frequenta
Anche in Olanda, nella Germania occidentale, negli Stati Uniti, nel
Canada, nella Nuova Zelanda fanno marce della pace. Da noi, in
Italia, niente. Così alcuni mesi or sono, durante un incontro fra amici, l'idea
divenne decisione. Ora, per raggravata situazione internazionale, essa
sta per essere finalmente realizzata. Quando parla delle adesioni, C.
si commuove. Sono tante, tante: ho ricevuto centinaia di lettere. Un
ragazzo mi ha chiesto se può portare un cartello con una frase di
Anna Frank. Benissimo, benissimo, gli ho risposto. E' lo spirito giusto.
Mi scrive gente del popolo operai contadini. Questa invece è di Guttuso (e
mostra una lette- campagna incredibilmente verde. Vive con la
vedova del fratello. Il suo studio è una stanza nuda, quasi un solaio,
con una stufa a legna e enormi finestre: alle pareti, grezzi scaffali carichi
di libri. Si dice socialista, ma non è iscritto ad alcun partito. E' uno
studioso di questioni religiose, ha pubblicato numerose opere, una delle
quali (Religióne aperta) è stata messa all'indice. Anti-cattolico, ha
fatto di Gandhi e San Francesco i suoi maestri. L'idea della marcia
gli venne molti anni fa, quando fondcPil Centro italiano. C., docente di
filosofìa morale a Cagliari, è l’organiziatore della marcia della pace, che
parte da Perugia, 11 24, alla volta di Assisi. à 15. Aldo Capitini.
Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi
conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – praesentis –
praesentia – presenza -- diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu –
Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual
‘us’ – both, entrambi noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini”
– The Swimming-Pool Library. Capitini.
Luigi
Speranza -- Grice e Carbonara – l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza. Carbonara
Avant, do lutter pour la libertà de penser et pour l'indépendance de sa
patrie, il avaiti pour s'assurer le pain du jour, endnré toutes les
rigueurs matórielles et sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était
sorti plus vigoureux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut la
noblesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à la foia touchó
et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'ivemeut et
inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’a publiée lo
lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. con tutti i suoi difetti, i
suoi errori e, diciamolo pure, la sua oscurità — un vero
sistema. In esso trovi subito un’idea che l’ha generato tutto
quanto, che ne è il centro, l’anima e ne fa l’unità: idea ovunque
presente e ovunque feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli
svolgimenti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni direzione soluzioni,
buone o cattive, a tutti i problemi teoretici e pratici. Carbonara.
Luigi Speranza -- Grice e Capizzi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della topografia di
Velia – scuola di Genova – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:
“You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical intellectual we do not
have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi knows almost everything!
His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his philosophy on Roman philosophy
(‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’ ‘Roma e Sparta,’) – but my
favourite is his tract on conversational implicature which he entitles, in a
most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.” Insegna a Villa
Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio storico e filologico
dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma). Contesta radicalmente le
ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale del VI e V secolo a.C.,
che attribuiscono validità storica alle interpretazioni di Aristotele e alla
dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo collabora con il circolo
urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i sapienti italici nelle tematiche
concernenti le città, il pubblico, il committente, l'evoluzione delle strutture
sociali, il trapasso dalla tradizione orale alla società della scrittura. Si
forma alla scuola di Carabellese. Ben presto entra nei circoli degli studiosi
che gravitavano intorno ai filosofi Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e
Roma. Si evidenziandosi per l'originalità delle vedute e la radicalità del
temperamento. Coltiva due interessi paralleli. Uno, da storico, per
la sapienza italica arcaica, che lo portò a contestare la narrazione dei
italici fatta da Aristotele. Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento
del proprio pensiero nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto
realmente accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i
grammatici alessandrini, Hegel, Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una
sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels,
Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha
avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla
sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del
suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne
sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli
sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a
scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei
sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici,
occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola
città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu. L'altro interesse, preminentemente
teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare
liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di
passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella
comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la
conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi
di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e
"tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una
struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come
l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle
singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai
modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in
vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è
quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e
che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di
alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del
dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto,
non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato
sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto. Altre saggi:
“Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un
attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del
dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di
Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione
delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la
doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La
porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela
filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo:
il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze,
La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura
dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica
della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo
tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma,
Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale”
)Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni
dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari,
Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale
internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi
pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la
polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate
demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’?
L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla
scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche
del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci, III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi
Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide,
un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e
Parmenide", "Sono/fui;
sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente
profonda" in Il Sublime: contributi
per la storia di un'idea (Napoli); "Trasposizione del lessico omerico in
Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche",
"Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici
attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una
delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata
soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo
accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia.
Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di
"Compagno Capizzi, te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo"
In actual fact, Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio
Capizzi thinks that the journey is through the streets of Velia, out of the northern
gates of the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5
This... I
Romani, nel cui alfabeto figurava la V, non ebbero problemi di trascrizione:
influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24, modificarono in
tal senso il Vele... Dichtersprache und geistige Tradition des studi sul pensiero italico, IPOTESI ELEATICHE.
Elea: nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e di Zenone era
detta Velia o Veliae dagli scrittori latini (a partire da Cicerone ), Eléa da
quelli.. La porta di Parmenide. Due saggi per una nuova lettura del poema (=
Filologia e Critica). Edizioni dell ' Ateneo, Roma Diese Arbeit hat zwei
Kapitel, die mit „ Il proemio di P. e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni
Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia, Alcmeone fu... 132; Catalano, '
L'Asklepeion di Velia ', estratto dagli Annali del Pontificio Istituto
Superiore di Scienze e Lettere Santa
Chiara , Napoli, a pag la homoiòtes e l'atrékeia, proponendosi di trasformare
Velia (prima aggregato di corn, di villaggi autonomi ) in una polis compatta e
stabile. L'uomo. IL CARTESIO DI GIANNONE. Un grande storico della filosofia C.,
La porta di Parmenide. Une interprétation nouvelle de
certains passages du poème de Parménid à la lumière des fouilles de Velia. Eléa
commencées par Napolil'uscita retorica dal dilemma tragico C.. feste
quinquennali Zenone ricomparve in città, e il...Pozzi PAOLINI, Problemi della
monetazione di Velia nel V secolo a. C., La parola del passato” e ritiene
l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato alla
Velia reale anche in una metafora (p.... che si preoccupa di riu- -- nire una
città sotto una costituzione aristocratica, omogenea e proposta di una diversa
lettura dei frammenti C.... del corpo sociale, doveva conoscere bene anche quei
gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle loro ricerche scientifiche,
come la scuola medico - astronomica di Velia. 1 tra le vie e le porte di Velia,
recentemente dissepolte; e i " mortali ignoranti ” del fr. 6 tra i nemici
non metafisici, ma politici, che insidiavano la libertà della polis velina. C.,
incaricato di filosofia teoretica presso l'Università un superdio chi siede di
fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio: di recente C. (La porta di...MACCHIONI
Velia, e Renzo Vitali (Una ricostruzione del Jodi ). poema, Faenza ) una
allegorica e... da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura
di Parmenide proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela
cavare con due parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Velia
si accesero quando Napoli pervenne a identificare la strada e la porta di
Parmenide e, contemporaneamente, Gigante pubblica sulla rivista “La Parola de
Passato” una nota, Parmenidee, che attira l’attenzione su due iscrizioni
anch’esse emerse grazie agli scavi condotti da Napoli. Si gettarono allora le
premesse per una progressiva riscoperta della patria di Parmenide e Zenone. L’emozione
dei visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui C. si dedica
a proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La
scoperta del sistema viario che collega il quartiere meridionale con quello
settentrionale, di cui fanno parte la porta rosa e la porta arcaica, con il
conseguente disvelamento della topografia del sito, stimolano C., a una
rilettura affascinante del “Sulla Natura” parmideo. C., La porta di Parmenide,
Roma, e, dello stesso autore,
Introduzione a Parmenide, Bari. Il lavoro qui proposto è il risultato di anni
di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla
discussione con Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e
alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla filosofia italica sono
debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le
origini di questo specifico interesse su Velia, devo invece risalire agli anni
universitari pisani, alle lezioni di COLLI (si veda), nel periodo in cui i
volumi della “Sapienza italica” stano vedendo la luce presso l’editore Adelphi.
Il primo impatto con il filosofo velino avvenne infatti nei riferimenti alla
discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della
filosofia, nonché attraverso la lettura del “Parmenide” platonico, proprio in
occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e
recenti editori dell’opera del sapiente di Velia: Tonelli e Giuseppe. Prima
dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una paziente frequentazione
delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica si è concentrata
sulla restituzione di un testo che tenesse conto dei contributi originali degli
editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni,
una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le
qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità
possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non
attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo
parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a ricostruire la fi-
sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle ipoteche
metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di
proporre le mie idee sulla posizione del “Sulla nautra” nel quadro della storia
della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della
presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero arcaico (ovvero,
della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in
onore di Rossetti, a cura di Giombini e Marcacci (Aguaplano, Perugia). Parmenide
e la περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi eleatici, a cura di Pozzoni, Limina
Mentis, Villasanta (MB). Il lettore trova nel commento ai frammenti e nella
introduzione generale un’ampia difesa della lettura cosmologica del “Sulla
natura,” ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di
Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora
del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel presentare il risultato del mio
lavoro mi sia concesso ringraziare i miei genitori per il sostegno che non mi
hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi,
e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è
dedicata. Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio, Parmenide e autore di
un'unica opera, “οἱ δὲ κατέλιπον ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας. Parmenide lascia un unico scritto (DK). “Sulla
natura” e un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la
titolazione di “Περὶ φύσεως”: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν
φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο
Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν. Parmenide intitola il suo poema “Sulla natura”. E certo
in questo poema tratta non solo di ciò che è oltre la natura. Tratt anche delle
cose naturali. Per questo non disdegna di intitolarli “Sulla natura”
(Simplicio; DK). Che in effetti tale intestazione puo risalire a Parmenide è
sostenuto da Guthrie, sulla scorta della parodia che ne fa Gorgia con il suo “Περὶ
τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως”. E comune la convinzione che, prima dei sofisti, la
designazione di un testo avvenne attraverso la citazione dell’incipit, che dove
risultare particolarmente incisivo, con l'indicazione del contenuto, preceduta
dal nome dell'autore sulla prima riga del testo. Analogamente a quanto
registriamo nel caso di Erodoto. Il trattato ippocratico Sull'antica medicina
riferisce la formula indentificativa -- “περὶ φύσεως” sulla natura -- almeno ai
testi -- Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν. Empedocle di Girgenti, e
gli altri che scriveno sulla natura (De prisca medicina). È opinione ampiamente
condivisa che essa funziona, a posteriori, da etichetta per classificare una
certa tipologia di scritti, manifestandone il tema. In questa direzione è
possibile che, in particolare, la “Συναγωγή” di Ippia contribusce a fissare un
certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la
nozione unificante di “φύσις”. La denominazione “Περὶ φύσεως”, il termine
generico “φυσιόλογος”. Si tratta, infatti, di uno dei primi sforzi
dossografici, un'opera molto utilizzata da Platone e Aristotele intesa a
selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gl’enunciati
trovati in ogni genere testuale (poetico e [Guthrie, The Sophists, Cambridge, Naddaf,
The Greek Concept of Nature, SUNY, Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per
il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa. Balaudé,
Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei
Presocratici, a cura di Sassi, La Normale, Pisa. Gorgia ne avrebbe portato
avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli
insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia influenza direttamente Isocrate,
Platone e lo stesso Aristotele..]6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne
convergenze e stabilire linee di continuità. In ogni caso, al di là della
discussione sull'attendibilità storica di quel *titolo*, non è contestato il
fatto che fosse individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in
altre parole, in ricerche sulla natura delle cose. Sebbene risulti problematico
accertare se coloro che chiamiamo filosofi fossero consapevoli di contribuire a
una specifica impresa culturale, sottolineandola nell'intestazione o incipit
dei propri contributi, è tuttavia difficile negare che si fosse diffusa la
convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura la “φυσιολογία”
-- iniziata con Talete. A quali contenuti ci si intendeva riferire con
l'etichetta “περὶ φύσεως”? Quale significato è da attribuire a tale
espressione? Secondo Naddaf, che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con
ἱστορία περὶ φύσεως si dove intendere una storia dell'universo, dalle origini
alla presente condizione: una storia che abbraccia nel suo insieme lo sviluppo
del mondo, naturale e umano, dall'inizio alla fine. In effetti, origini e
sviluppo sono etimologicamente implicati in “φύσις” o “natura” di “natio”. Nella
forma attiva-transitiva, “φύω”, o “natio” “nazione” --, il radicale del
sostantivo significa crescere, produrre, generare. In quella medio-passiva-intransitiva,
“φύομαι,” (nascior), invece, crescere, originare, nascere. La prima occorrenza
del termine sostantivo astratto femmile “φύσις” cf. “natura” --, nell’Odissea, si
registra nell'ambito delle istruzioni, da parte da Mercurio a Ulisse, per la
preparazione di una pozione efficace (φάρμακον 5 Balaudé, Leszl, Aristoteles on
the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of
the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del
discorso filosofico nell’età dei Presocratici.] ἐσθλόν) contro gli effetti
delle pozioni velenose (φάρμακα λύγρα) di Circe. Ulisse racconta come Mercurio,
estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa, “μῶλυ,” ne illustrasse la natura “καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε.”
Per un verso, in quel contesto, il sostantivo astratto “natura” o “φύσις” può
apparire immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini ricorrenti in
Omero indicanti la forma: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Mercurio
rivela non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della
pianta, piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui
esse discendono. In particolare Mercurio si riferisce alla radice, nera, da cui
cresce il fiore dal colore opposto, bianco. Omero o Ulisse utilizzano il
termine astratto “natura,” quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica,
né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire l'essenza della
pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel che appare (il
fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il
termine astratto “natura” that Austin hated (“The De deorum natura, -- what
else can CICERONE (vedasi) speak, and in what way is this different from De
dei?) “natura”, o φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται. Di
questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima
di udirlo, sia subito dopo averlo udito. Sebbene tutto infatti accada secondo
questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e
azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa SECONDO NATURA [KATA
PHYSIN] e mostrando come è. Ma agli altr’uomini rimane celato [sfugge] quello
che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello
che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι
φιλεῖ [la natura, secondo Eraclito, ama è solita nascondersi (Temistio; DK).
Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione “κατὰ φύσιν” sia
per lo più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come natura, essenza,
incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico
sull'erba moly: l'origine che si cela dietro il fenomeno. In questa accezione
la natura o φύσις secondo l'Efesio ama nascondersi. Kahn ha marcato, invece,
come la formula del frammento di Eraclito attesti già un uso tecnico a ozioso del
termine “natura” nel linguaggio contemporaneo, per designare il carattere
essenziale di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe. La
comprensione della natura di una cosa e non la comprensione della cose -- passerebbe
attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf
valorizza la dimensione dinamica implicita nella “natura” o φύσις: la
costituzione reale di una cosa così come si realizza dall'inizio alla fine con
tutte le sue proprietà Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica
medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza di una produzione a
posteriori classificata come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni
elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν
ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν
μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς
φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du
début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques, Philosophie
Antique (Présocratiques), Kahn,
Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett, Naddaf] περὶ φύσιος
γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως
ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ
φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ
φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e
sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di
non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda
curare correttamente gl’uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia,
proprio come NEL CASO DI EMPEDOCLE DI EMPEDOCLE DI GIRGENTI E DEGL’ALTRI
FILOSOFI COME PARMENIDE CHE SCRIVENO SULLA NATURA: che cosa sia dal principio
l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che
quanto è stato scritto da medici [FISICI] e filosofi sulla natura abbia più a
che fare con il disegno che con la medicina [L’ARTE DEI FISICI]. Ritengo che in
nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non
attraverso la medicina (De prisca medicina). L'autore, evidentemente polemico,
marca in effetti lo scarto tra indagine medica da parted ai fisici -- e
indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera contrappone all'approccio di
coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) cioè speculazioni
- per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ
γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della medicina (ARTE FISICA), in
altre parole le scoperte (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del tempo e
l'osservazione. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione alternativa che
egli anda criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico il De
carnibus il cui estensore sottolinea di prendere le mosse da convinzioni
condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι λέγειν, ἢν μὴ
τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο, καὶ ὅ τι
ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit.,24-25. 10 καὶ ὅ τι τὸ
κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει. Non devo
parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare, rispetto
all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e sviluppati, che
cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa sia cattivo e
buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela quelle che
dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui polemizza
l'Antica medicina ARS FISICA) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo
schema adottato è infatti il seguente: Originaria caoticità e indistinzione di
tutte le cose; Processo di discriminazione degli elementi (etere, aria, terra);
Formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra formazione dei viventi
e formazione del cosmo che deve aver effettivamente costituito un asse portante
nella cultura arcaica, sin dalla produzione teogonica. Ciò risulta confermato
dall'autore anonimo del “Della dieta”, De
diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον
μὲν γνῶναι καὶ διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ
ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος
ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ
σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che
colui che intenda scrivere correttamente sul regime di vita dell'uomo deve
prima conoscere e riconoscere LA NATURA a di tutto l'uomo: conoscere allora da
quali cose è composto dal principio, riconoscere da quali parti è governato. Se
non conosce infatti quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere
quanto da essa generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non
sarà in grado di prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta)
Conoscere la natura di tutto l'uomo (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del
corretto intervento medico. Ciò implica evidenemente conoscere quanto costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ
τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’
ἐκείνων γιγνόμενα), e le componenti che
lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere LA NATURA comporta,
insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo processo.
Significativamente questa riduzione al principio riconduce tutte le cose a due
elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα
καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν,
πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono
composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il
temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3)
L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso
dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo
(cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad
Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12:
l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia
dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni -
ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo
a.C. consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία
e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere,
alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e
consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne
era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: Naddaf, ἐγὼ γάρ, ἔφη,
ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ
φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου,
διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da
giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano
indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni
cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa e perché esista (96a). Il
filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se
effettivamente sul protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di
sapere evidentemente già riconoscibile e dunque assestato, come rivela la
formula impiegata (che chiamano, ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli
interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di dar ragione
dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della
Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata
sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende marcare la
svolta radicale rappresentata dalla propria seconda navigazione (δεύτερος πλοῦς):
il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion
d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause
fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della
disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte
dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale
in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva
filosofica peculiare13. Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione
dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di
Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte:
Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, οὐδεὶς δὲ πώποτε
Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν.
οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν
ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα
γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché
di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura di tutte
le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come è fatto
ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca
ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili). Non solo appare assodata
- a livello di opinione diffusa - la
sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca sulla natura di tutte le cose
(περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche
la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii)
l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων).
Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del
naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di
Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν
ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν
ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, Philosophes Présocratiques. Remarque sur la construction d’une catégorie de l’historiographie
philosophique, in A. Laks et C. Louguet, Qu’est-ce que la Philosophie
Présocratique? What
is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i
suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma,
osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da
quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti
in atti turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder
sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'ordine che
non invecchia (κόσμον ἀγήρων) della natura immortale (ἀθανάτου φύσεως) e
ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi
coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) evidentemente il
κόσμος oggetto d'attenzione l'ordinamento attuale dei fenomeni è percepito come
il risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e
il suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe.
Il modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica
ha certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la
tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia,
infatti, si attribuisce alla maggioranza di coloro che per primi filosofarono
(τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che principi di tutte
le cose (ἀρχὰς πάντων) fossero solo quelli nella forma di materia (τὰς ἐν ὕλης
εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ
γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς
δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων,
καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης
φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro
essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono,
permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni,
questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo
credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale
natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di
Aristotele, la specificità del contributo dei primi filosofi risiederebbe nella
riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità della
φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ
μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come
affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica
natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica), all'unità
di una sostanza materiale originaria, elemento (στοιχεῖον) e principio (ἀρχή)
delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella
ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον,
πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν
καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς
οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην
καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις
οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων
στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά
τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’
16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. Anassimandro affermò l’infinito principio e elemento delle
cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene,
infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti
elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i
cieli e i mondi in essi: è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui
le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse,
infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo
l’ordine del tempo. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto
qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla
alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del
movimento eterno (Simplicio; DK). Senza
scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano
intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine
del Milesio: l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων)
sottoposte a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); la formazione nel linguaggio peripatetico
della testimonianza - degli elementi (στοιχεία), costitutivi materiali da cui (ἐξ
ὧν, dalle quali cose) le cose hanno la loro generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα,
verso quelle stesse cose) si produce (γίνεσθαι) la loro corruzione; (iii) le
modalità del processo dalla natura originaria, attraverso gli elementi, agli
enti: secondo necessità (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo (κατὰ τὴν
τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la causa del processo: il costante e
compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ
τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le osservazioni di Teofrasto documentano quindi,
agli albori dell'indagine περὶ φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella
determinazione della materia originaria (secondo l'interpretazione 17 di
Burnet15), ma si rivolge almeno anche ai processi di formazione delle cose che
sono (come pensava Jaeger, accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente
ciò doveva conferire alla ricerca quella caratteristica impronta speculativa da
cui l'autore dell'Antica medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non
dovesse comunque risolversi in una mera dimensione archeologica e abbracciare
invece anche i risultati dei processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è
suggerito da varie fonti. Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente
netto il focus cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ
φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία
τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ
φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου, τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης
ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς
δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi
filosofarono intorno alla natura, indagarono, circa il principio materiale e la
causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che modo da questa si generasse
l'intero, e da che cosa il movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o
dall'intelletto, o dal caso, poiché la materia sostrato ha una certa siffatta
natura per necessità, ad esempio calda quella del fuoco, fredda quella della
terra, una leggera, l'altra pesante; in questo modo, infatti generano anche il
cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, Trad. Carbone, BUR Rizzoli,
Milano). La ricerca περὶ φύσεως degli antichi primi filosofi (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι
φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet,
Early Greek Philosophy, Black, London, Jaeger, La teologia dei primi pensatori
greci, La Nuova Italia, Firenze natura e
proprietà del principio materiale (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); individuazione della
causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); modalità di generazione dell'intero
(πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del cosmo (τὸν κόσμον γεννῶσιν).
Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le
testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne citazioni sopra
tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto probabilmente disponeva di
copia dell'opera, il primo plausibilmente) sono univoche nell'attribuirgli
l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι
Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle
di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως
γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide iniziando appunto il Peri physeōs scrive in
questo modo (Adv. Math.). Si tratta ora di capire entro quali schemi avvenisse
la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella tradizione περὶ
φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli inquadramenti
della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla collocazione e al
ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando
in un lungo passo del Sofista, che costituisce indubbiamente l'antecedente
diretto della disamina 19 dossografica aristotelica, il panorama delle teorie
dell’essere, egli introduce di fatto alcune categorie destinate a grande
fortuna storiografica: l'occasione è fornita proprio da un rilievo su
Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ
κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con
leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide e tutti coloro che a un certo punto
si sono impegnati a determinare gli enti: quanti e quali enti esistano. L’opposizione
tra pensatori pluralisti e unitari, e la battaglia di giganti (γιγαντομαχία)
tra coloro che riducono tutto a corpo (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al
contrario, pongono l'essere (οὐσία) nelle idee (ἐν εἴδεσιν), sono fatte
scaturire proprio dai problemi (πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, quanti e quali enti
esistano) sollevati (anche) dal Poema. L'ottica "ontologica" adottata
non può nascondere, nel contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e,
in particolare, l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί
μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις
ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς
τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ
ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una
storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni
di essi talvolta sono in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al
contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla
progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su
questo punto Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et
presentation par Cordero, Flammarion, Paris; Palmer, Plato's Reception of
Parmenides, Clarendon Press, Oxford. e secco ovvero caldo e freddo -, li fa
convivere e li unisce in matrimonio. È appunto all'interno di questo ampio
disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente che Platone fa
della stirpe eleatica (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del “monismo”. È chiaro
nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non ingenuamente - non come
se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà
fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ
παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς
ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe
eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima riferisce le proprie
storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è
che un solo essere (Sofista). Nell'intenzione di Platone, ricondurre
l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale alla sua collocazione entro
un dibattito culturalmente definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in
particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di
Parmenide dallo sfondo d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In
termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e
Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια
παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς
πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È
probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι
πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di accentuare la
"profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione
delle origini. Su questo il commento di Fronterotta in Platone, Sofista, a cura
di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano; Palmer, πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν
ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu [Parmenide],
infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove
di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i
molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e consistenti. Il primo
dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non esistono: così ciascuno
parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile, mentre in
realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto sottolinea la continuità tra
Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι
τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον
χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi
propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della
dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo
rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi
passi confermano è almeno nell’elaborazione della maturità di Platone - la
riduzione della dottrina di Velia alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con
un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide, nel
Sofista: Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι
βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, [Sulle fasi della ricezione platonica di
Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit..
22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη
μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: da tutte le
parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di
più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, essendo tale ciò
che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà
parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del
cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ
δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς
ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς
τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν
περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς
ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ
οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ
φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης
γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura
congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di
Palmer sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i
viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure
possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni
parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di
tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più
bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno
per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era
rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da
sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno
di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato
prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione
e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione. Indizi lessicali che
invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di
entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il
precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25,
la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata
sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica
(ἓν εἶναι τὸ πᾶν) come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità
degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale
condurrebbe a paradossi: in questo senso i molti non esistono (οὐ πολλά εἶναι)
- secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione,
traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano. Passa, Parmenide.
Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 200924. 24 Su
questo punto Palmer, Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et
traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris. esistono realmente molteplici
realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da
componenti elementari26. Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία
Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno
schema platonico, contrapponendo coloro che sostennero che uno solo è il
sostrato (οἱ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a coloro che ammettono più
principi (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo) le
implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici: τῶν
μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι
θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο,
τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste
cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che
sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che
parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo
stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura, Evidentemente in
relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν
σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν
φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον
τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26
Ivi 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν
ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale
delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali,
posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da
materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti,
aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al
contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue],
tuttavia, è appropriato alla presente ricerca. Nell'ambito di una indagine
sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non
avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale
differenza rispetto alla ricerca dei naturalisti (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων).
Essendosi espressi sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura
[realtà] (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), immobile (ἀκίνητον) e
immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27. In De Caelo
si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν
οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς
λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ
φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον
δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι
καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα
καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι
δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι,
τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω
μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe sono espresse
e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro
dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo
sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni,
infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero
che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che
ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si
esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve credere che
parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni degli enti
ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa
e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano
esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi pensarono
delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche forma di conoscenza
o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti
riferiti a quell'ambito(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo
esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo
rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di
generazione e corruzione (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti ingenerati (ἀγένητα)
e completamente immobili (ὅλως ἀκίνητα) è proprio di un'indagine diversa e
prima rispetto a quella fisica (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς
σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele,
l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e fratture che
l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o
trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) dopo aver discusso l'opinione
circa la natura (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a ricercare la
causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui Talete sarebbe
stato i- 28 J. Palmer, Parmenides et Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009 35
giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla
natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione
"riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il
merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni. 27 niziatore, ἀρχηγὸς)
lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di
individuare la causa specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν
πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον
οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ
ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ
γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ
κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν
φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα
Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας
εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale
tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero
conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità,
quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è
anche la natura nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione
- questa è, infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma
anche rispetto a ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A
nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è
capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a
costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in
un certo modo due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di
Aristotele nel proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di
Afrodisia citi Teofrasto: τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ
[καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται
καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων
δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων,
κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς,
πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si
riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, velino da Velia - percorse
entrambe le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di
spiegare la generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso
modo: piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e
di aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti allo scopo di
spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi
siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK
28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la
valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla
prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla natura
nel suo complesso (τὴν φύσιν ὅλην), al tutto uno (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto
per l'evidenza della ricerca dell'altro principio (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν),
cioè del principio del movimento (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per spiegare la
produzione dei fenomeni (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo
senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di
pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a rivelare
ai Greci l’indagine intorno alla natura (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν ἐκφῆναι)
29 agli atomisti30. 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978,
Adelphi 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di Senofane -
come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i commentatori
aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro (secondo
quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
ammiratore (ζηλωτής) e imitatore (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e Leucippo
- unito a Parmenide nella filosofia (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς φιλοσοφίας, DK
28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista
cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31 e
rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue le
tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo
successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie
aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra
registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del
sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi
diversi33. Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da
Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς
ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche
sull'indagine in corso intorno alle cause (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων).
Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno secondo la nozione [forma] (κατὰ τὸν
λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di
determinatezza); Melisso, da parte sua, secondo la materia (κατὰ τὴν ὕλην), come
unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - il primo tra costoro a essere
partigiano dell'Uno (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta
riconosciuto maestro di Parmenide si sarebbe invece limitato, volgendosi
all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è
stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf 138.
D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha
opportunamente marcato la distanza tra the centrifocal universe del poema e
quello lineare delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek
Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest
critics, C.U.P., Cambridge 1987 53 ss.). 32 Un’ampia discussione della
storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura ama
nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol.
II, cit. 327. 30 insieme (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità (τὸ ἓν
εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto
platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di Parmenide,
a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "aitiologico".
Messi da parte Melisso e Senofane come un po’ troppo grossolani (μικρὸν ἀγροικότεροι),
egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ
τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
(περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. Costretto tuttavia
a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece
secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli
caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto
l’essere, il freddo sotto il non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione
aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea: la convinzione circa l'unità dell'essere (ἓν
οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria (ἐξ ἀνάγκης),
imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e non-essere: non
esiste ciò che non è al di là di ciò che è (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); la presa d'atto dell'evidenza fenomenica:
così, secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν
τοῖς 31 φαινομένοις (letteralmente costretto a essere guidato dai fenomeni
[cose che appaiono]). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità
(πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo
Parmenide a introdurre due cause e due principi (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς),
ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di
una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un
autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica,
relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν
φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν
τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ
τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν.
ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ
>’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ
πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν
καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide]
non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è
proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
"essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: il cuore preciso della Verità ben convincente, che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza [B1.29-30], perché esse sono congiunte con
cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus
Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente
significative perché intervengono a correggere l'interpretazione
"melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui Parmenide
cancella ogni cosa postulando l'essere uno (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι
τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico
attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in
intelligibile (τὸ νοητόν) e sensibile (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza
ricordato lo sforzo del Poema di produrre un sistema del mondo (διάκοσμον), in
conformità con quanto ci si poteva attendere da un naturalista arcaico (ὡς ἀνὴρ
ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio non
distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28 B10). Questa
testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione dossografica
antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il
tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra sommariamente
ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la "eccentricità" 34 e
quindi la problematica riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra
ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας Aristotele, introducendo
l’indagine sull’essere in quanto essere (περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν), su ciò che
appartiene a tutte le cose in quanto enti (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι), la differenzia
rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla
eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla totalità della realtà.
Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua posizione è più sfumata:
l'originale speculazione sull’essere in quanto essere è proposta, infatti, in
continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας
ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ
τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα
τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν· διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς
πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause
supreme, è evidente come esse riguardino necessariamente una certa natura
[realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che ricercano gli elementi delle cose
ricercavano questi principi, è necessario che fossero anche gli elementi
dell'essere non per accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo
comprendere le cause prime dell'essere in quanto essere (Metafisica IV, 1 1003
a26-32). Gli elementi costitutivi delle cose che sono (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) nella
misura in cui sono intesi come principi di tutte 34 Ci siamo occupati di questo
aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero arcaico (ovvero della sua
eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio
Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia] risultano in
effetti elementi dell'essere in quanto tale (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν),
costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune
alla scienza dell'essere in quanto essere (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e
all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di
realizzazione: ricercare i principi e le cause prime (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας
αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele
rileva come alcuni dei fisici (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati
evidentemente consapevoli di ricercare sulla natura [realtà] nella sua
interezza e sull’essere (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος,
Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la natura come una totalità
omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà
riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν
coincidessero, che la φύσις cioè costituisse tutta la realtà, quei fisici
avrebbero manifestato interesse per gli assiomi (ἀξιώματα), i principi più
generali di tutti, quelli che appartengono a tutti gli enti (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς
οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita
ad applicarli) ma appunto della ricerca del filosofo (τῆς τοῦ φιλοσόφου
[σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso
dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per
la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in
considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente
sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei segni (σήματα),
delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla reciproca
implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo Stagirita, in
effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di
fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας
καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque anche coloro che
prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato
intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come coloro che
dapprima filosofarono intorno alla verità (οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες
περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che indagarono la verità
intorno agli enti (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV, 5
1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come
indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò
che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito
all’indagine sugli enti (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la
natura fosse la realtà fondamentale, ricercando sulla natura [realtà] nella sua
interezza (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni
sull’essere (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato
secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati
come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che
delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e
l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università
degli Studi di Pisa, Pisa 1994 16. 36 impossibile da entrambi i punti di vista.
Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è
è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da
sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono che
non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191 a25
ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui
principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν),
Aristotele intende la riflessione dei
primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι) come indagine a un tempo sulla
natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e attribuisce il loro "sviamento", la
loro erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la
difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato
la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα)
36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei fisici un filo
conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È
significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin
dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore
a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del
tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος,
nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e che in ambi-
36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides et Presocratic Philosophy,
cit.130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto
gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The
Sophists, C.U.P., Cambridge 1971270-271). I due resoconti dell'opera quello di
Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello
dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) potrebbero
dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso.
In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano di un
peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione di
A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009 234). 37 to sofistico proliferassero
opere sulla Verità (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite
alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora). Aristotele,
in ogni caso, con la formula indagine sulla verità intende un’indagine sulla
realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le
apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatione et
corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ
παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι
καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ
διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων
δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ
δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la
sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento,
alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite,
infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per
queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti
sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare
così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325
a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il
riferimento alla follia), una forma di razionalismo eleatico 39 che, nel
riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo
all'indagine sulla verità scaturisce da una 38 Leszl 17. 39 Così Migliori,
Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento
di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976 200. 40 Non è un caso che Reale
abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio
frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione,
introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia98-104. 38 ricerca
volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν). Una
ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed
"epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la
determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico
(delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων).
Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture
antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν (ciò che è ovvero
l'essere), di cui si definiscono proprietà strutturali - senza nascita (ἀγένητον)
senza morte (ἀνώλεθρον), tutto intero (οὖλον), uniforme (μουνογενές), saldo (ἀτρεμές)
(B8.4-5) si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto
dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte
nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo naturale42,
avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo
dell’essere, così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e
metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44:
la prima sezione del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità
intesa come la Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico
dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella
realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli
uomini ne hanno. 41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek
Cosmologists, cit. 54. Conche in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec,
traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996 182 osserva
come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia
dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è
espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des
Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck
et Ruprecht, Göttingen 2005252-269. Di particolare rilievo le pagine 260-1. 42
Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in
ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles
and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early
Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999 175. 44 Leszl 19.
39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di Parmenide,
presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: lo squilibrio di struttura: la (seconda)
sezione dedicata all'esposizione dell'ordinamento [del mondo] del tutto
appropriato (διάκοσμον ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più
consistente di quella (la prima) relativa al percorso di Persuasione, che si
accompagna a Verità (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); il costante richiamo, nell'introduzione del
διάκοσμος, a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e
proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in
sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε
φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα
καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν,
εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e
della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero
origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la
[sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe
origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri.
45 L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica
I, 4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai
precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che
l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία
sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come
appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è
allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda
sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo
dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente
conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti
(B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a rivelare la realtà genuina (Ἀληθείη),
tradizionale appannaggio divino, e
denunciare le infondate (senza reale credibilità, πίστις ἀληθής)
opinioni dei mortali (βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo
sulla condizione e comprensione umana che aveva trovato espressione nella
poesia e nella sapienza antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον·
οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ
ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ
καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος
τετληότι θυμῷ. τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι
πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla
è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla
terra camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà,
fin quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece
gli dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con
animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra,
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII,
129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve
pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε
τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti
è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce
nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur
limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica -
per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini:
letteralmente cuore che non trema (ἀτρεμὲς ἦτορ) di Verità ben rotonda (Ἀληθείης
εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, ben convincente, εὐπειθέος) - è
certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος)
l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema,
appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto
alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): a
dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile
delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima
istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura
convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti,
ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi del testo
richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento
verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo
inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ
τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando
che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher 240. 43 In questi versi si incrociano le
due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della
tradizionale opposizione tra umano e divino:
da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si
esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria
disamina dall'alternativa è e non è possibile non essere-non è ed è necessario
non essere, esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον
μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero,
uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora
tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a),
dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e
potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che
la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα
φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del
tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca
alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli),
può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su
ciò che è (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole,
essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente
l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del
contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto
a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il
fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità
della Terra: ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν
στρογγύλην, ὡς δὲ Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον
[in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la
terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che
altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e
Lucifero (DK 28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον
ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι
πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos,
lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto
questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare
della luce della Luna: Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ
φωτίζεται 47 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La
riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla
natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999,
BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The
Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press,
Princeton and Oxford 2006179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il
modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato
da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una
antropogonia, attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit.137-138. 45
Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK
28 A42); (b) dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione
"mortale" tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ
εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1),
ovvero dell’irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche?
pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν
- ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due
forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono
andati fuori strada (B8.53-4), e la sottolineatura (nel già citato B9) della
riduzione omogenea all'essere delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ
ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε
καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e
queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose
e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La
distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi
consapevolmente delineare due distinte forme di conoscenza: (a) la certezza
della comprensione razionale evocata dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere,
concepire, pensare) e νόος (intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come
κρῖναι δὲ λόγῳ (giudica con il ragionamento) - degli attributi universali di
ciò che è (τὸ ἐόν, il complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la
plausibilità di una conoscenza l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei
frammenti attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire
"empirica", dal momento che si concentra sulla natura delle cose che
incontriamo nella nostra esperienza49. In realtà il quadro è più complesso,
perché fortemente condizionato da una cornice religiosa che deve indurre
cautela. Intanto, quella che abbiamo indicato come conoscenza razionale (via
d'accesso privilegiata alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una
rivelazione (B1) che costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema,
e che pone immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti
successivi. Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non
appare un semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione
di verità, ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la
condizione di continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il
loro statuto50. Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV
secolo a.C. (che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in
sé di grande interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la
valutazione del suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν appare, a
sua volta, nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49
Lesher 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella
nuova edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo
Mythe et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso,
secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile
(poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale
(B8.15b-18), sia come concrezione di una sintesi intuitiva, a partire dallo
sguardo rivolto alla molteplicità degli enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente
presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né
disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi
(B4). In
questo secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla
presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile
presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno,
continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro degli
altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose
ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine
(B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano
l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura
delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα
τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, le cose che sono, le cose che sono state e le cose
che saranno, Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del
divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, dei che sono sempre, Iliade I, 290)51. La distinzione
ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella tra: la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce
dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ
εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν Dire e pensare: ciò che è è, è necessario: essere è
infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a); la verosimiglianza del resoconto cosmologico,
che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα
φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del
tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni
prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα
51 Ivi 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la
natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente
Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai
periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e,
ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle
condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν
ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche
il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando
lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto
del percorso di Persuasione (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη) ed
essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere, chiaramente
correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La
ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei
fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso,
rispetto all'affidabilità del percorso di Persuasione che manifesta la genuina
realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, secondo
opinione. Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986
b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto
sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ
γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο
οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. Costretto tuttavia
a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece
secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli
caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto
l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica suggerisce,
infatti, che l'oggetto apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia
in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti modalità
gnoseologiche: secondo ragione (κατὰ τὸν λόγον) e secondo sensazione (κατὰ τὴν
αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa emergere la realtà
(naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità
dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i
connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo
l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci
principi esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così
non può sfuggire nei frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il
problema dei principi in termini ontologici, attribuendo cioè ai principi
alcune caratteristiche dei segni di τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄
ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ
πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero
invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni
dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν
δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte
invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla (B9). Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione pur compiuta,
autosufficiente e autonoma fosse effettivamente intesa come preparatoria alla
seconda, con la quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche
dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello
esplicativo del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente
influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle
e Anassagora52, sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo
diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A
Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit..
52 Parmenide53 come risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11,
B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to
Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit. 167. Per una più
meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W.
Graham, Explaining the Cosmos, cit.. Si ipotizza che la consistenza dell'unica
opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse
approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo
ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi
riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in altri
indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo
sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di
Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza
di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54. Il
materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del
Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul
testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo
immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco
occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad
ambienti pitagorici 55, e che, analogamente, tradizioni del testo si
affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore,
dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo
di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase
pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste
tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale
a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito
della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54
N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous
la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris
1987 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009 143. 56 . 54 a proposito del primato di Eros), tre
volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del parricidio; 244e a proposito
della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta, replica
la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso
su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica IV,
5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza postuma" del
Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in una versione diversa
da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del frammento 8 nello
pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da
Platone 57. Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non
propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di mancato utilizzo -
il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei frammenti
del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per l'opera - la
più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI secolo.
Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la
posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi
da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima
mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A
Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto
dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come
unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita
estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua
epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente
o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio,
Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη
τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit.4-5. 58 Ivi 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986 1. 60 Cordero 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile sulla scorta del lavoro
filologico di Diels l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio
(VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61. Damascio (V-VI
secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo
d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come
Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la
possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62. Le fonti e i
loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia
disponendo le fonti in tre raggruppamenti63:
Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.),
gravitanti intorno alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi:
Accademia e Liceo; figure eterogenee
appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno
(II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene
Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti,
ma unite culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.),
Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.):
Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero 5. 62 Coxon 2. 63 Seguiamo Passa 21. 56
Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto
accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare,
tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che
sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei
sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle
selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella
sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in
opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla
prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere organizzati
per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra
filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere
ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano
nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare
direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi,
sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro
lettura66. Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone,
Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie
dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano
fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su
4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati
nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti
versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere
indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte
tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi
risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi 25. 65 J.-F. Balaudé,
Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei
Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit.26-27. 67 Ivi2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal Peripato, è
dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo usato (o
citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come
abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni alternative
autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68. La recente ricerca
linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già in parte
"atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato interventi
simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico: modificazioni
del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo doveva essere
psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso accurato, sebbene,
secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata propensione
a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neoplatonici, con conseguenti
gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da Platone e dalla sua scuola deriverà,
fino a Proclo, quella tradizione "accademica" da cui è tratta la
maggioranza delle citazioni del Poema disponibili. In considerazione di quanto
sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone,
mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca
dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la
tradizione "dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie
citazioni da compilazioni70. 68 Passa 26. 69 . 70 La tradizione dossografica si
apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo più indicato come
Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo
ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei, Cicerone,
Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal
fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa
revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata,
abbreviata e integrata nel I secolo da un autore indicato come Aëtius, la cui
raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha
mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II
secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De historia philosophica
di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e soprattutto come da
Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco)
dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti ellenistico-romane
Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il
lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali
frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi
due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα),
alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili71. È
probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella
"accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti
trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella
successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti,
coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a
quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte plutarchea
è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto
Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado di
menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione
della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle fonti)73.
Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel complesso Clemente
Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s.,
B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la
variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di
Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον - fa suppore, nella
ricezione del testo, un condizionamento da parte di in parte conservata) di
Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio di
Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la
Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro
pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi
greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio (III secolo). Su questo
Mansfeld, op. cit.23-24. 71 Passa 27. 72 Ivi27-28. 73 Ivi 28. 74 Coxon 5. 75
Ivi 3. 59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo
cui gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un
testo fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela
farebbe escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia
integrale del Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del
contributo di Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in
effetti, il solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione
testuale alternativa a quella attica77. In particolare è Sesto - cui dobbiamo
anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e
una sua interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da
fonte intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso
italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il
testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente
da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a
conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile,
dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da
esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver
attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza,
sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa
costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella
sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che
fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7
(vv. 3-5)81. Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica ovviamente dopo lo
stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati:
76 Passa 32. 77 Passa 29. 78 Ivi 31. 79 . 80 Cordero 5. 81 Coxon (op. cit.2-3)
presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche.
60 B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca
dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente
numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25,
B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con
l’opera parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo
completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei
suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si
conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione
di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di
Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene
ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria
edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per
la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della
propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare
di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich),
forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86,
di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di
Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e
Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni.
Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i
due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87, esemplari
di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione
accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente
discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon,
op. cit.2-3. 83 Coxon, op. cit.5-6; Passa, op. cit.38-39. 84 Passa 39. 85 H.
Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 2001225-26. 86
Ivi 26. 87 . 88 Op. cit.35 ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria
copia dalla biblioteca dell'Accademia, dal momento che: dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto
di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e l'allievo
Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe (531), per
ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran
(Mesopotamia) o in Siria; tutti i
trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo
ordine: de caelo, in physicam, (iii) in categorias, (iv) de
anima89. Simplicio cui dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6,
B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente
considerato fonte attendibile anche dagli editori successivi: ancora Coxon90
giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio a rare and excellent copy.
Nonostante si possa registrare come un certo numero di sue citazioni sia
ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a ὑπομνήματα
e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una
molto vicina all'esemplare di Plutarco e Proclo)91, a favore dell'affidabilità
dell'attestazione di Simplicio depongono l'esplicito impegno a trasmettere
documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali e il fatto che egli mostri
di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo commento aristotelico (de
caelo) 92. Soprattutto hanno pesato, nella valutazione del suo contributo, i
suoi espliciti rilievi, in precedenza citati: vorrei aggiungere a questi miei
appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito
delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21).
Passa93 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione
simpliciana, facendo leva in particolare su un indizio: citando iB8.53-59,
Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi 36. 90 Coxon 6. 91 Passa p. 40.
92 . 93 Ivi41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον
ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ
φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲ τῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν όμασται τὸ ψυχρὸν
καὶ τὸ ζόφος καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα tra i
versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice
così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e
leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e
pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno
scolio era stato incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi
di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di un passo in prosa) all'interno del testo del
Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare il passaggio, non sembra
preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ
Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che:
l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come the product of
unintelligent transcription from an annotated source; la competenza del commentatore (che non si
avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al testo parmenideo doveva
essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere sulla
problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi
di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii.
Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del
commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa
nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro
proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time, Being. Two
Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae Citato da
Passa 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", Rheinisches
Museum Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως
ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ
διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ
γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος
εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia:
il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide,
invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò
dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi,
che: Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da
questa via di ricerca allontana il pensiero. Platone documentava una pratica di
insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti
fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento
e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di informazioni
supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un modello
effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre dimenticato che,
proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella
tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che
Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in prosa: Παρμενίδης
Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ Κολοφωνίου, ὡς δὲ
Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. ἔγραψε
δὲ φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa 25.
97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo
punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di
Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di
Mileto. Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa,
come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco
avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in
prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a
ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che
Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia
della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto
storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi
dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per
l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane
si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola
platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di
Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99.
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di
commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da
Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia
della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione
del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino)
imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti
interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una
verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra,
Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa 145. 99 Ivi 35
ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni100.
Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve un
importante "canone" di lettura tematico-gerarchica dell'opera
platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la valorizzazione
dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Aristotele), che
finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici: così,
per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei pitagorici103. È in tale
ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere gli strumenti necessari al
ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di congiunzione104) e il
materiale per le proprie citazioni. Le citazioni di Simplicio rimangono
comunque fondamentali (in particolare per la possibilità del commentatore di
ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente di conservare
caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della
tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della presenza -
all'interno delle citazioni stesse - di
un evidente processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al
modello attico; un possibile intervento
sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una probabile
"normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti, alla luce
della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto utili per
la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G. Girgenti,
Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di
Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della
filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101
Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii)
Platone-fisico: Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio,
Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo
e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la
teologia. 102 Girgenti 11. 103 Passa 37. 104 Ivi 145. 105 Ivi 42. 106
Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, . 107 . Edizioni
del testo consultate Per il testo e la traduzione ho tenuto conto delle
seguenti edizioni contemporanee: H. Diels W. Kranz, Die Fragmente der
Vorsokratiker, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo
l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non
abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di Reale, “I
presocratici” (Bompiani, Milano). P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e
frammenti, Laterza, Bari [indicheremo
l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La
filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La
filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli,
Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide,
Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M.
Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner]
G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963
[indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with
Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University
Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro discussione,
una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das
Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben, Reclam,
Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique, traduction,
études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris [da 67 integrare con l’opera interpretativa
aggiornata - dello stesso autore By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las
Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla
discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei
manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème,
présenté par J. Beaufret, PUF, Paris
(edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van
Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla
tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La
indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque,
t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien,
Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la discussione delle difficoltà
testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte
conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea,
Fragments. A Text and Translation with an Introduction by Gallop, University of
Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide,
Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette,
presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e
commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si
distingue tanto come strumento filologico, quanto per l’ampio commentario
filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il commento come
Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch, Artemis et Winkler,
Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou
sur l’étant. La langue de l’être?, présenté, traduit et commenté par B. Cassin,
Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide,
Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M.
Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come
Conche] 68 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo,
traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento
essenziale pur trattandosi di edizione tascabile - per la discussione dei
principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi con la letteratura
greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit
einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von
W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia
Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897) [rimane opera
fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente culturale e i
motivi del poema. La indicheremo come Diels] Parmenide, Poema sulla natura, a
cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide, Sull’Ordinamento
della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram
Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles),
Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura
Gemelli Marciano, Artemis et Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo
l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide,
Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010
[indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major
Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge
2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi testuali
risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study
of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven London
1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las Vegas 2008)
[indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos]. 69 Molto utili per
la discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung
des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo
l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi
di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente come Leszl]. In generale,
per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è
strumento di inquadramento l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:
Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R.
Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento
bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento
B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la lettura di R. McKirahan,
“Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic
Philosophy, edited by. P. Curd D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008 189-229. Per la
storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux
chemins de Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione
del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma [che indicheremo come Passa]. Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An
account of the interaction between the two schools during the fifth and early
fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J.
Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen,
Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy,
Van Gorchum, Assen W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione
originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some
Comments on His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides, herausgegeben von K.
Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. (edizione originale 1934) M.C.
Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic
Studies, Washington 1971 M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View
on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974 G.
Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 (edizione
originale 1932) G. Casertano, Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza,
Guida Editori, Napoli E. Heitsch,
Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik, Auer, Donauwörth
1979 M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung: Vorlesungen 1923-1944. Band 54.
Parmenides, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1982 K. Reinhardt, Parmenides
und die Geschichte die griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann,
Frankfurt a.M. 19854 (edizione originale ) S. Austin, Parmenides. Being,
Bounds, and Logic, Yale University Press, New Haven and London 1986 L.
Couloubaritsis, Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986 La
scuola eleatica, La Parola del Passato, volume XLIII, Macchiaroli, Napoli 1988
G. Colli, La natura ama nascondersi. FYSIS KRUPTESQAI FILEI, a cura di E.
Colli, Adelphi, Milano 1988 (edizione originale 1948) P.A. Meijer, Parmenides
Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa,
Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997 P. Thanassas, Die erste "zweite
Fahrt": Sein des Seienden und Erscheinen der Welt bei Parmenides, Fink,
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(Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer, Xenophanes,
Heraklit), Au- 74 swahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und
Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis et Winkler Verlag,
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(Parmenides, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis et Winkler
Verlag, Düsseldorf G. Wöhrle (Hrsg.),
Die Milesier: Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die
Vorsokratiker, Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die
antiken Atomisten), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und
Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis et Winkler Verlag,
Düsseldorf Il quinto secolo. Studi di
filosofia antica in onore di Rossetti, a
cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse
Présocratique. Communications des Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux
et des Hommes, sous la direction de M.-L. Desclos et F. Fronterotta, Armand
Colin, Paris Con la sigla LSJ indichiamo
Liddell, Scott, Greek English Lexicon, revised and augmented throghout by
Jones, Clarendon, Oxford. Frammenti testo greco e traduzione
italiana. Le note al testo si riferiscono a problemi di determinazione del
testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi di resa del testo
greco e di interpretazione. DK B1 ἵπποι
ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν
πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1, ἣ κατὰ †... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ
γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα
τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3
σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν
-, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος, ὠσάμεναι
κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί
σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται
μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [ τὴν δὴ
παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua
originaria edizione del poema parmenideo) accolgono la correzione (Stein, 1867)
del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce
l'arbitrarietà. Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente
corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη
(L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ
πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da
parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture
plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ;
Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si
veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a
χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di
considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ.
Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il
κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo
plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della
aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da
Passa (pp. 99-100). La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην. πεῖσαν
ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων
χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι
γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν
11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί δεξιτερὴν ἕλεν,
ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν, ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ,
8 La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa)
la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare
la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi
quantitativa. Diels, nell'edizione del poema, si interroga sull'opportunità di
conservare πυλέων in vece di πυλῶν. La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata
da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue CORDERO (vedasi),
che conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e
deteriores. Il genitivo in αὐτέων,
accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE
e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello stile solenne (di
ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in verità, nell'edizione
del poema, opta per αὐτῶν, come oggi fa CORDERO (vedasi). Effettivamente si
possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e esiodei (Scutum) nella
formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa 85) che la lezione
apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un
tentativo di "omerizzazione" del poema. 11 Si veda la successiva nota
a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente
συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori posto in un poema in esametri,
composto da un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito da
Brandis e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897)
rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La
scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da
Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo - ᾱορος il segno di una incidenza
della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è
lezione dei codici attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma
probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne appropriava
appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ
οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις τε Δίκη16 τε. χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης
εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices
deteriores τε. Come osserva J. Palmer (Parmenides et Presocratic Philosophy, O.U.P.,
Oxford 2009 378): the postpositive connective is required here. La presenza
di ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v.
1, che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la
stessa lezione data in B1.25 (Passa 59). Passa fa tuttavia osservare come il
passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della
copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che,
meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N
abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato
appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di
Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ
sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome
relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la
mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu
originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel
proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di
Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da
attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende
la tradizione sestana fosse psilotica. Scegliamo, a differenza degli altri
editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto
divino. La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. Secondo Pellikaan-Engel,
Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’
Proem, Hakkert, Amsterdam, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe
legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla nozione concreta di Δίκη
incontrata al v. 14. Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica
conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa). È interessante segnalare che
in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo
greco riporta il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando Verità tra le
rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che, seguendo
Passa, si potrebbe definire di ipostasi divina - riconosciutale anche in B2.4,
reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da
Marciano] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21 χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23. 19
Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella di Sesto Empirico,
diverse citazioni: Simplicio cita nel commentario al De Caelo aristotelico;
Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e
ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος
(ben rotonda), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte)
del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito
(tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero,
Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di
Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος
(che viene tradotto come ben convincente), che i più (tra gli altri Mansfeld,
Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa)
preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος (risplendente), poco attendibile. Come
in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della
redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha
argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro
all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette
in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio, che
risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo).
Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto
attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei. Buone
osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer. 20
Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές
(non torto). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897 54
ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece,
nell'alternativa ἀτρεμὲς un predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo. A
contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato
di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non
implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri in Omero e
Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un
rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta
δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli
esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La
lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα. 22 Nella sua
edizione del poema Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι come δοκιμῶσ(αι) εἶναι.
Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato
tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII,
111;28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; 28b30 Diogene Laerzio
IX, 22; 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino,
Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico,
Adversus Mathematicos VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris, che
documenta ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria
scelta. 23 La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che
accogliamo, mentre il solo codice A riporta πάντα περῶντα (tutte le cose
pervadendo), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del precedente
omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili.
Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma) osserva che la forma περῶντα
(da περάω) non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa
(p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα,
si debba comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella
ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza,
all'interno del poema, è plausibile che Parmenide abbia voluto usare sempre la
stessa forma, quella propria del suo dialetto. 81 Le cavalle1 che mi portano2
fin dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4, 1 Il testo greco riporta ἵπποι
ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e
Sofocle). Il tema del tiro di cavalle sarebbe di origine omerica: secondo Tarán
sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il verbo φέρουσιν è
al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio all’imperfetto
(che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo (impiegato
normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del presente
sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio ancora
davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente
marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui nel canto
(presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione (passato):
rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la
scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, via ricca di canti). G.A. Privitera
("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di
Mimnermo", Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di
scienza morali, storiche e filologiche s. 9, v. 20, 2009 447- 464) osserva come
il Proemio sia fondato sulla memoria e autobiografico: Parmenide avrebbe
elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza. A proposito
dell'uso dei tempi verbali, il presente mi portano indicherebbe in particolare
che sono state le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo indirizzato
nel viaggio; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è avvenuta nel passato;
il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il viaggio fu
intrapreso. Traduciamo θυμός come desiderio, ritenendo che il termine greco,
nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore di slancio, ovvero ma
il significato appare più generico - di animo. È plausibile che θυμός si
riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia,
può essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle cavalle
(Coxon). Secondo Chiara Robbiano (Becoming Being. On Parmenides’ Transformative
Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin), che interpreta come se i primi
versi rinviassero all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di
θυμός nell’apertura del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere
all’obiettivo solo se si è già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo
nel perseguirlo. 4 L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon)
iterativo, indicante cioè un’indefinita frequenza (dunque: giunge), ma nella
poesia omerica è attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν:
Robbiano 65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche
Mourelatos (The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the
Fragments, Yale London mi guidavano5, dopo che, conducendomi, mi ebbero
avviato6 sulla via7 ricca di canti sottolinea sulla scorta di precedenti omerici
- che la modalità rilevante è quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala
come la metafora del moto del pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia
molto radicata nell’immaginario greco arcaico. 5 Il verbo greco è
all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto durativo e participio presente
(φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5) denoterebbe che l'apertura del
proemio proietta al centro dell'azione in corso; le forme dell'aoristo (βῆσαν
v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema ricorrente in Omero (O’Brien 8),
indicano, per contrapposizione, quanto precede. Conche interpreta πέμπον come
“imperfetto storico”, optando dunque per una traduzione con il presente
indicativo. Ferrari, nella sua analisi del proemio (F. Ferrari, La fonte del
cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Pomba,
Torino 2007 104; ora anche Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il
cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010 162), ha sottolineato come
l’intreccio dei verbi al presente e all’imperfetto sembri evidenziare la
continuità tra il presente e il ritorno dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte
del cipresso bianco, cit. 102) coglie in questo passaggio un’eco
dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che Parmenide intenderebbe suggerire è
che le cavalle (figure dello slancio interiore del poeta) del suo θυμός lo
hanno avviato sulla via poetica (connotata come ὁδός πολύφημος, via ricca di
canti), che gli permetterebbe di comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade.
Parmenide porrebbe in primo piano il risultato dell’incontro con la divinità
iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα è
contrapposta secondo Cerri (p. 170) alla strada pubblica, frequentata da tutti
(secondo precedente omerico). Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco
di un precetto pitagorico riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν (non
percorrere le strade popolari). Maria Michela Sassi ("Parmenide al
bivio", in La Parola del Passato, vol. XLIII, 1988 383- 396) accostando
sistematicamente il Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette
e ai miti escatologici platonici interpreta l'espressione come indicante la via
che precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea
(p. 387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di
iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς
φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo
cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è
richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta
†... †11 l’uomo sapiente12. Ma l'espressione potrebbe più semplicemente
riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un
contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora,
come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides et Presocratic
Philosophy, O.U.P., Oxford 2010 56) in relazione al contesto, essa potrebbe
designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni giorno. 8 Il
termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare l’abbondanza di canti,
leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico,
omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona di voci e rumori), come
di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit. 102). Diels
e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come
molto celebrata. 9 Il termine δαίμων (maschile o femminile, secondo i contesti)
potrebbe riferirsi al successivo (v. 22) θεά: alla Dea interlocutrice del
poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit. 106-7):
riferendo il successivo pronome ἣ alla divinità (e non alla via), egli osserva
che il ritmo stesso del verso suggerisce di considerare la relativa come una
perifasi che sollecita l’identificazione della daimôn. In tal senso, essa non
coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale
traduce ὁδὸν δαίμονος come strada divina), né con Dike, né con la θεά del v.
22: i paralleli omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità
femminile, che guida su un carro condotto dalle figlie del Sole l’uomo
sapiente, sia da identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς,
Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere
dai cavalli che portano luce ai mortali, un possibile modello per Parmenide. Il
genitivo è da considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva richiamata dal
successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è
quella secondo cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe
viaggiando (Leszl 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ:
alla Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima
direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo
possa riferirsi a un tempo alla divinità Helios, il Sole e al tracciato celeste
che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al testo
greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte degli
editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), per tutti i
luoghi ovvero, letteralmente, per tutte le città; κατὰ πάν ταύτῃ (Cordero), là
riguardo a tutto; Conche, che accoglie la proposta di Cordero, interpreta
tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo
femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν > (Coxon),
through every stage straight onwards; 84 Su questa via13 ero portato14, su
questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ (Cerri),
per tutte le cose che siano. Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha sostenuto a più
riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη,
come emendamento anche se non più come lezione tramandata. In questo caso
sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος δαίμονος
dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto
che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου (lontana dalla pista degli uomini). 12
L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner,
Burkert), alla figura dell’iniziato, secondo la terminologia propria della
tradizione misterica: espressione quasi tecnica in tal senso, come nota la
Sassi (op. cit. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per altri
(Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla percorsa;
Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze
preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso
avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die
menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 226-7), il quale, partendo da
Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza
visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica
è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe
rendersi allora come [l’uomo] che ha visto ovvero che ha conoscenza. Nella
stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit. 102 ss.), il quale sottolinea come
la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta
narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già
avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e
Euripide, la condizione del miste, di colui che ha ormai superato la prova
dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la
paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la
situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con
la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso,
come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il
poeta è condotto: lungo questa via, dunque, o al limite qui. Scegliendo di
tradurre in questo modo e non come per lo più si fa (là), intendo marcare
questa sequenza concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva,
che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente introduce
alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal momento che τῇ
può rendersi tanto con qui che con là, le indicazioni di luogo, analogamente ai
tempi verbali, possono avere un'incidenza nell’interpretazione complessiva.
Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di conservare, anche in questa
occasione, l'ambiguità: questa via 85 [5] trainando il carro17: fanciulle18
mostravano la via. Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi
alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione pubblica,
ovvero la via al centro del successivo racconto. 14 Le due forme verbali del
verso φερόμην e φέρον sono imperfetti in diatesi passiva e attiva: sottolineano
l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere trasportato
(del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma del verbo φέρω
nei versi iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli interpreti, è intesa
da alcuni (Mourelatos 35) come un difetto, un limite della poesia di Parmenide,
da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999 135),
invece, come mezzo per incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe una
tecnica per creare un effetto incantatorio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit. 124),
essa avrebbe essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al
concetto di guida, centrale nel second journey, cioè nel viaggio intrapreso,
appunto sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo
πολύφραστοι, riferito alle cavalle, significa letteralmente che hanno molto da
dire: supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con molto
avvedute, molto sagge. Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le
cavalle e le guide cui si allude ai 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il
carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata
spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato
all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo
sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la
capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o
nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o
cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un
carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la
figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue
esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti
(v. 9) alla dimora della Notte (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla porta dei
sentieri di Notte e Giorno (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono
un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così
traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente lamento di siringa [organetto a
canne]. Ferrari rende con sibilo di zufolo. Si tratta del sibilo prodotto
dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al
carro. Kingsley (op. cit. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito,
Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a 86
incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre
si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo abbandonato24
la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance:
uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza
(tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος
letteralmente infiammato, ma anche surriscaldato. 21 L’ottativo σπερχοίατο
avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1).
O’Brien (p. 10), invece, ne rileva sulla scorta di analoghe espressioni
omeriche l’uso per designare semplice concomitanza di azioni. 22 Il testo greco
non riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere,
come nel precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa
osservare come il soggetto di πέμπειν - e quindi anche della conduzione del
carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23
L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il precedente (v. 5) uso
indefinito di κοῦραι: si tratta delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero
(Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del genitore, ma nel
mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in
un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in
Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato, secondo quanto ipotizza A.
Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", La Parola del Passato, XLIII,
1988 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella
drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole,
all'insaputa del padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua
impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione
Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto
è significativo ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo
mitico in termini sapienziali (Cerri 173), e, d'altra parte, appariva
funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il
participio aoristo προλιποῦσαι secondo il precedente omerico - indica il punto
di partenza dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle
Eliadi). La dimora della Notte - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno
è, dunque, naturale luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il
poeta. 25 Il termine δώματα è al plurale (case), probabilmente per accentuare
le dimensioni della casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama
l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una
collocazione nell’abisso del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10]
verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal capo27. prigione dei Titani):
la casa della Notte - in cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno è
probabilmente situata, oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel
χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a
i battenti dei sentieri di Notte e Giorno (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός
κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide
alluda in questi passaggi non a una locazione genericamente ai limiti
occidentali della Terra, ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del
Tartaro e dell’Ade (Cerri 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo
attestata l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς (sulla porta
dell'antro della Notte). Da notare che, in questo caso, l'antro è sorvegliato
da Dike, Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno
potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.),
sorvegliate dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos 15).
È possibile, tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a
una tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors
of Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51)
ha mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso
immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto
al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura,
analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo
infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice
oltremondano). Su questo Palmer 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere
riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di scortare verso la luce, ovvero, come è
più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità
del collegamento. Quindi: [le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della
notte [muovendo] verso la luce. In ogni caso la costruzione appare
intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla
punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς
φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite
possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora
appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos 15) ovvero di
rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ,
alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata
successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon). Ma la luce potrebbe
anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come
resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade,
dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu 162-3). Cerri (p. 173)
segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare
l’azione portentosa del riemergere dall’Ade. Ferrari (op. cit. 101-2) con buoni
argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i battenti29 dei
sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto scorrerebbe a
ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto della catabasi
nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit. 460), invece, proprio
l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe precisazione
inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni
interpretazione catabatica del viaggio di Parmenide. 27 Esiodo descrive la
dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte oscura la casa terribile s’innalza di
nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745). Nella stessa opera, le Muse sono
introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι
στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano (Teogonia
9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero
concorrere a illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da
Parmenide. Anche Palmer (op. cit. 57) suggerisce l'accostamento. Cerri segnala come l’avverbio locativo ἔνθα
ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione
aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia il resoconto
dell’esperienza oltremondana (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale
πύλαι, letteralmente piloni ovvero i pilastri che sorreggono un grande portale
a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien 11, e
Conche 49). Altri (Cordero 1984 180, Coxon 161-2) riferiscono il plurale a due
porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le
letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che le porte si riferiscano
a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a
discendere εἰς γένεσιν (alla generazione, incarnazione) e ad ascendere εἰς
θεούς (verso le divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso
successivo sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata
l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per
indicare i cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι)
nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit. 453), che ricostruisce
l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo,
Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che 89 architrave e
soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla tradizione unificando quelle
che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui
si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la
quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo dell'Oceano, verso una porta
orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano,
Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e
l'avrebbe unificata con la Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta
occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle Eliadi riassumerebbe
allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e
della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli usi omerici e nella tragedia
eschilea, il termine κέλευθος può indicare, secondo il contesto, via, sentiero,
strada, ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè viaggio ovvero
spedizione. Il plurale κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i
due significati segnalati, come percorsi, come suggerisce anche Ferrari (op.
cit. 109): si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e
Notte (Νύξ). La Sassi (op. cit. 388) fa notare come la porta, presso cui si
incontrano e attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte,
dia accesso a un luogo mitico, analogo al Tartaro, dove, come in Esiodo
(Teogonia 736 ss.) è situata la dimora della Notte. 31 L’Olimpica VI di Pindaro
si apre con un analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio
del canto. In relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è
probabile che οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando
il suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi
esiodei di Teogonia: ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι
μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας
δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται,
ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται là dove
Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di varcare la grande
soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la porta se ne va, né
mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma sempre l’uno, fuori
della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa, attende la propria ora di
viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti nell’aria33, sono agganciati34 a
grande telaio35. Nel poema di Parmenide troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος
οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero (Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176)
la correzione nell’uso dell’aggettivo potrebbe essere dettata dalla finalità
del poema fisico dell’Eleate: la collocazione nelle viscere della terra avrebbe
consigliato pietrigna piuttosto che bronzea. 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come
incorniciare: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la soglia e
l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può essere
propriamente un cancello ma un vero e proprio portale. Sembra da escludere
anche la possibilità delle due porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe,
secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla
collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più
semplicemente, il poeta sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale
(Cerri: battenti che toccano il cielo; Ferrari: alta fino al cielo). Alcune
traduzioni (Tarán, O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo,
dunque la natura eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è
di pietra. Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe
allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl 151).
La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit. 453),
perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è quella
dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il soffitto del
Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit. 57) ritiene che
l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso
esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che
con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe
(come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός (soglia
di pietra) in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli estremi (terra e
cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver avuto Esiodo
come modello per la sua porta dei sentieri di Notte e Giorno, replicando
l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel 57-8). 34 La strana (Passa 100)
forma verbale πλῆνται ha ingannato gli editori: normalmente la si riferisce a
πίμπλημι (riempire), ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va
ricondotta a πίλναμαι (avvicinarsi), di cui rappresenterebbe forma
"corta" del perfetto medio (πέπλημαι). Rendiamo, come suggerito dallo
stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36, che molto castiga37, ne38
detiene le chiavi dall’uso alterno39. [15] Placandola40, le fanciulle, con
parole compiacenti, 35 Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi,
lasciandosi sfuggire il significato tecnico del termine θύρετρα, che è plurale
tantum usato anche come variante di θύρα (porta), ma il cui valore primario è
telaio [della porta], come correttamente inteso da Coxon e recentemente
ribadito da Passa. 36 Nella tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con
Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi:
compito delle Ore (Iliade V, 749; VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte
del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle
coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del Sole. Secondo
Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta in relazione
al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che
discrimina i percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle
divisioni e distinzioni all’interno di natura e società (dei confini tra parti
e gruppi): in questo senso sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia,
come la studiosa correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la
Dike parmenidea, rivelato nei versi successivi, non è quello tradizionalmente
inteso. 37 L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella letteratura orfica
(fr. 158 Kern), ma la datazione è incerta (Coxon 163). D'altra parte, come
abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr.
105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'antro della Notte.
Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva
Mourelatos (p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle
retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa
direzione traduce come Dike sanzionatrice. Nell'economia del racconto
proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe
quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana
(Sassi 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere
il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il pronome αὐταί, nella
stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39 L’aggettivo ἀμοιϐός raro sembrerebbe
indicare successione: potrebbe riferirsi al fatto che le chiavi consentono
l’apertura alternata della porta (Coxon 164) ovvero al loro uso complementare
(O’Brien 11). Nel contesto è probabile che il riferimento sia all’alternanza di
Notte e Giorno: Dike regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del
Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione drammatica di seguito descritta:
non era in effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale
viaggiatore. 40 Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo
πείθω, ed è spesso associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo
senso forse 92 [la] persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del
chiavistello togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto
enorme44 produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso
facendo ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46,
anche la scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la
gentilezza dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi,
introdotto con la descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo
inizio, segnalato dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato
utilizzato all’interno di una subordinata), cui seguono quelli ai 18, 22, 23.
Il racconto, secondo Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit. 105),
è prospettato come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i
versi iniziali del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti,
meccanismi di chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento
divino dello stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera
del Sole è documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia
ancora a Heimpel e Palmer 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei precedenti
ai 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς
sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è in relazione
con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone
al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine
al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della
titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151),
comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide
sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece,
rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia
petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con
la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo
da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non
ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E.
Pellikaan-Engel 53). 45 A struttura e dinamica della “porta” dedicano spazio i
commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune illustrazioni a
sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la
formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella avverbiale locativa
e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe
tradurre: Là, attraverso quella [porta]. 93 dritto condussero le fanciulle
lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi accolse: con la
mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός,
comunemente associato a ὁδός, indica la strada attrezzata per il passaggio dei
carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel
(op. cit. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo
dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe
dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con
la Dea per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del
suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita,
espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione dell’anonima divinità, tra le
proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di Cerri (pp.
180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano
diffuse iscrizioni alla dea infera, ninfa infera o semplicemente alla dea, in
cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è
giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit. 93 ss.). Anche Passa (p. 53) ha
di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West
(M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993 289
n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle
Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora
(371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come Madre del Sole.
Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, La Parola del Passato XLIII, 1988 337-346)
ha proposto sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη,
ritrovata nel 1974 a Ipponio l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne
(a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da
Sassi (op. cit. 393). Ferrari (op. cit. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison
("Parmenides and Er", Journal of Hellenic Studies, 75, 1955 59-68) e
W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des
Pythagoras", Phronesis, 14, 1969 1-30), ha di recente concluso che la non
meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte),
variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli
ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori
determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana del portale,
l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit. 58-61),
seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ,
giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma
rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto
di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla
figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e
così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali
guide53 Engel (op. cit. 61-2) aveva opposto a questa proposta di
identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era
quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In
alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide
evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit. 161). Di
recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit. 461-2)
ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: la ricorrenza del termine θεά all'interno del
proemio di un poema epico; l'analogia
con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come θεά; (iii) il
costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema "epico" di
argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che questa δαίμων subito
interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario viaggio oltremondano
tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove l'iniziato è interrogato
da custodi (φύλακες) presso la palude di Mnemosine (Sassi, op. cit 390). 49
Kingsley (op. cit. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono
Persefone nell'atto di accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro
appunto la mano destra. 50 Il verbo greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo
προὔπεμπε (v. 26: spingeva): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una
missione sono impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano
il punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano dire
(O’Brien 8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51
Il termine vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del
poeta, potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana
degli interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος),
relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto
all’anziano, sia il figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può
implicare anche un legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι
erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei
(negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso,
il termine sarebbe titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare
come l’appellativo sia coerente con il contesto educativo, giustificando la
disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op. cit. 387) associa
l'appellativo κοῦρε a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva
iniziatica. 52 Il termine συνάορος non significa semplicemente accompagnato da,
ma associato a, collegato a: la traduzione compagno è sufficientemente ambigua
da accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω
(aggiogare), con il significato immediato di aggiogato insieme: anche in questo
caso, dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti
conducono, giungi alla nostra casa54, rallegrati, poiché non Moira55 infausta
ti spingeva a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla
pista degli uomini57), ma Temi58 e Dike 59. Ora60 è necessario61 che tutto62
tu63 apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa 137). Da
sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in
questo modo un compagno delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι.
Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles
1986 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle
Eliadi κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος designa
chi guida un carro, l'auriga; derivatamente è utilizzato anche per indicare chi
governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e governa. Nel
contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari (op. cit. 107),
l'espressione ἡμέτερον δῶ (la nostra casa) richiamerebbe δώματα Nυκτός (la
dimora della Notte) del v. 9, spingendo alla conclusione che la Dea sia da
identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire, figlie di Zeus e
Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per indicare la
morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo preciso
dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e Ferrari
traducono come sorte maligna: i traduttori, in effetti, per lo più preferiscono
associare al termine, nel nostro contesto, il valore di fato o destino. Così
intende anche la Sassi (op. cit. 389). 56 L'espressione τήνδ΄ ὁδόν sottolinea,
con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire dalla prima evocazione
(vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della strada/via è rimasto
dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato lungo l'itinerario del
poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento coinvolge costumi,
abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È probabile ritrovare in
questo passaggio un’eco del precetto pitagorico conservato da Porfirio (e sopra
citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος δαίμονος dei 2-3): τὰς
λεωφόρους μὴ βαδίζειν (non percorrere le strade popolari). 58 In alternativa:
norma divina, ovvero legge (θέμις). Temi era una delle Titanidi, figlie di
Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una delle spose di Zeus. 59
Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike sembrerebbe essere proposto a
garanzia della eccezionalità dell’evento rivelativo. Il riferimento a Temi
potrebbe giustificare l’intervento delle Eliadi presso Dike per persuaderla ad
aprire una porta che avrebbe altrimenti dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben
rotonda66 il cuore67 fermo68, serrata per un mortale (in vita), e il rilievo
della associazione delle due dee nelle parole della divinità innominata.
Tenendo conto della associazione delle due dee con la norma e la giustizia
divine, il loro coinvolgimento proietta e impone sulla successiva “rivelazione”
una forte impronta d’ordine e di necessità (cosmici). In questo senso Tonelli,
nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike,
unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero la divinità femminile
nella sua dimensione di norma cosmica. 60 Pochi traduttori traducono la
particella δέ. Ferrari le riconosce valore avversativo (Ma), altri
continuativo: Diels (so), Gemelli Marciano (also), Tonelli (e). L'introduzione
della particella non è legata forse solo a ragioni di equilibrio metrico, ma
anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea: ella dapprima
tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il compito che
lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che nelle fasi
antiche dell'epica era utilizzato come vero e proprio nome femminile: nel corso
del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente χρεώ, che, preso il
posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo di χρή (Passa 77-8). La formula
(con copula sottintesa) χρεώ rende una necessità soggettiva, dunque
opportunità, convenienza, piuttosto che una costrizione oggettiva: si potrebbe
rendere anche con è giusto, è opportuno. In ogni modo, l’uso di tale formula
implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere che
il viaggiatore deve assumere (Robbiano 75). Ferrari (op. cit. 104) giustamente
osserva come il kouros per la dea sia in fondo solo un apprendista (apostrofato
appunto come κοῦρε). 62 La scelta del pronome neutro plurale πάντα (tutto, ovvero
tutte le cose) è significativa perché garantisce al programma della
comunicazione (rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale,
giustificandone le articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza
sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto
la polarità tu e io, in contrapposizione ai mortali). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha
il valore di imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni) ovvero
imparare per indagine. Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva
ricezione, sia di attiva ricerca (di tutto fare esperienza). 65 Secondo Coxon
(p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel
contesto del poema verità e vero, ma realtà e reale. Di recente Palmer (op.
cit. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con
Realtà. Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik
(Auer, Donauwörth 1979 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della
preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e
non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e
soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare
riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto. In
effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi:
Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in La Parola del Passato,
vol. XLIII, 1988 177-206) ha sottolineato in questo senso la peculiarità
sintattica del termine nella individuazione del processo unitario che connette
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a
chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui conoscere e
realtà si completano e si realizzano a vicenda (p. 185). In effetti, già
Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3),
poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν
ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa
opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno
agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili.
L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori
presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ
φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti
(Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha
fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle
opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate,
accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί
τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della
inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il
proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso
contiene la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da
Parmenide: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe figura del contenuto essenziale
rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina. Come segnala
l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei
reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora
da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina
appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea
del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico,
soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe
fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso
proemio). Su questo punto ancora la Germani 186-7. 66 Accogliendo la lezione εὐκυκλέος
rendiamo letteralmente con [Verità] ben rotonda. Effettivamente ci sarebbero
buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si potesse senza problemi
tradurre come persuasiva (o ben persuasiva). Nel verso successivo si rileverà
come nelle opinioni dei mortali (βροτῶν δόξας) non vi sia vera credibilità
(πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide passerebbe da una verità (ἀληθείη)
persuasiva [credibile] (εὐπειθής) a una vera (ἀληθής) credibilità (πίστις). In
B2.4, la Dea rimarcherà come la via che è (ὅπως ἔστιν) sia sentiero di
Persuasione (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto a Verità si accompagna (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ).
In conclusione della sua esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà
(B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto
pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità.
È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in
B2 sono proposte sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema
dell'opzione εὐπειθέος è che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής attestato
ancora in Platone e Aristotele - è quello di obbediente disponibile/pronto
all'obbedienza: il significato di persuasivo è posteriore. Nell'economia del
poema, anche l'aggettivo εὔκυκλος attestato sia in Pindaro sia in Eschilo è
comunque denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più
citati in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a
un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ (simile a massa di ben rotonda
palla). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali,
uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a
quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente
tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός,
sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È
significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità
all’uomo che la deve conoscere (Stemich 78-80): nella letteratura arcaica ἦτορ
è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale
credibilità70. connesso al corpo (Passa 52). Il termine ἦτορ può indicare la
coscienza vigile (un cuore di bronzo, in Omero), da cui la fermezza rilevata da
Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento al Tutto, la
verità ben rotonda, compiuta, perfetta (Ruggiu 199). R.B. Onians (The Origins
of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951 106) vi vede racchiusa la
sostanza della coscienza, cui è associata la sede del linguaggio. Questo può
significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide intendesse far
corrispondere la sostanza conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in
esso [poema] contenuto (Passa 53). 68 L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente che
non trema), variamente tradotto (per adeguarlo al contesto) come intrepido
(Ferrari), saldo (Reale), incrollabile (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς
ἦτορ come il sapere incrollabile), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo
senso lo ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla
Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας (opinioni dei mortali), insistendo sia sul
tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla
opposizione tra l’uomo che sa (εἰδώς φώς, v. 3) e i mortali che nulla sanno
(βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza,
il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la
dea (Parmenide) ricorre a un termine δόξαι che, a differenza del mero
manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica
giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta
attraverso una decisione, di cui, dunque, i mortali non sono vittime ma responsabili.
In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con considerazioni. È
allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide evita di contrapporre
la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad altri alternativi. Il
poeta, invece, è presentato come portavoce di una divinità anonima, scevra
della soggettività dei mortali, impersonale: ella non è altro che la Verità
stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας
ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio
convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p.
37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα
indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in cui
le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe secondo
Heitsch (Parmenides, Die Fragmente 95) il valore di prova, dimostrazione per
credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte
nelle opinioni74 fiducia o semplicemente di prova, dimostrazione (Beweis) sia
negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare
questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit. 92) osserva, invece,
come πίστις sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel
senso di trustworthiness: tale (non genuina) credibilità si riferirebbe,
tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel
resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da
congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) è impiegata nel greco
omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, nondimeno), più
tardi con valore più debole (at any rate, yet, tuttavia, comunque). Cordero (p.
32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per introdurre
una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro
contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe
sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà
essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un
altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i 31-32 del frammento show the
purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the opinions
of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false (p. 211). 72
Il pronome ταῦτα (letteralmente queste cose) può indicare quanto precede
immediatamente, quindi riferirsi alle opinioni dei mortali, ovvero specificare
ulteriormente πάντα (tutto, v. 28), riferendosi a quanto segue (in funzione
prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima soluzione appare più
naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile la lettura dei due
versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una proposizione
dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti, come nota Cerri,
nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe stato più naturale
τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in Presocratic Philosophy,
The Center for Hellenic Studies, Washington 1971 302 nota 27) con paralleli in
Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un valore prolettico del pronome.
Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si riferisce ancora alle opinioni
dei mortali (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti (le cose accolte nelle opinioni, τὰ
δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca
quel che precede, precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del
programma della rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del
poema). 73 Il verbo μανθάνομαι ha il valore di imparare per esperienza o studio
(analogamente a πυνθάνομαι), ma anche di comprendere, discernere. 101 Patricia
Curd (The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought,
Princeton University Press, Princeton 1998 113-4) ha marcato le differenti
implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι
suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre
μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto
di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα,
cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ
δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono
accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi,
quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano)
in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ
ἐόντα (Ruggiu 207). Cordero (p. 33) rende come ciò che appare nelle opinioni,
le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto
dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di correlati
intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai. Mourelatos (p. 204),
che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice
dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: le cose che i mortali
ritengono accettabili, ma anche le cose come i mortali [le] ritengono
accettabili. Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui i
mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria
dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t.
II, Problèmes d'interpretation 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la
formula τὸ δοκοῦν ὄν, l’essere apparente, ciò che sembra [essere] ente in
contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, l’essere in senso pieno, assoluto. Una
formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione
autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit. 267 ss.), ribadendo il
doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto
al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento
aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα
e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ
e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine
sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo,
nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν (considerare) si
preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e
all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In
questo senso Couloubaritsis (op. cit. 269-270) crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα
rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da loro
percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per spiegare
il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76, tutte
insieme77 davvero esistenti78. 75 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito può
indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto all’origine delle
erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide),
ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala
Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato
che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il
verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi è giusto,
opportuno). La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico
pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle opinioni dei mortali una
prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di
quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di
Palmer (op. cit. 363): Nonetheless these things too will you learn, how what
they resolved had actually to be . 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come
complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da
un avverbio, facendo così assumere al verbo essere il suo valore pieno di
esistenza. L’avverbio può tradursi sia con plausibilmente, accettabilmente
(Mourelatos 204), sia con realmente, genuinamente (secondo l’uso eschileo).
Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una
costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’esistenza
qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco
espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien 13- 4).
Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit. 43) cita in proposito DK 22
B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει... (anche) l'uomo più
considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]. Secondo lo
studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe
un cortocircuito etimologico: il participio sostantivato, con le sue
potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal
significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος
(accettabile, approvato, stimato); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di
mettere alla prova e approvare: l'avverbio ha dunque in sé implicite le
sfumature di come conviene e di realmente, veramente. La sua radice indoeuropea
*dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis 271).
Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa,
tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ
103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: come era necessario acconsentire
(riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono. 77 Traduco in questo
modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il
suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su paralleli testuali che
vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la
traduzione tutte [le cose] insieme (all of them together), ovvero tutte [le
cose] continuamente. Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b),
Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove
sopportate nel corso di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς
come in ogni senso (Tonelli), in un tutto (Cerri), dappertutto (Ferrari),
mantenendo autonomo il significato e la funzione di πάντα (tutte le cose). 78
Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα)
dei codici di Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit. 114,
nota 52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato.
Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti,
l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo,
designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della
ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν
1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
4 γὰρ ὀπηδεῖ -, ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ
ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ
ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν
(proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da
Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν
(orsù, parlerò di queste cose), difendendo la propria scelta con la
consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da verba dicendi. La
proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal punto di vista
paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel testo pare
significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava l'antico
digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati creatisi
nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa 74 nota). Qui il –ν di
ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero,
"Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit., t.
II: Problèmes d'interprétation 21), ἔστιν è correzione di Mullach: la
tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di Simplicio è
l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva come i sei
casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante
rappresentino una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica. 3 Come in
casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli Marciano
(II 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di Proclo e
Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La formula
χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova solo
l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa 79). 6 I codici
di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio παναπευθέα,
forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88. Secondo Passa, è
evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7 Si tratta della forma
ionica - ἀταρπός dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I codici di Proclo riportano
ἐφικτόν (che si può raggiungere, da ἐφικνέομαι), quelli di Simplicio ἀνυστόν.
La lezione di Proclo, che presenta paralleli in Empedocle (B133) e Democrito
(B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8 Proclo, In Platonis Timaeum
I, 345; 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam 116-7; 5b-6 Proclo, In Platonis
Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la forma ἀνυστόν (che può essere
compiuto) ha riscontri "eleatici" in Melisso (B2 e B7), e si trova
ancora in Anassagora (B5). In questa occasione Proclo potrebbe nuovamente aver
fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo
a quello di οὐ ἀνυστόν: risultato che non si può raggiungere. 106 Orsù1, io
dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄
ἄγε per orsù è ampiamente attestata nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ
(Cerri p. 187 - cita a esempio un verso formulare che ricorre identico in molti
luoghi di Iliade e Odissea). 2 Il pronome personale tu (σύ) si riferisce al
poeta\filosofo, cui la Dea si rivolge. Questa interpretazione dà continuità a
B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide:
alcune espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai mortali)
confermano la lettura tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι
è quello di ricezione e cura (come di cosa preziosa), forse anche di
trasmissione (come vuole Mansfeld 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo
complesso di significati con accompagna la mia parola. Ferrari (Il migliore dei
mondi impossibili, cit. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di take
away e traduce come riporta con te. 4 Il termine greco è μῦθος, che nella
lingua greca tarda significa (come il latino fabula) una narrazione
meravigliosa, in origine indicava qualcosa di completamente diverso: la parola,
la parola che esprime ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando
quindi la dimensione della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che
stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la
parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo,
Genova 1993 30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come
discorso, comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la
traduzione di Tarán (word), preferendole nel contesto di B2.1 account, quanto
la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a
Omero, in cui il valore del termine è quello di discorso, pensiero o consiglio.
Solo progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di discorso
sarebbe sfumato in quello di resoconto, finendo poi per indicare mito. Anche
alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno
preferito tradurre con story. Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000 17-18) distingue tra l’uso di ἔπος
per parola o genericamente affermazione e quello di μῦθος, che, come
rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un authoritative
speech act. In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione
del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta
a conservare un aspetto essenziale del valore originario del termine greco:
egli traduce (La pensée de Parménide,, Ousia, Bruxelles, 2008 541) come ma
façon de parler autorisée. Una traduzione di compromesso potrebbe essere: e tu
abbi cura delle mie parole dopo averle ascoltate. 5 Tutto il verso ha una forte
assonanza con Odissea XVIII, 129: 107 quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8
per pensare9: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti
dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il valore di μοῦναι è stato da alcuni
interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di le sole legittime
(Conche 76), da altri reso in senso forte, come se le vie di ricerca indicate
costituissero le due sole possibilità per pensare (Cordero 39). In effetti è
difficile scindere il valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo
significato. 7 È interessante segnalare come il termine ὁδός che, nota Cerri
(p. 60), ossessivamente ritorna nel versi parmenidei non abbia solo il valore
metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine
per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di direzione di vita,
linea di condotta (Stemich 199), come è possibile riscontrare in Eraclito,
letteralmente e metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere
nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia, nel ricorso a ὁδός
prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La
Stemich in questo senso indica (op. cit. 200-1) una convergenza tra
l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla conoscenza dell’essere inteso
come via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito metafisico - e il
percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8
Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in
Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per
sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica.
Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009 147) δίζησις
costituirebbe equivalente poetico del termine ionico ἱστορίη (ricerca
scientifica). Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero
(B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): vie di ricerca, dunque, perché hanno come
obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo δίζημαι, corrente
in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa, ovvero
ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di indagare (e
anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe
così che la ricerca riguarda qualcosa che non è manifesto o accessibile fin
dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit. 125) il termine suggerisce anche
l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente
rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale
o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι (sono)
avesse a sua volta valore di possibilità (siano [possibili] da pensare,
logicamente pensabili). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e
[che] non è possibile13 non essere14 comporta che sia più facile spiegare la
presenza delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono
corrispondere alla attività di pensare (l’una per pensare che …, l’altra per
pensare che …). È possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura
di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: ὁπόσηι
πόρος ἐστὶ νοῆσαι (dove ci sia passaggio per conoscere). O’Brien (pp. 153-4) fa
dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι:
Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir. La Robbiano
(op. cit. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone,
di conseguenza, di accettare contestualmente entrambe le interpretazioni:
quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del
νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito
le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei
Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang,
Frankfurt a.M. 1998 11-12), in particolare il problema dell’impraticabilità
della seconda via per il pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι
Kahn, Essays on Being, cit. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con
pensare, ma come suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una
espressione più specifica, come comprendere, o anche afferrare, che ancora
conservano traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di
vedere in profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto
Mourelatos 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν
νόον, B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò
potrebbe indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e
derivati nel loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio,
rimane, tuttavia, l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone.
Recentemente Palmer (op. cit. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa
generica e una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving
understanding. Tonelli, invece, rende direttamente come intuire, per la
continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che
attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza
facendosi tutt'uno con esso (p. 118). 10 L’indicazione delle uniche vie
è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν - ἡ δέ: si tratta di una
alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza anche nella
costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo contesto ὅπως e il successivo
ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa (retta da un sottinteso: per
pensare ovvero che pensa, che dice). In questo senso, suggeriamo la possibilità
di 109 di Persuasione15 è il percorso16 (a Verità17 infatti si accompagna) leggere
il verso come: l’una: è e non è possibile non essere (analogamente il v. 5:
l’altra: non è ed è necessario non essere). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre
le due vie sarebbe secondo Chiara Robbiano (op. cit. 82) - illuminante: esso
suggerisce che esse sono due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς
sarebbe, infatti, preferito a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione
come opinione, ovvero introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni
differenti. Per la studiosa italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro
implicazioni avverbiali, servirebbero a esprimere uno stato di cose da una
certa prospettiva, manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente
Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit. 40), il quale rende in
entrambi i casi con secondo cui. 12 La terza persona singolare ἔστιν - del
presente di εἶναι, essere, è qui resa letteralmente, senza decidere del suo
valore (esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le
sfumature. Tra i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con exists,
Conche con il y a, per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il
testo greco, non attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si
rinvia al commento per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del
pronome indefinito come soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco
posteriore (p. 175). 13 Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere
come che non [c’]è/esiste non essere, ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale,
che il non-essere non è, cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ
εἶναι: che, come necessario, il non essere è. Ma, proprio considerando
l’emistichio 5b (dove la traduzione è necessario che… appare più naturale),
optiamo per attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come
infinitiva: che non è possibile non essere (più ambigua), ovvero che non è
possibile che non sia. Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso,
anche per le sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di
Leszl (pp. 131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: Der
eine, (der da laPomba) “es ist, und Sein ist notwendig”. Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai. Ontologie, Théologie,
Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: Le premier chemin énonçant: est, et aussi:
il n’est pas possible de ne pas être. 15 Come divinità, Persuasione è
nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite, alla dea dell'Amore, in
quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque originale e significativa la
connessione stabilita da Parmenide, in apertura della comunicazione divina, tra
Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami persuasivi saranno il risultato del
rigore e della coerenza logica 110 [5] l’altra: [che] non è e [che] è
necessario18 non essere19. Proprio20 questa ti dichiaro21 essere sentiero22 del
tutto privo di informazioni23: impliciti nella affermazione appena introdotta:è
e non è possibile non essere. 16 Il termine κέλευθος viene da Coxon distinto da
ὁδός come il viaggio lungo la via, contribuendo in questo modo a determinare
successivamente (Platone) la nozione di μέθοδος, e di filosofia appunto come
viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής
(e ἐτήτυμος) significhino reale e ἀληθείη realtà. Heitsch (p. 97) argomenta a
favore di una resa più esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri
negativi di μὴ ἐὸν (verso 7): egli traduce, infatti, con evidenza (Evidenz).
Palmer ricorre a una formula inequivocabile: true reality. Pur concordando che
la Dea si riferisce alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro verità e
con la maiuscola, intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel
linguaggio omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il
falso, indicato da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata
manifestazione della realtà (su questo Germani 183-4). 18 Colleghiamo, come
appare naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con è
necessario, conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών
può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς,
assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in
una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale (come conveniente).
Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come κατὰ
τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: that which must be secondo LSJ), ma per lo più
nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di χρή (è necessario). 19
Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e interpretato ὡς χρεών
avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: e, come
conveniente, il non-essere è. Si tratta di una possibilità, che suona tuttavia
piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il migliore
dei mondi impossibili, cit. 137-8): l'una (via) secondo cui è lecito e non è
possibile che non sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è
necessario che non sia lecito. Coerentemente con la
scelta del v. 3, Heitsch traduce: Der andere, (der da laPomba) “es ist nicht,
und Nicht-Sein ist notwendig”; Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai…,
cit.) rende: L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il est nécessaire de
ne pas être. 20
Traduciamo avverbialmente la particella δή, che molti decidono di non rendere
ovvero di rendere come congiunzione (e) per marcare una 111 poiché non potresti
conoscere ciò che non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti
indicarlo26. transizione nel discorso della Dea. In effetti, δή è
frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν con funzione
pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon
osserva che il verbo φράζω, che in epica significa indicare, evidenziare, è
usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi
regolare) di spiegare (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e
κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo
informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν lungo la via maestra,
in questo passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a
un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario,
scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare attribuendogli senso
passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto ciò che
è del tutto privo di informazioni, ovvero imperscrutabile (Tonelli p. 119),
come la via che pensa che non è. Si tratta, nell'economia del discorso divino
(e del poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta
come falsa, non è scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come
si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός inventata da
coloro che sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che
è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può
manifestare la realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24
L’espressione τό μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come il non essere. Secondo
Coxon (p. 177) essa si riferisce al soggetto della seconda via, di non è, come
manifestato in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti
l'espressione τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del
verso precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda
via, necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è
attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore da ἀνύω
(fare, compiere) - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo
commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo
a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da
ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità
che οὐ ἀνυστόν porta con sé: that which cannot be consummated. 26 La traduzione
di φράζω con indicare vuol rendere il senso di manifestare in segni (anche a
parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso
tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala
che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in
riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il
percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo
il campo semantico del verbo, con né potresti parlarne. 113 DK B3... τὸ γὰρ αὐτὸ
νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440);
Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia
platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί;
il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione
degli editori. 114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3. 1 Zeller,
seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come
dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι
νοῆσαι), quindi con denn dasselbe kann gedacht werden und sein. Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con for the same
thing can be thought and can exist. Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due
infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica
pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si
traduca come un passivo o equivalente: C'est en effet une seule et même chose
que l'on pense et qui est (For there is the same thing for being thought and
for being). Il fatto che, optando per questa soluzione interpretativa, il
soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν),
non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un
fatto, comunque, come osserva Conche (op. cit. 89), che Parmenide ha scritto
νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte, seguendo Plotino, la resa più fedele
(Heitsch 144), il senso ovvio del greco (Conche 89) sarebbe pensare ed essere
sono la stessa cosa, con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase.
Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti
sopravvissuti e soprattutto del senso dei 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon (for the same thing is for conceiving as is for
being), variata nella recente resa di Palmer (op. cit. 122): for the same thing
is (there) for understanding and for being. 2 Secondo Cerri (p.
194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di
capire razionalmente, significato che, tuttavia, non si può regolarmente
attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca
filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in
Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to
Parmenides”, Classical Philology 40, 1945 223-242) osserva come νοεῖν in Omero
significhi comprendere una situazione e come questo valore sia ancora presente
nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di
deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con
la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν
come intuire, cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino,
nella percezione che 115 attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza facendosi tutt'uno con esso (p. 118). 3
Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con
B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di
testo. Calogero (op. cit. 22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3
come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν
ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi
né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!.
116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν
τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον.
[vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In
Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22);
v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis
Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate
da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente
riportano ὁμῶς (ugualmente) in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo
Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di
Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe
effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come
evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come
avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις,
la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del
futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico.
117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5
presenti6; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis 336-7)
per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per
comprendere il presente: capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo
discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori
optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: osserva, guarda.
Etimologicamente, d’altra parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel
linguaggio omerico significa chiaro, limpido: porta con sé, dunque, l’idea di
chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano chiarire, rischiarare. 2
Ovvero cose lontane. Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore
a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza)
nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3
Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore
oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che
è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p.
238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante,
secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere
immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile
infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di chiarisci con
intelligenza\intendimento, ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando
come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione dell’intelligenza:
l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di essere presente alla
mente, allo spirito. 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente
al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188): gaze steadily with your mind…. Lo
studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK
31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con
intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La collocazione
dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui
esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola
infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano
(op. cit. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7,
infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe
l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare,
ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero prossime. Sulla struttura del verso (lεῦσσε
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione
Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy,
Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006 151), il quale ne ha
rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti
eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι
destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει
può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono
per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero,
considerando la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma
(attica appunto) della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio:
tu non impedirai…. Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con
analoghe espressioni del poema (εἶργε, allontana B7.2b; μάνθανε, impara B8.52;
εὑρήσεις, troverai B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo
il participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come l’essere, senza
articolo come ciò che è: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la
formula con articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit. 169),
Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in
effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere
dinamico della presenza denotata da ἐστί: essendo, è. Il problema della
traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was
heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954 133) richiamò l’attenzione sul duplice
valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò
che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe
scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due
valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha
insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso
verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il
participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente
l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che
sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη
(B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί
sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il
cosmo11, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2).
Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità
degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto
concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato
verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma
farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come
il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio
πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro
avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore
spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi presocratici
in cui il termine κόσμος assume il valore di ordinamento del mondo, cosmo
(Cerri 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra espressione possa tradursi
(così come abbiamo fatto) con un complemento di moto nel mondo (o per il
mondo), preferendo renderla letteralmente come in order, con il significato,
dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p. 190) sottolinea
come dalla Dea il kouros sia chiamato a non alterare l’essere secondo l’ordine
delle cose, attribuendo quindi alla formula valore normativo. Coxon sottolinea
il precedente omerico, traducendo in regular order. Noi preferiamo attribuirgli
il valore cosmico, considerando κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale
precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5 ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι
γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν
è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121
Indifferente1 è per me da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta,
farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK 28 B5”, Apeiron) ha
proposto di tradurre ξυνὸν come a basic point: It is a
basic point from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly. Collocando
il frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è
assicurato e, come è stato notato (Gallop 37), suggestivo. Difficile però avere
un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν. 122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1
νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3
φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †... † 5, 1 I codici
di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò invece τε νοεῖν,
ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e
la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una minoranza di
editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice
F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ,
secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la versione del
codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897):
τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε. 4 Il codice D di
Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 5 La tradizione
manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del
verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω (tengo lontano,
distolgo), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα -
ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero). Congettura Mourelatos: εἷργον
(tenevo lontano), in riferimento al rifiuto della seconda via di B2. Congettura
Cordero: ἂρξει (comincerai). Congettura Nehamas: ἂρξω (comincerò), ripresa di
recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto
mantiene il baricentro del discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri
versi del poema. La Curd insiste in particolare sul parallelismo con i versi
B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine
al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in
poi opinioni mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può
ingannare. L’espressione pongo termine corrisponderebbe a comincerò per te
appunto di B6.3, così come da questo momento in poi a da questa via di ricerca.
A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ
ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται
κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a
Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam
117; 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando
i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando
la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit. 58).
Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra
i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται,
dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe,
secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione
manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι (mi invento). Dello stesso
avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II 82). Coxon (p. 183) sostiene la
derivazione (per corruzione) da πλάζονται (vagano). Diels fa della espressione
una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di πλάζονται,
utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento
intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si
trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi
parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di
πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit. 47
nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia
correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo
la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come
sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di
Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi
editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e
pensare1: ciò che è è2 , è necessario3; essere4 è infatti possibile, 1
Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da
Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν)
introdotti da τό, da intendere: come
articolo determinativo (sarebbe allora più corretto rendere con il [fatto di]
dire e il [fatto di] pensare), ovvero
come pronome dimostrativo (dire questo e pensare questo). Nella nostra
traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari
costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce
Palmer (Parmenides et Presocratic Philosophy, cit. 111; ma si devono registrare
le riserve di Cassin 146). Costruzioni alternative: (a) χρή regge direttamente ἔμμεναι,
di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro articolo e ἐόν il loro
complemento oggetto (è necessario che dire e pensare ciò che è sia): così, per
esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante interessante è quella sostenuta
da Tarán e Cordero (Les deux chemins de Parménide, Vrin, Paris 1984 111-2):
essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν (è
necessario dire e pensare ciò che è. Cordero, tuttavia, nella revisione (2004)
della sua opera, traduce diversamente: It is necessary to say and to think that
by being, it is. (b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono
soggetti; τό è articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι (dire e pensare è
necessario che siano un essere): così, per esempio, Diels (1897), Heidel,
Verdenius. Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo
con paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo,
Platone, Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da
Karsten) è, di conseguenza: it is necessary to assert and conceive that this is
Being. Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ
αὐτὸ di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da
cui dipendono λέγειν e νοεῖν (ciò che è da dire e pensare è necessario che
sia): così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con essere, per
mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli
tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di
necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare
in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su
questo punto Patricia Curd (1998 53), 125 il nulla5, invece, non è6. Queste
cose7 io ti esorto a considerare8. riducendo così l’impianto modale dei primi
due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4
Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti
il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione
dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati.
Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito
sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: l'"essere" esiste (Cerri);
infatti l'essere è (Reale), denn Sein ist (Kranz), for there is Being (Tarán).
Analogamente intende la Germani (op. cit. 191). Questa lettura potrebbe essere
avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι
(Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit. 24). Nel caso si accolga tale
soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei soggetti delle vie
di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi versi questa
traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto perspicuo l'uso di γὰρ,
a meno di privarlo del suo valore esplicativo per riconoscergli una funzione
confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come infinito retto da ἔστι, allora
è naturale attribuire a questo valore di possibilità (che sembrerebbe dare un
senso alla particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo:
solo esso infatti è possibile che sia (Pasquinelli); For it is for being
(Coxon); è possibile, infatti, che sia (Giannantoni); perché può essere
(Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien e Cordero, optano per una formula
impersonale: car il est possible d'être; for it is possibile to be. 5 Secondo
Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo significato più
stretto, quello di non una cosa. L’intera frase, dunque, asserirebbe che ciò
che non ha essere, non è per niente una cosa. Kranz (in apparato) riteneva che
μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον).
Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit. 46 nota) considera possibile
un rimando al non-essere, intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di
Simplicio (Phys. 117) come μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo
l'ambiguità dell'essere, intendendolo comunque in senso esistenziale: la
necessità di affermare l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando
la possibilità dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere nell’intera formula valore
di possibilità: for it is possible for it to be, but impossible for nothing to
be. Analogamente
Mansfeld: denn dieses (sc. Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann
nicht sein. O’Brien (p. 27) è convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν
abbiano valore potenziale, con l’infinito in funzione completiva, e suppone un
secondo infinito per completare l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: il
n’est pas possible 126 Per prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10, e
poi da quella11 che appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι)
ce qui n’est rien (μηδὲν). L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di
rimanere fermi, in entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán):
for there is Being, but nothing is not. È possibile, tuttavia, attribuire senso
potenziale a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno
Cordero (2004) e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di
O’Brien, che ritiene improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale
di B2.3, Palmer (p. 113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso
di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore
predicativo: (What is) is to be, but nothing it is not. Letteralmente più
aderente al greco la traduzione senza articolo: nulla [ovvero niente] non è. 7
Il pronome τά (accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito
esclusivamente al contenuto dei 1-2a: è invece probabile che esso alluda a
quanto seguiva B2 precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via
che non è e che è necessario non essere come effettivo percorso di indagine. 8
La formula τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama
l’attenzione sull’esclusione della via che non è e che è necessario non essere.
9 Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit. 49) nel
considerare questo riferimento alla prima via di ricerca (πρώτη ὁδός διζήσιος)
vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione, e che
doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude Simplicio
nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος
ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere. Per
evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno
ambigue: this is the first way of inquiry from which I hold you back
(Kirk-Raven-Schofield); Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per prima
(Cerri); Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano (Tonelli).
Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative, che
indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere più
aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione
predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127 [5],
uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente
errante17. Essi sono trascinati18, 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il
pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto
Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere
in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione
che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il
tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in
particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle schiere scriteriate (ἄκριτα φῦλα) manifesta la
loro impotenza (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non
conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si
riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e
in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo
essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità)
incompatibili. Robbiano (op. cit. 104-5) segnala come nella lirica arcaica il
tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse espresso
nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia mente
(Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti
per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli
uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte
alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove
è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon
(p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός
distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale
del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione
πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della mente
(così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del pensiero: la mente, invece
di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo sordi e ciechi19,
sgomenti, schiere scriteriate20, per i quali esso21 è considerato22 essere e
non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti23 il
percorso torna all'indietro24. 18 La forma verbale φοροῦνται rafforza il senso
di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei mortali che nulla
sanno. 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol marcare una condizione di
disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento uditivo e visivo. Anche
Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la stoltezza manifestata dalle
opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα sottolinea l’incapacità, da parte di
un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza, tribù, classe, genia), di giudicare, di
discernere. Evidentemente la Dea intende marcare, per contrasto, la prospettiva
di ricerca aperta in B2 con l'alternativa delle vie di ricerca per pensare: in
questo caso, la mente erra, e i mortali non conoscono alcunché. Alcuni
ritengono (tra gli altri anche Cerri 212), che Parmenide si riferisca qui ai
seguaci di Eraclito. 21 Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come
aveva a suo tempo rilevato Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer),
potrebbe fungere da articolo per sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel
contesto del frammento τό è da riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides et Presocratic
Philosophy 115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide
dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una
costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche
misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui
τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha
attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit. 170,
n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla
opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il
passivo di νομίζω abbia il significato di è pratica corrente. Il ricorso a
νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da
contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale
πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a tutte le cose,
ovvero come maschile, riferito quindi ai mortali, come il precedente relativo οἷς,
per i quali. Coxon traduce: and for all of whom; analogamente O'Brien, Palmer,
Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II 83) segnala la
composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide riprenderebbe
il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo παλίντροπός
sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7), indicando
l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali. Potremmo dire
che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della presunta via di
ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza che colpisce chi
pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una interpretazione del
frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι
ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης
non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso, armonia di
contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa interpretazione,
tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in
Presocratic Philosophy, edited by V. Caston et D.W. Graham, Ashgate, Aldershot
2002 55-6), il quale sottolinea come il termine παλίντροπός si riferisca qui in
realtà ai mutamenti sequenziali delle cose reali l'una nell'altra (come nella
cosmologia milesia); in Eraclito, invece, esso sarebbe impiegato in riferimento
a un equilibrio statico. 130 DK B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ
σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2 εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ
τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ
3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα. [vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258
d 2-3; Simplicio, In Aristotelis Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele,
Metafisica 1089 a; 2-6 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2
Simplicio, In Aristotelis Physicam 78, 650; 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1
Alcuni codici di Aristotele (EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli
di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ. Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio
F), τοῦτο μηδαμῇ (Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di
Sesto e Simplicio riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος,
διζήσεως), quelli di Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di
Sesto e Diogene Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P.
Kingsley, Reality, The Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003 139-140),
all'interno di una lunga discussione sul valore da attribuire al termine (prima
di Platone), propone (seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa,
il genitivo λόγου. 4 Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di
Sesto πολύπειρον. 131 Mai, infatti1, questo2 sarà forzato3: che siano cose che
non sono4. Ma tu da questa via di ricerca5 allontana il pensiero6; 1 Coxon (p.
190) osserva giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da
giustificare, per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento
del successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare
di τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto
τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto
precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa
a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté (Mai, infatti, questo enunciato sarà domato) ovvero Car jamais ceci ne sera
mis sous le joug (Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo). Secondo
l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht 74), il senso dell’aoristo
congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle citazioni
platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista (241 d5-
7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ
ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla
prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che
il non-essere è, sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un
certo senso, non è (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A rafforzare
questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il suggerimento
specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso lato come sarà
provato, che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando l’interpretazione del
passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ argomenta tuttavia in
modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero (Studi sull’eleatismo,
cit. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato l'ipotesi τοῦτο δαμῇ,
preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così: Non ti lasciar mai
insegnare questo). Alle osservazioni di Calogero si richiama oggi la Gemelli
Marciano (II 84). 4 Il non-essere è in questo caso espresso con il participio
plurale μὴ ἐόντα, cose che non sono. Secondo Tarán (p. 75), ciò si
collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei sensi. 132 né
abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia violenza9, 5
Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
- questa via di ricerca - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει,
δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα·
εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ
μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν
ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la contraddizione non sia vera
[cioè: le proposizioni contraddittorie non siano vere] a un tempo in quei versi
in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione
B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo
aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere
nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca
il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.]. Secondo
Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla via che conduce al nonessere; inoltre
B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1. Come fa osservare Tarán (p. 76),
Simplicio sembra distinguere anche tra l’obiettivo polemico di B6 e quello di
B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato probabilmente nel significato già
omerico - di mente, intelligenza, organo del pensiero e della comprensione. I
primi due versi del frammento sono citati da Platone e Simplicio: essi
costituiscono un primo blocco testuale. Diogene cita isolatamente i 3-5,
secondo blocco. Sesto consente di cucire i due blocchi, citando i 3-6 dopo il
verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non c’è posto per il verso 1. Non
sorprenderà, dunque, che nella storia delle interpretazioni il frammento abbia
subito vari smembramenti e montaggi. Noi scegliamo di conservare l’ordinamento
che si può ricavare da Simplicio, l’ultimo autore che si ha fondato motivo di
ritenere disponesse di una copia del poema (ancorché non esente da rielaborazioni
linguistiche e contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in
contrapposizione a νόημα (abitudine versus analisi intellettuale): la prima
forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος
si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191)
πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore
rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede,
l’orecchio risonante11 [5] e la lingua12. Giudica13 invece con il
ragionamento14 la prova15 polemica16 precedente. Cerri (p. 216) giudica
tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni metriche. Robbiano (p.
97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine generata lungo la via di cui i
mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit. 59 nota 50) preferisce
riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la possibilità che Parmenide
intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto riguarda la traduzione, abbiamo
optato per una resa che sottolinei nell’aggettivo il riferimento all’origine
dalle molte esperienze; altri scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito
in esse, rendendo quindi con molto esperta, molto abile. 9 Il verbo βιάσθω si
potrebbe rendere anche con induca: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre
frequentemente nella poesia tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide,
Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel senso di violenza esercitata dalla menzogna
sulla verità. 10 Cerri (p. 217) osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico
significa muovere, dirigere con abilità e destrezza. 11 Cerri (p. 217) rileva
la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le
metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le collega a B6.7, trovandosi però
in difficoltà nell’interpretazione. In B6, infatti, esse sarebbero riferite
agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella stessa prospettiva eraclitea)
contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192) sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν
qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la lingua replicherebbe la confusione
degli occhi e delle orecchie. La sua proposta è contestata, per ragioni
semantiche (il significato dell’aggettivo - risuonante - mal si accorderebbe
nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77), il quale suggerisce invece di
considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il
valore avverbiale di senza scopo, a caso. Come riconosce lo stesso Tarán,
tuttavia, la lettera del verso 4, con i due aggettivi immediatamente riferiti
ai due sostantivi, rende più plausibile la solitudine di γλῶσσαν: il termine,
in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il linguaggio ordinario. Heitsch (p.
161) suggerisce che, nel contesto, senza ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia
da porre sullo stesso piano degli altri organi di senso: qui, dunque, il
termine indicherebbe non l’organo del gusto ma l’organo del linguaggio, come
riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo sull’organo che produce nomi
che non sono in grado di riflettere la verità. 13 Kingsley (Reality, cit. 140)
rende κρῖναι come judge in favor of, nel senso di scegli (opzione adottata
anche da Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit. 50); la Gemelli
Marciano (II 19) preferisce entscheide dich für (deciditi per). 134 14 Secondo
Cerri (p. 218), del termine λόγος corradicale di λέγω (dire) e dunque
originariamente sinonimo di μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico
del ragionamento mentale (emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda
occorrenza nel poema (B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il
ragionamento (λόγος è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126),
insistendo sul parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta
connessione tra λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui il raziocinio ma la
facoltà umana di cogliere il senso. A suo tempo Conche (p. 122) aveva
sottolineato come, a differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si
allontani dalla verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà
razionale. Ma di recente Kingsley (Reality, cit. 129-50) ha lungamente
argomentato che tale significazione è solo platonica e post-platonica, mentre
in Parmenide λόγος avrebbe ancora il valore di discorso o discussione: in
questo senso, egli preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare
il dativo in genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro
la tendenza a contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime
anche Cordero (By Being, It Is, cit. 136-137), convinto che il significato base
sia ancora quello di discorso. A noi pare che la resa con ragione sia forzata,
e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando
l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare
un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e
funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος.
Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come
significato argument of disproof, refutation. Di recente, Chiara Robbiano (pp.
106- 107) che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha ricordato
come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già implicita nei
versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno la forma di un
elenchos. In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie
tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando
correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata
completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche
riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo
della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo
πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si
riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da
Zenone. In πολύδηρις come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di
combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones con esplicito riferimento al nostro testo -
rende con una espressione di senso passivo: molto contestata. 135 da me enunciata17. Interessante l'analisi di Patricia Curd (The
Legacy of Parmenides, cit. 104): The elenchos (testing) is poludēris (rich in
strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a
battle to be won over and over. Efficace la resa di A. Nehamas
(“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον come giudica con la ragione l'argomento che molto contesta.
17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente
annunciata) alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono
riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più
opportunamente con enunciata), in cui la Dea ha introdotto le due vie e
argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente
tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che
proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena
compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del
suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit. 76) di tradurre in questo
caso il participio aoristo come when it has been spoken by me. 136 DK B8 1-49
μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ
μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄
ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus
Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo
emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto -
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si
attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in
effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero
verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per
la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma
autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV
di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia,
suggerisce l’adozione largamente prevalente tra gli editori dell'attuale
versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον
μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23,
145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che
tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche
da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei
Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione
dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές (è infatti
intero [nelle sue membra]), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale.
Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di
Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in
B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso
solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario,
6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi
l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto
identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce
Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea
a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I
sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici
simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in
PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo
secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti
antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν 6, ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ
ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον,
φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta
anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον.
La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον
del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le
trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον,
ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il
suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον...
πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi e perfetto), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno
proposto ἠδὲ τέλειον (e completo). Una minoranza (ma significativa: Hölscher,
Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον.
A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: poiché non era, non sarà,
tutto intero insieme, ma è solamente, ovvero: poiché non era, non sarà, ma è
solamente, tutto intero insieme. 7 I codici di Simplicio riportano ἕν, συνεχές;
in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές (di natura intera), lezione difesa e
preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni codici di
Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo più anche
in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9 Nell'epica
χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel significato
originario di debito e in quello secondario di bisogno (che ha riscontri in
lirica e tragedia), come sottolinea Passa. 10 I codici attestano qui
unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula analoga, le lezioni
si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp. 80 ss.) ha discusso
specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν, sottolineando come sia
accettabile in Parmenide (analogamente a quanto riscontriamo nel caso di
Erodoto) la forma ionica recente χρεόν,
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι
παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,
[15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός -
τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν
κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄13, οὐκ ἔστι, οὐδ΄
εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ
διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν
συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. [25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν
ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe atticismo: a confermare un
meccanismo di atticizzazione parallelo a quello operante sul testo omerico. 11
Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος (da ciò che non è): l’emendazione
proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di concludere la dimostrazione
come si trattasse di dilemma: l’essere non può avere origine dal non-essere (v.
7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον). La necessità
dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102), ma
combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con
qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata i codici di Simplicio
rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato sia alle implicazioni
teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso della
successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di Simplicio
riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende πέλοιτο ἐόν
(potrebbe essere ciò che è, essendo, potrebbe essere), che una minoranza di
editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten propose di
emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν (potrebbe poi perire ciò che è),
soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi
abbandonata. La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è
correzione (Preller) non attestata nei manoscritti simpliciani della edizione
di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄ (EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di
ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei codici DE del commento al De Caelo abbiamo
ἄπαυστος (incessante), nel commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος
(incredibile), in Fisica DE il testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον
μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15
μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ
οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν
ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15
Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i
codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16 Della prima parte del verso abbiamo
due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν
τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν
δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει (identico, resta in un identico [luogo]). 17 La prima parte
del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές·
μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6 Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές·
μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές· μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές·
μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5),
che discute ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più
plausibile, propende con riserve per l’adozione della soluzione ἐπιδεές,
accettabile appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari
editori (Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di
Bergk, espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.)
ha con buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές
riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione
da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in
cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito
all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, la sola grafia adeguata a un testo
scritto. Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da
Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ,
quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien
(p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per
precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito
da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F;
143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri
manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40]
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143,
23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον (è illuminato). 20 Il testo del codice
di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν (nemmeno se il tempo
esiste), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon
(seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος (And time is not), che,
a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per aggiustare il
senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ (né esisteva infatti) e
soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità)
seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende (integrandola con la
congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31) οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va
dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della lezione χρόνος
di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si trova, in effetti, nel contesto
della citazione continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi a
garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione dell’originale, mentre l’altra
lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una libera parafrasi. Le difficoltà di
questo passaggio potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di
montaggio sulla copia del poema disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di
Simplicio (Phys. 146, 11; 87, 1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In
Theaet.) οἶον (solo); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον (come).
22 I manoscritti di Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι
(Phys. 87, 1 EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e
Simplicio Phys. 29, 18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo
emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio
prevalgono tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται (Diels-Kranz, Tarán,
Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri); πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano,
Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti
sembrerebbero suffragare questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in
B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo
di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto,
Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ (α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione
Diels-Kranz perché, nel contesto, ci sembra più naturale il senso che se ne può
ricavare, anche in traduzione. 141 καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν.
αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον
ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26
εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν
ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30. [Fonti
principali: 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, 1-14 id. 78] 24 Si
veda l'annotazione a χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia
la forma χρεών, sia la forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior),
che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione
di χρεών. Manteniamo dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del
fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula πελέναι... ἐστιν, ricorrendo
ora a χρεών ora a χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν
(ovvero ὄν): l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più
accettato. Diels (1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara
dell’indefinito. 26 La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE),
accolta dagli editori. Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei
codici di Simplicio è οὔτε ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν
è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν;
l'edizione aldina κενὸν. 29 La lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è
affermata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalla proposta di Diels, il
quale però intendeva οἷ come un relativo (verso cui). I manoscritti (DEF) di
Simplicio riportano οἱ (articolo determinativo ovvero dimostrativo), emendato
nell’edizione aldina come ἦ (espressione omerica per in effetti, certo). 30
Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ
(EF), ovvero κυροῖ (D): κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2
ancora, della via3 che4 è, rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il
complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo)
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con
quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come
impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, rimane una sola via da
esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene
chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο: One path only is left for us to speak of (Burnet), ovvero So bleibt
nur noch Kunde von Einen Wege (Diels), One way only is left to be spoken of
(Raven). 2
Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte
divina: la parola (ovvero il discorso) proferita dalla Dea doveva essere
accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe
dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota
di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K.
Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit. 17-18)
sottolinea nell’uso di mythos il valore di authoritative speech act;
Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit. 541) insiste sullo stesso valore
con una traduzione poco familiare: ma façon de parler autorisée. 3 Il genitivo ὁδοῖο
è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος,
di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua
interpretazione “partitiva” (di via, resta soltanto una parola), riferendolo
alle vie prese in esame. 4 Il valore della congiunzione ὡς sarebbe secondo
Mansfeld (p. 93) complesso: non significherebbe semplicemente che, ma anche
come. Per tale valore si veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194)
sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο
(posero segni): alla convenzionalità dell’imposizione umana è opposta
l'oggettività delle evidenze dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel
contesto come indizi, segnali, anche evidenze (monuments, Coxon p.194). Essi
possono essere intesi anche come i riferimenti che consentono di mantenere la
propria direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al
pensiero di non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit. 168), i
σήματα sarebbero indicazioni, prove del carattere necessario e unico del fatto
di essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo
la via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα rigorosamente
parlando non siano da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con
la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza dell’Essere: il
concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione 143 specifica. A
Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i segni fungerebbero
essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere,
quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che
escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche
da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit
einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2005 142): tutti i segni ricavati da Parmenide
sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del
principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La
Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un
tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori
della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da
ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i segni augurali
interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il
mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe essere
deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience
(interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104)
come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso
(B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei
σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest
è necessario percorrere la strada è; per fare ciò è necessario tenere d’occhio
i segnavia. Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di
leggere i segnavia come imperativi del tipo: cerca sempre ciò che è ….. Di
recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα:
essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per
provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona.
Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope,
dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità del
mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità.
Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα
e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve
interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per
giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι
τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo
oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in questo
caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai
mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza
nascita8 è ciò che è9 e senza morte10, fuori della loro portata. La Robbiano,
per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe
ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione
essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e
Parmenide, cit. 146): i segni costituirebbero gli argomenti della
dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere.
Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza
dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere
razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν
καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς
come congiunzione dichiarativa: Being is ungenerable and imperishable (Tarán p.
85); whatis is ungenerable and imperishable (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς
come congiunzione causale: since it exists it is unborn and imperishable
(Guthrie p. 26); étant inengendré, est aussi impérissable (O’Brien 171);
analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit. 146). La costruzione σήματa … ὡς
può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la
significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che
(dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la
loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo,
manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui
il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos 95),
infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide
annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro
giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di
poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ. μὲν
οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον,
λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso
indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio,
dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che
tutto è uno, ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α: στοιχεῖα.
παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ Ingenerati: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo
indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita
(Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma
che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe
stato il primo ad affermare che tutto ciò che è generato è corruttibile (πρῶτός
τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il
termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p.
97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura
greca, assumendo un significato più forte del semplice ingenerato: ἀγένητον in
Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga all’essere.
Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale dei segni
parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo)
di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della esperienza dei
mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν come ciò che è,
segnalando invece τὸ ἐόν come l’essere: per noi si tratta di espressioni
sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più astratta. Nel
contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale
(come fa, per esempio Leszl 171): essendo ingenerato è anche imperituro. In tal
caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate alle
prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto
(op. cit. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore
ancora temporale del participio a un significato atemporale: si tratterebbe di
una netta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui dall’esperienza
della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un
essere sottratto al tempo. 10 L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον
- formata con l’alfa privativo, indica letteralmente ciò che è senza
distruzione [morte] (ὄλεθρος). Si tratta di termine veramente raro nella
letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade
XIII.761); dopo Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri 220).
Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in
riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ
ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale
sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono
Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe
significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori
arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni
caso, i due aggettivi ingenerato e imperituro corrispondono alle tradizionali
connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto intero11,
uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo come
tutto intero per dar ragione sia della totalità sia della integrità implicite)
è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει Tutto
intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12 Nonostante le
difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di μουνογενές dopo ἀγένητον
(v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il valore derivato
dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha significato
letterale di unigenito, ma quello di unico. Cerri (p. 221), collegando
μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia 426, 488),
valorizza la metafora arditissima proprio nella contraddizione sarcastica ad ἀγένητον.
In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di “nascere”, “divenire”, sia
quella di “essere”, “esistere”. Il termine μουνογενές potrebbe alludere a γένος
piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp.
113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές in diretta opposizione alla formula
tradizionale per esprimere distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην
Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris;
sulla τerra ce ne sono due (Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si
contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque
il rifiuto della contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano
μουνογενές a ἀτρεμὲς: "monogeneity" e immobilità sarebbero poi
contestualmente riprese ai 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and
the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit. 73)
questa soluzione è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione
alternativa a οὖλον, sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo
indipendentemente, nel significato di uniforme. 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime
stabilità, solidità, immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la calma
dell’Essere, in contrasto con l’inquietudine degli enti. Coxon (p. 195) associa
l’aggettivo alle successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: immobile), ταὐτόν
τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον (v. 29: identico e nell’identica condizione perdurando) e ἔμπεδον
αὖθι μένει (v. 30: stabilmente dove è rimane): esse denoterebbero identità
esente da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan
(R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né
un tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19, Handbook
of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd D.W. Graham, Oxford), il quale
però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a esprimere il fatto che
ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei
limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe, quindi, impiegato per
indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza di cambiamento e movimento
fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit. 147), tra gli altri, leggendo il verso
come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα
δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e
semplici e senza tremore e felici erano le visioni cui eravamo iniziati. Si
tratterebbe di un riferimento ai misteri eleusini, dove ὁλόκληρα (integralmente
perfette) corrisponderebbe a οὐλομελές, indicando la completezza di struttura
fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico, evocando di Verità ben rotonda il
cuore fermo (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ B1.29). La ripresa platonica
suggerirebbe allora una direzione interpretativa alternativa: uno sguardo sul
mondo della alētheia indimostrato, il cui apprendimento è intuitivo, tanto da
essere paragonato alla conoscenza misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον con DK,
Coxon, O’Brien, Conche, Reale, Heitsch e altri attestato da Simplicio. Il
valore da attribuire a ἀτέλεστον dovrebbe essere, nel contesto, quello di senza
fine, senza termine. Cerri (pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente
come incompiuto, riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva:
incompiuto mai fu un tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo. Da notare che
Simplicio (Phys. 30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che
l’essere di Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον
(Tarán 93). 15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo non mai,
giammai. Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla
negazione, riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε
come indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide
contrapporrebbe l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale.
16 In questo verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et
l’Éternité”, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II
Poblèmes d’interprétation 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come
le tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί
si riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές,
cioè se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due
affermazioni iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti,
più semplice escludere la possibilità che ciò che è (ἐόν) sia stato (e in
qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia
ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è
pienamente, senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo non è (McKirahan
207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota
un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
l’essere è, “ora”, irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’ora indicherebbe una
durata senza successione (come il durare di Dio secondo Tommaso). O’Brien
(Études, II 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea
intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto
ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By
Being, It Is, cit. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare la
presenza propria dell’ora (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere:
l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti
temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel
rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e
futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere
sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della
“atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo,
Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103
ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica
consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali
(tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e
implicazioni logiche cui la predicazione speculativa di Parmenide si sarebbe
ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un
condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo
Mourelatos: né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è. In
direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di
Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del
tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere
non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento.
Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una
continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una
esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe
conseguenza di ciò-che-è è (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale
pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the
Metaphysics of Changelessness", cit. 73) propone una lettura 149 uno20,
continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza
degli attributi che τὸ ἐόν possiede ora (completezza, autosufficienza ecc.),
non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o
del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio
precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come tout entier à la fois, accostandolo al tota
simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i segni
destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è senz’altro il
più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni, inserito in
una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές in cui l’autore sembra insistere sulla
compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che sulla sua
unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti, è
probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi, in
relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui
giustificazione argomentativa ritroviamo ai 22-25. Come giustamente rileva
Conche (p. 138), l’essere è uno, non l’Uno della posteriore tradizione
platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner
preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, un tutto naturale. Coxon
osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il
termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui qui
e in v. 25 συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos legge come un unico
blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato modificato dall’avverbio ὁμοῦ
e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe all of it together one. Secondo
Cordero (By Being, It Is, 177), Parmenide
intenderebbe marcare come il fatto d’essere sia denominatore comune a tutte le
cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che
l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές,
ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice,
ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il
precedente ἕν, sottolinea il fatto che ciò che è è uno con se stesso (Conche p.
139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di
attributi con quella introdotta ai 3-4: si tratta di implicazioni dei
precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco dei
segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa,
che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare dal v. 5. 22 Il
termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con origine, ma, seguendo il
suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della
espressione. È possibile che come nota la Stemich (Parmenides’ Einübung in die
Seinserkenntnis, cit. 214) in questo passaggio il filosofo contrapponga alla
comune accezione religiosa (per cui le divinità sono sì 150 Come23 e donde
cresciuto24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu dica e pensi; non è
infatti possibile dire e pensare26 che non è27. Quale bisogno28, inoltre29, lo
avrebbe spinto30, [10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33
prima34? immortali, ma non senza nascita) la sua concezione dell’essere,
appunto senza nascita e senza morte. 23 La formula interrogativa πῇ πόθεν
potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): verso dove e da dove?, accentuandone
le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso della crescita.
Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a πῇ. 24 Il passaggio
dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν), con relativo cambio di
sintassi, e il successivo implicito riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι
(essere cresciuto) in relazione agli infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero,
secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di dibattito (quindi di oralità).
McKirahan (p. 193) ha sottolineato le implicazioni tra le tre domande:
assumendo che generazione e crescita siano equivalenti (come ragionevolmente
attestato dai successivi 9-10), la seconda e la terza domanda possono essere
interpretate come riferentesi alle sue condizioni necessarie: la generazione è
un processo (come) che richiede un’origine (donde). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω
(futuro preceduto dalla negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e
fatta rispettare dalla razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ
νοητόν dovrebbe rendersi come non è infatti dicibile e pensabile, con la
proposizione introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e
νοητόν hanno dunque complessivamente il senso di cosa che si possa dire e
pensare. 27 Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", cit. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι
the potential generator: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28
La formula τί χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί
χρήμα; quale circostanza? (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II 87) rinvia a
Pindaro e Eschilo per la sua traduzione (Verpflichtung, dovere, servizio). 29
Come segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in
questo caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo
in questo modo la forma irreale dell’interrogativo (che suggerisce una risposta
negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio
aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto
all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a
perifrasi: se comincia dal nulla (Pasquinelli), se fosse nato dal nulla
(Cerri), se trae inizio dal nulla (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia per
intero o non sia per nulla37. 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come
nascere\sorgere o crescere: i traduttori si dividono. 33 La particella ἢ può
avere funzione disgiuntiva (o), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34
Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: früher
oder später (Diels), prima o poi (Calogero), later or sooner (Tarán), dopo o
prima (Reale), dopo piuttosto che prima (Cerri), later or before (Coxon), plus
tard, plutôt qu’ auparavant (O’Brien). In effetti ὕστερον è comparativo
dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente più tardi che [\o] prima,
sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10 avremmo una
delle prime applicazioni del cosiddetto principio di ragion sufficiente: nulla
si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché si verifichi così e
non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe della seconda
applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la centralità
immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il pensiero
dell’essere di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è espressa da Leszl
(pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse marcare l’assenza di
una ragione (causa) perché l’essere si generi in un qualsiasi momento: il
non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne alcuna. In
realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan, delle due possibili
traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, più tardi o più presto ovvero più tardi piuttosto
che più presto, la prima evidenzia come manchi una ragione per cui ciò che è
debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in
modo più sofisticato e coinvolgendo il “principio di indifferenza”,
sottolineerebbe come non ci sia ragione perché esso si generi in un momento
qualsiasi piuttosto che in un altro. Sempre McKirahan osserva come l’argomento
sia formulato in termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del
tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35
McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di οὕτως come così,
perciò, che introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione. Secondo lo
studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11 appare nel contesto -
problematico: πάμπαν πελέναι è più naturalmente collegato all'analisi dei
successivi 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente precede. La sua
proposta è dunque quella di tradurre l’avverbio οὕτως collegandolo alla
alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore sarebbe allora in questo
modo (cioè essendo ingenerato). La sua funzione sarebbe prolettica: quanto
detto nel contesto sarebbe rilevante per la discussione successiva. A noi pare,
comunque, che B8.11 concluda un passaggio (esclusione della generazione)
dell'argomento avviato nei versi precedenti. In questo senso confermiamo la
traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà forza di convinzione39 36
McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come è giusto: il suo significato - nel
contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί - sarebbe quello di
prospettarne i corni come le uniche possibilità da considerare relativamente a
ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι
πάμπαν πελέναι o non deve essere per niente. Parmenide sottolinea la
contraddizione e l’esclusione di una terza via (adottando di fatto il principio
del terzo escluso): la via dell’essere esclude non solo la via del non-essere,
ma anche un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p. 142).
Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non costituisce elemento della prova
successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale, la decisione, operata
in connessione con le due vie. 38 Avendo accolto con cautela la correzione di
Karsten del testo tràdito, dobbiamo comunque osservare che lo stesso Simplicio,
parafrasando due volte il nostro passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso
della emendazione: καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ
τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος
Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato:
mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere
oltre a esso), né dal non essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione
dilemmatica è attestata anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica
(I, 8 191 a28-33), con chiara allusione anche agli Eleati (Palmer Parmenides et
Presocratic Philosophy, cit. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che
il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται
καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν
πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a
esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le
catene45, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori
antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno
indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come
spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in
effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si
genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è
impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera
(perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa
deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze,
affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39
L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: la forza di una certezza
(Reale), forza di prova, ovvero forza di argomentazione (Cerri). In ogni caso,
come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da
Parmenide impiegato nel valore di convinzione razionale. Coxon (p. 199) rileva
come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse
un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un
riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un ente
qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41
Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono
oltre a, ovvero in addizione a. 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος.
Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei
codici - ἐκ μὴ ἐόντος è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al
non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea
introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare
ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che
segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è:
nella sua lettura l’espressione che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere
accanto a esso - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual,
accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a
qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo,
introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146).
44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza
mitica al riferimento, riconoscendolo come metafora della legge dell’essere.
Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15] ma [lo]
tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è dunque
deciso, secondo necessità49, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e
sia reale52. equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti,
che abbiamo notato nel proemio. In questo caso come osserva Robbiano (p. 163) il
limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è
definito πεῖρας πύματον, limite estremo, all’interno del quale riposa sicura
l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa
garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante
dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide
(Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico
giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità
logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit. 171), Dike,
con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che è e
l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει,
per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν.
47 Il termine greco κρίσις così come il successivo verbo κέκριται veicola
ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a
marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È
esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν.
In questo senso, Mourelatos ritiene che i 17-18 abbiano la funzione di
richiamare (come il v. 11) la decisione tra le due vie. 48 Letteralmente: a
proposito di queste cose, ovvero sulla questione della generazione e della
corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente come necessità:
rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale.
50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono,
a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione
dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι).
51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via che
non è (ὡς οὐκ ἔστιν) non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso,
non è una via genuina (vera). Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che
non si tratti della vera via: in altre parole, di una via che conduca alla
Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come l’altra [via] invece esista e
sia reale, cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p.
168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής (B8.17,
39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53 in
futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti, non
è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà
oggettiva. Cordero (By Being, It Is) sostiene che per Parmenide la verità è
prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima
generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede
in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla
verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ (di
Persuasione è percorso a Verità, infatti, si accompagna). Più avanti (B8.51)
Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la
formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης (pensiero intorno alla Verità). Anche per la
Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit. 87 ss.) impropriamente una “via” può
definirsi vera: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si
riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ,
che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il
riferimento al discorso della dea; la via è potrebbe intendersi come il mio
discorso è. 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente
coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente
come sinonimi. Per le differenze Germani. Coxon difende il testo del codice F: πῶς
δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente
(tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che
seguono, rende diversamente l’intero verso: And how could what becomes have
being, how come into being?. Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che
diviene (what becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante
(oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν (potrebbe poi
perire ciò che è) - invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54
Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero venuto a
essere o divenuto, essere stato. 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso
dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ
γὰρ ἔγεντο aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad
essere, sia a una condizione remota (fu) - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque,
se è venuto a essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per
il secondo emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che
sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi
e dei tempi verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta
riferimento al tempo; ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60.
aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente,
veicola durata e continuità: se x è in un certo momento, allora non è in senso
continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide,
cit., Tome II 153) osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al
momento fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un presente logico: al
nulla anteriore a ogni possibilità di nascita (più tardi o prima). Analogamente
Cerri, che parafrasa: se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è
ancora nato\rinato) (p. 227). 57 Qui
dovremmo intendere se [è vero che]. 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito
futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come essere sul punto di, avere l’intenzione di.
Si suppone che l’azione o la condizione indicata dall’infinito debba ancora
avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale
dell’espressione (O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide,
cit., t. II 139). McKirahan (p. 196) interpreta i 19-20 come rivolti contro la
generazione nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò
che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa
che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa
possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: ciò che
una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o
natura. Egli vi coglie un contrasto non tra arrivare a essere e essere durevolmente,
piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται (è
estinta\spenta) come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia
di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella,
adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo
emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: Così generazione è estinta
e distruzione ignorata. Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno
intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione
aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono
sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al
problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non
si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo
Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60
Cerri (pp. 227-8) osserva come sulla scorta di assonanze omeriche l’espressione
ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come morte oscura (ma anche ignorata, oggetto
di oblio). Molto diversa la resa di McKirahan: Thus generation
has been extinguished and perishing cannot be investigated (p. 196). Egli
insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι (imparare,
investigare, cercare), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di
ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era impossibile,
dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è divisibile61, poiché62
è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere
continuo65, conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non possono
essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono di
seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di una
osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide non
avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola
all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto l’uso di aggettivi
come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος. 61
L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia
come è divisibile, sia come è diviso: come osserva Leszl (p. 202),
concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che
l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già
oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche
Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide
punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon:
esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che,
considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe
possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe all’interno
della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί
dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63 Traduciamo così
l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come uguale: ci sembra logicamente più
efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una
lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen,
Guthrie, Stokes e Gallop): esiste tutto allo stesso modo. Tarán e Mourelatos
hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende
sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque
l’attributo di essere tutto uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un
certo modo, cioè tutto uguale, interamente e uniformemente (v. 11: πάμπαν
πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni discriminazione e divisione
di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν
ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni caso la fondatezza della premessa di
omogeneità è stata molto discussa: mancherebbe un argomento a sostegno nei
versi precedenti. 64 Traduciamo l’espressione τι μᾶλλον genericamente come
qualcosa di più: Coxon accentua il valore intensivo del comparativo (any more
in degree). 65 McKirahan (p. 197) sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non
tanto continuità quanto holding together, tenersi insieme, e accosta il significato
158 né [lì] qualcosa di meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69. [25] È
perciò tutto continuo70: ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72. del
verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come all
together. Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni
strette: l’unione sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura.
Il senso è comunque quello di estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come
qualcosa di meno, per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι
μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo:
Parmenide in questo senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson
(meno). 67 Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come
soggetto (but all is full of Being, Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος
vuol marcare come ciò che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo,
omogeneo, “denso” d’essere (uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p.
108) osserva come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa:
Being is adjacent to Being, che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso
dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò
che è, che consegue dal bando di non è. Si tratterebbe, nella sua lettura
complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν
πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi.
Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit. 50), sottolineando come il
contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione
ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e
Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος
come rilievo della pienezza ontologica (ontological plenitude) che non ha nulla
da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197)
sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v. 22):
egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel
successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe
equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero coeso. Riformulazione dell’inziale
indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria
occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per uno.
McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la
relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è si
tiene insieme (holds together); così in vece di continuo, con la sua ambiguità
spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile
resa italiana, holding together. 71 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di
avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente collegato tanto
alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73, immobile74 nei vincoli75
di grandi catene76, lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133)
insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione
dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere. 72
Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due
"assiomi" di B2 - è e non è possibile non-essere, non è ed è
necessario non-essere - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al
non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la
molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'essere. In effetti
Colli (Gorgia e Parmenide, cit. 153) osserva come questi versi documentino il
continuo, dimostrando razionalmente il contatto di ciò che è con ciò che è:
l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di molteplicità. Egli
pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan (p. 197)
sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una interpretazione
letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel contesto αὐτὰρ abbia
valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore progressivo (vedi Curd, The
Legacy of Parmenides, cit. 83-4). 74 L’aggettivo verbale ἀκίνητον può
discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di κινέω: nel primo caso
il suo significato sarebbe non suscettibile di essere mosso dal proprio luogo;
nel secondo non capace di muoversi dal proprio luogo (Mourelatos 117-120).
Tarán giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4).
L’aggettivo ἀκίνητον si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale,
alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce
sulla questione è stata a nostro avviso proiettata dalla lettura di McKirahan
(p. 200), il quale insiste sul contesto immediato: immobile ha a che fare con i
limiti dei grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione.
I 27-28 ricavano dai precedenti 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere
ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di ciò-che-è (ἐόν).
Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel
contesto l’espressione immobile coinvolgerebbe l’idea della natura fissa,
limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la
questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di
ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità
fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il
movimento ontologico che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero nei limiti
(πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione
omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a
un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una
posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma,
quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza
fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione
genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός (via).
Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui
che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti.
Il concetto di via è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La locomozione,
in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è
essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione
a essere oggetto di attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime
l’idea arcaica, ma ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi
naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della
sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la
locomozione intesa come moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo
specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro
espressivo dell’autore, il cui linguaggio torna alle movenze epiche del
proemio. Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito prometeico,
così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di
Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo
(evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero, per il tema dell’incatenamento
e della conseguente immobilità, a un modello già presente nella cultura
mitico-filosofica della tarda arcaicità. Non è chiaro, tuttavia, il senso
preciso dell’aggettivo mitico-filosofica. Mourelatos (p. 115, nota), a sua
volta, evoca un passo omerico (Odissea), che costituirebbe buon parallelo per
l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο,
οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno le catene ingegnose
chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77
Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere,
diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero
implicare se si accetta la lezione adottata la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4.
Coxon vi coglie un’eco delle affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ
ταύτης ἀρχή, ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον
di esso non c'è principio immortale e
indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se
stesso83 riposa84, All’aoristo ἐπλάχθησαν
è possibile associare sia un significato attivo (Coxon: becoming and perishing
have strayed very far away), sia un significato passivo (indicato in questo
caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio
del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come
l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si
allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga
distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non
con reale credibilità - come in B1.30: il diverso contesto in particolare la
sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore
di πίστις, intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame
condotto correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso
giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la
prova addotta in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo
ἀληθής (reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare
il significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è
idiomatica, con valore variabile tra restare nello stesso luogo e restare nello
stesso stato (Cerri p. 231). Heitsch e Coxon insistono piuttosto sulla
condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso
analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo
privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai
fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan
(p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del
fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio del
limite, dei legami e della costrizione: in questo senso identico e
nell’identico sarebbero implicazioni di è pienamente. Anche le scelte verbali -
perdurare, rimanere, riposare - supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è
pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero verso 29
sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει
κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre nello
stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in
un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό possa
significare sia per sé, solo, solitario, ma anche indipendente (prossimo al
valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua prospettiva si
tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87: dal momento
che Necessità88 potente89 espressione plausibile per descrivere qualcosa che è
pienamente e non può cessare di essere in quel modo. Opportunamente Conche richiama, per
contrasto, le posizioni di Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello
spirito eracliteo, di Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν
ταὐτῶι μένει ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30
sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119)
osserva come la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v.
29, dunque, esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e
autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare
all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e
identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al
rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo
della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον,
che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200),
il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al
v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare qui, là, che appaiono
limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio
tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece,
preferisce qui, che indicherebbe in parallelo con νῦν che è un ora non
temporale un qui non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι
μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa
legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene
(Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι
μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime
dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero ad esso
siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è
tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi
variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere
militare di ἔμπεδον μένει: stare saldo in battaglia. In gioco sarebbe non la
stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto
intorno lo rinserra91. temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il
radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan
(p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi
esprimerebbero il fatto che ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere
pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è. 88
Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura
tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán p.
117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione,
traduce come Constraint: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel
suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione
intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico. Dalla
triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in
Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità
(Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel,
Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen
1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come
Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur
Geschichte des Wotgebrauchs“, Zetemata 36, München 1964 1-188, cap. I) ne ha
invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo, catene,
corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così come
sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine platonica
di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente pitagorico, come
Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius Πυθαγόρας
ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ
κόσμου (limite del cosmo) e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso
essa avrebbe la funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può
esprimere in termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6).
89 L’espressione κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.)
κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella descrizione di Atlante che sostiene l’ampio cielo
per una potente necessità ai confini della terra, come segnalano vari
commentatori. Ovvero nelle catene del
limite (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da
intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di
alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia
(v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco
siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle
catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide.
Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93
l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II 163-169) ha
colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων
φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με
δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ
πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il
loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete
legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero ad esso siano
fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è
paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere
il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos 119). 92 La
congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di ragion
per cui, cosa a causa della quale; ha anche il significato di poiché, a causa
del fatto che (privilegiato da Fränkel), e può essere usata come ὅτι con il
valore di che, il fatto che. Nel contesto preferiamo la resa etimologica
(privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione dell’essere sia
giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a un’immagine (la
costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice letteraria. 93
Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον nella sua valenza
omerica di unfinished. Rendiamo con incompiuto, imperfetto. Mansfeld sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e
l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il
valore di realizzazione e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe
la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo
R.B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the
Soul, the World, Time and Fate, C.U.P., Cambridge. Mourelatos sottolinea come il verbo τελέω sia collegato
al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il verbo ἀνύω
(consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame circolare. Nell’epica in
generale il verbo esprime compimento, realizzazione di promesse, desideri,
predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in relazione a questa idea di
compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di fine, nel
senso di estremità o termine. 94 Abbiamo cercato di conservare la costruzione
del verso greco, forzando la costruzione italiana. 165 non è, infatti,
manchevole [di alcunché]; il non essere95, invece, mancherebbe di tutto. La
stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 è: 95 Intendiamo
l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in contrapposizione al
precedente τὸ ἐὸν: quindi il non essere ovvero ciò che non è (espressione
tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in presenza di una
articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν):
non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non manca di niente; il
non-essere, invece, mancherebbe di tutto. D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso
in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe: se [l’essere] non fosse
[non-manchevole], mancherebbe di tutto. 96 A questo punto avrebbe inizio
secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide fino al verso
41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per
esempio, Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p.
202): i 34-41 esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) non
potresti conoscere ciò che non è né indicarlo. Se qualcosa è possibile
conoscere o affermare, deve trattarsi non di ciò-che-non-è, ma (come
conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta
(originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte di
Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im
Fragment 8 des Parmenides", Phronesis, 34, 1989 121-138), secondo il quale
il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha di recente
sottolineato anche J. Palmer (Parmenides et Presocratic Philosophy, cit. 352-4),
il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco centrale del frammento, sia
in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit. 32 ss.). Ciò significherebbe, tuttavia, mettere in
discussione l'affidabilità della redazione del poema utilizzata da Simplicio
(che Diels riteneva im Ganzen vortrefflich): come ha sostenuto Passa nella
prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle spalle, in misura più
accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide
in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può averne alterato la
ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte espressive, mentre
l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e proprio montaggio
del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi testuali relativi ad
altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato atto, nello specifico,
di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte antica cita il v. 34
dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente.
Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: thinking is (Owen, Sedley); is to be thought (Mourelatos), is there to be
thought (Kirk-Raven-Schofield), is for thinking (Curd). McKirahan (p. 203)
traduce is to be thought of intendendo l’espressione 166 [35] giacché non senza
l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101, come un richiamo di B2.2: ciò
che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98 Intendiamo
il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta
conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò
che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che
è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan 203-4). Sulla scorta di
questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche
l’affermazione di B5: indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti,
ancora una volta farò ritorno. 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come
congiunzione equivalente a ὅτι (che), come, tra gli altri, Calogero (La stessa
cosa è il pensare e il pensiero che è), Guthrie (What can be thought
[apprehended] and the thought that “it is” are the same), Tarán (It is the same
to think and the thought that [the object of thought] exists), O’Brien (C’est
une même chose que penser, et la pensee: “est”), Conche (C’est le même penser
et la pensée qu’il y a), Cassin (C'est la même chose penser et la pensée que
"est"). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula pronominale,
composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è
difesa tra gli interpreti recenti - da Reale (Lo stesso è il pensare e ciò a
causa del quale è il pensiero), Coxon (The same thing is for conceiving as is
cause of the thought conceived), Heitsch (Dasselbe aber ist Erkenntnis und das,
woraufhin Erkenntnis ist), Cerri (La stessa cosa è capire e ciò per cui si
capisce), Cordero (Thinking and that because of which there is thinking are the
same), Gemelli Marciano (Dasselbe ist zu denken und das, was den Gedanken
verursacht). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale (ciò in vista
di cui), aveva reso: Denken und des Gedankens Ziel ist eins. Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de quoi
il y a pensée). Lunga
disamina critica in Tarán 120-3. Di recente McKirahan (p. 203) ha difeso la
lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi suggestiva che
l’espressione abbia contemporaneamente anche una sfumatura finale. 100 Per
evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia
espresso nell’essere, sono state proposte varie alternative. Zeller, Burnet,
Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: a
soggetto del quale, in riferimento al quale, rispetto al quale. A conclusione
di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo)
propone in what has been expressed. A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley)
sono state tuttavia opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano 170).
La Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ,
proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta quindi: for without Being you will not
find understanding in that where understanding 167 troverai il pensare. Né102,
infatti, esiste, né esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo
ha costretto106 a essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose
saranno nome109, has been given expression. In questo caso ἐν ᾧ non si
riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula implicita per le mie parole, i versi del
mio poema. La dea spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò
che esprime νοεῖν, se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la
comprensione non è sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve
trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo
più adottata dagli interpreti recenti) che risale a Diels (denn nicht ohne das
Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken
antreffen). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non
solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in
quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον
sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν -
οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ
>... ἢ precedute da οὐδὲν come né…né. 103 La formula ἄλλο πάρεξ è
adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p.
101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e
essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di altro,
indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in
questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare
compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la
suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di
metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni
- οὖλον ἀκίνητον marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate
nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua
comprensione, come suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla
metafora dei legami e della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è
(espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della costrizione a essere
pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit. 171-2) nell'intendere τῷ
come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la
lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: to
it all things have been given as names. Lo studioso si appoggia a una
costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν
168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40]
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso
colore113. natura è data come nome a questi [processi di mescolanza e
separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque assolutamente
compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται
Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso
τῷ con valore assoluto come perciò. 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare
l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose,
eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo nome. La lezione
alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta:
wherefore it has been named all things (Gallop), attribuendo a τῷ valore
avverbiale, ma anche With reference to it [the real world], are all names given
(Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero
(Leszl p. 231) in relazione a questo è assegnato, come nome. Da osservare che
una lunga tradizione risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo
un implicito aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero mero) al sostantivo nome,
assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata
nelle versioni degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte
nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice
linguistica della ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ.
McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il senso complessivo
del passo: i 34-38 argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e
linguaggio è ciò-che-è; i 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da
ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui
essi realmente (veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è
l’oggetto dei loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule
proibite come generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di
Parmenide sarebbe che i mortali applicano all'essere commettendo un errore tutte
le designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi
all'essere stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette
che, nella espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente
significa spazio vuoto. Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una
polemica nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115
estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a
massa120 di ben rotonda121 palla122, sostenitori della esistenza del vuoto, ma
solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il
secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν è variamente tradotto. Coxon (pp. 211-2) rende con change their bright complexion to dark and
from dark to bright. Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla
successiva teoria (DKB9) della composizione degli enti. Le differenze nelle
traduzioni dipendono soprattutto dall’intendere χρόα accusativo di χρώς, colore
- come χροιά ovvero χρόα, superficie. O’Brien (p. 56) sottolinea come al
significato di complessione (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da
preferire quello più generico di colore. 114 La proposizione introdotta da ἐπεί
può omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato
verbale (come abbiamo fatto) ovvero come copula: il limite è estremo. 115
Mourelatos (pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia
progressivamente più plastica e concreta man mano che B8 procede, per
raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo
πύματος significa estremo, ultimo: in Omero indica, per esempio, il bordo
estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo
(Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza
di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha
convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali,
letteralmente disseminate nei 42-49, possono essere intese anche in senso
metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime
occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali,
ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il
contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo,
valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva
l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di
riconoscere l’eon completo da ogni lato, dall’altro di intendere tutte le
apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe
l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da
Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, tutte insieme
davvero esistenti. 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a
τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una
prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che
rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente
una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a
σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può
tradursi come massa, volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da intendersi
dunque la ben rotonda palla. Parmenide si riferisce probabilmente
all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta.
Conche suggerisce grosseur o corps. Di recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo
la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non dica che ciò-che-è è
una sfera o simile a una sfera, ma simile al corpo di una sfera, una
espressione giudicata inaspettatamente elusiva. Non si tratterebbe, infatti, né
di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua misura, né di altre
qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma della sfera, di forma o
superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente tradursi come estensione
fisica: fisica per suggerire che non si tratta di astratta nozione geometrica;
estensione, in vece di misura, per evitare la tentazione di pensarla come una
quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo tempo segnalato il fatto
che ὄγκος è espressione parmenidea per estensione tridimensionale e che il
carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la forma. 121 Come suggerisce
Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον
ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe un oggetto che, osservato da tutte le
parti, ha il contorno di un cerchio perfetto. Come abbiamo in precedenza
ricordato, Tonelli ha sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ
- riferito a τὸ ἐὸν e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica
è forma archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211)
nel tradurre σφαῖρη come palla, analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν
(giocare a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che se
l’essere fosse detto simile a una sfera, l’implicazione potrebbe essere che
esso non è veramente una sfera, mentre se è detto simile a una palla, la
giustificazione per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera.
L’espressione εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214),
che Parmenide qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la
sfera (σφαῖρη), la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου.
In ogni caso è ancora da osservare con Mourelatos (p. 126) - come la
comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto
tra la completezza di ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla
perfetta, ben-rotonda. L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della
sfera. 171 a partire dal centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è
necessario che esso non sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno
voluto cogliere dietro l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe,
quindi, a una immagine geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal
caso, non avrebbe senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece fisica.
Il sostenitore più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere
parmenideo è De Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni,
Firenze 1966): l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in
cui Parmenide avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del
fisico. L’Essere sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa,
cristallina: la realtà fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello
spazio geometrico, occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione
dei segni come indici della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich
(op. cit. 212) ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di
tutte le forme, attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del
pensiero: la somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza
dell’essere, è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo
con la verità della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti
all’essere, il termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico.
Concordiamo con Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia
quello del mondo e che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo
l’essere sia lo stesso. Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio
cui Parmenide allude con μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere non-fisico, e
funga da complemento alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il
volume della sfera), marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione,
la sua totale ed eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo
l’espressione μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza
dell’Essere: ἰσοπαλές concorda con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος
(o il femminile σφαῖρη), dunque con il soggetto sottinteso (ciò che è), non con
massa di ben rotonda palla. Dal centro alla superficie della sfera si esprime
la stessa forza (Diels, Tarán), ovvero lo stesso peso, lo stesso equilibrio, la
stessa spinta. Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e
Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una uguaglianza dinamica:
forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla periferia
e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna in
intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come uguale
a se stesso, privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico
dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte di
Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si
riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui,
invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125, da una parte o
dall’altra126. Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di
giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è
129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132. di equidistanza: ἰσοπαλές
esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in
questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità
dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano
anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10)
osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli
esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta
uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ
ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν significa né più
né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”. 128
Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente
interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che
è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien (à la similitude ) e
Conche (à l’egalité à soi-même). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso
(traducendo ἐόντος come di ciò che è), per facilitare la lettura in italiano.
Avremmo potuto impiegare il pronome di esso, ma abbiamo scelto di rimanere
aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον
ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la
pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide
ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando
l’importanza della tesi che ciò-che-è è pienamente, esprimendola in modi
differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere
il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit. 157-8) per
evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la
ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta
proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei 47-48a, che contengono una delle ragioni
a sostegno di quanto affermato ai 44b-45, rischiando così la circolarità ha
proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il v. 48b al v.
49b: Poiché è tutto inviolabile dal momento che è a se stesso da ogni parte
uguale uniformemente entro i suoi limiti rimane. In questo modo 173 A se
stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente entro i suoi limiti
rimane. ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione (riassuntiva) finale:
uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Il termine ἄσυλον evoca uno sfondo
religioso: ἀσυλία è concetto del linguaggio giuridico religioso e indica la
condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri, associati al culto, la
violenza nei confronti dei quali era perseguita, come sacrilegio, con la
condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e Parmenide, cit. 150) l’allusione
religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione del proemio. Nel
contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia della costrizione che
tiene insieme ciò che è, che gli impedisce di essere diversamente da come è:
impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi o gliene siano imposti
altri che non ha (McKirahan p. 213). 133 Parmenide afferma l’eguaglianza
dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che esclude non-essere e
possibili gradi d’essere in relazione ai suoi limiti. Come osserva Coxon (p.
216), l’Essere è universalmente uguale a se stesso nel senso che è
uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει), il quale, essendo
estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere quello che è e
identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una lettura
diversa: in riferimento alla sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un oggetto
sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così
rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come ugualmente, allo
stesso modo. Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di qualcosa che è
presente ugualmente entro i suoi limiti sia un modo di affermare che è
simmetrico. Colli (Gorgia e Parmenide,
cit. 150) traduce κύρει come tende: il verbo introdurrebbe un elemento
dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica dell’essere,
presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a espandersi
come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe presentato
dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità,
dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν
ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν
ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄
ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4, μέγ΄ ἐλαφρόν5, ἑωυτῷ πάντοσε
τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν
δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή
ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8. 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come
nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma
per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys.
180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία;
alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ
in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il
verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν
(rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: che è mite, molto
rarefatto e leggero..... Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi
fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che
suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il
testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande
acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa
forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν
(raro, rarefatto) è probabilmente da considerare un termine tecnico della
cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario,
il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon
(p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come
opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla
fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον.
Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe
allora: relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto
verosimile. 175 [Fonti principali: 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam
145-146; 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione
dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da
Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di
poco: così che nessuno dei mortali possa esserti superiore nell'opinione ovvero
nel giudizio (o practical judgement Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio
riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in
παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1
e al pensiero intorno a Verità2; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5
impara6, l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11. 1
L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a
νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo
preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης
che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe
rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης e si deve comunque intendere - anche come pensiero
intorno alla realtà. 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione
l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco
della Doxa da ἀπὸ τοῦδε μάνθανε. 4
Ovvero convinzioni o considerazioni. 5 L'espressione δόξας βροτείας in
considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse
rendersi semplicemente con opinioni umane. 6 L'imperativo μάνθανε riprende,
nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di
B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico" che il verbo
venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma
l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione
rigorosa ed esaustiva. Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω,
senza dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza
dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ (conoscerai), πεύσῃ
(apprenderai), εἰδήσεις (conoscerai). Lo stesso B11 doveva esordire con
un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta
dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere
κόσμον ἐπέων come costrutto verbale, sintassi verbale. In ogni modo è da
preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien 57:
arrangement) nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come
possibilità anche forma. Nella cultura arcaica l'espressione ricorre tra
l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV secolo in
Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la composizione,
l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come composition,
sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua congruità con il
successivo διάκοσμος, sistema, che la composizione deve esporre. Una
interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère ("Parménide et
l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur Parménide cit., vol.
II 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come complemento indiretto (dalle
mie parole) di ἀκούων, e κόσμον come ordine del mondo. Robbiano (op. cit. 182)
avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in Parmenide il suo valore omerico
(disposizione ordinata che è conveniente, che funziona e che è anche bella da
vedere: il prodotto di un essere intelligente), precedente al riferimento (che
per altro conservava aspetti della accezione originaria) all'universo (per la
prima volta forse in Eraclito B30). Nello specifico, secondo la studiosa,
kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e della parola umana: a ciò che
vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a ciò che (e come) le cose sono
nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire",
cit. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di
cui la dea parla: da questo punto in avanti, impara le opinioni mortali,
venendo a conoscere (attraverso l'ascolto) il mondo ingannevole cui le mie
parole si riferiscono. È possibile che le affermazioni di cui consta la Doxa,
la teoria che essa contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano
correttamente un mondo di per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà
quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea
l'autorità della comunicazione e l'assunzione di responsabilità nell'introduzione
della sezione sulla Doxa: analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί
(B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di
κόσμον ἐπέων a λόγος: discorso poetico sarebbe contrapposto a discorso
razionale. D'altra parte la cultura del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e
δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia,
disposto a esagerarne, nel contesto, le implicazioni: in particolare,
l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole che seguono sarebbero solo
relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur impiegando parole secondo
le regole della grammatica e della poesia, non potrà evitare che il suo
discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato
ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la propria
aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit. 201) il rilievo
circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per il
corrispettivo moderno, ingannevole, piuttosto suscettibile di ingannare. La sua resa francese è la seguente: [un ordre du monde], où l'on peut se
trompeur. Lo
studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν ἐπέων
un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un complemento di ἀκούων (p.
199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con seducente: Ruggiu nel suo
commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo vada colto nella
relazione di apertura alla verità e all'errore (come sarebbe proprio di ogni
seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha
valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la
decisione13, infatti14, di dar nome15 a due16 forme17, ἀπατηλὸν: è la stessa
combinazione di parole a celare la tensione di idee contrarie. L'espressione
κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare veritativamente, appropriatamente: la
polarità κόσμος-ἀπάτη segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che
l'ordinamento delle parole della dea o il loro contesto può suggerire
molteplici e\o confliggenti significati. In questo senso Mourelatos invita a
tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα (simili a cose vere, Teogonia
27) e l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi come come double talk, Teogonia
229), che Esiodo intenderebbe deliberata e maliziosa. Affascinante
l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne
ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da parte di Parmenide: i
mortali praticano "anfilogia" innocentemente (senza saperlo), cadendo
quindi in errore; la dea usa l'anfilogia in modo pienamente consapevole,
svelando quindi la verità sulle opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p.
219), ritiene che il modello dualistico proposto nella Doxa possa risalire al
pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia comunque come soggetto
genericamente gli esseri umani, cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi
di questo verso e quanto sostenuto nei 34-41. Tuttavia il problema del soggetto
del verbo si pone: Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile
pensare che tutti i mortali possano essere assunti come dualisti, e decide di
indicare come soggetto alcuni (certains). Seguendo la proposta di Ebert
("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des
Parmenides", cit.) di leggere la sequenza dei 34-41 dopo il v. 52, il
soggetto di κατέθεντο (e dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe
βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit. 261) ritiene, per
esempio, che, diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno)
di B6, i βροτοί di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti
solo su un punto preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi
(κατέθεντο, ἐκρίναντο, ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della
Dea a un lontano passato. Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit. 92) γνώμη
κατατίσθεσθαι sarebbe da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono
nel nostro caso κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come recorded their decision,
decided to name. Si potrebbe rendere come si decisero a nominare. In
alternativa si potrebbe costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο
(stabilirono) μορφὰς δύο (due forme) e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν
valore finale (per dar nome), con γνώμας come oggetto diretto: stabilirono due
forme per dar nome ai loro punti di vista (soluzione vicina a quella adottata
da Cerri). O ancora, considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come
oggetti retti da κατέθεντο (posero due forme 179 [come] principi per nominare).
Cordero fa, invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce
quindi: They estabilished two viewpoints to name external forms. Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit. 278-9) propone una soluzione
analoga, intendendo γνώμας come marque
signifiante; ne risulta: En effect, ils proposèrent deux formes pour nommer les
marques signifiantes. Pur essendo la struttura della frase molto diversa,
nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p.
190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo
caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto del fatto
che· i vari significati del termine
γνώμη sono riconducibili essenzialmente a giudicare, pensare e
(conseguentemente) decidere; nel
contesto γνώμας si dovrebbe rendere con opinioni, giudizi, punti di vista;
(iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione
dovrebbe risultare: [Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla
base delle [loro] opinioni; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso
come accusativo di relazione (Frére: en leurs jugements) tutto ciò considerato,
optiamo per la soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come
risolvettero i [loro] punti di vista e dunque tradurre presero la decisione, si
decisero a. Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra
nel verso una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica"
della sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la
tensione tra γνώμην κατέθεντο (essi decisero) e κατέθεντο δύο γνώμας
(l'opposto: essi erano di due opinioni, vacillavano; situazione che può
richiamare quanto espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides et Presocratic
Philosophy, cit. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso
nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le affermazioni
della dea nei 51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di
"restaurare" i 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che
segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di
vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica
un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄
ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose
saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo
stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ
μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον
ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono,
e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli
uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di
restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo
effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è
indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto
in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16
Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia
una doppia associazione, traducendo: i mortali con doppia mente hanno dato nome
a due forme. La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di
B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246)
quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due)
sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente
la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare
direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ
μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò
che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone). Nella stessa
direzione Robbiano, che vede nelle due forme opposte la possibilità di ridurre
il molteplice dell'esperienza to a minimal number of categories. Per rimanere
vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By Being, It Is, cit. 156) insiste
per rendere μορφαί come external forms. Analogamente Frére (p. 204) che opta
per figures, anche alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo
e aspetto fisico - e Mourelatos, che rende con perceptible forms. Granger (“The
Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit. 112) osserva come la
scelta di μορφαί (che significa appunto anche forme esteriori, apparenze per un
osservatore) potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà
alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20:
in ciò sono andati fuori strada21. 18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν
è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina nell'antichità!). La
traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine
accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle
due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è
di troppo (ci si riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e
Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe
l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di
Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in quanto: da un punto di vista linguistico intende μίαν
come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in μίαν il significato di una
delle due); da un punto di vista
interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra.
Una seconda linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da
Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme,
di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato
da Raven: two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without
the other). Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da
Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner,
Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν:
i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna
delle due avrebbe dovuto essere nominata: mortals have decided to name two
Forms, of which it is not right to name (so much as) one. La Curd l'ha
riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come enantiomorfe.
Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν)
che il testo greco non propone. Una quarta possibile interpretazione è quella
che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di Diels
(1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein
und Doxa bei Parmenides", Wiener Studien, 1953 53 ss.) e poi adottata da
Tarán (for they decided to name two forms, a unity of which is not necessary),
Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi che non si possono
ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non
può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a
entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso numerico) deve
essere una unità delle δύο μορφαί. Insomma l'errore consisterebbe nel porre due
forme e nel non cogliere che sono riconducibili a un'unica realtà (l'essere).
Fondamentale dunque l'accurata traduzione di Schwabl dei 53-4, che alcuni
ritengono l'unica grammaticalmente accettabile (Mansfeld 126): denn sie legten
ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h.
eine einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in
diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura
sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a
Zeller-Mondolfo, Eleati, cit. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit. 169-170) ha
contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è
one of these, portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν
μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non
all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19
Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi
della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo
scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla
relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus,
Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959 117-120.
20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito:
sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide
utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν.
21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a si sono sbagliati:
conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso
del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi
dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare,
πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante
che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In
questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai
pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura
dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo
ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto
un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit. 104
ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato
la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, oggetti che sono
immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25
nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro
definiti in termini di ciò che l'altro non è (p. 107), dunque in una
sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula in questo essi
si sono ingannati concorrerebbe a restringere la validità del termine
ingannevole alle opinioni mortali criticate in 8.54- 9, così da aprire la
possibilità di una nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ
χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che
segue, poi corretto dalla appropriata Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon
(p. 221) nel rendere secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο
come scelsero. Anche in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta
dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro
soggetto, per cui alcuni presero la decisione di dar nome a due forme e alcuni
invece scelsero... e segni imposero? Optiamo per la continuità di un soggetto
indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non
è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la
Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24
Forzando l'interpretazione, sottintendiamo elementi (e non genericamente cose)
nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία.
Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i segni con cui
sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di elemento, con
cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine forma. 25 Alcuni interpreti
(per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio (in modo
contrario, oppositivamente) riferendolo alle due forme nominate, relativamente
al corpo (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come
oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon,
dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo.
Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a
corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera
le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato
omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al
valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per
sovrapposizione di linee uguali), egli individua struttura come resa più
sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di
segni di lingua, parole. Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p.
131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo
fuoco29, che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico31,
coglie una ripresa della disgiunzione (κρίσις) di B2 e delle proprietà
dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale,
per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che
Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è
costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia luce-notte
rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti pitagorica.
Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the Origins of
Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New
York 1960) 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta
della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, accendere, infiammare) come
celestial light, originariamente indicante una condizione del cielo e solo
derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore
dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo,
insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato, finendo
nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora attesta
Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi)
sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο.
30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con mite, che nel contesto, dopo il
richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa
Cerri (p. 249) propone utile o propizio. Ma anche questa soluzione, soprattutto
nel confronto oppositivo con i segni di notte oscura, appare poco convincente.
Manteniamo mite, nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di non
intenso. 31 La due forme - fuoco etereo e notte oscura - sono poste a un tempo
con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con la non-identità
rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per
l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione
adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto
in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit. 281
ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei
mortali in questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere:
ciò consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni
parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140) individua nei segni
con cui Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di elemento:
185 rispetto all’altro, invece, non identico32; dall’altra parte, anche quello
in se stesso33, le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e
pesante36. proprio auto-identità e non-identità rispetto alla forma contraria
ne sarebbero i costitutivi concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo
rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce
Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit. 288) non aver saputo cogliere fino in
fondo la legge della identità e non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte
dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le schiere
scriteriate (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι
ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali
esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa. A
questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of
Mortals", in Presocratic Philosophy, cit. 111). Mansfeld (pp. 133-4) ha
osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella delle due forme:
l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità delle
forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi concede allo
stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit. 55) ha invece
sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno dall'altro, ognuno
completamente identico a sé e differente dall'opposto - non si mescolino in
alcun modo l'uno con l'altro: la loro separazione radicale sarebbe dunque,
linguisticamente e filosoficamente, contraria alla pervasiva confusione di
essere e non-essere denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I 240) legge κατ΄ αὐτό
τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale (gerade) e κατὰ reggesse τἀντία
(all'opposto). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come τά + ἀντία (gli
opposti, le cose opposte), come oggetto indeterminato del verbo reggente (ἐκρίναντο),
utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e le sue connotazioni. 35
L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere, percepire, conoscere
(costruzione con alfa privativo del verbo δάω, imparare, conoscere, percepire):
absence de sens, secondo O'Brien (p. 60), ma anche absence de lumière (δαίω).
Liddell-Scott indica come secondo valore oscuro, proprio in questa occorrenza
nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo ordinamento37, del tutto38
appropriato 39, per te40 io41 espongo42, 223) preferisce rendere l'aggettivo in
senso attivo come unintelligent. O'Brien in francese rende con l'obscure nuit,
in inglese offre una versione più sfumata: dull mindless night. È da notare
come questa connotazione di Notte possa essere intesa in senso epistemico
negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò potrebbe aver spinto
all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si veda Granger
(op. 113). Da osservare inoltre che
alcune delle caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e
densità) richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa,
oscura, fredda (per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e
sui caratteri degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il
contributo di Kahn 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano
come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico,
ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile
dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà. 36
Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle due
forme tre distinti aspetti: denominativo
(αἰθέριον πῦρ/νύξ), teoreticoconoscitivo
(ἤπιον/ἀδαῆ), fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν
δέμας ἐμϐριθές τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della
comune autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230)
coglie nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare ordine del
mondo, ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una
cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5),
l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di
segregazione, divisione: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per
indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale
διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano, riprendendo la propria
interpretazione del termine κόσμος, osserva come διάκοσμος sia qui utilizzato
per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto della realtà, non
esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed esprimere la realtà
usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit. 64-5) osserva,
invece, come il termine diakosmos implichi un intreccio delle due forme, che
prelude alla introduzione della nozione di mescolanza, impiegata per la Doxa
“appropriata”. In questo senso, le espressioni ordine ingannevole delle mie
parole e ordinamento del mondo del tutto appropriato denoterebbero due diversi
livelli e obiettivi della Doxa: è importante che essi non siano confusi (pp.
67-8). 187 38 Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo,
concordato con τόν διάκοσμον: this whole ordering [system, framework];
l'ordonnance totale. 39 Il significato del participio ἐοικώς usato con valore
assoluto è secondo Liddell-Scott seeming like, like ovvero fitting, seemly. La
verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle
due forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per
connotare la doxa, Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione
positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu
scelgono comunque di rendere ἐοικώς come veritiero, seguendo Schwabl e il suo
suggerimento di leggere l'aggettivo sulla base del linguaggio spontaneo di
Omero (p. 323), piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero
effettivamente il significato prevalente di εἰκώς è appropriato, adeguato.
Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane
B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti.
Anche Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, cit. 264-5)
sottolinea la positività del termine, optando per il valore di conveniente,
adeguato, analogo a quello (appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe
al giovane la propria intenzione di esporre l'ordinamento delle cose che
conviene, cioè tenendo conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di
diverso avviso Mourelatos (p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe
lo stesso gioco di positività e negatività che in genere impronta la Doxa
parmenidea: per i mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe adeguato,
appropriato, probabile, per la dea e il kouros apparente. Per Robbiano (op.
cit. 183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione
negativa che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl
osserva (p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come
ordine (disposizione di cose) conveniente, ritenendo che ἐοικώς non possa qui
valere come simile (a qualcosa), in quanto sarebbe assente il termine di
paragone. Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52
(κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della
falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in
effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente:
l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi
personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il
destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di
interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea
attribuisca la decisione di nominare due forme e la scelta di luce e notte agli
esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella
invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς)
è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44. suo. Un
aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit. 71): il pronome personale ἐγώ, in
greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo
di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole a quella
appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come io dichiaro, modificando la
struttura della frase: This order of things I declare to you to be likely in
its entirety. Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit. 262-3) sottolinea
come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare una
promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la Dea
nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il
sostantivo φάτις in effetti significa parola, in particolare la parola di un
dio o di un oracolo; ma anche ciò che si dice di qualcuno, una voce e, di
conseguenza, la rinomanza. Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui
valore oscilla tra verità e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea,
φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere
al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come uomo divino
(θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio alla
proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così acquisito
dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva della sezione
sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère 209) come φατίζω rinvii,
all'interno di questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv.
35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43
Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da
pensiero, giudizio, opinione, a decisione, massima pratica, proposito.
Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non
indicasse semplicemente altre opinioni, altri giudizi dei mortali, ma una forma
di "saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati
"gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si
riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come wisdom e Couloubaritsis
come savoir. 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di passare, superare.
Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al vocabolario delle
corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel
superamento/sorpasso (outstrip), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno
(outwit). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di portare fuori strada,
sviare, seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la traduzione più
comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva l'interpretazione
"dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento, il migliore
possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma pur sempre
"ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è quella di 189
Granger (op. cit. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire
il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie.
Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i
difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato,
nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più
ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva
marcato come i due versi finali del frammento non affermino che la ragione per
esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che l’intero
ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare Parmenide.
190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας
δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων
ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1
La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta
dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate1, e queste2, secondo le rispettive3 proprietà4, [sono
state attribuite] a queste cose e a quelle5, tutto6 è pieno ugualmente7 di luce
e notte invisibile8, 1 Coxon difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal
momento che in B8.53-59 si parla di nominare due forme, luce e notte dovrebbero
essere soggetto della proposizione, mentre tutte le cose diventerebbe
predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di
enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p.
161), seguito da Conche, si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da
altri (per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon,
Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo
con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle.
3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo
(proprie) o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da
attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e
Coxon (p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro
avviso giustamente, interpreta come le qualità opposte associate a luce e
notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις.
In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità
essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa
è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con
meanings. Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere
della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ
τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri.
6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a tutte le cose, alla
totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di
luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda
lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon
(p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta
questa lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un
tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie (vol.
II 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p.
328) esplicitamente sottolinea come ogni cosa sia costituita insieme e
ugualmente di Luce e Notte. 192 di entrambe alla pari9, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla 10. 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come insieme,
allo stesso tempo, egualmente. Se il valore sia da intendere nel senso di una
rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου
è usato per marcare come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur
qualcosa (Coxon p. 233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere
valore quantitativo - come fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio,
Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come i due principi debbano
essere quantitativamente equipollenti ovvero, come preferisce Tarán (p. 163),
interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o
potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε
πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra
alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici.
Le due forme concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità
nell'opposizione assicura la stabilità del mondo (Conche 201). L'idea di un
equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione
quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente
tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo senso
complessivo: Diels, Burnet, Reinhardt,
Cornford, Riezler, Untersteiner: poichè nessuna delle due ha potere sull'altra; H. Gomperz, Coxon: con nessuna delle due c'è
il vuoto; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos,
Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: poiché insieme a nessuna delle due
è il nulla (ovvero, Mourelatos: since nothingness partakes in neither); (iv)
Zafiropulo, Casertano: perché non esiste alcunché che non dipenda dall'una e
dall'altra; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·perché non c'è
nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei principi; (vi) Guthrie,
Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: poiché niente partecipa di nessuna delle
due. Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra marcare con
decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle opinioni mortali
criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo della Dea
ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti l'Essere. La
lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν εἰ δὲ μηδετέρωι μέταμη δέ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω
καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se insieme a
nessuna delle due è il nulla, egli dice chiaramente che entrambi sono principi
e che sono opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino
sulla questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico secondo lo
studioso anglosassone (p. 234) μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui
esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul
pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.
[Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli
editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno
corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice
di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma
ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195
Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma
dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8, 1 La forma
del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il
valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura
programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il
termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come nascita:
Parmenide non si proporrebbe di esporre la costituzione o l'essenza (Diels
traduceva con Wesen) dell'etere o della luna, analizzarne la composizione, ma
di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei costituenti del mondo e
la genesi dei fenomeni (Conche 204-5). Non pare tuttavia naturale rendere
l'espressione αἰθερίαν φύσιν come la nascita dell'etere, né necessario
intendere natura come essenza: il riferimento alla costituzione dei fenomeni
implica, nel caso della cosmogonia della Doxa, illustrarne l'origine. 3 Dalla
testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo intravedere come Parmenide
intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale si muovono gli
astri, e ἀήρ, invece, si riferisse all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso
della superficie terrestre, più densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα
assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica (Omero): gli astri
intesi in generale come segni per l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, pura, ha
un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato
in questo verso nel senso di splendente (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di
purezza anche in senso religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa
lunga) con valore di splendente, da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa
breve), per ragioni metriche (Cerri 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è
attestata in Omero, dove significa azioni odiose (Iliade V, 897): in questo
contesto si potrebbe rendere come fanno molti traduttori - come operazioni
distruttive. Ma l'aggettivo ἀΐδηλος costruito con alfa privativo e la radice ἰδ-
di vedere - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile
(dunque distruttivo), quanto la indisponibilità alla vista (quindi oscuro,
ignoto). Nell'insieme il significato di invisibile appare più convincente.
Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva
connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua
traduzione les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil
rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica
generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella
misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla
componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna
dall’occhio rotondo10, [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che
tutto intorno cinge12, donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo
vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque
dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo
medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in
precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe
altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel
tradurre ἔργα περίφοιτα come opere periodiche, evitando vaganti, troppo
generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ
traducono nel contesto come revolving): quello di una ripetizione costante: già
nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4
periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di
sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce
riferire a senso περίφοιτα a σελήνης (della luna errante). 10 Qui κύκλωψ ha il
valore di occhio rotondo (LSJ round-eyed) e non si riferisce ovviamente al
gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come scelgono
di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe rendersi
con il suo valore etimologico di origine, nascimento. 12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα (letteralmente cielo che tiene intorno) si riferisce alla funzione del
cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé
l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la
Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla
spiegazione a partire dall'origine (Conche 209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a
governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti (ἐπέδησεν
πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità;
qui garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230)
sottolinea la relazione di somiglianza, analoga a quella che intercorre (in
conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere. 15 Letteralmente legò (ἐπέδησεν):
torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con sé (Cerri 262).
16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς
ἔχοντα) e limitante rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK
B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος
ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2. [Simplicio, In Aristotelis De
Caelo 559] 1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano
γίνεσθαι. 198 come Terra e Sole e Luna,
l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo estremo3 e degli astri l'ardente
forza4 ebbero impulso5 a generarsi6. 1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce
probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello spazio etereo. 2
La formula greca - γάλα οὐράνιον significa letteralmente latte celeste. L'uso
dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche 211) che per Parmenide la
Via Lattea fosse composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος
- Olimpo ultimo o Olimpo estremo - si riferisce chiaramente a quanto sopra
abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, il cielo che tutto attorno
cinge. Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in
circolo il corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo
un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di
forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea
degli astri. 5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che
sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo
di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza
immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è comunque in continuità con il tema
cosmogonico-cosmologico del precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1
πυρὸς ἀκρήτοιο2, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ
τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5]
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3
Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; 2-6 Simplicio, In Aristotelis Physicam
31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E),
ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο (adottato da
Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori contemporanei
sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται,
che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista paleografico; altri la
forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο
è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο
(edizione aldina). 3 Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο,
problematico a livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del
pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere
πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri,
appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti
editori contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si
tratterebbe comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili), di congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di
Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si
trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2, infatti, si
riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma
insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con
valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a
στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come
corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano
le citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura
delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio,
nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo
sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si
riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι
qualificherebbe quelle più strette, ovvero quelle interne, dunque le corone più
vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels
proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle
corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del
sistema cosmico: la coppia di corone non
mescolate (quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta
al centro costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta solida e il
suo interno infuocato (fuoco vulcanico);
quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura Notte)
parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero
come cielo che tiene tutto intorno, οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla
corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο)
di πίμπλημι significa decisamente divennero\furono riempite: Parmenide sta
dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon 237). 4 L'espressione αἱ
δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente quelle sopra [ovvero dopo] queste: per
mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con le
successive (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono
riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali corone si
alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe
delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica (composte di "elemento
puro", di Fuoco all'interno, di Notte all'esterno); corone
"miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente
(ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti cosmogonici: il valore
dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la
Dea8 che tutte le cose governa9. 6 Letteralmente αἶσα termine omerico - si
dovrebbe tradurre con parte. Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara
negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è
ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al
centro dell'universo o al centro delle corone miste. Nel contesto la seconda
sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la
δαίμων con una delle corone miste: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone
frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere
con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della
Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio,
evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ
τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον
ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ
α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta
in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha
suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων
parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν,
τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa ben composta,
l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione
δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente
connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una
divinità suprema che governa l'universo. Coxon
Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12,
[5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il
maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui
il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più
appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della Dea che
tutto governa (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di presiede,
sovrintende. Si potrebbe rendere anche come è principio di ovvero è all'origine
di. 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, avere in orrore) rivelerebbe il pessimismo
di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato
soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche 225 ss.) che in
questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla
genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire
come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo
proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo doloroso [ovvero duro]
parto (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non
ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come
unione sessuale, coito (Cerri), amplesso (Tonelli). In realtà non si deve
dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di
maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme
aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile)
alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta
Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla
notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone,
Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos
IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v.
1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204 Primo tra gli dei tutti ella1
concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12. 2 Traduciamo in questo modo
(ambiguamente) μητίσατο: il senso nel contesto garantito dalle testimonianze di
Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto),
Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece
esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di B12) - dovrebbe essere
quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è meditare, deliberare,
pianificare. Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale (Coxon
243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco,
Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il
codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος.
di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3 1 Il
composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente di notte visibile\splendente.
Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo
elemento ha valore di determinazione temporale (di notte). Questo è il senso
che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: brillant la
nuit, contestando la poco convincente resa di Coxon (shining like night?!).
L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια
νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla
luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione in
riferimento al Sole: νυκτικρυφές, di notte nascosto. Rivendicato da Jaeger come
citazione parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione
Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον
riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4
Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης (le opere
periodiche della luna dall'occhio rotondo), alludendo già con περίφοιτα al
regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione
sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da
Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον
φῶς, da intendere letteralmente come luce altrui, si riferisce alla luce
riflessa della luna (luce presa in prestito, come traduce Conche). Parmenide
consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς (straniero).
Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς,
luce propria. Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν
ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce
non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος,... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ]
νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole,...
colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore
della Metafisica - W.D. Ross in questo caso Aristotele non avrebbe citato
Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide
(νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco,
Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre
volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe
letteralmente tradursi come guardando attentamente. Come segnala Cerri (p.
276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della
relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna
innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in
Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di
fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς
vale non solo raggi ma anche sguardi. 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον
[εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi
dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si
sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è
quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è
effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione
genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra,
semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia
alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di
diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco,
Torino 1949 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una
allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ
ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5
· τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί·
τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21;
Teofrasto, De sensu, 3; 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis
Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi) 277; 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος
(ciascuno), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di
Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien,
Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici
aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2
Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E)
aristotelico a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega
Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche
scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della
scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative.
3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν).
Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán,
KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer)
preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in
proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων
(dai molteplici movimenti). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito dagli
editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e Asclepio)
riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora
difeso da Passa 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata l'impossibilità
metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto παρέστηκε (che ha
esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La forma παρέστηκεν è
degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto riportano ἐστὶ; quello di
Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2
di membra3 molto vaganti4, così il pensiero5 si presenta agli uomini6: poiché è
precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa
costruzione personale sono state proposte diverse possibili candidature al
ruolo di soggetto del verbo: νόος del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto
rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς), ovvero, adottando il testo greco di
Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto implicito (Cerri: qualcuno,
ciascuno, l'uomo) o sottinteso (Ferrari: τις βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν
in κρᾶσις, hanno fatto della mescolanza il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un
valore più forte di μῖξις: quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non
sia più possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖξις,
semplice mescolanza). La κρᾶσις trasforma gli elementi in una nuova entità
unitaria e armonica: per questo il termine viene reso con fusione (Ferrari)
ovvero impasto (Cerri), unione (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla
scorta della testimonianza di Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama
presuppone una composizione variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi
come temperamento, anche in considerazione della lezione che giunge dalla
tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a
quella di riconduzione del molteplice a unità (Stemich 157 ss.). 3 Ricordiamo
che nei poemi omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente
intendiamo con corpo, bensì il suo contrario, il cadavere. Omero non
rappresenta il corpo dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti
termini per lo più al plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo
con membra. Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα
non sono dunque gli organi di senso (Diels) o gli elementi (Schwabl), ma il
corpo, come ha ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta
di Cassin-Narcy (B. Cassin M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur
Parménide, cit., II 289) di mantenere al termine la doppia significazione,
riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti
universali. 4 Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come
temperamento di membra molto vaganti [erranti], intendendola riferita all'unità
del corpo umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano
in molte direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con pensiero ritenendo che in questo
caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua
215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9, condizione
in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il
loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la Dea non
ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore
descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani tutti (καὶ πᾶσιν καὶ
παντί). 7 Ricostruzione letterale dei 2b-4a: perché è la stessa cosa ciò che
pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων φύσις) negli
uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί). Nella
letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche
Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo νόος
come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e φύσις
soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente la
stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in
ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli
altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un
tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: la natura delle membra è negli uomini la
stessa cosa che [essa] pensa. Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien,
Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale,
che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό
il soggetto di ἔστιν: la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle membra
pensa negli uomini. In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ
παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo in
questo contesto φύσις come natura, costituzione (μελέων φύσις: costituzione del
corpo). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit. 189) intende φύσις come
essenza: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo, operebbe una fusione
nella molteplicità delle membra. Tonelli riprende nella sua traduzione queste
indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come corpo, secondo l'uso omerico
segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che prevale10, infatti, è il
pensiero11. 10 In questo caso intendiamo πλέον come comparativo di πολύ
(molto): τὸ πλέον non vale dunque il pieno (πλέος aggettivo: pieno), ma il più,
quanto prevale, riferito, a quanto si ricava dal contesto della citazione
teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto
interpreta infatti: la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale
(κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come
il pieno, interessante la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a
lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe
il frammento per marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento
che prevale, ma una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così,
quando una certa proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel
corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il
risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87)
interpreta the plenum come the subject whose nature has been expounded in the
Way of Truth: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente
M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides
von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010 187, ha proposto di leggere τὸ come
pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e
ipotizzando una relativa in funzione di completamento: [denn dies ist mehr das
Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt. 11 Qui νόημα è decisamente il
risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ
2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν
è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo
di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ
(Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come
inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due
forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di
Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς
μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως
ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito
nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi
andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque
simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus
Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine
pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt
semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV,
9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e
maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3,
che [deriva] da sangue4 opposto5, conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non
diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6. 1 Dalla parafrasi
di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui
Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero
entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad
Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di
Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις (potenza, forza,
qualità, proprietà). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori
o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di diverso ex sanguine
suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon 254). 4
Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente
maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la
posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal
cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche
(p. 262), diversus non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue
maschile e femminile, il significato di opposto, contrario. 6 Si allude alla
situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile
sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne
separatemente (Coxon 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄
ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di
Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio
riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in questo
modo1, secondo opinione2, queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6, 1 La
formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una
ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso
precedente (Conche 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema,
nella quale la Dea affrontava come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare
legittimo tradurre κατὰ δόξαν come secondo opinione. In realtà, molti scelgono
di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come secondo
parvenza, secondo apparenza (Tonelli), selon ce qui semble (Conche), according
to belief (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la
Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di vista
dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire da τὰ
δοκοῦντα (le cose che appaiono e sono assunte sulla base della esperienza:
Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν),
ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε):
nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua
interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione
platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma
anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2
mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana
con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare
l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν
nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce
alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: queste cose qui, di cui il
discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo
greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge
sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι:
il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono
comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come
segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato,
è chiaro come in questo passo queste cose siano connotate da un punto di vista
temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato,
presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω,
τελευτάω) contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται,
ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno
fine8. A queste cose, invece9, un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12
per ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente dopo,
a partire da ora) contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε
collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι
τραφέντα consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri 289): la combinazione di futuro medio e participio
aoristo può intendersi nel senso del compimento dell'azione indicata dal
participio, quindi: porteranno a termine la propria crescita; ovvero nel senso di una cessazione di quell'azione,
quindi: cesseranno di crescere (si interromperà il oro sviluppo); o ancora
(iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal
participio: una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine. 9 Sottolineiamo il
valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a
conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in
B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione
diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in
questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una
ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama
puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce
la più tipica movenza della "composizione ad anello". 12 L'aggettivo ἐπίσημος
si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα) di distinguere,
contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere, crescere, morire
è sovrapposta la relativa stabilità del nome. Sesto Empirico, unica nostra
fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne
contestualizza il proemio in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ
μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν,
τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν
αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il
discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo intendo
quello che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico,
cioè quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle
sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv.
Math.). Il successivo commento, nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta
con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli
condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera
approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia,
conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo
a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους
μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ
τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον
θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2.
3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν
τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν
δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς
ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι
τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’
[14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη
[22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’
[29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας... ἀληθής’
[30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi
Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri
irrazionali dell'anima, e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della
divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale
ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3);
le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito
laddove dice due rotanti cerchi (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie,
attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9),
che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno verso la luce> (10),
poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la
Giustizia che molto punisce e che tiene le chiavi dall'uso alterno (14),
[intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo
accoglie e promette di insegnare queste due cose: il cuore saldo di verità ben
persuasiva (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e l'altra le
opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità (30), cioè tutto quanto
ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine del XIX secolo
dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è reagito al
rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea, recuperando, proprio
nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili suggestioni
culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la relazione con i
successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo
tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata
cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per
apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della
tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed
esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels
valorizzava in particolare1: il modello
della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato
soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua
stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle
Muse in Teogonia, 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’
ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma
sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della
“doppia via” (verità ed errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra
miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287
ss.); il modello della poesia orfica, di
cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne
l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee (misteri)
e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava l’ampia
incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del pessimismo
(Pessimismus) di questo movimento di riforma (Reformation) anche nel
razionalismo (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels, Parmenides
Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem
neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De
Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897) 12 ss.
228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla tradizione dei
leggendari profeti del misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo)
che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso
della forma poetica (rivestimento poetico, poetische Einkleidung) privilegiata
da Epimenide per la propria rivelazione (Offenbarung), ritroveremmo, per
esempio, il prototipo della narrazione in prima persona (Icherzählung) di
un’esperienza di Incubation, quale riferita da Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε
καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν
μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει
διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο
μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων
λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης γὰρ > ἡμέρας ἐν
Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς
θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene anche un altro
Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli sia stato
maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto
che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi,
afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa
materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato
un lungo sonno con un sogno. Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome
Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti
termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo,
rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno
con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1.
Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί,
in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle
credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a
livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto
al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo
diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà
trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe
incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il viaggio celeste
(Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale,
il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore
cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito
contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del
suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come
mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un
filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico,
avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità
(assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al
testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno
spessore originale2. 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si
intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo
dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si
tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia,
Bruxelles 2008, cap. II "Le Proème comme producteur de chemins".
Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J.
Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays
and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la
propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in
the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura
dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ
φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering
Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London New York 2009: le
pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta
lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta
in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di
recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3, il proemio parmenideo non è
inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per
comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto
storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare
un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie
delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio
iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che
l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a
un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e
partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la
comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle
citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele)
che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la
tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del
proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo da
parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni
motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche nella
prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare all’intimo
nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare
l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto,
comunicazione divina della parola (μῦθος) e verità (Ἀληθείη). Rimane ancora
molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:
Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du
début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques",
Philosophie Antique, 7, 2007 (Présocratiques) 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12.
231
Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di
Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di
autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società
greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il
mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse
ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare
alcune divinità per celebrare con parole e musica quelle grandi opere e
l’intero suo ordinamento4. A tale scopo, per onorare la bellezza dell’edificio
cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le
Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del canto
(originariamente identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il
grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che
l’essere delle cose si riveli nella parola con la sua divinità5: ogni mito
genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla
sua manifestazione originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del mito è
intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui
l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri uomini,
l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in profondità
in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia
greca palesa la recettività del poeta: l’ osserva Otto - non si apre con la superbia
(tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi
ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo
senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure il poeta (tipicamente
per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che
canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si
distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua
è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito,
a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993 43-44. 5 W.F. Otto, Il mito
(1955), ivi 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un maestro di
verità (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che suggerire: per questo
poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la tradizione omerica)
rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella dei “mortali”. Donde
il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6. Parmenide e la poesia
Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si avrà opportunità di
rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto nel plasmare
l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un fatto,
tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la forma
del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti designato
come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2)
l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla
formula e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας):
il giovane (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a prendersi cura (κόμισαι) del
μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci
arcaici per parola ritroviamo dunque nel poema:
μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è
realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che
stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che
è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di ragione) 7, della
parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος
a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, giudica con il ragionamento)
l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon Otto, Il
mito e la parola, in Id., Il mito, cit. 30-32. 233 Già nel registro verbale è
possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel
rilevare la contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la
razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto
nella ripresa della forma e del metro epico una modalità espressiva appropriata
alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è costituito, insieme, da le
cose che sono, quelle che sono state e quelle che saranno (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα
πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28),
da intendere come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore
primario è la Verità (Realtà), attribuire a una divinità la rivelazione del
contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la
tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come
manifestazione del divino stesso9. È questo, allora, il motivo che induce
all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il
discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la possibilità di una
“comunicazione vera”, di un autentico contatto (Vernant) con il divino10?
Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla
luce dei suoi possibili modelli di riferimento:
l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia
epica), ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e
Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura
poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato
per il medium della rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata
e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I
frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura
di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu,
Rusconi, Milano 1991 155- 156. 9 Ivi 160. 10 Wilkinson 67. 11 Parmenide di
Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di
G. Cerri, BUR, Milano 1999 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12; ma è
anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato
quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di
due prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente
caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si
iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria
autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia
comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande
rilievo nella letteratura critica13. Poesia, educazione e vita Proprio
considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli
espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un
processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui
il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà
funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato
a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in
passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo
della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga).
Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: la ripresa di un motivo, quello del viaggio,
centrale non solo nella letteratura omerica ma anche in quella religiosa; la meta del viaggio: l’incontro con la
divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della
rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere
nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton
University Press, Princeton 1965 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai
contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235
un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale
ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale
opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi
epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre
educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi
fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una
materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al
pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14.
Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se -
ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e
occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in
prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva
aspettarsi: una comunicazione di
verità; la proposta di un modello di
comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI
e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica
arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide
abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza
comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto
culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo
senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo
alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e
memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e
analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma in piena
autonomia a nuovi concetti e formule astratte16. 14 C. Robbiano,
Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International
Pre-Platonic Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006 42. 15 . 16 M.
Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt
2008 30-31. 236
Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio, conserva
senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per recuperare
creativamente temi e motivi della tradizione in funzione didascalica, insieme
al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto stesso del proemio, cioè
l’abitudine di far cominciare il canto - epico o lirico - con l’invocazione
alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa
pubblica, collegata alla scelta della forma metrica (esametro), secondo le
indicazioni interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo Demodoco nell’ottavo
libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla fine del VI sec. (504-501) il
rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a recitare Omero a Siracusa (in un’area
geografica non remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide
soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e
intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo nell’ordito dei poemi omerici
originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema culturale quale
quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente sull’oralità della
comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse destinato a
trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere (tecnico,
giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos omerico), si era
riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società
ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo,
è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma
anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme
enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concretezza
della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'originalità
dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici). 17 Ricavo
questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili,
Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli,
Milano 2006. 18 Ivi 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi
eleatiche", in La Parola del Passato, XLIII, 1988 42-60; riferimento alle
pp. 52-53. 20 Gentili 69. 237 Non va comunque trascurato il fatto che la scelta
espressiva probabilmente condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione
(non ultima la stessa memorizzazione) implicava, in quello sfondo culturale, la
dimensione “spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che
Parmenide non poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista
formale, aiuta a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως
e l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la
divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario,
non solo a livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a
seguire l’esperienza trasformativa del poeta, convertito dal contatto con la
verità22. In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come
il poema suggerisca: una diversa
modalità di approccio alla Verità: nella poesia omerica, la presenza del divino
era evocata e invocata attraverso la Musa e i versi originavano dalla memoria
divina 23; nel poema in generale, e nel proemio soprattutto, l'invocazione è
sostituita da un incontro divinamente garantito e da una diretta comunicazione
divina, che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice tramite
ispirato; una probabile integrazione
della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ
λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista
platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per
bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli
potrebbe essere indicativa oltre che dello stesso modello pedagogico
dell'Accademia di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι
τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ 21 Ivi 49.
22 Robbiano 49. 23 Wilkinson 32. 24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e
questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν
οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε
λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ
τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre
che ciò che non è sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo.
Il grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini,
cominciando e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo
ogni volta con le sue parole e i suoi versi che: Questo infatti mai sarà
forzato: che siano cose che non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana
il pensiero. Si tratta di un fotogramma di interno scolastico25: la
memorizzazione dei contenuti fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe
stata funzionale) era affiancata dal commento e dall'argomentazione dettagliata
del maestro, che approfondiva e chiariva i temi (comunicando probabilmente
informazioni supplementari, non divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe
essere, almeno in parte, un reperto di tale situazione didattica: donde le sue
asperità e l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una cerchia
ristretta26. Parmenide poeta È significativo che, in quella che potrebbe essere
la più antica allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i poeti: 25 Cerri 94.
26 Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le
contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A.
Laks et C. Louguet (éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239
ἆρα ἔχει ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista e udito abbiano una qualche verità per gli uomini,
oppure se queste cose stiano proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non
udiamo né vediamo alcunché di preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una
tradizione che avrebbe poi, a più riprese, manifestato un certo disappunto di
fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν διαφύγωσιν. I
poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le Sentenze di
Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un veicolo, ne
prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico]. (Plutarco;
DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου δὲ τὴν
στιχοποιίαν Ad Archiloco si potrebbe
rimproverare il soggetto, a Parmenide il modo di fare versi (Plutarco; DK 28
A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός
φησιν Parmenide, pur risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a
sua volta le stesse cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe
stata, insomma, artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata,
producendo un duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la
scadente qualità dei versi. Scontato, per la tradizione platonica, che
Parmenide avesse elaborato il proprio contributo indipendentemente dal 240
medium espressivo, cui si sarebbe applicato in un secondo momento, valutandone
l’impatto comunicativo: donde i compromessi e le incongruenze cui accenna
Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει· καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι
μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν
καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B
8, 25. 5. 44. 45] καὶ πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ
ποιητικὸν < τὸν > λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo
costretto, certamente a causa della forma poetica, a far ricorso a metafore,
figure e tropi, privilegiò tuttavia una forma d’esposizione disadorna,
controllata e semplice. Mostra ciò in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in
tutti gli altri di questo tenore, così che il suo discorso sembra piuttosto
prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18). Sembra rivendicare invece l’originaria e
originale intenzione poetica dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι]
δὲ ὁποίους οἱ περὶ Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. εἰσὶν δὲ
τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ
ἡλίου τῆς φύσεως διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ
τοιοῦτοι ὕμνοι φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς
ἀκριβῶς... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει.
Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci
Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e
discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è
il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si
servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso
Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda
brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati campioni
in un genere, quello dei poemi fisici (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e proprie indagini
sulla natura (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità (Platone). Simplicio
suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante accostamento: εἰ δ’‘εὐ κύκλουσφαίρης
ἐν αλίγκιον ὄγκωι ’τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν
καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς
[fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno
è simile a massa di ben rotonda palla [B8.43], non ci si deve meravigliare: a
causa della poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che
differenza c’è dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: uovo
d’argento? (Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la
matrice omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e
rilevato la raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a
dispetto della complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento,
Omero ed Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di
Parmenide e soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo,
in altre parole, che Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli
di recitazione orale (Henn29), impegnato a comporre all’interno della
tradizione epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle,
probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le
potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung
des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, Reinisches Museum, 106 (1963) 134-142.
29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo
d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia non ridursi ai
poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per la seconda parte
del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30,
attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31. La rivelazione di Parmenide La
scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di
Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito della ricerca
fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe finito per
riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in concorrenza con
le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico, invece, il
poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come il
contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire
che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità
immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34.
30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi contenuti
in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo
volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos 241-246; M. Herrero,
Tradición órfica y tradición homérica, cit. 247-278. 31 Per questi aspetti R.B.
Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi 549-576. 32 Tarán 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale
1996) 66. 34
Ivi 65. 243 Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può
tuttavia non tenere conto proprio della natura argomentativa della prima
sezione del poema - indicata dalla Dea come discorso affidabile e pensiero
intorno alla Verità (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la
stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina, prova), invitando il κοῦρος a
giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che sembrerebbe
contraddire l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito. Rivelazione e
verità In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire alla
concezione pessimistica della condizione umana espressa tradizionalmente nella
poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il contemporaneo Teognide (vv.
139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς
πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ
σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene quanto è nei suoi
desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura inettitudine.
Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla, mentre gli dei
pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35. È significativo
che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in B6 e B7,
caratterizzerà l’impotenza dei mortali (βροτοί): essi sono apostrofati come εἰδότες
οὐδέν (che nulla sanno, come in Omero, Teognide, Mimnermo, Semonide); la loro
incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è stigmatizzata 35 W.
Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia
antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 162. 244 come ἀμηχανίη (impotenza,
inettitudine, come in Teognide e nell’Inno Omerico ad Apollo, 189-193); la loro
attitudine cognitiva liquidata come πλακτὸν νόον (mente errante, con paralleli
in Archiloco fr. 58)36. A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con
le sole sue forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il
proemio narra come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano almeno
al poeta di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37.
Non sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2)
della successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato
a valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello
stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi
(B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il
proprio oggetto (εἶναι) 38. La specifica cornice letteraria e l’implicito
motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e
strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi
dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della
propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne
incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta
avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale
dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme:
avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità
religiosa ma filosofica39. 36 Ivi 163-4. 37 Ivi 166. 38 Su questo ancora Leszl 168.
39 Conche 66. 245 Il problema della verità Nella pratica poetica sembrava
dunque risolversi un cruciale problema cognitivo40: dal momento che gli esseri
umani, nella loro impotenza, sono soggetti a illusoni, come può il sapiente
riconoscere la verità, sottrarsi a quella condizione di diffusa deficienza
(cognitiva) e pretendere di sapere? Nella cultura greca arcaica, solo un dio
poteva essere fonte di verità, e il linguaggio della comunicazione divina era
quello dei versi: Omero ed Esiodo validavano la loro poesia marcando il fatto
che essa annunciava la verità, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita
dalla Musa epica41. In questo senso, il motivo poetico della comunicazione
divina è in Parmenide pervasivo, abbracciando entrambe le sezioni del poema42:
l’intero campo del sapere è esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea,
tanto le tesi intorno all’essere, quanto l’enciclopedia del sistema cosmico
(διάκοσμος), senza alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da
parte del poeta. Se consideriamo la struttura dell'opera delineata in
conclusione del proemio, e i passi superstiti della prima sezione, risulta
evidente, nella narrazione, come il rilievo della lezione divina sia funzionale
alla focalizzazione del problema dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è
fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of early Greek
philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited
by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353.
41 Ivi 343. 42 Sulla scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ
σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας
μάνθανε A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al
pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara le
due sezioni sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43.
Veridicità ed essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici
che le opere di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente
o esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon
riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della
rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e
nello spazio45. Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν
ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne
simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare (Teogonia
27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della buona
poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così
scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente
nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente
manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione
poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα
καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli
dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ
in Parmenide", in La Parola del Passato Most 343. 45 K. Algra,
"The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to Early
Greek Philosophy, cit. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46
Most 343. 47 La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide
a Senofane: tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX
secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni
argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di
Colofone John Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford
1999 186 ss.; Parmenides et Presocratic Philosophy, cit. 324 ss.). 247 quanto
presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere
adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ
τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν
μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di
Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare,
commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come
Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di
quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è significativo,
in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la
più importante misura di recupero48 a protezione dei poeti: l'interpretazione
allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la
frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti
criteri di argomentazione concettuale49. Certamente la critica di Senofane
rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino, come emerge
da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente problematico
l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ
χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte le
cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano ciò
che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most 339. 49 . Sulla relazione
tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi
eleatiche", in La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις
ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ
καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι
τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente
intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli
capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo
saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché testo e
significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso sembra
anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per stabilire
una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i
contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου
υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν
σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di
Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo:
sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a
noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24 B1). La scelta
di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la comunicazione del
poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher, "Early interest in
knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit. 225-249.
Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio
(περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la
virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: sulle cose invisibili che
riguardano i mortali ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", Philosophie
Antique, 7, 2007 [Présocratiques] 19). 249 la ripresa e la soluzione
parmenidea del problema della verità52. Non va quindi trascurata la possibilità
di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea
(con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la specificità
dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del complesso dei
contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio molto
innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως, Mourelatos 53
individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel poema. Tra
questi appaiono di particolare interesse
quello del viaggio, certamente il più importante, anche per le possibili
implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa; quello dell’istruzione, marcata dall’uso
della seconda persona nella comunicazione divina, e dal ricorso a formule
programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας;
πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero. Viaggio ed
erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di questo motivo
(motif) omerico - progresso nel viaggio
di ritorno, regresso ed erramento; (iii)
navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno
da parte dei parenti a casa i 52 Germani 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route
of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale
London Non mi addentro nella
distinzione, proposta dallo studioso, tra tema o concetto, per cui le pure
forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della iconografia), e motivo o
significato complessivo, valore simbolico (oggetto della iconologia). 11-12. 55 Ivi 18. 250 primi quattro appaiono
marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del viaggio
nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una
specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe
esplicitamente o implicitamente a seconda delle interpretazioni alla stessa
situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centrali
risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione (πομπή) delle guide
(divine) di scorta al viaggiatore e per contrasto l’erramento (πλάνη) dei
mortali: analogamente, l’eroe omerico - accorto e istruito dalle divinità - sa
di dover osservare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di
lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al
viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non manca di riferire le
coordinate (i segni, σήματα) della via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν),
mettendolo in guardia dalle insidie della abitudine nata dalle molte esperienze
(B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo,
si abbandonano i mortali che nulla sanno (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν),
connotati come uomini a due teste (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non
riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne esistesse una variante
letteraria nella poesia apocalittica 57, diffusa nei circoli pitagorici, a
partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo
Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio,
coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero
altro che il radicamento nella tradizione della poesia più antica e in quella
contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente
la possibilità di una influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei
precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi 18-21. 57
Uso l’aggettivo come Diels nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω
(scoprire, rivelare appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History
of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition from Parmenides to
Democritus, C.U.P., Cambridge 1965 10 ss.. 251 Esperienze
dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte
espressive di Parmenide per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la δαίμων
apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la formula εἰδὼς
φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) hanno fatto pensare a un
esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate riprese in
particolare da parte di Platone59. Rivestono in questo senso un notevole
interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche" (le più
antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a
quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade:
non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza
che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici
elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare
una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come
l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia molto
in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano
nell'oltretomba, seguendo più o meno puntuali istruzioni60. Non si tratterebbe
solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe
recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni
che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio
e il resto del poema, saldando il tema dell'iniziazione alla fondazione logica
del sistema61. Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio
parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: κοῦραι
δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via
che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per questi aspetti è ancora
molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del
proemio", La Parola del Passato, cit. 383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del
cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Pomba,
Torino 2007 115. 61 Sassi 386. 252 πολύφημος δαίμονος, 2-3)62 sorvegliata da
Dike, la quale non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per
testimoniarne), ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la
sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico,
Morrison aveva connotato come quello del poeta-sciamano in cerca di
conoscenza63, accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo
sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima
del defunto nel sepolcro di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ
μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai
alle case ben costrutte di Ade64, dove, presso la palude di Mnemosine
(Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe stata affrontata e interpellata dai custodi
(φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος
σκότους ὀλοέεντος che ti chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando
nelle tenebre di Ade rovinoso65. Ma le laminette propongono soprattutto
un'altra suggestione, che potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai
miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un fondo escatologico comune 66:
la possibilità che una tappa nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp.
387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei
defunti, per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le
conducano come ἡγεμόνες. 63 J.D. Morrison, "Parmenides and Er",
Journal of Hellenic Studies, 75, 1955 59-68. La citazione è a p.
59. 64 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977 172-3. 65
Colli 172-3. 66 Sassi 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio
dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ
δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις·
πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è
alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto A questa fonte non andare neppure troppo
vicino; ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine
(laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι
λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις
δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla
sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso
diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai
un'altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia,
circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν
κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ
Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ προ < ρέον > Troverai alla destra delle case
di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte
non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che
scorre 254 dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67.
Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle
fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa
la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄
ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della
parola, una volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle vie di
ricerca, evidentemente biforcate: ἡ μὲν ὅπως
ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3);
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per trattenerlo
dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade (analogamente alle
anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai mortali che nulla
sanno (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68. Sono stati compiuti, negli ultimi anni,
tentativi per individuare un modello unitario per tutto il materiale funerario
di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II a.C.),
giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da sfondo
alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente, riferendosi alle
laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine IV secolo a.C.),
Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte a una traccia poetica
sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le rimodulazioni dei vari
testimoni risultano a tratti 67 Colli 172-7. 68 Sassi 392-3. 69 Il tentativo
più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et
fragmenta, II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II,
K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del
cipresso bianco, cit. 115-6. 255 importanti e complesse70. In ogni caso, un
elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle
laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va
dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza,
alla Sicilia per l'ultima) si faccia ripetuta menzione di Mnemosine come
divinità che dispensa il dono di ricordare71, e che rivelerebbe l'appartenenza
dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, che
appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di
perfezionamento della persona72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore
delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo
del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata
di Parmenide. Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del
suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un poeta-sciamano: la
figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era
stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una
delle opere più originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra
uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare
in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni
mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente
narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo
viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e
può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la
divinità. 70 Ivi 119. 71 Ivi 124. 72 . 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale,
La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli
sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos 74 riconosce le
somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di elementi focalizzati
da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la
presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel
proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di
odissea spirituale dello sciamano) avrebbe allora potuto immediatamente
evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali
pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor più
significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Mourelatos è convinto
che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a
Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del
VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per
valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È
probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga
misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in
una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe
così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio
speculativo. Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a
parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza
sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75, proprio nel proemio,
quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale
indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del
poeta (come uomo che sa, εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo greco
arcaico per indicare l’iniziato76, colui che, in virtù delle proprie
conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente
l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura
al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77: l’esperienza descritta,
infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 7444-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi 62.
77 Ivi 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo
infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che
coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione
(Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a
particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta
Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A
conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni
posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare dell’epoca
e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con Persefone
secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa
dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe
attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale,
tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti,
permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina
interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza
del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?) lo ha
allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida
della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare
il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra parte, è assai
probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo a scelte
espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo.
Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo
φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un
punto di vista poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la
recitazione), di incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa
inoltre pensare che Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non
poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile
ai 78 Ivi 62-3. 79 Ivi 61. 80 186-7. 81 94. 82 Ivi 97. 258 propri ascoltatori
(iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale
del suono (sibilo acuto, σῦριγξ) emesso dall’asse del carro nei mozzi
incandescente, dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei
papiri magici greci, associato proprio al silenzio della incubazione e al
viaggio cosmico83. Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato
l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo
conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui
ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la
topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego
simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni (sibilo, σῦριγξ),
movimenti rotatori (i cerchi rotanti δινωτοῖσιν κύκλοις dei 7-8) segnali di
alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure divine86.
Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come resoconto di un
viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare
Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a Velia
(l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che recita87: Πα[ρ]μενείδης
Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto, è riconosciuto come
Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area anatolica, da cui
provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e
physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal momento che ad
Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la
figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica (di cui
l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco dello sciamanesimo
(Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella stessa direzione punta
un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi 129-130. 84 Die Vorsokratiker, II 54. 85
Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit.,
II 55. 87 Kingsley 139 ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη.
Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia, figlio di
Diochete, pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto, ciò che tanto più ne
favorì l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di famiglia illustre
e ricca, eresse per lui un monumento funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane,
a volgerlo alla tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1).
Il termine ἡσυχία - qui tradotto come tranquillità di una vita di studio -
avrebbe in realtà un valore molto diverso, soprattutto riferito allo stile di
vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa,
ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è quello di quiete,
riposo, silenzio, immobilità. L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di incubazione,
avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso
presso i gruppi pitagorici88. Come ha rilevato la Gemelli Marciano89,
l'incubazione può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita
all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di legislatore
attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno
secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico
Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche
nel caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto
le leggi direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo
questo insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile
ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88
Kingsley II 45-6. 260 caso delle
Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio,
incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari
significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come
crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore).
La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione
divina con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel
proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle
allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente
decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo.
Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90,
privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo
rilevare: le analogie tra il proemio del
poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia;
in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse
in Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico
proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare
umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico
dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e
teogonica) della seconda sezione del poema. Su questo, tra gli altri,
concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and
Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’
Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse sovrapporre o
contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A livello formale,
lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il precedente
esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle novità da
questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore a se
stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al poema.
In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto,
nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il doppio
risvolto della contrapposizione polemica e, soprattutto, del distacco critico,
garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il dono
divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia, giustificano la
pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui l’autore fondatamente
rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte, anche la risorsa
proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella misura in cui essa non
si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a
inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul
tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel
caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta
e della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza
illumina la sostanza complessiva dell’opera: il proemio, con il racconto della
epifania delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del
contenuto del poema93. A richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente
esiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo
lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce,
lungo la direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi
si alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il
quale, aprendosi, rivela un vuoto enorme (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle porte
(πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo,
Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano.
ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ
ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε
στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’,
εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα
θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς
οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει
οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ
Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω
καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’
αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα
μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα,
ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ.
ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ
ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν
καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ
μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν
στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν
Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo
stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi
penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un
anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte,
263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche
per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile
s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene
il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là
dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran
limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso la porta
esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno
fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa aspetta l'ora del
suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto
vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la Notte funesta,
coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte oscura, Sonno e
Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi, sia che il
cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare
Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di
bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende
degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda
Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive
sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea,
l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade.
La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti
(il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da oriente a occidente, e
il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta della
Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", Rendiconti
dell'Accademia Nazionale dei Lincei, s. 9, v. 20, 2009 447-464. 264 tragitto di
ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla
Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale",
in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96.
Non si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo
studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97)
registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra
Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due
prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato
concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare,
trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in
questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti.
Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano
le interpretazioni cosmologiche 99, si prestano a suggestioni diverse, proiettando
decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la
narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e
della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa
che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si sviluppano le
radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire sulla sicurezza
della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità di reclusione
dei Titani (immobilizzati da lacci tremendi 718), e sulla località di
carcerazione (un'oscura regione, all'estremo della terra prodigiosa, cintata
tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5).
La descrizione del mondo sotterraneo è dunque organicamente inserita nel
contesto teogonico, sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili
forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο
καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος Si vedano, per
esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III),
ma anche le annotazioni di Arrighetti (op. cit. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ
καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ
μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής·
πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là
della terra oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo
stellato, di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi
squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte
splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata
spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro
dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è
possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e
Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una
dislocazione occidentale e una sotterranea dell'al di là, ma, come ha
puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa
seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro
cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione
omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle
due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il
cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come cielo;
quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare
la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua
risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del
corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza
terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la
direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit. 115. 101
Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale
rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste
avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in
qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la
Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione
(Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati,
all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante (il figlio di Iapeto)
sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla
superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno
il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo
infero per soggiornare nella casa della Notte, e ascendere poi, quando giunge
il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime
diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i
versi del proemio: i battenti dei sentieri di Notte e Giorno avrebbero la
funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi
delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe
locata la dimora della Notte (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva
"verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso
all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες
ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli
inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza
103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta
struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con
il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento
della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio
oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi 38. 103 Teogonia, cit. 113. 267
direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente
privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie
È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli
altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo
originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei
contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato
all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo
dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e
ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno
di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo
popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di
veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite
dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica,
un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con
la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una
prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione
poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di
immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto
logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è
da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda
proprio nella determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui
retroterra emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che
prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella
storia delle interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che
scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo
estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268
rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi
contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di
analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione
tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È
plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del
filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano),
indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può
condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza
comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante
l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel
socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos,
per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività
di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105. D'altra parte,
contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio
meramente allegorico, rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza
vissuta. Appare fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui
un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si
scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI
secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmenide,
legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108, allora, che, nella
narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei
- il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche,
intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più
vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati
a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot,
Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022. 105 45.
106 144. Allegoristi dell’età classica,
Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano Come fanno lo stesso Leszl 145, e Coxon 156.
269 involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destinatario
(plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò comportava,
naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per le quali egli poteva
attingere all’immaginario dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia
apocalittica: il poema appare in effetti concentrato sull’effetto (il mutamento
della prospettiva cognitiva e la correlata trasformazione dell’attitudine
personale) dell’impatto con la verità, della scoperta del reale assetto del
tutto cosmico. Il viaggio e la sua esperienza L’esplicita indicazione di Sesto
Empirico ci attesta come abbiamo riscontrato introduttivamente - la tradizione
integrale dell’incipit del poema in quello che è classificato, nella edizione
Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre dell’esordio nella
sua originale interezza offre l’opportunità di valutarne costruzione, impronta
e ufficio all’interno dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne
interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità
dell'esperienza cantata, che abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata
formula di indirizzo, sebbene, prendendo in considerazione i contenuti
dell’opera conservati nei frammenti successivi, l’aura del mito possa
superficialmente risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione
razionale (B7 e B8) e con le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già
rilevato, è plausibile, infatti, che il preambolo proponesse quella veste
proprio in funzione di quei contenuti e degli obiettivi educativi che il
filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è
l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte
culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et
C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel
segno dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione
d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della
apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la
porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del
viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben
evidenziati nei versi parmenidei:
l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, austera
(πολύποινος, che molto punisce) guardiana del portale, per persuaderla a
consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le fanciulle devono
placarla con parole compiacenti (μαλακοῖσι λόγοισιν) e sapientemente (ἐπιφράδεως)
convincerla a concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri
mortali; la formula di accoglienza della
Dea, la quale rileva che: (a) non è stata Moira infausta (Μοῖρα κακὴ, destino
infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; la via (ὁδός) per cui è stato guidato è
lontana dal percorso degli uomini (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου). Incrociando i
rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista il poeta eccede i
limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui concorrono le
aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς
ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere,
e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι
mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle Eliadi. 110 Leszl 141. 271
L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente
l’opportunità: di spingersi oltre i
confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, di accedere non semplicemente alla
rivelazione della verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che lo
informerà circa (a) la natura della realtà (vv. 28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è necessario che tutto tu
apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b) la natura del comune
fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia dei
mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c) fornendo soprattutto
(pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori, gli strumenti
corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης
καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα
Eppure anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era
necessario fossero realmente, tutte insieme davvero esistenti. A sancire tale
eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino: la scorta delle Eliadi, che si muovono a
sostenere e realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; la condiscendenza di Dike, che veglia sulle
infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione della θεά senza
nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio
cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il quadro è,
nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto protezione
divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111, che
descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre
parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di
trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile
primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni
al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale
trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il
riferimento della dea a Moira infausta (ovvero destino infausto) e,
soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto
meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della
dimora della Notte (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla porta del
possente Ade e della terribile Persefoneia (vv. 758-778). In analoga direzione
concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114),
cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea,
la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la
θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel
regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze
sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza
della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος
ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in
cui Dike affianca 111 Leszl 167. 112 Cerri 173. 113 Kingsley conferma che
figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle e
Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con il
kouros del proemio. 93-100. 114 Elea era centro di un culto dedicato a Demetra
e Persefone (Cerri 108). 273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115
- troverebbe in tale scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i
morti subiscono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione
delle colpe commesse in vita. La plausibile destinazione individuata per il
viaggio del poeta avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante
risvolto nella prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama
la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del
mondo coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui
limiti estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso
dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie
della terra, piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della
superficie terrestre117. La nozione del limite (e del suo superamento) è poi
significativamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano
l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118. In effetti, la
conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso
i battenti dei sentieri di Notte e Giorno (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων,
v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato
sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al poeta,
dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di Fetonte
(fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di
nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono
anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata dalla presenza
severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il
contemporaneo Eraclito), la processualità della natura l’alternanza di notte e
giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della
giustizia119. Al poeta è dunque attribuito garante Dike il favore 115 Cerri 104-5.
116 Leszl 149. 117 Ivi 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia
sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne
propone Leszl (p. 147). 119 . 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando
così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri
dell’oltremondo. Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità
dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non
sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi,
ovvero a una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei versi del
proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio dal percorso
degli uomini (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole,
identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14;
Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti, miticamente situata
nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla
superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i
suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il
mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta
di una porta cosmica, sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi
giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121.
Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è
l’allontanamento dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i
confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice
(Mansfeld), né propriamente il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso
il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul
carro solare, perviene presso e oltrepassa la porta cosmica, raggiungendo,
dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo
(con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso,
la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata
nel contesto rispetto alla luce 120 Cerri 98. 121 Ivi 99. 275 celeste122: sono
le Eliadi a doversi portare verso la luce, muovendo dalla dimora della Notte
(dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio comincia,
dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia del poeta,
percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al tramonto,
quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar cambio a
Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide prema
soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la
distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni
umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente. Al nodo
della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si
apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le
cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1),
quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione, un
elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi
rilievi (sempre riferiti al presente) sulla strada della divinità: ἣ κατὰ †...
† φέρει εἰδότα φῶτα che porta †... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla struttura
della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι
κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται
μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là sono i
battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra li
incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit..
123 Guthrie 7. 276 essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio. Dike,
che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo
caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a
straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione
al sapere, la sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità124, condizione
dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva
rivelazione della Dea. In ogni caso, l’uso del presente comporta che le
cavalle, soggetto della relativa, abbiano una relazione non episodica con il
poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in una esperienza
eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella contemporaneità, siano parte
di un’esperienza di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano
essere avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è
ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che
continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura
del conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le
cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al
secondo verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di
raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato
discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ
κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina Stemich, nella sua ricerca su
Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996 41 ss.), rintraccia
una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: Se uno non spera,
non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio.
In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die
Seinserkenntnis, cit. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio:
sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso in quanto motivo
connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico diventerebbe
emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal
filosofo. 126 Coxon 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα
τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi guidavano, dopo che,
conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti della divinità che
porta †... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato, perché su questa via
mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano
la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la prospettiva dello
sviluppo e della continuità dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque,
qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico” traducendolo con il presente),
sia quella delle sue successive e puntuali sequenze compiute (aoristo),
rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla congiunzione ἐπεί (dopo che).
L’intero proemio è costruito intorno a questo ordito temporale che, se
valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe alludere come intendono
Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della condizione sapienziale del poeta,
conseguita grazie alla rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla
narrazione, dal passato. Nel presente della performance recitativa il poeta
evoca l’avventura della conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al
cospetto della divinità, del cui dono si propone di far partecipi gli altri
mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς φώς), è tale per essere stato
guidato, condotto lungo la via della divinità (il genitivo δαίμονος ha valore
soggettivo e oggettivo a un tempo: della divinità perché a essa appartiene
ovvero a essa conduce); il canto poetico documenta quel privilegio. Questa
prospettiva temporale, che collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una
condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127 Conche 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche
Welt, Van Gorchum, Assen 1964 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del
cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del kouros"; id., Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne,
Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278 sperienza (εἰδώς implica
etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in quelli successivi 130, può
essere messa in discussione partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς,
si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per indicare l’iniziato
(analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al
v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza predisposta, per
intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il termine εἰδώς si
potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione
all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1),
allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con la verità. Nulla vieta,
tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie per accedere alla verità che
il poeta\sapiente avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς dalla
piena cognizione di essa, disponibile all’interno del tradizionale modello
oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina in virtù dell’eccezionale
prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente
al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla
comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria
aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione
simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti quello del
poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a
scortarlo presso le divinità come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος
verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un
accesso alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità
Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione nell’economia complessiva del
frammento B1 e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld
226-7. 131 Cerri 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza
celebratavi sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: l’incarico di direzione, guida e tutela delle
Eliadi; la funzione di garanzia e
sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima, rispetto a cui,
globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano subordinati. In un
contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità divine (Notte,
Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere meramente
narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva comunicare,
doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente
la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere
all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è evocata in una
mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come ipostasi mitica della legge
della physis 133, che vincola elementi e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È
significativo che anche in Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento
solare e in genere alla regolare alternanza di giorno e notte (che tanto
rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ
μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le Erinni che troveranno Helios,
qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94).
Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle Eliadi
(divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si rifaceva al mito di
Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta
tragedia eschilea le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa
Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di guidare il
carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la personificazione,
giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del poema. 133
Cerri 104-5. 134 Come ricorda Cerri 173. 135 Capizzi, op. cit 52. 280 questa
circostanza, che i versi dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si
proporrebbe come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come
ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo
le Eliadi devono convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la
traiettoria solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei 2-3
potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe
essere allora il suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che
conduce ai confini del mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice
anche in un’altra direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica
esiodea ricostruita puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la dimora della Notte
sia collocata nelle profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità
dell'accesso all'Ade (il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro
radici la terra, il mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo
terrificante anche per gli dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente
Notte e Giorno: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite
dalla porta cosmica del Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è
un'incongruenza: dovrebbero essere due, collocate alle estremità orientali e
occidentali), prelevano Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo
guidano alla stessa porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso
occidente il percorso del Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo
è a livello della superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente
dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato,
εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza:
Dike è al suo posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi
tutelano il poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole
suasive per ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138. Gli
elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa
cantata coincida con il massimo pri- 136 Leszl 146. 137 Ivi 147. 138 Cerri vilegio previsto per un mortale nell’universo
mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non
forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è
regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste
inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per
marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica
difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente
della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora
necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in
un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un
viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture
allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo
non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di
Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o
situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca
di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è
possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si
dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il
contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo
del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a
Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In
ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile
un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i
confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava,
nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero
potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti
della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea",
delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro
platonico140. 139 Coxon 14. Su questo
punto ampia è la convergenza degli interpreti.
La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento
di quelle divinità fanno comunque apparire poco convincenti le letture che
marcano nel proemio la mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o
la semplice legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una
proposta filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in
prima persona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in
un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che richiede
l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione della prospettiva del
viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero obiettivo delle
istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una
forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa
prospettiva: non traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma
assunzione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita)
di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento teorico e
pratico nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la
pratica sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143, Parmenide
associa un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in
cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è
funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita.
Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di
Persefone scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera
personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di
iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini
simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La
Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due
elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e
viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine
mentale: la focalizzazione e
l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon
(op. cit. 15-6) parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i
rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli
riconducibili, secondo Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di
ascesi estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso
delle Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie
all’intervento persuasivo delle figlie del Sole), il poeta superata la porta
cosmica in cui si incontrano i sentieri di Giorno e Notte giunge infine presso
la Dea: che ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23
versi, è chiaro nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora
(rallegrati!) l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e
accompagnamento non siano né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ
οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a
percorrere questa via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini),
ma Temi e Dike (vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a
condurre il poeta al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai
sentieri comunemente battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella
distanza dai mortali sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che
lo straordinario incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del
protagonista (che è stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità
della scorta. La via (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina
(ἡμέτερον δῶ la nostra casa) probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος
(via ricca di canti della divinità 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano
il poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce
l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν (lungo la via maestra) è percorsa sotto l’egida
della giustizia, in compagnia di immortali guide (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le scelte espressive
di Parmenide il vocativo κοῦρε (giovane) e il nominativo in funzione vocativa
συνάορος (compagno) apparentemente descrittive della condizione giovanile del
poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà, alla sua dedizione
religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque legittimarne il privilegio.
Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si riflette anche nella
completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e nell’informazione
successiva: rilevando didascalicamente - secondo il tradizionale paradigma144
oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina - l’opportunità per il
giovane di tutto apprendere (πάντα πυθέσθαι), ella propone un programma
articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco (vv. 29-30) dalle
congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ (sia … sia), in conclusione ulteriormente precisati
(v. 31) ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione avversativa +
avverbio), da rendere come nondimeno, eppure anche così. L’interpretazione di
questo passaggio è molto controversa, ma anche decisiva, dal momento che
all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi la struttura
del poema (cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione),
e dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di questo. Il
kouros apprenderà, imparerà, sarà informato su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς
ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro tra il poeta e la
dea riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra dei e mortali in
Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben
rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità (vv. 29-30). Si tratta dell’opposizione fondamentale, che genera
tutti i contenuti del poema: il nucleo essenziale (ἦτορ, cuore) di Verità (Ἀληθείη),
di ogni verità (εὐκυκλέος, ben rotonda), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ,
letteralmente cuore che non trema); le incerte opinioni dei mortali (βροτῶν
δόξαι), che non sono veramente credibili: esse risultano, letteralmente,
inaffidabili, in esse non risiede πίστις ἀληθής (reale fiducia). La
qualificazione umana delle doxai giustifica la loro debolezza, assumendo per
scontato che la proposta della Verità sia divina. Il modello è ancora quello di
Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra
proferire menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle
cose, ed esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella
tensione tra la salda stabilità nella relazione con la realtà (di Verità il
cuore fermo) illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di
vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia
dell'esplicita e secca contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea
tra cose false (ψεύδεα) e cose vere (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo
opposizione determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La
divinità di Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è
vincolata alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla
denuncia dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In
questo senso, allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης
καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα
Eppure anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era
necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32).
Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita attraverso l'illustrazione
della norma di verità a denunciare l’inattendibilità delle convinzioni umane
(come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma intende proporre
una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli enti che quelle
opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto,
l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle
inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile
alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in
tre momenti145: l’esplicitazione della
norma immanente (le vie di ricerca per pensare), dell'intima necessità della
verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione della struttura essenziale
della realtà (B8); la denuncia
dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la
riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della
esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha
dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos),
indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (discorso affidabile e pensiero intorno alla verità
B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i
momenti e : i principi del corretto
ricercare e le origini dell'errore dei mortali; 145 Ruggiu 196. 287 (b) una
seconda sezione (secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente
nota come “Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας
βροτείας (opinioni mortali): in essa si concentrava il punto (iii) del
programma, naturalmente più composito (riferendosi al complesso
dell'esperienza). Variante di questa prospettiva di lettura è quella di
Coxon146, secondo cui, invece, Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe
le posizione espresse da Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν
οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ
πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε·
δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né
mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se,
infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui
stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων
Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν
ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις
τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto
queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose
mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo
trovare degli indizi147 (DK 24 B1). 146 169. 147 Dal passo iniziale del
frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli
Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente
traduzione: sulle cose invisibili che riguardano i mortali ("Lire du
début…", cit. 19). 288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica
tra incerte convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone)
e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel
senso di un contrasto tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di
manifestare il reale, l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri
punti di vista. Solo riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria,
gli uomini hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe
tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione del campo
delle doxai in termini non contraddittori. Questa interpretazione si scontra,
tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce valore diverso alle parole
della Dea, per lo più assimilando i punti
e (iii): alla saldezza (razionale) della verità , Parmenide
contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano , di cui offrirebbe
comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione)
coerente. Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni,
che chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla
distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i
casi le divinità si rivelano in dominio completo dell’ambito del vero e di
quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale perché simile al vero),
sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di
Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire tutto, di
offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo
con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale
riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle
Muse di dire verità e menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si
riferisce all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il
risultato paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica,
più vicina al modello divinamente ispirato del poema 148 153-4. 149 33. 289
esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ
δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono). Non è da escludere, invece, che
proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del
progetto di Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ
φύσεως (donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa
riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle cose accettate
nelle opinioni, a principi, forme (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma
che l’elemento di originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la
conservazione nelle testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche
contenute nel primo logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una
coerente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze
delle ricostruzioni alternative151. 150 Ivi 210. 151 Il dibattito sulla natura
della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G.
Reale a E. Zeller R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico,
Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente
ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic
Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere,
"Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur
Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation,
Vrin, Paris 1987 192-212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide,
fr. 1, 31-32)", ivi 44-68; A. Nehamas, Parmenidean Being/Heraclitean Fire
in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston et D.W. Graham, Ashgate,
Aldershot 2002 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi 101-116;
P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and
Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, cap.
III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the
Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P.,
Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184). 290 Opinioni:
credibili e non Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori
contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe,
introduttivamente, il contenuto del suo corso di filosofia nell’ambizioso
riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti
complementari: il cuore della verità
e le opinioni dei mortali. A
completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile
modello per le opinioni: la verità è assente dalle opinioni, ma riconoscere che
le opinioni non sono vere è vero153. Ciò che rende, a nostro avviso,
implausibile questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e
l’articolazione che supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi
come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere
enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore
delle opinioni155. Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei
lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ
που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι,
τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν
152 N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides
Publishing, Las Vegas 2004 30. 153 Ivi 32. 154 G. Cerri, Testimonianze e
frammenti di scienza parmenidea, in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti
e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008 80. 155 Torneremo
sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo
logos". 291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore
perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il
non-essere, egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro.
Costretto tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta,
Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: Π.
Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται
καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ
κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ
δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς,
πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di
Pyres, da Elea percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è
eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non
avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli
sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo
l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che
appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece
come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei due logoi era già delineato
come incrocio tra due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo
sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda parte del poema
avrebbe così riproposto un approccio alla physis, dai fenomeni ai loro
principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte, originale, avrebbe
invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori
dell’indagine156. Certamente il programma della Dea prevede un momento critico,
che investe indiscutibilmente le opinioni dei mortali, in cui non risiede reale
credibilità: individuare la norma di verità comporta necessariamente denunciare
l’origine di erronee convinzioni circa il mondo dell’esperienza, senza
escludere tuttavia la possibilità che la stessa materia sia passibile di una
trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione
introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della Verità
(illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria, come
vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si annuncia
la possibilità di una credibile (in quanto coerente con i presupposti che
fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia
teso a legittimare la norma di verità (che non può giustificarsi
empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del kouros e la
sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare
un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce,
nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto
(iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si
intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei,
indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che
presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può
manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta
(εὐκυκλέος, ben rotonda), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, cuore fermo) di
Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole (οὐκ ἀληθής,
«non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro
nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei cui frammenti (DK
31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide chiaramente saldata
alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157 Per la lettura che
proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος (ben
convincente) della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene
Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in
nota al testo greco. 293 [genuina]) credibilità (πίστις) riconosciuta alle βροτῶν
δόξαι: nondimeno, a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà,
dall’istruzione della Dea, anche come le cose accolte nelle opinioni (τὰ δοκοῦντα:
il contenuto empirico di tali opinioni) siano da intendere effettivamente
(δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole tutte insieme davvero
esistenti (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole
rigorosamente alla via di ricerca lungo la quale è effettivamente possibile
procedere (B2.3). Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al
kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ) che lo introduce sottolinea come
esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova consapevolezza della
realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per la formazione del
kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere coscienza della genesi delle
opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a
rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i
contenuti dell’esperienza umana. Non pare come invece molti sostengono159 - che
la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che la Dea offra agli
uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per doxai si
intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate
(B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che,
invece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a dispetto
della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino, è l’ardita
combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una realtà non immediatamente
manifesta all’esperienza umana, e articolata esposizione di un accettabile
ordinamento (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni naturali. La comunicazione
dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente
considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia l’oggetto della
contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in questo modo, il poema avrebbe
ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e cosmogonico) della
Teogonia esiodea. 158 Robbiano 77. 159 Tra gli altri Robbiano 51-2. 294 Verità
e opinione Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del
proemio, possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione
su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e
μαθήσεαι il cui valore è quello di apprendere per esperienza, imparare per
indagine, ma anche discernere: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di
ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la
docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i
temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα)
e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula
didattica sottolinea l’opportunità che tutto tu apprenda: come in precedenza
rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei 29-30, in cui la saldezza della
Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle opinioni, e la
garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei
mortali: la rivelazione del cuore fermo di Verità ben rotonda comporterà la
contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula
introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di
ribadire imparerai sembra implicare che questa sezione della lezione divina sia
ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non
vera), sebbene il complemento oggetto - anche queste cose - plausibilmente
rinvii al contenuto delle opinioni dei morta- 295 li160 e soprattutto sia
evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας,
δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo
δοκέω può significare sia (a) aspettarsi, pensare, supporre, sia (b) sembrare,
nel senso di pensare, ma anche di apparire: presenta dunque a
subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre δόξα e δοκίμως
sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua funzione criteriologica, il
ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni oggettive di (b),
nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una funzione
fenomenologica (quella dei derivati di φαίνομαι). In δόξα
(opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come plausibilmente)
troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di
approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio)
le cose ritenute accettabili ovvero le cose come sono accettate. Ma l’avverbio
δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di realmente
(Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare all’accezione oggettiva,
a una situazione di fatto, a come stanno effettivamente le cose (così lo
abbiamo inteso nella nostra traduzione). In ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che
vengono denunciate come non fededegne - non rappresentano mere impressioni ma
punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha evidentemente senso
ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di vista che viene
contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli ultimi due versi del proemio
ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni, per riproporla in modo
adeguato: in questo caso Parmenide impiega non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα:
non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega
la complessa (e testualmente controversa) espressione participiale διὰ παντὸς
πάντα περ ὄντα, che abbiamo reso come tutte insieme davvero esistenti. La
scelta appare non 160 In funzione prolettica, Parmenide avrebbe di norma -
dovuto impiegare τάδε, non ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede.
161 195 ss.. 296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali,
ovvero quella di proporne una versione più coerente, piuttosto quella di
mostrare come le cose accolte nelle opinioni avrebbero dovuto (era necessario\opportuno,
con possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα
(esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come
genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα,
ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica,
suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della
dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione
negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: il contenuto materiale, costituito dalla
pluralità delle cose che accogliamo sulla base della esperienza; la prospettiva (espressa dall’insistenza
sulle forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa
attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato
inaffidabile. La Dea procederà quindi: in
primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicitamente (e
tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è
possibile procedere per manifestare la struttura della realtà (B8); poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla
scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e
impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose
e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione
coerente con i parametri veritativi della Dea, l'ordine del mondo (διάκοσμος),
vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene, complessivamente,
la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca (cuore fermo),
fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua adeguata
applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si riferisce a due
ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si sovrappongono: la
meditazione della parola (μῦθος) della Dea, che segnala la traccia che conduce
ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori comuni tra
gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua esperienza. In
questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo stesso oggetto (non
potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la realtà, manifestata
nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella pluralità dei
processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale programma nei moduli
della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra sapere
umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto ai
limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo
dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra
θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla
realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente coerente e
inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente afferrata nella sua
omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e
per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le
distorsioni e produrre con la lezione divina una consapevole mediazione. Per
via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne considerato gli
ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i
nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica, evocandone
il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particolare il tema del
viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma anche, in generale, per
l’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo). Modulando tali
paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità della propria esperienza, sia
per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana,
sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte sua,
valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag- 298 gio, la via
(ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci informa essere lontana dalla
pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità della percorrenza,
Parmenide colloca Dike e Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità,
dunque, non è casuale, accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il
poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una
iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς
φώς). La lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva
la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché
favorito, ma è attenta anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle
convinzioni umane, sia per denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne
un’illustrazione adeguata, coerente, nei suoi principi esplicativi, con la
realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi interessati suggeriscono che
la comunicazione di verità, certamente centrale nei frammenti disponibili, non
fosse fine a se stessa, ma costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un
profondo ri-orientamento della esperienza umana e una radicale
ri-determinazione del rapporto tra soggetto umano e realtà (come cercheremo di
dimostrare in B3 e B8)162. La formazione alla verità porterà il kouros a vedere
il mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a
scegliere diversamente dalla società163. 162 Analizzando il valore di ἀλήθεια
nella cultura arcaica, la Stemich (op. cit. 84-6), convinta che in Parmenide
non si possa delimitarne nettamente la prospettiva oggettiva (che insiste sul
referente, sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella soggettiva
(come nelle espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la
relazione dell’uomo alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già
Eraclito) insista piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente
all’uomo di superare il senso comune quotidiano. 163 È significativo che, di
recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit. 56) abbia
richiamato l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel
programma educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che
il kouros deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela
l’essenza della realtà, allo stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema
riguarderebbe una trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale quello
solare che conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza
giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario
celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora
di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque
destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto
il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è
decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà
di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa
di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le
allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per
la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con
riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta,
e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che
potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con
l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato
a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della
comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto (p. 37). Nonostante
i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con
certezza possiamo asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione:
all’inizio della prima sezione del poema1, a ridosso del proemio (se non
addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre
ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72, un
blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti per manifestare
(B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come un tutto,
ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (di
Verità ben rotonda il cuore fermo). All’interno di uno schema espositivo che
esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la
Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando
l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto
valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3,
altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4. Dire, ascoltare La
continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della
comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo
della Dea (ἐγὼν ἐρέω, io dirò) e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta
(κόμισαι δὲ σύ μῦθον, e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1,
la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης;
B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς κέλευθος. 2
Coxon 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa da quella
ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per esempio Heitsch in
Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und
erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis et Winkler, Zürich
19953. 4 Per esempio Leszl 85. 301 della parola), destinata, a sua volta, a
trasformarsi, attraverso il canto, nella mediazione della verità a un
discepolo: il σύ (tu) impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al
poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu
ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero), non sono
riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo attendono, invece,
parole, di cui si raccomanda l'ascolto5. La sua ricerca della Verità dovrà
dunque muovere da esse: parole con cui la Dea non nomina se stessa, non
descrive se stessa o la casa in cui risiede, non designa neppure puntualmente
un soggetto6. Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua
parola: è necessario che tutto tu apprenda (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come
sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας
(e tu abbi cura della parola una volta ascoltata) certamente sollecita
attenzione per la verità del messaggio (μῦθος), ma implica anche nella
ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la
scelta del termine μῦθος, la parola divinamente ispirata del poeta, la parola
che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un
tempo, il vincolo di dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche
l’eccezionale rilievo del poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua
σοφίη 7. 5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit. 89-90. 6 Ivi 79. 7
Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama
Senofane, DK 21 B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’
εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης
Migliore è infatti della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si
valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la
forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria
sapienza: 302 Io, tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la
dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di
illustrare la forza persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι
κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: di Persuasione è il percorso - a Verità infatti
si accompagna) e dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto
in B8). A dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul
piano della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione
della Dea, quasi assumendo il tu come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe
confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica
comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione
sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale,
le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha
sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si
manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima
persona8, negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ (io): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω
Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις
μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini
assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν
τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da
lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole,
conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 61-2. 303 τὴν δή
τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento coinciderebbe
con l’enunciazione (B2.2) delle uniche vie di ricerca per pensare (solo A e B
sono per pensare, A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini
(letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non
è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι
l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Il secondo con
l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto
privo di informazioni (B2.6). Che è e
non è rappresentino alternative incompatibili e che τό μὴ ἐὸν non sia effettivamente disponibile
per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa
divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito all’ascolto9:
il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo sia
la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di
Mansfeld, appare comunque indiscutibile l’intenzione di Parmenide di sfruttare
la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece,
riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi hanno colto la rivendicazione di
una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10, ovvero
l’espressione della matura consapevolezza dell’oggetto e dei mezzi propri della
filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi 86. 10 Conche 79-80. 11 La tesi secondo
cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a
supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente 304 più
sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione
del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva
all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era
radicato nella sfera della comunicazione divina12, era scontato rispettare la
convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea.
Uniche vie di ricerca per pensare All'esortazione di apertura che l’io della
Dea rivolge al tu del poeta (v. 1), invitandolo ad aver cura di (κόμισαι) ovvero
prender nota, meditare e trasmettere quanto ella sta per rivelare, fa
immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa
espressione omerica ἐρέω (dirò, proclamerò), la prima indicazione concreta sul
contenuto della rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo
reso come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta
alcune difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e
complessiva. Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come
rendere εἰσι? Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo
averlo già fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via,
impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo
nel motivo omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento
con metodo, è di Cordero (By Being, It Is, cit. 38). 12 Su questo aspetto della
cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e
sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e
G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino Mourelatos 67. 305 deo δίζησις è infatti
di derivazione epica, essendo δίζημαι utilizzato in Omero per ricercare persone
o animali perduti ovvero nel senso lato di concepire: esso implica desiderio
del e interesse nell’oggetto ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in
discussione). La formula ὁδοὶ διζήσιός alluderebbe allora a un investigare
impegnato a raccogliere informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È
significativo che il contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare
in profondità: χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον
Quelli che cercano oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22
B22), marcando la propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e
inaccessibile ai più: la ricerca della φύσις, in contrapposizione alla
πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il
verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me
stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ
ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti
dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade:
tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea,
insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che non è manifesto o
accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso stabilito nei versi 3-4
tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È
necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente
nascosto: la via conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla
verità. La verità richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una
pista (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due
frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente reale.
Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione vie di ricerca proprio per dare
risalto al fatto che esse hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15.
La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι
(letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione
greca ha autorizzato sia la lettura che
insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da
rendere come: sono possibili da pensare, possono essere pensate, sono
pensabili/concepibili), sia quella che,
come pare corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo
dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva
determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato
attivo del pensare (dunque: quali sono le uniche vie per pensare), introducendo
due modi di pensare (pensare che...). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide
intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità
(in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una
chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15
Leszl 124. 16 Robbiano 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa
di νοῆσαι: generico pensare, o, secondo l’uso arcaico, apprendere, conoscere17?
La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa: pensare rischia
di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie,
consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle razionalmente legittime,
anche le vie dell’irrazionale (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.),
illegittime agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del
poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’altra parte, si potrebbe
obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con apprendere\conoscere, come pur
giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la
comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è necessario non essere. Di essa, in
effetti, la Dea si affretta subito a osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν
ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις·
Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né
potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura ripresa e accentuata ancora in
B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός 17 Mourelatos 70. Tra gli
editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una discussione
aggiornata si veda ora Palmer 69 ss.. 18 Come nel caso
di Conche 77. 19 Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on
Being, Oxford. 308
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina). Eppure è proprio
questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione
delle uniche vie di ricerca per pensare (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la
nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere
dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado
di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e
B2.5. Intendendo νοεῖν come un pensare generico, si può ridurre il paradosso di
una via di ricerca per pensare connotata come sentiero del tutto privo di
informazioni (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come impensabile e
inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione tra la sua
prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità.
Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la
prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una relazione
percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione è-non è:
essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa radicale
tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di afferrare
ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali siano le uniche vie di
ricerca per pensare: tre sono gli elementi da considerare: la ricerca (δίζησις), i percorsi lungo per cui essa si sviluppa,
(iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo
νοῆσαι: pensare, svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21,
comprendere, giungere a comprensione. Il contesto di B2 suggerisce palesemente
anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la
finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato,
della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) la Dea
sottolinea che (a) è percorso di Persuasione (Πειθοῦς κέλευθος), 20 Germani 189.
21 72-3. 309 in quanto (b) attende alla Verità (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di
B6 preciserà (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è
necessario il dire e il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto
espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione. D'altra parte, le vie
annunciate sono uniche (μοῦναι) in forza di ciò che esse si propongono di
pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (è o non è),
esso è in B2 rinforzato da due formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a
partire dall'immediata evidenza: è (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno
dell'essere (escludendo cioè la possibilità del non-essere). La seconda
modalità, invece, prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione
di quella evidenza: non è (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi
conseguentemente sul terreno del non essere. Delineata come alternativa alla
precedente, essa si rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero
non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν
ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις
Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né
potresti indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione
delle vie, è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora
sulle implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι.
Comunque si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide anticipi
il senso di un messaggio (divino) che investe indiscutibilmente la dimensione
cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di
due forme (vie), le modalità di fondo del ricercare, del portare a
conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia fenomenologia di tentativi e
sviamenti mortali (le δόξαι βροτῶν). Se si può riconoscere alla narrazione del
proemio anche un'intenzione simbolica, ricordiamo come la θεά, accogliendo il
κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν γὰρ
ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della comunicazione
della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal tema della ὁδός:
la Dea dapprima (B1.27) con riferimento alla via che, grazie all’intervento di
eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto - segnala come essa sia
lontana dalla pista degli uomini (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); in B2 ella ne
rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in modo rigoroso i
criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In gioco è
esplicitamente (B1.29) la Verità: nella
sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ); nella sua manifestazione 22 Come ricordato in
nota al testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit. 147) ha
sostenuto che δίζησις costituirebbe equivalente poetico del termine ionico ἱστορίη
(ricerca scientifica). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella sua
diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane, in
effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a
proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico
δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente
interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a
conclusione di un viaggio lungo la strada ricca di canti (ἐς ὁδὸν πολύφημον)
che conduce l’uomo che sa: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui
attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso
per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che
giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la
verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il
riferimento al νοεῖν del poeta e del lettore\ascoltatore è essenziale per
coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla
comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla
centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà
ugualmente vincolante per la Dea e per i mortali (manifestando un decisivo,
comune denominatore razionale):
legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei
frammenti della prima sezione (segnatamente B8, parzialmente B6) e l’ἔλεγχος
adottato dalla divina interlocutrice per istruire il κοῦρος; contribuendo dall’altro a determinare
l’oggetto intorno a cui verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide
(nella formula più astratta) come τὸ ἐόν. Le vie e i loro problemi: natura e
articolazione della ricerca Le uniche vie di ricerca per pensare, come abbiamo
visto, sono proposte letteralmente come: 23 Ruggiu 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε
καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ
δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è
necessario non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una
soggettive esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è
possibile che non sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra
preferenza per la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più
aderenti alla costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e
ambiguità. In apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera pur senza
sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea
nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος
l’esigenza di tutto apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia
dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una -
l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni,
cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso -
B1.28 l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo
implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente
collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una
puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano
espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), ma
soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che
possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre,
attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni
(subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque che dice ovvero che pensa):
l’una [che pensa] che è25 (B2.3a) l’altra [che pensa] che non è (B2.5a), e che
non è [possibile] non essere (B2.3b) e che è necessario non essere (B2.5b).
L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto
quella avverbiale discussa da Mourelatos26: l’una come è e come non sia non
essere l’altra come non è e come sia necessario non essere, 24 In modo coerente
per esempio Cordero. 25 Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto
dichiarato. 26 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in
realtà con valore interrogativo: come una esista e che non è possibile che non
esista (p. LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel
che concerne la resa di ὅπως e ὡς con secondo cui, che ben suggerisce l'idea
delle diverse prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle vie può
essere rafforzato se come è possibile e per certi versi naturale nel contesto B2.3b
(καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che:
non è possibile non essere [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: è necessario
non essere [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come
Parmenide abbia deliberatamente costruito le vie di ricerca facendo leva sulle opposizioni
è non è e non è [possibile] non essere - è necessario non essere: la Dea per
acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι - ricorre a due formule
coordinate 28: [pensare] che A e che B
per la prima via; [pensare] che non-A e
che non-B per la seconda. In greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea,
da un punto di vista logico non-B dovrebbe corrispondere alla negazione di non
è possibile non essere e dunque a è possibile non essere, non a è necessario
non essere. In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos,
Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli
enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli
enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione non è possibile...-è
necessario...) solo contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non
sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore
dei mondi impossibili, cit. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…,
cit. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente
vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri
entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di
Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di
espressioni incompatibili)31. In questo senso la nostra scelta di rendere il
testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere
l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare
all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 (essere),
in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della
disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la
formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un
punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si
riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore
(esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo essere? È - non è Il
primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un
soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne
richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha
sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta
indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35
31 Si veda la discussione in Cordero 71. 32 Heitsch rende ancora più
esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da laPomba) es ist, und Sein
ist notwendig Der andere, (der da laPomba) es ist nicht, und Nicht-Sein ist
notwendig. 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della soluzione
più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38,
il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - whatever
can be thought and talked about41 (come viene da alcuni tradotto il primo
emistichio di B6.1), whatever we inquire into42. Da un punto di vista
filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio
da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e
τι (qualcosa) appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio,
infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso
risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide,
evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del
poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il
suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale
destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito
per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la
formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di
Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso)
fosse una novità46. D’altra parte, l’esame del frammento consente di
individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle vie
comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36
Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet.
41 Russell, Owen. 42 Barnes. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge et Kegan
Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A
Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come
osserva Cordero (By Being, It is), è curioso che le citazioni di questi versi
(in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46 Wilkinson
93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non
potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti
indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità negate a τό μὴ ἐὸν - debbano
essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a
(letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν
δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò che è è; è infatti
[possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48,
che l’omissione del pronome indefinito (denotante la cosa in questione) come
soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto
dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della comunicazione divina, è
tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto
(per altro non immediatamente desumibile e quindi difficile da sottintendere
per l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio
oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per catturare progressivamente l’attenzione
dell’ascoltatore e coinvolgerne
l’impegno intellettuale, lungo le due vie delineate, nell’enucleazione della
verità. Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a scopo
pedagogico. Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti
della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8,
assisteremmo a una graduale manifestazione del 47 Questo rilievo in R.
Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr.)”, Rivista critica di storia
della filosofia, 19 (1964) 311. Si veda anche Coxon 177. 48 175. 318 soggetto
sottinteso49 in B2.3: dalla pura affermazione ἔστιν si passerebbe, in B6.1, a
un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι,
determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative
proprietà50. La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito
soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) che imbarazza il traduttore moderno, spesso
costretto a ricorrere al pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha
l’effetto di porre in risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella
recitazione (per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52, una
ricorrenza insistente nel poema53. L'impertinenza linguistica di Parmenide54 si
sarebbe concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità,
per la rottura dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di
conseguenza incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν).
Con l’effetto di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita
nel linguaggio ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo
assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν
esprimerebbe immediatamente lo stato puro57 della realtà, 49 Su questa proposta
convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu.
50 O’Brien 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche 79. 52
Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι.
53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson 94. 54 P. Thanassas,
Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette
University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007 35: l’enfasi sull’è sorgerebbe
da una certa awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo
delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo essere. Giuseppe, Le
Voyage de Parménide, cit. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura di
Cordero, By Being, It Is, cit. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide
coniughi il rilievo ἔστιν con la formula οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, che certamente lo
rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà procedere
all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι).
57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit. 93. 319 presupposto in ogni
affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in
greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che
potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo dell’originario stupore per,
della primitiva attenzione al fatto d’essere. Nella lettura che proponiamo,
infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una
sequenza verbale ad effetto59, οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e
l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si
valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da
altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea
rimane comunque quello della determinazione di vie di ricerca per pensare, nel
senso di percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà:
Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a
quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza (non è possibile non
essere). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·
è necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come
espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato
contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno
dei quali si dice che è ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile
l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le
due 'vie' di Parmenide", La Parola del Passato), circa la scelta dell'è in
quanto puro elemento logico e verbale dell'affermazione (G. Calogero, Studi
sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 20-2). 59 L’effetto musicale in
greco della sequenza verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
non è facilmente riproducibile in traduzione, mantenendo il valore potenziale
di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit.,
p.32; Cerri 60), alla sua funzione speculativa nel rivelare il predicato
essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà
della cosa: Mourelatos 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio
quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero 60.). 320 che è, ἐόν/ὄν), ma
richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61.
[Pensare] che è, [pensare] che non è La seconda questione suscitata dalla
formulazione delle vie di ricerca per pensare è relativa al valore da attribuire
al verbo essere negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5).
L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in lettura
sia all’ascolto: è\non-è, non è [possibile] nonessere-è necessario non-essere.
A partire da questo dato testuale è aperta la discussione tra gli interpreti su
come intendere le espressioni verbali. Nella conclusione dell’esame precedente
abbiamo posto in relazione l’affermazione di B2.3 con il primo emistichio di
B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno del verso, essere (qui
nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un esplicito soggetto, il participio ἐόν,
con un valore che appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale:
esiste). Ora, volgendoci 62, senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente
rilevare due passi chiaramente significativi: 61 Thanassas 45. Interessante il
rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente
comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di
O’Brien 170 ss.. 321 ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è
ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι per
questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi casi si
individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e nel
participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono impiegati
con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄
ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né [un tempo]
sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove soggetto
sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a un tempo
valore esistenziale (con l’avverbio: è ora) e funzione copulativa65. Se poi
guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea
(B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a è o non è,
il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63
Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la
situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi diversamente:
essendo, è ingenerato e indistruttibile; essendo ingenerato, l’essere è anche
indistruttibile. 65 O’Brien 177. 322 di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che non-è [e che è necessario non
essere] è abbandonata, in quanto impensabile [e] inesprimibile, perché non
genuina (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di sentiero del tutto privo di
informazioni: conoscere ciò che non è ovvero indicarlo non è in effetti cosa
fattibile. L’altra si è invece deciso (κέκριται) sia\esista (πέλειν) e sia
reale\genuina\vera (ἐτήτυμον εἶναι). Se in B2, nell’economia della lezione
divina, è essenziale soprattutto focalizzare l’attenzione sul valore decisivo
della espressione verbale ἔστιν, preparando il terreno alla comprensione delle
implicazioni nella formulazione delle vie, in B8, al contrario, riscontriamo
gli effetti della sistematica applicazione alla prima via, con altrettanto
sistematica esclusione della seconda. La prima via per pensare (comprendere)
afferma ἔστιν; la seconda lo nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e
assolutizza l’affermazione con la negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι),
ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via assolutizza la
negazione affermando la necessità del non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con
la prima via, attraverso l’esplicito (e incondizionato) rilievo di ἔστιν e
dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene implicitamente imposto l’oggetto
pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι); con la seconda, che nega quanto
la prima afferma, viene, di conseguenza, delineato l’oggetto alternativo,
radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν, dichiarato al v. 7 come oggetto
indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν
τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il
dire e il pensare che ciò che è è: poiché è possibile essere, il nulla, invece,
non è. con la piena esplicitazione del contenuto delle due vie, avrà poi inizio
la disamina critica. Se questa prospettiva è corretta, allora in B2 le formule
della pura affermazione (ἔστιν) e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute
dalle relative formule modali, possono generare, in quanto vie di ricerca (le
sole per pensare), due soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui
appunto Parmenide fa leva in B6. La necessità di dire e pensare che ciò che è (il
participio ἐόν) è, esiste fonda la propria legittimità sulla duplice
premessa: che essere (εἶναι) è possibile
(ἔστι); che il nulla (μηδέν) non è (οὐκ ἔστιν).
Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al fraintendimento
della portata di queste tautologie, nella contraddizione generata
dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e non-essere.
Alla luce di questa considerazione ribadendo quanto sopra a proposito della
deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν), nel
contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore
(esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo appare insostenibile il
tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e
B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν,
appunto, l’essere), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione
logica (τό μὴ ἐὸν, il non-essere, μηδέν il nulla), segnavia di una pista che la
ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare di due
vie: una manifesta la realtà (Ἀληθείη)
di ciò che è (necessariamente); l'altra
spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento della Dea) l'indisponibilità
effettiva di ciò che non è (necessariamente), che pertanto andrà
sistematicamente escluso dall'orizzonte dell'umano indagare. 324 Non pare che
alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la contraddizione che,
invece, viene denunciata nelle opinioni dei mortali: condivisibile su questo
punto quanto sottolineato da Mansfeld66. L’identificazione della seconda via
con quella del mondo dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è
ancora connotata in B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν
ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una
[via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via non è
non si può concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον
(letteralmente senza nome: non si può indicare ciò che non è in senso
assoluto). Ma sono proprio i nomi a caratterizzare il mondo fenomenico, come
sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A
rimanere senza nome è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto
appunto espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν.
Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) in quanto vie di ricerca,
le uniche per pensare - devono essere reciprocamente alternative ma in sé
incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: generare le nozioni di essere e
non-essere; valutare, in relazione al
coerente ri- 66 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale prodottasi, la
consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo
dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio
- come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i mortali che
nulla sanno (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, uomini a due teste - δίκρανοι), si fingono
-, ma il fatto che (B2.6-8) non potresti conoscere ciò che non è, né potresti
indicarlo, in quanto cosa non fattibile. Prospettata (con la negazione οὐκ ἔστιν)
come alternativa a ἔστιν, la via che pensa che non è e che è necessario non
essere è percorso (ἀταρπός) assolutamente privo di contenuti, e quindi indicato
come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena consistenza dei suoi contenuti,
effettivamente accessibile e percorribile per pensare (cioè per afferrare la
realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui soggetto sarà esplicitato come ἐόν
(B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già implicitamente individuabile, nella forma
oppositiva di B2, come formula contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è
detto67 che l’unico modo per rispettare il valore oppositivo delle vie che la
Dea propone è di mantenere lo stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però,
ipotizzato che la linea di pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra,
che in B2 si lascia intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi è (ὅπως ἔστιν),
pura espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la
contestuale negazione modale dell’antitesi (non è possibile non essere, ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva
di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il
soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è
in questa prospettiva percorso di Persuasione (Πειθοῦς κέλευθος). Nei versi
5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di quell’originaria
esperienza, coniugata con la relativa formula modale (è necessario non essere, ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, marcandone subito
l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326 disponibilità facendo leva su
un’ulteriore, immediata evidenza: non è cosa fattibile (ἀνυστόν) conoscere e
indicare il nonessere (τό μὴ ἐὸν). Il percorso di Persuasione La rivelazione
divina delle vie di ricerca è accompagnata da due rilievi. Relativamente alla
via che è e che non è possibile non essere, la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι
κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ - di Persuasione è il percorso (a Verità infatti
si accompagna) (B2.4), marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e
soggettivo, come il viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη):
essa appare, allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica
esclusione del non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva,
le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini,
affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei mortali che nulla sanno: il
percorso (κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος
che Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come
viaggio69. 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες,
ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι
ψυχὴ τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra disse - che chiunque,
Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου],
debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è
sempre che a ciò che non lo è. 69 Coxon 174. Il passo di Repubblica (532b) è il
seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante
perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la
direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In
questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica
(Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione
(heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro
accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo
della “cognizione critica” (B7.5: giudica con il ragionamento, κρῖναι δὲ λόγῳ)
e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo
del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, si accompagna,
ovvero tien dietro, ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento, conoscenza
e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui svela la
realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con intelligenza)
lungo la via (che pensa o afferma) che è e che non è [possibile] non essere è
ulteriormente marcato come abbiamo più volte rilevato dall'indicazione con cui
la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν
ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è proprio questo itinerario che chiami
dialettica? Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare
la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως,
καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν,
αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς
πορείας Devi dirci allora quale sia il modo della facoltà della dialettica,
quali siano le specie in cui è divisa, e quali le vie; queste infatti, come
pare, sono le vie che potranno condurre là dove, pervenuti, potrà esservi riposo
dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos 66. 328 τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di
informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta di un rilievo decisivo: la
divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio “io” (τοι φράζω, ti
dichiaro) per rivelare, della via che non è e che è necessario non essere, che
essa è un sentiero (ἀταρπός, tracciato secondario) per cui non si accede alla
realtà, lungo il quale non si può fare esperienza o imparare raccogliendo
informazioni. Ciò-che-non-è È in questo contesto che la Dea introduce la
formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato). Nella cornice di un processo di
indagine che evoca il tradizionale motivo omerico del viaggio71, la
precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare
dall'assunto non è ed è necessario non essere, non potrebbe propriamente
incontrare, né indicare (φράζειν) qualcosa. Pensare che non è e che è
necessario non essere non porta da nessuna parte: nemmeno la guida divina può
tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato conoscitivo: οὔτε
γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non potresti conoscere ciò
che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7). Possiamo allora, per
contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo l'assunto è e non è
[possibile] non essere, 71 Mourelatos 76. 329 ci si muove verso ciò-che-è
(verso la realtà-Verità), e che tale percorso può essere compiuto (cioè è
fattibile - ἀνυστόν a differenza dell'altro): la guida divina, in effetti,
potrà fornire i segni o i criteri della via72. Dal momento che come rivela la
dea senza nome - non è in assoluto possibile (cosa fattibile) conoscere, ovvero
determinare ciò che (necessariamente) non è, solo la prima via, che pensa e
afferma che è e che non è possibile non essere, che muove dalla evidenza è, è
in grado di manifestare la verità, di estrarre dall’è indicazioni positive e
ultimative riguardo alla realtà (donde il successivo impiego delle nozioni
equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a
riflettere sono dunque: l'esclusività
delle vie di ricerca per pensare [comprendere] (in questo senso esse sono
appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito per pensare ne
specifica la natura); la loro reciproca
incompatibilità (sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle
formule modali - su cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della
seconda via: non è possibile conoscere o indicare ciò che non è; (iv) la loro
(conseguente) natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare
opposti modi d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del
necessario non-essere73. B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν
per nonessere, probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il
lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare
le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di
Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la
contrapposizione tra τὸ ἐὸν (essere) e τό μὴ ἐὸν (non-essere)74, marcando (a)
la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere, così
da 72 Ivi. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer 83
ss.. 74 Leszl 105. 330 concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò
comporta riconoscere, con Cordero75, che l'assolutizzazione del concetto di
essere è ottenuta da Parmenide attraverso la negazione della contraddittoria
nozione di non-essere. Il focus ontologico del poema (sinteticamente ribadito
con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: è [possibile] infatti essere,
il nulla invece non è) è così proposto contestualmente all’unico, fondamentale
rilievo sul non-essere: non è [possibile] non essere. Due formule: non è
possibile non essere, è necessario non essere Torniamo allora ancora una volta
alla formulazione delle due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non
essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed
è necessario non essere(B2.5). La presentazione di ognuna consiste (nella
nostra traduzione) in un verbo semplice (enunciato non modale), in forma
impersonale, coniugato con un enunciato modale: è, non è possibile non essere;
non è, è necessario non essere76. Ogni verso è articolato in due coppie di
emistichi corrispondenti, (a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν
l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 64-5.
76 O’Brien 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che
non è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che
non sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone
l'opposizione tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la
dipendenza di ὅπως e ὡς da νοῆσαι (le uniche per pensare: l’una che pensa che
…, l’altra che pensa che…) ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi
(l’una che dice che…, l’altra che dice che…), non presenta particolari problemi
di resa a parte quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto
inespresso e al valore da attribuire al verbo essere. Nel caso della seconda
coppia (secondo emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal
greco. Il greco οὐκ ἔστι può essere predicato verbale (non esiste, non c’è),
ovvero, come può apparire naturale alla luce del corrispondente uso
dell'espressione χρεών ἐστι (è necessario) in B2.5b, e della (comune) relazione
con lo stesso infinito (μὴ εἶναι), può tradursi con epressione modale (non è
possibile). Se, in questo caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula
modale οὐκ ἔστι come sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora
l’intenzione parmenidea di proporre l’alternativa in termini netti:
nell’enunciare la tesi della prima via (l’affermazione è), Parmenide marca,
indirettamente, la sua necessità sottolineando l’impossibilità della antitesi
(la negazione non è). Quanto affermato nella tesi non può essere negato, non
può rovesciarsi nella antitesi: nella argomentazione della Dea, l’affermazione
è collegata strettamente alla posizione della necessità logica e della
impossibilità logica78. Resa italiana in 77 P. Aubenque,
"Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de Parménide", in
Études sur Parménide, cit., vol. II 109. 78 Ruggiu 218. 332 questo senso
più efficace potrebbe essere: è e non è possibile che non sia. A sua volta la
formula della seconda via, οὐκ ἔστιν (non è), vede accentuata la propria forza
di negazione da un’espressione - χρεών ἐστι μὴ εἶναι che ribadisce l’intensità
della antitesi (è necessario che non sia). L'enunciazione delle vie evidenzia,
quindi, per un verso, la loro assolutezza, per altro la loro reciproca
incompatibilità. Non si deve tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel
mettere in guardia il κοῦρος rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con
l'espressione τό μὴ ἐὸν, stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e
determinarne la negatività (οὐ γὰρ ἀνυστόν, non è infatti cosa fattibile, in
cui spicca come nel termine epico ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le
vie non hanno, quindi, una mera consistenza logica, ma finiscono per enucleare
due distinte nozioni ontologiche. 79 Ivi. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il
frammento (è proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei
secoli il valore di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di
Parmenide1: esito paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento
che, oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione
all’interno del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si
aggiunga che, da parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto
contesto e cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3, che citano il
verso parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi,
quella che appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán 41. 2 Il
contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν,
καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ
εἶναι Aristofane ha detto: il pensare ha lo stesso potere dell'agire, e prima
di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il
seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τὸ γὰρ αὐτὸνο εῖν ἐστί τε
καὶεἶναι ” λέγων. Καὶ ἀκίνη τον δὲ λέγει τοῦτο - καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν -
σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α
ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν
ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa,
quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito
delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche che è immobile, dal
momento che avendo aggiunto il pensare gli toglie ogni movimento corporeo,
affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile alla massa di una
palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è esterno ma
interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate
dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di fare
di Parmenide un neoplatonico ante litteram4. La collocazione Nel tentativo di
offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due direzioni,
che appaiono legittime: ricondurlo a
complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione
secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6; proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in
particolare oggi propone Cordero7, con argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo
caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo
verso di B2: i termini coinvolti νοεῖν e εἶναι sono chiaramente correlati nella
prospettazione delle due vie (le uniche per pensare), mentre in B2.7 Parmenide
utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a
vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3,
dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien 19. D’altra
parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare
indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come
fanno più o meno decisamente Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch,
Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu 233.
Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα
νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: perché pensare è lo stesso che dire che quello
che tu pensi esiste. 7 E a suo tempo propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180);
Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni
si implicherebbero inscidibilmente9. Questa conclusione non è in discussione:
essa appare effettivamente il perno della tesi di Parmenide anche in B6.1 e
B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano diversamente modulare la relazione tra
i due termini. In discussione è, invece, il fatto che l’impossibilità di afferrare
il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non
è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere, concepire,
pensare10? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a sua
volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato giustamente
osservato come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la
possibilità di immaginare qualcosa di non esistente, denotando fondamentalmente
un atto di riconoscimento immediato11. Concepito in analogia con la percezione
sensibile, νοεῖν comportava nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato
indipendentemente dall'attività stessa del pensare, e che il rapporto con
l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di contatto con esso12. È
possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa
essere conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, non è infatti cosa
fattibile, quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore
argomento. A questo corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si
identifica con νοεῖν: leggendo in continuità i due frammenti, non dovremmo
riconoscere alla congiunzione γάρ un valore esplicativo, piuttosto intenderne
nel contesto la presenza a conferma della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in
traduzione, attribuire a νοεῖν non il generico significato di pensare, ma, come
suggerito da vari interpreti, quello specifico di conoscere o comprendere
(capire13, Erkennen 14, Erfassen 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch 144. 10
Conche 87. 11 Guthrie 17-8. 12 Leszl 67. 13 Cerri. 336 conceiving16). L’uso
arcaico di νοεῖν evoca effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo
γιγνώσκω (normalmente tradotto con conoscere), sebbene suggerisca in primo
luogo il riconoscimento, la capacità di penetrazione intellettuale17. B3, B6.1
e B8.34-7 Anche Cordero ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un
oggetto (l’essere), il pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i
versi B2.7-8 mirerebbero a marcare il carattere assoluto e necessario di tale
oggetto, essendo la sua negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e
parlare non possono fare a meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è
rilevante la connessione con B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella
relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e
pensare che essendo - è 19; e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide
attribuirebbe al pensiero una sola causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a) pensare e ciò a causa del
quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento che senza l'essere,
grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16 Coxon. 17 Leszl 68. 18
Cordero, By Being, It Is, cit. 83. 19 Usiamo, traducendo in italiano, la
versione dello stesso Cordero. 20 Come si vedrà, noi interpretiamo il passo in
modo diverso. 21 Cordero utilizza la versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente
attestata nei manoscritti di Proclo. 337 non troverai il pensare22. Cordero
osserva come nei due versi successivi si precisi che senza l'essere (τὸ ἐόν)
non troverai il pensare, ciò comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente
quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι νόημα (ciò a causa del quale c’è il
pensiero). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta privo di fondamento, poiché (γάρ), come
osserva Parmenide, c’è solo l'essere (B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν
ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né, infatti, esiste, né esisterà altro oltre
all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν
ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli
la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3). In forza di questo accostamento,
difficile sostenere l’interpretazione idealistica che vorrebbe l’essere
dipendente dal pensiero: senza l'essere (ἄνευ τοῦ ἐόντος), il pensiero non
esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo quando esprime qualcosa su ciò
che è24. Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due prospettive e dunque collocando B3
concettualmente tra B2, B6 e B8, il frammento andrebbe tematicamente inquadrato
tra l’esclusione della concreta possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero
e nel discorso (quindi della via che non è), la conseguente affermazione della
via alternativa alla precedente (che è), e l’esplicitazione delle sue
implicazioni per il pensiero e il linguaggio. L’estrapolazione non consente di
stabilire se B3 fosse effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra
abbiamo prospettato, semplice precisazione a sostegno della tesi di B2.
Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il
testo di Cordero. 23 Cordero, By Being, It Is, cit. 85. 24 Ivi 88-9. 338 (νοεῖν,
con il suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice
argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente,
Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225. In altre
parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di
pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle vie
di ricerca26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente
nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere
e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile (non poneva
l’essere nell’ambito delle cose sensibili), e parafrasando in tal senso proprio
B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide
(secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di Alessandro di
Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν·
τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è
nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ
καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma
l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28).
Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le premesse
(προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ
Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν
καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις
τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld 73. 26 Coxon 179. 339 Se invece
qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso queste premesse, quella che
dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di quella
che dice che l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi versi
[B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si connette a questo: in
effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, che chiaramente
Eudemo propone come premessa del sillogismo27, comporta la determinazione
dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν (uno secondo il concetto), versione
aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità concettuale
dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione peripatetica di
B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non introduce formalmente
nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι
παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν,
καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno secondo la forma (il
concetto) Poiché egli ritiene che oltre l’essere non ci sia affatto il non
essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e null’altro
(Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La congettura
adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di B3 come
assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2 attestata dalla
tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come modificazione della
conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29: solo l’essere (ciò
che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld 78-9. 28 Ivi 73. 29 Ivi 82-4.
340 Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe
introdotto qualcosa che manca nella enunciazione della prima premessa (la prima
via) del sillogismo di B2 (la cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere:
solo la prima via che è e che non è possibile non essere è per pensare).
L’introduzione del soggetto τὸ ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel
testo tradito di B2 ci si limita a rilevare l’impossibilità (non è infatti cosa
fattibile) di procedere lungo la seconda via, designata dalla espressione τό γε
μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare immediatamente come precisazione - alla
conclusione formale, in cui essere e pensiero sarebbero stati esplicitamente
correlati. La Dea allora sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di
vista è una evidenza: l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss.
con una più articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione
abbiamo scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso
greco, cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di
Parmenide didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri
frammenti) risultato dell’argomento delineato in B2: da un lato per marcare il nesso tra νοεῖν e εἶναι
e la sua natura intellettuale - così preparando la nota discriminante rispetto
all’ἔθος πολύπειρον, all'abitudine alle molte esperienze (B7.3); dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος
sul contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il
pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici;
un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che pur
considerando la possibile alternativa per pensare e conoscere la verità c’è una
sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3
sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola via di ricerca che effettivamente
è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo impo- 341 sta
dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La via (o il
metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere (ovvero la
realtà) come contenuto30. Quale identità? Nel suo commento Cerri 31 ha
segnalato, nell'identificazione dei due verbi, stranezza apparente e
sinteticità paradossale: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che
viene reso come capire), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo
sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse
sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’ identità, invece,
l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea, da un lato, l’aspetto
linguistico dell’identità, la connessione immediata tra termini nel linguaggio
ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto che potremmo definire
“dialettico” della relazione: l’identità è anche distinzione e si costituisce
come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine, rileva come
l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso matematico: il
testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una mutua connessione e
reciproca referenza. Nessun pensare senza essere, nessun essere senza pensare33.
Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti
circa la relazione cui allude la sintetica formula del frammento: rilevata l’impossibilità di percorrere un
corno della disgiunzione tra le vie (è e non è possibile non essere - non è ed
è necessario non essere), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né
indicare (φράζειν) ciò che non è, e
probabilmente integrato il rilievo con la necessaria conclusione
positiva circa la effettiva praticabilità della via alternativa (conoscere e
indicare ἐόν, ciò che è), la Dea (iii) estrae quella che nella sua ot- 30 Leszl
64. 31 Op. cit., p.193. 32 233 ss.. 33 Thanassas 39. 342 tica è un’evidenza
basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti,
generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare
genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per
veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro
degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare
quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia
riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata
da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare
e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve
avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel
pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è
capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come causa del pensiero
(Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve
essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di
vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che
la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri
discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35. Ancora
su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo
della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in
particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela
un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità.
B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già
colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di
B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a
γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche 90. 35
343 tendendolo come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo
individuato la forma verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta
per ogni attività di pensiero: quanto possiamo indicare come essere ovvero il
fatto di esistere. Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore
di νοεῖν. Mentre in apertura della propria comunicazione la Dea salda
l’alternativa delle vie di ricerca a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono le uniche
per pensare), dunque collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche
quella negativa - non solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν
(B8.32), ma anche quella che (non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella
formula sintetica del nostro frammento il pensare sembra vincolato all’essere,
addirittura si afferma che pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso,
allora, è possibile sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: che non è?
Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei
frammenti abbiano spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di
renderlo genericamente come pensare; ma non è facile aggirare la difficoltà, a
meno di non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno
specifico (comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata.
Secondo Leszl 36, invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente
intellettuale (implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro
sensibile), che coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto
astratte. Tale atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso
di intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento
(intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar
sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata
come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano
nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 69.
Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come quali sono le
vie di ricerca, le uniche che sono da pensare, quindi attribuendo a noēsai
valore passivo. 344 νοεῖν è inizialmente
introdotto in relazione alle due vie di ricerca, come loro finalizzazione (le
uniche per pensare) - evidentemente designando un atto di comprensione che dà
senso all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro
condizione di possibilità (le uniche da pensare\pensabili), quindi accentuandone
il significato logico; νοεῖν pur non
ancora esplicitamente contrapposto ai sensi riceve una connotazione
metaempirica: le vie sono per pensare, non sono fatte per essere esperite
percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare quanto celato o sfocato nella
percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre l’immediato
sensibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la complessità dei dati
empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune denominatore
(fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere (condizione del
pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto
designarne la facoltà come penetrazione intellettuale37. D’altra parte νοεῖν è
costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate
come l’una che è (e che non è possibile non essere), l’altra che non è (e che è
necessario non essere); l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come
ciò che non è; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι.
All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la
profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel
contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo
come la realtà, ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano essere è
sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile
predicazione (è): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico e
condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi 68. Conservatoci
nella sua interezza dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il
frammento ha sempre costituito una croce per gli interpreti, divisi sul
problema della sua collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua
appartenenza alla prima o alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) alla
sua posizione e funzione all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte
estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo
come primo frammento della prima sezione, collocandolo subito dopo il Proemio
(che in quella edizione, tuttavia, includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e
Hölscher2, al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera
(collocandolo, quindi, dopo B19)3, quindi nella seconda sezione. Possiamo
considerare intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno
registrare convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe
spiegare la oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4.
Secondo Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti propri
dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando
il radicamento del molteplice nell’Essere4. Che cosa rende di così difficile
contestualizzazione, all’interno del poema, i versi del frammento? Che cosa
contribuisce al disorientamento degli interpreti arrivati con Fränkel a negare
piena intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre questioni: 1
P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”,
Phronesis, 1, 1967 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die
Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati seguiti anche da L.
Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il
quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide,
Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i 41
e 42). 4 245. 346 il ruolo del νόος e la
probabile valenza gnoseologica del frammento;
il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore
implicazione tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti
cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare
Per decidere del significato del frammento è importante il contesto della
citazione di Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι
περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων
καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι
δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν
τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel
suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo genere:
[citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede, con il
pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che
c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che
c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli
occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che
Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι:
adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper
rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος).
In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere
presenti enti assenti e 347 lontani 5. La prospettiva appare certamente
gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente
caratterizza rispetto all’organo di senso: un vedere (εἴδομεν) con il pensiero
(τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere con gli occhi (τοῖς ὀφθαλμοῖς).
Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici
(τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ
μέλλοντα, le cose a venire) da quelli immediatamente colti sensibilmente: si
osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ
μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi, ma solo con il
pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione, possiamo
effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di Clemente: λεῦσσε
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose assenti siano
comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha la parola,
invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come cose assenti (o
lontane) (ἀπεόντα) possano risultare al pensiero (νόῳ) a un tempo presenti (o
prossime) (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso all'essere (B4.2). 5
Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il
contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens
du fr. IV du Poéme de Parménide , in Études sur Parménide, cit.,
t. II 69-101. 348
È chiaro come la possibilità di pensare (rappresentare) cose assenti o lontane
come presenti o prossime passi attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di
τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze
che si impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come
uno sguardo altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le
discriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza stessa
dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo λεῦσσω etimologicamente
legato a λευκός (nel linguaggio omerico chiaro, limpido), che porta con sé
dunque l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza6. Un verbo che può essere
direttamente messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di
chiarire con il pensiero [l'intelligenza]. I primi due versi di B4, quindi, si
prestano alla curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di
Clemente implica, senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni;
senza imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni,
sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich,
sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli
elementi 7. Possiamo inoltre marcare come il frammento non autorizzi a
retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi (sensibile e intelligibile,
ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due distinte modalità di
guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta
considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il
risultato (che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due
prospettive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia
del poema sono accentuate come opinioni dei mortali e Verità). È nostra
convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di
Parmenide) che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose
indicazioni riguardo alla capacità dell’intelligenza di superare la
frammentazione del dato 6 Viola 80. 7 Stemich 178. 349 empirico, raccogliendone
pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale
ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα
siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza
(nell’Essere) di tutti i suoi momenti8. Elementi che puntano in direzione della
seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad
associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: superare i vincoli spazio-temporali
“presentificando” la pluralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando
presenti cose assenti; cogliere la loro
connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν
è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente “ontologica”, nel
senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei
due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si è voluta leggere anche
come un portare le cose lontane-assenti alla presenza dell’essere9. Lo spessore
gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio consiste nel fatto che l’oggetto
(τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito, direttamente10 o indirettamente11, è diverso
dagli oggetti molteplici ai sensi (senza tuttavia trasformarsi in una entità
che neghi la molteplicità del mondo12): li abbraccia e li raccoglie
interamente, senza dislocarsi su un piano di realtà altro. Come nota
puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che si spinge oltre l’immediato
sensibile, rendendo presente l’assente, senza la sua preliminare evidenza
percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha per oggetto qualcosa che
si impone 8 Ruggiu 241. 9 Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit. 336. 10 Se
accettiamo che ἀποτμήξει sia terza persona singolare dell’indicativo futuro,
con νόος appunto soggetto sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come
facciamo noi, ma di recente anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda
persona singolare futuro indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare
il κοῦρος a non ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas 43. 350 all’intelligenza13.
Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il movimento dalla
assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato
allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle vie di
ricerca, che focalizza il percorso di Persuasione (Πειθοῦς κέλευθος), non può
sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel
movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo errare15: la sua
conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che l’operare del νόος
riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero
utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e
avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla maturità
dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e
che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e
κοῦρος. …saldamente presenti Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che l’uso
dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e l’intero contenuto del
secondo contribuiscono a determinare νόος come un pensiero che conduce alla
continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l'essere
[ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 68. 14 Couloubaritsis 340. 15
Viola 94-5. 16 Couloubaritsis 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la
solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate
spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere
(τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte,
illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di
introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3,
esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora
l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto),
ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della
verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un
modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di
fiducia18. Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della
affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo
in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ
τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione,
concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di
posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a
una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello
stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola 100. 18
Robbiano 130. 352 cazioni cosmologiche, la funzione di B4 potrebbe essere stata
prolettica, nella introduzione del discorso della Dea, che poi B8 avrebbe
articolato e precisato. È significativo che nella sua prima edizione del poema
(1897), come abbiamo sopra ricordato, Diels proponesse l’attuale B4 come B2,
dunque all’inizio sostanzialmente della prolusione divina. Rimane comunque
l'impressione che il frammento possa aver svolto, nell'economia
dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le due sezioni,
analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il contesto della
citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza tra visione
percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon19 che Parmenide non sia
in questo frammento interessato alla natura dell’Essere (la cui indivisibilità
sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla natura del νόος come capacità
intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di B4 in relazione ai
rilievi di B6 e B7 sui rischi della abitudine alle molte esperienze (ἔθος
πολύπειρον). L’espressione kata kosmon e le implicazioni cosmologiche Sono
comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a rappresentare il maggior
cruccio per gli interpreti, soprattutto per la determinazione del valore del
greco κατὰ κόσμον e del senso della dinamica imperniata intorno ai due
participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che indicano dispersione e raccoglimento.
Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν, della cui connessione interna
(rilevata dal νόος) costituiscono una alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 187. 353
non impedirai, infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4).
Parmenide si limita a stigmatizzare la prospettiva di un moto ordinato
(conforme a un ordine) - di disseminazione e concentrazione degli enti, quale
potrebbe essere rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più
specificamente si riferisce a un modello, intenzionalmente impiegando il
termine κόσμος per designare l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il
cosmo Che egli possa aver imboccato tra i primi - questa seconda direzione, è
suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle
(B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la
dimensione cosmologica è indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia
influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός
τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε
πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e
l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque,
e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Osservala con
l’intelligenza, non restare con sguardo stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ
κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν
ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano
separate le cose, le une dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il
caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo
commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale
del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più
probabilmente di autore genericamente peripatetico20), che contiene passaggi
che sembrano effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε
θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι,
μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν
αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη
τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ
συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ
γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα
τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ
γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν
τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ
συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα
καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε
ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte
pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e
soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla
contemplazione dei componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata
a conoscere la verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si
tennero lontane da questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la
filosofia non temette l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica
la paternità aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo
per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più
belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado
congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non
era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e
contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi,
l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il
confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che
non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel
pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e
con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli
uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era
possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21.
Quello che risulta interessante - in chiave eleatica è, nei versi empedoclei e
nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια)
e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli
elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo,
invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo, complesso del
mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal riferimento ai
tradizionali contrari cosmogonici caldo-freddo, unitamente alla negazione della
separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso Empedocle (DK 31
B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον (in un unico mondo)
nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica
di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è
presente in senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine
delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino osservala con
l'intelligenza (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il
parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica le cose più lontane fra
loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα
τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi 175. 356 συνεφόρησε) richiama complessivamente
B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione è che i versi
del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, assenti e
presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente significativi in
prospettiva cosmologica già nel V secolo (Empedocle, Anassagora), a ridosso
della sua composizione: forse perché estrapolati dalla sezione cosmologica del
poema, forse perché in quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno
parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che
risente tuttavia della lezione aristotelica). La possibile (probabile)
implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di concentrazione-dispersione
(eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il
rilievo della funzione omogeneizzante del νόος potrebbero suggerire ancora una
posizione introduttiva del frammento rispetto alla revisione cosmologica
proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di B8): premessa, dunque, alla
vera e propria esposizione fisicocosmologica della seconda sezione.
Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche specifico
precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un riferimento
generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto: qualcuno, come
Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di una sostanza
prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur non escludendo
il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come Guthrie25,
ritengono Parmenide 22 189. 23 Su questo concordano Reinhardt, Gigon,
Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι
καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς αὐτῆς >· ἀλλ’
ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito (B91)26; altri
ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del frammento,
dubitano che possa riferirsi a fenomeni di condensazione-rarefazione,
giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale e banale. In realtà, se si
prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di Parmenide, pare corretto
individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo avrebbe preso le
distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che la riflessione più
strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per contestare
alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più consapevole e coerente
teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di Graham28, il quale,
ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi” scientifici,
successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.:
quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli
enti, il loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali,
indicato come Generating Substance Theory (GST); quello che avrebbe, secondo l’autore, radici
nella seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o
meno coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti”
(Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory
(EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ
ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello
stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza
mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si
disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un
tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 32. 26 Su questo concordano
Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 94. 28 D.W. Graham,
Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy,
Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006. 358 (iii) quello
espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia, riconosciuto come
Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma scientifico ionico,
così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza originaria da cui tutto il
resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo
scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali elementi si dispongono negli
strati materiali del cosmo; d) le strutture e i materiali del cosmo si
stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli esseri viventi; f)
un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il modello. Rispetto a questo
paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una vera e propria teoria del mutamento30),
Eraclito (cui è dedicata da Graham un’analisi convincente31) avrebbe
abbandonato l’idea di primato della sostanza generatrice a vantaggio di quella
di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari
(fuoco, terra, acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare
dell’impatto della lezione di Eraclito32, che Graham interpreta l’ontologia di
Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli
strumenti concettuali per negare il divenire come generazione dal non-essere e
affermare una concezione di ciò che è che l’autore ritiene compatibile con il
pluralismo di sostanze ingenerate, incorruttibili, omogenee, immutabili e
complete (Graham parla di Eleatic Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe
quindi proposto una cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella
Aletheia, coerente con i principi della metafisica di Parmenide33. Lasciando
per il momento in sospeso altre valutazioni, la collocazione della riflessione
dell’Eleate proposta da Graham appare 29 Ivi 8-9. 30 Ivi 45-84. La
rivalutazione del contributo del “terzo” milesio è uno degli aspetti più
interessanti dell’opera. 31 Ivi 113-147. 32 Ivi 148-162. 33 Ivi 182-5. 359
sensata e potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento.
Da un lato, infatti, i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a
ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del
non-essere potenzialmente implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro
anticipano (ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere,
per rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto,
accanto all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere.
Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco,
avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί
φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι)
θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si
condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio
questa l'espressione che usa) è calda (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta:
σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει καὶ πρόσεισι
καὶ ἄπεισι si disperde e di nuovo si raccoglie viene e va (DK 22 B91). Il
frammento di Parmenide un breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi
del poema potrebbe dunque essere risultanza di una più o meno esplicita
evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del contributo
eleatico soprattutto in termini di coerenza come attesterebbe l’insistenza sul
νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa concezione della
realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio questa possibile funzione critica
farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il poema: 360 come controparte gnoseologica
dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente
riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; come trait d'union tra la sezione ontologica
e quella cosmologica, a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una
positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della Verità, come vuole
Ruggiu34. 34 251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è
conservato in una citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι
πελάζει, ciò che è si stringe infatti a ciò che è) e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza), riferendolo dunque
all’Essere. In realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire
all’impressione di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di
Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la
relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν
di B4, è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare
in qualche lettura particolarmente convincente1. Anche nel caso di B5, la
questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove
prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere
mantenuta2. Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del
frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale
andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di
B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la
ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la
verità ben rotonda (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος
(massa di ben rotonda palla, B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς
Ἀληθείης (B8.51); il concetto di limite estremo (πεῖρας πύματον, B8.42) appare
comunque forzata la conclusione di Ruggiu3, secondo cui B5 esporrebbe la forma
nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo conto
della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota
minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione
della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È
il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una
(improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo
inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 253. 362 sapere divino e sapere
umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e la sua
indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha giustamente
messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento annunciato
dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu apprenda
(B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un sapere
compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia acquisito
tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe di una
ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il percorso,
la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra, ecc.)
rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo, non
per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono
indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής (ben
rotonda), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del
frammento5, rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e
dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di
circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8. 4 98. 5
Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo coinvolgimento
all’interno di una (in vero implausibile) specifica argomentazione geometrica.
6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας Comune
è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il principio e la fine. 7 Il
passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος
γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός
τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce della successiva trattazione
dell’Essere e del mondo della natura, sembra difficile poter insistere su tale
circolarità, come ha opportunamente segnalato Coxon9: nel primo caso, infatti,
lo sviluppo argomentativo procede in una direzione lineare; nel secondo
l’esposizione delle opinioni dei mortali doveva diffondersi sul piano
storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità indifferente possa
riferirsi al complesso delle due esposizioni, dipendendo la comprensione della
seconda dalle analisi della prima10. Indifferente e circolare, invece, potrebbe
essere considerata la discussione delle possibili vie di ricerca, non
necessariamente legata a un ordine di sequenza e in questo senso indifferente
rispetto all’argomento da articolare. Come segnala Coxon11, la circolarità di
quella preliminare discussione sarebbe contrapposta alla linearità degli
argomenti sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità (B8). Una variante
interessante è quella avanzata da Bicknell12, che abbiamo registrato nelle
annotazioni alla traduzione: intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe
essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa
l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο,
πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha
osato supporre che sia ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe
generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che
eravamo ragazzini proprio contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla
fine, in prosa e in versi, che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri 202. 9 171-2. 10 In
questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici 396) sulla
presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 171-2. 12 P.J.
Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit. 9-11. 364 ESSERE E NULLA [B6] Il
frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio
(quindi, come osserva Cordero1, ricomparso a un millennio dalla stesura del
poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso a B22,
per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων
λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ
[B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν
συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν
ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie
non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in
quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti
[citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam
117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il
non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via
che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In
Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una
valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione
di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di
contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is,
cit. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In questo
senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da parte di
Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio salda
esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il primo
verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore, in
altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ τὸ
πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν
τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται
λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa,
quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio
l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una
sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la
sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso
B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto
(in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a
cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei
versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό
μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ
περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν
κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε
γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες·
μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in
quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono
(l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga
l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno
di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di
essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono,
tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli
unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio:
τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda via di ricerca di B2, che
evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella
parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno
alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è
decisivo per determinare: la natura
delle vie di ricerca per pensare; il
numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In
particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di
contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν (mortali
che nulla sanno), δίκρανοι (uomini a due teste), e ἄκριτα φῦλα (schiere
scriteriate), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci,
trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale
(come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il
primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire
nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato
dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema
interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄
οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il
pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è
possibile infatti essere], il nulla, invece, non è. La nostra traduzione4
ricava due formule modali (è necessario, è possibile) dal testo greco, che
appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι
(letteralmente: ciò che è [l'essere] è), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere
letteralmente: è essere ovvero [l']essere è), μηδὲν οὐκ ἔστιν (letteralmente:
ni-ente non è). L’essere dell’ente Il primo emistichio è costituito da tre
blocchi testuali: l’espressione verbale
χρή, che abbiamo reso come è necessario: si tratta di una formula con cui la Dea
rileva un passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come
conclusione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); le due forme verbali all’infinito λέγειν e
νοεῖν precedute da τό, con valore di articolo sostantivante (il [fatto di]
dire, il [fatto di] pensare), ovvero, come crede qualcuno, di dimostrativo in
funzione prolettica (dire questo e pensare questo: ….); in ogni caso è evidente
che la Dea (Parmenide) coinvolge due verbi particolarmente pregnanti nel
contesto della sua rivelazione: νοεῖν richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι),
mentre λέγειν può collegarsi a φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι,
formato dal participio presente del verbo essere (ἐόν, forma ionica di ὂν:
essente, ovvero ente o ancora ciò che è e quindi anche essere) e dall’infinito
dello stesso verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e
traduzioni alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo
reso, come appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta
da λέγειν e νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la
multivocità del verbo essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa
che esprimerla in negativo: da una lato l’ente di cui si afferma l’essere,
dall’altro il ni-ente di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la
traduzione proposta appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di
interpretazione dell’ultimo blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella
di sfruttare la densità semantica della coppia participio-infinito dello stesso
essere, per marcare l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato
potrebbe essere quello su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di
Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν,
sull’essere di ciò che è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere,
sull'evidenza dell'esistenza. È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva
denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις· poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo. B6 si apre appunto sostituendo
all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il positivo ἐόν; al rilievo
dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere) ciò che non è, quello
della necessità di dire e pensare l’essere dell’ἐόν. Nel passaggio interviene
l’importante novità dell’introduzione del soggetto di εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν
appunto: l’affermazione è e non è possibile non essere (B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ
ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς κέλευθος, percorso di
Persuasione, trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale soggetto di referimento.
Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come formula concettuale scaturita
dalla riflessione sull'espressione della prima via di 5 Parménide, Le poème,
présenté par J. Beaufret, cit. 81. 6 102. 369 ricerca per pensare7: formula che
manifesta l’essere di ciò di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula
sintetica riassumente la totalità delle cose che si manifestano nella
esperienza (come ricorda Thanassas8, è frequente l’uso del plurale ἐόντα nella
sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν focalizza il fatto d’essere: ciò che è,
l’ente, la “cosa”, è, esiste. Siamo portati decisamente a credere che, nel
contesto, il valore di ἔμμεναι sia esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente
con essere. L’uso dell’iniziale χρή anche senza volergli attribuire il
significato forte di necessità logica è funzionale alla ripresa della
conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν, integrata dal rilievo di B3: τὸ
γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere.
Delle due vie di ricerca di B2 le uniche per pensare - quella che pensava che
non è è di fatto indisponibile, perché, come abbiamo ricordato, ciò che non è
non è conoscibile né esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso
tra νοεῖν e εἶναι, tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale
oggetto possibile (εἶναι) alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie.
Nell’apertura di B6, ai due infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente
attribuito un oggetto: la dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι (ciò che è è). La Dea non si
limita in questo modo a riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea
anche come pensiero e discorso debbano correttamente ammetterla9. A tale scopo,
in B6.1b-2a, ella reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas p. 45. 8 Ivi 44.
B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero 92. Preferiamo attenuare il carattere di
necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla, invece, non è. La
formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e
proibizione nella prima via di ricerca per pensare: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza
della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, attribuendo
coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due
emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse.
Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: intendere il precedente ἐὸν come soggetto del
primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il
nulla, invece, non è; intendere ἐὸν come
soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι): poiché [ovvero:
infatti] è essere, e non è nulla; 371 (iii) intendere εἶναι come soggetto del
primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il
nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso, esplicitamente ritroveremmo la
disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due soggetti logici (il primo εἶναι,
il secondo μηδέν) che la trasformano in una duplice asserzione tautologica
(quindi vera). Per molti versi si tratta della versione più naturale10, ma ha
lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso di γάρ. Seguendo una
affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso dovrebbe introdurre
le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia tautologia (si tratta
dell’aspetto che rende più perplessi) sembra semplicemente riformulare la
dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in sostituzione di ἐόν), negando l’essere
al soggetto contrario ([il] ni-ente). La Dea, dunque, sosterrebbe la propria
tesi direttamente, marcando la non esistenza del non-essere: oggetto del dire e
del pensare non può allora che essere ciò che è, perché solo ciò che è [l’essere]
è [esiste]. Il vantaggio di questa soluzione è quello di mettere in valore la
possibile struttura delle due vie di B2: come abbiamo osservato, la
disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata in termini tautologici, dunque
investirebbe in realtà due verità, in questo senso proposte come le uniche vie
di ricerca per pensare11, una delle quali (sviluppare coerentemente la premessa
che è) feconda, l’altra (sviluppare coerentemente la premessa che non è)
assolutamente improduttiva. Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea,
che cambia e si fa sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che
incrociano le due vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere
suffragata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In
questo senso la lettura della Germani 191. 372 Colli12, la via enunciata in
B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece
con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non
si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto
dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso (poiché è
essere, il nulla, invece, non è) sarebbe messo in valore l'essere di ciò che è
(ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del
"ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea
otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che ciò che è è essere e non è
nulla. È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione
alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa,
rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni
modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut
dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas
possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che
il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno
riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13,
infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il
primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è
principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale
in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo
emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia
e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti,
Adelphi, Milano 2003 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I 214. 373
non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν < εἶναι
>). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in entrambi i
casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo ininfluente la
traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto di fare).
Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della possibilità
dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere sia16. Resta
comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17, per cui, attribuendo alle
due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la simmetria e soprattutto
l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2 in B6 In apertura di B6,
insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in B2, precisandola:
sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento dell’ἐόν come oggetto
di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di B2.7), teorico contenuto
della via di ricerca non è ed è necessario non essere, esista. In pratica ci
troviamo di fronte a una riproposizione in positivo della conclusione di B2. La
puntualizzazione riguarda le uniche vie di ricerca per pensare: alla pura
formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν si sostituiscono le espressioni
tautologiche ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione,
dunque, di adeguati soggetti logici. 14 90. 15 Traduce: denn dieses (das
Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein. 16 Colli (Gorgia e
Parmenide, cit. 174) ha osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι)
sia l'enunciazione della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda.
Ciò confermerebbe, secondo Colli, i soggetti delle due vie: ciò che è, ciò che
non è. Questa lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe
una congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la
necessità che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così
diventerebbe a sua volta necessità. 17 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato
due potenziali percorsi di indagine gli unici per pensare: l'uno, ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica sviluppando le implicazioni dell'affermazione di
esistenza - è - e negando possibilità al non-essere: valorizzando il
significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che coglie immediatamente il
proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo questa pista di indagine il
focus era destinato a concentrarsi assolutamente sull'essere; l’altro, al contrario, tentava la ricerca
imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione non è
rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda via di ricerca per
pensare tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale
direzione non vi era ni-ente (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via
poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e
sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso
originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva
immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace
di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento
in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della
via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile
all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto
l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In
B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ
λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati
delle formule delle vie: ciò che è è (ovvero l'essere è) e il nulla [ovvero,
letteralmente: ni-ente] non è. A questa lettura che ha conseguenze, come
vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in
particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel
complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: il
nulla non esiste di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: non è
possibile non essere, riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è
orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la
Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo,
come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα che esistano cose che non sono). La
struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto è necessario
riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι è la compiuta, esplicita espressione
della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte la
possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto
questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la
seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era sentiero del tutto privo di informazioni
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto ciò che non è è inconoscibile e indiscernibile.
La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν, come
elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità dell'opposto ἐὸν
ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la riconsiderazione critica
(argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος (percorso di Verità), inizialmente
introdotto in forma direttiva, sia la definizione ufficiale del suo oggetto: ἐόν.
Il numero delle vie È indicativa la formula utilizzata per valorizzare
l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea, infatti, con espressione
caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste: 18 By Being, It Is, cit.
99. 19 Ivi 105. 20 Parmenides et Presocratic Philosophy, cit. 112-3. Palmer
offre comunque un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα
Queste cose io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale
di B2: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu
abbi cura della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea
sottolinea il rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta
comprensione della realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è
all’origine della confusione dei mortali che nulla sanno, come appureremo tra
breve. Analogamente, dopo aver presentato la via è ed è necessario non essere, la Dea si
premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Questa
ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3, allora,
ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che il nulla invece non è):
πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima via di
ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo greco,
con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una
tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente
avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla Curd22), i quali
propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι (forma
media), cominciare: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”,
Deucalion, 33-34, 1981 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo greco.
377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > since you < will
begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης
διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin > for you from
this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la lezione
tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla
oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore possibilità che
la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui
si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della
sola via che è e che non è possibile non essere, da cui, ovviamente la Dea non
potrebbe trattenere ovvero tenere lontano23, bensì solo cominciare o invitare a
cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza degli argomenti
filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare secondo la sua lezione
24, ma offrirla solo come possibilità. L’interpretazione che proponiamo è
coerente con la lettura tradizionale, dal momento che consente di riferire il
complemento iniziale e il dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν.
Essa evocava l'unica indicazione desumibile dalla via di indagine che non è e
che è necessario non essere: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non
esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse
condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo
coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina,
mirata ad affermare la necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo
23 Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione
τ’ dei codici BC a quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si
era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con
il personale ti, l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di
Cordero, meno naturale nel caso di Nehamas (comincerò per te). 24 Che appare
comunque plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è
caratteristica nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via
prospetta diventa prima nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca,
poi da quella…. Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per
sostenere un modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una
difficoltà, che la soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere,
indicando una sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di
Cordero avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄
ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via
di ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano.
Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare
B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla
Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come
per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal
confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: quella che affermerebbe l'essere è (ricavata
da B2); quella che affermerebbe (a)
l'essere non è (ricavata da B2) ovvero (b) il nonessere è (ricavata da B7.1);
(iii) infine quella che affermerebbe l'essere sia è sia non è ovvero sia
l'essere sia il non-essere sono. La prima via da evitare (nella lettura
tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da
evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2:
dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt
concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per
precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il
nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile)
in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: B2 delinea in modo netto una alternativa (ἡ μὲν
ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività (le uniche per pensare ) delle vie di
ricerca prospettate; B2 offre con le
uniche vie di ricerca per pensare due direzioni d'indagine lungo le quali
dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: è (ἔστιν), estraendone
essere (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι);
(b) la seconda dalla connessa negazione: non è (οὐκ ἔστιν), marcando la necessità
del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra
immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non
potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi
alcunché: non è possibile conoscere né indicare ciò che non è; (iv) le vie di
ricerca per pensare sono introdotte come vere e proprie premesse della
complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt,
Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la
ricostruzione di Leszl 120-1. 380 parole (io dirò - e tu abbi cura della
parola, una volta ascoltata) suggeriscono il rilievo cruciale dell'alternativa
per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore e il lettore);
(v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la
responsabilità di sostenere come possibile via di indagine (per pensare!) la
tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - via dell'errore, come vorrebbe Cordero27:
è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός
(via non genuina), percorso di indagine che non può concretizzarsi in
conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere estratte due verità
basilari per le successive argomentazioni: l'essere è necessariamente, il
non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere ulteriormente a determinare la
prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà dirsi di più della seconda,
evocata solo per marcare la necessità della direzione d'indagine alternativa.
Come segnala la Germani 28 (e, in una prospettiva diversa, Cordero29 ),
potrebbe in questo senso non essere casuale l'eco parmenidea della formulazione
aristotelica del principio del terzo escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ
τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che
l'essere non è o che il non essere è è infatti falso; [dire] che l'essere è e
il non essere non è è invece vero (Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe,
quindi, lo sviluppo della conclusione di B2: la Dea, rievocando
(implicitamente) l'alternativa tra le vie, afferma la necessità di riconoscere
che ciò che è è (ἐὸν ἔμμεναι), attraverso il rilievo della possibilità di
«essere (ἔστι 27 By Being, It Is…, cit. 73. 28 193. 29 By Being, It Is…, cit. 105
nota. 381 εἶναι), e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In
B8.15-18 il passaggio sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ
οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via
genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il testo è significativo,
secondo noi, perché scandisce efficacemente le sequenze del procedimento
parmenideo: (a) introduzione (logica: le vie sono per pensare) della
disgiunzione è\non è; (b) esclusione della via che non è in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον
(che richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra
non lo è (non è genuina, ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come
effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile (il nulla non è), prima
ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea invenzione dei mortali che
nulla sanno (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento delle
implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata come ὁδὸς
διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30 L’argomento
sarebbe quindi: ἔστι εἶναι, μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382
mente caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31.
L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del
poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione:
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella
che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei
loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande
importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon,
Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea,
ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica,
veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi
del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla
natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος·
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι
μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il
verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, mi invento e non di πλάζω vado
errando, come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit. 155. L’autore osserva: par di sentire
l’eco di un’esortazione religiosa. 383 Parlerò senza disprezzo per gli uomini,
narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo occhi, in
vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle
forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo
incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia
impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti
della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione
filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna la
costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un
consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’impotenza si
traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione
della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo.
Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento
sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio
perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa
interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà
l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e
propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33. La Dea riferisce ai mortaliuna prima
serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, che nulla
sanno, una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica per
indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente,
immemore del passato e ignorante del futuro)35. Li connota come δίκρανοι,
uomini a due teste, coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico
deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che
quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la
“finzio- 33 Su questo Ruggiu 257. 34 Ivi 259. 35 A questa situazione mortale
era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne”
(πλάσσονται, si inventano) di una via: invenzione evidentemente frutto della
confusione delle uniche vie di ricerca per pensare. Denuncia la loro ἀμηχανίη,
la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere -
alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a
un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν,
nei loro petti, potrebbe riferirsi a una localizzazione dello θυμός che
consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni
negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che sottolineano la
fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε,
τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate (B6.6-7). I mortali, dunque, non sono in controllo di sé;
il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a
tre livelli: nella perdita di contatto
con la realtà: gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono nel
loro caso dei mortali isolamento, distorsione;
nella conseguente tonalità emotiva della sorpresa37, da intendere nel
contesto non come positiva apertura alla comprensione, bensì come sintomo della
condizione contraria: profonda confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di
discernimento (κρίσις, κρινεῖν), con cui spregiativamente la Dea connota le
schiere (φῦλα) dei βροτοί, cioè la loro massa, il loro insieme indistinto, come
confusa è la loro percezione della realtà. 36 108. 37 Con formula omerica
(τεθηπότες): in Omero (Odissea) lo sgomento era attribuito allo θυμός e
localizzato nel petto (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso,
dell’indicazione più importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze
su cui ci siamo concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di
Parmenide, per bocca della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale
della fragilità mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna
dell’uomo in quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare
la norma razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso
la posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ
δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες
τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι,
τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται
proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano,
e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco
Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ
παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di
loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK
22 B34) ὁ Ἡ. φησι τοῖς ἐγρη γορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, τῶν δὲ
κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρέφεσθαι E. dice che per coloro che sono
desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna
a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι
χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ
πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει
καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con intendimento
devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e
ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica
legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e
avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio
dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come
nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni
condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come tutto
accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del
mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della
realtà) degli altri (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente
una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in
Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo)
che li circonda, gli uomini (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi vivono
così non da desti (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore, stordimento: una
sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a ciò che è comune (τὸ
ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente dall’ottusità della incon- 387
sapevole esperienza quotidiana, che convince falsamente di un mondo
frammentario, discontinuo, caotico (il tema dell’estraneità). L’io della Dea di
Parmenide e l’io personale di Eraclito sono come correttamente segnalato da
Conche39 - dalla stessa parte, in quanto cooperatori del vero; dall’altra ci
sono coloro che non giudicano con la ragione: il segreto dell’erranza dei
mortali è nel loro stesso pensiero40. A noi pare che lo studioso francese abbia
colto nel segno sottolineando come l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’uomo
collettivo, incapace di assumere la decisione (κρίσις) riguardo alle due vie:
in questo senso, analogamente a quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio,
giudicare con intelligenza è possibile solo all’individuo che si distacchi
intellettualmente dalle credenze collettive41. Una via “inventata” Per
riassumere e concludere sulle vie di B6, ribadiamo la convinzione che Parmenide
reiteri, in apertura del frammento, l’alternativa di B2, introducendo poi, in
relazione a essa, il tema specifico dell’errore di fondo dei mortali. Il
passaggio alla confusa combinazione delle vie è accompagnato nel testo dal
recupero del motivo tradizionale dell’impotenza umana (tanto più
significativamente in quanto affidato alle parole di una divinità), che viene
tuttavia “curvato” per corrispondere alle peculiari esigenze polemiche
dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra insistere soprattutto sulla natura
illusoria di una ὁδὸς διζήσιος (via di ricerca), scaturita in realtà dalla
presunzione e debolezza cognitiva dei mortali. In questo senso esso non avalla
alcuna “terza via”, non le riconosce alcuna consistenza, nemmeno sul piano
strettamente logico: mentre la via che pensa che non è e che è necessario non
essere si presentava come uno dei corni della alternativa 39 Non a caso editore
sia dei frammenti parmenidei, sia di quelli eraclitei! 40 Conche 107. 41 Ivi 108.
388 fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata
correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di
coloro che nulla sanno, dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di B2
possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι e
μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua
negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente
formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro
scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie
alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio
cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e
concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano
a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi
in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam
117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν
τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere
nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando
con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra
inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione
in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere).
Dei mortali che nulla sanno la Dea parmenidea denuncia essenzialmente
l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι (essere e non essere), ταὐτὸν
κοὐ ταὐτόν (la stessa cosa e non la stessa cosa), che finiscono per essere
contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la Dea, essi
indifferentemente assumono e combinano termini in realtà contraddittori, senza
rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità: proprio nella
contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in questo come nei
due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di Parmenide.
L’obiettivo della polemica Ma chi sono i mortali cui si rivolge l’attacco
parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero dobbiamo
pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a marcare la
strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt), magari per
legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole Mansfeld),
oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di B7) la
condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze espressive giustificano
il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio precisati seguaci) come
oggetto delle critiche (come credono in molti), o dobbiamo piuttosto supporre
che Parmenide prenda posizione in generale rispetto allo sfondo complessivo (e
grandioso) della sapienza milesia (come sostengono, tra gli altri e in modo
diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso, citando a conferma della
nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente già preso
posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del dibattito
interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla sanno s’inventano Se da un
lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento
pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e
dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto
l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica
genericamente βροτοί, mortali) che propongono un punto di vista ordinario, teoreticamente
ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio della Dea
sarebbero allora apostrofati (nulla sanno, εἰδότες οὐδέν) presunti sapienti che
esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore ascritto la mancata
discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe genericamente riferirsi
all’incapacità di offrire una coerente (con le uniche vie di ricerca per
pensare) spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in
B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche
Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica
analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i
modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la
competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei
contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli
agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42) διδάσκαλος
δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην
οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo costui credono sapesse una
gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di giorno e notte: sono
infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ
διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον
l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti l'avrebbe
insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo (Diogene Laerzio; DK
22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος
ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην, κακοτεχνίην.
Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più di tutti gli uomini e
raccogliendo questi scritti ne produsse la propria sapienza, il saper molte
cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129). L’obiettivo, nel caso di
Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e coinvolgere le alternative al
modello di sapienza filosofica che proprio la Dea interveniva a delineare,
sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a giudicare con intelligenza.
Sul terreno filosofico è difficile pensare che le posizioni della tradizione
milesia potessero meritare un'attenzione così critica e sprezzante. Il quadro
offerto da Parmenide appare per molti versi analogo a quello delineato a
Mileto, con la fondamentale differenza che, nel suo caso, non si punta a
riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza della φύσις-ἀρχή: nel
complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la denuncia della debolezza
degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già registrato nel commento a
B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e B7 apparirebbe comunque
eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura scientifica di Mileto
(sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di confronti del genere).
L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una volgare contraffazione del
sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi un riferimento alla massa
di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di intendere la parola della
Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso, potrebbe valere l’analogia
con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del secolo scorso Döring42
propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica antipitagorica: una prospettiva
rilanciata dall’adesione di una quota minoritaria degli specialisti (tra i più
autorevoli certamente Raven43). Tra gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione
che i primi pitagorici asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico
al non-essere: posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua terza via,
combinando essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili,
che speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la
sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel
tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di
escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto
insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente
comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un
pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha
ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui
lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe
espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile
alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti
nella generazione di tutti gli enti46. 42 A. Döring, Geschichte der
griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das
Weltsystem des Parmenides”, Zeitschrift für Philosophie und philosophische
Kritik, Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the
Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth
Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda
Tarán 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a
favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46
Aristotele, Metafisica: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν,
τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393 In questo senso,
gli uomini a due teste (δίκρανοι) cui allude Parmenide potrebbero essere
genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili dell’elaborazione di
quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica, infatti, a dispetto
dell’accenno a un contributo specifico dedicato all’argomento, rivela, (come
nel ricorso all’espressione i cosiddetti pitagorici, οἱ καλούμενοι
Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e difficoltà di determinazione,
ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio matematico all'applicazione
dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare un'evoluzione delle
posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il riferimento
ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle due
serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ
ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ
[ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο δὲ παραπλησίως
τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ
ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας
In tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi
prendesse tale dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età,
Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile
a costoro. Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono
dualità, pur non determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma
proponendole a caso (Metafisica I, 5
986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ περιττόν), τὸν δ’
ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν [Essi
pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è
illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi (è,
infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i
numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la
Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che,
come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità
pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano
risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone
contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una
elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che
le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di
una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in
un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli
ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza
pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di
tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento
(Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti
(Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri,
Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di
B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla
supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura
sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e
Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per
esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le
seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει·
παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano
2010 (edizione originale 1958-1964) 134- 135. 48 23. 395 non capiscono che ciò
che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia
dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα,
συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα
congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico,
da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele [de mundo 5
396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν
τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo
(Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si può
discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo di
Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più
tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato
essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti
il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la
seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa
e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396
Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10)
l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del
“sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non
essere (per cui appunto l’essere e il non essere sono considerati la stessa
cosa e non la stessa cosa). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco
di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora
prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli
opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella
modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze
da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più
inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a,
B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la
κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto
alla posizione di Eraclito52. Ancora di recente, Graham53 ha proposto di
leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera
di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della
polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di
una sostanza generatrice a vantaggio di quella di processo universale, regolato
da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi
elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco
espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario
evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ
παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un
puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto
insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán 71.
51 Couloubaritsis 199. 52 Ivi 200. 53 Per esempio, sia
in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy. 54 Semmai
vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertori
dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma in B6.9 di una vera e
propria tecnica della citazione, già emersa nel proemio con la evocazione del
mito di Fetonte e delle Eliadi55. Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo
studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica della posizione di
Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato la teoria
dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati
paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle
oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56. Così non vi è
dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del
tipo è e non è, a essere imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe
infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata dall’Eleate57. Lo
studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio,
nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la (presunta) “terza via”
del frammento non si riferisse a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente
umana, ma alla tesi specifica di un indirizzo filosofico: il linguaggio
impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe quello con cui la tradizione
peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina eraclitea58. Questa
osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'identificazione del
referente dell’attacco di Parmenide: tra gli specialisti è noto, infatti, come
le ricostruzioni platonica e aristotelica propongano un’anomalia di fondo, che
si ritiene effetto dei peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei
pensatori arcaici. Le prime collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da
attribuirsi, nella seconda metà del V secolo a.C., ai sofisti Ippia59, che
avrebbe approntato una selezione per temi, e Gorgia, che invece avrebbe
disposto il materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto probabile
che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri 208. 56 Ivi 206. 57 . 58 Ivi
208. 59 J. Mansfeld, “Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and
chronography”, in G. Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia
antica, Torino 1986 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als
Philosophiehistoriker, Münich 1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle
prime forme di storiografia filosofica risentisse profondamente di quegli
schemi riduttivi60. Mansfeld61 ha marcato come ciò risulti particolarmente
evidente proprio nel caso di Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati
esasperati la dottrina del flusso universale e della diversità (a scapito delle
affermazioni su unità e stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e
dell’immobilità62. In realtà, come abbiamo già avuto modo di rilevare in
precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una prospettiva
alternativa, tale da rendere problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio,
in effetti, proprio nelle citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato
in un'operazione analoga a quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici
e cosmogonici della prima riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose
per estrapolarne gli schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine
sistematica sulle forme della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente
questo si sarebbe tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i)
l'universale pervasività del divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii)
la stabilità persistente nel divenire. Significativa anche l’altra convergenza
già segnalata: Eraclito esplicitamente polemizza con alcune figure della
tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali contemporanei -
Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si proponeva,
evidentemente, di prendere le distanze, per delinearne, consapevolmente, quasi
marcandone la novità, una propria. Eraclito manifesta una verità relativa alla
costituzione del mondo fisico e umano - a cui, pur avendone potenzialmente
accesso attraverso esperienza e riflessione, la maggioranza degli uomini -
indicata spregiativamente con l’espressione i molti (οἱ πολλοὶ) - rimane
estranea. In questo senso, analogamente al kouros privilegiato dalla
rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio isolamento,
sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia plausibile che
Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo) avessero accesso a
un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld,
“Sources”, in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, C.U.P., Cambrdige 199 22-44. 62 Ivi 27. 399 al fondo delle cose
afferrandone la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la
percezione parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini
(δοξάσματα). La pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,
all’interno di due limiti essenziali: i) il logos che è sempre (τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’
ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che sempre divengono secondo questo
logos (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea il
valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità
della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla
unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la
funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al
λόγος, tutto è uno 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente
organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni
singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il
prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo
sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là
dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la
supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a
meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come
sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo
come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da archegeta) nella
ricostruzione della dottrina dell’essere, giustifica l’attacco di Parmenide
come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22
B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su
questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178).] [zione di è e non è),
che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65. In questo senso, però,
le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero
un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della
cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica. Ipotizzando
per le opere degli autori presocratici come ha fatto di recente Maria Laura
Gemelli Marciano66 - un contesto culturale e pragmatico molto concorrenziale, e
concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle idee nel bacino
del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea un riferimento
generico e specifico a un tempo: agli
ignoranti colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali
(da cui l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità,
sordità); ai poeti responsabili della
divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà; (iii) ai pensatori
ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo, riconoscendo la forza
del principio a un elemento a scapito degli altri, concentrando l’essere in
un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv) al limite allo stesso
Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie enunciazioni di un logos che,
per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare: formule in cui,
pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e non-essere si trovavano
accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate come confermerà B7 sono gli
“uomini della contraddizione”, coloro che implicano consapevolmente o meno67 l’assurdo:
che siano cose che non sono; in altre parole coloro (schiere senza giudizio)
che, affidandosi acriticamente al dato empirico, condizionati dai meccanismi
irriflessi dell’abitudine, avanzano una inaccettabile terza via. 65 Cerri 209. 66 M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques:
adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce
que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002 83-114. 67 In
questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni
dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’assurda implicazione che essere e
non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa. 401 Come osserva Coxon68,
la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν è da
leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι:
il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e
oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione
mortali che nulla sanno si riferisca alla massa di non filosofi, che Parmenide
trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della Dea, la
parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger: νενόμισται
evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la communis
opinio, la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)70. A questa
ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna anche quelle
espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra le uniche vie di
ricerca per pensare appariva debole o confuso: un fronte potenzialmente ampio,
dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui reale presenza
polemica è comunque solo ipotetica. 68 185. 69 109. 70 W. Jaeger, La teologia
dei primi pensatori greci, cit. 170, nota 36.
[B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels
e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In
Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo
verso e l’intero secondo verso;
Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso;
(iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6,
citandoli di seguito a B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene
Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi
assicurare la plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole
unitarietà del frammento1, nonché la sua probabile saldatura con B8, in
considerazione del fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7
citato da Sesto corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8
in Simplicio. Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto
il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3
ritiene possibile che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα
che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza
di tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) riconosce la possibilità che B5 si
collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del
frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in
continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel
primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico
e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán 76. 2 Mansfeld 91-2. 3
Op. cit., p 189. 4 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili,
cit. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione
dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6. Attribuire l'origine delle difficoltà a
una libera citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione
da antologia poco affidabile7, non appare del tutto convincente, soprattutto
alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio,
con tracce della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione
alternativa a quella attica): è possibile, dunque, che egli disponesse di una
buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il
poema8. Nel caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione
teoretica di fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare
passi di un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente
"montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un
assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento
di conoscenza9. Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la
critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della
ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in
discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla
ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è
impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora
sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il
verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma
tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe
μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non
reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides et Presocratic
Philosophy, cit. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni
di lingua, Edizioni Quasar, Roma. 9 Ivi 30. 404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι
μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· Mai, infatti, questo
sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca
allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso coincide con la
reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea mette in
guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche εἶργε
νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che richiamano
evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora impegnato a
denunciare gli uomini a due teste (δίκρανοι), uomini della contraddizione
appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle uniche vie di
ricerca per pensare (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι B2.2), l’assurdità. Un pensare
“selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione: l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο
δαμῇ) secondo cui è inammissibile che cose che non sono (μὴ ἐόντα) sono
[esitono] (εἶναι); il sostantivo νόημα,
che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con la formula κρῖναι δὲ
λόγῳ, (giudica invece con il ragionamento ovvero valuta discorsivamente,
attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος πολύπειρον,
l’abitudine nata dalle molte esperienze. Per quanto riguarda il primo aspetto,
la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella tradizionale, che
Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha difeso per la sua
sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una versione più letterale
(di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che aiuta a comprendere il
valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté, For never shall this [wild saying] be tamed (O’Brien); Car jamais ceci
se- 405 ra mis sous le joug (Conche). Ciò che la Dea vuol manifestare è
l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che può ricavarsi dalla confusa
posizione dei mortali che nulla sanno. La contraddittoria commistione delle due
vie (che si fondano sull’immediata evidenza è e sulla sua negazione), il
mancato apprezzamento della loro disgiunzione, si traducono in una “selvaggia”
(bestiale) contaminazione, che è impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre
a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in questo caso, proprio in
relazione a questa attestazione parmenidea, lo specifico valore di to be
proved. La durezza della presa di posizione della Dea, che reitera le formule
sprezzanti del frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in
guardia rispetto alla inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui
statuto, ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini
inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης
τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere
sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che
non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che
viene stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o
meno: il nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o
comunque implicano l’esistenza del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in
diversi passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in
particolare pp. 77-8. 406 Cose che non sono Non è ovviamente sfuggito agli
interpreti il fatto che in questi versi Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ
ἐόντα (una infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da
lasciarlo indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un
rilievo polemico nei confronti dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei
sensi che cerca di attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo
Cordero12, la critica delle attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi
di B6 all’intero B7, in un complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali.
Insomma, l’infinitiva iniziale (εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9,
denuncerebbe l’esito di un modo di pensare quello di mortali che nulla sanno
(βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla
guida di un intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono13.
Parmenide avrebbe impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν)
perché il pensiero "selvaggio" di chi si allontana dalla strada
dell’essere è esercitato a partire dalle cose che si presentano
nell’esperienza14. In questo passaggio il filosofo non intenderebbe, tuttavia,
riferirsi al non-essere, non sarebbe impegnato a rigettare la seconda via15, ma
a rilevare la contraddizione indotta dal fraintendimento dell’esperienza16.
L’insistenza su questo punto nei due frammenti che precedono (secondo le
ipotesi di ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga
analisi della “prima via” in B8.1-49, rivela come esso sia cruciale nella
economia del discorso di Parmenide, soprattutto in funzione della seconda
sezione del poema. 11 Tarán 77. 12 By Being, It Is. 14 Ruggiu 263. 15
Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche 117. 407 Una posizione diversa e
più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17, secondo cui il
contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta nei
confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle teorie
fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio (In
Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella
discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore o contro
l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι,
ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così
come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura parmenidea
dell'inesistenza di cose che non sono, avremmo allora una contestazione delle
teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche
B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e
probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente
B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco
sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere),
condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe
il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul tu personale) dalla
tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere
(vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di
non-essere sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla
nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza
aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno illimitato soffio (ἐκ
τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός)
come respiro (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le
cose: εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι
κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ
τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς
καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν
διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto
e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo come se questo
respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il vuoto fosse una
sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione. Questo
accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura
(Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo osservato commentando B6,
l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è suggestiva, anche per
l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di Parmenide: le indicazioni di
Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) riferito
a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per pieno: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di
più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è
tutto pieno di ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive
proprietà, a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte
invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla. (B9). Nei due diversi contesti la sezione sulla Verità per B8, e, quasi
certamente, quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν
omogeneità e pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò
farebbe supporre implicito il rifiuto del vuoto (τὸ κενόν) e la sua
identificazione con il nonessere (μηδέν, nulla appunto), che solo Melisso
avrebbe esplicitamente sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν·
οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è
nulla; e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come
Aristotele nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis
Physicam 650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 coinvolga sul tema,
oltre a Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto
attribuito al vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in
primo luogo dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto
convincente nello specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso
a μὴ ἐόντα per indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti
enti molteplici, effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale come
conferma anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a
qualcosa che è in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più
probabile che l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6
contro gli uomini a due teste, formalizzandola in relazione alla krisis di B2:
il γὰρ del primo verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe
trova- 20 Coxon 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα,
la possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle
assunzioni di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta
nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la
proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7
riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il
senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai mortali che
nulla sanno sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale
(B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e l’invito a giudicare con il
ragionamento (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e
dopo la descrizione del mondo umano22. Che siano cose che non sono La Dea mette
in guardia il kouros: a dispetto dell’alternativa rappresentata dalle uniche
vie di ricerca per pensare e dunque contro una coerente considerazione
razionale della realtà, si tenta di far accettare l’esistenza di cose che non
sono. In gioco è la presunta pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo
associata, nei versi successivi a ἔθος πολύπειρον, abitudine alle molte
esperienze, un costume mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo.
B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l’essere sia connesso all’essere. 21 91. 22 . 411 Ciò che non è
immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’essere (τὸ ἐὸν),
perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse
alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate
degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la
corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a
riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I
sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente
ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua
assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una
superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in
Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma
quello dei giudizi dei mortali24. Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco
di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il
kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che
esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla via di
ricerca (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ
διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 266. 24 Conche 122. 412 <
πλάσσονται >, δίκρανοι da quella [via di ricerca] che mortali che nulla
sanno < s’inventano >, uomini a due teste Nel frammento precedente si era
iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti mortali, impaniati nella
contraddizione: il loro, in fondo, era solo un “preteso” percorso d’indagine,
in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται, s’inventano). In B7, invece, si
punta su due elementi: (a) la dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ)
rispetto alla pretesa che siano cose che non sono; (b) l’appello personale (ἀλλὰ
σὺ) a trattanersi - evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα,
alle schiere scriteriate (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere.
Questo richiamo personale segue:
l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con
l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι); l’invito ad aver cura della
comunicazione introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende
la possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ
μῦθον ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria
intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi
a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente
contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω
>, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello
sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente
sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto
all’impotenza dei mortali, a condividere razionalmente la disamina critica
della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di
Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per
distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di
liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e
premesse fallaci per concentrarla sul compito arduo di riconoscere i segni scaglionati
lungo la Via dell'essere26. Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in
chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo
specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a
immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un uomo che sa
(B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28).
All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative per
pensare proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla
manifestazione dei segni della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette in
guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό
γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro
sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea
metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare
alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e
distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del tu ai
mortali (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo schema
dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo
negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella scelta la
propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via sbagliata
impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit. 48-9. 27 Robbiano 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman et L.
Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris
1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere
assimilati a una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29. Da
questa via di ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di
Simplicio (forse direttamente dal testo del poema) la via di ricerca da cui la
Dea inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν),
diversa da quella evocata in B6.4, inventata da mortali che nulla sanno:
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato
infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere
[citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78,
2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel
senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta
implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano
indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1
denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già
segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del
fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i mortali.
Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato:
la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano.
Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano 103-4. 30 120. 415 terza via,
illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie
legittime da un punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e
l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente
a chiarire l’origine dello sviamento dei mortali che nulla sanno: μηδέ σ΄ ἔθος
πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ
γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5).
Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via
di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) mortali, il nume
richiama l’attenzione sulle insidie dell’abitudine (ἔθος), che allignano nella
irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i
termini in gioco sono appunto ἔθος, che
guadagna la sua forza dal contrasto con
νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia
degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’abitudine è contrastata con la valutazione
intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché in sé
contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale abitudine si
tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per marcarne
l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo
dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le
cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e
spingere, inconsapevolmente, a ritenere che siano cose che non sono. La nuova
messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il
nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati
dalla ragione31. È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo
uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti
marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la
percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché
lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto
dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una
acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una
spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di
vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime
barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce
all’anima una funzione intellettuale la presenza a sé stessi, la consapevolezza
- testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e in genere sul
corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) integrata dalla capacità
di discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi sono
fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono insufficienti, richiedendo
il vaglio critico della psychē, proposta come istanza indipendente rispetto
alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva parmenidea, l’uso
dell’aggettivo barbaro, in cui è stata ravvisata la probabile implicazione
linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu 267. 32 Conche 121. 417
infatti, o al balbettare di chi non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri)
o alla incomprensione di chi non conosce il linguaggio. A sottolineare
l’essenziale ruolo dell’anima come facoltà di raccolta, decifrazione e
intellezione dei dati empirici. In Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco
il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e del linguaggio dei mortali: i
sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e assenza; il resto è
frutto del giudizio e del linguaggio umani, che attribuiscono ai dati
sensoriali una consistenza ontologica che essi non rivendicano33. L’erramento
dei mortali è marcato dalla Dea (come in B6.4-9) come erramento del pensiero,
intellettuale: se consideriamo il contesto del suo discorso, assicurato da B1,
potremmo convenire con Conche che, se la via della Dea è discosta dalla pista
degli uomini (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27), l’abitudine, al contrario, pare
proprio trattenere e intrattenere su quel percorso34. In questa prospettiva
l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε
νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo con il frammento B1 di Eraclito
(già utilizzato nel commento a B6): l’isolamento del sapiente rispetto alle
opinioni condivise dagli altri uomini (τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela
nella tensione tra il suo discorso consapevole - che annuncia il dominio del
logos su tutta la realtà - e l’incomprensione degli uomini (nei frammenti
connotata come torpore, stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose
che li circondano, tanto più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito
di quella legge universale e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli
enti. Ramnoux35 preferisce allora al termine abitudine il termine costume, per
evidenziarne un effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad
assumere un punto di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di
una propria identità. Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al
discepolo affinché valuti 33 Ivi 122. 34 Ivi 121. 35
C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979
111. La
referenza è di Conche 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione
suggestiva: l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva
sulla pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel
giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via
della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37. Sempre in
relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento
della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il
vezzo di molto sapere. I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di
πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a
collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura
nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con
la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente
condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in
precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli
Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto
presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante
la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in
campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre
critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come
sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte
cose41. 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche 122. 38 61-2.
39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in giovinezza a scopo
di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires”, cit. 83-114. 41 Robbiano Occhio, orecchio e lingua La
“forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che
caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il logos deve rettificare
l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo,
essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte
esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non
vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide recupera un motivo
tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in
Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di
B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’
ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi
[gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non
ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta
senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che
i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”,
cui Parmenide 42 Coxon 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza omerica
(non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo statuto di
essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza multipla,
quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del reale con
il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è quello di
nome (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose” sono così
destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima forma di
“nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle cose come
vuoto parlare, parlare per non dire niente45. Noi riteniamo che in B7 Parmenide
rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare alle cose e di
esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di comprendere la
realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una osservazione
della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando si coinvolge
il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che
ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea non critica i mortali perché
percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in
modo scorretto quello che percepiscono48. Logos e elenchos Il frammento si
chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν
ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata
(B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli
destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et
Philosophie…, cit. 201. 45 Ivi 201-2. 46 97. 47 105. 48 Enfasi dell’autrice.
421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos
(con il discorso, con l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν,
polemico, ma anche molto contestato) appena proposto (sulle implicazioni
temporali del participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La
Dea, con trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena
coscienza della forza (razionale) della contestazione condotta: ogni distanza (tra umano e divino) è così
annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos può accomunare
docente e discente; giudicare e
discriminare appaiono come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una
prova destinata a contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende
accertare una contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente
l’attività e il risultato del raccogliere (λέγειν), donde una prima
associazione semantica alla numerazione e le successive due linee di
sviluppo: enumerazione e racconto
(inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi discorso; conteggio, calcolo, stima, ragionamento. Nel
nostro contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di
operatività razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito,
λόγος risulta polivalente, designando a un tempo il discorso, la sua espressione
scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in
cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura
interna. Secondo Ruggiu49, anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος
indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente
al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne
l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico
originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è provocare
vergogna, una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è
il significato di smentire una menzogna, riuscire a provare che qualcuno è
colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49 267. 422 modo il verbo abbia
assunto il senso di mettere alla prova, verificare, accertare qualcosa.
L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi proprio alla critica,
sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta sapienza tradizionale,
probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse pitagorici. Una vera e
propria confutazione, se consideriamo che la polemica è consistita
essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle posizioni.
La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone l’espressione diretta della semplice e
immediata esperienza della realtà, ἔστιν, contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν):
da questa alternativa fondamentale e radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ
ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1) come soggetti (ancorché il primo solo
logico, il secondo reale) delle due coerenti vie per pensare. Quindi, dopo aver
riformulato (B6.1-2) in termini tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν)
il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito
prodotto nel pensiero (νόος) dei mortali dalla loro contraddizione50, cioè
dall’incauta contravvenzione delle norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι
μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso la prova intorno a cui la Dea invita il
kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica, una confutazione
(ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento
dialettico per eccellenza 51. 50 Heitsch 161. 51 Su questo si vedano in
particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi
aristotelici. I Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004.
Il frammento B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo
commento alla Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli
versi) sono riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele,
Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto,
Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha
creato, almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del
testo originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come
abbiamo già documentato nelle note. L’acribia nella discussione critica si
giustifica per il rilievo del lungo frammento, attestato dalla stessa messe di
citazioni e comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più
lunghi passi superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in
questi versi Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità dell’opera)
l’intera comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un
primo esame critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione
convenzionalmente designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da
sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ
περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν
anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i
non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da
me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non
essere, le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144,
25-29). Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere
i due segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole
preferito concentrare l’attenzione prima 424 sulla presunta ontologia del
poema, per passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi
interpretativi della natura. La via che è e la Verità Diogene Laerzio (IX.22),
a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν
μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due
parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. Alla luce di quanto
risulta dalla nostra analisi di B1, tale struttura emerge dal programma
annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è
necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia
dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo
imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero
effettivamente, tutte insieme davvero esistenti. Nella prima sezione (dopo il
proemio) indicata - per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma -
come Verità1, ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 -
l’insegnamento (πυθέσθαι, anche imparare) del cuore fermo di 1 E che ricordiamolo
- Parmenide in B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - percorso di Persuasione.
425 Verità ben rotonda (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla
denuncia (B6, B7 e ancora B8) dell’errore insito nelle opinioni dei mortali
(βροτῶν δόξας). La sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra
interpretazione) da mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma:
conterrebbe cioè una lezione (μαθήσεαι, apprenderai) adeguata su τὰ δοκοῦντα,
sui contenuti dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione
sulla Verità soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più
numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse
articolato il poema Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si
prestava all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età
ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua
interpretazione da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne
integralmente il testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la
produzione del V secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e
della concettualità della Verità, che doveva costituire novità rispetto
all'arcaica elaborazione ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che
i "naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3, abbiano
adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente
eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo
subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit. 31), infatti, Sesto avrebbe
utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel
secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica
redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto
disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un
esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean
Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander
Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002 51-2)
sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero mutuato le
caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si sentisse in
dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi giustificandola
argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno, forse, di
continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce
esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il
proprio numerical monism: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi
come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante
osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di
ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla
cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio
ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio4. La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto)
produce un’interruzione di ritmo (suono)
e una dissociazione di significato5,
come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni
semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in
silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto)
incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due
terzi finali del discorso della dea6. La via che è L’attacco del frammento (vv.
1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola
ancora, della via che è, rimane; su questa via sono segnali molto numerosi:
che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane
un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di
alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and
To Eon…, cit. 107. 5 Ivi 96. 6 Ivi 107. 427 camminarsi lungo la via che
appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei 15-18:
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque
deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce
sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται (unica parola
ancora rimane B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν
(espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι di B2.2) e la
conseguente, necessaria esclusione della via che non è (B2.7-8): non è
fattibile (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) ciò che non è
(τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi impensabile (ἀνόητον)
e indicibile (senza nome, ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), sentiero del tutto privo di
informazioni (παναπευθέα ἀταρπόν). La decisione (il giudizio, κρίσις) è
conseguente: come destino (necessità, ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è
riconosciuto che non si tratta di via genuina (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la
quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di
B8, delle uniche vie di ricerca per pensare, non rimane quindi che imboccare
quella reale (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι):
muoversi sul terreno di è e non è possibile non essere, rinunciando a dare 428
consistenza a non-è ed è necessario non essere, garantisce intelligibilità e
comprensione della realtà7. Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea
aveva invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i
tratti di un authoritative speech act (Morgan) è funzionale alla successiva
notifica della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα
βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo
della svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una
formula indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας
δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto
pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da
questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole
ascoltando, che può ingannare (B8.50-52). La parola (il discorso) di Verità
della Dea traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica
di ciò che, nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον.
Si tratta della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima
via: 7 Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in
apertura di B8 si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins
de Parménide, in Études sur Parménide, cit., t. II 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo
senso, in B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι
δὲ λόγῳ) la prova polemica (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse ipotizzando
una sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) l’apertura
con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo alla
via: è (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il discorso è uno,
perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i segni
(σήματα) che consentono di identificarla8, molti gli argomenti che possono
essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος,
μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di
Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare
(sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9. Sarà allora lo stesso
intreccio dei segni a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e dunque a mostrare
l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei mortali: essi ipostatizzano
quanto, in vero, è solo nome; assumono come evidenza ultimativa la molteplicità
di enti, senza ricondurla all’identità dell’essere. Il μόνος μῦθος che la θεά
articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς
κέλευθος (percorso di Persuasione) in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ (tien dietro a
Verità): lungo la 8 Secondo gli interessanti rilievi di Robbiano 108-9. 9 430 via: è e non è possibile non essere si
esprime non solo per l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma per
l’intrinseca costruzione razionale quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata
negata (B1.30) alle opinioni dei mortali (ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, in cui
non è reale credibilità). Con una differenza significativa: nel proemio il
kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la πίστις ἀληθής
rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni
correnti. In B8 è lo stesso convincimento, maturato argomentativamente, a
trattenere dalla distorsione tipica dei mortali che nulla sanno: considerare
(νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ
πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano:
convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la
Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in
guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > ἄκριτα
φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν [ti tengo
lontano] da quella [via] che appunto mortali che nulla sanno, schiere
scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa
e non la stessa cosa οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄
ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai,
infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa
via di ricerca allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος
(articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente
consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che, prescindendo
dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i
fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί
τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
L’essere (τὸ ἐόν), ovvero ciò che è (ἐόν), è la sola cosa che possa essere
pensata ed espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di
qualsiasi cosa i mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi
in realtà pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava
dalla parola della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della
rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una
lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta
escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa
attraverso i segnali che possono identificarla per la ragione. In questa
prospettiva i 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che
spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione il
discorso affidabile (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)
all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan,
“Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno
schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα
B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a
rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla
κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo
statuto trascendentale. La parola, infatti, nel suo procedere argomentativo,
appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: Giustizia [lo]
tiene (ἔχει), Necessità potente [lo] tiene (ἔχει), Moira (Destino) lo ha
costretto (ἐπέδησεν). La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta,
esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa
conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”:
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε (da questo momento in poi opinioni mortali
impara B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il suo
oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in
guardia sul passaggio dal rigore del discorso affidabile (πιστὸν λόγον), del
pensiero intorno alla Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione
potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, ascoltando
l’ordine delle mie parole che può ingannare). Il poeta segnala il cambio di
registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza
ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della
Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione
stessa delle parole11. L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana”
della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione
linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste
cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A
queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. La
via e i suoi segnali La Dea si affretta a osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός
(ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono
segnali molto numerosi. Il rilievo è importante perché sottolinea la fondatezza
della comunicazione divina, sottraendola all’arbitrio, e la sua intenzione
razionale: essa allude a segni, proprietà, evidentemente da riconoscere come
genuini indicatori della realtà, e implicitamente è introdotta la loro
discussione. La presenza di segnavia lungo un percorso (κέλευθος) è naturale,
così come la loro funzione di orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il
compito educativo della Dea diventa quello di illustrarli e, così facendo, di
sviluppare la conoscenza della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I
σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro
discussione, il riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare
e far prendere consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la via, in effetti, è
indicata come ὡς ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei segnali
rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78,
11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come
connotazioni dell’essere che veramente è. 434 Segnali La Dea ne propone un
catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς
ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον·
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita
è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un
tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei
molti problemi testuali abbiamo dato notizia in nota. Qui interessa tentare di
comprendere che cosa i σήματα rappresentino per l’autore. Una prima risposta
possiamo ricavare dalla versione che abbiamo proposto (una delle possibili): la
via ὡς ἔστιν è tradotta in termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo
stesso emerso in B6.1) e, apparentemente12, due serie di predicati: ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς,
ἀτέλεστον; νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές. I segnali molto numerosi sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque
caratteristiche che si possono legittimamente riferire a ciò che è, sulla
scorta come risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e
come abbiamo anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando
diversamente lo stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e
deducibili) dalla 12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer
(tra gli altri), fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò
considerando gli attributi dei 5-6 già parte della discussione e non
propriamente σήματα. 435 stessa nozione di ἔστιν (τε καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν
(τε καὶ χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti
all’essere, essi ne manifestano la natura. È plausibile nel contesto che la Dea
intenda σήματα e ἔλεγχος non disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento
conoscitivo richieda non semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo
sostiene. Anzi, dal punto di vista della lezione divina, la valutazione
razionale del giovane allievo appare preoccupazione primaria, come marcato in
B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con
il ragionamento la prova polemica da me enunciata. I segnali potrebbero dunque
costituire il materiale concettuale su cui esercitare la razionalità del
kouros, con un duplice scopo: fargli prendere
confidenza con τὸ ἐόν; fargli prendere
coscienza delle inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse
pitagoriche). Si tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia,
nella misura in cui il riconoscimento della natura di ciò che è comporta, per
un verso, la presa di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile,
per altro la contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato
(B8.34-36a) il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ
νοεῖν) e essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ
ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è
pensare e il pensiero che è: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di
B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed
essere, 436 e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente
presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere.
L’aspetto che appare tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il
fatto che alcuni dei segnali fondamentali siano evidentemente costruiti - sul
piano linguistico con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo
(attraverso ἔλεγχος, confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di
senso comune (nascita e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un
risultato che a loro modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come
rivelerebbe la discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo
senso, i σήματα possono essere letti come elementi concettuali espressamente
rivolti a contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13.
Il catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni
contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: il paradigma di fondo della cosmogonia
(B8.6-21); il modello esplicativo per
successive differenziazioni quale è possibile intravedere nelle testimonianze
su Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento cui
possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e
Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che
possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora
possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,
concettualmente dedotti dalla nozione di esse- 13 Robbiano 109. 14 . 437 re, bensì
quella di contrafforti dialettici scaturiti dal confronto con specifiche
dottrine, e, in questo senso, storicamente, culturalmente determinati. La loro
funzione “segnica” rispetto alla via consisterebbe nell’evitare che essa possa
essere abbandonata, seguendo il richiamo di assunzioni acritiche ovvero di
presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta discutiva e confutatoria
dell’analisi di Parmenide. La via, i segnali e la guida D’altra parte è
evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai segnali nel contesto
della propria istruzione al kouros, del proprio esercizio di guida. Anzi: ella
guida attraverso σήματα, che impegnano razionalmente. La tradizione li
conosceva come segni augurali che gli indovini dovevano interpretare15, come
mezzi di rivelazione di una potenza superiore16. In questo senso il
contemporaneo Eraclito evocava lo stesso modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ
ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore, di cui è
l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà un segno (Plutarco; DK 22
B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai mortali, per far conoscere
cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e Cerri hanno probabilmente
ragione nel sottolineare come il termine σήματα non si riferisca allora tanto
ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai successivi argomenti, risultando
essenziale nella relazione tra l’umano e il divino il momento
dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In questa prospettiva come
rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν) si salderebbero nel motivo
della quest: per raggiungere il fine della ricerca è necessa- 15 Cerri 219. 16
Mansfeld 104. 17 94. 438 rio percorrere la strada che è; per fare ciò è
necessario tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare -
giustificato non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal
nesso lessicale tra σήματα e σημεῖον, termine per segno divinatorio (di
qualsiasi tipo), e responso oracolare (testo verbale) è ricco di risvolti
significativi nel contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera
divina: nel segno la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi
poi nel responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una
conoscenza che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide
rielabori, in forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto
conoscitivo e il suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come
evento privilegiato. Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un
dio che manda segnali ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori
della loro portata: non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione
comporta la conoscenza delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle
che sono state in passato: τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος,
ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον
εἴσω ἣν διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante,
figlio di Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva
le cose che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le
navi degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo
(Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno
nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 126. 439 In Parmenide è la
divinità stessa a indicare i segnali che tracciano la via al pieno
dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli per il
kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini e
discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche quella
di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso. Il
colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa (Pindaro), la visione simultanea
di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino deve
riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali. In
questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse
(le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello
sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque
diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto, piuttosto
insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella comunica
razionalmente, insistendo sulla forza di convinzione (πίστιος ἰσχύς), sulla
convinzione genuina (ovvero reale credibilità, πίστις ἀληθής), per illustrare i
σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere supinamente,
ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel nostro
contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le vie)
introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una
sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato
della via che "è"; è contestando ed escludendo errate assunzioni di
senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola
dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide
scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di segni,
quindi un prolungato sforzo argomentativo un unicum nel panorama della
produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene,
legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος,
metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una
stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque
una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della
via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di
un μῦθος; è la Dea ad annunciare i segnavia (σήματα) e quindi che il percorso
sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità
della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il
giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8
è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella
narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi
come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e
percorrere fino in fondo la via genuina (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come
Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio
registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita
(vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές
che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e
senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,
uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς,
ἀτέλεστον; νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές. L’argomento di B8 pur coinvolgendoli complessivamente sembra costruito
per privilegiare questi enunciati: 20 193. 441 γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος
ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν ὁμοῖον è tutto
omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον
αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa,
e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è,
infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso appare plausibile
la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da Robbiano22),
elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui seguenti
blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον
(ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον
(indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον
(non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare
leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro
σήματα di base, riferibili, in quanto segnavia, direttamente a ὁδός (ma, nella
nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare gli
altri: senza nascita e morte (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν
B8.5-21); tutto omogeneo (πᾶν ὁμοῖον
B8.22-25); (iii) immobile 21 95. 22 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) compiuto
(οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un
elenco più minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in
gruppi tutti i predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον
(intero) τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene
insieme) C: οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è
ora) D: ἀκίνητον (immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F:
μουνογενές (unico25) ἕν (uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di
Mourelatos che abbiamo precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili
dall’elenco di McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco
argomentativo del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ
γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di
esso? Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in
Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P.
Curd D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in
vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον. 25
Noi abbiamo preferito rendere come uniforme. 26 Ma alcuni sostengono che
l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται.
L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si
limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico
confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso
comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile
modello argomentativo I versi 7-15 nella versione (a dire il vero tormentata)
che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la
struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν
μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ
πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει
πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e
pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è. Quale bisogno,
inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di
convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire
concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle
annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten
della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος.L’argomento insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come
soggetto sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne
generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ; - quale nascita di esso?) e derivazione (πῇ
πόθεν αὐξηθέν; - come e donde cresciuto?), la Dea non concede: che esso possa nascere (φῦν) originando dal
nulla (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - da ciò che non è (ἐκ μὴ ἐόντος); che esso origini (γίγνεσθαi) dall’essere (ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος). Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio
ragionamento (a dimostrazione della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν)
appoggiandosi alla superiore garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e
delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον
(e ἀνώλεθρόν). La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come
segnalato dall'uso di οὔτε e οὐδέ (v.
12): non è vero questo, e neppure è vero quest’altro, dove questo e quest’altro
rappresentano le uniche due possibilità concepibili in proposito28, appunto ἐκ
μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12 emendato). Di questa
struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere di Gorgia (versione
Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι
δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ
τοῦ ὄντος γέγονεν· οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·
οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere
generato: se è stato generato, infatti, certamente è stato generato o
dall'essere o dal non-essere; ma non è stato generato né dall'essere né dal non essere . L'essere, di conseguenza,
non è stato generato; 28 Leszl 177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23
ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ
τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la
difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti,
che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle
cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza.
Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge:
poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò
che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere,
infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal
momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le
conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere
stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162,
11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides et Presocratic Philosophy cit. 129-133)
ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente
agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως
ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ
τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è
ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è
qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa
lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione
dialettica rigorosa31: gli interrogativi
(retorici: τίνα γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;)
introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare
(nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura
dilemmatica di base: ciò che è è ingenerato (ἀγένητον ἐὸν) - ciò che è è
generato (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν);
tale ipotesi viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita
implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ
> όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii) dal momento che
entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili, l’ipotesi (nascita e
crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi
difesa da Parmenide, è dimostrata: che ciò che è è ingenerato (ὡς ἀγένητον ἐὸν
… ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente
dialettico: viene (monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che
pone gli interrogativi) e un oppositore (di cui si anticipano le risposte
possibili) della tesi di Parmenide. Compito (retorico-persuasivo) della Dea
rispetto al kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di Parmenide) è di
illustrare i passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra forza
di 31 Contro questa ricostruzione, che presume l’introduzione (consapevole) di
un modello argomentativo dilemmatico da parte dell’autore, può valere
l’osservazione di Leszl (p. 178) secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv.
7b-9a; 9b-11; 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica. 447
convinzione (πίστιος ἰσχύς), giudizio (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη).
Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος
ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò
che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è il riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν
- οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è
(non è infatti cosa fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
È necessario il dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto
leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione
argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta
richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle
uniche vie di ricerca per pensare ricavate dall’alternativa è-non-è, il rifiuto
del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di contenuto da
pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima via di
indagine (che è), insieme alla conseguente esclusione di una effettiva “terza
via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con i
principi di non-contraddizione e del terzo escluso32: donde l’impossibilità di
sostenere che ciò che è non sia, ovvero 32 Conche 142. 448 ammettere qualcosa
che possa comportare che ciò che è non sia33. D’altra parte la pervasiva
presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;)
e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che
complessivamente ribadisce il rigore del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati con il proprio commento
(l’inciso ai 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) ci ricorda che il contesto
narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è comunque quello di una
rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano implicite si giustifica
forse proprio con la forma apodittica della comunicazione divina: come osserva
Mansfeld34, i segni sono ricavati - immediatamente o mediatamente - dalla
disgiunzione di B2, le cui premesse sono garantite dal μῦθος della Dea. Questo
potrebbe anche spiegare la scelta dell’espressione σήματα, il mezzo di
comunicazione di una potenza superiore: Parmenide sceglie di lasciare la parola
della Dea a fondamento di tutti i processi (e progressi) del pensiero in B835.
Ella sollecita l’autonomia del discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver
cura di un μῦθος contrapposto a quanto comunemente assunto dai mortali: il suo
ruolo pedagogicamente “eccede” lo stesso esercizio razionale, assicurandone i
principi, così come le altre divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke,
Moira) “trascendono” (garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione
razionale, pretende di dominare di fronte al pensiero senza eccezione36. 33
McKirahan 192. 34 103-4. 35 Mansfeld 106. 36 Su questo in particolare la terza
edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et Philosophie
chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide (en appendice
traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio p. 247. 449
Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione argomentativa si
apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea l’opportunità di dimostrare ὡς
ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ
γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di
esso? Come e donde cresciuto? È possibile intenderli come introduzione ai tre
successivi argomenti: 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος
ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò
che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è; 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν
καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità
lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii)
12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι
παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a
esso. 450 Le relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai 13b-15a:
τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει
Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma
[lo] tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e
rinviare a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a
interrogativi retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica
sembrano evocare l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di
riferimento il sostantivo γέννα (nascita, generazione) e il participio αὐξηθέν
(cresciuto, da αὐξάνω, crescere, incrementare) puntano direttamente al problema
dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni verbali
indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, iniziare, cominciare, dare origine, da cui ἀρχή,
principio) e φῦν (da φύω, generare, produrre, ma anche sorgere, nascere, da cui
φύσις, natura). In questo senso le tre formule inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν,
πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte come equivalenti: la seconda e la
terza, in particolare, come riferentesi alle condizioni necessarie alla
nascita: essa è un processo (questo spiega il come?) che richiede un’origine
(donde?)37. Analogamente gli argomenti possono essere letti come momenti della
stessa progressione negativa contro l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande
ne articolerebbero le implicazioni per consentire di confutarne più
efficacemente le condizioni di possibilità. 37 McKirahan 193; Robbiano 112. 451
Nascita e morte oscura Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui nascita
esprimerebbe uno dei significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide
nel nostro passo discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola
nei suoi originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione
dell’Essere a φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare,
Esiodo (il quale aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori
ionici (per la ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i
frammenti di Anassimandro: ἀρχὴn... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι
τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην
καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose
che sono è l’infinito... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui
le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero
letteralmente: le cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro
origine, verso quelle stesse cose avviene la loro distruzione secondo
necessità]; esse, infatti, pagano le une alle altre pena e riscatto della
colpa, secondo l’ordinamento del tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν
τινὰ τοῦ ἀπείρου ) ἀίδιον εἶναι καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura
dell’infinito] è eterna e non invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον.. καὶ ἀνώλεθρον
(τὸ ἄπειρον = τὸ θεῖον) immortale.... e indistruttibile (Aristotele; DK 12 B3).
38 Per esempio a Ruggiu 289. 39 Ivi 290. 452 Il frammento B1 ci è conservato
nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica
aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a
disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei fisici:
la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una
presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di
vista per intenderne correttamente le parole: [A.] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον,
πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν
καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ... τάξιν [B 1],
ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν
τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. dichiarò l’apeiron principio e elemento delle
cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene,
infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti
elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i
cieli e i mondi in essi: [B1], parlando di queste cose così in termini
piuttosto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca
trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi
come sostrato, ma qualcosa di diverso, al di là di essi. Egli poi non fa
discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione
dei contrari, a causa del movimento eterno.
(Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al
fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek
Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943, in particolare alla prima parte,
dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e
citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti
su cui si sarebbe concentrata la sua indagine:
l’ἄπειρον come principio delle cose che sono (ἀρχή τῶν ὄντων); le cose che sono (τὰ ὄντα), la totalità degli
enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di generazione (γένεσις)
e corruzione (φθορά); (iii) le cose dalle quali (ἐξ ὧν) le altre (le cose che
sono) hanno origine: nel contesto molto probabile il riferimento agli elementi
(στοιχεία) nel linguaggio peripatetico della testimonianza; più plausibile
intendere i contrari (τὰ ἐναντία) da cui esse si fomerebbero direttamente, come
documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς
σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φλοιόν [Anassimandro]
sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e
freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e da esso una sfera di
fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra, come la scorza
intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) le cose verso cui (εἰς ταῦτα) si produce
(γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i contrari) cui
esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: secondo necessità (κατὰ
τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 42; 41 Su
questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.),
che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il perché, la
causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i
contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Da un punto
di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla probabile
genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura del
periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per noi
di particolare interesse la conferma addirittura nella costruzione sintattica dell’uso
omerico di γένεσις nel senso di generazione ma anche di origine causale e -
accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di
Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica
in contrapposizione a αὔξη (crescita) - la possibilità di τελευτή (morte),
presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e
appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta Ippolito: οὗτος
ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν
ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν καὶ πάντας
περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας
καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una
certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che
è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi.
parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione
risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White ("Thales and
the Stars", in Presocratic Philosphy cit. 4) l'espressione rifletterebbe
le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è tornato più
diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and Matter", in The
Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit. 89-133). 43 168 ss.. 455 di
quella certa natura dell’infinito (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe
inoltre sostenuto che è eterna (ἀίδιον)
e non invecchia (ἀγήρω). Predicati
analoghi a quelli - senza morte (ἀθάνατον, immortale) e senza distruzione (ἀνώλεθρον)
- che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua
volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone
il nesso con il divino (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel
complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non
addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per
quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono
esplicite, così come l'esigenza di escludere che da ciò che non è (ἐκ μὴ ἐόντος) qualcosa
possa essere cresciuto (αὐξηθέν) ovvero che qualcosa possa nascere (φῦν)
originando dal nulla (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro soprattutto il
disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e γέννα (cui si
deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che
da ciò che è (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi qualcosa accanto
[o oltre] a esso (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria
confutazione, insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica
argomentazione a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi
sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide
giudicasse gli argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν
(considerando l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita
nell’esclusione della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario
confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al
precedente; o ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa.
Significativamente, egli connota ὄλεθρος (morte, distruzione) come ἄπυστος
(oscura, oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan 193. 45 Tarán 106.
456 to per la via negativa con παναπευθής (del tutto privo di informazioni
B2.6)46. D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo immortali e
tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del mondo omerica ed
esiodea (donde il genere teogonico) 47. Lo schema della testimonianza
teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo nella
distinzione anassimandrea tra: principio
- τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione all’instabilità
degli elementi (στοιχεία); contrari (τὰ ἐναντία:
di base caldo e freddo) che scaturiscono per separazione (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων),
a causa del movimento eterno (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il
proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la
cosmo-gono-phthoria48); (iii) cose (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine di
generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come,
secondo ragione, ciò-che-è, oltre a implicare la stessa incorruttibilità
abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i
cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di generazione, nel
duplice senso di derivazione da qualcosa di altro dall'essere o di produzione
di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della
discussione arcaica sulla generazione nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della
maggioranza di coloro che per primi filosofarono (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων
οἱ πλεῖστοι), secondo cui principi di tutte le co- 46 Mourelatos 97. 47 . 48 A.
Laks, Introduction à la philosophie présocratique, PUF, Paris 2006 10. 457 se (ἀρχὰς
πάντων) sarebbero solo quelli nella forma di materia (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας),
Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ
εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης,
τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui,
infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si
generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza,
per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e
questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si
distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre (983 b8-
13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini della
tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire degli enti,
l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla si
distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di monismo
materialistico49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente
del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè
verso quella natura che si conserva sempre (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης),
richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso al singolare
e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti, precisando tale
posizione che riconosce unico il sostrato (ἓν τὸ ὑποκείμενον), Aristotele si
riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν
λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι
καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε
καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the
Cosmos ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma
alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti da una tale ricerca,
affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera natura, non solo rispetto
alla generazione e alla corruzione (questa è infatti convinzione antica, su cui
tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro mutamento: e questo era
loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo rende ancora più evidente
l’assunto aristotelico secondo cui già i primi filosofi accettarono la doxa che
è impossibile che qualcosa sia generato da ciò che non è, sviluppando sistemi
in coerenza con essa: la peculiarità della posizione eleatica (a Parmenide si
accenna esplicitamente due righe sotto) è risultato della “estremizzazione”
della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In pratica, Aristotele da un lato
avalla una sorta di continuità tra la posizione ionica e quella eleatica -
nella condivisione del principio esplicativo di fondo, dall’altro rileva lo
scarto alla base della deviazione eleatica dall'indagine peri physeōs nella
radicalizzazione dell’applicazione di quel principio, che avrebbe condotto alla
negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori dell’ambito della filosofia
della natura. Torneremo più sotto sul modello cosmogonico e cosmologico milesio
e sullo schema interpretativo aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come
il complesso delle testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica)
faccia in realtà intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla
natura individuata come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in
ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti
(connesse ai contrari: Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui
deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione
aristotelica delle origini della filosofia sono molto interessanti le
osservazioni di Leszl in W. Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic
Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective
View of Presocratic Philosophy”, in La costruzione del discorso filosofico
nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa
2006 355-380, in particolare pp. 362 ss.. 459 ancora risentirebbe del
politeismo teogonico esiodeo51, e che avrebbe suscitato dunque almeno due
ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici) per la
riflessione posteriore: perché una
realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle altre? come è possibile che una natura ne produca
altre? Da ciò che non è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza
degli interrogativi sull’origine di ciò che è espressi all’inizio della
sezione: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita,
infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già
osservato, procede a considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito
(nato e cresciuto) ἐκ μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due
successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero
sviluppata nei frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ
γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su
questo schema interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the
Cosmos…, cit., capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in
saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian
philosophy", Oxford Studies in Ancient Philosophy, 1997, 15 1-50. A.
Nehamas ("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic
Philosophy, cit. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da
Graham. Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian
Measures: Time, Space, and Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic
Philosophy, cit. 112 ss.. 460 che tu dica e pensi; non è infatti
possibile dire e pensare che non è. (vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in
questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto
immediatamente rivelato dalla Dea:
esistono solo due vie di ricerca per pensare (B2.2); una: è (B2.3), l’altra: non è (B2.5); (iii)
la seconda è di fatto impercorribile, in quanto παναπευθής ἀταρπός (sentiero
del tutto privo di informazioni B2.6); (iv) è allora necessario che ciò che è
sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι B6.1). Il primo argomento dipende
direttamente dall’autorevolezza (e dall’autorità) del μῦθος divino, per
escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula χρή, con le sue
sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che
coinvolga la via negativa, cioè comporti concettualmente a qualunque titolo il
ricorso a ciò che non è. A questa contestazione fa seguito un secondo, più
discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale bisogno lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Come abbiamo segnalato nel
commento, il testo greco lascia adito a due possibili interpretazioni. Perché mai, in un momento qualsiasi, ciò che
è dovrebbe generarsi? Nel nulla, in effetti, manca una ragione per cui esso
debba sorgere. Per quale circostanza ammettendo
che sia generato - ciò che è dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto
che in un altro (più tardi piuttosto che prima)? In realtà - originando dal
nulla - non c’è ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a
un altro: non vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi
i casi ci troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per
cui un evento determinato è necessario 461 che abbia la propria ragione, cioè
la propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche
spiegarlo). La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo
(dalle fonti ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato
vicino alla concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ
λόγου τε καὶ ὑπ’ ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità
(DK 67 B2). In questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi
sull’origine di ciò che è è netta: nel nulla non è possibile rintracciare tale
causa; non c’è ragione per cui ciò che è debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma
nella seconda interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di
ragione si aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole all'indifferenza
rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione
sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento
piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa
determinata53: affinché ciò che è si
possa generare, è necessario si generi in un certo momento; ma, derivando dal nulla, non c’è ragione per
cui si generi in un momento piuttosto che in un altro; (iii) non essendoci
ragione per cui esso si generi in un qualche momento, esso non potrà mai
generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il
non-essere non può fare differenza. È qui possibile ancora un’eco di
Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una particolare
applicazione cosmologica del principio, per giustificare l’immobilità e la
centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52 Leszl 183. 53
Conche, op, cit. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην,
μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è sospesa, da nulla
dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da tutto [da tutti i
punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι
κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo, occupando la posizione
centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν
μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ
πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον·
ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν
vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la
terra] rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al
centro, infatti, e equidistante rispetto agli estremi, non conviene si porti
verso l’alto piuttosto che verso il basso o orizzontalmente; ma poiché è
impossibile muoversi contemporaneamente in direzioni opposte, necessariamente
rimane in posizione (Aristotele, De Caelo 295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del
Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza di “ragione” per il movimento in una
direzione o nell’altra) è espressa in relazione ai limiti celesti; Parmenide
l’avrebbe applicata al tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla
si dia ragione per fare differenza, ai fini di un’ipotetica generazione
dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare tuttavia più plausibile che il
filosofo intendesse semplicemente marcare la mancanza di una ragione per cui,
originando dal nulla, ciò che è si possa formare in un qualsiasi momento: nella
completa negatività del non-essere non può tro- 463 varsi alcuna necessità che
possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per la sua
generazione54. Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως
ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί Così è necessario sia per intero o non sia
per nulla. Insistendo sul valore avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la
conclusione del ragionamento ma solo una sottolineatura importante: ciò che è
deve essere integralmente ingenerato ovvero assolutamente non essere. In
pratica la Dea ribadirebbe l’alternativa fondamentale della propria
rivelazione, escludendo che tra le due vie possa darsi una via intermedia e
dunque un commercio tra essere e non-essere. Come indicato in nota al testo,
McKirahan55 ha riconosciuto al verso una funzione prolettica: segnalerebbe che
quanto stabilito è rilevante per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν
πελέναι appare plausibile parafrasi di tutto omogeneo (πᾶν ὁμοῖον), tutto pieno
d’essere (πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 piuttosto che di
ingenerato o ingenerato e incorruttibile. Se invece, come per lo più si
riscontra tra gli interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo
(perciò), il verso risulterebbe comunque anticipare la krisis dei 15-16 (Il
giudizio in proposito dipende da ciò: "è" o "non è"),
ribadendo l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un
passaggio dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo
significa bandire definitivamente la possibilità di generazione dal nulla,
ovvero che ci possa essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in
particolare, convinto che l’uso degli avverbi sottolinei nei 9-10 la
preoccupazione parmenidea rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: in
ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla57. In questo senso la
conclusione e- 54 Leszl 185. 55 194. 56 Leszl 185-186. 57 Ivi 185. 464
scludendo il variare nel tempo di ciò che è effettivamente diventa anche
funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai
dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i 12-13a risultano: οὐδὲ
ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né
mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In
pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di ciò che è dal
non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità alternativa:
che ciò che è si generi da altro essere. In che senso, infatti, qualcosa (τι)
potrebbe generarsi (γίγνεσθαί) dall’essere (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος)?
Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ > όντος introduca
implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere, cioè che
accanto [o oltre] a esso (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È plausibile che
anche qui egli si confronti direttamente con la riflessione sull’ἀρχή: nella
misura in cui si riconosca l’ἀρχή come ciò che è e si tenga fermo il principio
di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi accanto [oltre] a
esso? In pratica ammettere la generazione dall’essere comporterebbe riconoscere
che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non sono (B7.1). La Dea in proposito può
ricorrere a una formula di divieto diversa da quella “personale” utilizzata in
B8.7 (ἐάσω... οὐδὲ non permetterò che...): in questo caso la proibizione
risulta più astratta, vincolata a una considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄...
465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς Né mai concederà forza di convinzione [certezza], B8.12),
alla linea di pensiero espressa nel testo precedente. Una versione alternativa
dell’ultimo argomento è quella tradizionalmente accolta sulla scorta
dell’autorevolezza del codice di Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει
πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai dal non essere concederà forza di
convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un
ulteriore sostegno (il terzo) alla negazione della possibilità di generazione
dal nulla, che presenta tuttavia una difficoltà: il riferimento, nel contesto,
dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58, per esempio, traduce:
Nor will the strength of conviction ever impel anything to come to be alongside
it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo
intendono il passo, tra gli altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni
origine dal nulla sia impossibile (il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che
vi intravede addirittura la dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν,
συνεχές. Altri, come Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e
colgono una (nuova) giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil
fit): il non-essere, per la sua negatività, non può essere la causa di
qualcosa. Conche62 segnala, in questo caso, come risulti incomprensibile
attribuire valore comparativo ad αὐτό (autre chose que lui-mêmê), dal momento
che così la Dea implicherebbe l’esistenza del Non-essere. 58 197. 59 95. 60 224.
61 187. 62 143. 466 Alcuni 63 di coloro che mantengono la lezione dei codici di
Simplicio - e quindi non riconoscono struttura dilemmatica all’argomentazione
parmenidea, rilevandovi piuttosto tre successive, insistite contestazioni
contro la possibilità della genesi e dell’accrescimento dal non-essere -
colgono nel passo un riferimento al concetto pitagorico di vuoto (=
non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι
κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ
τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς
καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν
διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse il vuoto, e
che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo] come se
[questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi essendo
il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione;
affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν
Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς
γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ
σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο
καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti
circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione:
essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno sia da superfici,
sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà a indicare subito
la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata dal limite
(Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven, Untersteiner,
Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel complesso della
sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del divenire come
processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli cosmogonico e
teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo studioso
ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che affermava la
molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva la
generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e, soprattutto,
suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento in relazione
al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si sarebbe
trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale spiegherebbe
convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai 6-7 e in genere la
scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non escludendo le due
possibilità - che la versione dei codici
di Simplicio sia quella corretta e che
l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”, che avrebbe
lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo65)
l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia essenzialmente su
γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale sia da individuare
all’interno di una discussione più ampia, in cui per Parmenide era fondamentale
attaccare le posizioni che in qualche misura ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος.
In questa prospettiva, l’emendazione che abbiamo accolto e la connessa
ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12 richiama οὔτε al v. 7)
appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile un’altra strada66 per
l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa e meno plausibile:
ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio
in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol.
II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967 652-3.
65 Ivi 653. 66 Su questo Conche che alle concezioni dei pensatori milesi e
pitagorici fosse connaturato il non-essere. Aristotele è ancora prezioso: διό,
καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non
c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e
tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK
12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή
che è anche περιέχον (avvolge tutte le cose), Anassimandro così come i
pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe
fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato
principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή
difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare
dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere
polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento -
una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere
e ribadito che ciò che non è non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere
provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è
legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata
con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio
interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a
Dike e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una
lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione)
mitica fosse semplice metafora67. Così intendono molti interpreti, per i quali
i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto
dei limiti, sottolineerebbero la ineluttabile legge dell’Essere 68: in altre
parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La questione è,
in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema,
sia da quello delle specifiche implicazioni:
Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della narrazione: le sono
espressamente attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una
(tradizionale) mansione di sorveglianza;
essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa
dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela
del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις
e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo
discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma
sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira),
insieme allo schema del cammino (ὁδός) - ovvero pista (πάτος) o via (κέλευθος),
costituiscono la struttura portante nell'architettura dell’opera69, elementi di
continuità nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”: il
contesto entro cui le specifiche trattazioni su ciò che è e sulla Doxa assumono
il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione
di 67 Ivi 146. 68 Tarán 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da
Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato nell’ultima
edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia “trascendendo” ciò che è (ἐόν),
ovvero danno l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere
(problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a dispetto della sua
assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una
posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e
trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il perfetto equilibrio
attraverso l’esclusione della coppia oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio
il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante
del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo
della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la
garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente
immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si
dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε
γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né
morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (B8.30-31) Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37).
La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella
di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον circonda e governa ogni
cosa: Parmenide, reagendo 70 Robbiano 166-7. 71 Ivi 174-5. 471 forse a questa
soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il
riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di
garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso
marcare immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a
turbare dall’esterno. Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione
della causa dell’equilibrio, Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo
all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non hanno consistenza ontologica, ma
solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione dell’audience cui il poema
si rivolgeva72. In realtà, il recupero del mito nel contesto, con la sua
“eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e la conseguente (apparente) messa
in questione dell’assolutezza dell’essere, potrebbe segnalare, come vuole
Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a giustificare argomentativamente
uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione sviluppata, infatti, nulla
autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la limitazione dell’essere. Il mito,
attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe a questa mancanza, rivelando che
il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significare l’essere come se
lo trascendessero, le figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero
così uno statuto trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione,
all’interno del poema, tra discorso significante e discorso mitico74. Giudizio
ed essere D’altra parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica
si mostra nei 15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν·
κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72
Ivi 166-8. 73 Mythe et philosophie…, cit. 217. 74 Ivi 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν
δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o
non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale. Il linguaggio e le immagini insistite - sciogliendo
le catene (χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), nei vincoli di grandi catene (μεγάλων ἐν
πείρασι δεσμῶν v. 26), nelle catene del vincolo [lo] tiene (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει v. 31) puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della
decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il
vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive
è logicamente incontrovertibile, donde la formula secondo necessità (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni
della scelta dell’ἔστιν: ripresa
dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto non
genuina (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii) conseguente
concentrazione su ἔστιν: che l’altra esista e sia reale (τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi della sua
comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la
Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni che in
qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una
precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule
contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν
non è genuina, è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione
con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa
in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come
qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono e
concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale
sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo livello
di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla contrapposizione tra
forme del verbo essere (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma anche πέλοι) e forme
di venire a essere (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo, γένεσις). La convinzione da
veicolare con tale costruzione verbale è che se l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto
in processi (nacque ovvero dovrà essere [in seguito]), e dunque diviene, esso
propriamente non è (ovvero non è sempre allo stesso modo75), così
contraddicendo l’immediata evidenza della via: è - che comportava l’altrettanto
immediata ammissione: non è possibile non essere (ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι).
Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a se stesso, come suggerisce
l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις può valere genericamente
come venire a essere), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è
ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca
incompatibilità delle condizioni designate dai due verbi. 75 Leszl 190. 474 Se
τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora diverso da come fu; se verrà a essere in
seguito, ora è diverso da ciò che sarà76: il mutamento che implichiamo nelle
espressioni temporali è inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e
immortale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale
per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per
l’essere di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è ora, nel senso che è
sempre uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente
ovvero venire a essere-essere (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile
valorizzare l'implicazione tra venire a essere e non-essere: ogni venire
all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla
prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε
μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo
punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i 5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν
οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo]
sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da
non-essere a essere e viceversa come nei 6-18 ovvero l’eventualità di un
mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che in ogni momento
l’essere c’è tutto o non c’è per nulla78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος
al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán 105. 77 148 78 Leszl 186.
475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι
εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era
ciò che era [qualsiasi cosa era] e sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è
necessario che, prima di nascere, non fosse nulla; ora, se non era nulla, in
nessun modo nulla potrebbe nascere dal nulla (DK 30 B1) εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη
τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι.
εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ
χρόνωι se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La
stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e
immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale
dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν -
è eterno, infinito, uno, tutto uguale (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον
πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea è ora tutto insieme,
uno, continuo (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario
considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente
il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra
negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν [in] un tempo [passato]
era ovvero [in] un tempo [a venire] sarà. Accettando la nostra traduzione,
espressioni verbali come era e sarà sono rifiutate in quanto modificate
dall’avverbio ποτε (un tempo, una volta). Il verso manifesterebbe allora il
proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme avverbiali
temporali: da un lato né un tempo era (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e né [un tempo] sarà (οὐδ΄
ἔσται), dall’altro è ora (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate sono a
loro volta subordinate da un nesso causale - poiché (ἐπεὶ) alla terza (è ora
tutto insieme, uno, continuo): in altre parole è il rilievo della completezza,
omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di ciò che è a escludere
qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica discriminazione
temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche nell’argomento complessivo
dei 6-21: la Dea dapprima si concentra sull’eventualità che ciò che è sia
divenuto (nato e cresciuto), quindi (v. 19) considera interrogativamente che τὸ
ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe
esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se è nato, infatti,
non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Se riscontriamo i 5 e 20: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ
ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare come la Dea insista a marcare
l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano οὐκ
ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si esprime nell’è79 e ne riflette
il valore stativo80. 79 Ma come insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως
ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; o, come preferiamo, ἔστιν esprime
immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ εἶναι è contestuale inferenza. 80
R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit. 94. Sulla questione lo studioso
italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays
on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e assolutizzando) le espressioni
verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι), si è avvertito in queste
battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea dell’eternità come
atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo. Valorizzando, invece, le
funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente limitarsi a segnalare
come pur sempre all’interno di una prospettiva temporale (che privilegia il
presente) la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a τὸ ἐόν, la validità
(sensatezza) del riferimento alle dimensioni temporali del passato e del
futuro. L’impressione che Parmenide insista sul presente per sottolineare
l'identità dell’essere è rafforzata dalla reiterazione di formule di
persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene
(vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più
pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e,
così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione verbale
(μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν ταὐτῷ,
καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore circa
identità 478 e immutabilità di ciò che è, e sua estraneità a processi che
possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con l’esplicita
esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per quel che
abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος
ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un venire a essere ovvero di una distruzione dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni
precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto
essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei
processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso la decisione tra è e non-è, l’inaccettabilità della loro commistione,
(iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la
caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, inaudita,
inconcepibile. Omogeneo e continuo I 22-25 costituiscono un nuovo blocco a
giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν
(tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile,
poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di
essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È
perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile
al non-essere, ciò che è non può che essere omogeneo (πᾶν ὁμοῖον letteralmente
tutto uguale), pieno (ἔμπλεόν), continuo (ξυνεχὲς): in altre parole, è tutto (πᾶν,
termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso (uniforme).
In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα, il
precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra
citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e,
così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità,
l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in
ultima analisi al bando della via non è: nulla può inframezzarsi a ciò che è.
In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie
di espressioni: non c’è alunché che
possa impedirgli di essere continuo; è
tutto pieno di ciò che è; (iii) è tutto continuo; (iv) ciò che è si stringe a ciò
che è. Ora, è chiaro che centrale risulta la : πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una
affermazione che sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di
fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι),
esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso
(ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν),
seguono sia che tutto pieno è di ciò che è, sia che nulla possa impedirgli di
essere continuo, e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del
verso finale del passo: è tutto continuo e ciò che è si stringe a ciò che è.
Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità,
in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di distinzione,
riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει.
Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati
sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la
presenza sullo sfondo di due elementi:
la semplicità inqualificata di ciò-che-è; la negazione di dualismi. Questo consente di
collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo dell’espressione tutto
intero, uniforme (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos, anticiperebbe
l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di
B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per
il significato della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante
precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione
al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων
γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή·
διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa],
ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 111-2.
82 Ivi 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere
e i giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di
genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di
potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe
impiegato nel nostro frammento in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone
al fondo delle opinioni mortali (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una
coppia di forme (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο
v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων 55b-56a).
Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo
decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di
essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio
uniformità) di ciò che è, escluderne differenziazioni, proporlo come un blocco
compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è
possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della
formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura
soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata,
chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco,
condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi
terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno
il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ
αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ
τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ
λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος
ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι
κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο.
(3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον
διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος <
δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον
πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς
γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν
Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse che il
principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le cose che
sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre le altre
cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo:
quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra invece con il
freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose che
mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è
condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino
a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, sono
aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si formano le nuvole, e,
crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e,
crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della
generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte
comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste
affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la
scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che: fondamentale per la cosmogonia sia l’azione
dei contrari (Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία):
essa si dispiega, in Anassimandro, a partire da ciò che è produttivo di, ovvero
ciò che può generare (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai
processi di rarefazione e condensazione;
la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo
caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a
loro volta effetto di un movimento eterno (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος,
da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del mutamento
(μεταβολή). Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la
possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero
ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche.
Il primo delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la
natura soggiacente (ὑποκειμένη φύσις) si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας),
e confermato da qualche passaggio di Ippolito (condensata e rarefatta, infatti,
appare in modo diverso πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι;
ovvero i venti, a loro volta, sono aria condensata ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα
πυκνούμενον) è quello che prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare
esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce
alterazioni a causa del suo interno moto incessante, presentandosi così in
varie forme fenomeniche. In questo schema le sostanze della lista proposta83
(fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti,
ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio
materiale. Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose
si ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio
in Anassimandro (citato in precedenza):
οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων
τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως
Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
(DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in
questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della
dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco
effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn,
Anaximander and the Origins of Greek Science cit. 149-150. 84 Secondo
un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn
151. 485 ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca
la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di sostanze (fuoco, vento,
nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con
probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον
ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e
rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le sostanze elencate), da
cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra
i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε,
τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo
ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue
secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα
καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono
scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono
scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος
ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος
δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte
diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si
genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ
ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco
vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la
morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da
un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito
riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni
trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36
e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono
gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di
documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con
certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in
ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi
potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in
precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e
nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare
la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un
lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in
particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per
indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla
formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la
scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) che evoca attività di
secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile,
feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in
ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la
riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi
esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze
ad Anassimene: esiste una natura
soggiacente (ὑποκειμένη 85 Graham, Explaining the Cosmos…, cit. 124 ss.. 487
φύσις), unica e infinita (μία ἄπειρος), dalla quale, a causa di movimento eterno (κίνησις ἀίδιος),
(iii) si produce il mutamento (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv)
suo differenziarsi in sostanze (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) da cui
discenderebbero tutte le altre cose (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non
sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle altre cose; (b) il fatto che l’attività discriminante (differenziare,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente
dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo
[lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: accostamento tra ἀκίνητον e altri due
aggettivi senza inizio (ἄναρχον) e senza fine (ἄπαυστον) esplicitamente
giustificati dalla precedente esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; insistenza su identità durevole, fissità di
stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con la
reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al moto,
ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della
propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza (stabilmente
dove è persiste ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità (in se stesso riposa καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei vincoli di
grande catene (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό μιν
ἀμφὶς ἐέργει) a opera di Necessità potente (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse
furono sempre . (Epicarmo; DK 23 B1) — ὧδε
νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως· ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ
πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era
(Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ
μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre nella stessa condizione
permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un luogo ora
in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni di Senofane ed Epicarmo
attestano, nella elaborazione contemporanea, la preoccupazione per il mutamento
in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al rapporto tra l’umano e
il divino (Epicarmo), esse complessivamente contrastano i processi di crescita
e deperimento, l’instabilità sostanziale degli esseri umani, con l’immota
identità delle realtà divine (uguali e sempre per sé stesse ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν
ἀεί), connotata sia rispetto al tempo (sempre gli dei furono presenti e mai
vennero meno, ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα), sia rispetto allo
stato (ciò che muta per natura, e mai nella stessa condizione permane, ὃ δὲ
μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει) 86. Significativamente, nel suo
breve frammento Senofane sembra giustificare l’immobilità divina con una
considerazione di opportunità: né gli si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un
luogo ora in un altro. La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità,
immutabilità e identità sulla base di tre considerazioni: generazione e corruzione sono state
allontanate dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo (convinzione
genuina [le] fece arretrare ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque
indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa
della contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non
diviene; ingenerabilità,
incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità (sottolineate nei versi
precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν con se stesso: essa
appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone
un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, 86 È da
osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori dell’espressione ἐν ταὐτῶι
μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι μίμνει), nella duplice
valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in Parmenide. 491 limitandosi
invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη (Necessità-Costrizione)
e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii) l’immobilità è collegata,
attraverso la sottrazione dei processi di generazione e corruzione e il rilievo
dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il movimento viene
assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi escluso87. Non
incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di ciò che è
dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei 15-16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν.
Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής che esclude,
dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος. Tale
immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore della
perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ
ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto l’essere [è]
lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere,
invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide
ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, per questo) che riferisce l’affermazione
successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si sostiene quindi
sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di vincoli e catene,
immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di Ἀνάγκη opera a
garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e salvaguardandone la
pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). 87 Leszl 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in
Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford
1998 18. 492
La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον
come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές
(continuo, coeso) discende dal rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque
un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν,
con l’invito a valutare discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e
a concentrarsi su ἔστι e sui suoi segnali (B8.1- 2), comporta, infatti, la
progressiva sottrazione di ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità
dell’essere, come manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: l’essere non può essere in difetto in alcun
modo (poiché deve essere per intero o non essere per nulla); il non-essere,
invece, sarebbe totale assenza di realtà;
traducendo diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν
δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse
[non-manchevole], invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in
qualche misura o per qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne
sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι
χρεών ἐστιν ἢ οὐχί deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora
consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del
frammento, possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle
tesi che avevano delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi
sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano considerato divino,
attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli enti nella loro
totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne le traduzioni
fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di
generazione e corruzione. 493 Essere e pensiero È appunto nella discussione di
questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare come un
excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo, cui
abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι
νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·
o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν
οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che è:
giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il
pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre all’essere, poiché Moira
lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando la nostra traduzione del
v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza:
τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed
essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: ciò che è è,
è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta
l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che
ciò che non è (μὴ ἐὸν) possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo
le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις 89 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd,
Eleatic Arguments, cit. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è
(non è infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di
escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso
dall’essere (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto
come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura
sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄
ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι,
εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò
che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che
fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare
luminoso colore. Gli eventi che i mortali (βροτοί) registrano quotidianamente e
che in modo irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento (nascere e
morire, cambiare luogo e mutare luminoso colore) designandoli, illusi
(πεποιθότες) della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano,
all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono:
nome. Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni -
dalla Dea già esplicitamente proibite: nascere e morire, essere e non essere,
cambiare luogo - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente
valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico
genuino (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è ciò-che-è:
indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro
pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν
90. 90 McKirahan 202. 495 Prima di tornare a discutere i segnali lungo la via ὅπως
ἔστιν in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo
cruciale dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere la Dea di
Parmenide richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni
iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare
consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal
momento che ciò che non è (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto
discussa la formula impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν
ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν
La stessa cosa è pensare e e il pensiero che è: giacché non senza l’essere, in
cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati
(B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si tratta semplicemente di
un’affermazione di identità (generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una
presa d’atto della necessità per il pensiero di ammettere che ciò che è è
(B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di
identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo
come equivalente a ὅτι che91) - i cui membri risultato da un lato νοεῖν,
dall’altro appunto il pensiero (νόημα) che "è". Non c’è altro oltre
all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea
sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò in cui il pensiero è
espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal
momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso
nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo
la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione,
dunque, tra quanto essi sono convinti di nominare e 91 Ma che altri scelgono di
rendere come a causa di. 92 McKirahan 205. 496 quanto in realtà essi nominano:
sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte
(trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel
contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa,
intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere
dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che
altro (dall’essere e dai suoi segnali) possa essere l’ambito del pensare. In
questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma
non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto
perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria
cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato
dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si
riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il
tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza
divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta?
Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte
espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ
τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una
generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento
di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico
(nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato
nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e
nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo -
apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento faccia
emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione
speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle
implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή,
denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche)
circolanti, è 93 Ruggiu 307-8. 94 . 497 possibile si sia a un certo punto
concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa
attività di νοεῖν): questione di secondo livello 95 (meta-cognitiva), intesa a
far prendere consapevolezza, oltre che dei segni dell’essere, anche dei
presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un
tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione
(νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità
del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel
confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione
ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea
assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una
formula epica): Moira ha costretto (ἐπέδησεν) ἐόν a essere intero e immobile (οὖλον
ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla esiste o esisterà (ἔστιν
ἢ ἔσται) oltre all’essere (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta
ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira
risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità
dell’essere (e dunque per sostenere come i nomi dei mortali si riferiscano in
vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in
secondo luogo, anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca,
appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος (altro oltre
all’essere). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione
“trascendentale”: richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e
delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa
l’espressione second’ordine, per esempio nel suo Le pluralisme de la vie
intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique?..., cit. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit.
166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la
Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in
quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa
connessione tra saldezza di ciò che è e costanza del νόημα che la coglie è la
stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al
pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso
all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale
(saranno nome ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄
ὅσσα) i mortali stabilirono (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare
(πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la
sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su
compiutezza e omogeneità di ciò che è, attraverso un ampio ricorso a metafore
“spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι
βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι
εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν
ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che
[vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a
massa di ben rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual
consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, o
in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non
essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così
che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se
stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti
rimane. I versi propongono contestualmente due diverse prospettive:
l’accostamento alla massa di ben rotonda palla (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ)
presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione
ottica (“da fuori”) della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta
integrità; d’altra parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς
πάντῃ) a partire dal centro (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista
“interno” (dal centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo
vuol riproporre ἐόν come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa
leva sulla nozione di limite estremo (πεῖρας πύματον), di un confine che rende
plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a
tutto il ragionamento della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso come
in altri passaggi del poema appare evidente il debito nei confronti
dell’immaginario epico: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο
καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα,
τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500
οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ
θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ
Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra
nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito,
di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche
gli dei hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per
giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe
tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale
prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide
avvolta (Teogonia 736-745. Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di
un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle scaturigini
e dei confini di tutte le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario
infero in cui è inserito il riferimento alla casa terribile di Notte oscura
(Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ), probabile prototipo della dimora della Notte
(δώματα Nυκτός) evocata nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea
promette nel poema di tutto informare (B1.28): almeno didascalicamente,
l’ottica della sua comunicazione è situata effettivamente al limite del
dicibile (dell’essere). Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che
nello sviluppo argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che
afferiscono al limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε
γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né
nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv.
13b-15a) 501 ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi
catene (v. 26) ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira
lo ha costretto a essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità
potente nelle catene del vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον,
τετελεσμένον ἐστί dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è
compiuto (v. 42). Sono i legami variamente evocati a impedire all’essere di
essere esposto a generazione e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al
mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione
(οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato,
significativamente alle immagini di catene e vincoli sono associate figure di
garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come
destino ovvero legge dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al
pronunciamento circa l'esistenza di un confine estremo (πεῖρας πύματον),
all'accostamento al corpo di una palla ben rotonda (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον
ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo
trovarci in presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98,
l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in
ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg,
"Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata
36, München 1964 75-6. Citato in Robbiano 141. 98 103 ss.. Citato in Robbiano 140.
502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la
necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ
κόσμου (limite del cosmo). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora
l'introduzione del termine cosmo per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν
ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò
l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21)
Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal
confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui principio (l’apeiron)
Aristotele afferma: διὸ καθάπερ λέγομεν,
οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα
κυβερνᾶν per questo motivo diciamo che
di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso
principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte
governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio
dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della
stabilità dell’universo, espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di
questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso,
infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane.
Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata:
all'interno della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla
realtà cosmica rilevando la dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De
Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono
tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati
neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100. Nell'essere si riassumono
omogeneamente tutte le cose: ciò che è si stringe infatti a ciò che è (v. 25: ἐὸν
γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale è-non è, ciò
che è risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25:
ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε
γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non
essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La
proibizione di percorrere la via che pensa che non è fa sentire ancora la
propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In
effetti, la recisa affermazione della Dea: vi è un confine estremo (πεῖρας
πύματον) sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto,
dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla
sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare
il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di ciò che è come
totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si
enuncia: è tutto inviolabile (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio
connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è
compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M.
Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches
Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck et Ruprecht, Göttingen 2005 252-269,
in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi]
limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di ciò che che è è
sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως
εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di
ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio,
ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare
l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e
dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se
stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa...
Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta
dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua
comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre
punti sono criticamente determinanti: il
soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); ἐναλίγκιον (simile) si riferisce non a «palla
(σφαῖρα) ma a «massa (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza) è
attributo del soggetto sottinteso («ciò che è) della affermazione iniziale, non
di «massa di ben rotonda palla. Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è e
corpo sferico, è difficile tuttavia proprio in forza dell'eco spaziale di
questi versi e dei successivi sottrarsi all'impressione che Parmenide stia
parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di
cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come
suggerisce Furley101), colta "in quanto essere", in altre parole
intuita appunto come ἐόν («ciò che è), ovvero più astrattamente come τὸ ἐόν
(«l'essere), con le relative conseguenze logiche. La novità della sezione sulla
Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi
a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto (πᾶν,
πάντοθεν, πάντῃ) - come già documentato negli autori ionici in una prospettiva
diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci
suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel
trasfigurare la realtà la stessa realtà attestata dall’esperienza alla luce di
rigorose esigenze razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e
ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa
attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5:
«valuta con il ragionamento la prova polemica, κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον),
sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la
possibile connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione
originale della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi cosmologici
e cosmogonici milesi e la riduzione del «tutto alla compatta uniformità di τὸ ἐόν:
nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν,
ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna,
continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest critics,
CUP, Cambridge 1987 54. 506 cenza di «ciò che è in se stesso (dunque nel
presente); analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua
compiuta, omogenea, coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e
probabilmente pitagorico) sono evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la
natura-principio, le masse elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che
solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non immediatamente
riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato102, in cui si riassume la
realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere103.
Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata
da questa realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se
è vero che Parmenide non propone nella Via della Verità una propria cosmologia,
ne fissa certamente le condizioni di possibilità, come la riflessione
posteriore, da Empedocle agli atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con
la «massa di ben rotonda palla è introdotta per illustrare plasticamente un
nodo decisivo della esposizione della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί
πάντοθεν dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da
tutte le parti (vv. 42-43a). L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare
l'immagine della massa sferica per confermare l'intuizione della compiuta
integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei
versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261)
evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach,
in cui l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa
indiscriminata e coesa. Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being) sottolinea in proposito come l'ἐόν di Parmenide
sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on *h? $on, in
quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando tuttavia
l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira) e ai loro
vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al carattere ultimo
dell’estremità entro cui l’essere uniformemente nei limiti rimane (ὁμῶς ἐν
πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto
all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera insormontabile in cui
tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in Parmenide oltre il
confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di conseguenza perfetto,
compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La similitudine insiste
sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme: sull’uguale consistenza,
dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha osservato106 come la sfera
si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza,
dal momento che è quella che ha estensione sempre identica con se stessa. Che
questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un
forte impatto cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche:
come hanno puntualmente confermato le ricerche di Palmer107, la
rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo fisico da parte del
demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel Timeo
platonico propone un’impressionante concentrazione di allusioni (e parole)
parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ
ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα
σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον,
κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ
σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ
ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο
ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit. 249. 105 Ruggiu 309.
106 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides Oxford ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ
ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν
ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι
πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν E gli diede una figura a sé congeniale e
congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé tutti
i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure
possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni
parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di
tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più
bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno
per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla
era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da
sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per
eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso
separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al
di fuori (Timeo 33b-c7) Traduzione da
Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. [B8 50-61] Sin dalla antichità si è
presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di
diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della Opinione),
secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν
μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due
parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28 A1). È plausibile
che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più brevi
rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi
(dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10,
secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che doveva coprire i 2/3
del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più
avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi 12 versi del
frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente il passaggio
tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto delle
citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv.
50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός
φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno
all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione 50-61] (Simplicio, Phys. 38,
28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si
esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione 50-52],
pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima
antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la posteriorità
della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle sezioni, non
rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il linguaggio
peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre
testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν , ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento
è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione
divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio
interlocutore la conclusione della comunicazione attendibile (πιστὸν λόγον) e
della riflessione sulla verità (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di punti di vista mortali (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): l'indiscutibile Verità, le inaffidabili opinioni dei mortali, (iii)
un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - le cose
accettate nelle opinioni, ovvero le cose che appaiono. Nostra convinzione è che
le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la
trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al
secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo genericamente di
rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una direzione o
nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva invece svolgere
l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini
compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica secondo il costume dei
precedenti ionici offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con
dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza
di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ
στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ
τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ
σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν
φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν
Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la
tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in
effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta
anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti,
come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno
scritto proprio non distruzione di un altro. È significativo il fatto che di
questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come documenta anche l'urgenza
della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che fossero gli
elementi più originali del poema soprattutto premesse ed esposizione della
Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος,
ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide 513 sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della
produzione cosmogonico-cosmologica milesia: non è un caso che di essa siano
state tramandate, probabilmente, apertura e conclusione. ...l'ordine delle mie
parole... Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il
proprio giovane interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi
opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può
ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori discussione: l'abbandono dell'esposizione della
Verità; il passaggio alla considerazione
di punti di vista mortali (δόξας βροτείας), in altri termini di una prospettiva
diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da
parte della Dea che si rivolge a un essere umano adeguare il proprio registro
espressivo: pur continuando la propria lezione, ella avverte circa il
potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà) conseguenza
dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza
denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del divenire è
virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il
mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza.
Dal momento che nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 la 514 Dea
insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire
che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane
allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo
quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale,
avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto
riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A
sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento
(vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε
βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io
espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in
pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità
e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul
passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che
l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al
κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα
πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è
comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è
possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di
κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche mondo, accentuando i rischi della
costruzione verbale (che può risultare ingannevole, ἀπατηλόν). L'enunciazione
divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali
(σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del
kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente
plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica
mortale implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso
sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in
particolare le connotazioni delle due forme (μορφαί δύο), e dunque
l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di
ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione
dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei
frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire
una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella
della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale
determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia
dell'essere (attraverso i segni di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della
Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un
ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze
intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ
παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον
πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose assenti siano
comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere
sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per
il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto
discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα)
nel cosmo (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua
inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla
conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui tutte
le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre in un
certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità
che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità
dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza
pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia
una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come
all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza,
ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini
sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati
mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in
cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza
dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3
nell'espressione ἔθος πολύπειρον, abitudine alle molte esperienze) si è spinti
a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in
contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone ciò che è
(ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale
modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla
interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di tutti gli enti
(ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una sostanza soggiacente (οὐσία ὑπομενούσα), a un
tempo principio (ἀρχή), elemento (στοιχεῖον) e natura (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων):
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui,
infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si
generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza,
per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento
e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né
si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele,
Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere
la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone attraverso
l'esclusione del non-essere le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le
contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella
Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα)
in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) in esplicita coerenza
con le indicazioni dei segni (σήματα) della via che è (ὡς ἔστιν), come
evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte
invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e
non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518
Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma
dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere
apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai
anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità
guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un errore
Dopo aver annunciato il passaggio dalla riflessione intorno a Verità (νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης) alle opinioni mortali (δόξας βροτείας) e il mutamento di registro -
dalla necessaria enunciazione di ciò che è è (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι,
B6.1) all'ascolto dell’ordine delle mie parole che può ingannare (κόσμον ἐμῶν ἐπέων
ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) la Dea concentra la propria attenzione, con una formula
non priva di ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e
stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale:
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ
πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme,
delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati
fuori strada (B). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo
indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee:
in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della
contestazione o genericamente nei mortali, intendendo l'universale approccio
umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica
(per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello
dualistico cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli
esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla
riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo
rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento
potrebbe spiegarsi all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di
Parmenide con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente
il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle
nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica.
Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile
approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da
cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi
un resoconto appropriato, in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo
sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente
riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore
fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: in ciò sono andati fuori strada) che viene
imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due
momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο
γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme. τῶν
μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]
(v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota
al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere
della costruzione del primo e del significato del se- 520 condo. La nostra
traduzione tiene conto delle diverse proposte interpretative (e filologiche),
senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come suggerito da Mourelatos2,
che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se non addirittura
ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota
intorno al punto (b): la Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione
del significato dei versi parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il
mancato riconoscimento dell'unità nelle due forme introdotte per dar conto dei
fenomeni. Una lettura nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato
ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che segnano il
passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che
evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno in certi resoconti
cosmologici: ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo
le implicazioni contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La
preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν ᾧ, in ciò...) la natura
dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di procedere comunque con lo
schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del non-essere. Si spiegherebbe
così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità fuorvianti
del proprio discorso sulle opinioni mortali: non a caso, dello schema adottato,
subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta
impostazione ontologica: πᾶν πλέον ἐστὶν
ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν tutto è pieno egualmente di luce e notte
invisibile, 2 228-9. 521 di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle
due [è] il nulla (B9.3-4). Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 che
doveva seguire dappresso, secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9:
καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν..., poco dopo aggiunge...) può autorizzare la lettura di
Thanassas, secondo il quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle
opinioni dei mortali criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula
in questo si sono ingannati (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe
l’errore delle ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della
appropriata (ἐοικότα) Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare
il modello dualistico introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ
πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ,
πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni
imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo
fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico,
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se
stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv.
55-59). Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei mortali, qui
indubbiamente la situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per
esempio, questa analisi con la requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata
ai versi B6.4-9: 3 65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ
φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ
εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da
quella [via] che mortali che nulla sanno s’inventano, uomini a due teste:
impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati,
a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni
(DK 28 B6), Simplicio indica l'errore contestato: i mortali che nulla sanno
hanno trascurato la κρίσις (decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν,
imponendo così di fatto l'identità (εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e
non-essere. Diverso il discorso a proposito delle opinioni mortali criticate in
B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν
γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non
colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione
(Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente
l'errore opposto: il mancato rilievo dell'unità delle forme nell'essere. Si può
notare, allora, accostando l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura
requisitoria contro la confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di
B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui
sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo,
insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri
ontologici della Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso,
in parti- 523 colare, l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano
interamente separati e indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν,
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo
e segni imposero separatamente gli uni dagli altri a se stesso in ogni direzione identico,
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se
stesso, le caratteristiche opposte . Diventa allora difficile credere che in
B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ
μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto adeguato,
per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti, la
dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4,
mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa
costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del mondo
naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel
contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ
ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν
γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς
καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον,
λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il
discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione 50-61]
(Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla
verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui
afferma [citazione 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose
generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e
terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea prende
dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come opposti
nel corpo (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà reciprocamente
ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i segni fisici erano essenziali
e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς
αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἀτὰρ τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας
ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero
dall’altra parte le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e
pesante. Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di
Pitagora, qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è
possibile riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν
τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ]
ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν καὶ ἀριστερόν, ἄρρεν
[καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν
[καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ
Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi
[Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett,
Indianapolis 2001 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν
προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro).
Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo
quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di
Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando
morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse
un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit. 117). che da Gaia nacquero e da Urano stellato, da
Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione
Arrighetti), e più tardi nelle laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς
Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio della Greve e di Cielo stellante
(laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di
Terra e Cielo stellante (laminetta di Petelia)9. Un’opposizione ricorrente
nella cultura arcaica, intrecciata a quella tra regione celeste (οὐρανός), e
regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ
avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ assorbito i caratteri della oscurità
(come rivela, anche etimologicamente, la formula omerica ζόφος ἠερόεις,
oscurità nebbiosa). In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare
un’estrema essenzializzazione e concentrazione del lessico delle teogonie e
cosmogonie, nell'alveo della riflessione cosmologica dei Milesi, la quale, in
estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti elementari disponendo da un lato
caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In
questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà (δυνάμεις)
fondamentali: αἰθέριον (etereo), [ἀραιόν]
11 (rarefatto), ἤπιον (mite), μέγ΄ ἐλαφρόν (molto leggero) sono riferiti a φλογὸς
πῦρ (fuoco di fiamma); ἀδαῆ (oscura) è
attributo diretto di núx (notte), mentre πυκινὸν (denso), ἐμϐριθές (pesante)
concordano con δέμας (corpo), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco e
traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi,
Milano 1977 172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology,
Hackett, Indianapolis 1994 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529
Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di
quelle connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non
abbiamo in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di
quella tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ
i poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in
sole e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che
ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del
modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un
ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν
προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα
δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον
τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa
attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è
mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto,
quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la
pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose
compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide
intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale:
l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο
δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel
corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri a se stesso in ogni direzione identico,
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se
stesso, le caratteristiche opposte (vv.
55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono
nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali
l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada
(v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione
della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in
funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto
di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha
rilevato Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo
sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si
trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla
lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un
modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide
introduce ai 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri
ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della
fondamentale alternativa è-non è, le polarità oppositive, nella loro identità
con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit. 61-62. 531
non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono
foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il
rischio13. La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di
fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo
giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla
cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle
trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe
avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato,
il lessico dei frammenti superstiti che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ
conoscerai, πεύσῃ apprenderai, εἰδήσεις conoscerai) - segnala che in qualche
modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra
aver superato il paradosso: perché introdurre due forme e poi insistere sulla
loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare,
interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ
ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
, ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. 13 In questo senso la Curd riferisce correttamente
la natura enantiomorfa del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma
secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone
per sottolinearne il limite. 14 Nehamas 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire
i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo
sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e
freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il
freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar
ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i
precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro
opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso
citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν εἰ δὲ
"μη δετέρωιμέτα μηδέν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται
e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il
nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo
nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà
costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari e nella
misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte
nei loro segni, entrambe sono: luce è e notte è. Insomma, l'Eleate avrebbe
conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico, emendandone
le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua esclusione degli
opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi
tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione di dar nome...
Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla
antitesi tra pensiero intorno a Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e opinioni
mortali (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld 137-139. 533
indicato nei versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano
è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni
linguistiche. In questo senso era stata netta la presa di posizione di
B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i
mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non
essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla necessità (unica parola
ancora rimane, μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui, in apertura di B8, si
erano imposti la prospettiva della via che è (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il
riconoscimento della relativa sequenza di segni (su questa [via] sono segnali
molto numerosi: che..., ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha
modo di contrapporre, introducendo le opinioni mortali, la decisione di
nominare (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di opposti (ἀντία ἐκρίναντο
δέμας) e l'imposizione di segni (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende, dunque, che
ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti
dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων).
Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento
intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una
considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con
l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone
argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta
sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile:
questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come
confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della
Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile
a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε
βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle
molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che
non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei
fenomeni naturali alla coppia luce-notte è certamente altra cosa rispetto alla
meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον), pur
avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta
dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide
soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su
formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione
(ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del nominare (ὀνομάζειν). Così la Dea
attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del
classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei
nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia
B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro
all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione
della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della
Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente,
illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa
proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto
accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo
falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione
nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria caratteristica di coloro che
in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda
sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas,
“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit. 63. 535 come alternativa alle
cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto
illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa
potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se
l'intelligenza applicata alla riflessione su ciò che è, alla totalità
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa
è-non-è, risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione,
l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture
portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del
tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di
espressioni, come δοκίμως (B1.32, realmente, ma anche plausibilmente) e ἐοικότα
(B8.60, appropriato, adeguato, ma anche verosimile, probabile) potrebbero
segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della περὶ
φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il
possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero
l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza
Graham (Explaining the Cosmos…, cit. 184), è forse possibile che la sfida fosse
lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536 chi
sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora
gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo
saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα
τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ
θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato
ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’
ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non
hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento,
rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo,
qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti
della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura.
Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle
cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli
uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…,
cit. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste oggi
una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit. 7- 37),
che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un
senso profondamente diverso: Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole
discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area geografica e
culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ...
δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di
procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver
reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile
una conoscenza dimostrativa sicura di ciò che è, sforzandosi poi, negli ultimi
versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che
consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni
ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i segni attribuiti alle due forme.
περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις
τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in
quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi.Simplicio offre, nel caso di
B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione
nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ
μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μη δετέρωι μέτα μηδέν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω
καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se
"con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che
entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è posto
subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi
di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente
come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la
scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11
(ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o
addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld),
nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione
generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono
state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19
l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo
visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In
particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine
delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce
e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono
state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale
delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto
nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di
classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel
commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul
complesso dei fenomeni le proprietà (δυνάμεις, potenze), i σήματα che
accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione
elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν,
comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la
totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della
κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di
recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare
l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni
accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea
aveva sottolineato : πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è,
dopo aver ricordato : οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι
χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo,
né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit. 326.
540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto
omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza
dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione centrale del nostro
frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è
pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a),
dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando
comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità veicolata in B8 da
espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da
συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν
ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle
due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il
διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante
rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale
a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché
insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a
ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare)
ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo)
confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della
relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις
(proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del nulla (μηδέν). Insomma,
il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul
terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi
che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne
costituisse la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere,
Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una
realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può
contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso
della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα
φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del
tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così
l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale
disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate
assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si
impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di
quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza
contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto
in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin-
3 . 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a
opera delle due forme nominate, con opportuno esorcismo del nulla. Una
soluzione per garantire in ogni senso la superiorità del discente dalla
concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa prospettiva, la
probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata come sappiamo - da
Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ
στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ
τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ
σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν
φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν
Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la
tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in
effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta
anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti,
come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno
scritto proprio non distruzione di un altro, può far sorgere il sospetto che la
relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse funzionale al
coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica. Tutto è
pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo
notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione della
Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate,
tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. La consistenza del
mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua costruzione
linguistica: dopo aver rifiutato le
interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), aver individuato un modello (linguistico) di
base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B), averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv)
bandito esplicitamente l'implicazione del nulla (B9.4), Parmenide se ne serve
(v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole,
egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι e i relativi
σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero,
raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e
dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί
τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ
θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲτῶιπυκνῶι ὠνόμασται τὸ
ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo
in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: per questo ciò che è
raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il
freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. Quanto è stato
denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo
comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος
καὶ νυκτὸς. 544 Le due forme concorrono alla composizione del mondo: la loro
complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4. Il fatto che
entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza
(κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le cose:
l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega
come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di
Luce e Notte6. È tuttavia necessario ricordare con Conche 7 - che le due μορφάι
parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti:
non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di forme nominate dai
mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo
delle opinioni mortali. Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro
ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo
mondo. 4 Conche. 5 Ruggiu. I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due
fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C .) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del
commento al De caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il
secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione approssimativa circa la
collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει
καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως poco più
avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [B12.1-3]
Ricordiamo che con analoga approssimazione (poco dopo) era stata
introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59.
Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9:
certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro contenuto
concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e,
ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse
soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie
fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene
citato da Simplicio in stretta connessione con B. Clemente (autore che rivela
dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che
cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ
μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η
ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza di Cristo, chi vuole ascolti
Parmenide di Elea che promette tu conoscerai... degli astri. Il commentatore
neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί
φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων
τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma
di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose che
si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. Evidentemente la
funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria
descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote
1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa
parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro
plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura:
intanto che la costruzione del sistema del mondo, annunciata in
conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità
di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea l'originalità dell'impresa
scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: ha composto uno scritto proprio non
distruzione di un altro (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): mescolando come elementi la luce e la tenebra (στοιχεῖα
μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e per mezzo
di quegli elementi (ἐκ τούτων καὶ διὰ
τούτων) ricava (ἀποτελεῖ) tutti i fenomeni (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine
che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire molto (molte cose,
πολλὰ) sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna: si tratta
evidentemente del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12
sviluppa. Doveva poi procedere a delineare l'origine degli uomini (γένεσις ἀνθρώπων):
ne abbiamo tracce in B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della
bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente
diversa. La natura programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di
formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione
alle Muse della Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne
costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una
posposizione dello stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione
(comunque approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità
della citazione alla conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è
chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide,
analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in
presenza di un "secondo" 1 Cerri 263. 2 Ruggiu 332. 548 proemio3. B10
e B11 annunciano Clemente parla di Parmenide che promette (ὑπισχνούμενος) - e
descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e
cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma,
ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei
processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci
aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che
una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze
immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due forme
(B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva.
O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti
principali (B11) e il passaggio alle opere del Sole e della Luna (B10), una
precisazione sulla natura delle due forme, prima dell'introduzione della δαίμων
che le governa (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione
proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con
le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia
(promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄
ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ
φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν
Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di
integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, Parmenides,
fragment 10, Hermes 95, 1968 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I 246-7
(in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i
segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde
ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio
rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde
ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini degli
astri. La promessa è quella di: far
conoscere (εἰδέναι) la natura eterea (αἰθερίαν φύσιν) e tutti i segni (πάντα
σήματα) nell'etere; e le opere
invisibili (distruttive) (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e ciò da cui (ὁππόθεν) esse si
generarono (ἐξεγένοντο); far apprendere
(πεύθεσθαι) le opere (ἔργα) della Luna e la [sua] natura (φύσιν); (iv) far
conoscere (εἰδέναι) il cielo (οὐρανὸν) che tiene tutto intorno (ἀμφὶς ἔχοντα) e
da che cosa (ἔνθεν) scaturì (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη)
incatenò (ἐπέδησεν) il cielo a mantenere nei loro limiti (πείρατ΄ ἔχειν) gli
astri. Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De
caelo) conferma questo disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί
φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων
τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma
di aver intenzione di dire [B] e descrive l'origine delle cose che si generano
e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio
evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle
scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i temi poi
trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali nell'esplicazione
dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non è sfuggita agli
studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in Empedocle (DK 31 B38):
εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα,
γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα.
Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne manifesto tutto quanto ora
vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida e il Titano etere che cinge
in cerchio tutte le cose. L'impressione è che Empedocle si sia direttamente
ispirato al modello parmenideo introducendo la sezione astronomica del proprio
poema 6. Le opere della natura Di questo programma scientifico (abbiamo già
osservato, nel commento di B8.50-61, l'insistenza della Dea sulle formule di
conoscenza di B10) sono da notare in particolare: (a) il nesso ribadito tra
φύσις e ἔργα, e l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come donde ebbero origine) e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
generazione dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις: nel
contesto il primo termine Cerri 259. 551
che abbiamo per lo più tradotto come natura - designa appunto ciò che dà
origine (φύω, dare origine), la cui attività generatrice si traduce in ἔργα.
Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di formazione, il
manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei segni (σήματα), nei fenomeni
celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota identità, a
un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di classificare i
fenomeni 7: in questo senso la formula donde ebbero origine (ὁππόθεν ἐξεγένοντο)
riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo della Dea è
allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai
fenomeni astronomici risale alla natura che li esprime; quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα
9. Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ
σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν
μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι. come Terra e
Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo estremo e degli astri
l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In questo caso, di alcuni elementi
essenziali del quadro cosmologico si prospetta la genesi marcandone lo spunto
immanente: a conferma del fatto che Parmenide non intende semplicemente
descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative, ma produrre
una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è indicativa della sua
nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7 In questa direzione anche la
lettura di Conche 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre
anche la costituzione dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8
Su questo punto si veda Ruggiu 333-5. 9 . 552 δύναμις che si esprime in segni e
opere. Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due forme originarie Luce e Notte si manifestano
come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si
riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco.Sia nella
forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται),
proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12 alluda proprio alla
formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più
avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera
terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida
esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i
corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della Dea che tutto
governa (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice": ἐν
δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a
unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Ma che
lo sguardo del poeta nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla
contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri
strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della
fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo manifesta la
natura, emerge nei versi in cui la Dea riferendosi a Sole e Luna insiste non
sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a
Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare della luce
solare), ma sulle loro opere, rispettivamente invisibili (ovvero distruttive) e
periodiche, cioè sul loro contributo ai processi cosmici. Articolando il
programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al come (πῶς) Terra,
Sole, Luna e etere ebbero impulso a generarsi (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al
processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il
legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già
ricordato, la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente
contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ
ποιητικὸν λέγων οὕτως poco più avanti
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i
versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli
elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo
riferimento alla struttura delle corone (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà
notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in
apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ
δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più
strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive
[si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui
alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione
dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e
composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti
superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del cielo che tutto
intorno cinge (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) a tenere i confini degli astri (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un Olimpo estremo (ὄλυμπος ἔσχατος) il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di uno
spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad anelli o
corone (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni cosmologici
riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa) testimonianza di
Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro d'insieme entro cui
collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους, τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ,
τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ
περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν, ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη,
καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης [sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ
συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν >
κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει
Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα διὰ τὴν
βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν ἥλιον καὶ τὸν
γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ
πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit. 104. 556
τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι
ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
anello cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit. 88-9), στερεόν è
infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo
restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης,
e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona]
ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην è emendazione del
testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, Giustizia che indirizza le sorti».
Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ
μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, [Parmenide sostiene
che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza
degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre
corone miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una
evidente corrispondenza nei segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ
σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας
τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione
conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse
la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e
Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον
ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον
ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ
Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da
tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare
da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si
muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da
Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν
σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la
solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν) del cosmo - ciò che tutto
avvolge (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558
consistenza attribuita al contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna
cui allude Aëtius) dovrebbe comportare per rispettare i σήματα associati alle
due μορφάι la sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come
l'etere avvolga tutto dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]
(περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels identifica tale muro (Mauer)
con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che
complessivamente costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche,
contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera
esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco
(fuoco vulcanico). Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra
l'altro proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente
l'ipotesi di Diels con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche
Tarán17 sottolinea la corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A), οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα (B) e ὄλυμπος ἔσχατος (B), riducendolo a una solida sfera di Notte,
sebbene poi la sua struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per
una diversa interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo
studioso americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia,
hanno contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che
la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che
l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato
dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla
fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su
τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione, cit. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili περιστάντος δ’ ἀνωτάτω
πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione
superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo
chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28
A37) nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat),
continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat
deum Parmenide elabora qualcosa di
fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e
di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio (Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di
Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco
dall'etere: l'etere secondo Aëtius costituirebbe in Parmenide la regione
estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19.
Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo
analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di
tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al
centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la
struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera
di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della
consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso
delle στεφάναι corone sferiche concentriche la più esterna, il confine limite
dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di etere rigido,
avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός.
Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo,
che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente
limitante, circoscrivente; per altro
vincolante: Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri
(ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame
per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i
rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti
risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide
avrebbe indicato due aree nell'etere celeste:
l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri; l'etere popolato da astri, condensazioni di
fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει
di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ
καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας,
ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos,
considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il
quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle
indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius,
l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa
di aria secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la
volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a
sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di
Aëtius con i significati correnti nella tradizione peripatetica (Teofrasto):
molto chiaramente la struttura celeste delineata e il lessico adottato
riflettono la lezione di Aristotele:
Ruggiu 336. 23 Conche 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν
καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν
λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν
τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα
καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ
συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων·
καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ
περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν
λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης
περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ
σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι.
Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo
diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque
diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale
nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che
siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino.
In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto,
in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti,
affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo
abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire
cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il
cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di
necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste,
562 né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278
a9-25). È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche
della cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso
(pitagorico?) dall'Eleate: in effetti il corpo naturale nell'estrema volta del
tutto (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia il cielo
che tutto intorno cinge (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'Olimpo estremo
(B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua associazione al divino (ἐν ᾧ καὶ τὸ
θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di
astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ
οὐρανὸν καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come il corpo
contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni
degli astri (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος
καὶ ἔνια τῶν ἄστρων). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione
"cosmica" di οὐρανός: l'intero abbracciato dall'estrema volta
consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun
corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo. La tentazione di una
lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza
dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la
perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον
καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non
ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema:
troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla
concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo
constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: la forma complessivamente sferica del centro
(Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, Olimpo
estremo), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τείχους δίκην
στερεὸν); 563 l'esistenza di una prima
fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di
puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte
sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra,
corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri;
(iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro
disposizione le indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il cosmo Il
contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius,
pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e
al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν
τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ
Π. λέγων· ‘αἱδ ’ ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. καὶ
ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης
γενέσεως αἰτίαν δαίμονα τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due
elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. La causa efficiente non solo dei corpi
soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione,
Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] Egli pone la causa efficiente una e comune,
la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ
τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a
unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ
συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν >
κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει
Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più
centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide]
la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e
Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo
d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν
τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς
θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι . ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς
Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν
πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ
τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici]
sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco,
la cui posizione centrale era nota anche a Omero . Sembra che abbiano in questo
seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i
[lett.: quasi la maggioranza dei] sapienti antichi, dal momento che affermano
che la natura monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva
la stessa sede in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla
perimetro del sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta
affinità con quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e
testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ
μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως
κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα
ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il
cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso
gli stessi passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo
giacciono in senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose
che sono in mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle
sopra e le altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si
trovano nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ
τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Διὸς οἶκον καὶ μη τέραθεῶν
βωμόν τε καὶ συνοχὴν καὶ μέτρον φύσεως. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ
περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα
χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας,
μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ
σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ
περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄλυμπον καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ
τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης
τετάχθαι, κόσμον, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ
τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν. καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν
μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε
τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in mezzo
attorno al centro focolare del tutto [dell'universo] e casa di Zeus e madre
degli dei, altare e vincolo e misura della natura; l'altro fuoco in alto invece
l'involucro. Sostiene che primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui
si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque
pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo
queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la
parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli
elementi, Olimpo; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5
pianeti con il Sole e la Luna, cosmo; dopo queste, poi, la parte sublunare e
circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione mutevole, cielo. E
intorno alla disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al
disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa
imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni particolari delle
concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a posteriori il
quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non fossero sullo
sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di
una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce
come anche Filolao definisse ὄλυμπος la parte più alta dell'involucro, in cui
ritiene risieda la purezza degli elementi, distribuendo poi gli astri in due
regioni κόσμος e οὐρανός compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La
citazione filolaica sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che
potrebbe riflettersi nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico
delle corone, probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al
pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la centralità della Terra,
precoce applicazione del principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da
Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.):
Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας
οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e
Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti,
rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte
piuttosto che dall'altra (Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore
cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si depositava e sistemava
plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto
nella determinazione del ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio,
nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come
Parmenide postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco
come causa efficiente (ποιητικὸν αἴτιον): la dea che governa tutte le cose».
Secondo Coxon24, il rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il
modello interpretativo della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di
Teofrasto, secondo il quale al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e
alla terra (Notte) quello di ὕλη: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν
ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione. D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων
δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose
governa, 24 234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις
< ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα
καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando
B13, osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀφροδίτη ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν
τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘πρώτιστον... πάντων’ perciò Parmenide mostra Eros come
la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le
testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che
effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica (πάντων
γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è invece la
questione della sua collocazione cosmologica e della sua identificazione. La
dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco è un punto di
partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse accesso a una
copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia causa efficiente 25 Su questo
punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit 27- 28. 569 non
solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono
alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ
καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la
generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo
stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione
ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: nella cosmogonia» (ἐν
τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella
misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire
che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo
dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca
la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a
uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa
coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza
cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως
ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella
della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ
καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato
da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di
Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono
le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che
chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ:
in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene
introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste
(come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile
pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26
Cerri 267-268. 27 . 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su
questo punto; né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si
limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης. La testimonianza di Anatolio di
Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le
cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la natura monadica (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è
posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) al modo di un focolare (ἑστίας
τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle relative testimonianze
confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo il fuoco in mezzo
attorno al centro (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino focolare
del tutto (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero dimora di Zeus (Διὸς οἶκον) o madre degli
dei (μητέραθεῶν), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ
μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia
che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ
σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe
nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28, e che
ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ
πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto
governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione
della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il
pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare
il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit. 104-5.
571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo risulterebbe
una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre (sfera di pura
Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle testimonianze di
Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone (A37), una diversa
soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come abbiamo già riscontrato,
in Cicerone, infatti, la dea appare come una sfera di fuoco e di luce che
avvolge il cielo: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem
ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum immagina
una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che
avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il dato cosmologico con
quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ
πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια.
L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di
sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo
(Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere come abbiamo visto - che l'orbis
lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come dio), la corona ignea e
luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν.
Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica
(che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati
relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ
ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή
τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν,
καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν
ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ
ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον·
ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον, ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν
φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio;
dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di
esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un
principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è
un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di
esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso
principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte
governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause,
per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e
senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi
della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα
ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ
ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ
περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di
Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto
si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: come la nostra anima, che è
aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo (aria e
soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν,
ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων esiste una sola sapienza: riconoscere la
ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει
δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως]
τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον.
λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον]
[Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò
che si trova in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il
tutto, ossia il dio lo guida col fulmine, intendendo con fulmine il fuoco
eterno. Dice anche che questo fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è
[causa] dell'ordinamento [dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze
espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di
coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla
divinità della naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un
compito direttivo sui processi cosmici: abbracciare e pilotare tutte le cose
(Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero abbracciare
l'universo (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo
dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in
effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere
direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di aver
introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la parmenidea
δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀφροδίτης, sia in realtà
solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e
Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a
quelle del filosofo greco (quae... rerum naturam sola gubernas, I.21). A
insistere per questa lettura è so- 30 Ivi 242. 31 Ferrari 106 nota. 574
prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione
della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso
immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una
attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il
commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e
conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros,
che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche,
documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione
cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo
cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della
δαίμων, la quale spinge all'unione (πέμπουσα μιγῆν)·di femminile (θῆλυ) e
maschile (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο
τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν
θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte
le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento
femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B).
Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di
Simplicio (contesto B12): 32 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. καὶ
ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν
γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ... θηλυτέρωι
’. καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν
κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α
τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3].
La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche
degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto
chiaramente, dicendo [vv. 2-6] Egli pone
la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa
di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga
funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘πρώτιστον...
πάντων ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ
δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli
dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile
all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto). L'indicazione di
Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν
Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore,
confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B): διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀφροδίτης ἔργων
πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘πρώτιστον πάντων ’ perciò Parmenide
mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia
[B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto
della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν
τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν
τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς
γένεσιν ‘πρώτιστον μέν, φησίν Ἔρωτα … πάντων’ Si potrebbe sospettare che Esiodo
per primo abbia ricercato una causa del genere, anche se qualcun altro pose
negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi,
infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile,
sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della
strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P.
quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat),
continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat
deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest.
multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam,
qui Cupiditatem [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel
morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus,
quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di
fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce
che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci
sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità
di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e
tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal
sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli
astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in
questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente
autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi
sufficientemente certi: la testimonianza
di Simplicio che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta con i due
elementi (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte insiste decisamente sulla
divinità come causa efficiente (ποιητικὸν αἴτιον) una e comune (ἓν κοινὸν),
origine di ogni generazione (γένεσις);
la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza
(πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto,
attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile
quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a nascita e
morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che [la dea] invia le anime
talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto (τὰς ψυχὰς πέμπειν
ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno
si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου
καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione.
Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, avere
in orrore), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide,
portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un
pessimismo proiettato nel 33 Ivi 340. 34 225 ss.. suo caso, rispetto alla poesia, dalla
condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è
ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una forma di unione
sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio, infatti,
introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche causa degli dei (θεῶν αἰτία),
mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una
funzione cosmogonica (ricostruendo la genesi del tutto, κατασκευάζων τὴν τοῦ
παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia,
Passione) dovevano cooperare all'attività direttiva della δαίμων: evidente
l'analogia con le forze cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe
essersi ispirato direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco
chiama κοσμογονία, è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio
registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata
a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso,
in B11.3-4, della formula ebbero impulso a generarsi (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che
sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del
cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione
analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e
quindi il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza
immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀφροδίτης),
di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe
espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione
sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento,
essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di
base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista
dell'odioso parto e dell'unione che la dea avrebbe concepito (letteralmente
meditato, pensato) Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 340.
36 Coxon 242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio
nautico (κυϐερνάω: pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione
di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il
pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A
dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il poeta
intenderebbe così rilevare un rapporto di pura filiazione concettuale37. 37
Cerri 273. I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del
poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma
imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è
discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati
da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma,
strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le
implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ
λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην
[B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ
σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna
Sole, ma come Parmenide: di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce
d'altri elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων
τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα
πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va
in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre rivolta verso i
raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un
significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla
costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide:
la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il
Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle
avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1
Coxon 244-5. 2 Cerri 274. 581 Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare
anche interessanti indicazioni cosmologiche:
la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna
(vagante intorno alla Terra, περὶ γαῖαν ἀλώμενον); donde l'inferenza circa la probabile
sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee; (iii)
l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce
solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso
Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον
καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου
μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene
che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via
Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda;
l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν
σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e
di fuoco (DK A) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι
τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου
φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di
fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in
effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata
dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide...... È la diversa commisurazione
degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la
Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici)
più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza):
il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla
calda e quindi neppure splendente3. 3 Conche 235-6. Frammento di
interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una
sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo
all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà
per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato,
infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le
possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta
risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema.
Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti
alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi
contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) le proposte di
assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il
frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano,
costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo
pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra
pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a
comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento
nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali
peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu
3) e due parafrasi Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al
testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una
disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le
opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584
fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti
specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo
posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια
ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni
è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης
τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι
τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano
sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli
sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide
verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla
conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche
riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come pensiero (φρόνησις), ovvero processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις).
La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν
φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν
ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ
τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται
ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν,
τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] Generalmente,
poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione,
sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È
partendo in vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così
dire, ciascuno degli altri [naturalisti] si sono ritrovati soggetti a tali
opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione, muti il
pensiero: in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la
mente; e altrove dice che: per quanto mutano diventando diversi, di tanto
sempre a loro si presenta il pensare cose diverse. Anche Parmenide si esprime
nello stesso modo: [B]. È interessante notare come Aristotele interpreti
Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione
(μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di
citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire,
Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν
τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i primi due
versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς
γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2
come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto
vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il
testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella
versione greca del frammento abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici
di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli uomini, così che la
citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la
correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è spinti, insomma a leggere
l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo di ἕξις, e νόος come
corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda citazione
empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ
φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre
a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella formulazione, a sua
volta i primi due versi parmenidei, in particolare per l'espressione νόος ἀνθρώποισι
παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν
nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche evitando il commento diretto,
Aristotele imponeva di fatto le coordinate di lettura di B. Al medesimo nodo
teorico, lo stesso Aristotele si richiama ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο
διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ
φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί
τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων),
καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς
εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’ καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ
καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου
‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι
ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν
τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è per lo più definita in base a
due elementi: il movimento locale e il pensare, il riflettere e il sentire.
Sembra che il pensare e il riflettere siano qualcosa come il sentire (in
entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e conosce qualcosa degli enti), e
del resto gli antichi sostengono che il pensare e il sentire siano la stessa
cosa. Così Empedocle affermò: in relazione alla situazione presente, in vero,
agli uomini cresce la mente; e altrove: per quanto mutano diventando diversi,
di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse. La stessa cosa
intende l'affermazione di Omero: tale è infatti la mente. Tutti costoro, in
effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di corporeo come il sentire, e che
sentire e pensare siano del simile attraverso il simile, come abbiamo detto
inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3 427 a17-29). Benché non
evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto doppiamente: perché
l'equazione aristotelica tra pensare e percepire/sentire (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι)
è genericamente rivolta agli antichi (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla
connotazione conclusiva del pensare come qualcosa di corporeo come il sentire
(τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι), attribuita a tutti costoro (πάντες οὗτοι,
cioè, ancora, gli antichi). Significativi il costante riferimento a Empedocle e
la citazione omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII,
698), di cui molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων
ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli
uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini
e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende
marcare la costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale
dipendenza dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava
nella poesia arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a
quello divino. Possiamo rintracciare lo stesso motivo in Archiloco (fr. Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι
δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ
θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν
διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε,
φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ
λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν
δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι
διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς
φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν
τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ
ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ
συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν. 3 247. 589 Riguardo alla sensazione le
opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile,
gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci
di Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme
non ha precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza
si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o
il freddo, il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è
comunque quello secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa
proporzione. [citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della
stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose
attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità
che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e
quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal
contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che
il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco,
ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che
tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli
sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica.
Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia
generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e
νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις
e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente
attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5, riferendosi
entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4
Cerri 277-8. 5 Coxon 251. 590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento
a Parmenide all'interno dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo
schema delle testimonianze aristoteliche che doveva già risultare
condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione del maestro,
infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ
καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π.
μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον
τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono
due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide,
Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal
contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della derivazione
della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene all'inizio della
trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν
Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché . La seconda
novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente di seguito, essa
valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν
στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις ma solo che, essendo due gli
elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Si tratta
probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B.
Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation
aristotélicienne du fr. XVI", in Études sur Parménide τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ
νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto
è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il
principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella
mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è quello
conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene]
anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione
espressa potrebbe discendere dai fondamenti della "fisica"
parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in
tutte le cose hanno proprietà (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi
di movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni
teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: due sono gli elementi coinvolti nella
conoscenza (γνῶσις): il caldo (τὸ θερμὸν) e il freddo (τὸ ψυχρόν); essa si produce con il prevalere di uno dei
due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, il
pensiero cambia [diventa altro] (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il
pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è
quello secondo il caldo (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) una certa proporzione [degli
elementi] è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v) percepire
e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ);
(vi) la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto
ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’
αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ
φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ
τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la percezione anche dal
contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che
il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco,
ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata
di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro
nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che Teofrasto
riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico. Al centro
dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti e (iii), che giustificano la citazione di
B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo esplicito
dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo sotto il
profilo della prevalenza di uno dei due elementi (στοιχεία), sottolineando
invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti
dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia
impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva
(non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto
piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7.
Ricostruzione dei 1-2a I primi due versi del frammento sono di interpretazione
relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze
nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’
ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010 181.
593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si ha
temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli uomini.
Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il
soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo).
Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la
condizione mentale degli uomini è correlata alla loro situazione fisiologica.
Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ)
dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il
manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero della mente, νόος). Come
abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις.
Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova indirettamente
conferma nella tradizione dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ
τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον
γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα
συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ
Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα. Disse che
due sono gli elementi fuoco e terra e che l'uno ha funzione di artefice,
l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo
dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da
cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza
sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto nella sua Fisica, dove espone
le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene Laerzio; DK 28A1). Parmenides
ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι
θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος 594 ταὐτὸν νοῦν καὶ
ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide dice che l'anima è
costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide e Ippaso dicono che
l'anima è ignea. Parmenide dice che in tutto il petto ha sede l'egemonico. Parmenide
ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e l'anima sono la stessa
cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza ragione (Aëtius;
DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco
e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura umana, attribuendo alla loro
interazione la stessa attività percettiva e conoscitiva. In particolare, la
scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza di Parmenide alle scuole
mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle, nonché in Democrito):
l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle componenti in
un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non
si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente alle
membra corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso fisico
con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento a
rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle
membra e condizione della mente 8: in tal caso, il tradizionale motivo poetico
dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe
decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza
del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula
omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ
νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε
tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich 139-142.
9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół 162. 595 quale il giorno che
manda il padre degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte
del mutevole equilibrio fisiologico corporeo10. L'attenzione di Parmenide
sembrerebbe allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza,
l'instabilità della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta
dell'avverbio ἑκάστοτε (ogni volta, di volta in volta) e dell'aggettivo
composto πολυπλάγκτων (molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili). Nel
complesso, quindi, nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame,
non v'è dubbio che sia proposta una concezione del pensare come attività (e del
pensiero come prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta
espressiva è indicativa: παρέστηκεν, si presenta) dall'esterno, dal
temperamento cangiante di membra che molto si agitano (μελέων πολυπλάγκτων), di
cui, insomma, il soggetto non sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei 2b-4
Il frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν
καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa
cosa ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e
in ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi 176. 11 Ivi 162-3. Si tratta di uno dei passaggi più controversi
dell'intero poema sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del
testo greco, la Dea, riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità
del pensiero dipende dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima
come ciò accada in virtù del fatto che ciò che pensa negli uomini (ὅπερ φρονέει
ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con la costituzione del loro corpo
(μελέων φύσις). La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella
sostanza, quella proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto
all'insieme del frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato
nella tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con
μελέων φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po'
artificiosa13. A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il
pensiero (νόημα, qui da intendere come contenuto di pensiero) coincide con ciò
che prevale (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea,
come abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις essendo due gli elementi,
la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Il lessico di
Teofrasto è lessico di "conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento
appare piuttosto lessico di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del
contesto, è la determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici
che sembra posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero,
Archiloco), informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół dei suoi
processi di formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici
alla base delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità
didascalica per mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se
consideriamo che, a differenza di quel che accadeva nella rappresentazione
omerica che teneva unite dimensione corporea e dimensione spirituale, il
ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν (B) suggerisce, nel caso di Parmenide,
una consapevole distinzione delle nozioni di corpo (μέλεα) e spirito/pensiero
(νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος
è stato invitato a: sottrarsi al giogo
della assuefazione empirica: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν
ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze
su questa strada ti faccia violenza a dirigere l’occhio che non vede e
l’orecchio risonante e la lingua (B),
tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai mortali: una strada
che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà: ἀπὸ
τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν
αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε,
τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla
sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente
errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere
scriteriate (B6.4-5a), (iii) imparare
attivamente, giudicando criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b),
(iv) riflettere sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque
al pensiero saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo
oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è
pensare ed essere (B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il
prodursi del pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice
psico-fisica: averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene
avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora
non essere casuale la relazione lessicale tra mente errante (πλακτὸν νόον,
B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero
nei loro petti guida la mente errante, e membra molto vaganti (μελέων
πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 14 Così la Stemich così il pensiero si presenta agli uomini.
Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα
μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei mortali. Per
converso, possiamo ipotizzare che ai segni di stabilità e compattezza del νόημα
ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli
elementi corporei: nella testimonianza teofrastea il pensiero secondo il caldo
(διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione dei meccanismi fisiologici
condizionanti aveva (direttamente o indirettamente) la specifica funzione di
guidare il kouros a una loro corretta gestione: difficile, infatti, immaginare
che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un accidentale equilibrio
psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di controllo15.
Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i riscontri
giunti dalla ricerca archeologica16, i quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo
mezzo secolo, fanno intravedere la possibilità che la scuola eleatica fosse
qualcosa di molto diverso da un cenacolo di filosofi razionalisti17:
probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore),
dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo stesso Parmenide, il quale
è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia (l'odierno sito dell'antica Elea)
come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico
di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano
l'esistenza di una tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός
φώλαρχος, letteralmente risanatore medico signore della caverna -, che
onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il
discorso della Doxa, come si è fatto tradizionalmente, come una messa in
guardia nei confronti di una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione
e dall'inganno: abbiamo visto, però, che ci sono motivi per credere che non
fosse questa l'intenzione del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati
nel commento al proemio. Passa 17. 600
indovino sacerdote di Apollo, da identificare probabilmente con lo stesso
Parmenide. È possibile, dunque, che egli praticasse un'arte che si collocava
tra medicina e mantica vera e propria, ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta
di "incubazione", analoga alla letargia invernale dell'animale nella
tana (φωλεός). Non dovrebbe allora sorprendere il rilievo circa la relazione
psico-fisica all'interno della esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in
effetti, diagnosticava il male in uno stato di trance, decifrando segni e
ricavandone indicazioni terapeutiche idonee19. Nel caso dell'incubazione,
l'esperienza avveniva, dopo una adeguata preparazione cultuale, rimanendo
immobili in assoluto silenzio, in un luogo consacrato, inaccessibile ai
profani: il sonno avrebbe portato con sé il manifestarsi del dio in sogni e visioni,
che lo iatromantis poteva interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al
kouros una trasformazione della condizione psicofisica, così da garantire,
attraverso il suo controllo, la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro
omogenea fusione nel pensare corretto.
Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom;
Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II 42 ss.; Ferrari, Il migliore dei
mondi impossibili Kingsley . MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti
(B18 può essere solo impropriamente definito tale) trattano della
differenziazione dei sessi (B) e della trasmissione dei caratteri sessuali
(somatici e psichici), delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non
a caso sono il risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di
B17, che doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del
feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι
τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero.
Parmenide in effetti dice [B]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie
convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando
diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che
rimane comunque una "scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V
secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare,
nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν
(Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso - dobbiamo invece la
parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è
proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos de natura scripsit,
eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari.
cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut
potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘femina... sexum ’.
Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di
concezione, si generano talvolta 1 Conche 258. 602 uomini molli e sottomessi.
Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure in versi: ho
composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è stato
possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue. [B18].
Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma
traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la facilità con
cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al
greco (come segnalato dalla precisazione: ut potui simili modi). Per mettere a
fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano,
sono essenziali le testimonianze di Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ
τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ
τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι
θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim
tum ex dextris tum e laevis partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide
sostengono che i semi della parte destra sono gettati nella parte destra
dell'utero, quelli della sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è
invertita, si generano femmine. Tra i cultori della sapienza non vi è certezza
circa la provenienza del seme [lett.: da dove esca il seme]. Parmenide,
infatti, credeva che provenisse ora dalla parte destra, ora dalla parte
sinistra (DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto
scientifico circa natura e meccanismi del concepimento, e loro effetti sul
sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di Aëtius interviene a
integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi richiama Parmenide come
uno dei primi sostenitori della 2 Cerri . 3 253 603 tesi secondo cui il maschio
sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De
generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e altri fisiologi (ἕτεροι
τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν
εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος
τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν
τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι
τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi
già in origine nei semi, come Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti,
origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e il maschio viene da
destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre
dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e associata a quella secondo cui
il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito esclusivamente dal genitore
maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere maschile proviene
dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla sinistra.
Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse
derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte
sinistra dei genitali maschili e femminili. La versione latina di Celio
Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di Parmenide circa il
contributo al concepimento: Femina virque simul Veneris cum germina miscent,
Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita
corpora fingit. Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere, la
potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto, 604 conservando
la giusta misura plasma corpi ben fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore
parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti: i semi originano dal sangue (maschile e
femminile); esistono quindi due
tipologie di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi sono opposti come
il sangue da cui provengono5 (da sangue opposto, diverso ex sanguine); (iii) i
due semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione. Incrociando
queste informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti delle
citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla
relazione genetica dei figli ai genitori6: entrambi i semi delle parti
(genitali) destre generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti
sinistre generano femmine simili alle madri; negli altri due casi (semi delle
parti sinistra e destra, maschile e femminile), maschi simili alle madri o
femmine simili ai padri. Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta
mescolanza di seme maschile e seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata
costituzione psico-fisica: le due tipologie di seme, infatti, conferivano
specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano
destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice (informans virtus). È
quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18: Nam si virtutes
permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem
gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le
forze confliggono e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla
mescolanza, malefiche 4 Conche 262. 5 . 6 Coxon 253. 605 affliggeranno il sesso
nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio
Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes,
quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui
generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae
permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che
i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se
si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano
carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta
mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati
desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi
fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto
semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo
così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso
contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio
sessuale e psichico7: lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam
sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione
dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano
certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo
Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come discepolo di Pitagora
(Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo
infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σονομίαν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ,
ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς
μοναρχίαν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi 254. 606 ἑκατέρου μοναρχίαν. .
τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene la salute,
afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo caldo, amaro,
dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia:
micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti. La salute, invece, è mescolanza misurata
delle qualità. Sono evidenti le consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è
probabile l'accordo sulla tesi fondamentale di Alcmeone: che la salute del
corpo sia funzione della isonomia degli elementi contrari, e la malattia
espressione di uno squilibrio. Le testimonianze accentuano le convergenze anche
nello specifico: ex quo parente seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari
dixit A. Alcmeone afferma che il feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il
cui seme è stato più abbondante (Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva
con Parmenide la convinzione che entrambi i genitori contribuissero con semina
(σπέρματα) al concepimento, pur avendo sull'origine dello sperma un'opinione
diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il
seme fosse] parte del cervello (Aëtius; DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in
questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la
relazione, convinto che nello specifico l'influenza sia stata esercitata da
Parmenide su Alcmeone. La questione è in effetti complessa. È probabile che Alcmeone
ricavasse le proprie opposizioni (umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.)
dalla più antica 8 252. 9 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette
ispirare le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte
fisico appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le
osservazioni biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una
complessiva interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva
(Fuoco-Notte). Il primo riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che
abbiamo registrato nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente
in chiave cosmica: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο
τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν
θηλυτέρῳ. in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose
ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile
a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È
possibile, come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia
effettivamente elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le
proposte pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e
cosmologia; probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le
soluzioni ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti
rilievi archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve
sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito
biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per
altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di
Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva
dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας , così da quella stessa fisica trasse
verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni
le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina10. Su questo
sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici
nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla
scorta di paradigmi esplicativi condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone
una fiorente scuola medica preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare
l'autonomia dell'indagine e della pratica medica, sebbene poi esse siano
documentate anche nell'ambito della tradizione pitagorica antica, a conferma
che la medicina fu avvertita come μάθημα essenziale M. Timpanaro Cardini,
Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione
originale 1958-1964) 134-5. 11 Ivi 133.
B19 Il frammento B19 ci è conservato esclusivamente da Simplicio (In
Aristotelis de caelo 558), in un contesto particolare (557-8), in cui si
susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53
e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως
ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς,
ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν.
λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος
λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν
τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι
Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν
ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ
χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν
διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν;
Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una duplice ipostasi: quella
dell'essere che è veramente, dell'intelligibile, e quella dell'essere che
diviene, del sensibile, il quale essi non ritennero opportuno chiamare essere
in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo afferma[no] che la verità
riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide, infatti, dice: [B]. Ma
anche una volta completato il ragionamento intorno all'essere che è veramente,
e sul punto di introdurre [la trattazione sul]l'ordinamento delle cose
sensibili, aggiunse: [B8.50- 53]. Dopo aver fornito esposizione sistematica
delle cose sensibili, aggiunse ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide
supporre esistessero solo le cose sensibili, lui che intorno alle cose
intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni di tale consistenza e
mole da non 610 poter ora essere riportate qui? Come ha potuto trasferire le
caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose sensibili, lui che
con chiarezza distingue tra l'unità dell'intelligibile e del vero essere e
l'ordinamento delle cose sensibili e non ritiene opportuno indicare il
sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle indicazioni qui fornite da
Simplicio, e incrociandole con le sue stesse citazioni, dovremmo concludere
che: il poema si articolava in due
sezioni principali, per le quali il commentatore trova conferma in
B1.28b-32; il passaggio tra le due
sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era apposto a compimento
di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla
scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la deduzione che
esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il contesto ci fornisce
dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella culturalmente e
teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo -
sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio,
delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti: il primo dedicato al discorso/ragionamento
sul vero essere (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος), in altre parole alla verità
riguardo all'essere (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico della tradizione
platonico-aristotelica si tratta dell'ambito dell'intelligibile (τὸ νοητόν),
che costituisce l'essere in senso assoluto (ὂν ἁπλῶς); l'altro, relativo all'illustrazione
sistematica dell'ordinamento sensibile (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ
τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν), si riferisce all'essere in divenire (τὸ γινόμενον), il
cui statuto ontologico è quello di essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit. 265), per esempio, non concede che il frammento naturale
conclusione della cosmologia del poema ne costituisse anche la vera e propria
chiusa. 611 appare (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura sensibile (τὸ
αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La trattazione
specifica è designata in contrapposizione alla verità che concerne l'essere in
senso pieno - come opinione riguardo all'essere in divenire (περὶ τὸ γινόμενον
δόξα). È chiara, nel contesto del discorso, l'interpretazione di Simplicio dei
versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης
εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης
καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα.
La struttura effettiva del poema doveva, dopo l'introduzione, prevedere: la rivelazione circa di Verità ben rotonda il
cuore saldo (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ):
si tratta di ciò cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; la ricostruzione effettiva (δοκίμως) di τὰ
δοκοῦντα, delle cose che appaiono, ovvero delle cose accettate nelle opinioni,
che corrispondono a quanto il commentatore designa come δοκοῦν ὄν: la
rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche l'ambito sensibile,
proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il contesto delle citazioni fa
intravedere come, per Simplicio, l'articolazione del Περὶ φύσεως fosse
essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica sezione riservata
all'esame degli errori umani alle opinioni dei mortali, in cui non è reale
credibilità (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che doveva invece
essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici che seguono la
citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del poema che,
all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante precedente in
Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς
μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον
ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν
ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης
εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον,
‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ
πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν
καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide]
non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è
proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
essere in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se
stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò
che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: il
cuore preciso della Verità ben convincente, che raggiunge l'intelligibile e
quanto è sempre nelle medesime condizioni, e le opinioni dei mortali in cui non
è vera certezza, perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma
di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora
conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e l'opinabile?
Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem), e nella dossografia
peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ
γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων,
οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον
καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι
τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον
καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres,
da Elea percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e
cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle
due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il
tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti,
invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due
principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente
(DK 28 A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive
(in termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις,
καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο
τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν
λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. Costretto tuttavia
a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece
secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli
caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto
l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica). Possiamo leggere il passo
aristotelico proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della
originaria ricezione sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero
eleatico: Aristotele intende marcare, nello specifico, l'opzione teorica di
Parmenide da quella di Melisso, il monismo rispetto alla definizione (ovvero
ragione) (κατὰ τὸν λόγον) dell'uno, da quello rispetto alla materia (κατὰ τὴν ὕλην)
dell'altro. Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro
l'epicureo Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è (τὸ ὄν) è
«uno (ἓν) «secondo ragione (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice (πλείω)
«secondo la sensazione (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare
di Parmenide il sostenitore di un mero «uno-tutto ovvero «essere-uno (ἓν τὸ πᾶν,
ἓν τὸ ὄν) - formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica
soprattutto in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide,
Sofista, Timeo) 2 che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta
di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa,
probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ
Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi
retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B e dunque al riferimento
al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura
"costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e
Simplicio che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da
tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in
particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa
realtà: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur
avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza e
quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ
νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di
individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli
di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti intelligibili
(τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). Su questo in
particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua. Per
questa linea interpretativa si veda Palmer, Parmenides et Presocratic
Philosophy, B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco più di una
scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della discussione: come
abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce effettivamente la
ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche considerate nel loro insieme
(e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica5 ): οὕτω τοι κατὰ δόξαν
ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄
ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo opinione,
queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno
fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per
ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν giustifica l'insistenza sulla
dimensione temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι
τραφέντα. Non è difficile intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν.
Il rilievo del divenire passa, in vero, attraverso scelte espressive ben
ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la
centralità della φύσις (B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda
sezione del poema; il presente connotato
avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5,
caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di
precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità
sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e
compimento, con la ripresa di una forma verbale τελευτάω - de- 5 Conche rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con
un valore diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B (ἀτέλεστον; οὐκ ἀτελεύτητον;
τετελεσμένον): il senso è qui quello di concludersi in quanto giunto al proprio
fine e al proprio compimento6. Per la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i
versi del poema insistono sullo spessore linguistico della doxa: e ancora, come
nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli effetti distorcenti.
L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli uomini perpetrano e
perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti fenomenici
all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la
possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non a caso
l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B)
di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso,
Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in questo
passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità delle
cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici
dell'essere e del non-essere, ma in quelli della presenza e dell'assenza. Un
sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe colto alcuni
aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Ruggiu. Coloro che per primi hanno
ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti,
dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle
cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina
o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di
vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che
non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga
da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad affermare che
non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica). Verb fīō (present infinitive fierī, perfect active factus sum); third
conjugation, semi-deponent (passive form of) faciō (copulative) I become,
am made Vōs ōrāmus ut discipulī ācerrimī fīātis. We are begging you so that you
may becomevery keen students I happen, take place, result, arise quotations, synonyms.
Synonyms: interveniō, ēveniō, expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō,
contingō ut fit as happens usually/as is customary fit ut it happens that LIVIO,
Ab Urbe Condita: silentium et repentina fit quies A stillness and a
sudden hush took place I appear quotations: Titus Livius, Ab Urbe Condita I,
10: fit obvius cum exercitu Romulus Romulus appeared with his army Conjugation
Edit While it does have a fourth conjugation pattern when conjugated, this verb
has an irregular infinitive (fierī), and is therefore third
conjugation. Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant, irregular
long ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative singular
plural first second third first secondthird activepresent fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect
fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect
factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active
indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum
subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present
fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus
fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect
factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first
second third first secondthird activepresent— fī fīte — future—fītō fītō—fītōte fīuntō
non-finite formsactivepassive presentperfect future presentperfect future
infinitives fierī factumessefactum īrī participles factus verbal
nounsgerundsupine genitivedative accusativeablativeaccusativeablative
fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū Usage notes Edit This verb ousted
Facior, Facī in the sense of "to be made". Verb Edit fīō
first-person singular present passive indicative of faciō Related terms Edit
faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō
(see there for further descendants) English: fiat References Edit fio in
Charlton T. Lewis and Charles Short A Latin Dictionary, Oxford: Clarendon fio
in Lewis An Elementary Latin Dictionary, New York: Harper et Brothers fio in
Gaffiot, Félix Dictionnaire illustré Latin-Français, Hachette. Eliadi,
Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla metafora mitica in Parmenide C.
Source: Quaderni Urbinati di Cultura Classica, Published by: Fabrizio Serra
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Urbinati di Cultura Classica UTC Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni
sulla metafora mitica in Parmenide. Non
posso fare a meno di ringraziare Fajen per la dura critica che ha rivolto alia
mia interpretazione dei frammenti di Parmenide. Devo ringraziarlo perche, a
differenza di altri critici non meno duri, prima di giudicare il mio saggio lo
ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti da lui
attaccati sono in effetti gl’argomenti portanti della mia dimostrazione. Ma
soprattutto devo essergli grato perche, attaccando quei punti, mi ha costretto
ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e piu validi argomenti in
loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono. Gli argomenti di
Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai debolmente.
Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera interpretazione
del frammento 1, e cio? la lettura realistica e topografica del viaggio di
Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro dei tempi
verbali “Sulla natura”; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il viaggio si
localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta, la
narrazione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen invece del parere
che, in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come preparatoria
ad una specie di rivelazione o simili, sia come esposizione di un viaggio
storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso. Premetto che il “Sulla
natura”, formalmente parlando, in ogni caso "preparatorio ad una specie di
rivelazione". Il contenuto del “Sulla natura” viene presentato come il
discorso di una dea, Dike, a Parmenide, cosi come il contenuto della Teogonia
una rivelazione che altre dee, le muse, hanno fatto ad Esiodo. E la divergenza
tra le varii interpretazioni verte sulla localizzazione dell’incontro tra la
divinita e il poeta, localizzazione inesistente nelle letture mistiche e [Gymnasium,
La porta di Parmenide, Roma] allegoriche, esistente nel mondo celeste nelle
esegesi astronomiche, e infine esistente in una citta reale di questo mondo -- certamente
Velia -- nella mia interpretazione. Ora, Fajen puo pensare cio che meglio crede
sui significato dei tempi verbali nei vari tipi di narrazione; ma tanto il suo
parere quanto il mio restano inverificabili se non si basano su esempi
concreti. Concretamente parlando, i filosofi precedenti Parmenide, o a lui
contemporanei, non ci forniscono esempi di narrazioni allegoriche in prima
persona. E, per quanto concerne viaggi nel Pal di l? (celeste, infero o mistico
che sia questo al di l?), non ci danno che la Nekyia omerica. Ma anche la sola
Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai significativa per il nostro
problema. Essa si compone di tre parti: il passaggio di Ulisse e dei suoi
compagni per l’ultimo agglomerato umano, abitato da esseri viventi e definibile
come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per il paese dei Cimmerii {k
1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da Circe4, e cio? nel bosco di
Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale le ombre dei morti giungono
uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la penetrazione di Odisseo
(preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo assicura il suo ospite che ci?
che dira verra creduto 6 anche se narrera "avvenimenti
straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu? vedere anche
personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire dalPErebo. La
seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso la fossa, in mezzo ad una
nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle persone, ed ? quindi
priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece, contengono localizzazioni
e descrizioni rispettivamente di cose del nostro mondo (appunto la citt? e la
terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago e Palbero di T?ntalo, il
monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim merii il poeta interrompe
la serie degli aoristi e degli imperfetti, che punteggiano il viaggio della
nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con un perfetto equiparabile ad
un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non avviene per i luoghi delPErebo, e
cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v. 583; uSwp anokzcrxzio), per la 3
Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<; te tc?Xic te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<;
x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ (, 22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc??
'Epa?eix; (, 36-37). 6 J??,. 7 dicrxzka spy a (, 374). 8 xoct' E?puTCuX??
"A?5w? 565 Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal
ritirarsi del lago {ycda piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea ..
. x&, v. ), per il macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e
soprattutto per la cintura di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella
parmenidea della porta (fr. 1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP
dai iniziale si sosti tuisce un Tjv. II processo, per cui i tempi storici di
una nar razione si interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni
volta che il narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea
l?stico, non ? limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti
contenuti nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche
nei tragici, come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo
dal messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un
fiume 12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re
udito la gente parlare di un decreto di Creonte, allude a una fontana ben nota
(come la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata ?
Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS??
TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la
via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen
mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la
citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha
probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto,
magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e
xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti
racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono
due, quello di Eumeo a Odisseo e l'altro di Odisseo a Penelope che ancora non
lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno stesso clich?:
entrambi infatti contengono un'introduzione, nella quale l'oratore acconsente a
parlare e spiega le ragioni del suo as senso; una localizzazione, in cui
vengono descritte rispettivamente le isole di Siria e di Creta; e la narra zione
vera e propria, legata alia localizzazione in entrambi i casi dal ricordo di un
re che regnava nelle terre descritte. La localiz zazione ? sempre
caratterizzata da tempi principali, la narrazione da tempi sto rici; e ci?
avviene anche in altri racconti deH'ultima parte d?iVOdissea Pers. .. . Med.
ta" (in quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta
dino, ma congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o
"attraverso tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i
due porti, Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto
velino verso il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci
ritroviamo sempre in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura
che Fajen ritiene inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni
alternative, devo supporre che egli opti per le interpretazioni non
topografiche ten?ate fino ad oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del
proemio un'allegoria speculativa simbo leggiante il viaggio delPintelletto
verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra, Deichgr?ber), gli occttt) sono le province
del sapere; se si propende per Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels,
Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger, Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo
intendere per ?o-rr] i gradi delPilluminazione; se infine si sceglie
Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa sui carro del sole lungo le orbite celes
ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i "centri abitati" simboleggiano i
segni dello zodiaco o qualcosa di simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare
gli autori antichi in cerca delPesatto significato di acrru, ha trovato in
qualche scrittore traslati di questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo.
Diels ritiene che il izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. non sia una forma regolare di rcXacrcrG), ma
una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con esempi tratti dal
tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli esempi, non essendo
plausibile un dorismo in quel contesto, ma non di invalidare Pipotesi, essendo
Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci) fondata su "un'intera se rie
di verbi in -o"o*co invece del -?w che ci si aspetterebbe" citata
nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non credo che sia necessario rileg gere
le grammatiche per sapere ehe in greco le reg?le sulla formazione del presente
dal tema verbale sono alquanto precarie: ma icX?Cco ha un presente regolare
attestato da numerosi scrittori, e Diels non lo ha certo negato. Diels ipotizza
un hapax, e cio? una forma irrego lare che sarebbe attestata dal solo
Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere io a ricordare al collega
che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un emendamento) viene a cadere appena
si dimostri che 14 Si veda in proposito E. Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della
Civite?V, Riv. studi salern. Schwyzer,
Griechische Grammatik I, M?nchen il
passo ha senso compiuto senza di essa. Anche se Fajen trovasse non una serie di
presenti irregolari o di doppi present? (come quelli elen cati da Schwyzer), ma
addirittura una serie di hapax analoghi a quello presunto da Diels, Poner?
della prova resterebbe sempre a lui. Alla fine della sua breve ma densa
recensione Fajen mi accusa "di non essere al servizio della scienza",
e non posso dargli torto: se scienza ? quella che traspare dalle sue
argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il vecchio perch? vecchio e nel
rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ? chi (come Cesare Cremonini)
rifiuta di guardare nel cannocchiale se il cannocchiale non mostra Puniverso
descritto da Aristotele. II servizio di questo tipo di scienza lo lascio
volentieri al mio c?rtese obiettore. Ho tralasciato volutamente il primo
argomento di Fajen, quello riguardante la mia interpretazione delle
"fanciulle Eliadi", citate in Parm. come pioppi fiancheggianti la
strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in Omero, le 'HXi?S?<;
compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen obietta che in questi
autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno al pianto delle
fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in Parmenide viene a
man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo al di fuori di
ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere a?YSi?poi come in
Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte, ma neanche
possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al mito di
Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione al mito
di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la contemporaneit?
tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche e soprattutto
perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a volte no) ci
risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma anche
ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin terrogativo ? lo
stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ? Palternativa, e
che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se optiamo per la
lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se riprendiamo
Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo sull'interpretazione
astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito troviamo le Eliadi come
equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di Parmenide ci riportano a
miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il fatto che fino ad oggi nes
suno ha letto il proemio di Parmenide come una narrazione mitica mai esistito
un mito di cui fosse protagonista lo scrittore che lo nar rava) : i moderni
fautori delle tre interpretazioni menzionate pi? sopra hanno visto tutti nelle
Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui giudizio Fajen mi rimprovera
di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia tentato un'interpretazione del
proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie del sole (che simboleggerebbero
le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il continuo uso di metafore
(xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il retore Menandro 18 precisa
che fece uso di quelle particolari metafore mitiche consistenti nel dire
"Apol lo" per sole, "Era" per aria, "Zeus" per
calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la letteratura antica,
da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io propongo per le Eliadi
parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il personaggio m?tico viene
nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza alcun riferimento al mito
che giustifica Passociazione. Queste considerazioni sarebbero sufficienti per
rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho detto, la mia inveterata
abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha spinto a fare ulteriori
ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho osservato, ad esempio, che
questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi? fr?quente nel Pantichit?,
compare assai di rado nel lungo elenco di metafore poe tiche e retoriche
fornitoci da Aristotele, e il fatto non mi ? sembrato casuale: Panomalia
dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non diacronico
delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della genesi e
dell’evoluzione della lingua e dei suoi modi. Aristotele scrive in un'epoca
nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri poeti, i
retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano soprattutto
preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica valuta le
metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che il
filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e
comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ?
per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono
allusioni dei 16 Sext. Adv. Math.
Parm. Rhet. Poet. ; Rhet.
Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e stilistica di Aristotele, Roma poeti e degli
oratori a modi di dire gi? esistenti e diffusi tra la gente del pop?lo che (in
?poca di viva tradizione orale) li ascolta diretta mente. Aristotele, insomma,
non pensava mai che gli aedi omerici dovevano farsi capire dalla gente delle
citt? che visitavano; e che i poeti e gli oratori del sesto e del quinto sec?lo
avevano un ben pre ciso uditorio 21, nel quale le loro met afore dovevano
suscitare reazioni immediate. Nessun cantore o parlatore avrebbe detto Ares per
indicare la guerra se non av?sse saputo che i suoi ascoltatori usavano gi? la
stessa met?fora; e le metafore mitiche erano popolari prima di essere
letterarie. La popolarit? delle metafore cui pi? sopra ho accennato era senza
dubbio estesa all'intero mondo di lingua greca, e la ragione ? f?cil mente
intuibile: si tratta di metafore o gi? presenti nei poemi ome rici, o da essi
der?vate. Ma esistevano metafore mitiche popolari di origine postomerica o
extraomeriea: GIRGENTI (vedasi), che subi fortemente la suggestione stilistica
di Parmenide, e che gi? il retore Menandro accomunava a Parmenide proprio per
Puso di metafore mitiche22, usa per i suoi elementi tre nomi di divinit?
omeriche, Zeus, Era e Edoneo (= Ade), ma per il quarto elemento, Pacqua, si
serve di Nesti, una divinit? siciliana24; e abbiamo qui un chiaro esempio di
met?fora po? tica che riproduce una met?fora mitica popolare locale, e cio? di
poesia adattata ad un uditorio limitato, come era anche quella di Parmenide. Le
Eliadi pero, pur non essendo un mito omerico, non sono neanche un mito locale
campano, o pi? in gen?rale italiota: sono, nel momento in cui Parmenide compone
il suo poema, un mito tr?gico. I miti metamorfiei e i miti dionisiaci sono i
due pi? importanti gruppi di miti non omerici, ed hanno entrambi la stessa
origine: i sa tiri e i sileni della mitografia dionisiaca, le donne-uccello e
le donne albero della mitografia metamorfica, derivano tutti certamente dai
riti di caccia, raccolta e agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si
camuffano con pelli di animali o con fronde vegetali per mimare Rinvio, per lo sviluppo di questa prospettiva
storica, a Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente uditorio nella
lirica c?rale greca', Stud. urb. Menand. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr. , v. 2. Un altro
personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la nutrice di Persefone,
viene nominato da Empedocle (fr.) metaf?ricamente per indicare il ventre. Lo attestano Eustazio e Fozio (s.v.
N^ctttic). appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la
buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game
con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli
di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli
popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li
rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di
origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire
il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa,
ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si
trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si
tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque
dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il
caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e
che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono
la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia
delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono
dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per
il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si l?gano
per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in effetti
Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione delle
opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune origine
tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo dramma di
Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle. Ma la leggenda
delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle Pandionidi, figlie di
un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione originaria erano 25
Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel Prometeo inca tenato,
dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente si allude anche nelle
Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ? chiaro che ancora in
Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva sulla scena con una
maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che anche negli Uccelli
di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche attributo legato alla sua me
tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca alludono chiaramente i due per
sonaggi che commentano la sua comparsa (vv. 672-674). 26 ?piufumi po?tae
dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus, etc." {N.H.). "Super omnis est Sophocles po?ta
tragicus Hic ultra Indiam fieri dixit e
lacrimis meleagridum avium Meleagrum deflentium. Eliadi, Meleagridi, Pandionidi
state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un parente morto (e ce
lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29, due poeti vissuti
assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio, chiamino IIav8iovi<;
la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi, esse esprimono il loro
dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici, prima in forma allusiva
nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per esteso nel Tereo di Sofocle,
troviamo questo mito gi? contaminate (probabilmente per la somiglianza tra i
patronimici Ilav Siovi? e navSapTQi?) con quello di Aedone, figlia di Pandareo,
che uc cide per errore il proprio figlio Itilo e si trasforma in usignolo M,
oltre che con la truce storia (variante tessala del mito di Medea) della
vendetta di Procne su Tereo: ne vien fuori un complesso mito meta morfico, dove
le Pandionidi si sono prec?sate nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate
Puna in usignolo e Pa?tra in rondine, mentre Tereo si trasforma in upupa;
tuttavia anche in questo caso il mito diventa popolare (e ce lo attesta perfino
Aristofane)31 quando si rappresenta pubblicamente la tragedia sofoclea che
narra la metamorfosi. Tutti e tre questi miti diedero luogo a metafore
popolari, e Ate ne, proverbialmente ricca di uccelli, appunto la sua attenzione
sui due miti sofoclei, ritrovando le Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie
avicole locali: la rondine dovette essere chiamata abitualmente Filo mela, se
tutti compresero a vol? quando Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una
met?fora famosissima, evidentemente, se perfino Aristotele, che abbiamo visto
cos? restio a citare metafore mitiche, la ritenne degna di menzione); e
Meleagridi furono chiamati, pi? in gen?rale, gli uccelli che nidificavano
numerosi nelPAcropoli e che ri chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le
immagini e i cori del Meleagro. A Velia, ricca di pioppi, suscito invece
maggiore im 28 . Probabile reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat. Fr.
Bergk. Od.; Apollod. IToia?Ta
uivToi Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a. Rhet. .
Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v t^ ?xpoitoXei. 5W.: M?
X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei X?Youca 8? o? uiv tgc?
?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc? u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX. Phot. s.v.
= Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide cit. pp. 33-34. C. pressione la
metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli abitanti del centro
campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia di" gli alberi che
fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide utilizz? Pimmagine
mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa via". Ma il
fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore popolari locali non
mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle trag?die cui il suo
uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da oratore, dato che si
rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono dei tragici"35;
Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta, illuminando la met?fora
popolare di origine eschilea con altre metafore tratte dai testi stessi di
Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per "?ocpo?" e di
"x??P" per "o?o?" e l'?vidente gioco sui doppio significato
di "x?pa" ("testa" e "cima"36 che ritroviamo
nella splendida immagine del verso 10: "xaX?-rcTpa" per "velo di
t?n?bre" ? in effetti accertato come espressione eschilea37, mentre le
immagini della trasformazione delle braccia in rami e della testa in cima
frondosa sono anche nei versi dedicati aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che
nella parte finale (allorch? le sorelle si lamentano tutte insieme con un
andamento che richiama i cori tragici) sembrano fortemente influenzati dalle
Eliadi di Eschilo, dove le figlie del Sole costituivano appunto il coro. ?
anche significativo come queste metafore popolari abbiano dato, in epoca pi?
tarda, esiti assai simili: mentre i mitografi conti nuavano a narrare la
metamorfosi senza discostarsi molto dalla versione tr?gica, gli scienziati
attingevano ai nomi mitici per denominare ani mali o piante poco conosciuti. Il
nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.).
Aristotele aveva coito bene l'al lusione perch? conosceva il testo del Tereo
(cfr. Poet.). Per x?pa significante cima
d'albero" cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph. &14. Ma va chiarito
che i versi di Parmenide risentono con tinuamente di quelli di Eschilo: si cfr.
per es. Eum. con Parm.; Eum. con Parm. 1,14; Prom. con Parm. 8,53-54; Prom. con Parm.; ecc. Tertia cum crines manibus laniare pararet,
avellit frondes. Haec
stipite crura teneri, ilia dolet fieri longos sua brachia ramos (Met.). Parce, precor, mater, quaecumque est saucia
clam?t, parce precor: nostrum laniatum in arbore corpus vano come sin?nimo di
"uccello" o pi? specificamente di "ron dine", venne dato
dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela maggiore")42,
poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi detto perch? si
diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo; e Pequivalenza
tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la celidonia (la
comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua forma
"x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse detta a
volte anche "tcocvSlo? pt?oc", certamente, come ben vide Wellmann,
corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a". "Uccello
meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto dal suo
discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il nome
dato dagli ornitologi alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli uccelli
comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede del mito
di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto id?ntico,
i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet? di quella
pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel fatto che
i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore popolari
zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ? quella che
deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la maggior
presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia piccola e
poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di valore".
Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens philomela sub
umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido implumes detraxit
(Verg. Georg.). Mortalium penatibus fiducialis nidos philomela suspendit, et
inter commanentium turbas pullos nutrit intr?pida" (Cassiod. Var.). 42
Mey<xXtq (piXou//)Xa (Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms. Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian.
Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II . Hist. anim. Riportata testualmente da
Athen. B-E. 47 Diod. Ill ,2; Paus.;
Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48 Menodot. Sam. ap. Athen. A. ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V. Apoll.
T. V). quelle metafore nei versi del pi?
illustre figlio di Velia, n? di rico noscerle come tali anche se in quei versi
essa compare disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente riferimento. Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola
di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il verbo divenire, perche usa
la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi,
veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide, fieri, in esse, in fieri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” The
Swimming-Pool Library. Capizzi.
Luigi Speranza -- Grice e Capocasale:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei segni di
dialettica – scuola di Montemurro – filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Montemurro). Filosofo basilicatese. Filosofo
italiano. Montemurro, Potenza, Basilicata. Grice: “You gotta love Capocasale;
my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS
PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale
multiplies the principles of reason – I thought there was just one – On top, he
uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the
‘vero principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is
philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria
Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel
tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine nella
filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta quando
C. aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San Mauro Forte,
procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi contemporaneamente
allo studio della filosofia e del diritto.
Dopo esser stato governatore baronale di Sarconi, incarico ottenuto
appena ventenne, lasciò la Basilicata per trasferirsi a Napoli, conseguendo la
laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi universitari, insegnò filosofia nella
scuola dallo stesso fondata a Napoli. Vestì l'abito talare e fu nominato da
Ferdinando IV precettore di logica e di metafisica all'Napoli. Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe
Bonaparte: sotto il suo governo gli fu concessa solamente la docenza privata.
Con la restaurazione, Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano. C., tuttavia,
preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con
l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo.
Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe la cattedra di diritto di natura e delle
genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da
essere citati da filosofi come Fiorentino, Gentile e Garin. Alcuni suoi discepoli divennero importanti
personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Quadrari, Scorza,
Arcieri e Mazzarella. Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro
le insurrezioni carbonare. Precettore del futuro re delle Due Sicilie:
Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la
Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna,
degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei
Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S.
Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco”
(Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso
dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo
dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo
i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per
giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso
filosofico per uso dei giovanetti”. Dizionario
biografico degl’italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam PHILOSOPHIA
est scientia quæ viam ad felicitatem sternit. Ea vero rationis solius ductu
cognoscitur, ac demostrationis ope vernm investigat. In vero autem inveniendo
methodus utramque facit paginam. Patet primum FILOSOFI studium esse debere,
intellectum, sive facultatem cogitandi, ad veritatem methodice investigandam,
ac di iudicandam aptum reddere, eumque mediis opportunis acuere, vel, si morbo
aliquo laboret, salutaribus eidem mederi remediis. Et quia veritas per
demonstrationem invenitur et iudicatur. Demonstratio vero methodo perficitur. Liquet,
ei necessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum ad sue facere,
ut in eo habitum adquirat, in quo FILOSOFI scientia consistit. Quamvis vero
omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique
conficiendi facultate præditi sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad
summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus
sint obnoxii, nisi facultatem illam regulis quibusdam certis, at que indubiis
dirigant, disciplina aliqua in veniatur, oportet, quæ regulas ac præcepta
tradat, quibus naturalis illa cogitandi vis augeatur, perficiatur, et ad
veritatis investigationem in offenso pede dirigatur. Naturalis hæc percipiendi,
iudicandi, ratiocinandi que vis LOGICA NATURALIS appellatur, quæ qunn in casuum
similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat, non solum erroribus est
obnoxia sed rerum causas et rationes ignorans, confusam tantummodo cognitionem,
non vero scientiam producere potest. Ex quo legitime fluit LOGICÆ ARTIFICIALIS necessitas.
Disciplina hæc vulgo LOGICA ARTIFICIALIS appellatur, quam definimus per
doctrinam, qua regulæ traduntur, quibus, humana mens in cognoscenda, et di iudicanda
veritate dirigatur. Vocatur hæc a non nullis
PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA. Logicæ Prolegomena
quæ tantum abest, ut essentialiter a Naturali differat, ut sit potius distincta
eiusdem explicatio, adeoque tanto illa præstantior quanto distincta cognitio præstat
confusæ. Ex quo patet, FILOSOFI sola Logica naturali esse non posse contentum,
sed ei colendam esse artificialem. Quandoquidem autem Logica artificialis leges
explicat naturalem iudicandi facultatem dirigentes: sequitur ut eas ex mentis
humanæ natura deducat, adeoque mentis operationes prius, carum que naturam
distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione, atque examine
veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam, deinde praxin ostendat.
Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicæ divisio, in THEORETICAM ET
PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum hoc in duas partes
distribuerimus. In
quarum prima de mentis operationibus. In altera de legitimo carum usu, quantum
satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens triabus modis res cognoscit;
vel enim eas tan tummodo percipit, vel de iis iudicium profert, vel denique
rationes conficit. De tribus his mentis operationibus priore parte agemus.
Quumque veritates vel per se pateant, vel per rationem et meditationern
inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur: inventæ
vero cum aliis communicentur. De omnibus his parte secunda non nulla haud
proletaria monebimus. Experientia namque constat, nos omnis cognitionis
expertes in mundum prodire (quidquid pro ideis innatis Platonici, et Cartesiani
clamitent), atque primo res simpliciter perei pere, earumque ideas adquirere,
deinde binas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare,
indeque novas veritates deducere. Mentis actio, qua res aliquas sensibus obvias
percipit, aut ab iis abstrahendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO, sive
idea dicitur: quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM: dum vero eas cum
aliis comparat, atque inde novas veritates elicit RATIOCINIVM nominatur. Nec
aliæ attente consideranti mentis operationes occurrere pote runt. Scholion. De
Logicæ utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam
scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi periculum
facere poterit: nam quidquid ex recta ratione capiet emolumenti, id omne huic
disciplinæ se debere, aperto cognoscet. Prima mentis hnmanæ operatio est
SIMPLEX PERCEPTI, sive NOTIO sive NOTA sive SIGNUM, quam definimus per
simplicem rei alicuius re-præsentationem in mente factam præsentationem autem
intelligunt ad curatio res assimilationem eorum, quæ sunt extra ens, in eodem. Dici
quoque solet idea, conceptus, vel sim. Per rea plex apprehensio, ut scholis
placuit. Sunt, qui perceptionem ab idea distinguendam putant, atque illam esse
aiunt, mentis actionem in obiecto percipiendo. Hanc vero ipsam abiecti imaginem
menti percipienti obviam, Sunt, qui eas terminis tantum differre docent.
Quidquid id est, nobis placuit perceptionem cum idea confundere. Ad eoque
nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per
imaginem menti obversantem. Buddeus Phil. instrum. cum observ. alii per
exemplar rei in cigitante. Hollmannus Log. Sed hæ, aliæqne definitiones eodem
redeunt. Repræsentationis vox absque definitione ad sumi poierat, quum sit
cuique nota. Sed ut methodici rigoris amatoribus non nihil daremus eam ita
explicavimus, sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei re-præsentatio.
In omni autem re-præsentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus re-præsentandi,
et obiectum, sive res ipsa quæ re-præsentatur: liquet, in qualibet idea itidem
duo animadverti posse, scilicet percipiendi modum, et obiecta nempe res
perceptas; quorum ille FORMA, hæc MATERIA idearum recte dicuntur. Si ergo ideæ
ad formam referantur consideratio illa dicetur FORMALIS. Si vero ad materiam,
OBIECTIVA, vel Realis appellabitur, Et quia utroque respectu ideæ inter se
differunt: de formali ac materiali earum differentia diversis sectionibus
agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde
constat quædam ita percipere, ut ca ab aliis inter noscere possimus, quædam
vero non ita. Re-præsentatio illa quæ sufficit ad rem perceptam ab aliis
dignoscendam, idea di citur CLARA; OBSCURA contra, quæ ad eam discernendam est
insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram et obscuram E. Rosæ ideam
claram habes, ei eam a lilio, hiacynto, aliisque floribus distinguere scias, et
quoties cumque tibi occurrit, eam dem agnoscas; contra si arborem peregrinam
videas, eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris illius ideam
habes obscuram. Huiusmodi sunt ideæ infantum recens natorum, hominum bene
potorum, eorumqne, qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS enim Physicis
est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas alias ab aliis
distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet
tenebrarum eftectus: nam quun tenebræ in lucis privatione consistant, hæc vero
obiecta externa distinguere faciat. Deficiente luce, deficit distinctionis
facilitas: adeoque obscuritas in distinguendi impotentia sita est. Quum res
existentes innumeris determinationibus et circumstantiis involutæ observentur.
Hæ vero, nisi attente consideranti, sensuumqne aciem ad obiecta convertenti,
innotescere non possint, ut experientia patet: recte infertur eo clariorem
fieri ideam, quo plura possunt in obiecta distingui; adeoque ad claram idean
adquirendam requiri sensus cum attentione coniunctos, qua deficiente, ideas
fieri deteriores Esenplo sit hono in maxima distantia constitutus, qnem qui
vilet, primo dubius hæ ret, utrum corp is quidlibet sit, an vivens; deinde in
obiectum illud oculorun aciem attente convertens, a motu animal esse comperit,
sed cuiusnam speciei, nescit; propius vero accedenten, ho nisen distinguit;
tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstantiis Titium agnoscit.
Vides quan attente spectator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quem admodun
ideæ meliores funt, si ex obscuris claræ evadant, ex confusis distin ctæ, ex
inadæquatis adæquatæ: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant obscuræ ex
distinctis confusæ ex adæquatis inadæquatæ. Quia vero ab attentione penlet claritas idearum, eaque gralus habet, nec
semper, aut in omnibus eadem est: liquet res alias aliis clarius a no 7 38
Logic. Pars
1. bis percipi posse, ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed
RELATIVAM. Hinc obscuritatis caussam plerumquc in hominibus, raro in re
percepta quæren dam esse; ac proinde præcipitanter iu dicare illos, qui
absolute obscura esse di cunt, quæ eorum superant captum: quo ut quæ ignorant (ut
Æsopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est, vel relativa.
Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; hæc
autem, quando rem qampiam aliqui subobscure, quidam clar re, clarius alii
percipiunt. Quod quum acci dit, illorum claritas respectu maioris horum claritatis
est obscuritas relativa. fit Quoniam autem ad idearum clarita tem utramque
facit paginam attentio, qua deficiente deteriores fiunt: con Sequens est ut
obscuræ eyadant perce ptiones, si alicui meditationi defisi alia percipiamus,
vel si unico actu plura aut animo subiiciamus, denique si ab una perceptione ad
aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem turbant, ut
cxperientia docet: infertur menten adfectibus agitatam ad ideas cla ras vel
numquam, vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam
vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate, et confusione orti,
de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis prædominan tibus nullæ,
nisi obscuræ confusæve ideæ haberi possunt. Si namque in ideis claritas et distinctio adesset, nullis adfectibus animus
ve xaretur. Hinc ergo est, ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas
enumerentur. Exemplo sit homo ira æstuans, qui donec ea agitatur, nec res clare
percipere, nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid. Seneca de Ira, et
apud Virg. Æn. Furor, iraque mentem præ cipitant.Vides hinc, obscuritatis
caussas easdem esse, quæ attentionem turbant vel minuunt: nem pe distractionem,
obiectorum multipli citatem, præproperam festinationem, denique adfectuum prædominium.
Quæ omnia mentem frustra fatigant, et ad proficiendum în studiis ineptam
reddunt. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et
recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum
claris notionibus adquiescere non pos adeoque il. in distinctarum et adæ
quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. se; Claræ namque
ideæ attento sensuum usu ad Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem, ut mox
adparebit, res tantummodo exsistentes confuse repræsentant', in quarum
cognitione nullum ra tio habet exercitium: nihil ergo Philosophus age Tet; nec
hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem
ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. Eadem experientia
docet, nos re rum quas clare percipimus, vel notas sive characteres quibus ab
aliis discer nuntur, distincte nobis sistere posse, eo rum scilicet ideam
claram nabere; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure
percipere. Re præsentatio clara' notarum obiecti, quod percipimus, idea dicitur
DISTINCTA: repræsentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea
clara proin de merito dividitur in distinctam, et con fusan. seere 8 Si quis
invidiam novit esse tædium ob alterius felicitatem, illius characteres sibi
clare sistit, adeoque invidiæ ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri
notas distinguere nequeat, licet eum ab aliis coloribus discer nat, ejusdem
ideam habet confusam: uti sunt omnes ideæ colorum, saporum, sonorum, odo rum,
etc., quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio hæc a Cartesio, et
Leibniz E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit: alii namque grammatica vo cum
significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum
idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum; ad claritatem
autem notionum permultum conferat attentio: consequens est ut claræ ideæ di
stinctæ fiant potissimum attentione, qua deficiente, etiamsi distinctæ sint, confu
sæ evadant. Et quia singulæ notæ peculiaribus gaudent nominibus, qui bus
exprimuntur: infertur CRITERIVM ideæ distinctæ id esse, si cogitala nostra
aliis.cxponere, atque con is com municare queainus; oppositum autem ess:
indicium ideæ confusæ. Hinc idcas confusas aliis referre
volentes, objecta, quæ confuse percepimus, ipsis ostendere, vel cum alia re, de
qua ideam habent claram, comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis. Qui notionem invidiæ habet
distinctam, is eam verbis explicare poterit: quod recte ex sequetur, si notas,
quib:is a:lfectuš iste ab aliis distinguitur, eau neret. Contra ei, quo modo
coloris albi aut rubri nolas proferet, ut cum aliis eius notionenı corninunicet?
Pro cul dubio, ut ab illo intelligatur, colorem illum, aut rem quampiar confuse
perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum alia re iarna nota conferre
oportebit, sicque in altero con fusa quoque idea orietur. Hinc est, ut colo rum
ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus, isque visu carens nullam, nequi
dem obscuram, umquam huiusmodi notionem adquirere queat. Porro rei, cuius
distinctam habe mus ideam, vel omnes novimus characte res ad eam in statu
quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA; vel
quosdam tantum eosque insufficientes, eaqne INCOMPLETA dicetur. * Idea ergo
distincta dispescitur in completam, et incompletam. Sic invidiæ idea iam
tradita completa est: adsunt enim notæ sufficientes ad eam in statu quolibet
internoscendam. Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes
implume, notionem haberes incom pletam: * hæ namque notæ non sufficiunt ad
hominem semper ab aliis rebus discernendum, ut ostendit Diogenes Cynicus, dum
hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam
reddere potuerunt Platonis discipuli, addito latorum unguium charactere:
nusquam enim homines a simiis discernere illa nota valebat. Lært. Licet duo clarissimiViri Leibnitius, et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43
fius semper et ubique in eamdem sententiam ierint: in hoc tamen hic ab illo
discessit. Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit:
Wolffins contra eam in completam, et incompletam dividi debere, docuit et
demonstravit. a Denique eadem experientia edocti scimus, nos quædam ita
percipere, ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus, sed et
novas characte rum notas enumerare queamus;. quorum dam vero solis distinctis
ideis adquiescere. Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta;
idea totalis erit ADÆQUATA; quum antem notas neb; confuse repræsentamus, idea
oritur INA DÆQUATA. Quo fit, ut distinctam ideam rursus dividanius in adæquatam,
et inadæquatam. E. g. Si quis invidiæ notas rursus evolvat, sciatque tædium
esse sensum imperfectionis, et felicitatem determinet per siatum durabilis
gaudii: is invidiæ idlea adæquata gandebit. Si vero in solis invidiæ
characteribus ail juie scat: nec ulterius in iis evolvendis progredia tur, tunc
ideam habebit inadæquitam. Ob servandum tamen, quod quo novas notas, donec
fieri possit, invenire liceat, eo adæquatior evadet notio. Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus, qui eam in Actis Erud. Acad.
Lips. semper 44 Logic. proposuit, eumque suo more sequutus est Wolffius Logic.
ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adæquatarum. Quumque idea fiat
adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat: patet eo adæquatiorem
fieri notionem, quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura
limites non possumus plura distincte percipere: infertur 16. nos in notionum
analysi" in infinitum progredi non posse: ideoque quum ad notas vel
simplices, vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi
bemur. Notionum analysis Medicoruin anatomiæ simi lis est. Quemadinodum enim
Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque
particulas resolvunt, donec ad exilissima tandem filamenta perveniant, om nes
interim earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes:
ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque
tertio in novas notas mente resolventes, minima quacque adcurate contemplantur.
Sicuti ergo Medicis, quum ad indivisihiles particulas pervenerint, eas in novas
rursus se care non licet: Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45
ademta est in analysi notionum, si vel ad simplicia et indivisibilia, vel ad
clara et evi dentia fuerit pervenlum, vel finis obtentus sit, ob quem fuerat
analysis instituta. SECTIO II. De obiectiva, sive materiali idearum
differentia. 28. Hæcæc de divisione idearum formali. Ad, materialem, sive
obiectivam quod at tinet, primo res, quas nobis repræsen {are possumus, vel
sunt exsistentes, vel proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur
INDIVIDVVM, sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id, quod est
omnimode determina tum. Repræsentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive
INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius, hæc dumus,
hæc mensa, hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque eorum adsunt
tales circumstaniiæ et detern ina tiores, ut Socrates sit Socrates, et non
Plato, Caius sit præcise Caius, et non alius: ita ut si aliqua earum desit,
desinant esse quæ prius erant. Hinc individuum idem est cum uno mathemat.co,
quod concipitur tanquam individuum in se, et ab aliis separatum. Iu re igitur
individuum res singularis; ideoque eius perceptio singularis pariter
adpellatur. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est
innumeris circumstantiis involuta), quæ efficiunt, ut ea longe inter se
differant: bent tamen aliquas determinaliones, in quibus perpetuo conveniunt.
Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit, quæ
SPECIES dicitur. Non iniuria ergo species a recentio. ribus definitur per
similitudinem indivi duorum. Determinationis
vocabulum, licet barbariem redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur, et quia
civitate donatum, et oh termini pu rioris deficientiam. Absque definitione por,
ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis notum; eius vero
completam no tionem dabimus in Ontologia, ubi methodici rigoris amatóribus
abunde satisfiet. E. g. Socrates, Plato, Caius, Titius, licet ætate, ingenio,
roribus, conditione, habitu, ceterisque inter se multum distent, habent tamen
commuue corpus organicum, et animain ratione præditam. Duæ hæ de terminationes
speciem constituunt, qnæ ho m, dicitur. Hinc vides, hæc omnia individua in eo
siunilia esse, quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias
consideremus videbimus eas in plurimis toto, ut aiunt, coelo differre; in
aliquibus vero perpetuo similes esse. Atque hæ determinaciones, in quibus spe.
cies, licet diversissimæ, perpetuo conve. niunt, novam ideam, eamque supremam,
constituunt, quæ GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per
similitudinem specierum. E. g. “homo”, “equus”, leo, canis, quantumli bet in
tot determinationibus invicem diffe rant, habent tamen in vita et sensione con
venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum.
Observes ita que, omnes illas species in hoc esse per petuo similes, quod
animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31.
Quum genus sit similitudo specie rum (S. 30. ), idque constituatur a com plexu
circumstantiarum, in quibus species perpetuo conveniunt; in speciebns autem aliæ
determinationes exsistant, quibus il læ inter se differunt: sequitur 1, ut non
abs se harum proprietatuin di versificantium summa a Philosophis voce tur
DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id habent commune, quod
sint tædium. En genus. In eo ve ro differuut, quod invidia sit tædium ob alte
rius felicitatem; commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit
differentiam specificam. 32. Repræsentatio, quæ exhibet pro prietates rebus
exsistentibus communes, di citur idea VNIVERSALIS. Et quia notio nes generum et
specierum determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes:
infertur ideas generum et specierum esse universa Jes. Rursus quoniam hæ ideau
couficiun tur, si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus;
unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE; liquido patet 3. ideas
uni versales esse quoque ABSTRACTAS. Hinc est, ut vulgo dicatur, ideas esse vel
concretas, in quibus omnes simul adsunt de terminationes; vel abstractas, quæ
aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est,
ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse, vel universales. Ex dictis porro
consequitur 4. ideas universales non exsistere, nisi in singula ribus, nempe
speciem ac genus nusquam inveniri, nisi in individuis; adeoque 5. plus esse in
individuis, quam in specie; plus quoque in speciebus, quam in genere. Ex quo patet 6. quam scite Logici pro
puntiaverint: Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. *
Regula hæc aliter ab aliis enunciatur, sci licet: Ono maiorem habet idea
comprehensio nein, eo minorem habet extensionem, ct con tra. Comprehensio
dicitur complexus determi dationum, quæ ideam aliquam constituunt. Ex tensio
vero est consideratio subiectorum, qui bus delerminationes illæ tribui possunt.
Vid. la Logique, ou l'art de penser. Quum ergo individuum omnimodas determina
tiones complectatur, ad unum tantum subiectum extenditur; genus vero
paucissimas comprehendens circumstantias ad plu rima subiecta referri, nemo non
videt. Posita igitur regulæ illius veritate, nullo negotio intelligitur 7. nec
ab individuo ad speciem, neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu
sionem; ac proinde 8. non licere generi tribui, quod speciei convenit, aut ab
illo removeri, quod huic repugnat; contra vero a genere ad speciem, atque ab
hac ad individuum bene concludi, ideoque individuo dandum, quod speciei
convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire
observatur. Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est, extensio
minor, quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de individuo
enunciatur, eius proprietates differentiales; si ita loqui fas sit, respicit,
quæ in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari nequit. Eodem
modo, quæ de specie dicuntur, differentiam tantum specificam spectant: genus
autem proprieta tes multis speciebus communes continet; adeo que speciei
attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet exemplo.
Socrates est individuum, in quo omnimoda invenitur determinatio; id vero sub
hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis, quod fuerit
philoso phus, quia attributum hoc ei convenit ob scientiam, qua præditus erat,
quæque inter Socratis proprielátes individuales enumeratur. Possesne id de
specie, idest de homine pronuntiare? Minime quidem: in determinationibus enim
hominis specificis non scientia, sed scientiæ capacitas, nempe ra tio ',
invenitur. Contra hanc regulam peccare solent susurrones quidam, qui vitia vel
de fectus in aliquo, vel aliquibus individuis for san occurrentia toti speciei,
coelui, vel clas si imputare non erubescunt. Quum enim genus in specie, species
pariter in individuo, contineatur): quidquid generi conyepit, cum specie
coniungi; et quik uid speciei convenit, de individuo quo cap. de Ideis que
enunciari debet æque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat.E. g. Animal
sentit, ergo homo sentit: homo est intelligens, quia libet igitur homo
intelligens est etc. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos.
Prioris classis sunt omnes animæ actiones; posterioris vero obiecta quæcumque
sensibus nostris obyer santia, vel mutationes in corpore humano ciusque organis
supervenientes. SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE, hæ contra SENSIBVS
EXTERNIS. Liquet ergo 10, ideas omnes singulares sola sensionc adquiri Illæ
Intra nos sunt affectus, et cogilationes vo stræ, quæ interno sensu,
conscientia refle xione (hæc opinia idem significant ) perci piuntur. E. g. si
quis tristitiam, vel metum sentiat, ciusque idcam sibi formet, hanc sensu
intern:), sive conscientia, nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà,
adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia
sensibus obvia. Sic in deas omnes singulares, quæcumque illæ sint, sensibus
percipi, nemo ignorat: superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare.
Cuilibet autem de plebe noturn est, exter sensus quinque numerari, visum nein
pe, auditum, olfactnm, gustum, et tactum, nos. iisque totidem organa esse
destinata; visui scilicet cculum, auditui aurem, olfactui na res, gustui
linguam, tactui denique specia tim manus, generaliter vero totam corporis
humani superficiem. 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur;
ideoque ideæ sin gulares sensione adquirantur; ex singula ribus vero
universales sola mentis abstra ctione formentur: liquido infer tuir 11. omnes
ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi
mcdos. nem Et hoc est, quod a multis
docelur, omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE, partim CONSCIENTIA,
vel REFLEXIONE adquiri. Vid. Heinec. Logic.Nos enim sensio cum conscientia et
reflexione confundi debere. Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum
ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM, veluti quum quis ideam hominis cum idea
equi componit, novamque Centauri notionem conficit: cuius census sunt etiam
notiones montis aurei, intellectus perfectissimi etc., quæ nihil aliud revera
sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu, vel
phaniasia in unum redactæ, pro quarum veritate generalem tradunt regulam: Si ideæ
arbitrio coniunctæ sibi con tradixerint, impossibiles sunt, adeoque fal sæ (quæ
alio nomine CHIMERICÆ, a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ); si vero inter
se non repugnent, pro possibilibus, adeoque pro veris sunt habendæ. TITIAS esse.
Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis, i deas
omnes ex earum origine vel ADVEN. vel FACTITIAS. INNATÆ namqne ab omnibus
negantur, quid quid de iis prædicent Plato, Cartesius eorumque asseclæ, quorum
tamen au ctoritas tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiæ
cultoribus præbea tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per
adventitias enim intelligunt notiones sen sique adquisitas: per fictitias vero
illas quæ vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque
animas humanas ab æterno præexsistentes posuit singulas singula astra
inhabitantes, qnibus Deus monstruvii universi naturam, ac leges frtales edixit:
sed quum a diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali
necessitate inclusa fuissent eo rum omnium, æternis ideis prius e rant intuitæ,
statim ob quos dæ. quæ in Jitas, non nisi longo sensuum usu, àc nedita tione
pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timæo. Hinc vulgatum eius
effatum: Stu et discere idem esse, ac reminisci. CICERONE – TUSCUL. QUÆST. Illas
ergo ideas, quas antea habebant, vocavit innatas. Sed quum id purum putumque
sit Platonis som nium, nequaquam erimus de eo refutando solliciti. Cartesius
hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia videndi.
Respons, ad art. 14: progranm. ann. Sed pèr hanc rectam rationem intelligi,
quisque videt, quam proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere.
Cartesiani denique per ideas in natas intellexerunt axiomata quædam eviden tia,
quæ ab ipsa cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti: totum csse maius qualibet
sui parte; non posse idem simul csse, et non esse ctc. At quis rerum omnium
ignarus iguo rat, hæc esse pura judicia, quæ a termino runi illorum relatione,
ac ab ideis totius et partis, exsisteniiue et non exsistentiæ, sen su et
abstractione prius adquisitis immediate pendent? Quæ quum ita sini, ideas
invatas nullo modo dari posse, merito concludimus. 38. Ideæ præterea sunt aliæ
SIMPLICES, a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, aliæ COMPOSITÆ, bus per
mentis abstractionem plura divi dere, atque invicem separare licet. in qui Ex
quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse, at
confu sas; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideæ omnes colorum,
sonorum saporum, voluptatis, tædii, quas ideo aliis explicare non possumus, nec
illarum chara cteres invicem discernere, ut ita üs'definien dis omnino
incapaceś simus. ** Sic in idea mensæ cuiusdam separatim con siderare possum
matericm, formam, figuram, colorem, magnitudincm, et id genus alia. His addunt
aliqui ideas ASSOCIATAS, si ve coniunctas, eas scilicet, quæ ita simul a nobis
adquisitæ sunt, ut quum una nobis occurrit, altera quoque menti obversetur:
veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi, quotiescumque
odorem illum sentio, rosæ etiam idea menti fit præsens.Denique quuin vel
substantias, vel modos, vel relationes pobis repræsentare queamus, ideæ sunt
vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus
ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto,: veluti inhærere
concipiuntur, MODI sunt adfectiones, et attributa substantiis inhærentia, a
quibus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RELATIONVM
denique ideæ sunt, quarum unius consideratio alterius considerationem includit
ita, ut hæc sine illa non possit intelligi. figura, Veluti diximus, ut nostram
imbecillitatem adivemus: id enim in substantiis creatis lo cum habet, non autem
in increata, in qua nulla inter essentiam et attributa, nec inter ipsa
attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum
ibimus. MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant, ut
dimensio, color etc. in corpore; vel EXTERNI, si in hominis mente sint, et
tamen substantiæ tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni æslimatam, quæ
tamen æstimalio est in hominum opinione. Relationes sunt
ideæ omnes quantitatum, item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic, et in Arta Grit. Ex quibus
plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi mo dos,
ips4s vero substantias prorsus ignora re; idcoque substantiarum ideas esse in relatione ad
mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles;.
quinisomo ló. rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam
adhiben dam esse cautionem in perpendendis re lationibus, ne vel earum
fundamentum non recte considerantes, vel absolute de relativis ideis
enunciantes, præcipitantiæ errorisque arguamur, * Quantum hæc doctrina roboris
habeat in se dandis hominum adfectibus, dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet, quia divitum opes non ha bet,
et id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque alterum
omnia bus necessariis rebus egentem: declamare de sinet, quia sibi tantum
superflua desunt. Be
ne ergo Seneca in Troad. Est mi ser nemo, nisi comparatus, Schol. Explicatis
iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinæ usuin acMilanius, quem paucis,
iisque perutilibus, include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiæ operam navas
si solidæ cognitionis es cupidus, sequentes animo infigito. CANONES. i. Curato,
ut rerum, quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam cognitionem
adquiras: attentionem proinde, quæ ad idearum perfectionem utramque facit
paginam, in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium mirifice at
tentionem acuit: hinc est, ut hodie studio rum initium a Mathesi capiatur,
exemplo Platonis., qui neminem erudiendum suscipie bat, nisi Geometria
instructum. 2. In studendo præproperam vitato festinationem; præcipue in primis
scien tiarum principiis diu hæreto, nec, nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera
pergito. Quantum enim festinatio idearum claritati osobsit, diximus in. 21.
adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio, et præci pitantia caute
est obtundenda, ne superficia rie discant et errores sæpe labantur. Vnde
VERVLAMIVS opportune docuit: Ius venum ingeniis, non plumas vel alas, sed
plumbum el punderą auditinus. Caveio, ne nimia rerun varietate mentem obruas,
neve plura semel simul que addiscenda putes. - Panca discito, eaque bune
digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura dividitur, minor fit atque
inepia: proindeque ideæ deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca
Ep. 2.: Nusquam est, qui ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9. præclaram il
lud monitum studiosæ iuventuti perutile præ buit: Non multa 7, sed multum. to 3
* AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem attendi si
qua sitt:: ne relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem, animique tran quillitaiem amato; ne affectibus
attentionem iurbes, iran, tristitiam, an liaque pathemata; adeoque sodalitates,
compotationes., spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius Tristium l. v. 30.
Carmina proveniunt animo dédlicta serenos Comessationibus enim corporis inertia
aus getur, mens obstupescit et habetatur, ani mus ad voluptates inclinatur s
spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a studüs animus avertitur,
quo fit, ut aut nullæ ad quirantur ideæ, vel saltem obscuræ, a qui bus errores
ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quæ legisti, audivisti > ditatus
es, ita familiaria tibi reddito, ut eorum notas aliis indicare queas. Ea
proinde vel in chartam coniicito, te ipsum sæpe examinaudo, idcarum tuarum
distinctionem experitor. vel * Stilum CICERONE vocat oplimum, et præst an
tissimum dicendi effectorem, et magistrum. De Orat. Notum est vulgatum illud; docendo disci mus. Rationem huius canonis
invenies supra. nes, utpote rei
immaterialis a stiones, nullo modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis,
quæ in sensus incur ruot;; abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quædam
sensibilis quæ præter sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed
quum ideæ ng ** stræ ordinario vel voce,
vel scripto patefiant: binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI,
ntraqne vero VERBA dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte
definiuntur, ut et voces signa quædam sono articulato prolata, mentis nostræ
conceptus indicantia. Signa quidem generatim appellantur, quia præter soni vel
scripturæ; nationum nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E.
g. Lacrimæ sunt signum tristitiæ: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico
eum tristitia adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo
viso non solum fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quæ de signorum diversitate
Scha Jastici docent utpote ad rem
impertinentia, prætermittimus: astin Ontologia quædam observatu digna obiter
attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum
enim eædem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas
ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique
vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis
vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis
apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem præ ceteris articulatam red
dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor
DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litteræ efformantur, et in quos nedum
lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quæ in se invicem et in dentes,
inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba et voces
inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi sono articulato
proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis intelligamur; proindeque.
Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut alii, quibuscum loquimur,
mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non licere terminis in anibus vet
notionem deceptricem continentibus uti; sed tantum ii, qui ali quam notionem
habent adlixam; quitinimo, singulis terminis eamdem semper ideam, eamque
claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel obscuram, vel non semper
eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos. Alterius vero mentem intelligere
dicimur quum, terminis easdem notiones adggimus, quas loquens cum iis coniunxit.
mus TERMINUS INANIS dicitur, qui nulla, habet notionem sibi coniunctam: adeoque
nis hil, præter solam soni ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor
mente case' sâ, vel sonus sine menie, a Scholasticis terminius
insignificativus. Talis est versus ille, quemia Nimiodo prolatum in infimo
Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus: Raphel mai umech zabi alini. ALIGHERI
Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes, aliquid cogitare videinur, quum
tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus
ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri,
sensibilitas physica Hel yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et
Rousseau, quorum analysin cora, et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox
aliqua vel non eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo
casu auditor dubius hærebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque
cui non intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere,
qui se non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem,
OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit
ideam, FIXVS vel DETERMINATV; qui vero incon der stantem vagunite tabet
significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem
significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum
adpellare placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A
Scholis dicitur “æquivocus”, hoc est plura æque significans. E. g. Cultus
varios habet significatus: sæpe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro
honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris
cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus
exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas
barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet:
utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quæstio namque hæc ad
philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis
animæ cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est,
et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet.). Terminus CONCRETVS est qui
qualitatem expriinit sabiecto inhærentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam
a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit,
cui significandæ est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem
aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem. si Sic “pius” est
terminus concretus, “pietas” terminus abstractus, Concretus porro a Wolffio
dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus contra,
qui ideam continet abstractam (sive universalem ). Hæc autem omnia idem significant. E. g. Vox oculis
proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero
Corinthum Græciæ oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie
sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide, voces improprias esse vagas et
indeterminatas. USVS
LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone propria. At quoniam in
familiari sermone voces aliquæ occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad
notiones ipsis adiixas animum non hæ voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad
usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad
significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum
servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriæ
mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares
evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam
attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque
terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod
idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos
esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus
vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur
autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostræ conceptıbus exprimendis
idoneum. а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim,
quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad
disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe, ab eruditis adhibetur. Nisi
enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium
vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba, vel voces technicæ, quæ ideas
scientificas quibusdam disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo
di non pauca occurrunt in qualibet disciplina. Schol. Quæ hactenus de vocibus
dicta sunt, inania fære evaderent, nisi doctrinæ usum auditoribus nostris
ostenderenus. Quæ igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam
familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus
ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum
attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus
exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus,
ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia
loquacitas, fua fit, at persæpe in te veritatis notam incurant des alimchanab
inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus
suis atteindlit', nulla, nisi benedigestum, emitiere posse verbum. Caveto, ne
ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas; aut voces coniunctas
intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim persæpe homines, quum
ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt, in quibus
solam ideam $ 9. ni habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiæ et idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces,
quibus illæ exprimuntur singulæ intelliguntur. Coaiunclæ vero impossibiles
evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem
exsistere posse imquam probavit? Vid. Inst. nostr. Meiaph. eas 3. sum
loquendi semper servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque
necessitate cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam
peccatur, si quando vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis
amore mutantur; iis novæ voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur,
adcurate exprimant. Et si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinæ
restituuntur puritati, ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest
vocum ad pro prium avitumque decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel
Italico sermoni ne iminisceto, nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi
caussa: alias eniin in pædantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam. Stil.
cultior. Id vero egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis
ad Atticum abunde colligitur. Quum eniin pædantismus sit inanis glorio læ
cupiditas in minotüs, ineptisque rebus sectandis quæsita; pædagogi vero, a
quibus hoc nomen obvenit, id quoque habeant in vitio, qnod singulis verbis
latinas interse runt phrases ac textos: ideo hanc notain incurruut quicumque,
vel ad ostentandam e ruditionis niultiplicitatem, vel ob nimium tem poribus
inserviendi studium, nullum, nisi pe regrino sale conditum, queunt formare ser
monem. Si aliis displicere non vis, quoties cumque loqui oportuerit, modesto
vultu atque amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius, quam
veruin dicere, videaris. 7Est et hæc pædagogorum nota, qui pueris in docendo
imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant, seque invisos
au dientibus, maximo veritalis detrimento, red dunt. Vid. Buddei Oratio de
bonarum littera rum decrcinento nostra ætate non tenere me tucndo. Dea rei
distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá, sive definitionis
obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque
signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea
distincta, et qua ratione ad quiratur, dixiinus supra. seq. De idea completa
cousule, quæ breviter do cuimus g. 25; diffusius enim hic, quæ de illa dici
merentur, enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus,
isque clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami
distinctain, sive ' emuinerando; il dias characteres, non uno, sed pluribus
claris opus est termiuis: ita complexus ille yocum, Cap. De definitionilus.hoc
est idea distincta completa sermone expli cata, definitio dici consuevit;
adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum. eas ** ne . Ex qua definitione consequitur 1.
in definitione notas et characteres enume rari oportere, qui sulliciant ad
definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin;
notas tales esse debere, ut nulli, nisi so li definito in tota eius extensione,
conve niant; quare 3. merito a Logicis ad firmari, definitionem neque latiorem
que angustiorem sno definito, sed ipsi aco, qualem esse debere, ut sibi invicem
sub stilui possint. Id autem, per quod res ab aliis rebus distin guitur, eius
essentia a Metaphysicis adpellari consuevit: inde ergojest, ut definitionem Lo
gici esse dicant orationem, qua rci essentia explicatur. Quia vero per
extensionem intelligimus quod cuinque subiectum, cui determinationes ideam
aliquam constituentes tribui possunt; perinde est, ac si dicas, definitionis
notas tales esse debere, ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe, et individuis
sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los insunt
proprietates genericæ, et specifi Si cæ, quæ integram definili essentiam expo.
nunt, et repræsentant. Non iniuria igitur adfirmari solet, definitionem ex
genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non
sit, ut possit definito substitui, vel (ut aliis placet ) cam eo reciprocari,
vel illo latior, vel angustior erit, adeoque deficiens. Substitutio autem in co
consistit, ut definitio pro subiecto, defini tum pro attributo, et contra,
adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate prædita:
contra vero substantia intel lectu et voluntate prædita dicitur spiritus. Ex
eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse, nisi ea, quæ Jei
perpetuo et constanter insunt, idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque
locum in ea non habere ACCIDENTIA, seu MODOS. Quænam sint essentialia, et
attributa, pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet, tam
essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse: nam
attributa sunt eiusmodi characteres, quorum ratio suf ficiens cur rei insint,
in eiusdem essentia et natüra continctur: ut sunt tria latera et tres anguli in
triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; hæc autem est no nec tio clara notarum): sequitur ut ea vocibus
claris sit exponenda, obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec vagis, nec
metaphoricis nec negativis terminis in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio
poni perspicuum est, si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur. Si
tameu termini definitionem ingredientes ob scuri quid habere videantur, prius
adcurate definiantur, ut claritatem adquirant. Sic in vidiæ definitionein supra
allatam nemini proferre licebit, nisi prius tædii si gnificatus alia
definitione sit determinatus. Terminis negativis
concipitur definitio > si explicet quid res non sit: ut si dicas, invi dia
non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam, adeoque
defi niti ideane inde oriri confusissim un, quod est contra definitionis
indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium
adinittentibus, quarum una recte definita, altera negativis terminis explicari
potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret, substantia,
quæ non exsistit in alio, tamquam in subie Definitio identica est, quæ idlem
per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullæ Scholarum cio etc. definitiones quas
confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis allata
per accidens, a quo res dicitur quanta. Quid, quæso, hæc verba significant,
nisi quod quantitas sit quantitas? Cui vero usui definitiones istæ esse
possint, tironibus ipsis iudicandum relinquimus. Circulus enim Geometris est
figura plana linea curva in se redeunte terminata: in defi niendo ergo circulus
committitur, si in evol vendis definitionis characteribus, eorumque novis
definitionibus formandis, in aliquam ipsarum definitum ingrediatur. Tunc enim
per definitum explicaretur id, per quod defini lum ipsum explicari deberet;
adeoque res re diret ad definitionem idemlicam, quæ in vi to posita est. Illa
notas et characteres e numerat sufficientes, quibus definitum ab aliis rebus in
siatu quocumque discerni possit; hæc autem rei definitæ genesin et originem
exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres
intelligc bant grammaticam vocis explicationem, qua vel radix sive origo
nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur: vel multiplex eiusdem
significatio, eoque casu Homonymia; De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiæ nomine
veniebat. Quæ enim nobis nominalis est, realis inter illos audiebat. **
Nominalis ergo est definitio spiritus, si eum definiveris per substantiam
intellectu et volun tate præditam: realis autem, si invidiam definias per tædium
ob alterius felicitatem: in ea enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides
hinc, nominales definitiones esse arbitrarias: reales contra necessarias. >
53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed incompleta: tunc non definitio,
sed DESCRIPTIO nominatur; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve
piunt, qnæ quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin
gulares describantur, abstractæ vero deti niantur; ** proinde illæ Oratorun et
Poe tarum hæ Philosophorum propriæ sint. Descriptio itaque, licet plures
enumeret no tas; quam definitio, eas tamen ad rem in sta tu quolibet
agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notæ non exsistunt, nisi in rebus
singularibus;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis
abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis
continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illæ tantum
describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud
Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac
Oratoribus familiares, et si ab his definitiones proferri videmus, eas vel
incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas, ubi accidentia
attributis, caussas effectibus permixta observamus, quas tamen Philosopho
imitari nefas erit, quippe cui idearum analysis, essentiæ rerum investiga. tio,
verborum præterea præcisio in deliciis esse debent. Schol. Superest, ut quæ
studiosæ iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus regulis
huius doctrinæ usum continentibus. Philosophiæ igitur
initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit, sequentes animo
imbibat CANONES. Definitiones,
utpote rei naturam et essentiam explicantés, ciim cura disci to, ' ạtque teneto.
' Iudicium porro cum m moria coniungito: ideoque aliorum definitionibus ne
adquiescito; sed ope rum dato, ut eas intelligas, et ad tru tiram revoces. re
Sunt enim, qui soli memoriæ consulentes, quidquid in aliorum scriptis
repererint, id omne discunt, ac turpe putant ab eo discedere. Hinc fit, ut si memoriæ pondus inutile au feras, nihil, præter arroquarov
quoddam, maneat. Homunciones isti memoriæ dumtaxat exercendæ intenti, iudicii
vero prorsus ex pertes, libros quosvis sine delectu memoriæ mandare adsueti,
innumeris snnt expcsiti er roribus; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne
igitur adolescentes, qui memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt,
eamdem premant viam, sibique pessime cou sulant: visum est, cautionem hanc eo
neces sariam, quo prima scientiarum hic funda menta sternuntur, ipsis suggerere
et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen
rcvocandis, et ad eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur.
ver In legendis Auctorum libris, prum
phrasiumque lenociniis ne conti eto: sed ut sententiam ipsis subiectam lare, ac
distincte intelligas, pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum
sententiis adquiescendi consuetudo, quæ in caussa fuit, ut liberculi aliquot ex
transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus
pruriente tot incautos captarint adolescentes, quos inter crassæ incredulitatis
te nebras errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque culpabili
ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec
eas ad trutinam revocare sunt ausi, iudicandi quippe facultate destituti. 3.
Rerum, quas nondum distincte in telligis, definitiones proprio marte con ficito,
ut ex iteratis' actibus, continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res
quidem non parvi momenti erit, multun que laboris impendendum, pauco forsan aut
irrito eventu. Animo tamen non deficiant a: dolescentes: ab exiguis enim
initiis maxima procedunt, atque experientia tandem, qui sit huius canonis
fructus, addiscent. Poterit autem quisque imitando incipere, experiundo
prosequi, ac notionum analysi sednlam na vans operam felici demum exitu
proficere. Vi de quæ docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel
debere, credas; * aut definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79
¥ Si namque dantur synonyma, verba nempe et phrases eumdem habentes
significatum, quidni definitiones illæ verbis diversæ synonymicis erunt expressæ
terminis, adeo que re unum idemque significare poterunt? 5. Si e Philosopho
Orator aliquan dofieri cupis, definitiones pro definitis adhibeto: tunc enim
auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidæque doctrinæ
clarissimum dabis indicium. Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus
Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiæ acturus, amplificat syllogismun
quam brevissimum has continentem propositiones: Facultas hominem Deo con ugens
est omnium præstantissima. Egpyas a eius talis est. Nam si eorum omnium, quæ in
hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui
desiderio tenetur; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan
to perfectior est, quanto propius ad illud, a quo ductus et propagatus est,
exemplar ac cedit: dubitari profecto non potest, quia ea sit omnium præstantissima
facultas, quæ, quoad eius fieri potest, cum humanis divi na copulando,
mortalitatem nostram, quantum illius imbecillitas patitur, Divinæ natura e ar
ctissima colligatione devincit. Vides hic Theologiæ definitionem, oratorio
licet more pro latam, multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6.
Definitionem tuam, si ab aliis di stingui exoptas, efformare curato; id que
obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi comparare studueris. *
Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba
confu sus eris, nomenque tuum in tenebris, ob scurumque manebit ila, ut vel
patrio, vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adæquatarum idearum formatione consistere,
snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes, sive
notas dividi, hasque rursus in alias disper tiri, quisque novit qui earum
naturam habet exploratam. Tunc igitur idea illa ut totum consideratur,
characteres autem ut eius partes: adeoque non abs re analysis idearum verbis
expressa DIVISIO nominatur, quæ recte definitur, quod sit to tius in partes
resolutio. Quum autem in divisione novæ notarum de finitiones suppeditentur:
iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. Quoniam vero
quidlibet ut totum considerari potest: variæ totius relationes sunt enatæ. Et
quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam
pertinentibus, totum integra le, compositum nempe ex corporibus, quorum snmma
eius integritatem constituit, genus, quod plures species suo ambitu
comprehendit, 4. subiectum, quod plura accidentia sustinet, accidens quod
pluribus subiectis inhærere potest, 6. caus sa, quæ plures producit 7 effectus,
qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum,
circa ' quæ versatur in tot partes distribui potest, quot sunt objecta. Inde
ergo est, ut va riæ a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive
essentialis, sive in tegralis, in suas partes, GENERIS in suas species
subordinatas, SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSÆ,
ACCIDENTIS in sua snbiecta, rei in suas caussas, denique caiusvis per sua
OBIECTA. Primæ classis est hæc: Homo dividitur in animam et corpus; vel as
dividitur in duo decim uncias. Secundæ: Animal dividitur in hominem, et brutum.
Tertiæ: Homo est, vel doctus vel indoctus. Quartæ: Bonum est. vel animi, vel
corporis. Quintæ: Philoso phiæ dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia
voluntatem dirigunt. Sextæ: Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a
malitia procedit. Septimæ denique: Philosophia theo retica alia circa res
corporeas, alia circa incorporeas et intellectuales versatur. Totum illud, quod
in divisionem cadit, DIVISUM; partes vero, in quas dispertitur, MEMBRĀ
DIVIDENTIA no minantur. Sin membra hæc in novas rur sus partes resolyamus.,
SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les
animam nempe et corpus; hoc autem in caput, truncum o et artus reliquos. En
subdivisionem, Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque divisionis
oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83
dichotomia sive DIMEMBRIS; si tres? trichotomia seu TRIMEMBRIS; quatuor
tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur. SI Sic bimembris
erit divisio lineæ in rectam, et curvam, trimembris trianguli in æquila terum,
isosceles, et scalenum; quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum, rc
ctanguluin, rhombum, et rhomboidem., 58. Quoniam divisio est totius in par tes
resolutio; totum autem æ quale partibus simul sumtis esse debet: consequens est
1. ut membra dividentia simul totum adæquare debeant divisum adeoqne nec plus
illo, nec minus compre hendant; ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque
per novas definitiones, easque oppositas, distincta; ut ex ipsa rei dividendæ natura petantur,
scili cet in tot membra totum dividatur, capax est; 4. denique ut ad confusio
nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur, posteaque divisio
insti tuatur. i quot Contra hanc regulam peccant, qui angulum dividunt in
rectilineum et curvilineum, vel qui lineam esse aiunt, vel rectam, vel curvam
et derari potest: vel mixtam. In primo enim casu membra di videntia simul sunt
diviso minora; in se cundo autem eodem maiora. Huic quoque regulæ adversantur
ii, qui bo. num dividunt in honestum, utile, et iucundum: hæc enim membra simul
in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue ri possit:
adeoque non sunt repugnantia. Peccant etiam ii, qui licet totum in membra
opposita distribuant, ea tameu definitionibus non repugnantibus determinant, ut
quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus
constat: illud contra definiunt per id, in quo nihil consi Repréhensionem ergo.eruditorum
merito incurrunt Ramistæ, qui tam superstitiose di.chotomiis adhærent, ut in
plura membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis, qui nimiæ mem brorum multiplicitatis
sunt amatores. Idem enim vitii, inquit Seneca, habet nimia, quod nulla divisió.
Ep. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum analysin contineant, hæc
autem in idearum adæqua tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem
distinctionem in nobis producendam sit comparata: sequitur 5. ut divisionibus æque,
ac subdivisionibus, quæ iisdem ' reguntur regulis, omnia vi tentur, quæ
confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter
necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur, ac intellectui
veių. ti tenebræ offundantur, Schol. Hæc de divisione. Ad hujus porro doctrinæ
usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus regulis. Logicæ
itaque Tiro utilissi mos æque, ac necessarios hosce discat CANONES, In
dividendo subdividendove non aliorum systemata, sed naturam tantum consulito. Confusionem æque, ac tæ dium vitare curato. Hoc namque modo nec Ramistarum
supersti tiosa restrictio, nec Scholasticorum nimia di visionum membrorumque
multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad
curatissima est magistra. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac seriem
in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum, quæ ordi... nem non
scrval, et in qua ea, quæ in sub divisione cxprirai deberent, comprehendun tur:
e.g. si ideam diviseris in claram et ina dæquatam, divisionem conficies per
saltum; inadæquatam enim quæ in subdivisionem ingredi deberet in divisione
locum habere observas. Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in
studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De
iudiciis, et propositionibus, 6o. Hactenus de ideis, earumque ana lysi, quantum
instituti brevitas tulit, actum. Eas vero si comparemus, scilicet si duas ideas
inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio, quæ IVDI CIVM
adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis
perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel ENUNCIATIO.
E. g. Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas, videasque unam
alteri conve nire, tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas: contra, si
indestructibilitatis ideam cor De iud. et prop. separas: hæc poris notioni non
convenire observes,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca
su ideas coniungis; in altero mentis operatio, qua earum relationem ex pendis,
iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter hæc duo nomina statuunt: ut
prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur; posterius vero, si extra id
inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. Quoniam
iydicium duas ideas compa rat, et si verbis exprimatur, propositio di citar;
idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam libet enunciationem
duobus constare termi nis, quorum ille, cui aliquid convenire vel discrepare
ennuciatur, SVBIECTVM; is vero, qui subiecto tribuitur vel ab eo removetur,
ATTRIBVTVM vel PRÆDICATVM nomiuatur, qui duo simul pro positionis EXTREMA dici
consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo exprimatur: merito vox
illa ex hoc verbo desumta, quæ propositionis extrema coniungit, COPVLA vocatur.
E. g. In hac propositione, “Deus est æternus,” Deus est subiectum, quia ipsi
tribuitur æternitas; æternus dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur;
vox deniqne “EST”, quæ duo hæc extrema coniungit, atque unum al teri convenire
indicat, copula, hoc est coniunctio, adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque
propositionem SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere, ut enunciatio
LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat, CRYPTICA, vel
IMPERFECTA dicilur, quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem
accidit, quum verbuin aliquod copulæ et attributi vices sustinet e. g. Deus
mundum creavit: idem enim esset ac dicere: Deus est Creator mundi. Est et alia
propositionum crypticarum species, iu quibus sub uno verbo tota enunciationis
latet compositio per ellyp sin eruenda: ut in illis: veni, vidi, vici: hic
namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendæ, nempe: “Ego
fui-ve nens, ego fui videns, ego fui vinccns.”
QvanVandoquidem in qualibet idearum comparatione sex potissimum con
fiderari possunt, scilicet: materia, sive ideæ quæ comparantur; forma, seu
comparatio ipsa; qualitas comparationis; eiusdem quantitas; objectum, 6.
denique evidentia relationis: ideo sub totidem adspectibus propositiones
intueri possumus; videlicet, ratione MATERIÆ, FORMÆ, QVALITATIS, QVANTITATIS,
OBIECTI, et EVIDENTIÆ. Quamvis autem
hunc ordinem divisionis natura suppeditet: liceat nobis in hac tractatione
qualitatem ante omnia perpendere, utpote quæ in aliis distributionibus usui
esse debet; quaque postposita, nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis
QVALITAS consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus,
scilicet præ vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur;
NEGARE contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus.
Recte igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et
NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, prædicatum cum subiecto
coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio,
“Mundus NON est æternus”, extrema seiung, idest æternitatem a mundo removeo et
hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulæ præpositam
reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel
eius partem negatio afficia, non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g.
Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio
hæc aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam. Vtrum
que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eæ sunt vel SIMPLICES,
vel COMPOSITÆ. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed
unuin habet subiectum, et unum præ dicatum; COMPOSITA vero, quæ plura > Cap.
V. De iud. et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel
EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine
EXPONIBILIS, si compositionem habeat latentem, et paullo obscuriorem. Addunt
alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt, quoties terminus ali. quis
propositionem contineat incidentem sibi adnexam, quæ, licet ad essentiam
proposi tionis non pertineat, ad eam tamen intelli gendam plurimum confert,
exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato, qui divinus fuit dictus,
ideas innatas admisit. Propositio illa, qui divinus fuit
dictus, in, çidens est. Sed distinctio hæc in Logica aut parvi, aut nullius
fere est momenti. Simplex ergo erit propositio: Deus est æ. ternus, iten que: ær
est gravis. *** In quo vero consistat palens, vel latens compositio, ex
sequentibus abande patebit, ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum
speciebus sermo erit. Id porro sedulo observandum, in compositis non unam, sed
plures contineri enunciationes, id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA
enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine
hypothetic, est, quæ prædicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione:
e. g. “Si mundus est ens contingens, non exsistit a se” -- in qua prima pars
conditionem, altera propositionem continet. De hac autem observandum. I.
conditio existentiam non largitur: visi enim veritatem adquirat, enunciatio
vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis ex Asia venerit, centum tibi me
daturum promitio”: promissio vera non erit, nisi navis ex Asia redux fuerit; 2.
conditio impossibilis habet vim negandi. Et -recte: nam conditio impossibilis
numquam in exsistentem abire poterit; adeoque enunciatio nullibi veritatem
adquiret. Vnde idem est di cere: si digito Coelun tetigeris, centum ti bi dabo,
ac si diceres: numquam tibi dabo centum: conditio namque impossibilis est. Coniuncta,
sive copulativa dicitur, in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su
biectis idem attributum; vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E.
g. “Iustitia et prudentia sunt virtutes”; “Deus est æternus et
omnipotens”. Disiuncta, vel disiunctiva
est, in qua uni subiecto plura tribuuntur prædicata, vel u Cap. V. De iud. et
prop. 93 num attrubutum pluribus subiectis, ut plu ribus unum, vel uni plura
conveniant, licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris, aut in doctus. Quæ de hac
observari merentur, con fer in S. 58. cur Caussalis est, in qua ratio additur,
prædicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra,
quia amamus, defendimus: Politicas quia prudentiæ regulas tradit, sedulo exco
lenda, 1 Discreta dicitur, quæ duo de eodem s biecto judicia continet qualitate
diversa: ut illud Horatii. Coelum, nou animum
mutant, qui trans mare currụnt. Item illud Terent. andr. 1. SC. 2. Davus sum,
non Oedipus. Relata, seu relativa est, cuius una pars ab altera vim sunnit, ad
eamque refertur ut il lud Virgilii
Georg. et quantum vertice ad auras Ætherias, tantum radice in Tartara tendit.
IMPLICITÆ vero species sunt EXCLVSIVA; EXCEPTIV;
COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque inceptivas, desitivas, et
'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua sensus duplicatur per
particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc., estque vel exclusi prædicati,
e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in qua particulæ exceptivæ præter,
nisi, et similes, sensum multiplicant. E. g.: “Omne ens, præter Deum, est
contingens.” Comparata cicitur propositio, vel particu la quædam comparativa
relationem adferat inter subiectum et prædicatum, ita ut ge mipus inde emergat
sensus e. g., “ira est amore validior.
Restrictiva denique est, quæ multiplicem continet sensum per particulas
restrictivas. quatenus, in quantum, quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo, quoad
corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quæ actionem aliquam in principio
enunciante, ut: successio temporum a creatione incoepi; DESITIVAS, inquibus ejus
cessatio et finis prædicatur, ut: tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS
denique, in quibus subiectum geminalum at liud iudicium continet tacitum. E. g.
“Corpus, qua corpus est, a spiritu differt. Sed de his plura coram. Si
enunciationis FORMAM spectemus, erit NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero
adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS: in quibus si necessita, contingentia, possibilitas
etc. reticeantur, ABSOLVTÆ dicentur; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam
dicimus, cuius extrema ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E.
g. “Circulus est rotundus”. Contingens est, cuius
termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita cohærent, ut aliter
esse queant. E.
g.: “Crastinus dies erit serenus”. Possibilem vocamus, in qua attributum sn
biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius
termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS
enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione
conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in
subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum
subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali
dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua
ratio sufficiens, cur prædicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti
natura, scilicet, si prædicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita hæc
enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in
tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo
invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens, cur libertas
homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura, hoc est, ut
Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione
est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quæ de universalitate
metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur,
sed in ipsis prælectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii
esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur prædicatum subiecto naturam est
repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota
sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio
sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet
in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in
negante vero additur particula NON. E.
g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem
singularem: subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus
consequitur v. ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam
uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici
propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari,
propositiones in definitas æquipollere universalibus; qui nimmo, signum
universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos,
qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo
aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si
subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim
propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia
signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus,
vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate
deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est
philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de
homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo
exprimito: “Omnis homo scientia præditus est philosophus”, ex particulari in
universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist hæc in scientiis prodest. Ab
ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin ct
thesin. Nobis in secunda part, ubi de experientia sermo erit, huius modi
commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere,
veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”,
“I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”,
verum universaliter ambæ. Asserit I, negat O, sed particulariter ambo: De rat.
et Syll. De propositionibus mathematicæ methodo inservientibus. Ostrema
enunciationum divisio quæ earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quæ
in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur
peculiaribus desiguala nominibus, quæque a nobis ideo distincte tradenda, quia
me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque
OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur,
vel PRACTICA, quæ aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio
theoretica est hæc, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt æquales”. Practica vero:
“Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc, theoreticam
propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero operationis
faciendæ expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel talis est,
ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quæ demonstratione in digeat. Illa
INDEMONSTRABILIS, hæc DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus enodatis, ad
peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis ergo
est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis. contra hæc: “Scientia
Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum scientiæ et philosophi
debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis theoretica dicitur AXIOMA. Si
vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır.
E.g. “Totum est æquale omnibus suis partibus simul
sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica
definitione immediate deductam; Euclides au tem illam, quæ primo intuitu ab
unoquoque perspici potest. Res eo redit, ut axioma vo cemus enunciationem per
se claram, adeoque demonstratione non indigentem, sive a defini tione, sive
aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque
amplectitur sententiam, ut diffusius coram ostendemus. E. g Quovis centro ac quovis intervallo
cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione, postulati huius
veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio theoretica
demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In
Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione
demonstrari debet. E. g., “Deus est æternus” Huius
enim demonstratio ex definitionibus Dei, et æter ni inter se collatis peti
debet. Hinc est, ut duabus illud constet partibus, nempe enunciatione, qua veritas
șive propositio theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein
confirmatur: ideoque in fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D., hoc est,
“quod erat demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est,
illud tribus absolvi, propositione sci licet, quæ quid faciendum proponit,
solutione, quæ modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quæ rem
bene processis se concludit, addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic
problema est hæc enunciatio: Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM,
sive CONSEOTARIVM dicitnr quævis enunciatio, quæ ab alia immediate, et
necessariæ consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T.
hanc: Nihil est sire ratione sufficiente, per teris inde eruere corollarium;
Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est, nec esse
potest. SCHOLION, seu SCHOLIVM, est
oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur
doctrinæ usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiæ referuntur
aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna
enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum, et Philosophorum
recentium scriptis. LEMMA est proposititio
ex aliena disciplina desumta, quæ tamen ad demon strandum aliquid in doctrina,
quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione
quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa:
Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum æquatur quadratis parti una cum facio
dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop. De propositionum adfectionibus. HæcÆc de enunciationum diversitate.
Superest, ut de earum adfectionibus pau ca dicamus, de quibus quamplurima in
Scholis præcipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum
adfectiones referuntur: OPPOSITIO,
SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et ÆQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi
tionum inter se pugnantium collatio: estque vel CONTRARIA, si earura utra que
sit universalis in qua propositio nes ambæ possunt esse falsæ, sed non ambæ veræ;
vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant, in qua enunciationum illarum necessario una
ve ra esse debet, altera falsa; vel deni que SVBCONTRARIA, si ambæ sint par
ticulares, **** in eaque propositiones am bæ veræ, at non ambæ falsæ esse
possunt. * Sic oppositæ sunt hæ propositiones: Omnis E 4 spiritus cogitat;
nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se, quum de eodem subie cto idem
una adfirmet, altera neget. E. g. Omnis homo est ratione præditus: nullus homo est ratione præditus,
quarum una vera est, altera falsa. Possunt tamen da ri casus, in quibus ambæ
falsæ sint, veluti huum unirersaliter enunciatur, quod particu lariter proferri
debebat. E. g. Omnis homa est eruditres: nullus homo est eruditus.
Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit, est falsum dicere
dicere, ut infra videbimus. Ita
propositiones: Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat, sunt
contradi ctoriæ, earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter
negat. Iure igitur exclusa altera includitur, et contra: nam falsum est a
quibusdam removere quod omnibus con renit, vel aliquibus tribuere quod nulli
com petit. Talis est sequens oppositio
Quidam ko mines sunt divites: quidam homines non sunt divites: Vides hic ambas
propositiones veras esse. Quod si dicas: quidam homo est liber: quidam homo non
est liber, quum hæc falsa sit, altera vera esse debet. Rationem eius re gulæ,
ne longius provehamur, coram dabi una, mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V.
De iud. et prop. 105
propositionum sola quantitate differen tium, sed eosdem terminos habeniium
mutua quædam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS; particularis vero
SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda
occurrunt: 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatæ consequi tur,
non contra **. 2: Falsitas propo sitionis ' subalternatæ falsitatem etiam
subalternantis arguit, non autem con tra. E. g. Duarum propositionum:, Omnis homo est eruditionis capax; quidam, homo
est eruz ditionis capax, illa subalternans, hæc subal ternata dicitur. ** Sic
quum ia superaddito exemplo verum sit, omnes homines doctrinæ esse capaces,
verum quoque erit, quosdam homines doctrinæ capa ces esse. Ratio huius
regulæ est. Contrariæ ambæ veræ esse non possunt. Si ergo 'subalternans vera
sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta, et in
contradictoriis necessario una sit, altera falsa (C. eod. *** ), liquet subal
ternatan necessario verum esse debere; alias, enim in contradictione falsitas
ex utraque par te daretur, quod est absurdu:n. Contra ea si verum est, quosdam
hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur
omnes homines eruditos esse. Si namque subalternata est falsa, eius con tradictoria
vera erit; sit contraria subalternans, hæc non poterit non esse falsa, adeoque
subalternæ falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est,
aliquem spiri tum esse mortalem: falsum qnoque erit, omnem spiritum esse
mortalem. At şubalternantis fal sitas non ita subalternatæ falsitatem includit.
Quum enim in subalternante, utpote univer sali, subiectum in tota sua
extensione sumatur, poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem
sui habere sufficientem, adeoque aliquibus tantum spe ciebus, aut individuis
conveniens propositio piem efficere particularem (f. eod. *** ). Fal sa in
hoc casu' erit subalternáns, non vero subalternata. Hinc si falsuin est, omnes homi nes ésse doctos, non ita falsum erit,
quosdam homines esse doctas. CONVERSIO est mutua extremorum salva enunciationis
veritate, substitutio Ea fit tribus modis, scilicet 1. SIMPLICITER, quum eadem
qualitas et quantitas manet; 2. per ACCIDENS, quin quan titas sola mutatur; 3.
denique per CONTRA-POSITIONEM, quum salva pro, positionis quantitate, terminis
additur ne galio, qua fit, ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap.
V. De iud. et prop: 107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in
gratiam eor um, qui huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt; sed non caret sua
uti litate; imo haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio: Omnis
spiritus est substantia cogitans: omnis substantia cogi tans est spiritus. E.
g. Omnis doctus est homo, copyertitur per accidens hoc modo: ergo quidam homo
est doctus. Sic: Quidam homo non est.
pius, per con trapositionem convertitur: ergo quoddam non pium est homo. Sed
quorsum hæc? ais. Con fer, Dan. Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halæ
1740 ÆQUIPOLLENTES denique dicun tur enunciationes, quæ verbis licet di versæ,
cumdem tamen sensum habent. Duæ ergo
propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatæ æquipollentes
sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et sentio: nihil tam
ani manti proprium est, quam vita et sensie. Quæ de his postremis propositionum
adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur, tempus terendum potius,
quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis hæc tantum notasse sufficiet.
Schol. Quæ de iudiciis, ac propositio nibus cupidæ iuventuti
observanda arbitra. mur, ea paucis exponenda supersunt. Qua propter tironi
Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES, 1, Q Voniam iudicia sunt sapientiæ,
vel stultitiæ fidelia indicia, par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in
errorem temere coniicias. 4
Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri
solet. Ea de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre
volumus eum criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re, nisi
cuius adæqua tam, aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum.
Idearum enim confusio præiudiciorum mater est fera cissima. Quum enim rerum, de quibus iudicare volu mus,
distinctatu vel adæquatam habemus ide am: tunc eas undequaque cognoscimus, re
lationesque perpendimus; adeoque termino rum nexibus optime coguitis, recte
iudiça þimus, Cap. V. De ind. et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio
vel alieno caussam et rationem atten te perspicito, cur tales ideæ tali modo
coniungantur vel scparentur, nec alio.
Etenim infra abunde patebit, veræ prope, sitionis criterium esse, si
ratio sufficiens ad. sit, cur prædicatum subiecto tribuatur, vel ab eo
removeatur. Tali ergo ratione perspem cta, non poterit iudicium non esse verum;
ac proinde errandi metus procul aberit. 4. Præcipitantiam fugito: ideoque in
iudicando tardus, in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve arguaris.
Me mento Augustini præclarum illud: ver IA BIS AD LIMAM, SEMEL AD LINGUAM, Ne
cit enim, monente Horatio, vox missa Leverti. Notum est responsum illud nescio
cui num quam loquuto, ac pro sapiente seinper habi. to, datum, postquam semel
toqui voluit: Si tacuisses, Philosophus mansisses. 51. De moribus, et viia
hominum num uam iudicato. Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: >
Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom
gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite iudicare, ut non iudicemini.
Qua vero ratione præceptum istud homini bus inculeatum sit, ostendemus in Iure
Naturæ. Quoniam duarum idearum convenien tia, aut discrepantia non semper unica
intuitu aguosci potest, adeoque dan tur veritates demonstrabites; de monstratio
autem ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat, ut de
ratiocinatione verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM, actio
mentis, qua ex duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli citur;
vel practice est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela tionis.
deductio. Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. Quando igitur mens de veritate iudicii alicu
ius nouduin certa, eius extrema, sive ideas confert cum idea aliqua tertia, et
ab earum convenientia vel discrepantia, tertium elicit Cap. IV. De rat. et Syll. III iudicinm: tunc ratiocinatur, hoc est rationes conficit,
ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an ær sit gravis comparat ideam æris, et
ideam gravis; cum tertia idea corporis, ob servatque, num inter eas adsit
convenientia: qua comperta, duas illas ideas inter se quo que convenire
concludit hoc modo: Omne corpus est grave: Ær est corpus; Ergo ær est gravis.
En ratiocivium. Quod si verbis exprimatur, erit syllogismus. 83. Experientia
teste scimus, duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se: vel enim
cum illa conveniunt, vel u na convenit, altera discrepat, vel ambæ ab ea
discrepant. In
primo casu elicitur ter tium iudicium aiens, in secundo negans, in tertio vero
nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur:
nempe 1. Quæ conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt inter se: 2. Quorum
unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat, illa in ter se
quoque discrepant Primum axioma est
ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato;
alterum negantis: e g. Qui Deo servit non servit Mammonæ: sed Christianus Deo. 1.
servit: ergo Christianus non servit Mamm onæ. Vides hic duaru n idearum
Christiani et Mam monæ servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi,
alteram vero ab ea di screpare: unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex
quibus rebus clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas
esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si
plures ad sint tirinini; guain tres, syllogisuum es se falsum. Quumque tres ideæ totidem combinationes
adinittant (per exper. ): sequitur 4: ratiocinium tria quoque iudicia continere;
ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures, enunciationes admittere)
Advertendum hic, tam terminos, quani pro positiones syllogismums, componentes y
pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis incipiamus,
prædicatum tertiæ propositionis,, quæ principalis dici potest, MATOR adpellatur,
subiectum eiusdeni, MINOR; {erminus vero, qui tertiam ideanı ex. primit, quique
rationem continet suffizientem couvenientiæ, vel repugnantiæ termini ma ioris
cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De iud. et prop. > positionibus etiam illa, in qua medius
cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter; illa, in qua medius
cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambæ vero PRÆMISSÆ dicuntur,
propositio denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto,
a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est
terminus maior, ær minor, cor pus est terminus medius, adeoque prima pro
positio est maior, altera minor, tertia con clusio. * Solet enim quandoque
quartus irreperę ter. minus, et syllogismum corrumpere, idque raro patenter;
nam sæpius in termino aliquo, vel compositione latet. Fieri hoc potest 1. per æquivocationem,
ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso: eg: Vilpes habet
qualuorpedes, Herodes est vulpes; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo ob
servas vocem vulpes prino proprie; secundo vero metaphorice suintam; 3. per
supposi tionis mutationem, ut si idem terminus ma terialiter in una, formaliter
in premissarum altera sumatır. E. g. Iinne ens est generis neutrius: femina est
ens, ergo fernina est ge neris ncutrius, in quo nocens in miori gran. matice;
in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem termini abstracti cum
con creto. E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus: Titius est
prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes syllogismi
materia dici possunt: forma namque legibus absolvi tur, quas infra 'exibebimus.
85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo intuitu videatur:
difficilis tamen admodum est termini me dii, qui communis idearum mensura est
inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam philosophiæ matrem
consule re decet. Ea enim duce discimus, mentem postrani in ratiocinando
duplieem ingredi viam: vel enim notionum alteram ad pro prium genus, vel
speciem revocat, et quid quid his convenit, illi quoque tribuit, vel
definitionis characteres evolvit, eosque al. teri convenire observans definic
tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus: altera sub
iectum ad genus, vel speciem, sub qua continetur, reducendi, eique tribuendi,
vel adimendi quidquid ideæ genericæ con vepit, vel ab ea discrepat; altera
attributi definitionem cum subiecto comparandi, et ab eorum convenientia vel
discrepantia, prædicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea Cap.
IV. De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis, ær
sit gravis? Reduc subiectum sub genere corporis, et vide, utrum huic conveniat
gravitas, eam de ære quoque enunciabis, ita ratiocinando. Quodlibet corpus est
grave, ær est corpus: ergo ær est gravis. Hæc erit prima medium inveniendi
methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve, eiusque characteres, nem pe
corporum inferiorum pressionem confer cum ære. Quumque ei conveniant, attribu
tum cum subiecto coniunges hoc modo: Quidquid corpora inferiora premit, est
grave: Ær premit corpora inferiora: Ergo ær est gravis Habes hic alteram medium
inveniendi me thodum. Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes:
quod si adcurate ser ves, numquam tua te fallet ratiocinatio. 86. Ex hoc
principio fluunt sequentes regulæ ratiocinii fundamentales. I. Quid quid
convenit generi vel speciei, conve nit etiam omnibus speciebus, et indivi duis
eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it
omnibus quoque speciebus, et individuis sub iisdem contentis. Cui
convenit definitio, convenit pariter
definitum: ac proinde 4. a quo discrepat definitto, di screpat etiam definitum.
* Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere, quia ideam
universalem, ge. mus nempe vel speciem, exhibet. Quod si bis particulariter
sumeretur, ratiocininm vi tio laboraret, ut infra dicetur. Quumque prædicatum
tam latc pateat, quam subiectum cui tribuitur, ut cuique manifestum est: li
quet, propositionem, in qua medius vicem prædicati sustinet, particularem esse.
Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione, cuius
subiectum constituit Et quoniam propositio, in qua subiectum in tota sua
extensione sumitur, est universalis: liquido infertur, saltem unam præmissaram
esse debere universalem. Variæ syllogismorum figuræ Scho lasticis fuere in
deliciis, quas barbaris ali quot vocabulis, versibusque distinguere
consueverunt. Nos, missis futilibus tracla tionibus, regulas quasdam Tironibus
ma xime inservituras, quibus syllogismi leges breviter exponuntur, hic
subiiciinus, quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De
rat. et Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto, quamtres. Si quartus
irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda, quo omnia sophismata,
si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciæ
tanto labore a Scholis evolutæ, an liquitatis, amphboliæ, dictionis composi
tionis, divisionis, caussæ, dicti simpliciter, con e juentis, accidentis,
cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati, in quibus quarins
cryptice latet? Veritas hace altcate consideranti baud ægre patescet. Vide quæ
de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem
ingreditor. Monstruosuin enim es set, caussam in effectus constitutionem
immisceri.: * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur.
Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin æqnalitatem ex cniusdam tertii
adplicatione cognoscit, nec, nisi in comparatione, mensuram adhibet: ita et in
tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. tertium ervit, in quod medium comparatio nis
ingredi, valde foret absurdum. Vitiosum ergo esset ita raziocinati: Omnis bonus
Phi losophus est homo: Titius est bonus Philo sophur: ergo Titius est bonus
homo. Medius Damque terminus ex parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto
plus minusve in conclu sione, ac fuit in præmissis, ne quatuor inde éxoriantur
termini. Si nanque præmissæ sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm
tertio eisdem adplicato, scilicet mersura: iudicium ex comparatione ipsa
procedens, perfecte com parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in
conclusione plus minusve continetur, quam in præmissis, idem esset, ac si dice
res productum maius vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum
Plus cotineret conclusio, si ita diceres: Qui alium l'æsit, puniendus est:
Cajus alterum læsit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra, si sic
ratiocinaris: Qui furium commi sit, restitutioni et poenac subiacet: Titius fur
tum commisit: tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus, vel ne gantibus (præmissis ) nihil sequi, ius
estc. Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f. 86. *, præmissarum unam
saltem esse debere universalem: unde si am hæ essent particulares, impingeretur
in regulam 1.1. S. cit.; si vero ambæ negantes, tunc duarum idearum neutra cum
tertia conveniret, adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset
dicere: Quidam bo mines suni doeti: quidam homines sunt in docti: ergo quidam
docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur:
nullus impius est pius: ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem
sequatur debilio rem, probe curato, ne in superiora pecces. Pars debilior est propositio particularis,
vel negativa. Si ergo una præmissarum fuerit particularis, conclusio quoque
particnlaris, conclusio quoque particularis esse debet, alias plus esset in
conclusione, quam in præmissis; quod est contra regulam 3.: si vero una præmissarum
fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu
extremorum conclusionis unum cum medio convenit, alterum ab eo discre pat;
adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum est; quare conclusio negans
esse dcbet. Quæ de diversis syllogismorum figuris regulæ vulgo traduntur, eæ ad
rem non faciunt; ac proinde a nobis tuto præ terinittuntur, 120 Logita Pars. I.
CAPVT SEPTIMVM. De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliæ ratiocinandi formæ,
quæ licet a syllogismo diversæ adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM,
vel 2., COMPOSITVM, vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter præsenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS
CRYPTICVS est, in quo forma ordinaria quo modolibet périurbatur, aut
occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i. per ordinis perturbationem, *. 2. per
propositionum æquipollentiam per propositionis alicuius omissionem, quo casu
dicitur ENTHYMEMA, 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur, ai quando
propositiones transponuntnr: ut si prino conclusionen vel minorem, de nde
maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ), debei
omnino compesci (conclusio); omnis namque adfectus est compesccn dus (maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121
E: 8. Adfectus est attentionem turbare. Quum ergo ira sit molus
vehementior appe tus sensitivi ': infertur, in iracundo attcntio nem mirifice
perturbari. ENTHYMEMA igitur est
syllogismus dua bus constans propositionibus, quarum prima ANTECEDENS altera
dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma præmise sarum aliqua reticetur,
speciatim vero illa, quæ cuique patet, ut: omnis adfectus tur bat attentionem:
ergo ira turbat attentionem. Minor deest, utpote quæ ab audiente sup pleri
potest. Eodem modo et maior retice ri, minor contra exprimi solet: e. g. ir et est
adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus
maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione.
Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10, ergo sum: ubi eogito est medius, est
terminus maior; adeoque minor, scilicet ego, cum tota propositionum connexione
reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid
cogitat,exsistit ego cogiio: ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est, in
quo adest aliqua' propositio composiía, estoque vel HYPOTHETICVS; * vel CO
PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS, vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui
proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom. I. F. Sun: Hypotheticus, sive
conditionalis est, eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est
rationalis, sequi tnr, ut sit libertatis capax: atqui est ratio nalis; ergo est
capax liberatis De hoc te nenda regula: Adfirmata conditione, adfir matur
conditionatum; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi
contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis, adfirmata caussá
adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari
debet.. ** Copulativus, sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul
propositiones coniun gentem, et negantein, quarum unam minor adfirmat, alteram
conclusio negat. E.
g. Non potest anima sinni æternum vivere, et cum corpore perire, atqni ælernum
vivit: ergo non perit cum corpore. Disiunctivas est
cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple:
aut compositum: sed non est cns compositum, ergo est simplex. Notanda crgo
regula: Ad firmato uno disi!ınctionis membro, reliqua negantur; ct negatis
rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quæ de disiunctivis pro positionibus
diximus. Si
ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur, DILEMMA con
surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero
definitur: Syllogismus hypotheticus, cuius mai oris ' al Cap. VII. De aliis rat. mo dis. Tera pars est
disiunctiva, quæ in minore negatur, et in conclusione totum destruitur. E. g.
Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc aut ex alio simplici, aut
e composito oriri debet: sed neque ex alio ente simplici, neque c composito
oriri potest: ergo naturaliter ex alio ente non potest orlum du cere. Mirificum
est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann, quo Arianorum errorem circa Verbi æternitatem
egregie confutarit Huc referenda quæ diximus de divisione MVLTIPLICEM
SYLLOGISMVM, licet imperfecte exhibent 1. EPICHEREMA, in quo alterutri, vel
utrique præ missarum probatio additur;
PROSYLLOGISMVS, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti
maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS, qui plurium syllogismorum connexionem
contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones, ut prioris aliribu
tudi si ! posterioris subicctum. EPICHEREMA ergo rsl syllogisms. cuius præmissis
compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus, is sce lestissimus ét audacissimus sit,
oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN. Sex Roscius non est talis PROB.
Non est audax, non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars. I. CONCL. Non ergo
est parricidii suspectus. In
PROSELLOGISMO itaque duo adsunt syllogismi coniuncti, quorum posterior ma iorem
habet in prioris conclusione contentam: quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur
MAI. Omnis spiritus est ens simplex, MIN. Anima humana est spiritus: CONCL.
Ergo anima humana estens simplex. MIN. SVBSVMTA. Atqui ens simplex est
indestructibile. CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si
prosyllogismus uiterius procedat, aliæ que minores subsumtæ et conclusiones snb
inugantnr, dicetur polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio
legitime fa cta. Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis
specimen dabimus. SORITES a Cicerone de Divin. Lib II. cap. 4. acervalis dictus,
est plurium propos sitionum cumulus ita connexarum, ut unius prædicatum sit
alterius subiectum, adeoque tot syllogismos continet, quot sunt propo sitiones,
demptis duabus, eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in
tot triangula resolvi potest, quot sunt la tera demtis duobus. Hæc autem
argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est.
Cautiones istæ funt. 1. Nulla præmissarum diibia sit, aut falsa: > 1 Cap.
VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum
consequens oriri.2. Non insint in Sorite duæ propositiones negantcs. Hoc enim
casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas præmis sarum negantes habens,
quem vitio laborare supra observavimus (F. 87. can. 4. ). En Soritis exemplum.
Quodlibet corpus est ali quo loco: quod est in uno loco, potest etiam esse in
alio: quod potest esse in alio loco, potest rnutare locum: quod potest mutare
lo cum, est mobile: ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis
rationem reddemus 92. Syllogismo, eiusque speciebus. e diametro opponitur
INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori, quippe quæ
a singularibus ad particularia, alquc ab bis ad universa lia procedit. Hæc
autem syllogismo prior est: nam quum ope experientiæ præmis sas conficiat,
indeque conclusiones eliciat universales, hac vero syllogismi præmissas
constituant, utpote qui ab universalibus ad particularia, vel ab his ad
singularia gra dum facit: hunc sine illa construi non posse, quisque videt,
INDVCTIO itaque est argumentatio, in qua quiquid de singulis speciebus vel
individuis speciation prædicatur, generatim quoque de toto genere vel speeie
enunciatur; adeoque in ea tot minores adsunt, quot species vel in F 3 dividua
exprimuntnr. E. g. aurum, argentuan orichalcum, cuprum, stannum, plumbun,
ferrum, igni inieclun liquefiunt: ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad
inductio nem ergo duo requiruntur, 1. plena partium enumeratio, 2. ut quod
inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes
enuncientur, inductio dicelur com pleta, sin aliquæ tantum, incompleta erit: si
denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad
oratores non ad Philosophos pertinet, quum sit contra 34. S. n. 6. Ex iis enim, quæ diximus
Cap. 1., liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus, indicia universalia a sin
gularibus abstrahendo confici. Id vero est, quod Inductionem constituit. Quum
autein præmissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet, In
ductionem syllogismo principia præstruere: adeoque illo priorem esse. Schol. De
hụius doctrinæ usu tandem pauca delibare juvabit. Quæ de universa hac
tractatione homini philosopho servanda sunt, qui sequuntur, exponunt. Cap. VII.
De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi.
innotescit, principia prius con siderato num solida sint et indubia. Propositiones
deinde ad trutinam revo cato, ac denique eurum connexionem adcurate perpendilo,
ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “. Quum enim syllogismus materia
et forma con siet: illan vero propositiones, hanc propo sitionum connexio, lioc
est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet autem rei bonitas materiæ
soliditate ac formæ aptitudine absolvatur: patet; Philosophum de utraque
sollicitum esse debere, ut ratioci. nia sua tulo proferre possit. Quoniam omnis
argumentatio ad unum redit syllogismum, id agito, ut huius leges nocturna
diurnaque manu verses: alioquin loqui scies, non ratio cinari. Exploratum
namque est, quamcumque ar gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum
", vel compositum, vel multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus,
nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin
F4 doctissimos, et de Philosophia optime atque abunde meritos, syllogismo
fuisse adeo in fensos, ut eum inutilem, immo nullins bo ni effectorem esse
clamitarint. Infra vero ab unde patebit, scientificam methodum sola
syllogismorum concatenatione absolvi: unde evidenter proseguisque deducet,
syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur Wolffius in Log.
Germ. S. III. seq., ubi mathematicas demonstrationes absque illo fieri non
posse, experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit, omnia eius argumenta
in syllogismos resolvito: tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte
procedant, an aliquis lateat error, an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii
namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore evoluti, qui tamen si
ad sillogismum eiusque leges, tamquam ail ly, dium lapidem, exigantur, oppido
evanescent, Ut hoc exempli loco addamus, si soriten duas propositiones negantes
habentem in syl logismos resolvas: 'nonne statim patescet do lus, quum tres
negantes propositiones in ra tiocinio, adeoqoe contra quartam eiusdem "
legem peccatum esse, observabis. Præclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset,
ac in. ventis frugibus, glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis
mentis ope ope rationibus actum. Quum autem Logicæ sit non contentiones
nequicquam fovere, sed hominum vitæ consulere, atque intel lectum in veritatis
investigatione dirigere: doceamus, oportet, qua ratio ne tribus hisce mentis
operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti debeamus. Quod ut
commodius effici pos sit, pauca quædam de veritate generatim spectata, eiusque
genuina tessera, hic præ mittemus, VERITAS est, vel METAPHYSICA, quum ens
aliquod actu exsistens suam habet essentiam; vel ETHICA quando quilibet sermo
interno sensųi, F 5 130 Logica Pars. II. scilicet conscientiæ, respondet; vel denique LOGICA, si cogitationes nostræ
obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil
no bis est negotii, de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice
ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus, quæ ad con
stituendam eius essentiam sunt necessariæ: adeoque huic falsum opponi nequit,
qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius
docebimus, ac proin de nequit ens exsistere, et sua simul essen. tia carere. Ita aurum est verum aurum, qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da
tur, inquies, falsum aurum? Minime. Tunc enim non aurum, sed cuprum, orichalcum,
aliudve, aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum
aurum iudica. re, est nubem po lunone amplecti, atque a veritate Logica
aberrare. Verę loqui dicimur, quum
secundum cong scientiam loquimur, idest dicimus quæ trinsechs sentimus. Atque ḥæc
veritas dicitur moralis sive ethica, cui opponitur falsilo suium, quod est
sermo contra concientiam prolatus, de in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICÆ vocabulo itelligimus convenientiam cogitationum no strarum
cum rebus ipsis, Quumquç no. De ver. eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas
tribus tantum mo dis sese exserat, vel in ideis forinandis vel in iudiciis
eruendis vel denique in rationibus conficiendis (S. 15. ): liquet, logicam
veritatem vel in ideis, vel in iu diciis, vel in ratiocinatione reperiri. * Hac
definitione veritatem abstracto modo con sideramus: concreto namque definiri
posset per cogitationem obiecto suo consentaneam. Porro veritasa Logicis
dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM. Illa est, cuius obiea ctum extra nos
vel non existit vel non tale ut a mente nostra concipitur: quales sunt
veritates omnes puræ geometricæ; hæc ve ro, cuius obiectum extra nos realiter
exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM adpellare consueverunt. Illa est
clara, distin cta, et indeficiens, quippe qua mens de se suisque operationibus
iudicat, hæc vero ob scura, dubia, et fallibilis: non enim per eam, scire
possumus, utrum cogitatioues nostræ obiectis suis extra nos positis conveniant
necne? adeoque quum veritatem habemus in ternam, de reali extra nos obiecti
exsistentia iudicare non possumus; quum contra veritatis externæ compotes certi
simus obiectum in cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere.
96 IDEA VERA dicitur, si quando nca bis rem, uti in seu est, repræsentemus: *verum
est lyDICIVM, siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus, separanda seinngamus; 've rum
itidem RATIOCINIVŇ, si ' neque in materia, neque in forma peccaverit, * Idea
ergo singularis ($. 28. ) vera est, si quando eius obiectum extra nos realiter
exsi stat, eoque modo, quo nobis illud repræ sentamus: vera pariter dici debet
idea uni versalis, dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit,
ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc,
ideas deceptrices, chimæ ricas, aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes
dici non posse veras. Advertas - tamen, absolutam obiecti deficientiam, vel ideæ
ab eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens, nec
ideæ characteres eum eo conferre queamus; con tra vero sufficientibus indiciis
de eius verita te certi simus: notionem illam deceptricem vel terminum eam
exprimentem inanem ad pellare, est contra Logicæ regulas, ac pri ma cognitionis
humanæ principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de
mysteriis Sanctæ Religionis sermonem instituentes, aliquam credentibus notam
inu rere conantur, quod vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse
enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus vel
negernus, quod adfirmari aut negari oporteret: veluti quum soli spendorem iri,
buimus vel tenebras ab removemus? tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2
eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis, sive syllogismi
materiam es se tres illas propositiones, e quibus confla tur; formam vero leges.
(S. 87. ) expositas, supra docuimus (6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint
veræ: leges autem adcuras te servatæ, ratiocinium non poterit non es se verum:
quia, quum qualis est caussa, ta lis esse debeat effectus, non potest ex veris
præmissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido
colligi potest, eum, qui præ missas concessit, non posse negare conclusio nem
ex iis legitimo nexu fluentem. Cave tas men, ne ex conclusione, licet evidenter
ex præmissis deducta, de hárum veritate audeas áudicare: potest enim conclusio
vera legitime ex falsis ambabus oriri præmissis. Talis es, set sequens
syllogismus: Omnis virtus est fugienda: Avaritią est virtus; Ergo avaritia est
fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis præmissis deductam.
Possesne conclusionis veritate præmissarum quoque veritatem ar 97. Quoniam
iudicium verbis expres sumi propositio dicitur (§. 60. ): evi dens est.
propositionem dici veram, quæ adfirmanda adfirmat negandaque ne gat, servata
ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas, nec ab omnibus
distincte perspicitur: criterium aliquod inveniatur, oportet, ad quod guere?
134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem, propositio nem quamcuinque
exigentes, eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum particulariter
enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam; vel uni versaliter
quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem. Vid. supra Part. I. Cap.
5. Sect. 1.. 68. ** Hoc autem criterium exsistere debet quo propositiones veras
a falsis, a phanta smatis, realitates ab insomniis discernere pos simus: alias
enim homo in perpetua illusia ne versaretur, id quod est Divinæ sapientiæ,
homini, ipsiqne humanæ menti iniurium. Quia de te Philosophi omnes in eo
consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in contrarias partes opinando
ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio quædam sufficiens, per quam
intel. ligitur cur prædicatum subiecto tribua tur, vel ab eo removeatur. *
Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis conformitatem perspicere
possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu haberi de bent, quibus
attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia ita determinetur, nt
mens adquiescat, nec ullus de earum veritate supersit dubitanli locus. Qua
propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte dicuntur, De ver. eiusq.
crit. 135 Variæ de veritatis criteriis omni ætate fuere Philosophorum opiniones,
exceptis Academi cis, üsqne, qui Scepticismum ad furorem usque provehere ausi,
atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum nomine insigniti, nihil a nobis vere sciri
posse, temerario ausu adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset,
quam confutanda. PLATO yeri tesseram es se statuit, evidentiam intelligibilem æterna
rum idearum mentibus participatarum; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES
medium inter hos iter tenens, utramque evi dentiam veri criterium posuit: illam
nempe in intelligibilibus; hanc in iis, quæ sensi bus percipiuntur. STOICI,
secundum Lær, tium, veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est,
evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus, elaram, et distin
ctam perceptionem: in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam, quam inter na
animi coactio sequitur, ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib.I.de inquir. verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia, intellectus,
sensus et auctoritatis criterium illud posuit. Quæ vero de his ob servari
merentur, in ipsis prælectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione: Ær est
gravis, qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem æris determinatur:
in hac enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim ær
corpora inferiora premat; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam
gravitatis notionem requira tur: clare patescit, ærem esse gravem, adeo que
propositionem esse veram. Et hoc est, quod Wolffius, criterium veræ proposi,
tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. E. In hac propositione: Caius est invia dus,
requisita ad veritatem sunt invidiæ cha racterés alibi enumerati, qni in Caio
deprehenduntur, quique rationem con tinent sufficientem, cur Caio to invidum es
se tribuatur, Quum igitur veritatis criterium in ratione sulficiente consistat,
et a requisitorum collectione constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite
ria adnumerari debeant quæcumqne iis de terminationibus prædita sunt, ut a
mente, quamvis invita, adsensum extorquere pos sint. At quia experientia
quotidiana docet, mentem nostram non convinci, nisi ' sen suun testimonio in
rebus sensibilibus, * in tellectus evidentia in intelligibilibus, auctoritatis
deuique pondere in iis, quæ neque sensu, nec ratione percipi possunt: liquet 2.
criteria illa pro rerum di. versitate tria statuenda #Y esse, intellectus sensuum et auctoritatis EVIDENTIAM.
nempe, Cap.II. De ver. eiusq. crit. Per
res sensibiles intelligimus non modo cor poreas quæ sensibus exsternis, sed et
ipsas animæ actiones, quæ sensu interno perci piuntur. Quum igitur:Naturæ sa
pientissimus Auctor hominem conscientia, sen suque cum omnibns organis
instruxerit, ut: omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret, eorumque
conscius esset: non ab re vera esse pronuntiamus, quæ internus eter nique
sensus ita se habere testantur. Et
quidem omnium axiomatum evidentia a primo cognitionis humanæ principio, nempe
non posee idem simul esse et non esse, ori ginem suam repetit; hoc vero
principium in timo sensu cunctis innotescit. Quæcumque porro propositiones a
veritatibns evidentibus legitimo nexu deducuntur eamdem evidentiam adquirunt,
quam illæ habebant, id quod ra tione duce ac demonstratioris ope conficitur
quibus intellectus convincitur,et mens adquie scit: evidens ergo est, veritates
tam demon strabiles, quam indemonstrabiles ad Logicæ reguias cxactas revera
exsistere, ab homini bus certo cognosci posse, earumque criterium in
intellectus adquiescentia reponi debere nempe ut Malebranchius ait, iu ea
'eviden ' tia, qnæ internam producit coactionem, at que a mente adsensum
extorquet. Huiusmodi sunt propositiones humanum ca ptum superantes, nobisque
ideo imperviæ, quæ quum ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint,
revelatæ tandem addiscun tur, fidemque mereatur: quum entis illius perfectiones
sint infinitæ, nec de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis
sunt facta, sive propositiones singulares, quæ in locis temporibusve remotis
extiterunt, qnæ que nec. sensibus, nec ratione a nobis una quam erui possunt,
quidquid contra dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm.; sed
sensibus olim ab adstantibus coævis que percepta, ab his vero vel scriptis vel
per manus tiadita ad. nos pervenerunt: ct quia narrantium auctoritas suspecta
non est, certitudinem, aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc,
sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam,
in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve; adec
que eamdem asse cuin Cartesiana, Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia
tessera hæc certitudinem potius, mentis scilicet nostræ statum, quam rei
veritatem respicit, de ea, quam producit, evidentia plura infra, ubi de
veritate certa sermo erit, haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And.
Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingæ 1748. FALSITAS veritati opposita est di
screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariæ
sint adfectiones, patet, falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in
ratiociniis reperi ii; adeoque
FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius sufficientis defectum.
Cap. I. De ver. eiusq. Falsa ergo est idea, quum aliter se habet a re repræsentata;
falsum iudicium aiens., si quando subiecto non conveniat attributum, negans
vero quoties boc illi conveniat; adeo que falsa propositio, quæ neganda
adfirmat, adfirmandaque negat, vel quæ universaliter enunciat quod
particulariter enunciari debe. bat; falsum denique ratiocinium, quod in materia
vel forma peccat: i illa, quando propositiones sunt falsæ; in bac vero, quum
syllogismi leges, violatæ sunt.
Propositionis falsæ rera tessera est, si non modo desit ratio
sufficiens, cur præuicatum subiecto tribuatur, vel non; verum adsit rl tio, cur
contrariuin enuncietur: tunc enim subiecti notio determinal qualitatem attribu
ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens, vel
latens. Si vitinn sit manifestum, dicuntur PARALOGISMI; si vero crypsi aliqua
tegatur, vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIÆ. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum, nullum furtum est
homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto peccalum est
colra Can. 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter sumtus est. Sophisma
contra crii, si sie ratiocinabea ris: Populus ex terra crescit: mulliluilo
ko. Logica Pars. II. minum est populus:
ergo multitudo hominum ex terra crescit: quatuor namque termini ir repsere per æquivocationem
termini populus, qui in maiori arborem, in minori hominum multitudinem
siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho laflicis
tradita invenientur, qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum fecerunt
operæ pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi
aiunt) extra di ctionem, vitium plerumque latet in quarto termino cryptice
tecto: Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus: attamen, si sapient,
syllogismi leges memoriæ inscul pent, et ad terminorum numerum semper animum
adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus, aut numquam, neque de
cipi ratiocinando, nec alios deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinæ
usu opus cst, ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis
comprehendemus regulis. Qui ergo Philosophi nomen adse qui cupit, hos probe
teneat. Cap. 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea, quæ characteres continet
si * bi invicem repugnantes, deceptrix est: imaginaria vero, qua ob
similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per imagniem
oculis obiectum præsens sistamus. Hæ
igitur ideæ proprie loquendo non falsæ, sed potius impossibiles dici possunt,
quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati, ligni ferrei, creaturæ infinitue',
ec. ** Vocantur istæ a Wolffio vicariæ realium, quia earum vices gerunt, ut si
memoriam ti bi rapræsentes per receptaculum idearumi: licet enim nulla adsit
analogia inter spiritum el corpus, atque adeo inter eorum proprie lates: ob
similitudinem tamen, quod, sicut in receptaculo plura servamus, quæ inde, quum
opus fuerit, depromiinus, ila memoria plures ideas, quæ tamdiu latuere nobis
sug gerit, memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo,
cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem, tuto adfir mato:
negalo vero, quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc
nosti: licet pro incerto haberi Logica
Pars. II. ſas sit, ne temere iudicato, donec veri tatis eius, falsitatisve
criterio polleas. Hoc quidem modo vitari poterit audax illa in iudicando præcipitaptia,
quæ incautos maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque
sola suarum virium præsumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad
criterium aliquod exigunt; quo fit, ut ea præcipitanter nimis prouentiare
adsueti, ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant.
5. Si diu in veritate invenienda fru. stra taboraveris, examen reintegrato. Si
ne id qutdem profuerit, ne rem pro falsa, aut impossibili venditato, nitam
ridiculus sis, qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * *
Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster, quæ dici non potest,
quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa,
eiusque caussa in - bo mirum n.entibus, raro in re percepta, sit quærenda (S.
20. ): nullum est huiusmo di iudicium, quod non ex præcipitantia fluat. Qui
enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus præsamtione laborant,
idque agunt, perinde ac si supremum persprie caciæ cognitionisge gradum
obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam
offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu
tempore, aliasve doctrinas, quas intellectu adsequi nequeunt, proimpossibi
libus venditant, ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit,
nemo non videt. De ignorantia et errore, eorumque caussis. A Ctio mentis, qua
verum (S. 94. ) agnoscit, resque sibi re præsentat ac percipit, COGNITIO
adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quæ definiri pot est per
statum mentis cognitione desti tulæ. * Sic e g. qui disciplinæ alicuius
veritates ac præcepta novit, eaque mente tenet, illius cognitione gaudet:
contra vero, si ea cogni lione sit 'destitutus, disciplinam illam igno rare
diciiur. 103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest, hominnm
plerosque nihil aut minipium admodum in rebus cogno scere; plurima quoque
nesciri ab iis, qui acriori se præditos ingenio jactant: cos vero, qui
doctissimorum virorum nomine gaudent, quo longius sua sese exserit co gnitio,
eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum,
quæ sciri possunt, puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque
experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum
adplicandi, neglectis iis, quæ ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su
ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a
nobis igno rari, quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est, homines,
postquam ad sublimiorem, ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint, quamplurima
adhuc habere, quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe
esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu veræ
ignorantiæ versari, ac ne minem un quani reperiri posse, qui omui moda rerum
cognitione præditum se tuto adfirmet: quapropter oportere 2. ordine na in
studiorum curriculo servari, ut primo necessaria * deinde ütilia, postremo iu
cunda discantur; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos, qui
neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant, param
curantes ea, quæ ad interni extervique status suiperfectionem sunt necessaria.
Necessaria dicuntur, quæ Dei suique cogni tionem spectant, item quæ facultatem
quam quisque profitetur, postremo quæ ad socie tatis commoda promovenda
pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque officio
deesset Medicus, si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid extra
Medicinæ ambitum est, operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro moreret
Legisperitus, si pro legum codici bus, medicos aliosve sibi inutiles libros
evol veret. Alque utinam nostro hoc ævo Lit teratores isti extra aleam
aberrantes defide, rarentur ! . Ad ignorantiæ porro caussas de tegendas nobis
lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri
a 1. DEFECTV IDEARVM, non solum in iis rebus, quæ nostrum si perant captum, sed
etiam in iis, quæ iu jus limites von excedunt, 2. MENTIS IMBECILLITATE, sive
impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem, LABORIS IMPATIENTIA, qua
fit, ut attentio minuatur, ideæque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE, MEMORIA
vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia hæc ab
idearum mediarum defe ctu pendet: quo fit, ut communi illa defi ciente mensura,
nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quæmus. (ones T. 1.
Confusio studiorum habetur, vel quia
fine attentione aut ordine fiunt, vel quia plurima eodem tempore cursimque
discuntur: ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia
illa sciolorum turba, solis frontispiciis præfationibusque furfuroscrum,
nostram invasit ætatem, ** Nimia namque memoriæ præstantia laboris impatientiam,
adeoque ignorantiam parit; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get.
Ecqua enim cognitio ei, qui unam al teramve propositionein memoria retinere non
valet? Subsidiorum nomine veniunt
Magistri, si ve viventes illi sint, sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim
defecte lici non po test, quot sublimia vilescant ingenia, quæ vel mechanicis
adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em
blema, quo ingenia ista iuveni euidam com parat, cuius sinistra manus duabus
alis in Coclum tollitur, dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur.
Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est, quod si
quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt,
societatis perturbatores, bilingues, susurrones, ad pessima demum et turpissima
quæque, (si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Hæc de ignorantia. Quando au
tem propositicni verre dissensim, falsæ contra adsensum præbemus, tunc ERRA
coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia
confundere. Qua propter ERROR definiri potest, quod sit confusio iudiciorun.
Error autem in iu dicando commissus PRÆIVDICIVM * adpellatur, quod esse dicimus
iudicium erroneum præcipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero præiudicium,
vel quia sanæ mentis prævenit iudicium, vel quia præma ture et fine criterio
profertur. Talia sunt pleraque vulgi præiudicia, veluti: discum solis diametrum
habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas: et alia eius modi.
107. Quum præjudicium sit iudicium erroneum; error vero confusio iudiciorun:
evidens est s. præiudicia na sci ex idearum ob curitate et confusione, adeoque
2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse petendam. Equidem sunt
plerique, qui præiudiciorum originem a voluntaté repetunt, eamque pri us
emendandam esse aiunt; ii tamen io to aberrant coelo: voluntariam namque præiudiciis
adhæsionem vel negligen liam animum ab iis liberandi, pro præiudia ciis
venditant. Si vero rem probe per penderint videbunt, ea, quæ voluntatis vitia
asserunt, ab intellectus vitiis vel imagin natione pendere: et si qui méntem
obun brant ad feclus, appetitus quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It.
** vehementiores molus, non aliunde, quam ah ideis
obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in Phil. rat p: 5.
108. Duo intérim sunt præiudiciorum genera, AVCTORITATIS scilicet, et NIMIÆ
CONFIDENTIÆ. * Illa sunt, quæ nostris viribus parum confisi, nimi aque
oscitantia laborantes ab aliorum, quorum apud nos plurimum valet ancio ritas,
scriptis vel sententiis kausta adopta mus, eaque pro sanctis habenda puta mus;
hec vero, quæ nostris viribus niinium fidentes, quamquam præcipitan ter et sine
meditatione prolata., tainquam vera lamen adsumunus illis firmiter achæ remus,
et proeiis, veluti pro aris et fo. cis, pugnamus. * Addunt alii præiudicia ÆTATIS.
At quum illa non sint, nisi opiniones præconceptæ a nutricibus parentibus,
atque magistris a teneris, ut aiunt, unguiculis haustæ: ea ad auctoritatis præiudicia
referri, nemo non ri det. Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. præiudicia,,
quæ iilola vocat, in quatuor dividit classes, quarum prima am plectitur idola
tribus, scilicet quæ in ipsa hamana natura fundata sunt; altera idola specus,
hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes; tertia i: lola fori, idest præ
concept as opiniones, quæ ab hominum com mercio mabant; quarta denique idola
the Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri,
videlicet erronea iudicia, quæ ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quæ 0
mnia ad duas, quas retulimus, classes com mode referri possunt, ut coram
ostende mus. * Auctoritatis præiudicia sunt ea, quæ a nu tricibus, magistris (vivis
illis mortuisve ), aut populo haurimus: eiusmodi sunt opinio pes omnes
aliquibus civitatibus, familiis, vel.: sectis familiares, quarum cultores illis,
tam quam glebæ, adscripli, nulloque utentes iu dicio, eas, tamquam oracula,
pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilæi
narratio in Systemate co smico, de viro quodam nobili Peripatheticæ philosophiæ
addicto, qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici
vidisset, in qua maximam nervorum stirpem e cerebro exeuntem, per cervicem
transire, per spiralem distendi, ac postea per totum corpus divaricari
observasset, nec, nisi tenue filamentum, funiculi instar, ad cor pertingere, a
Medico rogatus, adhuc in Aristotelis sententia manere vellet rumque originem a
corde repelere? non sine magno adstantium risu respondit: Equide:n ita aperte
rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus. Aristotelicus aperto nervos corde
deducens obstaret, in sententiam tuam per tracturus me fueris. Quis, quæso, hæc
au diens a risu ' temperaret? Vocari quoque solent præiudicia receptæ
hypotheseos, novitatis, similia: ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MÆ,
stemata omnia ab eruditis inventa, quibus tam acriter inhærent, ut uullum sit
rationis pondus, quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum
caussis, restat, ut paulo ca addamus, Eæ vel REMOTÆ sunt quæ mentem ad errores
ac præiudicia præparant et disponunt; vel " PROXI., quæ mentem ipsam ad
iudicio rum confusionem impellunt, erroresque producunt. Remotæ rursus in
generales dividuntur, et speciales. Caussæ generales sunt ATTENTIONIS DEFECTVS,
qui ideas reddit deteriores ADFECTVS, quos attentionem turbare, idearumque
obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis
inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis
reperitur MALVS vocabulorum VSVS, quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique
LIBERTAS PHILOSOPHANDI. Præiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate
repetenda est, idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et
adfectus er his ergo caussis præiudicia nasci, quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor.
caus. ¥ tientiam creet, adeoque ignorantiæ tantum Caussa esse possit: cum
sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus
efflcit, ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiæ fuæ te niebras
consistere nolit, opportunisque præ • diis vacuus ea investiget, quibus par non
est, ac proinde in plurimos lahatur errores.
Libertas enim philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit;
nimis autem con etricia in auctoritatis præiudicia nos urget, sel saltem
crassam parit ignorantiam. 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS præiudicia
oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE
[conversazione], et CONSVETVDINE; ut et præiudicia NIMIÆ CONFIDENTIÆ aa nimia
INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quædam singularia attingamus, id sedulo
notandum: præiu dicia, quæ ab ca procedunt, tribus cha racteribus optime
distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE, cognitionis DEFECTV. Qui
quidem characteres si desint, propositio non in ter præiudicia, sed inter
veritates com muni hominum consensione probat as est referenda. Quot mala
hominibus adferat educatio, vix dici potet. Parentes enim tantum abest, ut
puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent, ut potius eorum
aninum maximis præiudiciis, anilibus fabeliis, erro neisque opinionibus
imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus, ab iis enim quam multa
hauriuntur præiudicia, quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quæuis eo run
effata sancta esse putent, ac de illis veluti de Religione, dimicent !
Conversatio cuin libris et eruditis, consuetudo cum po pulo quot foveant
errores, quum res sit me ridiana luce clarior, in ea explicanda nihil
immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quæst. Lib. . cap. 1. Qui nimium
suo indulget ingenio, fieri non potest, quin in errores incidat, el pacdın
tismum vel contradictionis spirituin induat, quæ duo vitia aliorum aversionem
odiuinque conciliant. Præterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala
produxerit, ii sciunt, qui Ecclesiæ vel litterarum vices er annalibus
didicerunt. Nimirum educationis præiudicia tantisper in animo sedent, donec ad
maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum; nou sunt ubique earlem,
sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus præiudicia sedeant, diversa tamen
pro educationis morumque di versitate inveniuntur; rudium tandem von eti am
sapientum mentes occupant ita, ut dum illi inter præconceptas opiniones
erroresque iacent, hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere nullo modo
valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. , De ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illæ, quas recensuimus caussæ
praeiudiciorum remotae sunt; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA. Quae quum ita
sint, optimum, idqne uni cum, ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium
suspendere, seu DUBITARE: est: enim DUBITATIO
prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi quum
propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas, ad
praeiudicia vitandą conferre Scepticismum, vel Pyrrhonismum insanam nempe illum
de onnibus dubitandi miorem, quo hodiernos incredulitatis fauto. res uii, non
sine dolore videmus. Stolidi tas enim, nedum temeritas infanda foret sine
sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus
dubitationem eo fine institutam, ut suspendatur iu licium, donec mens ad ideas
distinctas clarasve per veniat. Totum hoc de rebus intra rationis fines ex sistentibus, nullaque evidentia
suffultis est intelligendum. Etenim quae Divina auctorita te nituntur, aut
mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare, impium; de his ve ro, foret
adprime stullum. Schol. Espositis mentis humanae imbe. cillitate et vitiis,
reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti
philosophicarum rerum Magistri, inter quos Nicolaus Malebranchius, et Antonius
Genuensis, quamplurima ad id remedia. proposuerint, quibus vel minimum quidem
addere, non opis est nostræ; licebit ta men, ad Auditorum nostrorum instructio
nem, si plura n quimus, eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis
ergo ignorantiam errorenive yitare cupis, hos menti infigito CANONES. MEREntem
sedulo studio attentio ne, meditatione ab obscuritate et confusione
liberato. In hoc enim in. tellectus
perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et præiudicia. * Ut id
consequantur adolescentes, præ ocnlis habeant quæ in prima harum Institutionum
parte observavimus, ea præcipue, quæ de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad
studia præiudiciis liber ac do cilis, uti modo in lucem editis infans, accedito.
Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io, nihil
verens ab eius, qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap. II. De
ign, et er. eor. caus. 155 ut præcepta demum, quum te ignoran tia deseruerit ad
examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio adhi benda est:
abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes
præcipue attendendum, de quibus ideo pauca inferius delibabimus. 3. Methodum
ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis eapræcedant per quæ sequentia
intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur studiorum confusio, quam
ignorantiæ caus sam haud postremam esse, experientia sensusque com munis evidenter
ostendit Auctoritati nec nihil, nec multum deferto. Nimia namque aliis adhæsio
servum pecus; sensus vero communi ne glectus audacem efficit, omniaque sibi
permittentem. 5. De iis, quæ vel Divina auctori tate, vel maxima evidentia
destituta sunt, prudenter dubitato, donec certus fias. Rectam rationem prius,
sensum dein de optimorum communem consulito. Quæ captum vero tuum superant ne
perqui rito, nisi prius opportunis mediis probę fueris instructus. G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum
humanum superent, ca non investigare omnino, recta ratio docet. 6. Laboris
patiens, memoriæ ac per spicaciæ tuæ ne nimis fidens esto. Me mento Poetæ illud:
ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc, quam immerito a nostræ
ætatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque horrentibus
cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et dictionaria,
quippe quæ nihil solidi profundique continent, ne multum amato. Paucos habeto
libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper coniungito Non nostrum est præceptum, sed Senecæ, qui ut
facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret, librorum paucitatem diserte com
mendat his verbis: Cum legere non possis quantum habueris, sat est habere
quantum legas. Ep. 2. Vide quæ diximns Part. I. 8. Poetas caute legito,
ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum, utpo te pessimi argumentum,
ut anguem fu gito. Senecam audito dicentem: SANA TIMUR, SIMODO SEPAREMUR A
ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er. cor. caus. Ad poetas quod attinet, eorum lectionem
adolescentibus vel omnino interdicendan, vel arctissimis includiendam cancellis
cuperernus, quippe qui vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere
potius, quam laxare debent habenas: id quod ia legendis Poetis contra evenit.
Populi porro damna paucis expressit idem Seneca, quum ait: Inimica est mullorum
convcrsatu. Ep. . De Veritate ceria, melliisque ad cam perveniendi. . sis ad
veritatis investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea
adsint omnia veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut
dubium, vel PROBABILIS, si propius ad certitudinem acce dat, nempe quum non
omnia insunt re quisita. De illa nunc, de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO
est mentis status veritati adensum ita præbentis ut nulla de opposito adsit
sollicitudo Ex consequitur i, ut si quam minima adsit suspicio non certitudo, sed
INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status, sequitur 2.
eamdem evunciationem uni certam esse posse, al teri incertam. Tandem quoniam
quisque mentis suæ statum agnoscit, consequens est 3. ut nemo aliorum
certitudinis sed suæ tantum iudex esse possit. * Quia omne, quod verum est, vel
absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem, quæ non semper
terminorum nexum distincte percipit: ideo Philosophi certitudinem divide bant
in OBIECTIVAM et FORMALEM, il lamque esse, aiebant, nexum propositionis in
trinsecum, hanc mentis nostræ statum respi cere. Nos illam proprie VERITATEM,
hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma; Totum est maius sua parte, si
absolute et in se spectetur, VERUM dicitur, si vero ad men tem referatur,
CERTUM est, quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla oppositi formi dine
adsensuin præstemus. Quoniam indicia ad certitudinem ducentia trium generum
esse possunt, sci licet vel absolute infallibilia vel dalis tantum
permanentibus caussis naturalibus, vel denique sccundum huinanæ prudentiæ leges:
evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel
MATIEMATICAM, quæ illis; PHY. Cap. . De veritate certa etc. 159 SICAM, quæ
istis; MORALEM tandem, quæ his fulcitur indiciis, quæque alio no mine FIDES
HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata, aliæque pro positiones nullis
obnoxiæ vicibus;alterius hæc propositio: corpus non suffultum cadt: pos fremi
vero hæc: Augustus fuit primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde
constat, men tem nostram non statim, nec semper, quod verum est, certo
cognoscere- Via ergo quædam ipsi monstranda est, qua tuto ad certitudinem
perveniat: eaque, pro certitudinis varietate, diversa est; spe ciatim vero triplex,
EXPERIENTIA sci licet, RATIO seu DEMONSTRATIO, et AUCTORITAS, de quibus
singillatim, et quantum res ipsa furet, breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest, vel singulare est vel universale (S. 26.
seqq. ); itemque vel effectus, vel caussa. Singulares porro ideas sensibus ad
quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione
conficimus. Rursus quælibet caussa effecluin salte in natura, præcedit, ut in
Metaphysica do. cebimus. Duæ igitur cognoscendi viæ no bis aperiuntur, altera,
quæ a singulari bus ad universalia; itemque ab effectibus ad caussas ascendit,
nemp: a sensibus, si ve experientia incipit; ideoqne dicitur co gnitio a
posteriori: altera, quæ ab uni versalibus ad particularia, a caussis ad ef
fectus rationis ope descendit descendit,, ac proinde vócatur cogniíio a priori.
De illa nunc; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque, quod experientiæ
ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui
sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus
aquam made. facere, ignem col fucere, ceram igni admo tam liquefieri, ct id
genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien
percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum
singulars experimento addisci, * extra eas nsilium alind esse experientiæ
obiectum, adeoque 3. eam in abstractiş 2 2. Cap. Ill. de Veritate certa ctc.
161 sensus et universalibus locum non habere, licet hæc ab ipsa deriventur. Igi
tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult, is casum singu
larein, allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia; 5. denique,
ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam. * Quoniam vero
est vel internus, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA.
Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere
percipimus: e. g quoties nobis malum aliquod repræsentamus; toties tædio nos
adfici animadvertimus; hæc ve ro, si res in organis nostris mutationem pro
ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus.
"Experientia rursus dividitur in VVLGAREM, quæ mnibus æque patet, ut calor
ignis, et ERVDITAM, quæ speciali studio, atque adhi bitis necessariis mediis
cooficitur, arleoque so lis innotescit eruditis, ut ' æris gravitas,
elasticitas ctc. . Habitus, sive promtitudo aliorum vel propria
esperimenta colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI.
Quæ quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. *
Non ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere, aut aliquot instrumenta
s ertractan. 162 Logica Pars II. di peritiam habere, ut experiundi arte præ
ditus quis dici possit, sed opus est habitn longa exercitatione adquisito, non
solum res experimento subiiciendi, sed propria aliorum que experimenta ad
critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas, sive corolla
ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur;
ad sensionem autem duo requiruntur, scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab
externis obiectis produ cta, et repræsentatio in anima huic obie cto conformis (ut
in Psychologia ostende mus ): consequens est 6. ut sensus, po sitis ad
sentiendam requisitis quam fallant; * proindeque 7. nos non et sensibus, sed a
iudicio, quod ani ma praccipitanter fert super experientia, persæpe falli.
Rinc. 8. cautiones quædam ad errorem hunc vitandum adhibendæ > num sunt. et
Requisita ad sentiendum tria sunt, orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio,
3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro
de visu agitur, et quartum requisitum adesse debet, nempe èiusdem mcdii in ter
obiectum et organum interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum
superficiem incidentes reflectantur, et in acre prius, deinde in oculi
humoribus ac lente cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat, u Cap. .
De Veritatė certa etc. 163 hi motum in nervo optico, quod sensationis caput est,
producunt: si partim in ære partim in aqua aliove densiori medio obie clum
ponatur, non eadem erit lucis refra ctio, adeoque non idem locus obiecti parti
' bus adsignabitur: unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo
neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus, non sensuum,
sed judicii defectú id provenire, fatendum est. Cautiones, quas inculcamus sunt
1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur
instrumentis, 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob
serventur 3. ad tot sensus, ad quot redi gi possunt, redigantur. Si cautiones
istæ adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit
error: si vero quæ dicta sunt probe attendantur, non in surgent amplius
difficultates, nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti, turris que
emimus rotundæ adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes, sensuum fal
laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia
tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii, qui ea, quæ
minime ex perti sunt, vel quæ imaginationi aut ra tiociniis experientia
deductis debentur, pro experientia obtrudunt. * Tales sunt, qui pliænomeni
alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars
II. ferrum a magnete altrahi videns, experien. tia compertum esse diçat, ex
magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia, vitium subreptionis
incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro repræsentatio
dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe rientiæ ope immediate
formatas esse ideas singulares, ut et 11. singularia iudicia ipsis innixa. *
Quumque his nova deducta iudicia non nisi ratiocinationis ope eruan tur:
evidens est 12. hæc nova iu dicia di ci non posse singularia, sed DIANOETICA
sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia INTVITIVA, quia in his, quæ in
rei cuiusdain notione comprehensa intuemur, eidem tribuimus: ut ignis est
rulidus: aqua madefacit. Scholastici ea vocabant discursiva: ratioci nium
namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est cctivus: vapor est
elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur tribuendo rei quidquid
in ipsi us potione comprehenditur: sequilur. 13. ut ea conficianlur accipiendo
rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22. Cap. III De Veritate certa ete.
165 do quidquid attente consideranti in ipsa occurrit, vel ab ca removendo quod
in aliis, non etiam in illa observatur. * remove * In primo casu habebis
iudicium aiens, in secundo negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse
observas. Sume ergo ignem. pro subiecto, calorem pro attributo, et ha bebis
iudicium aiens: ignis est calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa
cere, id vero in igne non intueris: ab igne hoc attributum, eritque indiciun
negans: ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio. nes particulares
in universales comunitari possunt: ita, quamvis notiones et iudicia ab
experientia deducta sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari
possunt, si regulæ sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt
omnimo de determinata ($. 18., et variis circum stantiis involuta: 14. at tente
separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus,
quibus tantumu modo est attendendun: 15. allributa hæc essentialia onipibus
speciebus vel individuis Logica Pars II.
convenientia abstractionis ope retinenda, atque inde notæ characteristicæ depro
mendæ sunt, quæ ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant. Hi quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis
casibus eruendæ. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere
iudicia intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat, 17. ac cidentia omittere,
18. attributa, quæ non seinper eadem sunt, determinationis bus particularibus
liberare, ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia
attendere in quibus perpcluo conveniant, aut inter se discrc pent. * E. g. Vt
scias quid sit commiseratio, ob serva casum aliquem, in quo videas te, aut
alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem, aut
plu res etiam, si id res exigat, videtoque cir cumstantias, quæ sunt perpetuo
similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis, cuius notæ
definitionem suppe ditabunt realem, commiserationem nempe es. se tacdinm ob
alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo
iudicia universa lia a posteriori coulcianlur, observemus. Cap. III. De
Veritate certa etc. Quia ab experientia
oriuntur iudicia intuitiva: videatur primum, num prædicatum sit attributum rei
perceptæ essentiale: quo casu enunciatio erit uni versalis ($. 68* ). Deinde
experientiam multoties repetendo dispiciatur, utjum at tributum illud rei
perceptæ perpetuo et costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur,
investiganda est ratio, cur in ea aliquando deprehendatur, eamque biecto
addendo, indiciuin enascetur uni versale (5. 69. ): * Ita e. g. esperientia
novimus, igni semper calorem inesse, ceram autem non seinper es se liquidam.
Iudicium ergo ignein esse cali dum erit universale: at non universaliter ius
ferre poterimus ceram esse liquidam;sed opor tet invenire rationem cera
aliquando liguescat, quæ quun sit in igne, cui tunc admovetur, hac subiecto
addita, universalis orietur ennnciatio: cera igni admota li quescit. cur > 1
127. Philosophus interim in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose
versatus regulas quasdam sequa tur oportet, ut veriiates ex experientia de
ducere queat. llæ regulæ sunt: 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur, qun
ties obiecto alteri iungitur, idquc con 168 Logica Pars I. stanter: tunc hoc
esse illius caussano 3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura, licet
perpetuo, coexsistere wel se mutuo sequi observeniur, sta tim inferre licet,
unum esse alterius ca ussam, nisi prius recta rario sic esse convicerit. non *
Id clare patet exemplo ceræ liquentis igni, aut solis radiis admotæ. ** Si ergo
bellum simul cum cometa existat, vel eumdem sequatur: præcipitantia erit iu
dicare, hunc esse caussam illius. 21. Ex
quibus omn: bus clare deducitur 20 propositiones ex experientia legitime uistitala
confectas esse certo veras; quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctæ
convenit, pro certo haberi, adeo. que 22. et definitiones experientiæ adiu
mento legitime efformatas, et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta
itidem certitudine pollere. Rationem
definivimus per facile tum distincte perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando
enunciationem, de cuius veritate iudicium ferre volumus, ita cuin aliis
connectimus, ut inde ter minorum nexus ctare perspiciatur: id ve. ro est, quod
dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio isthæc vocatur DEMONSTRATIO, cuius est
veritates ex certis principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere (š.
cod. ). SERI ES porro RATIOCINÀNDI habetur, si ex pluribus syllogismis invicem
connexis conclusio prioris sit præmissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem
SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in
omni demonstratione duo requiri, nempe principia demonstrandi certa it in:
dubia, eorumqne cum conclusione coone xionem. Et quia experientiæ rite institu
definitiones, axiomata et postulata T. 1. tæ, 2 > H 170 Logic. Pars II.
certitudine gaudent: infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da,
proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare, qui ea ex incertis dubiisque
principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur, a priori scilicet,
sive per rationem; et a posteriori, seu per expe rientiam: sequitur hiec 4.
duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO.
STERIORI: illam haberi, quando veri tatem aliquam a principiis legitime
connexis deducimus, vel effectum per suas caussas probamus; si quando eam ex
experientia reete institu ta, vel caussam per suos effectus demon stramus. **
Quum ergo a priori demonstrare volumus, principia statuamus necesse est,
antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem: Deus caret adfectibus.
Eam a prio. ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun.
2. Intellectus perfectissimus est, qui omnia * hanc vero, sibi distinctissime
repræsentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4.
A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap. II!. De Veritate
certa etc. 1. ): sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu
perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repræsentatio ex cludit quamcumque
idearum confusionem. THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO. 1. Ens
perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo (ax. Deus cst ens
perfectissimum (def. 1. ); go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2.
Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repræsentat. Deus
vero gaudet intellectu perfectissimo (num. 1. ): onania ergo sibi
distinctissime repræsentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapræsentat, ideis
caret confusis (ax.): at Deus om niasibi distinctissime repræsentat. (num. 2 ):
ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser
sitivus (def.?. ): quuin ergo Deuts careat idcis confusis (num.' 3. ); liquet,
eum care re quoque appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo, is
caret adfe clibus (def. 4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo (num. 4. ):
ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis
ceriis deducta confectam esse demonstratio nem. ** A posteriori demonstratur
animæ in nobis exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus, obserica
biinus, aliquid in nobis esse, cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos
ab aliis rebus extra nos positis, inter eas vero alias ab aliis distinguiinus,
boc est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO. Id. ipsum,
quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium, dicitur anima.
TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat,
aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium: id ipsiin
autem est quod dicitur anima (per defin. ): e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio
iterum est, vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **.
Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo; hæc autem
in qua oppositum tamquam verum assumen tes, conclusionem falsam inde deduci mus,
ut propositionis nostræ veritas elucescat. Directa ergo erit demonstratio, si
ordinem sequatur hactenus explicatum (., si ve a priori sil, sive a posteriori:
ut videre est in superadductis exemplis ($: 131 " ); ** Indirecta
demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel ard absurdum, quia
oppositam propositionem ut veram alla sumens, ex ea absurdum aliquod, sive cou
clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio scyueas. THEOREMA.
Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine
ratione sufficiente. Ratio ergo, cur id sit aut fiat, erit in nihilo: adeoque
nihilum ex sistet simul, et non exsistet. Essistet, quia aliter non posset esse
caussa alterius: non exsistet, quia aliter non esset nihilum. Quod quum
contradictionem involvat, sitque ideo impossibile: ergo nihil est sine ratione
suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque propositionem
legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere metaphysica,
proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem perveniendi præstantissimam.
Quumque
ex perientiæ et demonstraționis excellentiam ostenderimus: ' recie concludi
mous 3. veritatem certain dici. dubia ' sensione, vel evidenti principio ni
titur, dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni
incurrunt ii, qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem
probandam: quia in tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa,
quæ a Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII, nempe quum principium de
monstrandi vel nullum est, vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet.
Huiusmodi sunt pleræque enunciationes Epicuræorum, Pla quæ in H 3 174 Logic.
Pars Ir. quis tonicorum, Stoicorum, aliorumque, de bus in Metaphysica erit
disserendi locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem
veritatibus ordo, sive methodus requiritur: ne longius hic pro grediamur, de ea
sequenti capite, prout res exegerit, breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca dieamns. Ea non scientiam, ut experientia
et rutio; sed FIDEM parit. Est autem FIDES: ad sensus propositioni datus,
alterius te stimonio itinixus. Ex quo patet, rationem fidei sufficientem esse
narrantis auctorita tem. Quumque auctoritas vel Divina sit, vel humana: fides
quoque in DIVINAM et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur
1. fidei fundamentum in eo consistere, ut narrans taliasit, qui nec falli nec
tallere possit; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de
scientia et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De
Veritate certa 175 et infinite verax, quippe in quem nulla cadere potest '
imperfectio (per princip; Theo. nat. ): evidens est 3. fidem Dic vinam parere
certitudinem omni exceptione maiorem; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem
esse fundamentum veritatis com pletum, omnibusque numeris absolutum; adeoqu 5.
debere nos Deo loquenti ad quiescere, nec umqnam Dei testimonio demonstrationem
ullam opponere, utpote vel falsam prorsus, vel indigestam. * Non potest enim
certitudo certitudini adver: sari, quia si id esset, tunc contrariarum
propositionum utraqua vera esset, adeoque idem simul esset et non esset: quod
quum repugnet, non potest ergo fidei Divinæ demonstratio ulla obiici. Quumque
Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum (num. 4. f. huius. ): patet,
quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas
humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem: de ea pauca adhuc addenda
supersunt. Et primo quidem, quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de
narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides, quo certiores
sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus (S. eod. ): liquet
6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam, si non adsit
ra tio, cur in narrante aut imperitiain, aut malitiam supponere possimus:
veluti si evidentia scientiæ probitatisque indicia de derit si nihil emolamenti
ex iis, quæ narrat, perceperit, si ' parratio rectæ ra tioni non repugnet; si
denique pro nar rationis suæ veritate dimicaverit, vel per secntionem passus
sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem præditi sunt scientia et
probitate, nec de his semper certo iudicare possumus, quum id io so la opinione
versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post præcepta dabimus. * Postremâ
hæc conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si vero deficiat, liu
modo priores adfint circumstantiæ, certilu do vim suam non amittit.. Schol.
Nunc in eo sumus, ut explica tæ doctrinæ usum paucis tradamus. Qua propter
Philosophus noster hos, qui se quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet
erudite experiundum, nisi necessariis præmunitusa in strumentis me accedito. Si
hæc desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito,
dummo do eorum integritatis scientiæque con stiterit, atque inde tuas deducito
con clusiones. Si per insrumenta liceat, aliorum experimenta ad examen revo
cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras, caussasque facilius investigare possis.
* Et quidem experientia erudita instrumentis opus habet,
sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint, observationes nul læ
erunt: ac proinde aliorum experimenta consulenda, præmissis cautionibus, quæ de
eorum veritate dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est
machina rum instrumentorumque apparatus, ut phæa nomena observari possint, a
quibus ad caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiæ
partus, aut ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne
subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est,
sed phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur;
adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt, su bripiendo a dsensum extorquere
conantur: et tunc evenit, ut cum ratione experientia pu gnare videatue, de quo
infra sermo erit. Quod sem el expertus es, ne teme? depromito, sed
experimenta sæpius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint,
observato; nec, nisi certior omnino factus, de iis enunciato. Sæpe enim accidit,
ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus, vel caus sæ cuidam
externæ debeantur. Repetenda er go experimenta, ut diiudicari possit, utrum
principali, an accessorüs caussis, effectus il le tribuendus sit, adeoque non
mirum, si facta semel observatione, effectus productio propriæ caussæ non
tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque principiis
superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito; sed sequentium veritas ex
antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur legitima syllo gismorum
concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est, ut supra diximus. Ne
ciedito, quamcumque enuncia tionis probationem pro demonstratione sumi posse:
qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex debilibus enim præ inissarum
probationibus exilis enervisque exsurgit demonstratio cui nihil potest roboris
accedere. * Nimiruni demonstrationis robur a præmis stabilitate, legitimaque
connexione procedit, adeoque pro; earum firmitate con clusionis pondus augetur,
vel minuitur. sarumriat, 6. Demonstratio, ut certitudinem ра talis
esto, quæ neque per mate riam, neque per formam ulla possit ra tione convelli.
Iunc enim adsensum etiam ab invito, extorquebis. 7. Si metaphysicæ certitudini
expe rientia adversetur, hæcfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere,
quod rectæ rationi repugnat. Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter
se contradicentes, alteram singularem, quæ quidpiam exsistere pronuntiat,
univers salem alteram, quæ idem existere posse ne gat; adeoque duo hæc
enunciata inter se pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus
perceptum fuisse ait, illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile
esse demonstrat. Quum itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio
duci pose sit (per princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione
rationem vincere, ac proinde experientiam dici debere fallacem, quippe non
experientia, sed subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali
omnium phi losophorum consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut
ita Genuensis noster præcipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum
posuerit: Si intellig:bili evidentiæ physica adversetur, FALLAX HABETVR PHYSICA,
est enim hæcminor, cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili subdubitan re, quæ summa est,
acmathematicam parit certitudinem, par est. Cui deinde
subiungit: Fingamus (quaquam id falsum keputo, ma thematica evidentia
demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret, non esset
audiendus, nisi matorem minori evi dentiæ præferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1, Sed quid, in quies, alienam
auctoritatem in re tam evi, denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a
quibusdam, apud quos Genuensis no stri plurimum valet auctoritas, nigro lapillo
notatus est: ut sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam, sed
ratio De aç unanimi hominum ratione utentium consensione fultam. cum eius
quoque Viri ipsis non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinæ
auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum esse con stal, cuncta silento.
Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator: sed si per rationem liceat,
demonstrationes ad calculum revocato;
vel si Dei vera bum explicatione egeat, Ecclesiam in, fallibilem eius
interpretem con sulit o. Referentes nồs
ad ea, quæ diximns, quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est, dummodo
intra rationis fines quær stip sit rationes,iterum conficiautur, e de Cap. .
De. Methodo. monstrationes ad calculum
revocentur, ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit, principiisne
dubiis et incertis,, an a defectu legitimæ connexionis? Ratio huius canonis hæc
est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da Si enim leges humanæ
difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum explic atio et
interpretatio tantum a Legislatore, eius que Administris est petenda, non a pri
vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo Divina lex quæ
verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det est explicanda.
Ecclesiam autem Dei spi șitum habere, patet ex ipsis Servatoris no stri verbis
Matth. ult, ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad
consumationem sæculi. Et loan. XVI. Cum, venerit ille Spiritus
veritatis (Pa. raclitus ), docebit vos omnem veritatem. Quid quid ergo
Ecclesia pronuntiat, assistente su premo animarum Pastore Christo, et docente
Spiritu Sancto pronuntiat; adeoque per eana Deus ipse suum interpetatur verbum
182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo. 138. Vum in demonstrationibus
con clusiones ex certis principiis per legitimam ratiociniorum seriem dedu ci
debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS dicatur: non abs re brevem
hanc de metho do tractationem doctrinæ de demonstrationis bus subiungiinus.
139. Quilibet experiundo agnoscere po - test, enunciationis cuiusvis veritatem
du plici modo detigi posse, scilicet vel eam dividendo, et ope analyseosed
prima simpliciaque principia perveniendo, vel componendo idest, principiis ad
conclu siones sensim ac legitimo nexu progre. diupdo. Vnde clare patet,
methodum esse vel ANALYTICAM [Grice/Strawson, In defence of a dogma] sive
divisionis, vel SYNTHETICAM seu compositionis.
Methodus ergo anulytica a principiatis ad principia, synthetica a
principiis ad princi piata (uti Scholæ aiunt ) procedit. Dla composita
resolvit. hæc simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam
enunciationem alibi (S. ) allatam? Deus earet adfectibus: analytice ita ratio
cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo, caret @ap. IV. De Methodo,
183 etiam affectibus (per defin. aff. ): atqui Deus caret appetitu sensitivo;
ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repræsentatio nibus confusis, caret quoque appetitu sensi
tivo (per defin. app. ): Deus vero caret repræsentationibus confusis, ergo Deus
ca. ret appetitu sensitivo. 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime
repracsentat, repræsentationibus caret confusis (est axioma ): sed Deus omnia
si bi distinctissime repræsentat: caret ergo repræsentationibus confasis. 4.
Min. prob. intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repræsentat
(per defin. intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo: omnia
sibi distictissime repræsentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu
gaudet perfectissimo (est axioma ): Deus autem est ens perfectissimum (per
defin. Dei
): ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem synthetice
demonstravimus. At in gratiam Tironum, quos ad Philosophiam manuducere
instituimus, aliam adhuc dabimus demonstrationem, bre vem illam, at mathematico
more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret affectibus. DEMONSTRATIO. Est
enim ens perfectism simum (defin. 1. ), cuius est intcllectu gaudere
perfectissimo (ex 1. ), qmniaque
Logica ir. sibi distinctissime
repræsentare (defin.) id quod omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit (ax.
2. ), Quum itaque ab idearun confusione pendeat appetitus sen sitivus (defin. 3. ) ', cuius vehementiores motus dicuntur affectus (defin. 3. ): iure
colligitur, Deum omnino affectibus carere. Vides hic, quam bene monuerimus in
fine primæ partis, maximum atque insignem esse usum syllogismorum in
conficiendis mathema ticis demonstrationibus: atque hinc patet, quam inepti ad
demonstrandum sint ii, qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata
vituperante 140. Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia, a
compositis ad sim. plicia progreditur (s. 139. ); synthetica vero a principiis
ad conclusiones (S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda, hæc
in alios docendo adhibeatur; adeoque 2.
eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo illam potius, quain hanc
sequi amant. Et quia feracior illa est, hæc sterilior : novit quisque 3.
docendi ordinem id exigere, ut post quan auditoribus synthetice veritas fuerit
explanata, iisdem "analytice modus. indi cetur, quo fuit ab auctore
inventa. Analyticam
enim methodum in docendo ad bibere idem esset, aç opposita et difficili ti De Methodo.
rones ducere via, eosque ad veritatem vel numquam, vel raro admodum
pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad examen
revocat, minuta quæ que considerat, atque possibiles omnes fin git casus, inde
ab hac quasi sylva conserta, enodatis extricatisque ambagibus, ad rem ipsam
perveniat; synthetica vero sterilior, et generalibus namque principiis brevi
atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior,
hæc facilior est: adeoqne illa viatori tramitis inscio, qui di vinando et om
nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit: hæc eidem perito similis, qui
brevi apertaque via iter conficit, et finem ideo suum cito consequitur, . Iam
ad melhodi leges, tum utri que communes cum alterotri peculiares,
tradendas acMilanius. Eas aliquot complc clemur regulis; quarni quinque genera
les, ceteræ vero speciales sunt, analyticæ præsertim methodo inservituræ.
Quicum que igitur veram: methodum in veritatis investigatione cailere cupit,
hos rigides servet. 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad
demonstrandum accedis, cur ato, ut a facilibus notisque incipias, indeque ad
ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida, ideasque
selig ito medias, atque ea semper cordi habelo
Est hæc lex, quam inculcavimus ($. 130. ) et alibi retulimus. In
-singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato evidentiam, ut altei
um ab altero derivari clare sentias. Ita vitabitur pædantismus, hoc est inutile illud memoriæ pondus iudicio
destitutum, et in minimis quibusque sectandis vanam quæ ritans gloriolam, de
quo vide supra Part. I. Cap. 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili, ac
naturali, non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum,
quantum ideis clare exprimen dis satis est adhibeto: nec, nisi in ideis claris,
quidquam tentato. * Verborum enim copia ignorantiæ confusioni sve indicium est:
quæ namque ignoramus vel confuse scimus, ea nimia verborum cir cuitione
explicare cogimur. De Methodo. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate, si
quafuerit, liberato prius; deinde in tot membra dividito, quot ca pax est:
singula attente examinato ac definito: * omnia clarissimis explica to verbis,
ac quæstione quam simplicis sime exprimito. Præ oeulis tamen
habeantur, quæ de de finitionibus diximus Verba: quce obscuritatis aliquid
habent, adcurata definitione dctermina to, in eoque semper sensu adhibeto. Confer quæ diximus SS. De methodo analitica livec habeto: 6. Ad veritatem inveniendam,
quæ stionemve solvendam, ne nudus princi. piorumque inscius accedito: num
sorida cognitione ad id paratus advenias, se dulo perpendito. Sinamque incapax
principiisque destitutus rem aliquam adgrederis, fieri non poterit, quin inepta
et ridicula effutias. Quæcumque cum proposita quæ stione aliquam habent
connexionem di 古 88 Logica Pars
II. ligenter exquirito: omnes possibiles ti bifingito hypotheses: quæcumque ei
lu men adferre possunt, ne rciicito sed Omnia simul colligito et comparato. 8.
Principia quæque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes perpendito
efinesque sectator, eaque, superflua de mendo in parvum referto numerum. Omnia
deinde corrigito diuque considera to, ut tibi familiaria fiant. Speciatim vero principiis diu hæreto.
Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F.
19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent, ea partim a nobis incul.
cata sunt, partim infra, ubi de modo alios docendi sormo erit, enodabuntur. Si
quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de
methodo mathematica, universæ Matheseos elementis * præmis-. sibi curet reddere
familiare CU sum * Exstant hæc 5. voluminibus in 4. excusa Ha læ Magdeburgicæ. Cap. V. De
Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142
Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem
excludentia, su pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe
impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa. teant ita, ut veram
absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo est, cur in præsenti
capite de probabilitate, quantum satis erit, dicere instituerimus. Est autem
PROBABILITAS status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhærentis,
cum aliqua tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in
quc adest ratio in sufficiens, cur prædicatum subiecto tri bu atur. * Ita
Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat, Clodium Miloni
insidias struxisse. Ait enim: Clodium dixisse, Milo nem esse occidendum; 2. eum
Miloni neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse, 3. idque itinere
effecisse maxime expedito, et præter consueludiuem; 4. servos cu: n les lis
ante fundum suum collocasse. Probat id
Logica esse > in quidem, sed
probabiliter, insufficientibus quippe indiciis, adeo ut aliqua adhuc adsit
oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem
esse proposi tionem, quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM, si
ex alterutra parte æqualia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM
qua paucissima inveniuntur; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr;
4. omne probabile, esse quoque possibile, quamvis 5. non omne possibile dici
pro babile possit. * Probabilitas enim supponit possibilitatem: quum enim
probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet, exsistere vero nequeat,
cui deest possibilitas, liquet, tunc de pro. babilitate qnæstionem institui
posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem
demonstravit, uihil aliud oneris habeat, omnemquede probabilitate contro
versiai tollat. Possibilitas autem non infert probabilitatem: nam quum
possibile sit, quod non involvit contradictionein (per princ. Onol. ), non ideo
probabile dici potest, nisi quædam adsint circumstantiæ, quæ id revera
exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes
probabi les, sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De
Veritate Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem. Et quia
couclusio sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio
probabilis, præ certa: consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte
rutra præmissarum talis sit. Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium
præmissarum (s. 82. seqq. ), infertur 8. ut si utraque præmissarum sit
probabilis, conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum, quibus illae
a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones
coficiantur ex syllogismis concatena tis, quorum unus ab altero vim sumit:
evidens est 9. integram de monstrationem, in qua vel una probabi lis propositio
irrepsit, non esse, nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se
habet, ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt
gradus, ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt
minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione.
Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum
certa sit, altera duobus gradibus ab ea recedat, habebimus conclu sionem
probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a
certitndine distantem: tunc enim ma ior erit Ei, minor -, quibus addie tis,
babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate, sive
certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse, ut
duo bus gradibus a cerit udine deficiat, altera ve ro tribus; habebimus
conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a
certitudine recedit, quot deerant in am babus praemissis. Dem. 146. His generatim expositis, ad pro babilitatis species
transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM,
PRACTICAM, et HERMENEVTICAM. De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate
differt OPINIO, quae est propositio insnfficienter probata, scilicet a
principiis nondum certis, et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis, ac
proinde po test ut plurimum esse falsa: unde opinio di viditer in PROBABILEM,
et IMPROBA, BILEM, prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia, vel
precaria, omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate
probabili. He completanarratio eæ De probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et. Eius au ctores sunt homines: fidem ergo
parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et complete narrans, HISTORICUS
vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia, nec
demonstratione ad examen revocari possunt ob vitæ intellectusque nostri
brevitatem mentisque imbecillitatem, nec de omnium probitate certo constare
potest: quando ` id in sola opinione versetur, non certitudinem, sed
probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate freti adsensun
historiæ præbeamus: evidens est, historicæ probabilitatis funda mentum esse
fidem humanam. Ut autem narratio
historia dicatur, dcbet non modo esse fidelis, hoc est res clare, eoque, quo
contigerunt, ordine narrare, sed completa etian ', omnia scilicet factorum
adiuncta, circumstantias, relationes, caussas; et fines amplecti.Hinc CICERONE
(vedasi) Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem
esse debere ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides
aliorum testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicæ;
homines autem ob ignorantiam malitiamve, aut fal li aut fallere possunt, ut
experientia testa tur: consequens est, ut ad adsequendam probabilitatem
historicam cautiones quæ dam adhibendæ sint, quibus testium an ctoritas,
factorum genuinitas, natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA, sive habitus
aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi, recte adhibendi, factaque
scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et
quamvis artis cri ticæ officium, vulgarem sequuti opinionem, infra ad solum
librorum examen atque in terpretationem restringamus; non ideo no bilissimam
hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus; sed quidquid de usi
auctoritatis, rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt, ea ad artem
criticam: pertinere, qnisque sciat: id quod semel pro sem per observandum. 119.
Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt; narrans nempe, bar
ratiun, et ipsa narratio: hinc est, ut in fide humana ad tria potissimum
attendi so leat, scilicet i. ad homines narrantes, ad res narratas, 3. ad
modima parran di. Ab hominibus nunc
ordiamur. Atque in his, quæ sequuntur,
regulis tam historicam, quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus,
nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus, gene rales totius
críticæ leges ad singulares spe cies et circumstantias adplicandæ consistunt,
in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet, qui philosophi nomen
tue ri cupit, quo frequentius in evolvendis li bris, factisque diiudicandis
erit ei, re exi gente, versandum, Quoniam hominibus, licet eadem natura, non
cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas, nec omnes iisden sensibus
eamdein rem percipere possunt (per cxper. ); hoinnes autem factum aliquod
narrantes testes vocantur . ): patet in quolibet teste tria concia derari posse,
scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur, testesa
sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES, yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS,idem sunt
vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes, itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si
denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI Logica
. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt, vel AVRITI, qui illud
ab aliis audiverunt; et hi denno vel Co ÆVI sunt, qui eodem facti tempore vi
xerunt, vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt. Sic Livius inter testes prudentes est referen
dus: multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat, quippe
Romanus et ipse. Tandem factorum, quæ sua ætate evenerunt, testis coævus, eorum
autem, quæ ante conditam condendanıve urbem, ac per tot sæcula ad sua usqne tem
posa accidisse tradebantur, recentior dicen dus est. 152. Ex quibus omnibus
patet 1. in fa cti alicuius narratione, quod attentionem iudiciumque requirit,
homines prudentes et perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos; promiscue
vero se habe re in rebus solis sensibus, non etiam iu dicio, indigentibus,
dummodo in illis af fectus partiumve studium non metuatur: tunc enim rudiorum
testimonium proba bilius erit; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus
recie pracferri, nec non 4. oculatos auritis, 5. coævos recentiori. bus, inter auritos autem prudentes ru dioribus, eos
tamen, ad quos ex oculato De Veritate Probalili. 197 nullam esse, fide digno
magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit, ceteris incerto alio. quin
rumore ductis esse anteferendos, ac denique 8. coævi testimonium plurium
contestium narratione augeri, cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse
possit, Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta; observandumu 9.
probabilitatem si circumstantiæ adsint sibi invicem repugnantes;nihil enim
impossibi le potest esse probabile; 10. nullam quoque esse probabilitatem, si
testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret: licet 11.
probabilius id ha bendum sit, si a pluribus probatæ fidei viris unico contesta
narretur; 12. nulla itidem probabilitate gaudere, narrationem, quæ claris
rationibus -aperto repugnat; . non idem tamen dicendum de ea, quæ moribus
opinionibusque nostris ad versatur, nec
14. si caussa modusque ignoretur, aut vim artemque nostram su peret. Sic
pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem, utpote omni proba
bilitate destituta: veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum
cum Albanis, Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam,
Logica in Monte Albano lapidibus pluisse; vel quando, Tarquinio Prisco
regnante, Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert.: id enim
mirabile quidem et insolitum, sed a Livio tantum relatum. Qua de re iure idem
Historicus de his, fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem
suam sartam tectam servat, non modo singulorum narratione, sed et in historiæ
suæ proæmio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur, ut potc
poeticis magis decora fabulis, quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis
confirm mata. nempe Lu nam Huiusmodi
sunt fabulæ illæ, quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum, a Muhamede bifarian
digito divisam partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam;
palmæ eiulatus in eius absentia, et id genus alia. Sunt enim, mores pro
regionum ac tem porum varietate, varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe
est, fortasse apud alias Gentes honestum erit, et quod nostro sæ culo nefas
habetur id licitum esse alio: tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote
loquamur, non vitio verteret The bano Epaminondæ, saltasse eumcommode
scienterque tibiis cantasse? Et tamen hæc aliaque
nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in
Proem. De Veritate probabili. Quoad
modum narraudi tandem, id sedulo advertendum, facta stilo simplici non oratorio
aut poetico, narrari debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio
scripta legatur, maiorem meretur lidem, quam quæ poeticis pigmentis aut
oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. De Probabilitate physica,
politica, et practica. 153.TJÆc de fide humana, quam qui ritatis præiudicio
occupatus conseri debet. Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac Milanius,
nempe PHYSICAM; quæ ha betur, quum ex pluribus phænomenis ad caussam aliquam
physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat
hypotheses. 8 Probabile est, fluxum maris à lunæ solisque attractione
pendere: nam ex plurie. bus phænomenis hanc illius caussam ess posse, compertum
est. Ad physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendæ sunt cautiories: 1.
ut phænomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea, aut clara saltem,
habeatur, ne chimæram pro re, aut nu bem pro Iunone amplectamur; 2. si phæ
nomenon illud sit ab alio relatum ad historicæ probabilitatis regulas, tamquam
ad lydium lapidem, exigatur: 3. eius porro caussæ omnes pose sibiles
investigentur, et.cum phænomeno conferantur; ac denique 4. ex iis una plu resvc
adsumantur, quæ cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant. Quum autem doctrina hæc ad Physicam fa
cultatem pertineat: sufficiat de ea quædam tantum hic notasse: commodius enim
in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est, qua ex
alicujus personæ phænomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex
propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus: evidens est tracta
tionem hanc ad Ethicam potius, quam ad Logicam pertinere: adeoque non mirum, si
eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi
pos sit, sumamus e. g. aliquem, in quo vultus hilaritas, iocandi studium,
corporis mobi litas, laboris impatientia, prodigalitas', in constantia,
garrulitas etc. observentur: non ne eum statim voluptati deditum esse con . De
Veritate probabili. cludes: Hæc erit probabilitas politica. Lega tur interim
Cl. Heineccii dissertatio: Dein cessu animi indice. Quæ de probabilitate
PRACTICA dici inerentur, ea fusius persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de
sensu peri et falsi. III. 8., et Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicæ
probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus vocat, qua ex physicis
vel moralibus principiis futurum aliquem prædicimus even tum. Quod quum in
practica casuum si milium expectatione consistat, eaque ex pectatio vocetur analogia
evidens est practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA; id
quod maximo apud Politicos usui esse solet.
Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati
probabiliter unius aut alterius Regni prædicunt eversionem, propte rea quod aliæ
res publicæ post easdem cir cumstantias subversæ sint: adeoque a simi Jium
casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem. CA habetur, quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn
eruimus. Sæpe enim accidit, ut in auctoris alicuius interpretatione quædam
occurrant, quæ multiplicem sensum ad mittunt: tunc ex auctoris fine, verborum
significatione, locorumque collatione pro babiliter colligitur, quidnam auctor
ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICÆ, quæ definiri
potest per habitum Auctorum loca interpretan, di, sive eorum sensum eruendi. SENSUS
AUCTORIS est ceptus, quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve
animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur, qumun ex legitimis
principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas
auctorum loca inter pretandi; consequens est 1., ut eius sit genuinum auctoris
sensum erue Te; adeoque 2. regnlæ tradantur, opor tet, quarum ope sensus ille
quam proba, bilius investigari possit, соп . De Veritate,probabili. 203 Quumque in his regulis
totius Hermeneuticæ adeoque et Criticæ artis leges Auctorum in terpretationem
respicientes pofitæ fint: non mirum, si a canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus, quippe qui superflui omnino forent, et loquacitatem
potius, quam logicam præcisionem arguerent. Quoniam Scriptoris sensus perver ba
significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam, qua scriptor conceptus
suos expressit, eiusque idiotis, mos probe calleat: adeoque patet 4. falli eos,
qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus translationibusque fidunt; 5.
ut ad scriptoris sectam, finem, affectus,mu nus, ætatem, gentis suæ mores '
attendat: unde 6. integrum Auctoris systema præ oculis babeat, ac de eo secu
dnm dome sticas notiones, non ex propriis opinioni bus, iudicium ferat., quid
> * Præclare id monet Clericus Arte Critica. $. 7. et 8. Opor tct, inquit
Vir eruditissimus, nostrarum opi nionum veluti oblivisci, el quærere, veteres
illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur, ut sape rent.
162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus, præconceptisque opinionibns
omnino vacuum esse debere; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut
considerare, sed antecedentia et con sequentia attente conferre: multoque ma
gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol licite comparare, ut quod
obscuritatis ir, repserat, statim evanescat. Quumque ad cognitionis claritatem
ac distinctionem om ne momentum ferat attentio (m. 19. ): sequitur 10. ut qui
librum aliquem probe interpretari vult, eum attente atque ordi ne legat, et
codicem habere ' curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad
librorum interpretationem con ferat editio, ratio in promptu est. Videmus enim,
quam multis scateant erroribus edi tiones quædam ab indoctis ignarisque con
fectæ typographis, ut Delio sæpe notatore opus habeant. "Nitidissimæ præ
ceteris sunt editiones a Viris claris, qui id oneris susce perunt, effectæ,
quibus multum iure merita debet Respublica litteraria, De Veritate probabili. Uoniam magno
Hermeneuticæ adiumento est Ars Critica: non abs re fuerit, pauca de hac
illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir multiplici eruditione præditus Ioannes
Clericus, communi sa pientum consensu probatur. Nos eius du ctu
regulas saltem generales nostris audi toribus trademus ut quantum fieri pote
rit, libros genuinos a nothis, integros a corruptis discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa, si Critices distincte
præcepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est Clericus, quo'nemo
elaboratius eam pertra ctare, operæque pretium facere posset. Nos autem
tironibus scribentes, notiones maxime genericas jis suppeditare adlaboramus;
quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium, et matura ætas, omnia, quæ hoc
super argu mento scienda forent, in eodem Clerico legent. ARS CRITICA est
habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi, 20 Logica Pars I. Candi.
* Quæ definitio ut intelligatur, oportet claras notiones genuinitatis, et in
tegritatis librorum in legentium animis excitare. * Notandum tamen hic Crilices
vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque ea in re generales tironibus
suppeditari: latiori Damque significatione tam historicam proba bilitatem, quam
hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa capita præcedentibus sectionibus
sermonem instituentes præcepta, yeluti per lancem saluram, ex hibuimus. Earum. LIBER
GENUINUS dicitur, qui ab eo, cuius nomen præ se fert,-. fuit exaratus;
SUPPOSITUS autem, qui ab alio, quam cuius nomine insignitúr, scripius est. Liber dicitur INTEGER, si tantum contineat,
quantum Auctor in eo descripsit, CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit,
vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS; sin den tuni, MVTILVS appel.
latur. si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula
ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quæstioni locus, De Veritate
probabili. Huius corruptionis quatuor
caussas tradit Clericus: nempe Librarios (dictantes perin de, ac scribentes ),
Criticos, impostores, tempus. Satis erit hæc generatim scire guia singillatim
percurrerenon vacat. Criticæ leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas
nos sequentibus ex ponemius regulis, quas philosophus nos ter observabit.
Sequantur ergo. CANONES t. " S " ppositum habeto librum, qui in
vetuslis codicibus alii tribuitur Auctori; interpolatum, si in aliis de
sideretur, quod in eo reperitur; muti lum denique, si quæ in ipso desunt in
antiquis codicibus inveniantur. Si a
veteribus quædam a libro ali quo exarata sint, ea vero nunc in li eadem
inscriptione. insignito deside rentur: aut alius esto, aili muiilus. Si aliter
legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohæreant, genuinus esto et inte ger,
nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber, cuius nulla fit inentio in veteribus
catalogis, aut a scriptoribus proxime sequentibus, plerumque fictus esto, cut
saltem suspectus,. Logica Pars I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in
dubium vocata, nequit recentio, rum auctoritas, nisi gravissimis rationi. bus,,
pro genuinis admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária, quæ scriptor
cuius nomen præfert, alibi constanter defendit, ut plurimum aut spurius esto,
aut interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo, in quo personæ, facta,
uut nomina com memorantur Auctore, cui tribuitur, recentiora. 7. Spurium quoque
aut interpolatum iudicato librum in quo controversiæ tractantur post Scriptoris
tempora na tæ, vel adest scriporis imitatio. 8. Talis quoque ut plurimum esto
si fabulis scatens, aut ineptus, viro docto minimeque imperito tribuatur. 9.
Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut sæculi, in quo ille vixit,
spurius esto, eiusque censendus, ius stilo est conformis. In. Vocabula recentiora
Auctorem arguunto recentiorem, aut libri interpo Talioncm: in translatione vero,
si ni hil est quod sapiet linguam, in qua scripsisse constat Auctorem, cui
tribyi: utr, translatio non esto, cu *
De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus,
idoneisque illustrare exemplis: sed res est maximi momenti, et nimis implicata,
nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat
Clericum in Ar te Critica, ubi plurima inveniet suo gustui. adcommodata. Id
interim notasse sufficiet, in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna
cautione opus, esse ne in præcipitan tiam, adeoque in errores prono cursu la
bamurSendus pecialior Logicæ usus nunc evol vendus, nempe PRAXIS, qua mentis
nostræ operationes sint in verita tis investigatione dirigendæ.Veritas inveni
tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite institutam; vel ab aliis
inventa quæritur et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi, nec bonæ
lectioni par est, qui hasce lautitias nondum degus tavit: Logicæ est regulas
suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari, et libros cum
fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati
studere: de duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO
est conformis co gitationum nostrarum bonæ methodi legibus adplicatio.
Meditamur itaque, quum cogitationes nostra's bonæ methodi legibus) ita
dirigimus, ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex
qua definitione sequitur 1. ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione,
tantum optima methodus a medi tatione distet,. meditaturus leges quibus bona
methodus absolvitur , callere debeat; adeome 3. eo felicius meditetur, quo
exactius leges illas esequitur; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es
se gnarus, ut ex ijs veritates aljas erue re legitime possi. Tirones ergo,
aliique bonæ methodi, veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti. Cui enim
serei principium deest, nullo mo do seriem ipsam, hoc est veritatum catenam
conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat, quantumvis
veritatum mente te *} De Veritat. inquisitione. 211 neat, nec illas recte
disponere, nec ordina tam seriem formare valet. Quia ad bonam methodum requi
ritur idearum claritas; ad claritatem autem confert attentio; consequens est 6.
ut qui feliciter meditari vult, attenitonem præcipue colat; quin 7. et præiudiciis
liber et 8. certis indubiisqoe principiis (S. 131 ) præmunitus ad meditandum
accedat. Quum que ad principia referantur præcipue de finitiones (f. eod. ):
recte consequi tur 9. ut res de qua institui vult mcdi. tatio, edcurate
definiatur), ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur
tamen, quæ de definitionibus, et divisionihu:s
docuimus, et quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam
inter principia etiam axiomata et postulata enumerantur (S. 130 ), eaque es
definitionibus legitimue eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere
quoque debere modum ex definitionibus axiomata eruendi, ut om nes principiorum species probe tencat. Quonam
autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic adden
dum. Tribus quidem modis id effici posse certum est: scilicet PARTIS OMISSIONE,
nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac definitio
ne: Invidia est tædium ob alterius felicita tem, omitte genus, et habebitur
axioma: Invidia respicit felicitatem alterius: omitte differentiam, eritque
aliud axioma: Invidia est tædium 2. INVERSIONE, si definitio in definiti locum
substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate tædium percipit est invi. dus 3.
CONVERSIONE, si aientes pro positiones in negantes convertamus E. g. Qui ex
alterius felicitate non percipit tædium, -non esi invidus; vel eum, qui non est
in vidus, alterius feliciiaiis non tædet. Postu lata eadein ratione
conficiuntur, si nempe modus exprimatur, quo quid fieri potest: sed ea melius
ex realibus, quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem
definitione habebis postulatum: Invidia excitatur, si invido alterius felicitas
repræ sentetur. 172. Præstructis ita principiis, opor tet il. ut ex eorum
collatione THEO REMATA, vel PROBLEMATA compo nantur, j 12. et unde consequentiæ
im mediatæ sese offerunt, COROLLARIA deducantur, vel 13. ubi maiori explicatio
ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim
Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex
principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus. Hoc modo ex
principiis confectis erui poterit theorema: Invidia oritur ab odio, et similia.
Pari mo do quia Problema est propositio practica, eius solutio et demonstratio
ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex eisdem principiis orietur
problema: Juvidiam in altero excitare; cuius solutio hæc erit Invidia ex odio
nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam excitare vis, ala terum odio
prosequatur, cuius inde felicita tem ei ostende: ex ea namque tædium per cipiet,
adeoque in eo invidia excitabitur. Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus,
quam ex demonstrabilibus enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus
axiomatis varia oriuntur corollaria, veluti ergo qui tæ dii non est capax,
invidus esse non potest: item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis
repræsentatio, locum non habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui
alterum amat, ei non invidet; atque ita porro. 173. Hæc omnia vero præcepta, ut
æmoriæ infingantur, brevissimis ample temur regulis, quas, qui sequuntur,
shibent 214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam
quantum natura ipsa fert, exa cte dividito. 2. Ex definitionibus axiomata, item
postulata deducito, atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con
ficito. 3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto, et
sic theoremata vel problemata efformabis, ex quibus, quæ haberi poterunt, erues
consectaria. 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu
comparato, et id agito, ut omnia per demonstratio nes apte cohæreant. 1 Ita novæ orientur veritates, novaque semper
ratiocinia fluent. Perinde ' vero est, qua met hodo ratiociniorum series in
ordinem rediga tur, modo regulæ alias propositæ rite observeutur. Scol. Sint hæe
satis de meditatione, ei usque legibus, quæ numerosias protra here non fert
instituti compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius
et distinctius meditandi re gulas vellet addiscere, ei Baumeisteri dis sertatio
de arte meditandi attente legen da foret, eaque in syccuin et sanguinem
vertenda. Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere
praxin censuimus, quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re
eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum. Si quis AMICI characteres
sit exploratu. rus, absque librornm auxilio, sequentem instituens meditationen,
hæc habibit. §. I. Ex casuum sin vularium observa tione g. 124. seq. ) critor
Amici DEFI TIO: Amicus est persona, quæ nos amat, f. II. Ad definitionis porro
notas atten dens quisque videt, notionem amoris de. finitione indigere. Eodem
igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic. amare alierum nihil aliud
significat, quam ex alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo, quo diximus, artificio axiomata de
dacantur. Et
quidem ex prima definitione fiunt
AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est
amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum, ad amicitiam ei praestan 116
Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor, ibi nulla omicitia. 5.
Quamdiu durat amor, tamdiu durat amicitia. 6. Qui efficit, ut ab alio ametur,
eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8.
Quid quid amorem impedit, amicitiam tollit. Ex amoris defimtione ori untur
sequentia. 1. Qui alinm amat, ex illius felicitate deleciatur. Quicumque
obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan, obligatur ad alte
rum amandum. Qui iubet, ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus, alterum,
iubet, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem, ex alterius felicitate
capiendain, promovet amo rem. 5. Qui illum impedit,
hunc sis tit. V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus, nascitur. THEOREMA.
Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat,
alterius felicitate delectatur: amicus alteruu amat; ergo amicus alte rius
felicitaie delectatur. 5. VI. Ex quo inmediata consequutico ne cequentia
fluunt, IV. AX Cop. IV. De Veritatis Inquisitione. COROLLARIA. Anicus ergo ex
amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli
citate taedium sentit. S. VII. In quibus, quum taedii facta sit mentio, perapte
addi potest. SCHOLION. Est autem invidus, qui, ex alterius felicitate taedium
percipit misericors vero, quem alterius infelici. tatis taedet. Hinc ergo
habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est, qili
ob'alterius felicitatem taedio adficitur: Quod quum in amico non reperiatur:
amicus " go non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR.
Taedium enim percipit x personae amatae infelicitate ) $. II. or. 2: ): quod
quum dicatur coinmise atio (5. VII. ): amicus ergo commi eratione tangitur erga
personum ama zm. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si
bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Logica
Pars. > novae r'e commiserari alterius vices, eumque ab infelicitate, dum
potest, non vult eri pere, non se dicat amicum. 6. X. Si meditatio continuetur
inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et
felicita tis, maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo. DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis.
2. For licitas est status durabilis gaudii. Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A.
Delectutio
ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem, earumque repraesentationem.
2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in altero
promovendum, obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. Oui - iubet primum,
praecipit secundum. Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius
felicitate dele ctatur, ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui
alterius statum durabilis gaudii promovet, eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet, hoc quoque iubet. 4 Quicumque obligatur ad primum,
obligatur ad secundum. Conferantur definitiones cum antecedentibus, indeque
nasceutur. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem
sibi, tamquam bonum, reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te
delectatur: quod quum fie ri nequeat, nisi illam sibi, iamquam bonum, repravsentet.
Ergo
amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum, repraesentat. THEOREMA II.
Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii. DEMONSTR. Quum enim ex
alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii (def.):
ex hoc patet, amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius
gauuium durabile sibi, tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu
de lectatur (per theor. 2. ), quod fieri non potest, nisi id, tamquam bonum,
sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi, tamquambonum,
repraesentat. SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus, qua anima id,
quod sibi, tamquam bonum repraesen tal, adpetit, et promovere studet. Plurimae
hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem
THEOREMA. Amicus alterius felici tatem, idest gaudium durabile, adpe tit, et
promovere studet. DEMONSTR. Omne, quod nobis, tamqnam bonum, repraesentamus, ad
petimus et promovere studemus amicus sibi alterius felicitatem statum que
durabilis gaudii, tamquam bonum, repraeseníat: er go ea omnia adpeiit; et
promovere stil det. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet,
quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae
amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit. S. XVII. Durabilis gaudii
porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas
eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta. 9. XVI. Ex qua ultro sese
off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet, eius quoque proinovet
perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones
promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet, quod idem est ac
promovere eius perfections. F. XX.
SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum: Tuas aliorumque promove to perfectiones.
Jude ergo oriuntur. COROLLARIA. Amicus ergo legem Naturae observat. Nos ergo
obligati sumus ad amicitiam colendam, 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini.
micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est, ut
aliis simils amici. etc. Hæc brevi meditatione compertæ sunt
veritates, Quod si modilatio aliquamdiu proferretur, dici non potest, quot novæ
propositiones exurgerent. Huic autem exer
citationi si adolescentes adsueverint, aut nostra nos fallit opivio, aut sine
multa lectione, brevi tempore, minimoque la bore Philosophi acutissimi evadent.
K 3 2? Logica T
De librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit
limitibus circumscrip tus, atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione
eruendis incapax:facile est and intelligendnm, cur aliorum scripta le genda
sint, ut quæ proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non
omnia ab omnibus adcurate scri pta, plerique etiam intellectus voluntatis vitio
laborant, ideoque errare possunt: cautio quædam adhibenda est in legendis eorum
libris, ac proinde Lo gicæ interest præcepta tradere, quibns in jis ad examen
revocandis, dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis mens
dirigatur: id quod in præsenti se ctione docendum. 175. LIBER est aut
HISTORICVS, aut ŚCIENTIFICVS.Ille, in quo facta, seu enunciationes singulares;
hic, in quo pro positiones universales et dogmata traduntor. Hac librorum
divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam, De
Veritatis Inquisitione. nihil, nisi
duorum, quæ enunciavimus, ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet
ergo ratio, cur libros omnes in histo ricos, et didacticos sive scientificos
distri buerimus. 176. HISTORIA, quum sit rerum quæ acciderunt fidelis narratio,
facta vero vel Naturæ opera, vel Societatem vel fidelium communionem nempe
Eccle siam, vel deniqne litterariam Rempublicain spectent, esse potest
NATVRALIS, ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA. * Rursus quoniam omnium, aut
quo rumdam, vel alicuius ex quatuor illis, fa cta refert, dividitnr in
UNIVERSALEM, PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturæ opera enumerat,
altera hominum vices et facta commemorat, iertia Ecclesiæ vicissitudines et
annalia narrat, po strema vel disciplinarum et librorum, vel eru ditorum vitas
et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS, si omnia
in ea Naturæ opera eno dentur; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti
ex Regno vegetabili, fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do
plantæ, lapidis, metalli, aut viventis inventio, usus, incrementum etc,
narrentur. Logica . civili,
ecclesiastica, et litteraria, de quibus plura coram . Quia libri vel scripta
ideo. legun tur ut veritates ab aliis inventæ et dete ctæ discántur; ea vero
verbis referta sunt, ut auctoris sensus intelliga. tur (§. 160. ), idest eædem
ideæ ver bis adsignentur, quas Auctor cum iis con iunxit (S. eod. ): per se
patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis, aliorum scriptis
curato, uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit iisdem
adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i. in cuiuscumque libri
lectione at tendendum esse ad definitiones, quibus sin gularum significatio
determinatur, vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s, quæ sine
definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac
distinctas adquirere si ne attentione non possumus: se quitur 2. ut ad id
potissimum requiratur attentio, crebriorque repetitio, in libris præcipue
historicis ut facta facilius me inoriæ mandentur. De Veritatis Inquisitione.
Vide quæ de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can.
ult. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur, nempe veritas, ordo ac
finis, facile patet 3. in libris histori cis legendis attendi debere ' ad rerum
sive factorum veritatem, ad eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an
sci licet liber Auctoris scopo respondeat. Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricæ
probabilitatis regulæ traditæ sunt. ORDO vero tuin in locorum, tuna in temporis
circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO
GRAPHIA, circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem
scriptis abunde patebit, adeoque, an ei res pondeant, ex eorum lectione
diiudicari pote rit Historiæ nituralis finis est obiecta rario ra adcurate
describere, phænomeni alicuius cuncta notatıı digna, partiunqne nexum di
stincte exponere; Civilis est politices civilis que prudentiæ regulas exemplis
et factis con firmare; Ecclesiasticæ scopus est, statum Ecciesiæ, incrementin,
in file costantiain, in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item
Numinis, in ea conservanda au gondaque Providentiam, 2 gelis, ostendere;
Litteraria? tandeſ, inveniendi arlena, quam EVRISTICAM vocant, aptis aliaque id
K 5 226 Logica Pars II: subsidiis, et veritatum a veteribus invenla rum
cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo, restat ut attente legatur
statimque innotescet, utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum
scientificorum lectio ne sat erit, si pauca degustemus. Quo niam in scriptis
didacticis methodus reqni rit, ut nullus adsumatur terminus, nisi notionem
habeat sibi adiunctam, atque ut ea præmittantur, per quæ sequentia in
telliguntur: consequens est 4. ut in iis legendis singulæ veritates prius in
classes dispescantur, ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu
de deductis pertincant; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore
ad fixas attendatur; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi
reddat familiares, nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat, in quibus
vi. deat, si quid doli contineatur. In scriptorum porro didacticorum examine ad
eorum dotes potissimum respi ciendum, de quibus sequenti capite age. mus. Id
unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri absolụtam
et continuatam libri lectionem, De l'erit. comm. attenta mque veritatum earumque nexus con
templationem: quæ omnia si desint, le
ctio dicetur SUPERFICIARIA. Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam in
sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati, qui in dijudicandis per
tabernas comoe diis scurrilibus, aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt;
vel adolescentuli vo culis tantum, phrasibusque meinoriæ infi gendis adsueti,
qui vix e pædagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem
laboris patientia, attentio, mens methodo ac meditationi adsuefacta, non vero
in expen ex. dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiæ ductu exercita.
OVampdoquidem a Platone monitum non præclare,
non est no bis solum nati sumus, adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro
movere debemus: veritates a nobis dete ctas, vel quæ ab aliis inven tæ nobis
ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis
alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit, is eum Do 5 K 6 Logica . Ir. CERE dicitur
adeoque DOCTOR CO gnominatur. Ip Ep. ad
Archytam Tarentium. Vid. CICERONE (vedasi). de Fin. Latius hic patet docendi
vocabulum, qu am a Cicerone de Offic. Prooem. usurpatur. Id ve ro ex
definitione admodum completa prono, ut aiunt, alveo fluit. Ceterum in hoc usum
loquendi sequuti sumus: vulgari namque ser mone tritum est, Magistrorum alios
esse vi VOS, alios mortuos, qui Scriptorum vel Auctorum nomine distinguuntur,
ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent. 183. Et quoniam
verba vel voce profe runtur, vel scripto exaranțur (S. 42. ): patet, duplicem
esse docendi modum, vo ce scilicet, atque scriptis; adeoque MA GISTRUM dici
debere, tam eum qui li þros in lucem edit, quam cum qui in A cademiis
iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum, qui scripta didactica (de
quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel AU. CTOREM; eum vero,
qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM, DOCTOREM, MAGISTRVM dicemus: idque ad
evitan dam confusionem, atque inutilem verborum repetitionem. Sed quia
doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun. se esse usque virtutibus ac vitiis aliqua dicere posse
mus: nunc, quæ utrique communia sunt, dispiciemus. Ad calcem denique capitis quæ
dam de discentium dotibus æ nævis com pendii loco addemus. . Quia vero docents
est, alios ad ignotaruin veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet
certa et distincta eaque vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut
lectores vel auditores de veritatibus certi reddendi sint, adeoque 2, indiciis
sufficientibus at que inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi. quod ut
fiat, 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur, ideoque 4. sit perspicuus, ad
quod requiritur 5. ut artein, in qua versatur, distincte intelligat bonam
methodum rigide servet, 7. et si quid implicatum confu suinque occurrat,
distincte explicet. Criterium enim
notionis distinctæ est, si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi
ergo distincta artis suæ docens cognitione gaudeat, fieri non potest, ut eius
præcepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio, qua al terum de
veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope quisque videt, convictionem sola demon
stratione absolvi. Ex quo liquet 8. do
centem alios de veritate, quam docet, debere convincere, ac proinde 9. pro babilibus argumentis uti ei
non licere: nisi res talis sit, ut sola
probabilita te cognosci possit. Quoniam
ergo convictio demonstratione ab solvitur demonstratio vero est vel directa vel
indirecta, vel a priori vel a poste riori: non abs re convictioni ea dem nomina,
prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis
pondus in convincendo ani mum sese insinuet, oportet, ut iHe sit atten tus, in
demonstrationibus versatus, et talis; qui rationum momenta perpendere possit.
Quapropter solidis demonstrationibus, non conviciis, irrisionibus, dictisque
iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. Dici hæc solet PERSUASIO, quæ quum sit
rationibus insufficientibus innixa, convi ctio dici nequit, quippe quæ a
convictione longe multumque distat. " Hinc vides, convictio sit
Philosophcrum propria, perсиг Cap. VII. De
Verit. commun. 231
suasio vero Oratorum, qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur,
quan tum sufficiat ad caussam probabilem redden dam, de quo conferendus est CICERONE
(vedasi) de In vent. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur, methodique
cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et præci puam doceotium dotem esse
soliditatem, adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum æque, ac
docendum ineptos. * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus
tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De
Librorum dotibus. IBER, in quo veritates continen tur, SCIENTIFICVS dicitur,
alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM. Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS,
et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate, ac
deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate. Solidus ergo dicitur liber
1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia , 3. si propositiones singulæ
rig de sini demonstratæ, si bona me thodus in demonstrando adbibita pec in demonstrando cir culus irrepserit. Si
vero bonæ methodi leges fuerint negle ctæ, tunc liber SVPERFICIARVS dice tur.
Huiusmodi vero libris Rempublicam ca rere litterariam, foret maguopere optandum.
189. PERSPICVITAS in verborum pro prietate, iustaque eorum cum ideis pro
portione sita est. Verborum PROPRIETAS es'git, ut voces omnis secundum usum
loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque definitionibus deter
spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit, ut liber non sit
prolixior, nec brevior, quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum enim prolixitas
verborum mul titudine mentem obruit: ita et nimia brevi tas Auctoris sensum
occultat, adeoque am bæ oliscuritatem pariunt, scilicet vitium per spicuitati
oppositum Vid. Heinec. Fundam. Stili culiior. Part. S. cap. 2 §. 50. Cap.
VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex
veritatibus et principiata, ut aiunt, ex principiis legitimo et continuo sint
deducta, nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur; denique si ea præcesserint,
per quæ sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA
tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones
exhibeat Auctoris fin i suf ficientes: qui namque finem non ahso lvit,
INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret, si sufficientiæ particu lares
characteres, hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus.
Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse: id enim ex attenta cuinsque
libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita
tum inter se connexurum, et a prin cipiis suis legitime deductarum. Et quia id
quatuor, quas recensuimus, dotibus absolvitur: hinc est, ut Logici dicant,
librum quemcumque scien titicum systematice scribi oportere. Non omnes tamen qui libros scribunt systema
conficere possunt; sed ii tantum qui veritates a se detectas, et ad eumdem Logica
> scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem, qui alienis
laboribus insudant, alii sunt COMPILATORES, qui aliorum opera hinc inde
dispersa colligunt, atque in lucem edunt, mulla ordinis habita ratione; E
PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem
reprehensionem numquam, quandoque vero laudem (illi præcipue ) ab eruditorum
universitate reportant. Sunt vero quidam, qui aliorum scripta suffurantes ea
typis man dant, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt, iique PLAGIARII
nuncupantur. De his autem quidnam dicendum, sit, omnes no runt. SECTIO II. De
Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur, qui alios voce ad rerum
ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus, qnas tradit, certos reddit,
atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu, par tim a natura, partim
a voluntate penden tes, sunt quatuor: ab intellectu SOLIDITAS, et in doendo
PRUDENTIA; a na tura DOCENDI DONUM; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca
disquiremus. De Verit. Commun. Ex doctoris
definitione sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is,
qui doctoris munere fungi vult; adeoque 2. prima et præcipua eius virtus sit
SOLIDITAS qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis
illustret, at que propositionum omnium sive a se, si ve ab aliis enunciataruin
analysin instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles
illustrentur, ægre ab auditoribus au dietur, quibus abstrahendi ars vel ignota
prorsus est, vel laboriosa: adeoque tædium concipientes attentione carebunt
nihilque intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor
auditores suos de veritate cerlos reddere debet (S. 184. ); ad certitudinem
autem ducit demonstratio: consequens est 5. nt scientia præditus, verborum
facilitate in fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat.
Et quia au ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur:
patet 6. Doctorem
DOCENDI DONO in. signitum esse debere, idest dicendi promti tudine et suavitate,
quo deficiente, ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II.
parvum in eo 9 a do Vt enim auditor sit
attentus, cavere debet qui eum docet, ne tædio, eum adficiat. Tæ dium autem
haud excita bit, si verborum inopia, dicendi infelici tate, animique
imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo attentionem minuet sed et
illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine
senserit destitutum, ei auctores fuerimus, ut cendi munere se abstineat, si
operæ preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non eadein omni bus est
adolescentibus perspicacia, que non tam voce, quam exemplo erudiuntur: liquido
infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad discentium captum ge
niumgne adcommodandi. ac media ad fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex
sequendis præceptis auditores manuducat, seque iis pracheat antecessorem: præcipue
veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur institutic, animum ipse prius
ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et
hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a
præceptis dis crepent, nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit, et
adolescentes exemplum potius malum, quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De
verit. commun. 237 nihil, præter præceptoris imitationem, præ se ferent: quum
bene monuerit Iuvenalis: Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos.Postrema
doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis
pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi
promtitudine, patientia patientia, et labore hæc auien omma nisi ab iis, qui
nos amant, sperare non possumus: recte infertur 10. doctorem sincero audi tores
suos amore prosequi; adeoque 11. et studio; 7 commoda promoveadi adfcctum esse
debere. eorum * Quam necessaria sit hæc in doctore virtus, ex sequentibus
alimde patebii. Si namque amor deficiat, et studium deerit disceniium utilitati
inserviendi: ac proinde pro doctore exsurget mercenarius vel utilitati, vel
existi mationi propriæ consulens; et tanc nec morun ratio umquam habebitur, et
omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si hæc omnia ponantor, habebimns
magistrum, vel leo poribus inservientem, in muneris exercitio ne gligentem,
timidum, sui dumtaxat studio abreptum, et ad vilissima quæqne facilem; vel
inaccessibilem, clatum, ' omnia sibi per mitientem, quandoque etiam garrulum,
ét e cathedra, tamquam e suggestu, aliorum no mina lacerantem, quo tutius
possit de suis virtutibus declamare. 198. Si virtutum quas recensuimus opposita
evolvautur, illico doctorum vi tia ad parebunt, quæ breviter enumera bimus. Eorum primum et præcipuum est IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio.
Huius effectus sunt 1. obscuritas, qua fit, ut talis doctor terminis inanibus,
vagis obscuris, nec recte definitis sit con tentus, resque difficiles exemplis
illustrare nequeat: 2. confusio quæ methodi negli gentiam, analyseos
ignorantiam, ac con vincendi impoientiam parit: 3. docendi ineptitudo; quum
enim ars ignoratur et methodus, deficit prompitudo et suavitas, quibus ducendi
donum absolvitur * (S. 95.): 4. molesta prolixilas, aut obscurabre vitas;
ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur, quo fit, ut vel
inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus rei explicandæ
verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum omissio, quam veram
ignorantiæ causam esse ait Sencea (S. 103. * ): 6. ser monis barbarics, cui
proxima est obscuri. tas et tædiuin, adeoque ad minuendam ten dit attentionem.
Non desunt equidem, qui naturali quodam suavitatis defectu laborantes nec genio,
nec captui auditorum se accommodare sciunt, li cet doctissimi sint et omnimoda,
eruditione præditi. Naturalis autem hæc imbecillitas non inter vitia sed inter
defectus est referen da, adeoque imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi
doctoribus lepor desit: me diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiæ subsidia
præsto sunt. Ineptitudinis
ergo caussa non alia adsignari debet, quam impe ritia, scilicet soliditatis
absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est
IMPRVDENTIA in docendo, quæ in caussa est, ut auditorum Caplui genioque se
adcommodare, atque media ad finem ducentia excogitare, ac proinde animis morbo
aliquo laborantibus mederi nesciat. Quæ enim prudentia in imperito? Imprudentiæ
quoque debetur illa pædagogo rum imbecillitas, qua inter se invicem de
futilibus inoptisque rebus decertantes, vel aliis invidentes discentium animos
adversus æmulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones dicacitatesque concitant:
quo fit, ut ipsi in spretum et abietionem incidant, adolescentes contra
pessimos, audaces, ridiculosque mo res induant. Logica Ad voluntatis vitia, quæ
amorem excludunt, referuntur: AMBITIO, si ve nimia gloriæ laudisque cupiditas,
qua fit, ut vana eruditionis, autº eloquentiæ ostentatione, nimioque sermonis
fuco di sciplinarum præcepta non explicentur, sed implicentur, propriæque
existimationi potius, quam discentium utilitati doctores consulant. AVARITIA,
quæ omnia trabit commodum efficitque, ut sola sit utilitas iusti prope mater et
æqui: VOLVPTATIS CONSECTATIO, quæ ignaviam, laboris im pa tientiam oilierique
neglectum parit, atque soliditatis defecium arguit, quum bene monterit
Genuensis.noster: difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et
mollem, ad suum Inde quoque fluxit Cynicus iile mos, et ef frænis alios
lacerandi consuetndo, quæ in caussa fuit, ut de quorumdam adolescentum
petnlantia ad satyras proclivium emunctæ næ ris homines conquesti · gint:
videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam
paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa
docentium præsumtio, qui, ne discipulus supra magistrum esse vie deatur, vel aliquot
sublimiores doctrinas sla . De verit: commun.
bi solis reservant, vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac
despiciunt. Præterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit,
eosque opinionum singularium et ab surdarum, sæpe etiam impietatis studiosos
efficit: id quod maximo adolescentihus detri mento est, præcipue quum
auctoritatis præ indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. Quando quis avaritiæ studet, non aliorum, sed
sua tantum commoda promovet, idque per fas an nefas, nihil sua referre videtur.
Hinc auditorum quosdam opibus pellantes, vel præceptorum gratiam muneribus
ementes reliquis præferunt, eos seorsum instruunt, ac speciali cura in
aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque prædilectione prosequuntur, ut se
aliorum odio, invidiæ vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro.
ficiant. Art. Logicocritic. Voluptati
nanque dediti plerumque sunt ignavi, desides, et laboris impatientes; atque
inde fit, ut non satis præparati ad doces dum accedcntes in lycæo quidquid in
buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis, ut Servator ait, os
loquitur, bonos persæpe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat
etiam meticulosi, adeoque veritatem, quam alias intrepido vultu, si ri te
munere suo fungi vellent, dicere debe ne aliorum indignationen incurruni L neque illi reni, ) Logica . aut dissimulant, aut tegunt, aut (quod
val de dolendum ) foede corrumpunt. Præterea in huiusmodi hominibus ridicula quædam
et thrasonica reperitur ambitio, scilicet pædan tismus', quo furentes nusquam,
nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum, que risui se
exponunt. 201 • Superest, ut doctrinæ usum do etorumque officia exponamus, ut
si qui munus hoc inire cupiunt, bene incipere, feliciusque prosequi possini.
Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis, hos diligenter
observato: CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiæ umore
Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sæ pius, ac vitia, quibus eos
laborare per cipis, prudenter sensimque corrigito. Doctoris munus, nisi solida artis methodique
cognitione imbutus, ne te mere suscipito: idque summa fidelitate, prucuttia, ac
sincero erga discentes amore absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili .
De Verit. comm. busque disciplinis non
tam voce, quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz
que, teste Augustino, docendi genus est subiectio exemplorum. 4. Religionis
amorem, morumque in tegritatem in discentibus foveto, neque te illis familiarem
nimis reddito, ne, excusso subiectionis fræno, doctores parvipendentes nihil
proficiant, et ad pessima quæque præcipites ruant. "De Discentium dotibus
ac nævisn's 202, Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco
ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi; solidache imbui co gnitione, quæ
non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac
distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a præiudiciis: Quidquid
ergo attentionem tur bat, vel præiudicia fovet, ab iis abesse debet. Priina
ergo et maxima discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga
stu. dia et docentes AMOR, LABORIS
PATIENTIA et otii fuga, + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO. It * Bonæ mentis
vocabulo intelligimus non mo do naturalem ingenii perspicaciam, cuius de fectus
hominem reddit cognitionis incapacem, verum etiam animum bene educatum vcræ que
Relligionis amantem: quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiæ
esse timorem Domini. Hoc est libertas a
præiudiciis,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quæcunque præcepta
ediscenda, et ad pra xin adplicanda. ID adeo Si namque Doctores et studia
amemus, his sedulam navamus operam, illosque atter te auscultamus: si vero amor
hinc absit, tædium supervenit., attentio minuitur, que aut parum aut nihil in
studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiæ cause est, ut
dixiinus; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione
inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt, ut ex superioribus
abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo præiudicio rum
fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit: adeoque solum
oportet esse, qui sa pientiæ sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant
discentium vitia, qualia sunt 1. Religionis spretus, quem conse quitur
voluntaria præiudiciis adhæsio, 2. mentis hebetudo, 3. attentionis distra ctio,
4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima, 4. aversio a
studiis vel doctoribus, denique spe
ctaculorum, multitudinis, et sodalita tum amor, quo fit, ut attentio distraha
tur ($. 40. Schol. Can. 5. ), et ad voluptatem inde ac perditionem
praccipiti Cursu ruant. Schol. Quæ de discentium officiis tra lendæ forent
regulæ, eæ ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci po erunt.
Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De litterario
certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque
disputationes, quæ pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur.
Hæ disceptationes similiter vel scriptis, vel vo. ce liont: et quidem SCRIPTO,
vel alio rum errores confutamus, vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus:
VOCE autem rationes utrinque conficiuntur, et ad examen revocantur. Si ergo
alterius errores scripto detegantur, actio hæc dicilnr CONFITATIO; si pro
positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram
disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris
convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris
convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit
demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis
sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia
eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem
inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari
non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariæ confutationem. Antequam
vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVÆSTIONIS conficere, idest verum
suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le
demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur,
cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur
et impugnatur, adeoquc insurgit quæstio de verbis. Vid. Weienfelsium
de logomachiis eruditorum. Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia
probabilia et precaria, tunc non con L'utilis, sed IMPVGNATIO dicetur.
Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici, ut eius
veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio, id quod infra
in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; hæc autein requirit,
ut con vincendus sit attentus, nec adfectus in eo attentionem turbantes
exciteptur: liquido infertur 5. confutantem ea omnia quæ attentionem in altero
per turbant, atque adfectus excitant, vitare debere; consequenter 6. a
conviciis, ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quæ confutandi famam lætlunt,
abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSÆ huiusmodi CONSEQVENTIÆ, quæ non quidem
ex genui no Auctoris sensi, sed ex confutantis opi nione eruuntur, quæque non
veritatis de fendendæ gratia deducuntur, sed ut adver sarii fama in discrimen
vocetur, isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con sequentiaruin
confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. . Qaum ergo consequentiæ
pericu losæ aliorum odium Auctori concilient eique invidiam creent: non abs re
a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia
fuerunt appellatæ. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando
sollicite esse vitandum; a deoque 8.non abs re consequentiarios a Wolfio
PERSECUTORES cognominari. Logic. Lat.
Idque iure merito. Nam confutator vere dicitur, qui veritatem ab al terius
paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem, sed adversarii famam perse
quitur, nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id
non rationis auxilio, sed invidiæ stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in
confutante solius veritatis amor exigitur: ut in con futatione nihil vel
minimum peccetur, hos qui sequuntur, servare curato. CANONE S. I. A, D
confutandum solo veritatis a more, non odio adversus alte rum ductus accedito.
Adversarium soli dis rationibus non conviciis, dictisve famæ nocentibus de
errore et falsitate convincito. 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius
scripsit, ut dictionem corriagat, seque intelligendum præstet, ad wertito. Si
quid ab altero in demonstran do peccatum, sive principia falsa sint, sive
connexio illegitima, cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis
rigidus custos principiorum diligens investigator esto, ne tibi ab adversario
nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI, QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO
est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio. Ex eadem ergo
definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit,
ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide
demonstrare, aut 3. si de terminis tan tum quæstio sit, eos adcuratis definitio
nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim
propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus, vel Cap. ult. De
litt. ccrtumine. impugnantis errores
itidem detegimus. Pri mæ classis seripla dicuntur APOLOGE TICA; alterius vero
POLEMICA vel E RISTICA. * jin, * Horum quidem scriptorum minorem num rum
Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur, nec ratio
perfici tur, sed contentiones animique perturbatio nes aluntur, nulla prorsus
utilitate, magno autem Societatis, ac iuventutis studiosæ malo.? . Defendenti
ergo, ne a recto. aber ret, Sequentes proponimus., C ANONES. 1. PhoRopositionem
a te légitime demon Stratam, aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab
alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito??
2. Eius, qui te maledictis conviciis que læsit, scriptis
modesto respondeto silentio. la cedendo
victor abibis. Si namque simili stilo,
respondeas, nullum operæ pretium facies, adversarii petulantiam temeritate lua
iustificabis, inque idem vitium incides, quod in alio reprehendis. Quidquid ab
altero tibi impugnari sentis, in eo tua versetur defensio. * Si vero argumentis
ab invidia periculosis que consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris,
sat est eius malitiam et nocendi studium ostendere teque commiseratione potius,
quam ira per citum perhibere. Si ergo deverborum sensu quæstio sit, eum te
explicasse sufficiet: si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem
ostendas oportet: si in demonstrationibus te ar guere velit, earuin legitimam
connexiouem præ oculis ponere; si vero aliqua consequen tia absurda tibi impPombaur,
aut ipsius conse quentiæ veritatem, aut eam ab adversario non recte deductam,
demonstrare debebis. Quod si persecutor obscuræ famæ
sit, te tacente veritas ipsa loqietur, tuaque mo destia impudeutem adversarium
confusione " obruet. Ad veritatis tandem disquisitionem acMilanius, quæ
non scripto, sed voce fit, quæque disputationis no. De litt. certaminemine
venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea
tribus ' personis absolvitur, quarum una propositionem'impugnat, altera eamdem
defendit, tertia vero huic suppetias fert. * Adeoque qui veritatem
difficultatibus du bisque implicat, OPPONENS; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione
vindicat, DEFENDENS, vel RESPONDENS; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert,
PRÆSES aupellatur. Ex qua definitione liquet 1. di-, sputationem esse
impugnationem proposi tionis veræn eiusque. defensionem; ideo que 2., utramque
demonstratione absol vi, ut disputantium alteruter de veri tate convincatur;
quare 3. quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam
intelligatur, præ cipue vero 4. status quæstionis formandus et 5. oportet, ut lingua loquantur clara et
intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec
lingua deficiat. Su
per omnia autem 7 affectibus carcant, odio, præsertim et invidia, Non enim ad
rixandum, sed ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque
pariunt, quibus attentio turbatur (S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge
debent ab esse, ne ira odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant, ut
potius.a convicis ad manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di
sputantes debere in terminis contradicto. riis versari, hoc est ut idein ab uno
a d. firmetur, ab altero negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione
requiritur; eruitur 9. disputantes debere in terminorum notionibus convenire:
quapro pter 10 si verborum sensus- lateat, eorum explicationem a respondente
peti posse, ut in claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic
logomachiæ vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est, vel DIALECTICA. Illa
continuato ac pæne oratorio dicendi genere, hæć syllo gistico more conficitur.
In illa opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat,
respondens contra eodemstilo obiectiones diluit, ihesiique defendit; in hoc
vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat,
' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad
trutinam revocans propositiones veras concedit, falsas negat, dubiasque
distinguit, eoque progre diuntur, donec ad principia perveniant.Addi potest
methodus disputandi SOCRATI CA, quæ Opponentis interrogationibus, et
Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem
ab usu recesserit: ab eius explicatione merito ab stinemus: in ipsis tamen prælectionibus,
quæ de ill a dicenda forent, paucis expe diemus. Vides ergo methodum Academicam
ad eru ditionis et eloquentiæ ostentationem in Aca demiis præ se ferendam unice
inventam esse. In disputando autem, quum homini pede stanti in uno ñec eruditio,
nec verborum copia præsto esse possit, Dialectica metho dus merito præterenda, Vtcumque
vero disputatio instituatur invabit disputantiirin munera paucis expo nére: id
quol sequentibus exequemur re gulis. Et primo quidem amborum, dein de
opponentis; postremo respondentis mu nia recensebimus. Quisquis ergo ad dis
putandum accedis, hos religiose castodito: Phim Rimum omnium controversiæ sta
tum conjici !). Nihil porro, nisi terminis claris fixisque expressum, in e am
incidito. Obscura quæque explica to. 2. Dispu'ans adfectibus vacuus, veria
tatis tantum amans, eiusque invenienda cupidus esto. Cuncta modeste, suaviter,
amice proferto. Convicia et dicta mor dacia, velut angiem, fugito. OPPONENTIS hæ
fere partes sunto. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris, syllogisticam
artem cuidi ha beto. Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias,
proponito. Conclu sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si
quid a respondente tibi propo nitur explicandum, explicato: si vero probandum,
tamdiu syllogismorum, au xilio probato, donec ad principia per veneris. Ad
singula respondentis verba et distinctiones attendito. Si illa obscura sint,
illi explicanda dato; si vero clara, Cap. ult. De litt. certamine. novas exceptiones,
prout res tulerit, contra formato. Praecipue videto, si ad versarium ex
assertis suis convincere et refutare, proprioque, ut aiunt, gladio iu gulare
possis Et hoc est, quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa
tur lo. Lockius de intell. bum. IV. ., qui eius insufficientiam in vero
inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus
litterariis, quae coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione
fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue
datum. Argumentum opponentis prius repe tito, deinde sedulo perpendito, num de
bila gaudeat soliditate. Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur, probatio nem
postulato. Syllogismum in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit
materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones falsas negato, veras concedito,
dubias vero distinguito: sed de omnibus rationem reddere memento., ne
ridiculas, evadas. Logic. Perridicula
ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega, numquam concede raro distingue.
Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis, vel ut ne gationis
caussam adferas, vel ut lucem quo que neges meridianam: utrumque homini sen
sibili acerbissimum.. 8. Si oppositae propositionis impossi bilitatem
demostrare possis; nihil ultra oneris habebis. Si vero in auctoritate probatio
' versetur: sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus re
fellere. 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit
insidias: ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi
regulac usu magis ct exercitio, quam praeceptis, ad discuntur '. Si tamen
dicendum quod res est, in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas,
sed promtitudo, immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius, quam
invenitur: Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad
disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru. in Plit. instrum. Pur: III.
Cup.. g. 11. SMART (In The Continuum Encyclopedia of British Philosophy – he
lived in London where he was a mmber of the Athenaeum, the address of which he
gives in several of his essays. He defends Locke from the criicisms of Scot
HAMILTON, and especially Irishman Whately, in ‘Thought and language: an essay
having in view the revival, correction, and exclusive establishment of Locke’s
Philosophy, Longman), AN OUTLINE OF SEMATOLOGY; OR,
AN ESSAY TOWARDS ESTABLISHING A NEW THEORY OF GRAMMAR, LOGIC,
AND RHETORIC. Perhaps if words were distinctly weighed and duly considered,
they would afibrd us another sort of Logic and Cretic, than what we have
been hitherto acquainted with. Locke. LONDON: JOHN RICHARDSON,
ROYAL EXCHANGE. G WOODPALL, AHQEh COUBT, •KllfWl* tTRWT, LOWDON. I PUT not my
name to these pages, nor shall I, beyond this notice, speak in the first
person singular, but assume the pomp and cir- cumstance of the editorial
"we". Why I choose for the present to remain unknown, I
leave the reader to settle as his fancy pleases. He is at liberty to
think that, being of no note or reputation, and fearing for my book
the fate of George Primrose's Paradoxes, I do not place my name in the
title page, because it would inevitably make that fate more certain. Or,
if he chooses, he may imagine a better motive. He may suppose me to
be the celebrated author of * *, with half the alphabet in capitals
at the end of my name ; and that I prefer an incogfiito, lest he,
my "cotirteous reader", should relax the rigour of examination,
and receive as true, on the authority of a name, a theory that may
be false. In the last chapter of Locke's Essay on the Human
Understanding, there is a threefold division of knowledge into ^uo-t*^,
TrpaxriK^, and trtjfieiaTiK'^. If we might call the whole body of
instruction wliich acquaints ua with TO. <f>v<TtKa by the name
Physicology, and that which teaches to -irpaKTixa by the name
Practkology, all instruction for the use of TO <7?j^aTo, or the signs
of our knowledge, might be called Sematology. Physicology, far more
comprehensive than the sense to wliich Physiology is fixed, would in this
case signify the doctrine of the nature of all things what- ever
which exist independently of the mind's concep- tion of them, and of the
human will ; which things in- clude all whose nature we grow
acquainted with by ex- perience, and can know in no other way, and
therefi>re include the mind, and God ; since of the mind as well
as of sensible things we know the nature only by ex- perience, and since,
abstracted from Revelation, we know the existence of a God only by
experiencing His providence, Practicology, the next division, is
the doctrine of human actions determined by the will to s
preconceived end, namely, something beneficial to in- dividuals, or to
communities, or the welfare of the kJ The signs which the mind makes
use of in order to obtain and to communicate knowledge, are chiefly
words; and the proper and skilful use of words is, in different ways,
the object of, 1. Grammar, of 2. Logic, and of 3. Rhetoric. Our
outline of Sematology will therefore be comprised in three chapters,
corresponding with these three divisions. species at large. As to
Sematology, the third division, it is the doctrine of signs, showing how
the mind operates by their means in obtaining the knowledge comprehended in the
other divisions. It includes Metaphysics, when Metaphysics are properly limited
to things TB /*ETa Tct pi/fiKa, i. e. things beyond natural things things
which exist not independently of the mind's conception of them ; e. g. a
line in the abstract, or the notion of man generally: for these are
merely signs which the mind invents and uses to carry on a train of
reasoning independently of actual existences; e. g. independently of
lines in concrete, or of men individually and particularly. But as to the class
of signs which the former of these instances has in view, and which
are peculiar to Mathematics, there will be no necessity, in this
treatise, to make much allusion to them: it is to the signs indicated by
the other example that reference will chiefly be made: for these are
the great instruments of human reason, and we believe they have
never yet had their suitable doctrine. To ascertain the true principles
of Grammar, the method often pursued will be adopt- ed here j namely, to
imagine the progress of speech upward as from its first invention.
As to the question, whether speech was or was not, in the first
instance, revealed to man, we shall not meddle with it : we do not
propose to inquire how the first man came to speak Beattie and Cowper,
poets if not philosophers, ate among those who insist that speech must
have been revealed. The former thus turns to ridicule the well L
known passage in the Satires of Horace, Cvm prorepseruntf &c. lib. I.
Sat 3* v. 99 : When men out of the earth of old A dumb and beastly vermin
crawled. For acorns, first, and holes of shelter, • They, tooth and
nail, and bdter dceker, B 2 4 ON CiSAUMAH. [CHAP.
I. but whether language is not a necessary effect of reason,
as well as its necessary instrument, Fought fist to fist ; then with a
club Each learned hia brother brute to drub ; Till more experienced
grown, these cattle Forged fit accoutrements for battle. At last,
(Lucretius Bays, and Creech,) They set their wits to work on speech
: And that their thoughts might all have marks To make them known,
these learned clerks Left ofi' the trade of cracking crowns, And
manufactured verba and nouns." Theory of Language, Part I. Chap
6. (in a note.) The other poet does not, on this occasion, appear
in metre, but is equally merry. " I ta';e it for granted
that these good men are phi- Bophically correct in their account of the
origin of language ; and if the Scripture had left us in the dark
upon that article, I should very readily adopt their hypothesis for want
of better information. I should suppose, for instance, that man made his
first effort in speech in the way of an interjection, and that ah !
or oh ! being uttered with wonderful gesticulation and variety of
attitude, must have left hia powers of ex- presdon quite exhausted ;
that, in a course of time, he would invent many names for many things,
but first for the objects of his daily wants. An apple would
consequently be called an apple ; and perhaps not SECT. 1.]
ON GRAMMAR. 5 growing out of those powers originally bestow-
ed on man, and essential to their further deve- lopment. many
years would elapse before the appellation would receive the sanction of
general use. In this case, atid upon this supposition, seeing one in the
hand of another man, he would exclaim, with a most moving pathos, *
Oh apple !' Well and good, ' Oh apple,** is a very affecting speech, but
in the mean time it profits him nothing. The man that holds it, eats it,
and he goes away with ' Oh apple!** in his mouth, and nothing
better. Reflecting on his disappointment, and that perhaps it arose from
his not being more explicit, he contrives a term to denote his idea of
transfer,, or gratuitous communication, and the next occasion that
offers of a similar kind, performs his part accordingly. His speech now
stands thus * Oh give apple ! ** The apple-holder perceives himself
called upon to part with his fruit, and having satisfied his own hunger,
is perhaps not unwilling to do so. But unfortunately there is still
room for a mistake, and a third person being present, he gives the apple
to him. Again dis- appointed, and again perceiving that his language has
not all the precision that is requisite, the orator retires to his study,
and there, after much deep thinking, conceives that the insertion of a
pronoun, whose office shall be to signify, that he not only wants the
apple to be given, but given to himself, will remedy all
defects; Now instead of taking it for granted, as others have done
who have pursued the method proposed, that men sat down to invent
the parts of speech, because they found they had ideas which
respectively required them, we as- sert that men have originally no such
ideas as correspond to the parts of speech. The im- pulse of nature
is, to express by some single sound, or mixture of sounds (not divisible
in- to significant parts) whatever the mind is conscious of; nor is
there any thing in the na- ture of our thoughts that leads to a
different procedure, till artificial language begins to be he
uses it the next opportunity, succeeds to a wonder, obtains the apple,
and, by his success, such credit to his invention, that pronouns continue
to be in great repute ever afl^er. Now as my two syllable-mongers,
Beattie and Bl^r, both agree that language was originally inspired, and
that the great variety of languages we find on earth at present, took its
rise from the confusion of tongues at Babel, I am not perfectly
convinced, that there is any just occasion to invent this very ingenious
solution of a diiEculty, which Scripture has solved already."
Letter to the Rev. Wm. Unwin, April 5, \'J8i. invented or imitated.
Let us take, for our first fact, the cry for food of a new-born infant:
that is an instinctive ciy, wholly unconnected, we presume, with
reason and knowledge. In proportion as the knowledge grows, that the
want, when it occurs, can be supplied, the cry be- comes rational,
and may at last be said to signify, " Give me food," or more at
full," I want you to give me food." In what does the rational
cry, (rational when compared with the instinctive cry,) differ from the
still more rational sentence? Not in its meaning,but simply thus, that
the one is a sign suggested directly by nature, and the other is a sign
aijsing out of such art, as, in its first acquirement, (we are about
to presume,) nature or necessity gradually teaches our species. Now, that the
artificial sign is made up of parts, (namely the words that compose the
sentence,) and that the natural sign is not made up of significant
parts, we affirm to be simply a consequence of the constitution of
artificial speech, and not to follow from any thing in the nature of the
communication which the mind has to make. The natural cry, if understood,
is, for the purpose in view, quite as good as the sentence, nor
does the sentence, as a whole, signify any thing more.Taking the words
separately, there is indeed much more contained in the sentence
than in the cry; namely, the knowledge of what it is to give under other
circumstances as well as that of giving food ; oi'Jbod un- der
other circumstances as well as that of being given to me; of me under other
circumsttances as well as that of wanting food: but all this knowledge,
in this and similar cases for which a cry might suffice, is unnecessary,
and the indivisible sign, if equally understood for the actual purpose,
is, for this purpose, quite adequate to the artificially compounded
sign. The truth is this, that every perception by the senses, and
every conception which [By Conception I mean that power of the
mind, which enables it to fonn a notion of an absent object of
perception ; or of a sensation which it has formerly follows from such
perception, as well as every desire, emotion, and passion arising out
of them, is individual and particular; and if language had continued to
be nothing more than an outward indication of these its passive
affec- tions, it would have consisted of single indivi- dual signs
for single individual occasions, like those which are originally prompted
by nature. But it was impossible to find a new sign for every new
occasion, and therefore an ex- pedient was of necessity adopted; which
expedient, from its rudest to its most refined ration, will be found one and
the same, an expedient of reason, and that through which all the
improvements of reason are derived. The expedient is nothing more than
this : when a new expression is wanted,
two or more signs, each of which has served a particular purpose,
are put together in such a manner as to modify each other, and thus, in
their united fclt." Stewart : I'hilos. of the Human Mind, Vol.
I. Chap. 3. [capacity, to answer the new particular purpose in
view. In this manner, words, individually, cease to be signs of our
perceptions or con- ceptions, and stand (individually) for what are
properly called notions', that is, for what the mind knows ; collectivelif,
that is, in sen- tences, they can signify any perception by the
senses, or conception arising from such per- ception, any desire,
emotion, or passion in short, any impression which nature would
have prompted us to signify by an indivisible sign, if such a sign could
have been found : but individually, (we
repeat,) each word be- longing to such sentence, or to any
sentence, is not the sign of any idea whatever which the mind
passively receives, but of an abstractiont • Notio or notitia from
oco, I knov. (It is a pity we cannot trace the word to ado instead of
noac.->.) Note, Locke will be mucli more intelligible, if, in
the majority of places, we substitute " tlie knowledge of"
for what he calls " the idea of" His wide use of the word idea
has been a cause of the widest con&slon in other writers.
t Home Tooke's doctrine is very different from wliich
reason obtains by acts of comparison and judgment upon its
passively-received ideas. tbis. He says (Diversions of Purley [2d
edit. 1798] Vol. I. page 51,) " That the business of the mind,
as far as regards language, extends no further than to re- ceive
impressions, that is, to have sensations or feel- ings"; he affirms
(pa££^im) that what iscalled abstrac- tion has no existence in the mind,
but belongs to lan- guage only, and that " the very term metapht/sic
is nonsense "' {page 399). It is hoped that what follows in
the test will prove these opinions to be erroneous. Could the proper name
John, or any word being an artificial part of speech, have been invented, if
the mind had not exerte d its active powers upon its passively
r&- ceived ideas ? For whatever ideas of this last kind we have
of John must be ideas arising out of particular perceptions ; and ve must
irame him to our minds standing, or sitting, or walking; talking, or
silent; dressed or undressed, with other circumstances which
imagination can vary, but cannot set aside. It is only by comparison that
we know John to be independent of all these, and the name is the effect
of this know- ledge, not the cause of it. The abstraction is not in
the word only ; for till we know that Jolm is separate (abstract) from
whatever circumstance the perception of him includes, how can his name
exclude it ? Neither is the terra iiietaphysic nonsense when applied to
this The sentence " John walks " may express what is
actually perceived by the senses ; or any other abstraction. For John
separate from circumBtancea that must enter into an actual perception,
ifithe nameof anotion /iCTa^ua-ixii, i.e.outof nature, or of which we
have no example in external nature, though it may esist in our minds,
like a line in mathematics, which is deifined as that which has length
without breadth, and which is therefore, for the same reason,
properly called a metaphysical notion, and pure mathematics are justly
considered a part of metaphysics. It was because H. Tooke set out with
these principles thus fiindamentally erroneous, that he could not complete
his system when he had brought it to ail but a close. With admirable
acuteness of inquiry, he had tracedup every part of speech till he found
it, originally, either a noun or a verb, and he then left his book
im- perfect, because he could not, on the principles he had started
with, explain the difference bet ween these : he promised indeed to
return to the inquiry, but he never fiiliilled his promise for the best
of reasons, that there was no pushing it further in the way he had gone ;
he must have contradicted all his early premises to have reached a
true conclusion. The whole cause of his error seems to havebeen a too
unqualified understanding of Locke's doctrine, that the mind has no
innate ideas. but neither word, separately, can be said to express a
part of that perception, since the perception is of John walkmg, and if
we per- ceive John separate from walking, then he is not walking,
and consequently it is another perception ; and so if we perceive walking
se- parately from John, it must be that we perceive somebody else
walking, and not him. The separate words, then, do not stand for
passively received ideas, but for abstract notions ; so far as they express
what is pec- ij ceived by the senses, they have no separate meaning
; it is only with reference to the un- derstanding that each has a
separate meaning. The separate meaning of the word John is a
knowledge (and therefore properly called a I notion not an idea*) that
John has existed and ] Hence, TOOKE acknowledges nothing originally
but ] the senseB, and the experience of those senses, calling reason
" the effect and result of those senses and that experience."
See Vol, II. page 16. " If indeed the word idea were uniformly
employed to signify what is here meant by notion, and nothing else,
little objection could be made: such use would will exist, independently
of the present perception, and the separate meaning of the word •walks,
is a linowledge that another may waik as well as John. This is not an
idea of John or an idea of walking such as the senses give, or such
as memory revives : for the senses present no such object as John in the
abstract, that is, neither walking, nor not walking; nor do they
furnish any such idea as that of •walking inde- pendently of one who
walks. There is then a double force in these words, their separate
force, which is derived from the understanding, and their united force,
by which, in this instance, they signify a perception by the senses.
nearly correspond in effect though not in theory, with the old
Platonic Bcnse, and in the Platonic sense Lord Mooboddo constantly
employs it in his work on the "Origin and Progress of
Language." But as Dr. Reid observes, ** in popular language idea
signifies the same thing as conception, apprehension. To have KD
idea of a thing is to conceive it." This sense of the word Dugald
Stewart adopts. (Philos. of the Human Mind, Vol. L Chap. 4. Sect. 2.)
Locke, as already intimated, uses the word in all the senses it
will bear. In otlier instances, the united significa- tion of words
may not be a perception of the senses j but whatever may be their
united meaning, they will separately include know- ledge not
expressed by the whole sentence, though, if the meaning of the sentence
be ab- stract, the knowledge included in the separate words will be
necessary to the knowledge ex- pressed by the sentence. " Pride
offends," is a sentence whose whole meaning is abstract; but
pride separately, and offends separately, are still more abstract, and in
using them to form the sentence, we refer to knowledge be- yond the
meaning of the sentence as a whole, namely, to pride under other
circumstances than that of offending, and to offending under other
circumstances than that of pride offending; and here, tlie knowledge referred
to seems necessary, in order to come at the knowledge expressed by the
sentence. " John walks," (or, according to our English
idiom, " John is walking,") is a perception by the
senses, and does not therefore depend on a knowledge of John, and of
walking in the abstract ; (though to express the perception in this way
requires it;) but " Pride offends," does not express an
individual perception, nor would many individual perceptions of
pride offending give the knowledge which the sen- tence expresses :
we must have obser\'ed what pride is, separately from its
offending, and we must have observed what offending is, separately
from pride offending, before we can rationally understand, or try to
make known to others, that Pride offends. In this DOUBLE force of
words, by which they signify at the same time the actual thought, and
re- fer to knowledge necessary perhaps to come at it, we shall
find, as we proceed, the ele- ments, the true principles of Logic and
of Rhetoric; while in tracingthe necessity which obliged men to
signiiy in this manner even tliose individual perceptions which
nature would have prompted them to make known by a single sign, (if
such sign could have been found,) we shall ascertain the true
principles of Gkammau. The last mentioned subject must occupy
our first attention. 5. To get at the parts of speech on our hypothesis,
we must consider them to be evolved from a cry or natural word. Not that
this is the present principle on which words are invented ; for art
having furnished the pattern, we now invent upon that pattern j but
our purpose is to consider how the pattern itself is produced by
the workings of the human mind on its first ideas. Those ideas can
be none other than the mind passively receives through the senses ;
and perhaps the first active operation of the mind is to abstract (sepa-
rate) the subjects or exterior causes of sensa- tion from the sensations
themselves. When we see, we find we can touch, or taste, or smell,
or hear ; and when the perception through one of these senses is
different, we find a difference in one or more of the others. We
also recollect (conceive) our former per- ceptions, and finding the
actual sensations not recoverable by an effort of the mind alone, we
recognize the separate existence of the ma- terial world. All this is
Knowledge, acquired indeed so early in life, that its com- mencing and
progressing steps are forgotten ; but we are nevertheless warranted in
affirm- ing that not the least part of it, is an original gift of
nature. Along with this knowledge we acquire emotions and passions ; for
to knoia material objects, is to know them as causes of pleasurable
or painful sensation, and hence to feel for them, in various degrees, and
with various modifications, desire and aversion, joy and grief,
hope and fear. And here, as the same object does not always produce the
same emotion, or the same emotion arise from the same object, we
begin a new class of abstractions: we separate, mentally, the object from
the emotion or the emotion from the object: we are enabled in consequence
to abstract and consider those differences in the objects, from
which the different effects arise, and to ascer- tain, by trial, how far
they yield to volition ope- rating by the exterior bodily members,
which SECT. we have previously discovered to be subservient to the
will. In this new class of abstractions, and the consequences which arise
from them, we shall find the beginning of that knowledge which
human reason is privileged to obtain, compared with that which the higher
orders of the brute creation in common with man, are able to reach
j and from this point we shall be able to trace how man becomes
/ie'poyjr, or divider of a natural word into parts of speech *,
while other animals retain unaltered the cries by which their desires and
passions are first expressed. 6. As we are able to separate,
mentally, the object from the emotion, and to remem- ber the
natural cry after the occasion that produced it ceases, the natural cry
might re- main as a sign either of the object or of the emotiont.
But this does not carry us beyond Thia is the sense in which we choose to
under- stand the word, and not merely voice-dividing or ar-
ticulating. f For instance, as, in the present state of language,
the exclamation of surprise ha-ha '. is either an inter-
to the mind which forms the abstraction, and has the power to
establish a sign (wliether audible or not) to fix and remember it: our
inquiry is, how a communication can be made from mind to mind, when the
signs which na- ture furnishes are inadequate to the occasion. And
first be it observed, that only such occa- sions must, at the outset, be
imagined as do but just rise above those for which the cries of
nature are sufficient: we must not suppose a necessity for communicating those
abstract truths which grow out of an improved use of language, and which
could not there- fore yet have existence in the mind. And we have
further to observe that no communication can be made from one mind to
another, but by means of knowledge which the other mind possesses; the
cries of na- ture can find their way only into a conscious breast, that
is to say, a breast that has known, jection eignifyiDg that emotiou,
or the n so placed ae to give occasion to it. or at least can know,
the feelings which are to be communicated, and is capable,
therefore, of sympathy or antipathy ; and knowledge of whatever
kind can be conveyed to another mind only by appealing to knowledge which
is already there. To suppose otherwise, would be to attribute to
human minds what has been imagined of pure spirits, the power of so
mingling essences that the two have at once a common intelligence. To
human minds It is certain that this way of communicating is not
given, but each mind can gain knowledge only by comparing and judging for
itself, and to communicate it, is only to suggest the sub- jects
for comparison. Let us suppose that a communication is to be made for
which a na- tural cry is not sufficient, the difficulty, then, can
be met only by appealing to the knowledge which the mind to be informed
already possesses. The occasion will create some cry or tone of
emotion ; but this we presuppose to be insufficient. It will however be
under- stood as far as the hearer's knowledge may enable him to
interpret it that is, he will know it to be the sign of an emotion
which himself has felt, and he will think perhaps of some occasion
on which himself used it. But the cry is to be taken from any former
par- ticular occasion, and applied to another; and he who has the
communication to make, will try to give it this new application by
joining another sign, such as he thinks the hearer is hkewise
acquainted with. The natural cry thus taking to its assistance the other
sign, and each limiting the other to the purpose in hand, they
will, in their united capacity, be an ex- pression for the exigence, and
will, to all in- tents and purposes, be a sentence. In some cases,
nature seems to furnish an instinctive pattern for the process here
described : —a man cries out or groans with pain ; he puts his hand to
the part affected, and we at once interpret his cry more particularly
than we could have done without the latter sign. In other cases, we are
driven to the same process not by an instinct, but by the ingenuity
of reason seeking to provide that which nature has not furnished. If a
man unskilled in language, or not using that which his hearers
understand, should try to make known what art expresses by a sentence
such as " I am in fear from a serpent hidden there," his
first effort would be the instinctive cry of fear ; but aware that this
could be particularly interpreted only of a known, and not of an unknown
occasion, he would, by an easy effiirt of ingenuity, fix it for the
present purpose by add- ing a sign or name of the reptile, (for
mimick- ing the hiss of the reptile would obviously be a name,) and
by joining to both these a ges- ticulative indication of place. The
instinctive cry thus newly determined and appUed, is a sentence ;
and however clumsy it may seem when compared with the more
complicated one previously given, yet the art employed is of the
same kind in both. We leave the read- er to smile at the example as he
pleases, and will join in his smile while he compares it with that
in the epistle of the poet in the note at Sect. 1.; and, if he is
disposed to smile again, we will suppose another example : Two men
going in the same direction, are stopped by an unexpected ditch, and
ejaculate the na- tural cry of surprise ha-ha/ This is remem- bered
as the expression suited for that par- ticular occasion; and the mind,
the human mind, seems to have the power of generalizing it for
every similar object. Suppose one of these men finding another ditch very
offensive to his nose, signifies this sensation by screwing up the
part offended, an d uttering the nasal interjection proper for the
case ; the interjection may not be sufficient j for the other man may
remain to be informed of what his companion knows, namely that
the offence proceeds from the ditch. To fix the meaning, therefore, of
the interjection to the case in hand, the communicator adds the
former natural cry in order to signify the ditch, and the two signs
qualifying each other, are a sentence. 8. An artificial instrument
as language is, growing (as we suppoaej out of necessity, and
adapted at first to the rudest occasions ; per- fected by degrees, and
becoming more com- plicated in proportion as the occasions grow
numerous and refined ; such an instrument, when we compare its earliest
conceivable state with that in which it has received its
iiighest improvement, must appear clumsy and awk- ward in the
extreme. But in the very rude state in which we here suppose it, the art
em- ployed is essentially the same as afterwards : two or more
signs are joined together, each " sign referring separately to
presupposed know- ledge, but in their united capacity communi- i
eating what is supposed to be unknown. Of the signs used, that must be
considered the, principal by which the speaker intimates the,
actual emotion j the other signs, which do but j fix its meaning, are
secondary. Thereforej ; though the appellation word (that is p^/io,
i dictum, or communication,) strictly belongs to the whole
expression or sentence, we may reasonably give that appellation to the
principal sign. According to this supposition, the original verb was an
expression equiva- lent to what we now signify by I hunger, I
thirst, I am warm, I am cold, I see, I hear, IJeel, &c., / am in
pain, I am delighted, I am angry, 1 love, I hate, I fear, I assent, I
dis- sent, I command, I obey, &c. Whether this a priori
conjecture has any facts in its favour, is an inquiry suitable to the
etymologist, but fo reign to our purpose, because, whether
true or not, the general argument by which we in- tend to prove the
nature of the parts of speech, will remain the same*.
" Vet it may be worth while to quote the coinci- dent opinion
of another writer. " It may be asked " says Lord Monboddo,
" what words were (irst invented. My answer is, that if by words are
meant what are commonly called parts of speech, no words at all
were first invented ; but the first articulate sounds that were
formed denoted whole sentences ; and those sentences expressed some
appetite, desire, or inclination, relating either to the individual, or
to the common business which I suppose must have been carrying on by a
herd of savages before language was invented. And in this We
have next to imagine the use of any of the foregoing verbs in the third
per- son ; for that, it should seem, would be the next step. In
communicating that anothet- hungers or thirsts, or sees or hears, or is
angry or pleased, &c., the difficulty would be to give the word
this new application, and a limiting sign would, as usual, be necessary.
A proper name would be the sign required ; and if not too great a
tax upon fancy, we may conceive the invention of these from the mimicking
of a man's characteristic tone, or his most frequent cry ; not to
mention the assistance of gesticu- lative indication. But when verbs had
thus lost the reference which, at first we presume, they always
bore to the speaker, a sign, whether a change of form, or a separate
word, would be wanted to bring them back to their early meaning as
often as occas ion required. A gesticulative indication of the
speaker and way I believe language continued, perhaps for
many ages, before names were invented." Origin and Pro- grese
of Language. Vol. I. Book 3. Chap. 1 1- of the person spoken to, can
easily be con- ceived : how soon tliese would give place to
equivalent audible signs, the reader is left to calculate j and as to the
pronoun of the third person, he may allow a longer time for its in-
vention, especially as even in the finest of lan- guages, tliere is no
word exactly answering to ille in Latin and he in English.
10. We have suggested a clew to the in- -yention of proper names,
and (for the reader jnust allow us much) we will suppose these, L ^
far as need requires, to be invented. But r piost of these, from the
difficulty of inventing a new name for every individual, would gra-
dually become common. If a man has called I the animal he rides on by a
proper appellation I corresponding to horse, what shall he call t
Other animals that he knows are not the same; and yet resemble?
Because he is unprovided .. r jwith a name for each individual, he will
call' I each of them horse*, and the name will then "
Compare Adam Smith, " Considerations con- cerning the First
Formation of Languages," appended no longer be proper but common. But
the same powers of observation which acquaint us with the points of
resemblance, likewise show the points of difference, and when we
wish to distinguish the animals from each other, how is this to be done ?
The question is easily answered when we have a perfect lan- guage
to refer to, but it was a real difficulty when the expedient was first to
he sought. Yet the difficulty not unfrequently occurs even in a
mature state of language, and the manner in which it is overcome, will
enable us to conceive how, in the rude state of Ian- guage we are
supposing, itwas universally met, till the noun-adjective became a part
of speech*. Of two horses, we observe that one to his work on
the Theory of Moral Sentiments. As a proof how prone we are to extend the
appellation of an individual to others, he remarks that " A child
just learning to speak, calls every person who comes to the house
its papa or its mamma ; and thus bestows upon the whole species those
names which it had been taught to apply to two
individuals." The Mohegans " (an American tribe) "
have so has the colour of a chestnut, and the other is variegated
hke a pie ; and we call the former a cfieslnut horse, and the other a
pied or piebald horse. Here we perceive are two nouns-sub- stantive
joined together to signify an indivi- dual object, and employed, Ui their
united ca- pacity, to signify what would otherwise have been
denoted by an individual or proper name. This, then, is their meaning,
respectively, as a single expression. In their abstract or separate
capacity, the one word denotes either one or the other of the two animals
without reference to the difference between them : the other word
denotes, not a chestnut or a pi^ but that colour in a chestnut, and those
varie- gated colours in a pie, by which one of the animals is
distinguished from the other, and these words are no longer
nouns-substantive DO adjectives in all their language. Although it
may at first seem not only singular and ciuious, but im- possible
that a language should exist without adjectives, yet it is an indubitable
fact," Edwards quoted by
Tooke, Diversions of Purley. but nouns-adjective *. And here the
ques- tion will naturally occur, how would a hearer know when a
noun was used substantively, and when adjectively ? As this would
often be attended with doubt and ambiguity, the necessity of the
case would soon suggest some slight alteration in the word as ofi;en
as it was used adjectively ; and the same all- powerful cause would
likewise, in time, dia- tinguish adverbs from adjectives : for at
first an adjective would be used without scruple to limit the verb,
as to limit the substantive j since The invention of the simplest
nouns-adjective, says Smith, " must have required more meta-
physics than we are apt to be aware of." But the dif- ficulty he
imagines is done away by the hypothesis suggested above ; and how near it
is to the truth, will fae conceived by calling to mind the ready use of
al- most any substantive as an adjective, as often as need requires
: e. g. a chestnut horse, a horse chestnut ; a grammar school, a school
grammar ; a man child, a cock sparrow, an earth worm, an air hole, a
(ireking, a water lily ; not to mention the innumerable com- pounds
that are considered single words ; as, seaman^ Iiorsenian, footman,
inkstand, coalhole, bookcase, Sic.t this is often done even in the
present state of language j but the doubt whether it was to be
taken with the substantive or the verb* would soon produce some general
difference of form ; and thus the adverb would be brought into
being as a distinct part of speech. 11. Still it would often
happen, that in endeavouring to limit a verb to the particular communication
in view, no substantive or pro- noun joined to it, not even with the
further aid of an adjective or adverb joined to the substantive or
verb, would suffice ; and failing, therefore, to convey the communication
by one sentence, it would become necessary to add another to limit or
determine the significa- tion of the first. Now a qualifying
sentence thus joined, when completely understood in connexion with
that it was meant to qualify, would be esteemed as a part of the same
sen- tence, and the verb, in the added sentence, E. g. whether
" I love much society " is to be understood / much-li/ve
suciety, or, / Iwe 7iutch- society. would
possibly then lose its force as the sign of a distinct
communication. This again, will easily be understood by a reference to
what occurs in the present state of language. Look- ing at the
sentence, " In making up your par-- ty, except me," no one
hesitates to call concept a verb ; but in this sentence, *^ All were
there, except me," although the word except has pre^^ cisely
the same meaning, yet, as we do not con^ sider the clause except TTie to
be a distinct com- munication, but only a qualification to suit the
whole sentence to the purpose in view, we call except a preposition *,
that is, a word put be^ This solution of the difficulty in the
invention of prepositions, which seems so considerable to Adam
Smith, is suggested, as the reader will perceive, by the etymological
discoveries of Home Tooke, and will receive complete confirmation by the
study of his ad- mirable work. Let it not be supposed, however,
that we have nothing to object to in the Diversions of Purley :
some ftmdamental principles we have already marked for inquiry ; and on
the point before us, we have to observe on that curious way of thinking,
which leads him, because a word was once a verb or a noun.
fore another to join it to the sentence that goes
before. 12. But in thus qualifying sentence by sen- tence, it
may sometimes be necessary to use three verbs, one of them being merely
the sin- gle verb that joins the two sentences together ; as,
" I was at the party, and (i. e. add, or join this further
communication) I was much de- lighted." Sometimes a noun will be
used in this way ; as, " I esteemed him, because (i. e. this
the cause) I knew his worth." Any par- ticular form of verb or noun
used frequently in this manner to join sentence to sentence, will
cease at last to be considered any thing more than a conjunction *.
IS. As to the article, we have only to sup- to esteem it always so
; on the same principle, no doubt, that, because the word truth comes
from he trou-eth or thinkelh, a.aA a man's thoughts are always
changing, he denies that there is any such thing as eternal, im-
mutable truth. * Again the reader is referred to the Diversions
of Purley, for a confirniation of this account of the birth of
conjuncticms. pose some adjective used in a particular
limit- ing sense so frequently, that we at last regard it as nothing
more than a common prefix to substantives : as to a participle^ it is
confess- edly, when in actual use, either a part of the verb, or a
substantive, or an adjective : and as to an interjection^ this we have
supposed to be the parent word of the whole progeny ; and if it is
sometimes used among the parts of an artificial sentence, it is only as a
vibration of the general tone of feeling that belongs to the
whole. 14. In this manner, or in a manner like this in
principle and procedure, would lan- guage grow out of those powers
bestowed on man by his Creator, even though it had not been
directly communicated from heaven :-— in this manner is the progress from
natural cries to artificial signs contemplated and pro- vided for
by the constitution of the human mind; in this manner would the parts
of speech be developed j and men placed in so- ciety, and endowed
with powers for observation, reflexion, comparison, judgment, would, in
time, become fiepoire^f or dividers of a na- tural word into significant
parts, with the same kind of certainty that they become bipeds or
walkers on two legs* ; being bom neither one nor the other. *
And according to Monboddo, with the same certainty that they lose their
tails; for when they were mutu/m, et turpe pecus^ he appears to think
they might have been so appendaged ; nay, he knew a Scotchman that had a
tail, though he always took care to hide it : (his lordship was surely in
luck^s way to find it out.) After all, it would be difficult to
prove, notwithstanding the authorities Monboddo quotes, that herds
of men were ever found destitute of language. Leaving, therefore, the
origin of the first language, and the subsequent confiision or division
of it precisely as those two &ct8 stand in Genesis, all we mean
to assert in the text is this, that if a number of children having
their natural faculties perfect, were suffered to grow up together
without hearing a language spoken, they would invent a language for
themselves : though, for a long time, it might remain nothing better
than that of the Hurons described by Monboddo, (Origin and Progress
of Lang. VoL I. Book 3. Chap. 9.) in which the parts of speech are
scarcely evolved, from the original elements, but what in a formed
language But the object of the foregoing at- tempt,
was not so much to trace the origin is expressed by several
words, is expressed by a sign not divisible into significant parts. Thus,
he says, there is no word which signifies simply to cut, but many
that denote cuttingjish^ cutting wood^ cutting chaths, cutting the heady
the arm^ &c. And so of the language throughout. More than one
generation would be re- quired, and very favourable stimulating
circumstances, to bring such a chaos of a language into form ; but
that the human mind has within itself the powers for accomplishing it
sooner or later, we see no cause to doubt These words, and the whole of
the hypothesis in the text above, were written before the third
Volume of Dugald Stewart's Philosophy of the Human Mind had been
seen. From that part which treats on Lan- guage we quote the following
passages : That the human faculties are competent to the formation
of language, I hold to be certain.* Language in its rudest state would consist
partly of natural, partly of artificial signs ; substantives being
denoted by the latter, verbs by the former.*" These are among
the many passages which coincide with the views opened in the previous
hypothesis. It is to be added, that D. Stewart considers the
imperative mood to be the first form in which the artificial verb
would be displayed. and first progress of language, as to get
at the real ground of diflference among the se- veral parts of
speech. On this subject, there prevails a universal misconception. Prom
the definitions and general reasoning in Grammar ; from the theories laid
down in Logic ; and the basis on which the rules and prac- tice of
Rhetoric are presumed to stand, this principle seems to be taken for
granted, that the parts of speech have their origin in the mind
independently of the outward signs, when, in truth, they are uothing more
than parts in the structure of language ; contrivances adopted at
first on the spur of theoccasion, the shifts and expedients to which a
person is driven, when not being able to lay bare his mind at once
according to his consciousness, he tries, by putting such signs together
as were used for former occasions and therefore known as regards
them, to form an expression, which, as a whole, will he a new one, and
meet the pur- pose in hand. True indeed it is, that these very
contrivances become, in their more refined use, the great instruments of hmnan
rea- son by which all improvement, all extensive knowledge, is
obtained; but we are not to confound the instrument with the
intelli- gence that uses it/ nor to suppose that the parts of which
it is composed, have, of ne- cessity, any parts corresponding with them
in the thought itself. It is not what a word signi- fies that
determines it to be this or that part of speech, but how it assists other
words in ma- king up the sentence. If it is commissioned to unite
the whole by the reference immediate or mediate which all the other words
are to bear to it, and to signify that they are a sen- tence, that
is, the sign of a purposed commu- nication, then it is the verb : if it
has not this power, (namely, of uniting the other words into a
sentence,) and yet is capable, in all other respects, of standing as an
independent sign, (this sign not being the sign of a purposed
communication) then it is a substantive .-—if it is the implied adjunct
of a substantive, it is an adjective or an article^ if of a verb^ an
adverb : if we know it to be a word, which, in a sentence, is fitted to
precede a substantive, (or words taken substantively) in order to
con- nect such substantive with -what goes before, then it is a
preposition : and if it goes before, or mingles in a sentence, in order
to connect it with another sentence, then it is a conjunc- tion.
These are the only real differences of the parts of speech : as to the
meaning, that does not of necessity differ because a word is a
different part of speech ; the following words, for instance, all express
the same notion : Add Addition
Additional Additionally With*
Andt * The imperative of the Saxon verb Jpi^an to join.
-|- The imperative of the Saxon verb ananab to add. The place
and ofHce of these six words in a sentence would of course differ, and
the sentences in which they were respectively used would require a various
arrange- Our definitions reach the real differences among these
words, and they will be found adequate to all differences, when, by the
ob^ servation hereafter to be made, we are quali- fied to make due
allowance for the licences assumed by the practical grammarian *•
In ment to meet the same purpose, but as to the meaning of
the words, it would be the same in whatever sentence : e. g.
Add something to our bounty. Make an addition to our
bounty. Give an additional something to our bounty.
Give additionally to our bounty. Increase o ur bounty
with the gift of something. Consider our bounty and give
likewise. * To suit our definitions to an elementary grammar, they
must be quaUfied and circumstanced: a verb, for instance, must be shewn
to be a word that is by itself a sentence, as esurio ; or which signifies
a sentence, as I am hungry ; or which is fitted to sig- nify a
sentence, as am, lovest. A verb in the infinitive mood, is a verb named
but not used ; a8 to be, to love ; or if used in a sentence, it is not
the verb. A noun- substantive is a name capable of standing
independently, but it cannot enter into a sentence except by being
connected directly or indirectly with a verb. The in- flexion of a noun-substantive,
as Mard, Mark'' 8^ is the mean time, in order to throw as much
light as possible on the nature of the con- nexion between thought and
language, let us look back a little on foregoing statements, and
partially anticipate those which are to be opened more at full under the
heads of Logic and Rhetoric. called a substantive, bnt in so
calling it, we must say a Bubstantive in the genitive, or other case. A
noun- adjective is a name not fitted to stand independently, but to
be joined to a noun-substantive, and so to form with it one compound
name. An adverb is a word not fitted to stand independently, but to be
joined to a verb, and to form with it one compound verb, A
preposition ig a word governing as its object a substantive or pro-
noun in the manner of a verb, but not an obvious part of a verb, nor
capable, like a verb, of signifying a sentence. The article, pronoun,
participle, conjunc- tion, and interjection, may be defined as usual.
We would suggest moreoverthat in an elementary grammar, no
definition, and no part of a definition, should be brought forward, till
absolutely required by the examples that are immediately to follow it.
In teaching a child, it is the greatest absurdity in the world to
set out with general principles, when the business is, to reach those
principles by the eiiamina- tion of particulars. It may be that the
organs of sensation are not all fully developed in a new-born in-
fant ; but if, for the sake of our argument, we allow that they are so,
this is as much as to say, that our earliest sensations from the
ob- jects of the material world, are the same that they are
afterwards. But there must be this most important difference, that the
early sensations are -wilkoui knowledge, and the lat- ter, with it.
I know that the object which now affects my sense of vision, is a being
like my- self, I know him to be one of a great many similar beings
; I know him to be older or younger than many of them, to be taller
or shorter; I know pretty nearly the distance he is from me ; 1
know that the particular circumstances under which he is now seen,
are not essential to him, but that he may be seen under other
circumstances : I know that what now affects my sense of hearing, is
the cry or bark of a dog j I know, although my eyes are shut, that
there are roses near me, or something obtained from roses j I knoie
u that
sometliing hard has been put into my mouth ; and now I know it to be part
of an apple. All the sensations by which the various knowledge here
spoken of is brought before the mind, the new-born infant may
possibly be capable of; but as to the know- ledge, there is no reason to
believe he lias the least portion of it. For the knowledge is
gained by experience, requiring and com- prising many individual acts of
observation, comparison, and judgment j all which we suppose yet to
take place in the new-born infant. Now, in looking back to what has
been said on the acquirement of language, we find the effect of our
progressing knowledge to be this, that every sign arising out of a
par- ticular occasion, will lose that particular re- ference in
proportion as we find it can be used on other occasions j and so all
words will, at last, in their individual capacity, become ab-
stract or general. This is as true of such words as yellow, white, heat,
cold, soft, hard, . bitter, sweet, and the like signs of what Locke
calls simple ideas as of any other * : for we can evidently use
these words on an infinity of different occasions j and the power of
so using them is an effect and a proof of our knowing that the
different occasions on which we use the same word, have a something
in common, or in some way resemble. But while all words thus
acquire an abstract or general meanipg, every communication which
we purpose to make by their means, must, in comparison with their
separate signification, be particular ; and our putting them
together in order to form a sign for the more particular thought,
will be to deprive them of the abstract or general meaning which they had
indi- vidually. If this is the real nature of the process, we are
completely mistaken if we suppose that every word in a sentence
sig- nifies a part of the whole thought, and that the progression
of the words is in corre- spondence with a progression of ideas
which the mind first puts togetlier within, and then * Vide Locke,
Book II. Chap. 1. Sect. 3. signifies without What deceives us into
this impression, is, that on considering each word separately, each
is found to have .1 meaning. Let us try, however, whether the joining
of words into a sentence, does not take from them the meaning they
have separately. Put to- gether the three words " My head
aches," and we have an expression, namely the whole sentence,
which signifies what, from a want of clearness in our remarks, may
possibly be the reader's present particular sensation: hut my,
separately, signifies the general knowledge I have attained of what
belongs to ine as dis- tinguished from what belongs to another j a
knowledge which is not at all necessary (that is, the ^'•CTJcra/
knowledge) to the sensation it- self, nor even to the expression ofit, if
we could find any single sign in lieu of the three which we have
put together. Accordingly, the word my, as soon as it is joined to the
other words, drops that meaning which it had separately, and
receives a particular limitation from the word head, which word head is
likewise limited by the word rrof ; and the more particular meaning which
both these receive by each other, is limited to the particular oc-
casion by the word aches. Yet, it may perhaps be thought, that in this,
and in every other sentence, each word, as the mind suggests it to
the lips, is accompanied by the knowledge of its separate meaning, and
that, in this manner, if we use the word idea in the un- restricted
sense familiar to the readers of Locke, each word may be said to
represent an idea. Without entirely denying the justice of this
view of the matter, we offer in its place the following statement :
17. In forming a sentence for its proper occasion, the knowledge of
which each sepa- rate word is fitted to be the sign, may, or may
not be in the mind of the speaker: it may be entirely there, or only in
part, or not at all there ; that is to say, the speaker may not
know the separate meaning of a word, but only the meaning it is to have
in union with the other words. And even if the speaker does know the
full separate meaning of each word, yet he is not under the neces-
sity of thinking of that separate meaning every time he uses it : nor
does he, in fact, think of the separate meaning of words while, in
putting them together, his purpose is to ex. press what has been often
expressed before, but only (and even then but partially and occa*
tonally) when he uses words to work out some conclusion not yet
established in his own mind, or when a train of argument is required
to convince or persuade other minds. This statement will of course
require some con- siderations in proof. 18. And first, as to
the knowledge of which each separate word is fitted to the sign, it
is to be observed that our knowledge grows with the use of words, and
therefore our firet use of them is unaccompanied by that know-
ledge which we gain by subsequent use. This is true, whether we invent
words, or adopt those already invented. In the rude beginning of
language, the first use of a word for head, would be a use of it for a
particular occasion, and the word would be particular or proper. If
the speaker used it with reference to himself, it would signify what we
now sig- nify fay the two words my head ". By observ- ation
and comparison, he would find he could extend the meaning of the word,
and apply it with reference to his neighbours as well as himself,
and it would then no longer be proper but common ; that is to say, it
would signify a human head, and not mj/ head. Extending his
observations still more widely, he would ap- ply it with reference to
every other living crea- ture, and it would accordingly then signify a
/(u- ing creature's head. Looking and comparing still further, he
would apply it with referenceto every object, in which he discovered a
part having the same relation to the whole as the head of a living
creature has to its remaining parts ; and the word would then, and not
till then, have its present meaning ; that is to "
Compare the characteristics of the Huron lan- guage referred to in the
note appended to Sect. 14. say, in a separate unlimited state it
would signify neither my head, nor a human head, nor a living
creature's head, but the top, chief part, beginning, supremacy of
any thing whatever. Nor is the process essentially different in
acquiring the use of words already invented. A child does not at first
put words together, but, if his head aches, he will say perhaps
"head! head!" using the single word in place of a sentence. At
length he will say mi/ head, and brother's liead, and horse's head,
and cradle's head. Still there are other applications of the word to
be learned by use ; and it surely will not be contended that any
one knows the meaning of a word beyond the cases to which he can
apply it. The knowledge which a separate word is fitted to signify, may
then be wholly or may be partly in the mind of him who uses it in a
sentence ; and it is very possible not to be there at all. A foreigner,
for in- stance, who had beard the phrase the head of the army
applied to the general-in-chief, would know the meaning of the phrase,
but might be quite ignorant of the meaning of the separate words,
or even that it was com- posed of separable words : and probably
most people can look back to a time in early life, when they were
in the habit of using many a phrase with a just application as a
whole, without being aware that it was reducible into parts in any
other way than as a poly- syllabic word is reducible. ig. But
even when the speaker, in form- ing a sentence, has previous possession
of all the knowledge of which each word is sepa- rately fitted to
be the sign, yet he does not in general think of their separate meaning
while he is putting them together, but only of the meaning he
intends to express by the whole sentence. For through the frequent use
of phrases and sentences whose forms are hence become familiar,
there is scarcely any senti- ment, feehng, or thought, that suddenly
arises in the mind, that does not as suddenly sug- gest an
appropriate form of expression. This [chap. is
manifestly the case with such sentences as arc in constant use for common
occasions : these the speaker cannot be said to make, they occur
ready-made, and he pronounces the words that compose them with as
little thought of their separate meaning as if he had never known
them separate. Even when sentences ready-made do not occur, yet the
forms of sentences will occur, and the speaker will, in general, do
nothing more than insert new words here and there till the sentence
suits his purpose. Thus he who had said " My head aches," will
recollect the form of sentence when his shoulder aches, and in
using the sentence, will only displace head for shoulder: or if his head "
is giddy," he will only displace aches for the two words quoted,
in order to say what he feels. 20. When indeed we use language
for higher occasions than the most ordinary in- tercourse of life ;
when by its means we pro- secute our inquiries after truth, or use it
dis- cursively as an instrument of persuasion, then the operation
itself is carried on by dwell- ing on and enforcing the abstract
mean- ing of some of the words and some of the phrases whUe in
their progress towards form- ing sentences, as of the sentences while
in their progress toward forming the whole ora- tion or book. But
in such cases, language may more properly be said to help others to
come at our thoughts, than to represent our thoughts : although it is
likewise true, that we could not ourselves have come at them but by
similar means. Independently of the words, therefore, the thoughts would
have had no existence j neither should we have proposed the inquiry
after the truths we seek, nor have imagined any thing in other
minds, by addressing which they could be influenced. Still,
however, in these higher uses of lan- guage, (uses which are to be dwelt
on more at full in the chapters on Logic and Rhe- toric,) there is
the same difference between words separately, and the meaning they
re- ceive by mutual qualification and restriction ; that is to say,
in these higher uses of lan- guage, 83 well as in those already
remarked upon, the parts that make up the whole ex- pression, are
parts of the expression in the same manner as syllables are parts of a
word, but are 7tol parts of the one whole meaning in any other way
than as the instrumental means for reaching and for communicating
that meaning. And suppose the communication cannot be made but by
more signs than use will allow to a sentence, suppose many sen-
tences are required many sections, chapters, books, we affirm that, as
the communica- tion is not made till all the words, sentences,
sections, &c. are enounced, no part is to be considered as having its
meaning separately, but each word is to its sentence what each
syllable is to its word ; each sentence to its section, what each word is
to its sentence ; each section to its chapter what each sen- tence
is to its section, &c. Thus does our theory apply to all the larger
portions of dis- course, and to the discourse itself,
Aristotle's definition of a word, namely, ** a sound sig. niiicant.
of which no part is by itself signi^ ficant ;" * for if our theory-
is true, the words of a sentence, understood in their separate
^rapacity, do not constitute the meaning of the whole sentence, (i. e.
are not parts of its whole meaning,) and therefore, as parts of
that sentence, they are not by themselves significant ; neither do the
sentences of the discourse, understood abstractedly, constitute the
meaning of the whole discourse, and therefore, as parts of that
discourse, they are not by themselves significant : they are sig-
nificant only as the instrumental means for getting at the meaning of the
whole sentepce or the whole discourse. Till that sentence m oration
is completed, the Word t is unsaid which represents the speaker's
thought- If ♦ 4^6jvii (ni/xAVrixiii vi'; A*sf oj oOih B<rri xalP
abrh arif/iotv-i rikiv. De Poetic c. 20. f In this wide
sense of the expression is the Bible called the Word of God. We shall
distinguish the term by capitals, as often as we have occasion to use
it with simitat comprehensiveness erf meaning. it be asserted that
the parallel does not hold good with regard to such words as
Aristotle has in view, because, of words ordinarily so called, the
parts, namely the syllables, are not significant at all, while words and
sentences which are parts of larger portions of dis- course,
are admitted to be abstractedly sig- nificant, however it may be that
their abstract meaning is distinct from the meaning they re- ceive
by mutual limitation, we deny the fact which is thus advanced to disprove
the parallel : we affirm that syllables are signifi- cant which are
common to many words ; for instance, common prefixes, as wn, mis,
corif dis, bi, tri, &c.; and common terminations, as nesSjJul,
hood, tion, fy, &c. j and so would every syllable be separately
significant, if it occurred frequently in different combinations,
and we could abstract out of such combina- tions the least shade of
something common in their application : nor is it peculiar to
syllables to be without signification individually; the same thing
happens to words when they are always combined in one and the same way
in sentences *. Conceiving, then, that we are fully warranted in
the foregoing statement, we affirm it to be the true basis of Grammar,
Lo- gic, and Rhetoric. Leaving the latter two subjects for their
respective chapters, we pro- ceed, in this chapter, with such further
proofs as may be necessary to confirm our position as far as
Grammar is concerned. 21. We have imagined the gradual de-
velopment of all the parts of speech recog- nized by grammarians ; but no
reference has yet been made to the inflexions which some of them
undergo; nor to the diflference of meaning they receive in consequence of
such inflexion ; nor to interchanges of duty among the several
parts of speech ; nor to pecu- liarities of use, which so oflen take from
them their characteristic differences; nor to va- " What
separate meaning, for instance, is there, now, in the words which compose
such phrases as, by- and'bij, goodJi'ye, ftatc-du-you-do, 8cc.
I ON GEAMMAB. riety of phrase in expressing the same mean-
ing j nor to the power which we frequently exercise of making the same
communication by one or by several sentences ; nor, in short, to
the multitude of refinements which grow out of an improving use of
language, many of which seem to confound and destroy the
definitions we obtain from the first and simplest forms of speech. All
these seeming irregularities will, however, find a ready key in the
general principles we have ascertained. For our general principles are
these : i. That two or more words joined together in order to
receive, by means of each other, a more particular meaning, are, with
respect to that meaning, inseparable j since, if separated, they
severally express a general meaning not included in the more particular
one. Hence it follows, that words may as easdy receive a more
particular meaning by some change of form, as by having other words added
to them : nay, it seems more natural, when the principle is
considered, to give them a more particular meaninjj by a change of form
than fay any other way. ii. That a word is tliis or that part of
speech only from the. office it fulfils in making up a sentence. From
this principle it follows, that a word is liable to lose its
characteristic difference as often as it changes the nature of its
relation to other words in a sentence ; and it also follows, that
every now and then a word may be used ia L8ome capacity wliich
makes it difficult to be assigned to any of the received classes of
words. iii. That since the parts of which a sentence is composed denote
general know- ledge, distinct from the more particular mean- ing of
the whole sentence, it may be possible i to work our way to a particular
conclusion, either in reasoning for ourselves or in per- j auading
others, by putting such words to- gether as form a sentence, that, as a
whole, expresses the particular conclusion; but that when, from the
length of the process, this cannot be accomplished in a single
sentence, we shall be obliged to work our way by many sentences, whicli
will bear the same relation to the conclusion implied by them as a
whole, as the parts of each sentence bear to what the sentence
expresses. From this principle it follows, that using many or fewer
sentences to arrive at the same result, will frequently be
optional. The examination of these se- veral consequences a Httle more in
detail with reference to the principles from which, i they flow,
will complete the chapter. It is well known, that the inflexions
which nouns, verba, and kindred words are liable to in many languages,
are comparatively unknown in English, the end being for the most
part attained by additions in the shape of distinct words. Thusthe
particular re- lation of the word Marcus to the other words in the
sentence, which in Latin is made known by altering the word into Marco,
is signified in English by the word io ; and to MarcuSy esteeming
the two words as one ex- pression, is the same as Marco. So
likewise the word amo, which in English signifies / Gl
l&ve, is adapted to a different meaning by being changed into
amabit, which in English is to be signified by he mil love, the
three words, taken as a whole, being the same as the single Latin
word. Shall we call to Mar- cus the dative case of Afarcus, and he will,
love, the third person singular of the future tense of / love, as Marco
and amabit are re- spectively called with reference to Marcus and
amo? or shall we parse (resolve into grammatical parts) those English
sentences, and so deny, in our language, a dative case and ' a
future tense ? It is evident that this is a question which only the
elementary grammar- writer is concerned with : he may suit his own
convenience, and contend the point as he -I pleases. Thus much is
certain, and is quite sufficient for our purpose, that to Marcus,
cannot be considered a dative case, nor he wiU ] love a future tense, on
any other principle than the one it is stated to flow from, namely;
that marked i. in Sect. 21. 23. To the practical grammarian we
may likewise frequently allow, for the sake of convenience, the continuing
a word under its usual denomination, when its office, and con-
sequently its character, are essentially changed. He will love, taking
the three words as one expression, are a verb both on the
principles we have ascertained, and in the practice of the
elementary grammarian : but in parsing tliis verb this p^iio, dictum,
communication, 01 sentence, only one of the three words can
properly retain the denomination of verb, viz. that word to which the
others have a re- ference, by which they hang together, and are
signified to be a sentence, namely, will. As to the word love, which the
practical grammarian will tell us is a verb in the infi- nitive
mood, it does not in fact fulfil the office of a verb, but of a
substantive. But if, by calling it a verb in the infinitive mood,
its character for practical purposes is con- veniently marked, we
may fairly leave the matter as it stands. All we insist upon is,
that the doubtful character of the word is a consequence of
the principle marked ii. in Sect 21." I •
Strictly, there is no verb but when a c cation ib actually made ; and
that word is then the verb, which expreaseB the communicatioti, or
which, when several words are necessary, ie the sign of union among
the whole of them. A verb not actually in use is acaptain out of
commission, and if we still call it a verb, it is by courtesy. Home Tooke
never an- swered his own question, " What is that peculiar
dif- ferential circumstance, which added to the definition of a
noun, constitutes a verb ?" (Diversions of Purley, Vol. II. p.
514),) because he bad previously blinded himself to the perception of
what it is, by laying down the principle already animadverted upon in a
note ap^ ponded to Sect. 3., namely, that the business of the mind,
as far as regards language, extends no fiirther than to receive
impressions: the consequence of which priuciple would be, (if it could
have any consequence at all,) that the first invented elements of speech
were nouns, or names for those impressions ; which accord- ingly
seems to be his notion, and that verba afterwards arose from nouns, by
assuming the difierential some^ thing that was found to be wanting. Our
doctrine is, that the original element of speech contained both the
artificial noun and the artiiicial verb ; that the mind exerted its
active powers in order to evolve the artir ficial parts ; that the act of
joining them together It might also perhaps admit of dis-
pute, whether substantives in what are called their oblique cases, do
not, by being the ad- juncts to other words, and taking a change of
form to signify their servitude, cease in fact to be substantives, and
merit no higher name than adjectives or adverbs. But here again we
consult convenience by using the descriptive title, a substantive in the
geni- tive, dative, accusative, or ablative case. We only need
insist, as philosophical inquirers, that the definition of a substantive
in Sect. 15., is not less correct, because it does not in- clude a
substantive in these oblique cases*. i^ain, made them a verb ; but
if the title was given to one more than to the other, it was given to
that which arose most immediately from the occasion, and took the
other to fis or determine it ; and that subsequently that word in a
sentence came to be coneidcred the verb, which joined the parts K^ether,
and signified them to be a sentence. * The only oblique case
in English substantives, is the genitive terminating in 'fi or having
only the apostrophe, the s being elided. Grammarians, in- deed,
have found it necessary to allow an accusative. The very doubt itself
which so often arises, whether a word is this or that part of
speech, the varying classification of the parts of speech by different
grammarians, are cir- cumstances entirely favourable to the theory
advanced, and adverse to any theory which attempts to explain the parts
of speech by a reference to the nature of our thoughts in-
dependently of language. For if the parts of speech had taken their
origin from this cause* because pronouns have it : for
if in the sentence Cas- s-iua loved him, we put the noun where
the pronoun stands, and say, Casmus loved Brutus, it seems con-
venient to consider the noun to be in the same case that the pronoun was
in. On the same principle, the substantives which, in the classical
languages, have no accusative distinct from the nominative, are neverthe-
less considered to have an accusative, because, lite other substantives,
they can be used objectively with regard to verbs active and certain
prepositions. On the score of convenienee this must be allowed. But
when words are taken separately, (and this, by the very delinttion of the
word, is the business of parsing,) it is evident that only those
substantives are, strictly speaking, in the accusative case, which,
when uaed as just staled, have a form to signify it. surely we
could never have been in doubt either as to vskat, or koio many, they
were. But our theory accounts at once for the in- certitude on
these, and many other points. We admit no original element of speech
but the VERB, or that one sign which denotes what the speaker
wishes to communicate. If no one sign can be found adequate to the
occa- sion, then we must make up a sign out of two or more. Now the
division of a verb into these parts of speech, is necessarily
attended by the consequence, that each part is insigni- ficant of a
communication by itself, and that they signify it only by being joined
together. Supposing a sentence never consisted but of two parts,
the mere act of joining them to- gether, would be sufficient to signify
that they were a sentence or verb. But the ne- cessity or usage of
speech being such, that the hearer knows a sentence may consist of
two or of many words, how is he to be warned that a sentence is formed,
unless to certain words is given the power of signifying a sentence,
while to other words this power is de- nied until associated with a word
of the for- mer class? Hence the distinction between noun and verb
; a distinction arising out of the necessities of speech, and not out of
the nature of our thoughts. The noun and the verb, then, are the
original parts of speech, the verb beingthepreviouselementof both.
But as each derives its office and character solely from an
understanding between the speaker and the hearer, a change of
understanding may make them change their offices, and so the verb
shall sometimes be a noun, and the noun a verb. These changes occur in
fact so frequently, as to require no example. Then, as we have
seen, a noun will frequently be used as the adjunct of another noun,
and so become an adjective j an adjective or other word may be
joined to a verb, and so become an adverb j and any of these, by frequent
use in particular combinations, may acquire, or seem to acquire, a
new and peculiar office, and so become articles, prepositions, and conjunctions.
But who can ascertain that de- gree of use, which, to the satisfaction of
every grammarian, shall fix them in their acquired character • ?
Nay, must not every such word, of necessity, while in transitu, be at one
period quite uncertain in its character ? In this man- ner do the
effects arising out of such a theory of the parts of speech as we have
supposed, agree with actual effects, and fully explain them. 26.
Again, on any other hypothesis than the one before us, what are we to
think of compounded nouns, adjectives, verbs, adverbs, &c., of
which all languages are full ? With- out adverting to established
compounds, such as (to take the first that occur) husbandman.
* What, for instance, shnll we call the word fi/ce in such
phrases as like him, like me? Originally theword unto intervening between
it and the pronoun, govern- ed the latter ; but unio cannot now be aid to
govern the pronoun, since it has been so long disused, as to be no
longer mtderstood. We miglit therefore say, that like is a preposition
governing the pronoun : the point perhaps is disputed ; be it so : for
this fact jugt serves our argument. : m worJcmanlike, waylay,
browbeat, nevertheless ; without bringing words from the ilUmitably
compounded Greek language, we may refer to such as are not established,
but compounded ibr the particular purpose ; as when Locke speaksof
'* Mr. 'Nev/ton'sjiever-enough-io be ad- mired book," where the
words in italic are an adjective; and when some old lady pettishly
says to her grandchild " Don't dear Grand' mother me i" v/here
the whole sentence, ex- cept the pronoun governed in the
accusative, is a verb. So in the phrases to fiAxov <rvvoia-eiv
7^ iroXei the being-about-to-be'prqfitable-to-t/ie- Ci'/y,— and, TO
Tct Tou iroXefiov raj^ii xal Kara Kaipov Trpa.TTea$at, the
completing-spcedili/'and- seasonablif-the'lhings-for-the-war, we are
war- ranted in considering the whole of the words following the
article, to be, in each instance, a noun-substantive. For these, and for
every other species of compound, the theory before US at once
accounts. For it shows that the use of many words to form one sentence,
arises out of the necessities of language only, the na-
tiira] impulse of the mind being tomake its com- munication
by a single expression. Having complied, then, with the necessities of
lan- guage, and rendered it capable of serving as the interpreter
of much more knowledge than we could have attained without its help ; we
then return on our steps, and give a unity to our expressions in every
possible way. 27. The corruption of early phrases, by which,
in so many instances, they come under the denomination of adverb, will be
found another obvious consequence of the present theory, while they
abundantly perplex the grammarian who attempts to reconcile them to
any other system. "Omnis pars orationis" says Servius,
"quando desinit esse quod est, migrat in adverbium." " I think" says Home Tooke, " I can translate this
intelligibly Every word, quando desinit
esse quod est, when a grammarian knows not what to make of it,
migrat in adverbium, he calls an ad- verb."* What indeed can be made
of such ' Divctsioiia vi Puiky, Vol. I.
expressions as at all, by and by, to be sure, for ever, long ago,
no, yes. They are adverbs, say the grammarians. But (to take the
phrases first) what are the words, individually, of which the adverbs are
composed? The answer will be, they are prepositions, adjec- tives,
&c., which remain from the corruption of regular phrases once in use.
This is a true, account of the matter : yet it leaves us still to
ask, what ai'e these single words, now that the phrases which produced
them exist no longer in their original state. Let any gram- marian,
if he can, prove their right to the name of any of the received parts of
speech. Our system, if it does not make a provision tor them by a
name for a new class of words, at least shows the cause and the nature of
their difference. For according to our principles, words have both
a separate and a, joint signifi- cation. But if words should be
constantly another place, he says " that this class of
words, (ad- verb,) is the common sink and repository of all hetero-
geneous, unknown corruptions." occurring in particular
combination, this ef- fect will enaue, that their separate
significa- tion in such hackneyed phrase, will at last be quite
unattended to, and their joint significa- tion alone regarded ; and such
phrases will then be as liable to be clipped in the currency of
speech, as any long word which is trouble- some to be uttered at full : thus
will the re- maining parts of the phrase be fixed for ever in their
joint, and lose for ever their separate signification*. So much for the
words com- posing adverbial phrases. But what are we to say for no,
yes, which probably had the same origin as the phrases ? These have
not, Hke the phrases, a compound form, nor do they, like the
phrases, always assist in making up a sentence, but are frequently and
proper- ly pointed oft' by the full stop. Are we, un- der such
circumstances, to call them adverbs P •• Yes." This is the answer
our grammarians make. But is there, in these words, any
• Thcwordtoas asignofthcinfiiiitivL'moodcumcs onilcr this
doicnption. thing which gives them a just claim to be ranked
with any of the received classes of words? " No." This is an
assertion it would be difficult to gainsay. For consider them well,
and we shall find, that, in their present use, they are not j3ar/s of
speech at all, except with reference to the larger portions of dis-
course of which all the sentences are parts : they are sentences ; and
they afford a striking example of what was intimated in the prece-
ding section, namely the tendency oflanguage, in a mature state, to
return on its early steps as far as can be done without losing the
ad- vantages gained : for not only do we, when- ever we can, bring
the smaller parts of speech into such union as to form larger parts,
but in some instances, (as in these last,) we come round again to
the simpHcity of natural signs. 28. This union of the smaller into
larger parts of speech, and the power we have to dis- pose the same
materials into more or fewer sentences, will furnish further proofs, that
the present theory of language can alone be the true one. A proper
examination of compound sentences will show, that the grammatical
parts into which they are first resolvable, are not the single words, but
the clauses which are formed by those words ; which clauses are
substantives, and verbs, and adjectives, and adverbs, with respect to the
whole sentence, however they may, in their turn, be resolva- ble
into subordinate parts of speech bearing the same or other names. To take
the fol- lowing as an example : " The sun which set this
evening in the west, will rise tomorrow morning in the east." The
two parts into which this sentence is resolvable, are, to all
intents and purposes, a noun-substantive and a verb, if considered with
respect to the whole sentence*. This is the first, or broadest ana-
* And HO may the two parts (technically called the protasis and
apodosis) of every periodic sentence be considered : for every period,
(TEfi'ofos, a circle,) is re- solvable into two chief parts, the one
assimilated to the semicircle tending out, the other to the
rendering- in, or completing semicircle. These answering parts ate
commonly indicated in Greek by iJth ft; in En- ]lysis. Then taking the
former of these two chief constructive parts, we shall find it re-
solvable into these two subordinate parts, viz. the sun, a noun
substantive, and w?iick set this evening in the west, its adjunct or
adjective : the latter chief
constructive part being in the same way resolvable into will rise, a
verb, and, tomorrow morning in the east,
its ad- junct or adverb. Returning to the adjective of the former
chief constructive part, we shall gUsh very frequently by as so;
though yet, &c. There may exist a doubt in most sentences so
construct- ed, whether the one part has a claim to be considered
tlie verb more than the other : each part is meant to be insignificant by
itself, and, {as was lately supposed of the parts of speech in their
early institution, before a sentence was composed of more than two
words,) they Bifrnify a communication by the very act of being
join- ed together. Yet as the protasis is a clause in sus- pense,
and so resembles a substantive in the nomina- tive case before the verb
is enounced ; as the apodo- 618 removes the suspense, and so resembles
the verb in its effect on tlie substantive ; it seems that in con-
Hidering the protasis as a nominative case and the apo- dosis aa its
verb, we shall not be far from taking a, right view of the principle and
procedure. 7find it, if separately viewed, to be a
sentence having its nominative which, its verb set, and the latter
having its adverb tins evening in the ivest ; which adverb is resolvable
into two clauses of which the former consists of the de-
monstrative adjective this, and evening, a sub- stantive used objectively
with relation to the preposition on understood •• The latter clause
in the west is nearly similar in its grammatical parts ; but the
preposition it depends upon, is not understood. This subordinate or
adjec- tived sentence which we have thus taken to pieces, (viz.
which set this evening in the west,') is however no sentence when
considered with " Or more properly this eeening is an adverb ;
for a word cannot justly be called understood, when its ab- sence
is not suspected till the grammarian informg us of it : on before euch
phrases when the custom to omit it had just begun, was indeed understood;
it is now understood no longer, and what remains of any such phrase
is an adverb. As the next clauses, in the tceat, retains its preposition,
we are at liberty to parse the clause, instead of considering it, in the
whole, as an adverb attcndijig the verb set, though we are also
ab liberty to consider it in the latter way. reference
to the larger sentence of which it is a grammatical part : but it might,
if the speaker had pleased, have been kept distinct, and the same
meaning have been conveyed by two simple sentences, as by the one
com- pound one : e. g. " The sun set this evening in the west
: It will rise tomorrow morning in the east." Here, we have two
sentences or commuuications. But this is nothing more than a
difference in the manner of conveying the thought, precisely analogous to
the using of two words that restrict each other, in place of a
single appropriate sign. In the instance before us, the thought, whether
expressed by the one sentence or the two, is the same ; and it is
one and entire, whatever the expression may be. For we must not confound
the two facts referred to in the sentences, with what the mind
thinks of the facts : it is the con- nexion of the facts that the speaker
seeks to make known. Yet he may imagine he can best make it known
by using the two sen- tences ; for though, it is true, that while
they are in progress, they will be understood se- parately, yet no
sooner will they be com. pleted, than the hearer will understand
them limited and determined the one by the other, and no longer
abstractedly as while they were in progress. In this manner, in
correspond- ence with the principle stated Sect. 21 . iii., will
the same result be obtained by the two, as by tlie one
sentence. This power, which exists in all lan- guages, of expressing
the same thought in a variety of different ways, is, one would
think, a suiEcient proof, by itself; that thoughts and words have
not the kind of correspondence whicli is commonly imagined : for if such
cor- respondence had existed, the same thoughts would always have
been expressed, if not by the same words, yet by words of similar
mean- ing in the same order. Let us suppose that tlie expressing a
thought by several words,' I had been, (which it is not,) a process
analo- gous to that of expressing the combined sounds of a single
word by several letters. There is the more propriety in instituting tlie
compa- rison, because men were driven to the latter expedient by a
necessity similar to that which drove them to the former. For, no
doubt, the first idea of the inventors of writing was, to
appropriate a character for every word ; and we are told that, to this
day, a practice near to this prevails in China, But it was soon
found that the immense number of characters this would require, must make
the completion of the design next to impracticable ; and the
expedient was at length adopted of spelling words. By this expedient,
twenty four cha- racters, by their endless varieties of position
with each other, are capable of signifying the multitude of words, and
the innumerable sen- tences, which constitute speech. The parts of
speech were set on foot by a similar urgency, and in tlie same way. At
first, every sound was a sentence. But the communications which the
business of life required, far, far outnumbered every possible variety of
sound. It was fortunate, therefore, when a necessity eo
ON C arose to give to some of the sounds a less
par- ticular application ; for then the requisite sign was formed
out of two or more sounds already in use, and no new sound was required.
So far the parallel holds ; but it will go no further. In the
spelling of words by letters, the same letters must always be used, if
not the same characters, yet characters of the same power. And it
would have been the same in spelling a thought by words, if the process
had been what it is commonly supposed to be :— that is to say, the
same thought would always have been expressed by the same words, or
if the words had been changed, the change must have been word for
word, as in a completely literal translation from one lan- guage to
another. How different this is from fact, hardly needs further examples
in proof. Mr. Harris attempts to shew *, that •
Hermes, Book I. Chap. 8. We cordially agree in Home Tooke's opinion of
thia well-known work, that it is " an improved compilation of almost
all the enors which grammarians liave been accumulating
S tlic different forms or modes of sentences,
depend on the nature of our thoughts. That the character of a thought has
an influence in determming our preference of this or that mode of
speech, needs not be questioned; but all the modes of speech, are
interchangeable at pleasure, and therefore they cannot aub-
stantiallydepend on thenature of our thoughts. An affirmative sentence,
" 1 am going out of town," ma be made imperative, "
know, that I am going out of town ;" or interrogative, *' Is
it necessary to say, that I am going out of town ?" A negative
sentence, " No man is immortal," maybe made affirmative,
"Every man is mortal." It would waste time and patience
to multiply examples. The con- clusion, then, is, that the parts of
speech and from the time of Aristotle, to our present days."
Di- versions of Furley, Vol. I. page 120. Vet occasionally, when
our etymologist runs a little bard on this Com- piler of errors, the
theory we advance, opposite as it ib in its general tenor to all that the
Hermes conttuns, will be found to lend its author a lift. See the
section ensuing in the text. the forms of sentences,
are alike attributable to the necessities and conveniences of lan-
guage, and not to the nature of our thoughts independently of language.
Perhaps by this time it may almost seem that an opinion con- trary
to this has no defined existence, and that the combat has been against a
shadow. But this is not true. If the opinion opposed to the
principles contended for, is seldom ^rwio% expressed, it is nevertheless
universally under- stood it is at the bottom of all the systems of
grammar, of logic, and of rhetoric, which we study in our youth, and
which we after- wards make our children study ; and as it is an
opinion radically, essentially wrong, the pains employed to overthrow it,
cannot, if successful, have been supeiHuous. In no other way was a
preparation to be made for an outline of the higher departments of
Sema- tology. 30. New, however, as we believe our
theory to be, yet it is not without authorities in its favour ; and with
these we shall conclude the chapter. Harris, the author of"
Hermes," in treating of connectives, stumbles unawares on the
fact, that a word which is significant when alone, may he no significant
part of what is meant hy the expression it helps to form. He makes
nothing indeed of the fact, further than to lay himself open to the
ridicule of Home Tooke for tKe inconsistent assertions in which it
involves him. " Having" says Tooke *, "defined a word to
he a sound significant, he (viz. Harris) now defines a pre- position to
be a word devoid of signification ; and a few pages after, he says, '
prepositions commonly transfuse something of their own meaning into
the words with which they are compounded.' Now if I agree with
him," continues Tooke, " that words ai'e sounds
significant, how can I agree that there are sorts of words devoid of
signification ? And if I could suppose that prepositions are devoid
of signification, how could I afterwards allow, ' Diversions
of Purley, Vol. I. Cliap. 9. 9 that they
transfuse something of their own meaning?" Yet with all this, Harris
is right, only that he is not aware of the principle, which lies at
the bottom of his own doctriue. A preposition, as well as every other
word, is a sound significant j it has an independent abstract
signification : but being joined into a sentence, it is devoid of that
signification it had when alone : it has then transfused its own
meaning into the word with which It is compounded, as that word has
transfused its meaning into the preposition that is to say, they
have but one meaning between them. 31. But Dugaid Stewart, in his
Philoso- phical Essays, furnishes a direct, and a more satisfactory
authority in favour of the theory we have advanced. " In reading
" says he •, " the enunciation of a preposition, we are
apt to fancy, that for every word contained in it, there is an idea
presented to the understand- ing ; from the combination and comparison
of which ideas, results that act of the mind • Philosophical
Essays, Essay 5. Chap. I. called judgment. So different is
all this from fact, that our words, when examined sepa- rately, are
often as completely insignificant aa the letters of which they are
composed, de- riving their meaning solely from the connexion or
relation in which they stand to others." Again : " When we listen to a language
which admits of such transpositions in the arrange- ment of words
as are familiar to us in Latin, the artificial structure of the
discourse suspends, in a great measure, our conjectures about the
sense, till, at the close of the period, the verb, in the very instant of
its utterance, unriddles the jenigma. Previous to this, the former
words and phrases resemble those detached and unmeaning patches of
different colours, which compose what op- ticians call an anamorphosis ;
while the effect of the verb, at the end, may be compared to that
of the mirror, by which the anamorphosis is reformed, and which combines
these appa- rently fortuitous materials, into a beautiful portrait
or landscape. In instances of this sort, it will generally be found, upon
an accurate examination, that the intellectual act, as far as we
are able to trace it, is altogether simple, and incapable of analysis
; and that the elements into which we flatter ourselves we have
resolved it, are nothing more than the grammatical elements of
speech j the logical doctrine about the com- parison of ideas, bearing a
much closer affinity to the task of a school-boy in parsing his
lesson, than to the researches of philoso- phers able to form a just
conception of the mystery to be explained." Had this acute
philosopher brought these views of language to the elucidation of
Grammar, Logic, and Rhetoric, and so have cleared them from the
incrusted errors of immemorial antiquity, the reader's patience would not
have been tried by the chapter now finished and those which are to
follow. Say, first, of God above, or man below. What
can we reason, but from what we know. POPE. 1. In
commencing this branch of Semato- logy, it may be as well to define not
only this but the other branches, that their presumed relation and
difference may at once appear : i. Grammar, then, is the right use
of words with a view to their several functions and inflexions in
forming them into sentences ; ii. Logic is the right use of words
with a view to the investigation of truth ; and iii. Rhetoric
is the right use of words with a view to inform, convince, or persuade
*. * This definition includes the poet^s use of words as well
as that of every other person, who, having one or more of the purposes
mentioned in view, speaks or fts The object of the
present chapter will be, to show that there is no art of Logic
(except sucli as is an imposition on the un- derstanding but that which
arises out of the principles ascertained in the previous chap- ter
; that tliis, which is the Logic every man uses, agrees with the
definition in the previ- ous section; —and that we cannot carry the
definition further, without transgressing a clearly marked line which
will usefidly distin- guish between Logic and Rhetoric. 3. In
affirming that there is no art of Lo- gic but that which arises out of
the use of signs, we do not mean that reason itself is de- writes
skilfully. Should it be said, that the poet's end is to delight, we
answer that he gains this end by in- forming, convincing, or persuading.
The true dis- tinction between the poet and any other speaker or
wri- ter, lies iu the different nature of their thoughts, In
communicating his thoughts, the poet, like others who are skilful in the
use of words to inform, convince, or persuade, is a rhetorician ;
although, with reference to the creative genius displayed, {iroix^n a
jrcn'm,) and al- so with reference to the added ornament of metre
or rhyme, we chU the result, a poem. pendent on language. Reason
must exist pri- or to language, or language could not be in- Vented
or adopted. What we affirm is, that prior to the use of words or
equivalent signs, o art exists : the mind then perceives, as far
fts its powers extend, intuitively; and thus working without media, it
can no morye ope- rate otherwise than as at first, than the eye can
see otherwise than nature enables it. The mind can, however, invent the
means to assist its operations, as it has invented the telescope to
assist the eye ; the difference being, that the telescope is not such an
instrument as all minds would invent, but the use of signs to
assist its operations, grows out of the human mind by its very
constitution, and the influ- ence of society upon that
constitution. 4. That writers on Logic do not in gene- ' ral
view the matter in this light, is evident from this, that they devote, or
at least they persuade themselves and their readers that they
devote, a great pait of their considera- tion to the operations of the
mind indepeud- 9entlyof language, which, for any practical
end, must evidently be nugatory on the supposi- tion stated above ;
since, if the mind, without the aid of signs, can but operate as nature
en- ables it, all instruction concerning what the mind does by
itself*, will but be an attempt * WattB Bays t&at " the
design of Logic, b to teaeli us the right use of our reason."
Recurring to our comparisDU in the previous section, this is as if
any one had proposed to teach the right use of the eye. It is true
indeed, a man may be taught a right use of the eye, that is, he may be
taught to observe proper ob- jects by its means ; and so may he be taught
a right use of reason by applying it to those things which are
conducive to his improvement and happiness. But all this belongs to
Morals not to Logic ; nor was this Watts's meaning. He imagined a man
could be tattght how to use his reason independently of any
considera- tion of an instrument to work with ; as if any one had
offered to teach mankind how to sec with their eyes. Now, there is
nothing preposterous in offering to show how a telescope is to be used in
order to assist the eye ; nor any thing preposterous in trying to
show how words may be used in a better manner than com- mon custom
instructs us, in order to assist the mind. Be it observed that the
objection here made, is to what was proposed to be done by Watts, and
not to teach us that which every one does with- out teaching, and
which no teaching can make us do better : but if, by the use of signs,
the mind can carry its natural operations to things which it could not
reach without signs, the instruction of the logician should at once
begin by pointing out the use and the abuse of signs. Now this is in fact
the point at which every teacher of logic does begin, how- ever he
may disguise the real proceeding from himself, and whatever confusion he may
throw over his subject, by not knowing in what way he is concerned
with it. In pretending to teach us the nature of ideas j logicians do
no- thing but teach us what knowledge we attain to what he
actually does, except so far as he has done it amiss from setting out
badly. What follows in the text will explain this last observation.
Our illustration must not lead the reader to think we are ignorant
of the fact that men do learn to see, that is, to correct, by experience
and judgment, the im- pression of objects on the retina. We take the
matter as commonly understood, namely, that men see correct- ly by
nature, which is near enough to the truth for our present
purpose. by means of words-, and when Home Tooke says of Locke's
great work, that it is " merely a grammatical Essay or Treatise on
words," * be comes so near the truth, that it is wonder- ful
he should have so wrongly interpreted other parts of that philosopher's
doctrine. Putting a wrong construction on Locke's just fundamental
principle, that the mind has no innate ideas, Tooke affirms that '* the
busi- ness of the mind, as far as it regards language, extends no
further than to receive impres- sions, that is, to have sensations or
feelings. What are called its operations are merely the operations
of language." t This is palpably absurd ; ftx how can language
operate of it- Diversions of I'utley -j- Diversions of Purley,
Vol. I. page 51. We have already quoted this passage ; and perhaps more
than ontc : but it is hoped we need not apologise for the re-
petitions whicli may be found in this and the next chapter. Our purpose
is to trace Grammar, Logic, and Rhetoric, to a common source, and in
doing so, if they really have an origin in common, we must
necesEarily traverse the same ground repeatedly to come at it aelf?
The mind must observe, compare, and judge *, before it can invent or
adopt the lan- guage of art ; and having adopted it, every use of
it is an exercise of the reasoning facul- ty, excepting only that kind of
instinctive use, in which some short sentence takes the place of a
natural ejaculation. Feelings or sensa- tions we cannot help having ; but
these do not help us to language. This requires the ac- tive powers
of the mind ; and every word, in- dividually, will accordingly be found
the sign of something we kno-w, obtained, as every thing we know
must be obtained, by previous acts of comparison and judgment,
involving, These powers of the mind are innate, that is to e&y,
they belong to tlie mind by its constitution, al- though sensation is the
appointed means for first call- ing them forth. It should seem as if
Tooke thought nothing was bom with man except the power to receive
senEStionB or feelings, and that reason comes from Un- guage ; an opinion
so preposterous that we can hardly think him capable of it ; and yet,
from what he says, no other can be understood : "
Jleason,"" he says, " ia the result of the senses, and of
experience." Diver- sions of Purley, Vol. 11, p^e 16.in every
instance beyond that which sets the sign on foot, an inference gained by
the use of a medium. And such, as we have seen, are the necessities
of speech, that tliey lead us constantly to extend the application
of words ; which extension requires new acts of comparison and judgment;
and thus, by means of words, (or signs equivalent to words,) we are
constantly adding to our knowledge, still carrying the signs with us, to
mark and contain it, and to serve afterwards as the media for
reaching new conclusions. It is only ne- cessary to read Locke's Essay
with this ac- count of the matter in view, to prove that it is the
true account j so readily will all that he has said on ideas, yield to
this simple inter- pretation *, He who first made use of words
Read," saya Tookc, " the Essay on the Underslnnding over with
attention, and see whether all that its immortal author has justly
concluded, will not hold equally true and clear, if we substitute
the composition, &c. of lerraa, wherever he has supposed a
composition, Sec. of ideas. And if that, upon strict examination, appear
to you to be the case, you will equivalent to yellow, white, heat, cold,
soft, hard, bitter, sweet*, used them, respectivelyy to signify the
individual sensation he was con- scious of, and in that first use, the
expression must have been a sentence, or tantamount to a sentence.
By experience, he came to know the exterior cause of that sensation, and
after- wards, by the same means, to know that other need no other argument
against the composition of ideas : it being exactly similar to that
unanswerable one which Mr. Locke himself declares to be sufficient
against their being innate. For the supposition is un- necessary : every
purpose for which the composition of ideas was imagined being more easily
and naturally answered by the composition of terms, whilst at the
same time it does likewise clear up many difficulties in which the
supposed composition of ideas necessarily in- volves us." Diversions
of Purley. In this, and other passages, H. Tooke is very near the
trutli ; but he nevertheless misses it. " The com- position, Sic. of
terms "' in lieu of " the composition, &c. of ideas,"
does not describe the actual process. But Tooke, who discovers that Locke
has started at a wrong place, begins his own theory from a false
found-4 ation. • yide Locke, B. 2. ad initium : we have
used the examples before. Chap. I, Sect. 16.
ol^ects produced the same sensation. To these several objects
he would naturally apply the expression (originally tantamount to a
sen- tence) by which he first signified the sensa- tion ; and
suppose those objects already pro- vided with namesj the expression
would, in such pew application, be tantamount to a name or
noun-adjective. Thus in the several instances, he would use two names for
one thing, in correspondence with our present practice when we say,
yclhw flower, yellow sky, yellow earth, yellow skin. Such a proce-
dure is an effect and a proof of what the speak- er has observed in
common, and of what he observes to be different, in the several ob-
jects; and this is a knowledge evidently ob- tained from comparison and
judgment exer- cised on many particulars. The same know- ledge enables
us, when we please, to drop the words which name the objects accojding
to their differences, and to retain only that which signifies their
similarity, and the name-adjec- tiv e then becomes a
name-substantive standing for the sensation itself whenever or how4 ever
produced, and not standing for it in amy particular case, until limited
to do so by the assistance of other words. Individually and
separately, then, these words^ viz. yellow; white, heat, cold, soft,
&c. are, to him who has properly used them in particulars, tiie
eigns of the knowledge he ha^ gained by com^ paring those particulars
:«^hey denote con- clusions arising out of a rational process which
has been carried on by their means ; which conclusion, as to the
word^elloWf for instaop^ is this, ^that there are great mwy Qbjepte which produce the
same sensation, or a sensar tion very nearly the same j*— ^(very nearly
the same, since yeU&w^ by all who have acquired a full use of the
word, is applied to different shades of yellow j ) and to understand
the word, is to have arrived at, or kno^ this cof^- elusion.
5. The words so far referred to, are those which denote what Locke
calls simple ide^js. Now, we may reasonably doubt wheth^ the mind
could have obtained the knowledge, which, as we have seen, is included
even in a word of this kind, if it had not been gifted with the
power of inventing a sign to assist itself in the operation. That sign
needs not be a word, though words are the signs com- monly used. He
who remembers the sensa- tion of colour produced by a crocus, is
re- minded of the crocus the next time he has the same sensation
from a different thing ; and the crocus may become the sign of that
sensation arising from the new object, and from every future one. And
this is the way in which the mind probably assists itself an-
tecedently to the use of language, or where, (as in the case of the
totally deaf *,) the use of Though long for a quotation, yet we cannot
re- sist transcribing, from a work by Dr. Watson, master of the
Deaf and Dumb Asylum, Kent Road, near London, the following able remarks
: they will help to shew how for superior are audible signs to
every other kind, and place in its proper light the misfor- tune of
being naturally incapable of them. He is speaking of the comparative
importance of the two it, by the ordinary means of attainment, is
precluded. But for this power of the mind, senBES, hearing and
seeing. " Were the point," he says, " to be determined by
the value of the direct sensations transmitted to the sensorium through
each of them, merely as direct sensations, there could not be any
ground for a moment's hesitation in pro., nouncing the almost infinite
superiority of the ej/e to ] the ear. For what is the sum of that which
we derive I from the car as direct sensation P It is sound ; and
sound indeed admits of infinite variety ; but strip it of j the value it
derives Irom arbitrary associations, and it is but a titillation of the
organ of sense, painful or pleasurable according as it is shrilly soft,
rough, dis- cordant, or harmonious, Sec. Should one, on tlic con-
trary, attempt to set forth the sum of the information we derive from the
eye " independently of the aid derived from arbitrary means "
it is so immense, that volumes could not contain a full description of it
; so precious, ' that no words short of those we apply to the mind
itself, can adequately express its value. Indeed, all lan- guages
bear witness to this, by figuratively adopting visible imagery to signify
the highest operations of in- tellect. Expunge such imagery from any
language, and what will be left ! What, in this case, must be- come
of the most admired productions of human ge- nius P Whence then (and the
question is often asked) 1 does it arise, that those bom blind have such
su- h2 which seems pecuHai* to man, and is the cause
of language, (not the effect of it, as perlority of imelligence over those
bom deaf? Take, it miglit be said, ii boy nine or ten years of age who
has never seen the light, and you will find him con- versable, and ready
to give long narratives of past oc- currenceH, &c. Place by his side
a boy of the same age who baa had the misfortune to be bom deaf,
and observe the contrast. The latter is insensible to all you say :
he smiles, perhaps, and his countenance ie brightened by tlie beams of '
holy light;' he enjoys the face of nature; nay, reads with attention
your features ; and, by sympathy, reflects your smile or your
frown. But he remains mute : he gives no ac- count of past experience or
of future hopes. You at- tempt to draw something of this sort from him :
he tries to understand, and to make himself understood ; but he
cannot. He becomes embarrassed : you feci for him, and turn away from a
scene so trying, under an impression that, of these two children of
mi^ fortune, the com])ari8on is greatly in favour of the blind, who
appears, by his language, to enter into all your feelings and
conceptions, while the unfortunate deaf mute can hardly be regarded as a
rational being ; yet he possesses all the advantages of vi- sual
information. All this is true. But the cause of this apparent superiority
of intelligence in the blind, is seldom properly understood. It is not that
those H. Tooke seems to tliiak,) we never should have been
able to arrange olyects in classes, who are blind possess a
greater, or anything like an equai stock of materiak for mental op^adons,
but bs- cause they possess an invaluable etigine for forward- ing
those operotioiis, however scanty the materials to operate upon artificial
language. Language is de- fined to be the expression of thought ; so it
is : but it is, moreover, the medium of thinking. Its value U>
man is nearly equivalent to that of his reasoning fa- culties: without
it, he would hardly be rational. It is the want of language, and not the
want of hearing, (unless as being the cause of the wont of
language,) that occasions that deficiency of intelligence or
ine&. pansion of the reasoning faculty, so observable in the
naturally deaf and dumb. Give them but language, by which they may
designate, compare, classiiy, an4 consequently remember, excite, and
express their sen^ sations and ideas, then they must surpass the
origin< ally and permanently blind in intellectual perspicuity
and correctness of comprehension, (as far as having kctual ideas afiixed
to words and phrases is concerned,) by as much as the sense of seeing,
furnishes matter for mental operations beyond the sense of hearing, con-
Eidered as direct sensation. It is one thing to have a^ fluency of words,
and quite another to have correct no- tions or precise ideas annexed to
them. But though the car furnishes us only with the sensation of
sound, and reason on them when so arranged ; nor to consider
some common quality in many ob- jects, separately from the objects
themselves. Every object might have produced the same individual
effect by the senses, which it now produces, and have been recognized as
the same object when it produced the effect again ; for all
this happens to other animals, as to man ; but to know a something in
each which is common to many, implies a remem- brance of that
something in the rest at the time of perceiving each individually j
and how can this remembrance, (a remembrance and sound,
merely as such, can stand no comparlEOD with the multiform, delightful,
and important informa- tion derived from visual imprestiioDS ; yet as
sound admits of such astonishing variety, (above all when
articulated,) and is associablc, at pleasure, in the mind with our other
sensations, and with our ideas," (notions,) " it becomes the
ready exponent or nomenclature of thought ; and in this view is important
indeed. It is on thie account, chiefly, that the want of hearing is to
be deplored as a melancholy chasm in the human frame.'" Instruction
of the Deaf and Dumb, not of the objects, but of a common some-
thing in all of them,) how can it be kept up, but by a sign fitted to
this duty ; which sign, as just observed, may be either a word, or
one of the objects set up to denote the com- mon characteristic, and
retained in mind Bolely for this purpose, in this representative
capacity ? 6. In proceeding from what are called by Locke
simple ideas to those he denominates [ complex, we shall find the account
just given equally applicable. The words he refers to . under the
threefold division of Modes, Sub- stances, Relations, are, as our last
examples, signs of certain conclusions obtained from s comparison
of particulars. This is true even \ of a proper name ; for a proper name,
as was ' shewn Chap. I. Sect. 3., does not denote an individual as
we actually perceive him, or as. J we remember him at any one time ; but
it J denotes a notion, that is, a knowledge of him I drawn out of,
or separated from all our par- ' I04f oNr Lo&ic. [cHap.
ii. ticular perceptions *• For such an effect of reason^ we
have however nb certainty that the superior powers of the huknan mind
ar« indispensable; nor is it eiisy to ascertaiq any peculiar
privilege it enjoys till we find it rising from individuals to classes.
As soon as it sets up a sign to represent some property, whether
pure or mixed, which has been observed iA many individuals,— or to
re- * It id aft efifect of reaisoiiing to know that a
pa]>> ticular act or situation, which enters into our percep-
tion or conception of an object, is not essential to know, for instance,
tliat the act of walkiAg is ftot es- iBentiAl to John. The reasoning by
which «uch k^w- ledge is acquired, occurs indeed so early, that the
operation is forgotten ; but there was a time when our perceptions were
without the knowledge, because they had not been repeated i^ isu^ti^t
hUtiibet to leHkbl^ the mind to make the BCcessary ootaipluidcms^
Th^ natives of the South Sea Islands^ when Cttptaia Cook <8nd
his companions first made their appearance among them, took every sailor
and his garments to be one creature, and did not arrive at a different
condhision, but by o{>portuiiitte6 fdr comparicon.
present the whole class of individuals, so classed because of the
common property, ^it displays a power of assisting itself which we
have no cause to think any of the inferior animals enjoy. To ahew how
this takes place in producing what Locke calls complex ideas, and
which he subdivides into Modes, Sub- stances, Relations, would only carry
us onc^ more over the ground we have so often cur- Lsorily
traversed. We should have to shew, for instance, how some word, at first
equiva- lent to a sentence, by which a man expressed his delight at
a particular visible object, came to be a name for the object ; how this
name beauly, came to be applied as a noun-adjec- tive to the
nouns-subatantive of other objects producing the same or a similar
emotion j how, by the continued application of this noun-adjective,
we kept on comparing innu? merable particulars, till our knowledge
(no- tion) included a very wide class of things very different
indeed in other respects, nay^ including objects of other senses than
sight— but still, agreeing with each other in a certain
effect produced on the mind : and that then, dropping the
nouns-substantive of the nu- merous individuals, we retained solely in
con- templation the noun beautiful or beauty, the sign of the
knowledge we had gained from this extensive comparison— of the
induction derived from these numerous particulars *. • Very
few persons reach so wide a knowledge of the subject as we here refer to,
and books may be, and have been written, to teach us how to apply the
word beautiful with taste, and critical nay, moral pro- priety.
Having attained so far, we are not to suppose that beautiful or beauty is
a real existence independently of the classification of objects we have
thus established. All we have learned is, to know the objects which
pro- duce a certain elfect ; to know why they produce it ; to
enjoy, it is probable, the pleasure of that effect with higher relish ;
and to be prepared, by means of the classiUcation we have formed, to
lise, in our reasonings on the objects it contains, to higher truths, and
still more important conclusions. Now, if the reader would see how
a business so plain and simple, may appear very complex and mysterious,
let him consult Plato on the beautiful or t'o xayjtv, as he
will find it treated, for instance, in the dialogue called STMHOSION
: Let him admire as he will, (for who can help it. We should again
have to shew, (to take another instance,) how a word once expres-
sive of some sentiment or recognition of which a horse was the subject,
came to be used as a name for that particular horse i that the name
came afterwards to be given to another resembling creature, thence
to another, and to others, till the points of re- semblance which
led to this extension of the word, could be found no longer *. We
should especially in company with Cicero, witness his Errare
tnekercule malo cum Plaione, quam cum istia vere sentire?) let him admire
the sublimity which the amiable and highly-gifted Athenian throws over
his doctrine ; but let him not be betrayed into an opinion, that a
speculation which is in the most exalted etriun liipoeh'y, belongs to the
sober, the undazzled, and tin- dazzling views of philosophy.
• Compare Chap. I.Sect, 10. We may be per- mitted once more to
observe, that, with regard to sab- stances at least, the sign of the
class needs not be a word : one individual set up for all, will equally
serve the purpose. Not that the boundaries of a class are plain,
till an accurate logic determines them ; but the general differences (as
of the horse, for instance) are sufficiently obvious to prevent a person
from being likewise have toshew, (totake a third instance,)
how some word,-^originally equivalent, like the others, to a sentence, by
which a man expressed his gratitude for kind offices, might come to
be a name for every one to whom gratitude for similar offices was due;
and how this ua.me,Jriend, applied at first only to
misled, who carries one individual in his mind ae the eign of all
he has seen, and all he calculates on seeing, and reasonB on this one,
with a conviction that the reasoning includes all the others. The idea of
an in- dividual thing which is thus set up as the represent- ative
of a class, may perhaps, without impropriety, be called a general idea ;
and if Locke had never used the expression but in subservience to such an
cxplana- uon, little or no exception could have been taken to it. There
is a passage (Essay on the Understanding, Book III., Chap. 3. Sect. Jl.)
which perfectly ac- cords with the doctrine in the text, and proves
that though Locke had misled himself by setting out with an opinion
that the operations of the human under- standing could be treated of
independently of words, he had more correct thoughts on the subject as
he proceeded. Another passage, giving a correct account of
abstraction with reference to language as the instru- ment, will be found
Book IL Chap. II- Sect. 9- one who stood in this ration to
the speaker, came at last, by observing and comparing other cases,
to be applied to all who stood in the same relation to any other person.
We should, in short, have to shew the same pro- cess with regard to
all the examples of modes, substances, and relations, which Locke's
Es- say supplies; but with these brief hints to guide him, the
reader may be left, in other instances, to trace the process for
himsdf. It will now be time, still witii reference to the
principles ascertained in the last chapter, —to examine some other points
of doctrine in- sisted upon by writers on Logic. 7. The
operations of the mind necessary in Logic are said to be three, viz.
Percep- tion or Simple Apprehension ; Judgment ; and Reasoning.
Under the first of these di- visions, writers on Logic treat of ideas,
or the notions denoted by separate words, that is, words not joined
into sentences ; under the second, they give us separate sentences,
technically called propositions j ^and under the third, they shew how two
propositions may of necessity produce another, so that the three
shall express one act of reasoning. Now, that perception, judgment, and
reasoning, are all essential to Logic, needs not be called in
question ; but if the theory we have before us in this treatise be true,
the common doc- trine will appear, by the manner in which it ex-
emplifies these acts of the mind, to have com- pletely confounded what
really takes place, in the preparation for, and in the exercise of
this art. What, in the first place, is perception but a sensation
or sensations from exterior objects accompanied by a judgment ? Our
earliest sensations are unaccompanied by any judg- ment upon them ;
for we must have ma- terials to compare in order to judge ; and
these materials, in the earliest period of our existence, are yet to be
collected. At length, we can compare j and because we can com-
pare, we judge, and hence we come to know : " I know that the object
which now affects my sense of vision is a being like myself; I
know him to be one of a great many similar
beings j I know him to be older or younger, &c. ; I know that what
now affects my sense of = hearing, is the cry or bark of a dog" •,
&c.j I could not know all this, if I had had no means of
judging ; and I can have no means of judging which the senses do not
originally furnish or give rise to. Perceptiouj then, (which in
every case is more than mere sen- sation,) always includes an act of judgment
; and to treat of Perception and Judgment under different divisions
of Logic, must pre- vent the proper understanding of both. In-
stead, however, of the term Perception, some writers t use that of Simple
Apprehension. *' Simple apprehension," says Dr.
"Wliately, *' is the notion (or conception) of any object in
the mind, analogous to the perception of the senses." t The examples
appended to • See Chap. I. Sect. 16. of- Viz.
Professor Duncan and Dr. Whately. J Elements of Logic by Dr. Whately,
Chap. II. Part I. Sect. 1. this definition, are,
*'inan;" "horse;" •'cards ;" " a man on
horseback ;" " a pack of cards." Now, if the notion or
conception of tliese, 13 analogous to the perception of them by the
senses, then, as the perception includes an act of judgment, so
Ukewise does the conception. But, in truth, the no- tion
corresponding to any of these expressions, is very different from the
perception of a man, a horse, a man on horseback, &c. ; and the
word or phrase in a detached state does not stand for a perception or
concep- tion inclusive only of an act of judgment, but signifies an
inference obtained by the use of a medium, in other words, a
rational conclusion. For in all cases, what gives the name and
character of rational to a proceed- ing, is the use of means to gain the
end in view. When we perceive intuitively of two men, that one is
taller than the other, al- though the judgment we form may be an
e0ect of reason, yet we do not describe it as a rational process ; but if
the investigator, not being able to make a direct comparison
between them, introduces a medium, and by its means infers that one is
taller than the other, then we say the conclusion has been obtained
by a process of reason *. So, in applying a common name to two
individuals that are intuitively perceived to resemble, we may be
said to exert the judgment, and nothing more ; but if we apply it to a
third, and a fourth, and a fifth, it is a proof that we measure
each by the common qualities ob- served in the first two, and that we
carry in the mind a sign of those common qualities (whether the
name, or one of the former in- dividuals) for the purpose of carrying on
the process. In this way, an abstract word or phrase, let it
signify what it will, provided it be but abstract, is both the sign of
some ra- Reasnn is the capacity for using mpdia of any kind, and it
consequent capacity for language : the term reasoning has reference to
tlie act of thinking, with the aid of media in order to reach a
couclu- tional conclusion the mind has already come
to, and the means of reaching other conclu- sions : which statement is
true even of a proper name. For the name John, for in- stance,
underetood abstractedly, does not sig- nify John as we now perceive him,
or as we have perceived him at any one time ; but it signifies our
knowledge of him separately from any of those perceptions. But we
could not know of him separately from our percep- tions, unless we
had the power of setting up some sign (whether the name or aught
else) of what was common to all those perceptions, and comparing
them all with that sign *. • It is not meant that we could not know
him every time we perceived him, but that we could not know of him
separately from our perceptiong, if we bad not the power spoken of in the
text. It might be curious to trace this distinction in the case of a
dog. A dog knowE his master every time he perceives him : when he
does not perceive him, he is reminded of his absence by some change in
his sensations, (smcU, for instance, as well as sight, and perhaps
some others ;) he therefore seeks him, and irets if he cannot find
him. But abstracted from all perception, and It appears, then, from what
precedes, that words and phrases which writers on Logic give as
examples of Perception or Simple Apprehension distinct from Judg-
ment and from Reasoning, are no examples at all of the first distinct
i'rom the latter two ; and equally groundless will appear that dis-
tinction which refers a proposition to an act of judgment separate from
reasoning. Not that an act of reasoning takes place whenever a
proposition or sentence is uttered. For, as we have seen in the previous
chapter, (Sect. 19.) a speaker does not always think of the separate
meaning of the words when he utters a sentence ; and if a sentence
denotes, as a whole, some sensation or emotion not de- pendent on
reason, (for instance, " My head aches;" •' My eyes are
delighted,") the ut- tering of it as a whole, without attending
to the sqiarate words, will no moj'e express aa from
all notice by change of sensation, it will scarcely be contended that a
dog knows of his master, as a ra- tionsl being knows of his absent
friend. act of reasoning, or even of judgment, than
would a natural ejaculation arising out of the occasion, and used in
place of the sentence. But the following propositions, " Plato was
a philosopher;" "No man is innocent ;" which are
given in Watts's Logic as examples of the act of the mind called
Judgment, stand on a different footing ; and we affirm that, being
used Logically, they involve not an act of judgment merely, but express a
conclusion drawn from acts of reasoning. 9- Previously to
shewing what has just been asserted, let us distinguish a grammati-
cal, and an historical understanding of these sentences ; for a mere
grammatical under- standing of them must be, and an historical may
be, essentially different from the logical understanding of them. A
grammatical un- derstanding, for example, of the sentence, Plato
was a philosopher, is merely a recog- nition of its correctness as a form
of speech without considering whether it conveys any meaning or not
; and it would be grammatically understood if any words whatever were
substituted for those that compose the sen- tence, provided they had a
proper syntactical agreement. An historical understanding im- plies
some concern with the meaning of the sentence ; but this may be very
different in kind and degree, as depending on the know- ledge
whicli the mind is previously possessed of. If the hearer did not know
what Plato waa previously to the communication, but knew the
meaning of the word philosopher, he would, by the sentence, be informed
what he was, If he previously knew, from history, how Plato lived,
thought, and acted, but did not know the meaning of the term philosopher,
the ad- ditional information conveyed to him by the sentence, would
be but little : he would be in- formed. Indeed, that he was called a
philoso- pher, but why or wherefore, he could, for the present,
only guess. Let us suppose, however, that before he comes to calculate
why Plato is called a philosopher, he had heard the word plied to
others : if he bad heard Socrates m [chap.
II. called a philosopher, and Confucius a philosopher, he
would, on hearing Plato so called, compafe the individuals in order to
ascertain some common qualities in all, of which the word might be
the sign, and getting these, he would know or have a notion of the
word philosopher ; though the notion would pro- bably undergo many
modifications as otlier individuals, Solomon, Seneca, Locke, Rous-
seau, Newton, were successively subjected to the common sign : for if the
hearer fixes his notion at once, many individuals will perhaps be
excluded from his class of philosophers, which other people include under
that term ; and perhaps he will include many, which the usage of
the term excludes. In this way, then, while our knowledge of what is
included in separate words or phrases is imperfect, we may
nevertheless have some understanding of the sentences we hear or read ;
and this his- torical understanding suggests the reasoning process just
described, by which we get a logical understanding of the separate
words. But now to make a logical use of tfaem in framing a
proposition. We suppose the preliminary steps, namely the knowledge
included in the separate words ; we suppose it to be known, from history,
how Plato lived, thought, and acted ; we suppose it to be known
what is meant by philosopfier, by having heard the word applied to many
indi- viduals i but we have not yet applied it to ' Plato ; in
other words, we have yet to ascer- tain whether Plato belongs to the
class of in- dividuals denominated philosophers. Writers on Logic
talk of a comparison of ideas for this purpose, and of an intuition or
judgment ; but this, to say the best of it, is an imperfect and
bungled account of the matter. If, in- deed, to know how Plato lived and
acted can be called an idea, it is necessary to have this idea ; it
is further necessary to have a clear notion of the term philosopher, if
this again can be called an idea: and it is true enough that in
comparing Plato with this sign, we judge or know their agreement
intuitively. But out of this intuitive judgment an infer- ence
arises, and the sentence expresses that inference : a comparison has been
instituted through the intervention of a medium, in order to
ascertain whether Plato is to be as- signed to a certain class of
individuals ; we intuitively perceive his agreement with the
medium, and draw or pronounce our infer- ence accordingly, " Plato
was a philoso- pher." Nor is this the splitting of a hair, but
a real distinction, marked and determined by that difference in the words
so often pointed out, when understood detachedly, and when
understood as a sentence. The proposition, Plalu was a pJiilosopher, may
be understood as a whole, without making the comparison in the mind
between what Plato, and what philosopher, abstractedly signify j
but this, with a full understanding of the whole sentence, can be done
only after the comparison has once at least been effectually made :
then indeed, when the comparison has been made, and the inference drawn,
the sentence which expresses that inference, be- comes, like any
single word, the sign of knowledge deposited in the mind, and, like
such single term, it is fitted to be an instru- ment of new comparisons,
and further con- clusions. Let us now take another proposition : A philosopher, or every philosopher,"
(for the meaning is the same,) " is deserving of
respect." This, hke the other, is an infer- ence from a comparison
which took place in the mind ; previously to which comparison, the
notion or knowledge included in the word I philosopher was obtained in
the manner lately described (Sect. 9.) : and the notion included in
the phrase to be deserving of respect was similarly obtained, but
independently of the knowledge denoted by the other expression ; that
is to say, the phrase deserving of re- spect, was originally, we suppose,
a sentence applied to some one thing deserving of re- spect J
whence it was successively applied to other things till a class was formed
in other words, till a notion (knowledge) was esta- blished in the
mind of what things are de- serving of respect. Now, the present
ques- tion is, whether a philosopher is deserving of respect ? To
determine this, we consider what a philosopher is, (it is presupposed
tliat we have this knowledge,) and we then niea- Bure our notion of
a philosopher with our no- tion of what is deserving of respect, and
thus £nd that a philosopher is to be admitted among the things to
which we had been ac- customed to apply the designation deserving
qf respect : that is to say, we come to the conclusion, that a
philosopher is deserving of respect. Here, therefore, as before, there
has been a reasoning process previously to the proposition, and the
proposition expresses the inference from it. And the comparison
having once been made in this instance as in the other, the sentence
becomes, like any single term, the sign of knowledge deposited in
the mind, and like such single term, is fitted to be an instrument of new
compsrisons, and further conclusions. Well then, we know from
reasoning these two things, that " Plato IB a philosopher," and
that " a philosopher is deserving of respect." These are
detached WORDS* or sentences : but the mind, in com- paring them,
at once comes to the inference that Plato is deserving of respect: and
the whole may be expressed in one sentence ; thus ; " Plato,
who is a philosopher, is deserv- ing of respect j" where
Plato-who-is-a-pJiiio- sopher, is equivalent to a noun-substantive
in the construction of the whole sentence ; and,
deserving-qf-respect is equivalent to another ; and thus the two, with
the assistance of the verb which signifies them to be a sentence,
are but one proposition. Here, as in the former cases, a comparison has
been made \ij. means of the signs of deposited knowledge ^ for we
knew that Plato was a phUosopher; we knew a class of things or persons
deserv- ing of respect: comparing our knowledge by • See the
second note (Aristotle's definition of a' vord bcuig the first) appmded
to Sect. 20. Chap. I. ir. means of the sign
deserving-of-respect, the in- ference follows, that " Plato, who is
a philo- sopher, is deserving of respect." And the comparison
having once been made in this instance as in the others, the sentence
be- comes, like any single terra, the sign of know- ledge deposited
in the mind, and either in this or any other equivalent form, is fitted
to be an instrument of new comparisons and further conclusions. And
in this manner are we able, ad infinitum, to investigate new truths
by means of those already ascertained, always making use of former words
or their equivalents, as the means of operation. 12. Now, so
far as Logic is the art of in- vestigating truth, (and we intend to show
that its office ought not to be considered of further extent,) this
is the whole of its theory. We have defined it as the right use of words
with a view to the investigation of truth ; and the way in which
words are used for the purpose, is that which has been described : in
brief, they are used by the mind in making such comparisons as it
cannot make intuitively. Of two objects, or of a sensation or
emotion twcie experienced, we can intuitively judge what there is
in common between them;, l< suppose a third object, or a sensation,
&c« thrice experienced, an intuitive judgment can still be
applied only to two at a time, and wei can but know in this way what
there is common to every two. But if we set up tf sign of what is
common to two, we can compare with the sign a third, and a fourth, and
a fifth, and judging intuitively how far it agrees with the sign,
we infer its agreement in thq same proportion with the things
signified, In Logic, the sign used is always presumed to be a word.
Now, in our theory of Ian- guage, every word was once a sentence ;
and every sentence which does not express the full communication
intended, but is qualified by another sentence, or becomes a clause of
a larger sentence, is precisely of the nature of any single word
making part of a sentence *. • See Chap. I. Sect. 28.
IM I^CMAP. 11, From the first
moment, then, of converting the expression used for a particular
communi. cation, into an abstract sign of the sentiment or truth
which that communication conveyed, the mind came into possession of the
instru- mental means for furthering its knowledge : and this means
always remains the same in kind, and is always used in the same
way. The word which once signified a present par- ticular
perception, ceased, through the ne- cessities of language, to signify
that percep- tion in particular, and came to signify, in the
abstract, any perception of the same kind, or the object of any such
perception. In this state, it no longer communicated what the mind
felt, thought, or discovered at the moment, but was a sign of knowledge
gather- ed by comparisons on the past. By u«ng this Bign, the mind
was able to pursue its inves> tigations, and every new discovery was
de- noted by a sentence which the sign helped to form, its general
application being limited to the particular purpose by other signs. But
if one WORD" ' may lose its particular pnrpose, and
become an abstract sign, so may another, and be the means, in its turn,
of prosecuting further truths, and entering into the com- position
of new WORDS. Thus will the procesa which constitutes Logic, be aiways
found one and the same in kind, having for its basis the
constitution of artificial language, such as it was ascertained to be in
the previous chapter. H 13. Now of this Lc^ic, the Logic,
uni- H versally, of ntpotres, or woKD-dividing men, H let the characteristics be well
observed, in order H to keep it clear from any other mode of
using H signs for the purpose of reasoning, to which H
the name of Logic is attributed. The Logic H here described, is a
use of words to regista- H our knowledge as fast as we can add to
it, by H new examinations, and new comparisons of I
things } each new esamination, each new H sen! •
The reader will bear in mind the comprehenBive sense of the term which we
have in view, when it is printed in capitate. comparison, being
made with the help and the advantage of our previous knowledge. The
reasoning takes place in the mind in such a manner that it is not a
comparison of terms, but a comparison of what we newly observe,
with what we previously knew. Words indeed are used, because without
signs of one kind or of another to keep before the mind the
knowledge already gained, we could compare only individuals j but however
words may in- tervene, it is always understood that the mind, at
bottom, compares the things, A man may be informed, that, " Plato
who is a phi- losopher, is deserving of respect;" that, "
William who is recommended to his service, is an honest man ;" that,
*• A particular tree in his garden, is a mulberry tree ;"
that, " Stealing is a vice, and temperance is a virtue ;"
that, " Throughout the Universe, all greater bodies attract the
smaller ;" that, " A triangle described within two circles in
such a manner that one of its sides is a radius of both, and the others,
radii of each circle respectively, is an equilateral triangle;" a
man may be informed of these and similar ^'things, and may entirely
believe the inform- ation; nay, hemayjustifiably believe it J for
he may know of those who give it, that their ho- nesty is such,
that they would not wilfully de- ceive him ; that their intelligence and
inform- ation are such, that they are not likely to say what they
do not know to be true : but a man can be said to know these things of
his own knowledge, and in this way to be convinced of their truth,
only by a process of reasoning that musl take place within his own mind ;
a process which can take place only in a mind by nature competent
to it, and which requires, in every case, its proper data or facts,
aided, it is true, by language, or by signs such as Ian- guage
consists of, to register each inference *, • The necessity of language,
as a means of in- vestigation, applies not to our last example. The
mincl may investigate (though no one can demonstrate) mathematical
truths, with no other aid than visible diagrams ; or even diagrams that
are seen only by " the mind's eye." and so to get from one
inference to another, and thus, ad infinitum^ toward truth. Be-
cause the several steps, leach of which is a conclusion so far attained,
cannot take place, without the instrumentality of signs to assist
the mind, we consider the process an art ; and if the signs used are
words, the art is pro- perly called Logic. But whatever aid the
reasoner may borrow from words, the only true grounds of his knowledge
are the facts about which the reasoning is employed. Without them,
no comparison of the terms can force any conviction further than
that the terms agree or disagree. He may be told that " Every
philosopher is deserving of respect,*' and that, " Plato is a
philosopher :** but if he knows not what a philosopher is, or what
it is to be deserving of respect, the comparison of the terms in order to
draw a conclusion from them, will be a mockery of reason : it will
be reasoning indeed, but reasoning without a rational end. And
suppose the knowledge to have been acquired of what a philosopher
is by the application of the word to many particulars, and by a
consequent classification of them in the mind, supposing the
knowledge of what is deserving of respect to have been acquired in the
same way, supposing the inquirer has
learned from history what Plato was in his opinions and manner of
life, the conclusion takes place by a com- parison of the thingSj by
means indeed of words, but not by any comparison of the terms
independently of the things ; nor is the con- viction in the least
fortified, or the process ex- plained, bya demonstration that in
reasoning with the terms alone, independently of their meaning, we
get at the conclusion ; by shewing, for instance, that the terms
which include the facts, may be forced into cor- respondence with
the following ^nwwfa; Every B is A : C is B : Therefore C is
A. Every philosopher is— deserving of respect : Plato is— a
philosopher : Therefore Plato ^is deserving of respect. This way of
drawing a conclusion from a comparison of terms, is. properly speaking,
to reason or argue with words ; but in the Lo- gic we have
ascertained, every conclusion is required to be drawn from a comparison
of the facts which the case furnishes ; and words being used only
for the purpose of registering our conclusions, such Logic is properly
de- fined the art of reasoning by means of words. The inquirer who
seeks to know, of his own knowledge—" Whether William who is
re- commended to his service, is an honest man", will gather
facts of William's conduct by his own observation ; and these he will
com- pare by the light of his previous notion (i. e. knowledge) of
what an honest man is : but then he must have that previous notion, or
he cannot make the comparison ; and the notion will have been
gained by a process just like that he is pursuing : and so downwards to
the original comparison of individiial tJujigs, from which all
knowledge begins. So again, if an inquirer seeks to know that " a
particular tree is a mulberry tree", he must first know what a
mulberry tree is; and how can he know this but by a comparison of
different trees? There must be some art employed to classify the
individual trees, otherwisehe could never know more than the difference
between every two trees. By setting up one tree, or some equivalent
sign, as a word, to denote the common qualities observed in many, he
comes to know what a mulberry tree is ; and looking at the particular
tree in question, he sees that it has the common qualities indica-
ted by the sign, and infers that it is a mul- berry tree. So likewise, if
an inquirer seeks to be convinced that " SteaUng is a
vice", or that "Temperance is a virtue", he must
have such facts before him as will enable him to come to a clear
conclusion as to what is vice, and what is virtue : and this
conclusion will either include or ex- clude stealing with respect to his
notion of vice, and temperance with respect to his notion of
virtue, and he will consequently be convinceti or not convinced of tlie
proposition in question. So, once more, if an inquirer desires to
know, of his own knowledge, *' Whether, throughout the universe,
all greater bodies attract the smaller", he must first observe
certain facts from which the ge- neral law may be assumed hypothetical ly
: he must then ascertain what, according to other notions gained
from experience, would be the effect throughout the universe of the
general law which he has so assumed ; and if the effects arising out of
the hypothesis cor- respond with actual effects, and no other by-
pothesis to account for them can be framed, he will have all the proof
the subject permits, and know of his own knowledge, as far as can
be known, the conclusion asserted. So, lastly, if an inquirer seeks to be
convinced that "a triangle described within two circles in
such a manner that one of its sides is a radius of both, and the
others radii of each circle re- spectively, is an equilateral
triangle", he must first form within his mind the notions of a
triangle, and of a circle, the latter of which he will find can be
conceived perfect in no other way than in correspondence with this
definition : "a plane figure bounded by one line called- the
circumference ; and is such that all straight lines, (called radii,)
drawn from a certain point within it to the circumference, are
equal to one another. " Having formed this notionr^ he will
find, by certain acts of comparison^ (which must take place within the
mind, al- though they may be attsisted by a* visible sign-J^ that
the previous proposition is an inevitable consequence of the notfon so
formed, and his' conviction: wiU be comffiete. If the convic- tion,
in the previous ifrstances, has not the same force as iiti the last^ ^if,
in those instances, the force may be diffident m. degree, while in
the last there can be no coD^victioa short of lliat which iS' absolute
an4- entire, the cause^ in not that the reasoning process^ is
different in kind, but that the facts or data about which" it
is' employed are dii&re»t. In the last in^ stance^ the reasoning is
employed about notions, which admit uf being so defined, that every mind
capable of the reasoning at once assumes them before the reasoning
pro- cess begins ; but in the other instances, the facts or the
notions may be attended by cause for doubt. A man, if he have any notion
of a philosopher at all, cannot indeed but be quite sure
(consciously sure) of his own no- tion of a philosopher j but how can he
be sure that others have the same notion, or even quite sure that
Plato had the qualities that conform to his own notion ? In the
same way, he will be quite sure (consciously sure) of his own
notion of an honest man ; but he may be deceived as to the facts which
bring William within that notion. He will be quite sure
(consciously sure) of the notion he has in naming a tree a mulberry tree
; but that notion may be totally unlike the notion which other
people entertain ; or if the general no- tion agrees, he may mistake the
characteristics in the particular instance. He will be quite sure
(consciously sure) of his own notion of vice or of virtue, and whether it
includes or excludes this or that conduct, action, habit, or
quahtjr ; and in this case the conviction is absolute and entire while
the reasoner confines himself to his own notion ; but the moment he
steps out of this, and begins to inquire whether it agrees with that of
others, he finds cause to doubt. He must be quite sure (sen-
sibly sure) that bodies near above the earth's surface have a tendency
towards it ; and by proper experiments he may convince himself that
all bodies without exception which are so situated, have the same
tendency. In sup-, posing the fact universal of the tendency of
smaller bodies to the greater, his conviction of the consequences
involved in that hypo- thesis, must, as soon as he has mentally
traced them, be absolute and entire ; but he has yet to find
whether reality corresponds with the hy- pothesis. The strongest proof of
this will be, the correspondence of the consequences of the
hypothesis with the phenomena of na- ture, joined to the impossibility of
forming ON LOGIC. [chap. II. another hypothesis which shall
account for these phenomena; and the doubt, if any, will attach to
that impossibility, and to the accuracy of bis observatioda of the
pheno* rneoa* I^ then, there is roonr for doubt, and cocise^aently
for various degrees of assent, in all the instances except m that whose
facts or data are notions which the mind is bound to tstke up
according to the definitions before it enters on the argument, we are not
to con- clude that the reasoning process is different in kind iti
any of them ; since the difl^ence in the facts or data about which the
reasoning process i& employed, fully accounts for the ab- solute
and entire conviction which takes place in one instance, and the degrees
of convictioti which are liable to happen in such cases as^ the
others. 14. But what IB a process or act of rea^ soning? Is
it, abstractedly from the means' u£^d to register its conclusions, and so
pro- ceed to new acts of the same kind, ^is it aa act which rules
can teach, or any generalbsau- tion make clearer, or more satisfactory
than it is originally ? We shall find, upon examina- tioH, that any
such pretence resolves itself in- i to a mere verbal generalization, or
the appli- cation of the same act to itself; and that this does in
no way assist the act of reasoning, or explain, or account for, or
confirm it. A man requires not to be told *' It is impossible for
the same thing to be and not to be," in order to know that himself
exists ; he requires not the previous axiom, " The whole is
greater than its part, or contains its part, " in order to
know that, reckoning his nose a part of his head, his head is greater
than his nose, or his nose belongs to his head ; neither is the
previous axiom, " Things equal to the same, are equal to one
another", necessary to be enounced, before he can understand, that
if he is as tall as his father, and his father as his friend, he is
as tall as his friend *. Whatever neatness of arrangement a system may
derive from being • Compare Lofku's Essay, Book IV. ChajHeis
7 and 12. 1headed with such verbal generalizations, it
is manifest that they neither assist the reasoning nor explain it :
nor must a generalization of, this kind be confounded with the
enunciation of what is called a law of nature*, (the law of
attraction and gravitation for instance, ) since this last is a discovery
by a process of experiment and reasoning, but a verbal gene-
ralization is no discovery at all ; it is merely a mode of expressing
what is known by every " rational mind at the very first
opportunity for exercising its powers. Or more properly speaking,
the laws of reasoning, which are gratuitously expressed by what are
called axioms, are nothing else than a mode of de- * See
Whately's Logic, Chap. I. Sect. 4, where he attempts to evade Dugald
Stewart's oh^ection to the Ariatotelian syllogism, that it is a
demonstration of b demoiigtration, by comparing the Dictum de omni
et de nullo to the enimciation of a law of nature. It is rather
pleasant, in the first note of the Chapter referred to, to hear the
doctor running riot upon Locke's con- fuinon of thought and common place
declamation, be- cause the latter had the sense to sec the futility
and puerility of the syllogism. SECT. 14.] ON LOGIC.
141 scribing the constitution of a rational mind.;—* they are
identical with the capacity itself for reasoning: to view them in any other
light is to mistake a circumlocution for the discovery of a
principle. And this kind of mistake every one labours under who supposes
that, by any means whatever, an act of reasoning is assisted or
explained, accounted for, or con- firmed. Nothing is more certain, than
that if two terijns agree with a third, they agree with each other,
if one agrees and the other dis- agrees, they disagree with each other:
but every other act of reasoning has a conclusion equally certain
(the facts or data about which an act of reasoning is conversant being
the sole cause of any doubt in the conclusion*,) and this or any
other attempt at explaining or accounting for the act, will therefore
only . * And note, that when people are said to draw a wrong
conclusion from facts, the correct account would be, that they do not
reason from them, but from some- thing which they mistake for them,
through their ina- ability to understand, or their carelessness to the
na- ture of, the facts given. I4!l [chap.
ir. amount to the placing of one such act by the side
of another; as if any one should set a pair of legs in motion by the side
of another pair, and call it an explanation of the act of walking.
Such would at once appear to be the character of the Aristotelian
Syllogism, were it not for the complicated apparatus ac- companying
it ; an apparatus of distinctions and rules rendered necessary by the
nature of the terms compared. For these terms being obtained by the
division of a sentence, are such that they agree or disagree with
each other only in the sense they bore before the division took
place. Our theory makes this plain; for it shows that words which form
a sentence limit and determine each other, and thus have a different
meaning from tliat which belongs to them when understood
abstracted- ly. Therefore, though it may be true that " Plato
is a man deserving of respect, ' does not follow that " Plato "
and " A maai deserving of respect " shall agree togetiier
as abstract terms : accordingly the latter term understood
abstractedly, signifies any or every man desei-ving of respect, and does
not agree with Plato. It must be obvious, then, that terms obtained
iirthis way, can be compared with other terms similarly obtained, only
un- der the safeguard of certain rules. Such rules are accordingly
provided ; and tliat they may not want the appearance of scientific
general- ization and simplicity, they are all referred to one
common principle, the celebrated dic- tum de omni et de nullo ; whose
purport is, that what is affirmed or denied of the whole genus, may
be affirmed or denied of every species or individual under it ; which
indeed is nothing more than a verbal generalization of such a fact
as this, that what is true of every philosopher, is true of any one philosopher.
All tliese pretences to the discovery of a uni- versal principle, do but
leave us just where we were, a few high-sounding empty words ex-
cepted; and this must ever be the case when we seek to account for that which
is, by the constitution of things as far aa we can ascertain them, an
ultimalefact. An act of reason- ing is the natural working of a rational
mind upon the objects, whatever they may be, which are placed
before it, when, having formed one judgment intuitively, it makes use of
the re- sult as the medium for reaching another: and the pretence
to assist or explain this operation by the introduction of such an
instrument as the syllogism, is an imposition on the under-
standing. 15. This will more plainly appear when we examine
the real use, (if use it can be called,) of the Aristotelian art of
reasoning. It may be described as the art of arguing unreason-
ably, or of gaining a victory in argument without convincing the
understanding. As it reasons "with words, and not merely by
means of words, it fixes on expressions not on things, and is satisfied
with proving a conse- quence, or exposing a non-sequitur in those,
without inquiring into the actual notions of the speaker. " Do you
admit " says a syllogi- zer, " that every philosopher is
deserving of respect? " " I do;" says the
non-syllogi- zing respondent. " And you admit, (for I have
heard you call him by the name,) that Voltaire is a philosopher : you
admit, there- fore, that Voltaire is deserving of respect. "
Now, if the notion of the respondent is, that Voltaire is not deserving
of respect, here is a victory gained over him in spite of his con-
viction. Arguing from the words, and allow- ing no appeal from them when
once conceded, the conclusion is decisive*. But in looking beyond
the words to the things intended, we shall find that the respondent
either did not mean every philosoplier, as a metaphysical, but only
as a moral universal, or else (and the supposition is the more likely of
the two) that in calling Voltaire a philosopher, he called •
" If," says a. doughty Aristotelian doctor, " a imiyeraity
is charged with cultivating only the mere elements of mathematics, and in
reply a list of the hooks studied there is produced, ^should even any
one of those books be not elementary," [" / day here on
my biynd,''] " the charge is in fiiirncss refuted." Whately's
Logic, Chap III. Sect. 18. . II. him so according to
the custom of others, and not according to his own notion. In a Logic
whose object is truth and not victory, the business would not therefore
end here. An attempt would be made to change the notion of the
respondent (supposing it to be wrong) by an appeal to things. His mind
might in- deed be so choked with prejudice as to be in- capable of
the truth ; but at least would the only way have been taken to remove the
one and procure admission for the other. To the foregoing, let
another kind of example be add- ed : " Every rational agent is
accountable ; brutes are not rational agents ; therefore, they are
not accountable." * " Non sequitur*^ cries the Aristotelian
respondent. The other man, who reasons by means of words and not
merely mth words, is certain that the internal process by which he
reached the conclusion is correct ; nor is he persuaded to the
contrary, or at all enlightened as to his fault, when he is told
that he has been guilty of an illicit pro- ♦ From Whately's Logic,
Chap. I. Sect. 3. cess of the major. He is informed, however,
that his mode of reasoning finds a parallel in the following example :
" Every horse is an animal ; sheep are not horses ; therefore
they are not animals.'* * But this he denies ; be- <:ause he is
sure that his mode of reasoning would never bring him to such a
conclusion as the last. All this time, while the Aristo- telian has
the triumph of having at least puzzled his uninitiated opponent, the
real cause of diflference is kept out of sight, name- ly, that the
one refers to that reasoning which is conducted merely with words, and
not by means of words only, while the other refers to that
reasoning which looks to things, inatten- tive perhaps, as in this
instance, to the expres- sions. If the latter had used no other ex-
pression than " Brutes are not rational agents ; therefore they are
not accountable ;•" the as-
sertion and the reason for it, must have been suffered to pass; but
because another sen- tence is prefixed to these two, and the whole
* Whately'*s Logic, Chap. I. Sect. 3. l2
F 1 of them happen to make a violated
syllogism, the speaker is charged with having been guilty of that
violation, when in fact he has not at- tempted to reason syllogistically
at all ; i. e. to draw his conclusion from a comparison of the
extremes with the middle, but from a judg- ment on the facts of the case.
In a Logic which gets at its conclusions by jneans of words, and
not by the artifice we have just referred to, an expression which does
not reach the full facts reasoned from, (every rational agent, for
instance, where it should have been said none but a rational
agent,J would not be deemed an error of the rea- soning, but a
defect in the expression of the reasoning. ] 6. These
examples will, it is hoped, be sufficient to show the real worth of the
Aris- totelian syllogism, ft is indeed, as its advo- cates assert,
an admirable instrument of ar- gumentation ; but of argumentation
distinct from the fair exercise of reason. It is a pro- per
appendage to the doctrine of ReaUsm,
and with that exploded doctrine it should long ago have been
suffered to sink. While ge- nera and species were deemed real
independ- ent essences, to argue from words was con- sistently
supposed to be arguing from things : but now that words are allowed to be
only counters in the hands of wise men, the Logic of Aristotle,
which takes them for money, should surely be esteemed the Logic of
fools". The claim for its conclusions of demonstrative
certainty, rests solely on the condition that words are so taken. Every
conclusion from an act of reasoning, would have that charac- ter,
if the notions about which it was employ- ed were notions universally
fixed and agreed upon. In mathematics, this circumstance is the
sole ground of the peculiar certainty at- tained. All men agree in the
metaphysical notion of a point, of a line, a superficies, a circle,
and so forth t : if all men necessarily Words are the counters of wise
men, but the money of fools, Hobbes. f According tu Stewart,
mathematical agreed in the notion of who is a philosopher and who
is not, of what is vice and what is virtuBj and so forth ; our
conclusions on these and similar subjects, would, as in
mathematics, be demonstrative : but till definitions can be framed
for Ethics in which men must agree, there is little chance of erecting
this branch of learning, with any praciical benefit, into a
science, according to the notion insisted on with some earnestness in
Locke's Essay*, lu Physics we can do more ; for men agree pretty
well as to what is a mulberry tree, and what is a pear tree ; what is a
beast, and what is a bird ;— by experiment they can be shewn what
are the component parts of this sub- stance, what the qualities of the other
j and so forth : so that here, our conclusions need
definitions are mci-e hypotheses. Do they not rather describe
notions of and relating to quantity, which, by the congtitution of the
mind, it must reach, if, setting aside the sensible instances of a point,
a line, a circle, &c., it tries to conceive them perfect ?
* Book IV. Chap. III. Sect. 18,: and the same book Chap. XII. Sect.
8. not be wanting in all necessary certainty; although, as
that certainty depends on the conformity between our notions, and the
out* ward or sensible objects of them, it will be of a different
kind from the certainty obtained in meta-Phi/sicSj and therefore not
called de- monstrative. In the latter department, (Me- taphysics,)
the chain of evidence has its first hold, as well as every subsequent
link, in the mind, and the mind cannot therefore but be sure of the
whole. 17. As we propose to limit the province of Logic to
the investigation of truth, the re- marks and examples in the section
preceding the last (15.), might have been spared till we come to
consider Rhetoric, to which we in- tend to assign, among its other
ofiices, that of proving truth. How far the form of ex- pression
which corresponds to the syllogism, is calculated to be useful to a
speaker or wri- ter, may at that time draw forth another ob-
servation on the subject. Meanwhile we pro- pose to exclude it entirely
from Logic; and in truth the common practice of manlcind out
of the schools, has never admitted it as an in- strument either for the
one purpose or the other. Common sense has always been op- posed to
it ; and Logic is a word of bad reputa- tion, because it is supposed to
mean the art of arguing for the sake of victory, and not for the
sake of truth. In vain have Locke, Campbell, Reid, Stewart, and other
sound thinkers, endeavoured to clear the art from its reproach by
detaching the cause : the Aristo- telian Syllogism has been repeatedly
over- thrown ; yet some one is ever at hand to set it on its three legs
again, and argue in defence of the instrument of arguing : some
per- tinacious schoolmaster may always be found Who e'en though
vanquished yet will ahgue still; While words oflearncd length and
thundering sound*. Amaze the gazing rustics ranged around. Videlicet, Terms
middle and extreme ; premiss major and minor,- quantity and quality of
propositions ; Universal affirmative ; Universal negative ;
Particular affirmative ; Particular negative ; Distribution and
non- distribution of terms; Undistributed middle; Illicit pro- So
much (till, in the next chapter we come to a parting word ) so much for
the Aris- totelian Syllogism. 18. As to the Logic which we
have en- deavoured to ascertain, it is, we repeat it, the Logic
which all men learn, and all men ope- rate with in gathering knowledge ;
and the only inquiries which remain are, i. Whether, so far as we
have gone, there is ground or ne- cessity for principles and rules in the
exercise of Logic, as there is for grammar in speaking a language;
and ii. Whether we ought to consider its limits as extending beyond
the cBss of the major ; Illicit piocese of the Tninor ;
Mood itnd figure— Barbsrs, Celarent, Darii, Ferio, Cesare,
CameBtres, Festino, Baroko, Darapti, Disamis, Datisi, Felapton, Bokardo,
Feriso, Bramantip, Camenes, BU maris, Fesapo, FrcBison ; Categoricals,
Modals, Hypo- theticals. Conditionals, Constructive form.
Destructive form, Oatcnsive reduction, Illatire conversion, &c.
kc &c. Well may we join with Mons. Jourdain " Voila dee mots qui
sont trop rebarbatifs. Cette logique ]& ne me rcvient point.
Apprcnons autre chose qui soit plus joli.'* . [chap.
II. bounds proposed at tlie commencement ot* this
Chapter. 19. Though few persons would be dis- posed to answer
the former question in the negative, yet an analogous case may induce
a moment's pause in our reply. At the conclu- sion of the first
note appended to Sect. 4., allusion was made to the fact, that men
do not see truly by nature, but acquire, through judgment and
experience, the power of know- ing by sight the tangible qualities of
objects and their relative distances. Now, the in- terference of
rules, supposing them possible, to assist this early discipline of the
eye, would be useless perhaps raiscliievous : why are we to think
differently of the discipline of the mind, as regards the use of those
signs which, if our theory is true, are forced upon us at first by
an inevitable necessity ? Because the art of seeing truly is necessary to
the preserva- tion of the individual ; and nature takes care,
therefore, that we do not teach ourselves im- pertectly or erroneously ;
but the conducting of a train of reasoning with accuracy and pre-
cision into remote consequences, is unne- cessary in a rude state of
society j and man, who is left to improve his physical and moral
condition, has the instrument of that improve- ment confided to his own
care, that he may add to its powers, and form for himself rules for
using it with much more precision and much more effect, than any random
use of it can be attended with. Accordingly, if we look to that
department of knowledge which Locke calls ipvaiK^ *, we shall find that
it owes its existence to the accurate Logic by which inquirers
registered all their observations and all their experiments, and by which
they as- cended from individuals to classes, till each had
comprehended in his scheme all he de- sired to consider. Here then begins
the pro- per business of Logic as a system of instruc- tion : it
ought to lay open all the various me- thods of arrangement and
classification by Vide the lutrixluction to this Treatise.
which science is acquired and enlarged ; and if something may
yet be done toward im- proving these methods, it should open the
way to such improvement. The Aristotelian rules for definition, which are
a sound part of Logic, should be explained and illustrated ; and
the nomenclatures invented by various philosophers, particularly that
which is used in modern chemistry, should be detailed and
investigated. SO. But if, by the application of a more
accurate Logic than belongs to a random use of language, men have been
able to accom- plish so much in ^uo-ik^, it does not appear that
they have great cause to boast of their success in the other department,
namely n-paKTiK-^. Do they act, whether as com- munities or
individuals, muck better with a view to their real interests, than they
did two thousand years ago ? If improvement here, as in the other
department, is possible, how is it to be accomplished ? We live in an
at- mosphere of passions, prejudices, opinions, which
mould our thoughts, and give a cer- tain character and hue to all the
objects of them ; these we do not examine, but take them as they
appear to us, and our reasonings too often start from them as from first
facts. As to the process itself, a process which every individual
conducts within his avra mind according to the power which nature
gives him, we affirm that it cannot be other than it is, and that,
provided it starts from true data, it can never lead us wrong : but
if that is false which at the outset we take for true, then indeed
our conclusions may be perniciously, ruinously erroneous. It is ac-
cordingly the business of the moralist to re- move the false hue which
habit, opinion, and passion, cast over the surface of things ; and
it should be the business of the politician to examine the principles on
which the general affairs of the world are conducted, and open the
eyes of mankind to their pernicious ten- dency, if in the whole or in
part they are per- nicious. But neither the moralist nor
the politician can come at the necessary truthis intvitiveljf : they
must use the mediaj and the media consist in that use of words which
con- stitutes Logic, as we have described it. We do not intend to
say that language affords the means of reaching equal results to
every person who makes the right logical use of it ; for men's
minds are very different in natural capacity; and some are able to
perceive truths intuitively, which others attain only by a slow
process; as tall men can reach at once, what short men must mount a
ladder to : but we do intend to say, that, let the natural powers
of any human mind be what they will, there is no chance for it of any
ex- tensive knowledge, but through the employ- ment of media to
assist its natural operations ; <and, we repeat it, the media which
nature suggests, and leaves for our industry to im- prove, is
language *. Well then, if our im- * The reader does not understand
us, if he deems it an objection to our reasoning, that many highly
gifted men in point of understanding, do not provement in ntpaKrucrfj is, at
this time of ^ay, less than we might expect, is it not reason- able
to think that, with regard to this depart- ment, we do not quite
understand the instru- mental means, and consequently do not ap-
ply them with complete effect ? Surely there is some ground for such a
suspicion, when we find a doctor (of some repute we presume) in one
of our two great places of learning, de- claring that '^ the rules of
Logic have nothing to do with the truth or falsity of the premises,
but merely teach us to decide (not whether the premises are fairly laid
down, but) appear to have a skilful use of language. A man
may be rhetorically unskilful in language without being logically
so ; he may be imable to convey to others how and what he thinks ; but he
may make use of media in the most skilful manner to assist his own
thoughts. And if his capacity is such that he seei many truths
intuitively for which others require media^ it is evident that he cannot
convey those truths to them till he has searched out the means. The
nature and the principle of such an operation be- longs to our next
chapter on Rhetoric. fim whether the conclusion fairly
follows from the premises." * We acknowledge that the Logic to
which this description applies, has never been the Logic of mankind at
large, however it may have been the baby-game of men in colleges ;
but that the office of Logic should be described so completely
opposite to what it really is, at a time when its proper office and
character ought to have been long ago thoroughly understood, is not a
little surprising, and may reasonably warrant the suspicion stated
above. We have no doubt our reader is by this time convinced, that
men who reason at all, do not want rules for drawing their conclusions
fairly, if we could but get them to draw those conclusions from
right premises ; and that to get at right pre- mises is every thing in
Logic. For this end, it is our business to set all notions aside
that have not been cautiously acquired ; and to begin the formation
of new ones at the point * Whateiy'a Logic. Provinceof Reasoning,
Cliap- I. Sect. 1. sf;ct. 20.]
IGI where all genuine knowledge commences, the intuitive comparison of particulars
or single facts ; to make use of the knowledge (notions) hence
obtained as media for new comparisons or judgments; and so on ad
in- Jinitum. Alas! it is but too certain, that though we draw our
conclusions faiily enough, our premises, in a vast proportion of
cases, are laid down most foully, because they are laid down by our
ignorance, our passions, and our prejudices ; and because language
itself, when its use is not guarded, is a means of deception*.
• We arc somewhat backward in offering examples of general remarks,
such as is this last ; because it is scarcely possible to be particular
without touching on questions in religion or politics that carry with
them, either way, a taint of parti zanshi p ; and we hold it to be
very impertinent in a writer on Logic, to turn those general precepts for
the discovery of truth which he is bound to ascertain, into a particular
chan- nel in order to serve his own sect or party. What business
had Watts to exempliiy so many of hU cautionary rules by the errors of
Papistical doctrine, at a time when its doctrine was a subordinate and
But can the assistance which lan- guage is intended to
furnish, be rendered such party queBtioit, and be himself was a
sectarian opposed to it ? We trust that no exception of the same
kind can be taken {particularly as we give them only in a. note) to
two examples we are about to submit of the remark in the text, that
language itself may lie the means of deceiving us into wrong premiseB : they
are by no means singular, hut Guch as may he met with every hour on
almost every question. The ph rase natural state is, as we all know,
a very com- mon expression, which we are much in the habit of
applying to things that have not been abused or per- verted from the form
or condition in which nature first placed them. Now, because the same
phrase happens to be frequently applied to man in a rude state of
society, we start, in many of our reasonings, with the notion, that in
proportion as we have depart- ed from such a state, we have perverted and
abused the purposes of nature ; when, in truth, it seems wiser to
inquire, whether we have yet reached the state which nature means for
creatures such as we are, and whether she is not constantly urging us on
to such an unattained state. Our other example is of narrower in-
terest, and belongs to politics, or rather to what is called political
economy. The word price, in general loose speaking, means that which is
given (be it what it may) to obtain some other thing ; but in a
strict as to lead us to truth in spite of ignorance, passion, and
prejudice, and in spite of the delusions of which it is itself the cause?
Why not, if the guarded and careful use of it, is fitted to
diminish these obstacles, and if we do not look for the ultimate effects
-faster than, by the use of the means, the obstruc- tions ^ive way
? Nor are mankind inattentive to improve the means, nor are the
means and mercantile Bense, it has a uniform reference,
direct or indirect, to the quantity of precious metal given for
commodity ; inasmuch as gold and silver are the sole universal medium of
barter throughout the world, and every promise to pay has reference to a
certain quan- tity of one or the other of these metals. These
things premised, it must be obvious that the phrase price of gold,
using price in a strict sense, is an abeurdity, and could arise only from
confounding the meaning which prevails in ordinary speech with the
meaning in which the merchant uses it. What, then, are we to think
of an English House of Commons, which, some twenty years ago,
deputed to a committee the task of in- quiring into the causes of the
high price of bullion ? Might not the committee, with as much reason,
have been deputed to inquire, why the foot rule was more or less
than a foot ? without effect : for when we ask, whether
their moral and political condition is much ad- vanced beyond what
it was in the most pro- mising state of the world in past days *, we
do not mean to deny what every one of common knowledge and
observation is aware of, that it has advanced : all we urge is, that a
sys- tematic attention to the means of investigating truth, might,
peradventure, in politics and morals, as it has in physics, have been
at- tended with effects more widely beneficial. Neither do we afSrm
that existing works on Logic are destitute of many admirable pre-
cepts for investigating truth, although we assert that the precepts are
referred either * Note, that it is unfair to fix on a particular
part of the world in proof of what it was in the whole. States and
cities may advance themselves for a time by a partial policy which keeps
others backward : but the policy will fail in the end. By a natural
course of things the advanced state will merge in the mass and
improve it : and thus the world will keep on advancing, although the
spectator, who contemplates only the particular state, will think it is
retrograding. to a false principle, or to no principle at all
fitted to unite them into one body of sys- tematic instruction. The work
lately referred to *, fnrnishes, for instance, many excellent
precepts for avoiding errors in the use of words, and for guarding
against the snares of sophistry; and if such precepts and such ex-
amples as it offers, distinct from the doctrine of the syllogism, were
industriously collected, and brought forward in aid of the Logic
which all men learn and all men use, they would be of inestimable value.
A useful system of Logic will guard our notions from error not only
while we think, but while we are reasoned witht: for one chief way
by which truth enters the mind, is through the Viz, Whately's
Logic. Our meaning will be understood ; but wc express it by ii
distinction which is grounded on no real dif- ference. He who is reasoned
with, if he understands the ai^ument, is set a thinking ; and his
agreeing or disagreeing with the argument is the effect of his own
thoughts, however these may be set in motion, and perhaps unreasonably
influenced, by what he hears. medium of language as employed by others :
and Logic should therefore arm us with all possible means for coming at
truth so offered, through the various entanglements by which the
medium may be accompanied. Hence, the various sophisms of speech
accompanied by their appropriate names, would still occupy a place
in such a Logic ; nay, for this purpose, and for this alone, would the
Aristotelian doctrine of the syllogism deserve explanation ; namely
to understand how a conclusion drawn from mere terms, may, as a
conclusion from them, be perfectly true and perfectly useless, and
thus to induce us to bottom all our reasoning on things. Having thus
offered, on the first of the questions proposed in Sect. 18, such
observations in the affirmative as we thought it required, we now proceed
to the second question. That question was. Whether we ought to
consider the limits of Logic as extending beyond the bounds proposed at
the com- mencement of this chapter : towards answering which, we
may first inquire how far other views of it extend. By the Scotch
metaphy- sicians, and generally in the schools of North Britain,
the word Logic seems to be so used as to imply the cultivation of the
powers of the mind generally, correspondently with M'atts's
definition of tlie purpose of Logic, namely, " the right use of reason."
" I have always been convinced," says DugaJd Stewart*,
" that it was a fundamental error of Aristotle, to confine his views
to reasoning or the discursive faculty, instead of aiming at the
improvement of our nature in all its parts." And he then goes on to
mention the following as among the subjects that ought to be con-
sidered in a just and comprehensive system of Logic. " Association
of ideas ; Imagina- tion ; Imitation j the use of language as the
GREAT INSTRUMENT OP THOUGHT ; and the artificial habits of
judging imposed by the principles and manners in whicli we have
Fhilotiuphical Essays. Chap. 16s been educated." * Now
if the threeibld di- vision of human knowledge is a just one,
which, in the Introduction of this work, was his * io
the same purpose, Philosophy of the Humat n the second
volume of Mind, (Chap. III. Sect. S.) he speaks
thu^ The following, (which mention by way of
specimen,) seem to be among the most powerful of the causes of our felse
judgments. The imperfections of language both as an instru- ment of
thought, and as a medium of philosophical communication. 2. The
difficulty in many of our most important inquiries of ascertaining the
facts on which our reasonings are to proceed. 3. The partial and
narrow views, which, from want of information, or some defect in our
intellectual comprehension, we are apt to take of subjects which are
peculiarly complicated in their details, or which are connected by
numerous relations with other questions equally problematical. And
lastly, (which is of all perhaps the most copious source of speculative
error) the pre- judices which authority and fashion fortified by
early impressions and associations, create to warp our opinions. To
illustrate these and other circumstances by which the judgment is apt to
be misled in the search of truth, and to point out the most
effectual means of guarding against them, would form a very
important article in a philosophical system of Logic,"
borrowed from Locke,— namely into, it., the knowledge of things tiiat
are, ii., of things fitting to be rfonc, and, Hi., of the means of
acquiring and improving both these branches of knowledge;— it wUl at once
appear that all the subjects referred to in this enumeration of
Stewart's, except the fourth, which we print in capitals, come under the
denomination of physica: they are
energies or tendencies of the mind derived from nature, or habits
arising out of natural causes ; and they come accordingly under the
division of things ex- isting in nature, which things, as they all
concern the mind, it is the business of the Pliilosophy of the human mind
to explortf: but the fourth of the subjects mentioned in the
quotation from Stewart, viz •* the use of LANGUAGE AS THE GREAT
INSTRUMENT OF THOUGHT," comes under the third of the divisions
laid down by Locke, and ought cer- tainly to be distinguished from the
other subjects, because it is the means of becoming acquainted with
them : it is the instrument. m and they are among its objects.
True, we discover, as we proceed in the use of it, and we are
properly warned by those who have used it before, that its efficacy is
assisted or impeded by extraneous causes, as well as by defects in
the instrument itself: similar dis- coveries will be made, and similar
warnings must be given, in the practice of almost every art: but
these ought not to enter into the de- finition of the art, although it
will be proper to bring them forward, incidentally, as we open its
rules. " A method of invigorating and properly directing all the
powers of the mind is indeed," says Dr, Whately, " a most
magnificent object, but one which not only does not fall under the
province of Logic, but cannot be accomplished by anyone science or
system that can even be conceived to exist. The attempt to comprehend so
wide a field is no extension of science, but a mere verbal ge-
neralization, which leads only to vague and barren declamation. In every
pursuit, the more precise aud definite our object, the more
likely we ai'e to obtain some valuable result j if, like the
Platonists, who sought after the avTodyaSov, the abstract idea of good, we pursue some specious but ill-defined
scheme of universal knowledge, we shall lose the substance while grasping
at a shadow, and bewilder ourselves in empty generalities." *To
these just remarks, we may add our ex- pression of regret that Dugald
Stewart never had opportunity to do more than speak pro- ectively
of *' a just and comprehensive system of Logic ;" " to prepare
the way for which, was," he says, " one of the main
objects he had in view when he first entered upon his inquiries into the
human mind."t Had he himself completed such a design in- stead
of leaving it for others, we doubt not he would have found the necessity
of circura- scribing Logic within the bounds we have proposed, in
order to give it existence as an • Whately's Logic ;
Introduction, t Pliilos. Essays. Prelim. Diss. Chap. II.: in the
paragraph immediately following the last quotation. fjtt ON
LOGIC. [chap. U. art distinct from the wide ocean of
intellectual philosophy. 23. But Dr. Whateiy, who deems,
with us, that every consideration of the mind con- ducted without
reference to its making use of language as its instrument, lies out of
the de- partment of the teacher of Logic*, com- pletely differs
from us, as to the province of the art. Of the question, " whether
it is by a process of reasoning that new truths are brought to
light," he maintains the negative t, and consequently denies that
investigation be- longs to Logic. Afler what has been ad- vanced in
the former sections of this chapter, we think it quite unnecessary to
combat this opinion here ; and as Dr. Whateiy concedes, that "
if a system could be devised to direct • Dr. Whateiy defines
Logic (Chap. II. Part I. Sect. 2.) " the art of employing language
properly for the purpose of reasoning." But with him,
reasoning B argumentation. t Whateiy "s Logic, Province
of llcasoning, the. mind in the progress of inveBtigation ", it
might be " allowed to bear the name of Lo- gic, since it would not
be worth while to con- tend about a name " *; as, moreover, we
propose to comprehend under Rhetoric all that belongs to the proving of
truth that is, convincing others of it after we have found it
ourselves ; we might be satisfied with
stating that this is the distribution we choose to adopt, and there
let the matter end. Be- lieving, however, that our reasons will
shew this distribution to be not only useful, but al- most
indispensable, we proceed to offer them. 24, And first, that, so far as
we have gone, the art we have described ought to be called Logic,
we think will hardly now be de- nied: for we have proved that from
be-' ginning to end, it is a process of reason, that is to say, a
process to reach an end by mediae and we have shown that the media
are • Whalely't* Logic, Province of Jteasoiiing, Chap.
II. Sect. 4. Wi
words, (Xo'yoi.) If the term Logic is not pro- perly
applied to such an art as this, we know not where an instance can be
found of pro- priety in a name. But shall we include the of- fice
of proving truth under this name, as well as that of investigating it ?
We answer, no, for these two reasons : first that the things them-
selves are difierent, and ought therefore to be assigned to different
departments ; since it is one thing to find out a truth, and another to
put a different mind in a posture for finding it out likewise : And,
second, that persuasion by means of language, which is the
recognized office of Rhetoric, is not so distinct from con- viction
by means of language, as to admit of our saying, precisely, where one
ends, and the other begins. That common situation in life. Video
meUora proboque, deteriora sequor, proves indeed there are degrees of
conviction which yield to persuasion, as thei'e are other degrees
which no persuasion can subdue : yet perhaps we shall hereafter be able
to show, that such junctures do but exhibit one set of motives
outweighing anol^ier, and that the ap- plication of the term persuasion
to the one set, and of conviction to the other, is in many cases
arbitrary, rather than dictated by a corre- spondent difference in the
things. If, then, the finding a truth, and the proving it to
others, ought to be assigned to different departments of
Sematology, why not, leaving the former to Logic, consider the latter as
appertaining to Rhetoric, seeing that convincing is not always, and
on every subject, clearly distinguishable from persuading, which latter
is the acknow- ledged province of Rhetoric ? Thus will ana- ^5ii'
uniformly belong to Logic, and synthesis to Rhetoric. While we use language
as the medium for reaching further knowledge than the notions
(knowledge) we have already gained, we shall be using it logically :
when, knowing all we intend to make known, we employ it to put
others in possession of the same knowledge, we shall be using it
rhetorically. As learners we are, according to this distribution, to be
deemed logicians }— .as teachers, rhetoricians. The two purposes are
quite distinct, though they are often con- founded under the same name,
reasoning ; which sometimes means investigation, and sometimes
argumentation*, or a process with • 111 spite of all we have said
against taking up no- tions from mere terms, (for " what's in a name
?") we confeES a strong antipathy to the word argumentatmi. It
no sooner meets our eyes, than, fearing the approach of some Docteur
Pancrace, we instinctively put our hands to our ears. " Voub voulez peut-etre savoir, si la substance et Vaceident
sont termes synonymes on equivoques k I'egard de Tetre? Sganarelle.
Point du tout. Je... Pancrace. Si la lo^ que est un art, ou une
science.^ Sgan. Ce n'est pas cela. Je... Pancr. Si elle a pour objet les
trois operations de I'esprit, ou la troieieme seulement ? Sgan. Non.
Je... Poner. S'il y a dix categories, ou s'il n'y en a qu'une ?
Sgan. Point. Je... Pancr. Si la conclusion est Vessence du
sylle^sme ? Sgan. Nenni. Je... Pancr. Si fessence du bien est mise dans
I'appetibilite, ou dans la convenancc? Sgan. Non. Je... Pancr. Si
le bien se rcciproque avec la fin ? Sgan. He, non! Je... Pancr. Si
la fin nous pent emouvoir par son etre reel, ou par son Stre intentionel
? Sgnn. Non, non, non, non, non, dc par tons lea diables, non. (Moli&re's Mariage Force.) We join in our friend
Sganarelle'g a view to proof: and the confusion is promoted
by the circumstance, that the two pro- cesses are often used in
subservience to each other. Thus, when a writer sits down to a work
of philosophical investigation, it is to be expected that the general
truths he designs to prove, are already in his possession ; but he
has to seek the means of proving them. Now in searching for these, it is
not unlikely, that, with regard to the detail, he will frequently
come to conclusions different from those he was inclined to entertain,
though the final re- sult he had entertained may remain un-
changed. At one moment, therefore, he is a logician, at another, a
rhetorician. His reader, on the other hand, is a logician throughout
: in following and weighing the arguments offer- ed, he is an investigator
of the truths which deprecation, wishing to shun all argumentation,
except of that quiet kind which takes place when the talkers on
both sides are disposed to truth, ilot victory. If the word conveyed to
us the notion of so peaceable a meeting, we should have no objection to
it ; but we have confessed our prejudice. the other
undertakes to prove. In this man- ner may the same composition,
accordingly as it exercises the inquiring or the demon- strating
mind, be considered at one time with reference to Logic, at another with
reference to Rhetoric. Still must it be admitted, that to
investigate and to prove are different things ; and conceiving there is
sufficient ground for confining Logic to the former office, we
shall conclude our chapter as we began it, by defining Logic to be the
right use of WORDS with a view to the investiga- tion of
truth. Non posse Oratorem esse nisi viriim bonum.
AKG, CAP. I. LIB. XII. QtriN. 1N3. In the
chapter just finished, it was shown that the use of language as a Logical
instru- ment, entirely agrees with the theory of Gram- mar we
ascertained in the first chapter, and that, on no other principles than
those which arise from that theory, can Logic be pro- fitably
studied. We have now to show that the use of language as a Rhetorical
instrument agrees with the same theory, and that the view of the
art hence obtained, lays open its true nature, and the proper basis for
its rules. 2. The language of cries or ejaculations, which in the
first chapter we started with, may be called the Rhetoric of nature.
To this succeeds the learning of artificial lan- guage ; and the
process, whether of invention or of imitation, brings into being the
Logic described in the preceding chapter. For whether we invent a
language, or learn a lan- guage already invented, (presuming it to
be the first language we learn,) we must learn, (if we do not learn
like parrots,) the things of which language is significant. All
words whatever, not excepting even proper names *, express notions
(knowledge) obtained from the observation and comparison of many
par- ticulars ; and singly and separately, each word has reference
to the particulars from which the knowledge has been gained. But it is
by degrees we reach the knowledge of which each single word is
fitted to be the sign. We begin by understanding those sentences,
or single words understood as sentences>, that signify our most
obvious affections and wants, and which, taking the place of our
natural cries, retain the tone of those cries as far as the
articulate sounds they are united with permit. In all cases, as a
sentence expresses * Vide Chap. II. Sect. 7- ad fincm.
a particular meaning in comparison with the general terms of which it is
composed^ the hearer may be competent to the meaning of the
sentence, who is not competent to the full meaning of the separate words.
A cry, a gesture, may deprecate evil, or supplicate good ; and a
sentence which takes the place of, or accompanies that cry or gesture,
will, as a whole, be quickly interpreted. But the speaker and the
hearer must have made con- siderable progress in the acquirement of
know- ledge by means of language, before the one can put together,
and the other can separate^ understand, such words as, ^^ A fellow
creature implores"; "A friend entreats *\ It is by
frequently hearing the same word in context with others, that a full
knowledge of its meaning is at length obtained * ; but this implies
that the several occasions on which it * Consult, on this subject,
Chapter 4th of Du- gald Stewart's Essay " on the Tendency of some
late Philological Speculations,^ being the fifkh of bis " Phi-
losophical Essays^. [chap.
hi. is used, are observed and comjiared; it im- plies, in
short, a constant enlargement of our knowledge by the use of language as
an in- strument to attain it. 3. But he who uses language as
a logical, will also use it, when need requires, as a rhe- torical
instrument. The Rhetoric of nature, the inarticulate cries of the mere
animal, he will lay aside ; or at least he will employ them (and he
will then do so instinctively) only on tliose occasions for which they
are still best suited, for the expression of feelings re- quiring
immediate sympathy. On all other occasions, he will use the Rhetoric by
which a mind endowed with knowledge, may expect to influence minds
that are similarly endowed ; and our inquiry now is, how the effect is
pro- duced;— how, by means of words, (taking words to be nothing
else than our theory of language has ascertained them to be,) how,
by such means, we inform, convince, and persuade. 4.
According to our theory, wobds are to be considered as having a double
capacity ; in the first, as expressing the speaker's actual thought
; ^in the second, as being the signs of knowledge obtained by antecedent
acts of judgment, and deposited in the mind ; which signs are
fitted to be the means of reaching further knowledge. Now, when we use
lan- guage as a rhetorical instrument, we use it, or at least
pretend to use it, in order to make known our actual thought, in order
that other minds should have that information, or be enlightened by
that conviction, which we have reached. Could this be done by a
single indivisible word could we realize the wish of the poet Could I embody and unbosom now
That which is most within me ; could I wreak My thoughts upon
expression, and thus throw Soul, heart, mind, passions, feelings,
strong or weak. All that I would have sought, and all I seek,
Bear, know, feel, and yet breathe, into One Word* Were this
instantaneous communication with- Byron's Childe Harold, Canto III.
Stanza 97- in our power. Rhetoric would be a natural faculty, not an
art, and our inquiry into its means of operation would be idle. But
getting beyond the occasions for which the Rhetoric of nature is
sufficient, and for which those sentences are sufficient that serve
the most ordinary purposes of life, an instan- taneous
communication from mind to mind, is impossible. The information, the
conviction, or the sensitive associations, which we have wrought
out by the exercise of our observing and reasoning powers, can be given
to another mind only by giving it the means to work out the same
results for itself ; and, as a rhetorical instrument, language is, in
truth, much more used to explore the minds of those who are
addressed, than to represent, by an expression of correspondent unity,
the thought of the speaker ; rather to put other minds into a
certain posture or train of thinking, than pre- tending to convey at once
what the speaker thinks. Contrary as this doctrine will ap- pe$ir
to common opinion on the subject, a very little reflection will show that
it must be true. For a word can communicate to another mind what is
in the speaker's, only by having the same meaning in the hearer^s : but
if it have the same meaning, then it signifies no more than
what the hearer knows already, or what he has previously experienced. And
this is plainly the case with sentences (words) in familiar use,
which signify what all have at times occasion to express, which are
used over and over again for their respective pur- poses, and of
which, while uttering or hearing them, we do not attend to the meaning of
the separate words, but only to the meaning of the whole expression
*. Here, it is confessed, the communication is made at once ; but
then it is a communication which the hearer is pre- pared to
receive, because he has himself used the same expression for the same
purpose. What is to be done when the information or the conviction
is altogether strange to the mind which is to receive it ? In this case
the ♦ Refer to Chap. I. Sect 19. ON RHETOKIC.
QCHAP. HI. speaker will seek in vain, as in the first
case, for an expression previously familiar to the hearer; and he
will have to form an expres- sion. But how shall he form it? As
words have the power of representing only what is known on both
sides, he must form it not with signs of what is to be made known,
but of what is already known. In this way, he may produce an
expression whether that expression take the name of sentence,
oration, treatise, poem, &c. * which, as a whole, de- notes
that which his mind has been labouring to communicate the information,
the con- viction, or the sensitive associations he is de- sirous
that others should entertain in common with himself. The necessity of so
protracted, so artful a process, must be set down to the hearer's
account, not to the speaker's. The latter is (or ought to be) in previous
possession of what he seeks to communicate he has been through the
process, and reached the result : but that result he cannot give at
once ' Compiirc Chap. I. Sect. 20. and
gratuitously to others : he can but lead them to it, as he himself was
led, by address- ing what they already know or feel ; and his skill
in rhetoric will be the skill with which, for this purpose, he explores
their minds. It will be a process of synthesis on his part, and of
analysis on theirs. He will form an ex- pression out of WORDS which
signify what they already know, or what they have already felt :
and the separate understanding of these on their part, will enable them
to understand his expression as a whole. This being the theory of
Rhetoric which grows out of our theory of language, we now proceed to
show that the actual practice of every speaker, and of every
writer, is in accordance with it. 5. To begin with Description and
Narra- tion : Is it not obvious, that, to procure in another mind
the idea of things unknown, we proceed by raising the conception of
those that are known ? An object of sight which the party addressed
has never seen, we give an idea of by allusions made iu various ways to
objects he has seen :— or if, being new as a whole, it is made up of
parts not new, we give the idea of the whole by naming the parts,
and their manner of union. An unknown sound, or combination of sounds, an
unknown taste, smell, or feel, is suggested to another mind by a
comparison, direct or indirect, with a known sound, taste, smell, &c.
As to conceptions purely intellectual, it is a proof how little one
mind can directly represent or open, itself to another, that, in the
first in- stance, such conceptions can be made known not by words
that directly stand for them, not by comparisons with things of their
own nature, but only by comparisons with affec- tions and effects
outwardly perceptible; as would at once be obvious in tracing to
their origin all words that relate to the faculties and operations
of the mind *'y although it is true * Thus afdrnvs^ amma^ +*'%»»,
originally signify wind or breath : ^vfiog /Mevog^ mens^ impetuosity ;
in- tellect is from inter and lego, I collect from among ;
perception and oonceptUm are from capio I take, a that these
words at last become well under- stood names, that at once suggest their
re« spective objects, without bringing up the ideas of the objects
of comparison that once in- tervened. In narration we proceed by
similar means. We presume the hearer to be ac- quainted with facts
or events of the same kind as that which is to be made known,
though not with the particular event ; for we \x%Q generalievmSy i. e.
terms expressing kinds or sorts, in order to form every more par-
ticular expression. If the hearer should be unacquainted with facts or
events of die same kind, the communicator then has recourse to
use of the verb still common in such phrases as ^^ I take in with
my eye,'' and, " I take your meaning ;'' judgment is from jus dicere
; understanding suggests its own etymology ; refleadon implies a casting
or throwing back again; imagination is from imago^ an image or
representation; to thinks according to Home Tooke, is from thing ; "
Res-^k thing (he says) gives us refyr I am thinged,'' i. e. operated upon
by things. These are etymologies suggested by authori- ties
universally accessible ; the curious in
this depart- ment of learning would be able to add much more.
circuitous comparisons. If nothing is pre- viously
known to wliich the action or event can, however remotely, be compared,
the attempt to make it known must be as fruitless as that of giving
an idea of colours to one bom blind, or of sounds to one born
deaf*. Not without reason does the angel thus speak to Adam in the
Paradise Lost : High matter thou enjoin'st me, O prime of men, and hard : for how shall I relate To
human sense the invisible exploits Of warring spirits ? And he
proposes to overcome the difficulty in the only way in which it can be
concaved possible to be over- what
surmounts the reach Of human sense, I shall delineate so By
likening spiritual to corporal forms, As may express them best.
Far. Lost. Book 5. 1. 5G3. Still must the discourse of the Angel
have been unin- telli^ble to Adam : for the latter must be supposed
ignorant not only of the things to be illustrated, but of far the greater
part of the illustrations. There was no keeping clear of this defect in
the philosophy of die jwem, if, in a poem, we arc to look for
philoso- phy. The discourse even of Adam and Eve, though
Thus, then, when we make use of words in order to inform, we
produce the effect by adapting them to what the hearer already
knows. In using words in order to convince and persuade, we produce the
effect in the same way. But to convince, it is ne- cessary to
inform to acquaint the hearer either with something he did not know
before, or with something he did not attend to ; and the
information is called the argument * or proof. Thus the information that
"Plato was a philosopher," is an argument or proof that
he is deserving of respect: and the clear testimony that " a man has
killed another maliciously," proves that the perpetrator is
guilty of murder. But why do we account the information in the respective
instances an argument or proof of the conclusion ? For
Iieautifully fiimple, is tilled with alluaions to things which the
least philosophy will teach us they could not be acquainted with.
* The word argument is commonly used iii the sense we here assign
to it ; though it is likewise often used with » more coniprelicnBivc
meaning. no Other reason than this, that it is addressed to a
notion (knowledge) previously acquired of what persons are deserving of
respect, (in the first instance,) and of what constitutes the crime
of murder, (in the second instance.) Take away this previous knowledge,
and the information remains indeed, and may perhaps be clearly
understood, but in neither instance can it lead the hearer to the
conclusion, that is to say, it will not
then be an argument for the end in view : it will communicate,
perhaps, what it professes to make known, but there the matter will end.
In every process, then, by which we propose to convince others of a
truth, there are three things implied or expressed : i. that which we
intend to prove true, and which, if stated first, is called the
proposition, if last, the conclusion : ii. the in- formation by which we
try to prove it, and which is accordingly called the argument or
pro of; iii. the previous notion (knowledge) to which the
information is addressed, and which is frequently called the datum ;
being that which is presumed to be already known, and therefore
conceded or given by the person reasoned with ; on account of which,
and solely on this account, the information is offered in the
capacity of an argument or proof. Now, here we have the parts of a
syllogism, (though in reversed order, viz. the conclusion, the minor, the
major,) and this may serve to show, without having recourse to the
Aristotelian doctrine of the comparison of a middle with extremes, why
the form of a syllogism, where necessary, must always be a forcible
way of stating an argument. For first we state that which our hearer
cannot but. concede j (major ;) then we state that which he did not
know or attend to, in such a way that he must receive it on our
testi- mony, or admit as evident as soon as it is attended toj
(minor;) and these two being admitted, they are found to contain what
we proposed to prove: which we then draw from them without the
possibility of a rational contradiction; (conclusion.) For example;
o our hearer knows by experience what persons are
deserving of respect: he knows, then, that Every philosopher
is deserving of respect.^ We then remind him of the fact which he
has learned from history, that " Plato is a philosopher
:'' Hence on his own knowledge we advance the undeniable
conclusion, " Plato is deserving of respect'' Is
this conclusion at all fortified is the process which led to it explained
by shew- ing that a comparison of the terms independ- ently of the
things, produces the proposition which expresses it ? Both the hearer and
the speaker must have the kno'wledgevfYiicYi the first two
propositions refer to, or the conclusion can- not be drawn for any
rational end : and if they have the knowledge, they have the
conclusion in that knowledge. In convincing the hearer, the speaker
does nothing but remind him that he (the hearer) has the necessary
knowledge ; and the syllogism, we admit, puts the matter home in a very
forcible way : but that is all : another form of speaking will oflen
do equally well : for instance, " Plato who is a philosopher
is deserving of respect." Whether the truth is stated in this way,
or in the for- mer way, or in any other way, the extract- ing of a
middle and extremes out of the ex* pression, and demonstrating that these
agree or disagree, is, we repeat it, a puerile addition to the
process that has previously taken place. Again, with regard to the other
example at the beginning of the section: Our hearer knows, (suppose
him to be a juryman,) either of his own knowledge, or by the
definition laid down by the judge, that ^^ Maliciously
killing a man is murder.''^ This is the datum, or major. He
receives in charge, i. e. he is informed that A. B. killed a man
maliciously, which is tantamount to saying that " What
A. B. did, is killing a man maliciously.*"ON RHETORIC. This
information is to be the argument or minor by which the conclusion is to
be esta- blished; but the juryman must be made sure of its truth, he
must know it, before he can receive it in this capacity : well, he
is made sure of its truth : must he then go to Aristotle, and be
taught to compare the middle with the extremes, in order to pro-
nounce his verdict that " What A. B. did, is murder:''
that is, he is guilty of murder? Will he be MORE satisfied with his
own verdict, if he is able to do so ? Common sense pronounces, no.
Let us, then, for ever have done with the Aristotelian Syllogism ;
admitting, how- ever, in favour of the form of expression, that to
express (i.) the datum, (ii.) the inform- ation which, because it is
addressed to the da- tum, is an argument,— and (iii.) the
conclusion from them in three distinct propositions, is a very
forcible way of stating a truth which we have reason to believe our
hearer is prepared to admit the moment it is so stated. But the
syllogism thus detached from the artifice of comparing a middle with
extremes, is only one among the innumerable ways of express- ing a
truth, which the custom of language permits, and is no more the invention
of Aristotle in particular, than any of those other forms that
might be used instead of it *. 7. This brief notice of the
syllogism in addition to what was advanced in the last chapter,
occurs by the way : ^the point we had in hand, was, to show that in
convincing others by means of words, we adapt our words to what
they already know. And this must be evident from what has preceded. For
we previously proved, that, in order to inform, * Our
observations on the syllogism are not meant to call in question the
intellectual capacity of the in- ventor. For what we conceive to be a
just estimate of his merits, we refer to Dugald Stewart'^s Second
Vol. of the Philos. of the Human Mind, Chap. III. Sect. 3., near the middle
of the section. we adapt our words to what our hearers
al- ready know ; and we have just shown that the process of
convincing them, is a process in which we address some information to a
pre- existing notion. Let us now see how this doctrine tallies with
the terras of art which are already in recognised use ; and, as
occa- sion may offer, let us inquire if there be any difference,
and what, between conviction and persuasion. 8. That every
argument used to influence others, is considered to derive its
efficacy from some pre-existing notion, opinion, or rul- ing
motive, whether permanent or transitory, in the hearer, is evident from
the following and similar expressions : argumentum ad Judi- cium,
by which we signify that our inform- ation is addressed to such general
principles of judgment as mankind at large are guided by :
argumentum ad hominem, by which we imply that we address those peculiar
principles by which the individual man is actuated. Again ;
argumentum ad vtrvcundiam, argumentum ad ignorantiam, argumentum ad Jidem,
argumcn- tum ad passiones, all imply arguments (infoim- ation)
addressed to some partial motives of judgment and action ; and in all
these, the conclusion arising out of the reasoning has the same
validity, as far as regards the mere act of reasoning : it is the
difference of the data that makes it of very different value. A
conclusion from an argument addressed to principles which all men recognise,
is obvious- ly a conclusion of universal force; but one which
arises from an argument addressed to peculiar principles, can of course
be convinc- ing only to such as admit those principles. So likewise
a conclusion which arises from the reverence entertained for the author
of the principles professed ; or which follows in the hearer's mind
from his limited notions, and would not follow if he were better
inlorra- ed ;— or which follows because of his faith, and would not
follow, if he had not that iaith J— or because his passions are previously
disposed, and would not follow, if they were otherwise disposed: in these
and in similar cases, the argument is valid, and therefore ef-
fective with respect to the minds for which it is adapted, but addressed
to other and more general motives or knowledge, it may be no
argument at all *. Here, then, we may perhaps see how the difference
arises between conviction and persuasion ; mere persuasion is
conviction as far as it goes ; but it is con- viction arising out of
partial data : the person persuaded is conscious that the reasoning
process itself is right, but he suspects perhaps more than suspects tliat the
data which he has permitted his inclinations to lay • Hence,
what is Rhetoric at one tune and to one set of auditors, may be none
whatever at another time. Who has not admired tlie Rhetoric of Marc
Antony, (the Hpeecb over Ciesar's body,) in Shakspeare's play of
Jnhua Caesar ? But why do we admire it F Is it such Rhetoric as would
persuade all people under the circumstances supposed ? No. But it is just
such Rhetoiic as was fitted for the multitude under those
circumstances; and we admire the dramatist who so completely suits the
oration to the art of the speaker, und the minds of those whom be has to
operate upon. down, are wrong: he perceives another
con- clusion from other and less suspicious data, though he has not
resolution enough to em- brace it : so that the case we referred to
in the last chapter* as being so common in life, Video meliora
proboque^ deteriora sequor, amounts to this, that we are divided
between two conclusions, the one drawn from data which we know to
have the sanction of uni- versal consent, the other from data
supplied by private motives. Thus, when Macbeth is bunging in doubt
between the suggestions of duty and ambition t, the conclusion from
each source is reasonably drawn : but he is not ignorant of the
different value of the respec- tive sources. He has nearly determined
in favour of the conclusion drawn from duty, when his wife enters,
who, by addressing con- siderations (information, arguments,) to
his known sentiments of greatness and courageous f
Shakspcare's Macbetb, Act I. Scene 7- daring, persuades him
to murder Duncan and seize the crown. 9. So much for the
terms of art by which we signify the quaUty of the arguments we
use, as depending on the known motives, or information, or disposition,
of the persons addressed : which terms suit our theory so well,
that they seem to be invented for it. Nest, for the terms by which the
arguments themselves are technically distinguished. First, we have
a distinction of them into Ex- ternal and Internal. Now, according to
our theory, every argument consists of some in- formation which we
communicate to the per- son reasoned with : but this information
may be something that he could not possibly have discovered by any
consideration of the subject itself J or it may be something that
he might have so discovered ; in which latter case, our information
will amount to nothing more than making him aware of what he had
overlooked. The former, then, will be an ex- temal argument or proof; the latter, an
in- temal argument. Of the former, the evidence in a court of
justice is an example ; as are al- so proofs from history and other
writings, and irom the testimony of the senses. Of the lat- ter
kind, are all arguments from what are call- ed the topica or loci
communes : for instance, from the definition or conditions of a thing
j as when certain lines are inferred to be equal to each other from
their nature or conditions as being radii of the same circle : from
enumeration ; as when we prove that a whole nation hates a man, by
enumerating the several ranks in it, who all do so : from nota~
tion or etymology ; as when we infer that Lo- gic has reference to the
use of words in reasoning, from its connexion with the Greek Xt'yw
I speak, and \6yoi a word :— from genus f as when we prove that Plato is
deserving of respect, by showing that he is one of a getius or
kind that is deserving of respect : from species ; as when we infer the
excellence of ^ virtue in general from that which we
observe eo*
[chap. lit. in some particular act of virtue : anil
so like- wise of the same kind, namely internal, are aiguments from
the other well known topics ; (not to prolong the instances, which are
easily imagined ;) from cause, whether efficient, JiJial, Jbrmal,
or material; from adjuncts, antecedents, consequences, contraries,
opposiles, similitudeSy dissimilitudes, things greater, less, or
equal: &c. The deriving of arguments from these internal
topics*, is nothing more, on the part of the speaker, than turning a
subject into every point of view that may suggest a some- thing
relating to it, overlooked perhaps by the hearer, and which, by being
brought to his notice, and addressed to his pre-existing notions,
may prove, or render probable, the proposition in hand ; and according to
the de- gree of force which the argument carries, it is • The
reader needs not be reminded how largely this subject of topics, (or
places for finding the internal or artiiicial proofs in contradiGtinction
to the external or artificial,) ia treated by the ancients : for instance,
by Aristotle, by Cicero, (vide the book called Topu-a,) and by
Quinctilian. deemed an instrument of conviction or of
persuasion. An argument from defimlion ; - (for instance from the
conditions of a problem or theorem j as where lines are required to
he drawn which are to be radii of the same cir- cle J ) which
argument is addressed to a notion assumed among the general conditions of
the I reasoning ; (for instance, that " a circle is suct]^ ] a
figure that all lines, (called radii,) drawn, j from a certain point
within it to the circum- ference are equal " ;) an argument so
derived and so addressed, is demonstrative of the pro- position
which it is brought to prove : (e. g^ that the lines are equal.) An
argument froni[1 enumeration, (for instance, from a statement 1 of
the several ranks that are found in a n&- ] tion,) addressed to a
notion that the parta J enumerated are all the parts, (for instance^
j that the several ranks of people that hate A. j B. comprise the
whole nation,) is also de- monstrative with respect to that notion ;
but if the enumeration should not comprehend all the parts in the
hearer's notion of the whole, or if the hearer should doubt whether his
own notion is sufficiently comprehensive, no ab- solute conviction
takes place. Still, the enu- meration may induce belief, and will in
such case be said to persuade, though not to con- vince. The same
might be shown of the ar- guments derived from all the other
topics. Entire conviction would follow from any of them, if the
hearer were fully satisfied both of the truth of what is offered in the
way of ar- gument, and of the correctness of his own no- tion to
which the argument is addressed : but greater or less degrees of doubt
may accom- pany each of these, and greater or less de- grees of
doubt will therefore attach to the conclusions which flow from them. We
may moreover observe, that the truths a speaker has in view, do not
always stand in need of demonstration : they are perhaps admitted al-
ready, but it may be that they do not suffici- ently influence the
hearer's sensibilities. The object of an argument will then be, to
awaken those sensibilities, and with this effect its purpose wiU stop :
as, for instance, when in or- der to awaken sensibility to the frail nature
of man's existence, (not to demonstrate it,) the speaker draws his
argument from simili- tude : Ah ! few and full of sorrows are
the days Of mieerable man ! his life decays Like that fair flower
that with the sun's uprise Its bud unfolds, and with the evening
dies. Here, the argument is obviously meant for persuasion.
There may, at the same time, be an ultimate truth in view, which the
speaker designs to enforce when he has prepared the mind for
receiving it; and he will then employ arguments of a different kind, and
address them to notions of universal dominion. But with regard to
any of the arguments which, in this brief review we have glanced at whether external or internal, whether
demon- strative, or only inducing belief, whether de- signed to
convince, or fitted but to per- suade, the process accords with the
theory assumed: the speaker adapts words to knowledge the hearers have
already attained, or to feeliugs they have already experienced, in
order to conduct them to some discovery he wishes them to make, or to
some unexperienc- ed train of thought conducive to such dis-
covery. 10. The assumption of this as the great principle of
the art, will, in the next place, enable us to clear it from certain
misdirected charges to which it has always been liable. The
expedients which the orator employs, the various tropes and figures of
which his discourse is made up, are apt to be looked upon as means
to dissemble and put a gloss upon, rather than to discover his real
sentiments*. That, like all other useful * We refer more especially
to the following pas- sage with which Locke concludes his Chapter ^^ on
the Abuse of Words ;^ being the 10th of his 3d book. ^^ Since wit
and &ncy find easier entertainment in the world than dry truth and
real knowledge, figurative speeches and allusion in language will hardly
be ad- mitted as an imperfection or abuse of it. I confess in
discourses where we seek rather pleasure and de-things, they ^re sometimes
abused*, nobody • E/ 3f, ort /jieyaKa jSxa\J/£(£v av b xi^f^^^°^
d^Uag Tn roKzuTn ^uvifAEi tcHv Aoywv, touto re Jtoivov eo'ti Kara
^ivruv Tuv ayaOav* Arist. Rhet. I. 1. light than information
and improvement, such orna- ments as are borrowed from them can scarce
pass for faults. But yet if we would speak of things as they are,
we must allow that all the art of rhetoric, besides order and clearness,
all the artificial and figurative ap- plication of words eloquence hath
invented, are for nothing else but to insinuate wrong ideas, move
the passions, and thereby mislead the judgment, and so indeed are
perfect cheats : and therefore however laudable or allowable oratory may
rehder them in ha- rangues and popular addresses, they are certainly,
in all discourses that pretend to inform or instruct, wholly to be
avoided ; and where truth and knowledge are con- cerned, cannot but be
thought a great fault either of the language or the person that makes use
of them. What, and how various they are, will be superfluous here
to notice ; the books of rhetoric which abound in the world, will
instruct those who want to be informed : only I cannot but observe how
little the preservation and improvement of truth and knowledge is the
care and concern of mankind ; since the arts of fallacy are endowed
and preferred. It is evident how much men will deny : but to consider them
by their very nature as instruments of deception, only proves that
the objector utterly misconceives the relation between thought and
language. These expedients are, in fact, essential parts of the
original structure of language ; and however they may sometimes serve the
pur- poses of falsehood, they are, on most occa- sions,
indispensable to the effective communi- cation of truth. It is only by
expedients that mind can unfold itself to mind;— lan- guage is made
up of them ; there is no such thing as an express and direct image
of thought. Let a man's mind be penetrated love to deceive
and be deceived, since rhetoric, that powerftil instrument of error and
deceit, has its esta- blished professors, is publicly taught, and has
always been had in great reputation : and I doubt not but it will
be thought great boldness, if not brutality in me, to have said thus much
against it. Eloquence, like the fair sex, has too prevailing beauties in
it, to suf- fer itself ever to be spoken against. And it is in vain
to find fault with those arts of deceiving, wherein men find pleasure to
be deceived.'*' with the clearest truth let him burn to com-
luunicate the blessing to others ; ^yet can he, in no way, at once lay
bare, nor can their minds at once receive, the truth as he is con-
scious of it. He therefore makes use of ex- pedients : he conceals,
perhaps, his final pur- pose ; for the mind which is to be
informed, may not yet be ripe for it :— ^he has recourse to every
form of comparison, (allegory, simile, metaphor*,) by which he may awaken
pre- disposing associations : he changes one name for another,
(metonymy,) connected with more agreeable, or more favourable
associa- tions : he pretends to conceal what in fact he declares ; (apophasis
; ) to pass by what * In referring to these and other figures of
speech, it is impossible not to be reminded of Butler'^s distich,
that All a rhetorician'^s rules Teach nothing but to
name his tools. The fact is as the satirist states it. But then it
is something to a workman to have a name for his tools ; for this
implies that he can find them handily. May we add to our remark, that the
world is scarcely yet in truth he reveals ; (paraleipsis) he interrogates
when he wants no answer ;— (ero- tesis ; ) exclaims, when to himself
there can be no sudden surprise;— (ecphonesis) he corrects an
expression he designedly uttered ; (epanorthosis) he exaggerates ;—
(hyperbole) he gathers a number of particu- lars into one heap; (synathroesmus)
he ascends step by step to his strongest position ; (climax ) he
uses terms of praise in a sense quite opposite to their meaning ; (ironia)
he personifies that which has no life, perhaps no sensible existence ; (prosopopoeia)
he imagines he sees what is not actually present ;— (hypotyposis) he calls
upon aware how much it owes to such men as Butler, Moliere,
Shakspeare, Pppe ;r-^men who joined to other rich gifts of intellect,
that of plain sound sense, which enabled them at once to see, in their
true light, the vanities and absurdities of (misqalled) learningp But for
the histo- rian of Martinus Scriblerus, his predecessors and suc-
cessors, the world might still be under the dominion of a set of solemn
coxcombs, whose whole merit consisted in making small matters seem big
ones, and themselves to appear wiser than their neighbours.
the living and the dead ; (apostrophe) all these, and many more
than these, are the ar- tifices which the orator* employs ; but
they are artifices which belong essentially to lan- guage ; nor are
there other means, taking them in their kind and not individually,
by which men can be effectually informedy or perstuidedj or
convinced. Could the prophet at once have made the royal seducer of
Uriah's wife fully conscious of the sin he had committed, he would not
have approached him with a parable t : that parable was the means
of opening his heart and understanding to the true nature of his crime ;
and it is a proper instance of the principle on which all eloquence
proceeds. It is true, we do not * We trust the reader scarcely
needs to be remind- ed, that the word Orator isused throughout this
treatise, in the comprehensive sense which includes all who wield
the implements of Eloquence. In modem times, the influential orator is
read not heard ; or if heard, his hearers are few in number compared with
his readers. t 2 Sam. 12. now make use of
parables fully drawn out ; but all metaphorical expressions, all
compa- risons direct or indirect, are to the same pur- pose ;
namely, that of bringing the mind of the hearer into a state or temper
fitted for the apprehension of truth. Nor, (we repeat,) must it be
thought that the means referred to, (excepting some instances in bad
taste,) are ornaments superinduced on the plain mat- ter of
language, and capable of being detached from it : they are the original
texture of Ian- guage, and that from which whatever is now plain at
first arose. All words are originally tropes ; that is, expressions
turned (for such is the meaning of trope) from their first pur-
pose, and extended to others. Thus, when a particular name is enlarged to
a general one, as our theory shows to have happened with all words
now general, the change in the first instance was a trope. A trope ceases
how- ever to be one, when a word is fixed and re- membered only in
its acquired meaning ; and in this way it is that all plain expressions
have originated. In a mature language, a speaker or writer may,
therefore, if he pleases, avoid figurative expressions. But the same
neces- sity, the same strong feelings, which originally gave birth
to language, will still produce new figures, or lead the speaker to
prefer those already in use to plain expressions, if, by the
former, he can touch the chords, or awaken the associations, that are
linked with the truths iie seeks to establish. Our theory of
language, and consequent theory of Rhetoric, will, in the next place, no
longer leave us to wonder at an ef- fect, which Dr. Campbell has laboured
to account for with much ingenuity; namely, that nonsense so often
escapes being detect- ed both by the writer and the reader*. For
according to our theory, words have a sepa- rate and a connected meaning,
each of which is distinct from the other. Now, suppose a succession
of words to have no connected See Philosophy of Rhetoric, Vol. II. Book
II. meaning, which is as much as to say, suppose
them to be nonsense ; yet, in their separate capacity, they will
nevertheless stand for things that have been known and felt ; and
if both the speaker and the hearer shbuld be satisfied with the vague
revival of this know- ledge and of these feelings, they will
neither of them seek for, and consequently will not detect the
absence of an ulterior purpose. The effect which is produced by words
thus used, (or rather misused,) extends no further than that
produced by instrumental music, and is of the same kind. For no one
will pretend that a piece of niusic expresses, or can express,
independently of words, a series of ra- tional propositions ; yet it
awakens some sen- timents or feelings of a suflSciently definite
cha- racter to occupy the mind agreeably. Now perhaps it is not an
unwarrantable libel on one half of the reading world, if we affirm,
that they read poetry and other amusing composition for no further end,
and with no further effect, than the pleasure of such vague
Sentiments or feelings as spring from music : and to such readers it is
of little moment whether the words make sense or not. Ac-
cordingly, when composition like the follow- ing is put before them^
which presents striking though incongruous notions, in words gram-
matically united, agreeably jingled, and having a connexion, probably,
with certain sensitive associations, they are liable to read on,
not only without feeling their taste shocked, but perhaps with some
pleasure. Hark ! I hear the strain erratic Dimly glance from
pole to pole ; Raptures sweet and dreams ecstatic, Fire my
everlasting soul. Where is Cupid's crimson motion,
Billowy ecstasy of wo ? Bear me straight, meandering ocean,
Where the stagnant torrents flow. Blood in every vein is
gushing, Vixen vengeance lulls my heart ; See, the Gorgon
gang is rushing ! Never, never let us part *. * "
Rejected Addresses ;^ the particular example Nor is it in
(pretended) poetry alone, that the eflFect here alluded to tahes place.
Bring to- gether the rabble of a political party, and place before
them a favourite haranguer: it 13 not by any means necessary that he
should make a speech which they understand, or even himself: he has
only to string, in plausible order, the accustomed slang words of
the party, and to utter them with the usual fer- vour ; the wonted
huzzas will follow as a matter of course, and fill each pause that
the speaker's art or necessity prescribes. And BO likewise in an
assembly of a different de- scription, the piously disposed
congregation above being in ridicule of Rosa Matilda's
style. See also Pope's " Song by a Person of Quality."
The reader whose taste is gratified by such composition as is here
caricatured, stands at the other extreme from that mathematical reader,
who returned Thomson's Seasons to the lender with an expression of
disgust, that he had not been able to find a single thing proved
from the beginning to the end of the book. The reader for whom the
genuine poet writes, is equally removed from each extreme. of
a conventicle : the good man whom they are accustomed to hear has but to
put to- gether the words of familiar sound and evan- gelical association
grace, and spirit, and new light, regeneration and sanctification,
edification and glorification ; an inward call, a wrestling with Satan,
experience, new birth, and the glory of the elect ; interweaving
the whole with unceasing repetitions of the sa- cred name,
accompanied by varied epithets of, blessed, holy, and divine : and with
no further assistance than the appropriated tone and frequent
upturned eye, he will throw them into a holy transport, and dismiss them,
as they will declare, comforted and edified. This effect, which is
apt to be attributed to hypocrisy because the ordinary notions of
language suggest no cause for it, our theory explains with no heavy
scandal to the parties. 12. Concerning the elements of
Rhetoric ranged under the divisions of Invention and Elocution, we
have now made what remarks our object required. There yet remains
one division, namely, Pronunciation *; which will, however,
scarcely furnish occasion for extend- ing our observations ; since our theory
is not in any peculiar manner concerned with it. As we started with
the Rhetoric of nature, namely, tone, looks, and gesture, so we are
at * Disposition and Memory are in general adde4 to these
three. " Omnis oratoris vis ac facnltas,'*^ says Cicero, ^^ in
quinque partes est distributa ; ut deberet reperire primum, quid diceret;
deinde in- venta non solum ordire, sed etiam momento quodam atque
judicio dispensare atque componere ; tiun ea de- nique vestire, atque
omare oratione ; post, memoria sepire; ad extremum, agere cum dignitate
et venustate.^ De Orat. 1. 31. As to two of these divisions, we
have no occasion to notice them, because there is nothing in our
theory of language which requires them to be viewed in a new or peculiar
light : We may take oc- casion to observe, before' concluding the note,
that the modem use of the term Elocution, assigns it to sig- nify
what the ancients denoted by Pronunciation or Action : and Dr. Whately
sanctions this modem sense by adopting it in his Rhetoric. We have used
it in the foregoing page in the ancient sense : ^^ quam Graeci
f^aa-iv vocant,^ says Quinctilian, ^^ Latine dicimus Elocutionem.'*'*
Ins. viii. 1. once ready to admit that these may, and ought
to accompany the language of art ; that
they ought not to be absent even from the recollection of him who writes,
lest his style be deficient in vivacity. In union with these parts
of Pronunciation, is that ele- ment of artificial oral speech called
Empha- sis ; and it will be to our purpose to observe, how very
inadequate are the common notions of language to account for the actual
practice of emphasis, as it may be observed in English speech. The
common view of words that make up a sentence, is, that they
respectively correspond to ideas that make up the thought : and
therefore, in a written sentence, if we would know the emphatic word, we
are de- sired to consider which word expresses the most important
idea*. Thus, when Dr. * To this end some teacher of elocution (elocution
in the modem sense) somewhere says : ^^ If, in every assemblage of
objects, some appear more worthy of no- tice than others ; if, in every
assemblage of ideas, which arc pictures of those objects, the same
difference Johnson was asked how we ought to pro- nounce the
commandment, ** Thou shalt not bear false witness against thy neighbour/*
he gave as his opinion that not should have the emphasis, because
it seemed the most im- portant word to the whole sense. But Garrick
influenced by no assumed theory, pronounced according to the practice of
English speech, ** Thou shalt-not bear," * &c. There is in
fact no other rule than custom in English speech for the accenting
of words in a sentence, any more than there is for accenting syllables in
a word. A peculiar or referential meaning may indeed disturb the
usual accent of a prevail, it consequently must follow, that in
every assemblage of words, which are pictures of these ideas, there
must be some that claim the distinction called emphasis.^ All this
ingenious parallel, with Aristotle^s authority to back it, we affirm to
be purely visionary, and we hope the reader by this time thinks as^ we
do. Yet is the passage in entire accordance with the no- tions of
language that commonly nay, it should seem, universally prevail.
* The story is somewhere related by BoswelL word : for instance,
the common accent of the word for^ve, will be displaced if the word
is pronounced referentially to a word that has a syllable in common ; as
in saying to give and loj'drgive. And just so will it be in a
sentence which is pronounced refer- entially to an antecedent or a
subsequent sentence, either expressed or understood : which would
be the case, if we pronounced tie ninth commandment in contradiction to
one who had said "Thou shaltbear false witness," &C.,
for then we should accent it in Johnson's way, and say " Thou shalt
n6t bear," &c. Now this is what is properly called
emphasis, namely, some peculiar way of accenting a sentence in
order to give it a referential mean- ing. A sentence pronounced to have a
plain meaning has its customary accents, but no emphasis. The
commonest example will be the best ; and therefore we will quote
one that may be found in every book in which emphasis is treated
of: "Do you ride to town to-day?" If this is pronounced without
allusive meaning, ride, town, and day, are equally accented by the custom
of the language, and there Is no emphasis properly so called :
which, by the way, is a pronunciation of the sentence that teachers of
read- ing, in their search after its possible oblique meanings,
forget to tell us of. Suppose we give an emphasis to ride, then
lide-to-toivn-to day will be allusive to wdlk-to-town-to-day, as we
might accent the word intrinsical in the mauner marked with a reference
to the word Extrinsical, although the plain accentuation is
intrinsical. So again to-loTvn-lo-day is allusive to the-country-to-day,
and to-town-to-ddy is al- lusive to to-town-to-m6rrow ; as the word
powerless might be accented on the last syl- lable with a view to
poweiiful. That the ac- tual practice of emphasis corresponds with
this account, the reader may satisfy himself by observing the
conversation of the well- bred, not their reading, for that is
oflen conducted on mistaken principles : and we scarcely need point
out how completely this practice accords with our theory of
language. For with us, a sentence is a word, not more resolvabie
into parts that constitute its whole meaning, than a word made up of syllables
; and as with regard to a word of the latter de- scription, the
accent is determined to one syl- lable by custom, but is disturbed and
placed on another syllable in making allusion to another word
having syllables in common ; so with regard to a sentence (word) made
up of words, the accents are likewise determined to certain words
that usually bear Ihem, but these accents are disturbed and placed
on other words in making allusion to a meaning which has, orwhich,
if expressed, would have, words in common. And here, with this new
kind of proof in favour of our theory, and with the last subject usually
treated of in Rhetoric, we might stop the hand that has traced this
OutHne. But there remain a few remarks that could not be introduced
earlier, for which the patience of the reader is en- treated a
little longer. We may take the liberty in the first place to
observe, that, with regard to the materials of Sematology which have been
con- sidered, our theory leaves them what they were : it pretends
only to show the true basis on which they stand, and that the
learned distribution of them, is not that which accords with the
actual practice of mankind. Suppose then, (if we may suppose so much,)
that our Grammars, our Books of Logic, and our In- stitutes of
Rhetoric, are to be altered in con- formity with the views which have
been opened, the changes will not affect the detail, but the
general preliminary doctrine, and the subsequent arrangement. As to
doctrine, the changes will mostly consist of omissions. In Grammar,
if we omit the common de- finitions of the parts of speech *, and
allow * God help the poor children that are set to learn
these, and other of the definitions in elementary grammars, particularly
English grammars; for the Latin ones are a little more sensible. That
jumble of a grammar that has the name of a Lindley Mturay in the
title page, after defining a verb to be ^^ a wend the tyro
to learn what they are by the parsing of sentences that is, to ascend
from par- ihat Bignifiea to be, to do, or to suffer," {as if
no other part of speech signified to be, to do, or to suffer,)
after saying what is true enough, but cannot be under- stood by a child
till he has practically discovered it, that " common names stand for
kinds containing many sorts, or for sorts containing many individuals
under them;" with many like things, picked up from Lowth and
others, equally fitted for the instruction of young minds; condescends to
give a few plain di- rections for knowing the parts of speech, such as
the tyro is likely to understand: but the author, as if ashamed of
having been intelligible, remarks that " the observations wliich
have been made to aid learners in distinguishing the parts of speech from
one another, may afford them some small assistance ; but it will
certainly be mucli more instructive to distinguish them by the
definitions, and an accurate knowledge of their nature" Now the
observations referred to, are, in fact, the only passages calculated to
give a just un- derstanding of the parts of speech ; the
definitions wliich the writer enhances, being founded in an es-
sentially wrong notion of the nature of grammar. It is speaking to the
purpose to tell the tyro that " a substantive may be distinguished by
its taking an article before it, or by its making sense of itself;"^
that, " an adjective may be known by its making sense with
ticulars to generals instead of descending from generals to particulars, there la nothing the wortl thing,
or any particular Gubstantive ;" that, " a verb may be
diBtinguishcd by its making sense with any of the personal pronoiuiB
;" that, " a preposi- tion may be known by its admitting after
it a personal pronoun in the objective case ;" and so forth.
These are not only plain directions for the purpose professed, but
they suggest the real differences among the parts of speech; and if the
compiler had condescended throughout his book (or books, for there are
appen- dages) to adapt his explanations, in the same manner, to the
minds of those who were to be taught, he would have avoided the errors of
doctrine which he always runs into when be attempts to give, what as the
author of an elementary grammar he has never any buaiiiesa to give,
namely a philosophical or general principle. Moreover, in the arrangement
of his materials, he seems incapable of, ot at least is inattentive to,
the clearest and most necessary distinctions. Thus, (to take at
random two examples from liis book of ex- ercises,) he gives the
following as instances of bad grammar : " Ambition is so insatiable,
that it will make any sacrifices to attain its objects. When so good a
man as Socrates fell a victim to the madness of the people, truth,
virtue, re- ligion, fell with him."
The former of these sentences exemplifies the Logical fault,
non- in what remains that can be objected to : the declining
of nouns, the conjugatiiig of verbs, scquitur, and the latter will
advantageouBly receive the Rheimcal ornament polysyndeton : but to
give them as instanccB of defective Grammar, b to blind the learner
to the nature of the art he is studying. The grammatical works wc are
referring to, seem, from the number of editions they have gone
through, to be in very general iise, or we should not have deemed
them worth so long a note. \Ve pass to a remark on another grammatical
work of very different character and value, the Greek grammar of
Matthise. This work has justly won the approbation of the learned
throughout the world; but we conceive the praise belongs to its elaborate
detail, and not to such principles as the following. " Every
proposition, even the simplest, must contain two principal ideas,
namely that of the Subject a thing or person, of which any thing is
asserted in the proposition, and that of the I'redicate, that which is
asserted of that person or thing." (Matth. Gr. § 293.) To state our
objections to tliis passage is difficult, because we do not know
how the author or translator may define a propositic»i, or what
they may mean by the principal ideas in it. Perhaps they may consider no
expression a proposition which does not consist of a subject and
predicate. Wc deny that, from the nature of the thought, any commu*
nication requires these grammatical parts, {they are A and the
other business of the grammar-scliool, we deem, as it has always been
deemed, in- dispensable. In Logic, if we omit ail that is taught
concerning ideas independently of words ; if we omit what ia taught
concerning the two operations of the mind, Perception and Judgment
distinct from Reasoning, not because those operations do not take
place, but because every single abstract word fully understood,
(and Logic begins with words,) expresses a conclusion from a rational
process as efTectually as a syllogism ; and if we further omit (and
the omission is important) whatever is peculiar to Aristotelian Logic ; all
that remains will, on the principles we have had before us, be
essentially useful to the learner ; namely, the precepts for accurate
definition ; the precepts against the assumption of un- warranted
premises j the precepts for guarding against the false conclusions to
which we are merely g^rammalical,) though the necessities of
lan- guage in general prescribe them. See Chap. I. SecL 25. ; about
the middle of the Section. liable when we reason tvith words, and
not merely by means of words; the precepts for guarding against
being led away by true con- clusions, when there may be conclusions
like- wise true and more important from other data ; which data,
with their conclusions, are, kept out of sight by the art of the speaker,
or . the blindness of the inquirer*. In Rhetoric, there is less to
be omitted than in the other branches ; but in this department, the
general views we have opened are important, because they exhibit
the art in connexion with a great and worthy end; an end which, it should
seem> has not always been thought essential to it. We mean to
say, that the7na(e)'taZsof acomplete budy of ioEtructioD ia Logic already
exist in Literature ; but tliey esisE not in any one system. They are
more- over BO mingled with what is erroneous hi doctrine, that the
good is difficult to reach, without imbibing a great many wrong notions
that frustrate the practical benefit How can it be otherwise, if what we
have endeavoured to prove, is true, that the principle of the Logic
which all men use and all men operate witli, has never yet been
cxpIaiRvd ? For as Rhetoric is an instrumental art, we are told
that it ought to be considered ab- stractedly from the ends which the
speaker or writer may propose in using it j and Quinctilian who
insists that the Orator, (that is, of course, the consummate orator,)
must be a virtuous man, lias been classed with those whom
atraihevffla, and aXai^ovela have betrayed ioto a wrong estimate of the
art*. As we think the good old Roman schoolmaster is not quite
beside the mark in his notion on this point, we propose to inquire wliether
the placing of Rhetoric on the basis we have ascertained, does not lead
to the position he so stoutly maintains. Now, the immediate basis
of Rhetoric is Logic ; and our remarks will therefore begin with the
latter. 14. Logic as well as Rhetoric is an in- strumental
art ; but if our definition is correct, it is an instrument for the
discovery of truth, and it is then only perfect as an instrument
when it is completely adapted to that end. • See Whately's Rhetoric. A
great and worthy end is therefore essential to Logic ; and a
correspondent effect will appear in those who have made a skilful
use of it. But the Logic we speak of, is that which is applied to
things, namely to Physicot and Practica *; that is to say, which is
em- ployed to ascertain the constitution of the world in which we
Uve, and of ourselves who live in it, and thence to deduce what we
ought to do: but the examination of the world, and of ourselves, and of
our duties, is the examination of particulars ; and our Logic has
recourse to universals for no other purpose than to understand
particulars the better. If there is a Logic, which, resting in
universals, confers the power of talking learnedly and wisely, yet
leaves a man to act the part of an Ignoramus and a fool in the
commonest concerns of life, this is not the Logic we have had in
view. There is indeed a learned ig- norance, aa there is an ignorance
from want of learning ; there is also an ignorance from natural
incapacity, and an ignorance from superinduced insanity ; by any one of
wliich tbe mind may be prevented from reaching truth. Not that in
any case whatever the reasoning process is wrong ; but if the
reasoning proceeds on wrong or insufficient premises, which it will in
any of these cases, the conclusion will of course be wrong. Some
one has said that " the difference between a madman and a fool is,
that the former reasons justly from false data, and the latter
erro- neously from just data." This is incorrectly said : the
idiot who walks into the water because he knows no better, is incapable
of the just datum, and therefore cannot be said to reason from it :
if he knew the datum, namely that the water would drown him, he
would not walk into it ; but he does not know this, and therefore he
walks into it : in doing which, he reasons, so far as his know-
ledge goes, as justly as the madman, who walks into it because his
disturbed fancy makes him take it for a garden. Wlien the road to
truth is blocked up by either of these two causes, namely irabeciUty or
insanity. Logic can do nothing ; but ignorance whether from wrong
learning or from want of learning, is to be removed by the appUcation of
ge- nuine Logic to P/it/ska and Praclica. Still, independently of
tlie toil to be encountered, there are obstructions and delusions
which are liable to turn the most ardent inquirer out of the path.
There may not be natural im- becility, nor permanent insanity ; yet
there may be an habitual incapacity of judgment from the influence
of prejudice, and aa occasional insanity of judgment from the in-
fluence of passion. But among other things we learn in Pki/sica, these
facts are to be reckoned ; and the precepts which warn us of them,
are among the most important of those which belong to Praclica. In the
mean time, that we may be induced to persevere in the search after
truth, till our real interests become so plain that we cannot but
embrace them, we are not permitted to feel at ease under the
mists which passion and prejudice create. The fool and the madman to
whom mists are reaUties, are satisfied in their judg- ments; but it
is not so with those who see dimly through the fog, and suspect there
may be better paths than those they are pursuing. This suspicion,
as light breaks in, may at last become conviction, strong enough to
subdue even the habit or inclination by which a wrong path is made
easy, and a departure from it difficult. True, indeed, such over-
powering conviction may not reacii the ma- jority of mankind at present:
they may be compelled, as heretofore, to wear out life in struggles
between right and wrong, between inclination and duty, between future
good and present solicitation : but are we forbidden to hope, for
future generations, a gradual alleviation of so painful a conflict, in
propor- tion as what is good and what is evil shall be made plainer
to the eye of reason • P At least > * All vice is ignorance or
habit. Who would not take the best way of being happy, if he knew it that may
we affirm, that all learniag has, or ought to have, this consummation in
view. is, knev it to conviction and his habits did not
prevent him ? But he may discover the best way when hia bahitE are
fixed; as a miEerable dnmkard, who drinks on to escape from utter
dcepair, sees with bitter regrel the happiness of a sober life. With a
common notion of learning and ignorance, an objector will demur to
our statement ; but such an objectot should be told, that a man may have
run the circle of the sciences aa they are commonly taught, and yet
remain in ignorance of what is most important to be known. This is
s truth which not only Christian teachers, but the wise among the
heathen inculcate. In that admirable relic of Socratic philosophy,
£;EBHT02 niNAH, there are, among the personifications, two that bear
the names of naiitia and "Htuimaihla, (Learning and
Counterfeit-learning,) by the latter of which is ligured all that,
independently of the knowledge which makes I men permanently happy,
passes under the name of I learning. Now, in that knowledge which alone
ia | valuable, a man cannot be called learned, whose coik viction
is not strong enough to determine his practice. The thirsty wight Tiho,
in a state of profuse perspira* tion, calls for a glass of iced-water,
may know there is danger in the draught : but if his knowledge is
not strong enough to prevent the act, what is its value ?— at the
moment, it is even worse than useless ; since Such then is the aim
and scope of Lo- gic in relation to Physica and Pracika : it is
may be sufficient to disquiet the luxury of the draught, though not
sufficient to subdue the desire for it. When Macbeth, (for the case is
not dissimilar,) resolves to gratify his ambition, he is not ignorant
of the danger he runs, and the secure happiness he leaves behind
him ; but he is so far ignorant as to prefer the phantom of happiness to
the reality. Yet he is not so ignorant as his wife, and he reaps, in
consequence, less immediate gratification. Having once held the
balance, with some impartiality, between right and wrong, he is
incapable, even for a moment, of being a triumphant villain. The
crooked-baek Richard, (for having begun our examples with Shakspeare, we
will continue with him,) is not so distracted by divided data. " Securely
privileged," says Foster, " from all interference of doubt that
can linger, or hiunanity that can soften, or timidity that can shrink, he
advances with a grim con- centrated constancy through scene after scene
of atrocity, still fiilfilling his vow to ' cut his way through
with a bloody ase.' He does not waver while he pursues his object, nor
relent when he seizes it." (Essays on Decision of Character,
&c.) Yet both he and Macbeth's wife at length get nervous in
their sleep : for so it is, that if one scruple of conscience lurk
in the soul, it will produce its effect sooner or later; and tliat effect
will begin when the bodily powers are the means of discovering truth in
botli these departments. Now we assume, that the pro- weakest; and
as body and mind have a mutual in- fluence, the former -will sicken and
perpetuate the horrors of the latter, unless, as with Richard, a
violent death intervene. The three wretches vc have thus far referred
to, have this in common, that they do not embrace vice for its own sake,
but as a means of reaching the phantom of happiness that dances before
them. But there is a state of vice brought on by habit, in which a
man finds a pleasure in doing evil, and is in- capable of any other
pleasure. lago is our example a
character which, it is to be feared, is by no means out of life. Imagine
a shrewd and selfish child per- mitted from infancy to create for himself
a satis- faction in the disquietude of others a little worrier of
defenceless creatures— a petty tyrant indulged in his worst caprices ; imagine
such a one, as he grows up, placed where his habits cannot be indulged
but in secret, and where those around him are such, that he must,
in his own mind, either hate them, or hate himself: imagine all this, and
lago will appear too possible a character. Some critics have objected,
that there is no sufficient motive for the mischief he brings on
Othello, Desdemona, and Cassio. Can there be, to Aim, a stronger motive,
than that they arc noble- minded, benevolent, and happy, and tacitly
remind him, at every instant, that he is in all respects a per
business of Rhetoric is to make truth known when found j which
assumption, if ad- mitted, would at once establish our position ;
for to suppose a consummate orator would, in such case, be to suppose one
who is too fully possessed of truth not to be led by it himself,
while acting as a guide to others. After ad- mitting the assumption, it would
signify little wretch? He knows and bitterly feels, tliat each
" hath a daily beauty in his life that makes him ugly-" The
only pleasure which habit has given him, in lieu of those of which it has
made him incapable, is, to torture the beings that wound his self-love to
the quick, and to destroy the happiness he cannot partake in. Such
is the power of habit. Though the means, when properly applied, of
putting a human being in train to become an angel, yet added to, and
encouraging the tendencies of his uninstructed nature, it will render
him, prematurely, a fiend. lago is utterly depraved a being incapable of
Paradise if placed in it more odious tlian Milton has been able to depict
even Satan him- self; for that majestic bdng, (the hero of the poem
as Drydeu truly says he is,) never appears " less than
arcliangel ruined. " The " demi-devil " of the dra-
matist, excels, in mental deformity, what the epic muse has been able to
conceive of " the author of all evil. "to object the actual
characters of those who speak and write ; for they may be
pretenders in Rhetoric j or their advance in it, though real, may
be very inconsiderable toward the perfection we are supposing. But it may
be said that the assumption begs the question, and leaves us still
to show that the office of leading men to truth is essential to Rhetoric,
in contradiction to those who view it as a mere instrument equally fitted
for the purposes of truth and falsehood. Now, it must be con-
fessed, with regard to the means employed in Rhetoric, that they
frequently seem adapted to the prejudices of men, to meet rather
than to oppose their ignorance and their passions. And if there
were any way of conveying truth at once into minds unfitted to receive it
*, the It is a comiuoii thing to say of a person, that he vtiU not
be convinced. The fact generally stands thus : we use arguments that
convince ourselves, and presume they are fitted to convince him, not
knowing or not observing, that all argument derives its force
&om the previous knowledge in the mind to which it is addressed ; and
that our hearer may have been so use of such means would be conclusive
against an honest purpose in the speaker. But the instantaneous
communication of truth, is, un- der most circumstances, impossible ; and
there- fore we may next ask, what interest a writer or speaker can
have in an ultimate purpose to deceive. The answer will be, to serve
one or other of those partial purposes, of which the common
business of life, whether we look into its private circles, or into the
forum or senate house, furnishes hourly examples. But may we not
describe all this as a conflict, in educated as to render convicUon
impoBsible by iuch arguments as we offer him. Suppose, however, it
be true, that our hearer mill not be convinced, thai is to say,
does not wish to be convinced, because his par- ty perhaps, or his
profession, or the career (be it what it may) into which he has entered,
does not agree witli what is sought to be established : let us in candour
consider in such a case what a vantage ground we oc- cupy, inasmuch as we
see our own interest, temporal or eterual, coupled with the proposition
in view ; and let us condescend, by the argumeittum ad homhiem, to
give him a similar advant^e, before we expect his conviction from the
argumentum ad judicium. which each is eager to show just so much
truth as suits the present purpose, and to veil the rest? And will not
the whole of truth be shown in this manner, as far at least as men
have discovered it, although not shown at once ? Of these skirmishers
that use the arms ufiensive and defensive of the art, each takes
credit for a certain degree of skill j but among them all, which is thg
Orator? Is it not he who soars above partial views and partial pur-
poses, who unites into one comprehensive whole what others advocate in
parts, who teaches men to postpone petty for greater ad- vantages,
and to seek the welfare of the indi- vidual in the happiness of the kind
? If, then, the palm of eloquence is permanently his alone, who
contends for it in this manner, our chain of argument will not want many
links before we reach the conclusion, that to undertake the art on
a valid principle, we must con- sider its purpose to be that of leading
men to truth. 16. A Rhetoric growing out of the Logic of
Aristotle *, which, as we have seen, is the art of reasoning mlh words,
and not merely by means of words, may indeed well be sus- pected as
a specious and delusive art. Aim- ing at plausibility alone, it gives the
power of talking largely without requiring the know- ledge which
grows up Irom experience in particulars ; and thus we have
statesmen, who, if we listen to them, are capable of setting the
world in order, but know not how to re- gulate their households ; we have
financiers ready to accept the control of a nation's •
Aristotle's own treatise on Rhetoric is a work completely to its purpose
; that is to say, fitted to make men prevailing speakers at the time in
wliich he wrote, by exhibiting comprehensively the bearings of the
ques- tions they would have to discuss, and the various kinds of
persons they would have to influence. It is indeed remarkable how little
Aristotle's other works are of a piece with his Logic ; nor is it without
some show of reason that Stewart supposes he was aware of its empty
pretensions, and was too wise to be deceived by it himself, though lie
chose to impose it on others. Sec Vol. II. of the Philosophy of the Human
Mind, Chap, III. Sect. 3. wealth, that have never learaed to
manage their own estates; we have lawyers, whom the simplest
questions of right and wrong would be sufficient to pei-ples * ; and
priests who, once a week, discourse " in good set terms "
to well dressed congregations, of vir- tue and of vice, of this world and
the next j but who would be incapable of oifering, from their own
stores, a single argument fitted to deter a plain thinking, ignorant man
from vice, or to stop the commission of a specific offence by
remonstrance adapted to the case. This specious eloquence, however, like
the Logic from which it springs, has almost lost its re- putation
and influence: we now require from speakers and writers more substantial
recom- mendations than the power of dwelling on vague generalities
; and in proportion as But perhaps, with regard to lawyers, we are
requiring knowledge, which, as matters stand, would be an incumbrance to
them. A special pleader may Bay, " what have I to do with simple
right and wrong ? My business is to see how the letter of the law can
be applied or evaded." Mfi genuine Logic enlarges the
empire of truth, will the necessity appear of seeking in an en-
lightened mind, and a heart kindled by active philanthropy, for the true
springs of eloquence. Thus will ambition be brought to side with virtue}
because there will be no way of winning distinction, but by
cultivating the powers of language in subservience to that
knowledge, which gives a man the de- sire and the faculty of beiug useful
to others, and governing himself. To conclude ; the theory which,
in this treatise, we have endeavoured to establiah is this, that we
come at all our knowledge by the use of media, which media are,
chiefly, words; and that, as the words procure the notions, the
notions exist not antecedently to language : —that when, by these means,
we have gained knowledge, and try, by similar means, to communicate
it to others, we do not, while the process is going on, represent
our own thoughts, but we set their minds a thinking iu a particular train
; that our own thought 13 represented by nothing short of the
completely formed word, whose parts, if any or all of them are separately
dwelt upon, are not parts of our thought, but signs of knowledge
which we and our hearers possess in common, and which, by bringing
their minds into a particular attitude, enables them to conceive
our thought, when the whde WORD that expresses it, is formed: that i§ before this word is formed,
there are parts by which something is Communicated not known
before, yet, being communicated, it is still but a part of the means
toward knowing something not yet communicated, and stiU, therefore,
the principle holds good, that we are adding part to part of the whole
word which is to express something not yet communicated ; which word,
even though it ex- tend to an oration, a treatise, a poem, &c.,
is as completely indivisible with respect to the meaning conveyed
by it as a whole, as is a word which consists only of a single
syllable, or a single sound. If this doctrine truly de- scribes the
nature of the connexion between thought and language, we claim for it
the merit of a discovery, because the common theory, that is, the
theory which men are presumed to act upon, and to which all pre-
ceptive works are adapted, not the theory which, unawares, they really
act upon, ex- hibits that
connexion in a very different light. And, as a discovery, we are the more
dis- posed to urge attention to it, because our soundest
metaphysicians have expressed them- selves as if there 'ooas something to
be dis- covered as regards the connexion we speak of, before a
system of Logic could be establisiied on a just foundation. Locke says
that when he first began his discourse on the Under- standing, and
a good while after, he thought that no consideration of language was at
all necessary to it. At the end of his second book, he discovers,
however, so close a con- nexion between words and knowledge, that
he is obliged to alter his first plan ; and having reached his concluding
chapter, he speaks as if he still felt that he had not yet
ascertained the full extent to which language is an instrument of
reason. Stewart, too, from whom,
in the conclusion of our first chapter, we quoted a passage which
entirely agrees, so far as it goes, with the views we have opened,
' has the following remark in his last work, the third volume of
the Philosophy of the Human ' Mind : " If a system of rational
Logic should ever be executed by a competent hand, this (viz.
language as an instrument of thought)
will form the most important chapter." Our doctrine is, that
this will not merely form the most important chapter, but that it
wtU be the only chapter strictly belonging to Jjo^ I ^c ; and yet
the theory we offer keeps deaf of the extreme which betrayed Tooke,
who appears to consider reason as the result of language. We pretend,
then, to have inade the discovery which Locke felt to be necessary,
and the nature of which Stewart more than i conjectured j but oura is
only " «?i Outline ; '* and the system of rational Logic which
the Scotch metaphysician speaks of, yet remains to be
"executed by a competent hand:"
we pretend but to have ascertained for it the true
foundation. — Something might be add- ed on the importance which the
subject de- rives from the aspect of the times : for the most
careless observer cannot but remark, how the rapid communication of
knowledge from mind to mind moulds and forms public opinion ; and
how the opinion of the many, ac- quiring, day by day, a character and a
weight that never distinguished it before, threatens to become the
law to which not only individuals, but governments, and eventually the
common- wealth of nations, must conform ; and hence we might be led
to urge that Philosophy cannot be employed more opportunely, than in a
new examination of the instrument by which so much has been, and so
much more is likely to he effected. The consideration is, how-
ever, too obvious not to have occurred to the reader, and we therefore
close our remarks. The assertione, that the words of a sentence, " as
parts of that sentence'''', and the sentences of a discourse, " na
parts of that discourse"", are not by themselves significant,
would perhaps sound a little less paradoxical, if, instead of each of the
phrases quo- ted, the reader were to substitute " as parts of
that completed expression ". At page 88, supply the
other parenthetical mark after " imderstanding" in line
4. At page 196, line 6, the question is asked, whether the
juryman must go to Aristotle, and be taught to compare the middle with
the extremes ? The reader will observe that the example is already farced
into a form, namely that of a syllogism in barbara, which a juryman
untaught by Aristotle would probably never think of giving it, the other
way of speaking being by far the more obvious, viz. To kill a man
maliciously is murder ; A. B. killed a man maliciously ; therefore
A. B. is guilty of murder. Here, instead of the Aria- totclian names
major and minor, we prefer calling the first proposition the datum, and
the second, with re- ference to the datum it is addressed to, the
argument ; and the truth of the argument having been proved by
testimony, we atfirm that the conclusion is as evident as a conclusion
can be, and that the Aristotelian formula is a needless and puerile
addition to a process already complete
a proof of what is proved : it is
a use of language for the purpose of reasoning which does not
identify with, but goes beyond, and childishly refines upon that use of
language in which the logic of mankind at large consiets. The
doctrine of the whole work may receive some light from the following way
of stating it : — Man, in common with other animals, derives immediately
from nature the power to express hie immediate, or, as they are
commonly called, his natural wants and feelings. But he also possesses
the power of inventing or learn- ing a language which nature does not
teach ; and it is solely by the exertion of this power, which we
call reason, that he raises himself above the level of other
animals. By media such as artificial language consists of, and only by
such media, he acquires the knowledge which distinguishes him from other
creatures ; and each advance being but the step to another, he is a
being indefinitely improveable. But if words are the means of knowledge,
it is an error to describe or con- sider them in any other light ; and we
accordingly deem them not as, strictly speaking, the signs of
thought, but as the means by which we think, and set others a thinking.
This principle being admitted, renders unnecessary Locke's doctrine of ideas ;
and Sematology stands opposed to, and takes the place of, what the French
call Idealogy, With respect to these addenda, should the
reader ask, whether they are to be esteemed a part of our WORD, we
answer in the affirmative. We imagined our woED complete. If, on further
consideration, we had supposed so, we should not have added another
SYLLABLE. {^uT^Qh a ffvMMiiSavuv.) G. WoedbUi Frlnlei, Angd Courl,
SkJnnsi Street, Londoo. Giuseppe Capocasale. Keywords: sematologia,
la sematologia di Vico, dialettica, assoc: ‘a tear’ may be a sign of sadness –
or love – (‘una furtiva lagrima – ‘m’ama’) but the kind of sign that an idea or
conception of the soul, or ‘rivelazione’ of the animus -- are related with are arbitrario
– ad placitum -- arbitrary, not necessarily a natural causal sign or nature.
The correlation between the segnans and the segnato may be ‘imitativa’ or iconic,
arbitrary, arbitraria, associative, associative, etc. A sign is not essentially
connected with the purpose of communication (smoke means fire, spots mean
measles, a tear means love). Grice is into ‘communication,’ not sign as such –
a theory of communication, not a semeiotic. Capocasale does not expand on the
intricacies of the cocodrile’s tears (fake tears – or Grice’s frown), because
he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on
‘lacrima’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Capocasale” – The Swimming-Pool Library
Luigi Speranza -- Grice e Capocci: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del significare e
santificare – il sacramento evangelico significa grazia e sanctifica grazia – scuola
di Viterbo – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Viterbo). Filosofo
lazio. Filosofo italiano. Viterbo, Lazio. Grice: “I like Capocci; he was a
Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely
they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the
Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da
Viterbo.”” Essential Italian
philosopher – Di
famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”.
Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce
i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa
de peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply
sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono
in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di
Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de
peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and
Biblioteca di Montecassino, both of which ascribe the work to James. Ypma does
not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae
Theologiae Professoris, Fratrum Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi
Neapolitani. AMBRASI, La Summa de peccatorum distinctione del b. Giacomo
da Viterbo dal ms. VII G 101... GUTIERREZ, De vita et scriptis Beati Iacobi de
Viterbo, “ Analecta Augstiniana ”, XVI,Lectura super IV libros Sententiarum
Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de
animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor
Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine
christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum
Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of
his contemporaries, James devotes serious attention to determining the status
of theology as a science and to specifying its object, or rather, as the
scholastics say, its subject. In Quodlibet III,
q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative
science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the
end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God.
The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which
Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For
philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship
is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there
can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without
love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of
the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most
beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making
him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy
as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is
a difference, James contends, in the way in which a science based on natural
reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so:
sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which
James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the
ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The
proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest
being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers
being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or
of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for
metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology considers
common being in relation to God” (Quodl.). Another way in which James
illustrates the difference between natural theology and sacred science is by
using St. Anselm's distinction between the love of desire (amor
concupiscientiae) and the love of friendship (amor amicitiae).
The love of desire is the love by which we desire an end; the love of
friendship is the love by which we wish someone well. The love of God
philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by
the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to
Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a
form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain
between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a
“community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it
is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords
is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture
is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century,
James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to
which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and
will” (Quodl.) and his absolute power, according to which he can do
whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems
concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James
considers several questions: can God add an infinite number of created species
to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make
matter exist without form (Quodl.)? Can he make an accident subsist
without a substrate (Quodl.)? Can he create the seminal reason of a
rational soul in matter (Quodl.)? In response to the first question,
James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of
Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an
infinite number of created species ad superius, in the ascending
order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot,
however, add even one additional species of reality ad inferius,
between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power
but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak,
no room for God to exercise his power (Côté). James is more hesitant about the
second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that
God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those
who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues
from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position
argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God
cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or
wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction,
they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the
second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends
human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human
comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist
without form is among those things exceeding human comprehension that God can
make come to pass.Another question James considers is whether God can make an
accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with
respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as
opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God
clearly cannot make relational accidents exist without a subject in which they
inhere, for this would entail a contradiction. This is so because relations for
James, as we will see below, are modes, not things. What about absolute
accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some
quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension
and color, a view for which he attempts to provide a philosophical
justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of
existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers,
place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of
independent existence; extension, however, is and so can be made to exist
without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat
surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas
extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture,
necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that
just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too
must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which
it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is
determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not
they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is
a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to
parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and
weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in
principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question
James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem
of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully,
claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the
issue (non determinando sed investigando). The upshot of the
investigation is that although there are many good reasons (the soul's
immortality, its spirituality and its per se existence) to
say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter,
in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility
must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de
facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter,
but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something
to come to existence through generation and confer immortality upon it (James
is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to
pass that souls are produced through generation without being subject to
corruption. Likewise, although it appears inconceivable that something material
could generate something endowed with per se existence, it
is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence
upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their
substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul,
although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God is
the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas
corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not
subject to change, the ideas must be eternally present in him, although
creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course
raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of
success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas
with God's unity: since there are many species of being, there must be a
corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any
multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the
ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one
denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as
exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to
them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential
solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that
divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is
capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his
essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct
from the essences of the things God creates (De veritate). One can
discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of
Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in
Sententiarum Aegidii Romani—assuming one accepts, as seems reasonable,
the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is
almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani). In his Quodlibeta,
however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the
following I will sketch James' position in the Quodlibeta as
it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with
the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can
be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God
knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the
essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God.
James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's
intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and,
secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means
of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as
necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5 64, 65–67), “if
God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than him
and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which must
needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing
cannot be understood.” But James also thinks that the necessity of
positing distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence.
God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge
must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James
is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a
thing's cause. That means that God knows things through his own essence.
However, he does so by knowing his essence as a cause, and
that is possible only by knowing “something (aliquid)
through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”.
Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's
essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note,
as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of
this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse
essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res),
is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only
determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5 63,
60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from
God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did
consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be
viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine
unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was
debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all
commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either
merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name
is predicated of wholly different things, without there being any objective
basis for the application of the common name; such is the case -of equivocal
names. Agreement is real in the following two cases: if it is based on
some essential resemblance between the many things to which
a particular concept applies, in which case the concept applies to these many
things by virtue of the self same ratio and is said of them
univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which
it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio),
but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related
in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this
way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which
it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia
attributionis). James believes that it is according to this sense of
analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident
(Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1 25, 674–80). For
being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures by
virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first of
substance and secondarily of accidents, on account of the relation of
posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a
prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason
why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is
that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de
divinis praedicamentis, q. 1 16, 412), whereas created being is only being
through something added to it. From this first difference follows a second,
namely, that created being is being by virtue of being related to an agent,
whereas uncreated being has no relation. These two differences can be
summarized by saying that divine being is being through itself (per se),
whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1 16, 425–6). In sum, being is said of God
and creature, but according to a different ratio: it is said of
God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in a
derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the distinction
between being and essence occurs in the context of a question that asks if
creation could be saved if being (esse) and essence were not different
(Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds it difficult
to see how one could account for creation if being and essence were not really
different, he does not believe it is necessary to conceive of the real
distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors does he
have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the views of
three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction is only
conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is
only intentionally different from essence, a distinction that is less than a
real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of
Rome, for whom esse is one thing (res), and essence
another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey,
that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees
with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The
starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that
the substantive lux (light), the infinitive lucere (to
emit light), and the present participle lucens (emitting
light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to
be), and ens (being). The relation of lucere to lux,
he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one.
To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes
essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more
things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies
more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies
the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the
actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel
1981). Esse and essence thus signify the same thing
principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although
this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case
of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate
to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of
essence: what properly exists is that which has essence, viz., the
supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The
kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms
signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution
closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without
committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles.
The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999).
Because identity or difference between things is determined to a greater degree
by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and
existence are primarily and absolutely the same (idem) and
conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is
conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones
de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of
edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a
proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to
examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis
praedicamentis, q. 11 12, 300–301). But before turning to Trinitarian
relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in
general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence
adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable
influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he
disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The
question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental
reality or solely through the operation of the intellect, like second
intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of
each position, as Simplicius had already shown in his commentary on
Aristotle's Categories—a work that would have a decisive
influence on James' thought. For instance, in support of the view that
relations are not real, one may point out that the intellect is able to
apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation
between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in
the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so,
then the same must be true of all relations, as the intellectual operation
involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which
relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change
taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance,
a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of
eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred:
“the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good
reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle
clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten categories
that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a view
commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot consist
solely of the perfection of the individual things of which it is made; it is
also determined by the relations those things have to each other; hence, those
relations must be real.The correct solution to the question of whether
relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given
relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on
arguments such as the first two above to infer that relations are entirely
devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those
who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are
distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each
other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must
lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their
subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real
is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to
which James adds some others of his own. However, showing that they are not
things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that
relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a
certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a
thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which
reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones
de divinis praedicamentis). The reasoning behind this last statement is as
follows: the more intrinsic some principle is to a thing, the more that thing
is said to be through it; what is maximally intrinsic to a thing is its
substance; a thing is therefore maximally said to be on account of its
substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation of
accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and thus
farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are not
things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that they
are modes of being of their foundations. “The mode of being
of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute
another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its
foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis). Speaking of
relations as modes allows us to acknowledge their reality, as attested by
experience, without hypostasizing them. A certain number's being equal to
another is clearly something distinct from the number itself. The number and
its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they are
not, however, two things; they are two in the sense that one is a
thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In making
relations modes of being of the foundation, James was
clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief
representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry
and James, relations are real in the sense that they are distinct from their
foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding
of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a
thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is
the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according
to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of
a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis
praedicamentis 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his
discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his
contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring
full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being,
James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the
existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two
places: Quodl. I, q. 21 and Quodl. II, q.
1. I will focus on the first treatment, because it is the lengthier of the two
and because the tenor of James' brief remarks on individuation in Quodl. II,
q. 1, despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994),
make it hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The
question James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly
theological one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at
resurrection, a man would be numerically the same as he was before. In order to
answer that question, James tells us, it is first necessary to determine what
the cause of numerical unity is in the case of composite beings. There have
been numerous answers to that question and James provides a short account of
each. Some philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical
unity; others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate
dimensions; finally, others have turned to form as the cause of individuation.
According to James, each of these answers is part of the correct explanation
though it is insufficient if taken on its own. The correct view, according to
him, is that form and matter taken together are the principal causes of
numerical identity in the composite, with quantity contributing something “in a
certain manner.” Form and matter, however, are principal causes in different
ways; more precisely, each accounts for a different kind of numerical unity.
For by ‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the
mere fact of something's being singular, or we can point to a thing qua
“something complete and perfect within a certain species” (Quodl. I,
21, 227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity,
and form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a
thing on account of its being a mere singular, results from the concurrence of
the “substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided
by quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the
perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is
the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks
he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as
Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are
constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators
as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at
all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to
be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can
to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with
what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and
his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11 23, 513; Quodl. II, q.
7 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II,
q. 5 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes be
taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off as
moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms
that can possibly accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's
thought, as is the belief that the soul pre-contains, in the shape of
“propensities” (idoneitates), all the sensitive, intellective, and
volitional forms it is able to take on. We will look at James' doctrine of
propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of propensities in the will in Section 6. In this section, we present James' arguments in favor of seminal
reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal reasons
is that the doctrine enjoys the support of Augustine. Although James is
sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including his
predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine,
especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge
and natural causation. However, what is particularly interesting about James is
the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle,
Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian
convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons
in Quodl. II, q. 5. The question he raises there
is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all
Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5 59, 16), but rather, how one
is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has two
characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an
active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5
is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that
forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of
Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation,
eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras'
“hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in
everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in
potency, according to James, entails that the potency of matter is
something distinct from matter itself. One argument in favor
of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it
remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas
matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he
does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the
contrary: potency is the potency of matter. However, potency
adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of
a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the
idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it
implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to
acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency
toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something
to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also
possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the
following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter toward
the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude to take
it on, so that four properties are included in the concept of potency, namely
matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the form
insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II,
q. 5 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way
in which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise
technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary
on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative
state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or
modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of
actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James
is aware of the several objections that may be leveled against his conception
of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge
that their existence makes generation, i.e., the production of new beings,
impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this
fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to
Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q.
14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject,
for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results
rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this
to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter:
the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of
potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to
attain its completion. Generation thus requires two things (besides God's
general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause
and the intrinsic agency of the formae inchoativum which
inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal
reasons would elicit considerable criticism in the early fourteenth century and
beyond (Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard
of Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e.,
attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who
argued against James' distinction between the potency of matter and potency.
But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian
Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must
also be understood in the context of his thoroughgoing Augustinianism and
against the backdrop of the late thirteenth-century arguments against Thomistic
abstraction theories. According to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the
agent intellect abstracts a thing's form or essential information from the
image or representation of that thing. The outcome of this process was what
Aquinas called the intelligible species, which was then taken to “move” the
possible intellect to conceptual understanding. However, as thinkers such as
Vital du Four and Richard of Middleton were to point out (see the articles by
Robert and Noone), the information coming in through the senses is related to a
thing's accidental properties, not to its substance. How, then, could
abstraction from the senses produce an intelligible species relating to the
thing's essence? Although James of Viterbo agreed by and large with the spirit
of this objection and believed that the replies by proponents of abstractionism
were unsuccessful, he had another reason for rejecting the theory. This was
because it implied a view of the intellect which he thought to be profoundly
mistaken, namely, the view that there is a real distinction between the agent
intellect (which abstracts the species) and the possible intellect (which
receives it). If it were truly the case, he reasoned, that one needed to posit
a distinct agent intellect because phantasms are only potentially intelligible,
then, by the same token, one would have to posit an “agent sense”, because
sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I, q. 12). But
given that no proponent of abstraction admits an agent sense, one should not
allow them an agent intellect. Furthermore, if there were an agent intellect
distinct from the possible intellect, it would be a natural power of the soul
and so would be required for the cognition of all intelligibles,
not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would
be required not only in the present life but also in the afterlife. But of
course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi,
is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only
when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by
denying the distinction between the two intellects, he was opposing the
consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter
to the De anima itself, though, as he would mischievously
point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so
obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12 169, 426—170, 439).
He replied that what he was denying was not the existence of a “difference” in
the soul, but merely that the existence of a difference implied a distinction
of powers (Quodl. I, q. 12 170, 440–45). The intellect, he held,
was both in act and in potency, active and passive, but one could account for
its having these contrary properties without resorting to the two intellect
model. This is because intellection is not a transient action (like hitting a
ball), requiring an active subject distinct from a passive recipient; rather,
it is an immanent action (like shining). James' solution, in other words, was
to conceive of the intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an
“incomplete actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its
completion, much in the way seminal reasons tend toward their completing
forms—indeed both discussions drew their inspiration from the same source:
Simplicius' commentary on Aristotle's analysis of the second species of
quality. The intellect was described as a general (innate) propensity made up
of a series of more specific (equally innate) propensities, the number of which
was a function of the number of different things the intellect is able to know:
“The intellective power is a general propensity with respect to all
intelligibles, that is, with respect to the actual conforming to all
intelligibles. On this general propensity are founded other specific ones,
which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII, q. 7 93,
453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the intellect is
its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection without some
input from the senses. However, the type of causality the senses were viewed as
exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory” (Quodl. I,
q. 12 175, 613–16), making the senses not the principal but rather an
instrumental cause of intellection. In all, three causes account for the
operation of the intellect, according to James: 1) God as efficient cause; 2)
the soul and its propensities as formal cause, and 3) the object presented by
the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just seen, James
rejected the distinction between the agent and possible intellects, there was
another, equally widely-held distinction in the area of psychology that he did
maintain, namely the distinction between the soul and its powers.For the
purposes of this article, it will suffice to think of the debate regarding the
relation of the soul to its powers as being motivated at least in part by the
need to provide a coherent understanding of the soul's structure and operations
in view of two inconsistent but equally authoritative accounts of the soul's
relation to its powers. One was that of Augustine, who had asserted that
memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in substance (De
trinitate X, 11), and so believed that the soul was identical with
its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a certain
distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis) as
belonging to the second species of quality, in Categories c.
8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the
soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers.
Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the
case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both
positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the
majority view was very much that there was a real distinction. It was the view
held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully,
namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a
commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction
and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the
soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James,
however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II,
q. 14 160, 70–71; Quodl. III, q. 5 83, 56—84, 63). His
reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real
distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul
and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a
real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be
committed to the existence of a real distinction between the power in act
(e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is,
the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is
really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something
in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed
from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's
commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal
reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from
them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully
actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really
distinct from the soul's essence. The question of the will's freedom was of
paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom
establishing that the will is free is tantamount to showing that its act falls
outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will is free,
for medieval thinkers, usually involved showing that its act is independent of
the apprehension and judgment of the intellect. Although the
scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay
between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two
faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of
Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17),
so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua
non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that
exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of
Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and
Godfrey (Quodl. q.), his preferences clearly lie with a position like
that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of the
question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl.
I, q. 7 is that the will is a self-mover and that the object grasped by the
intellect moves the will only metaphorically. His main challenge is to show is
that this position is compatible with the Aristotelian principle that whatever
is moved is moved by another. As we saw in the previous section, James believes
that the soul is made up of what he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates),
which are the similitudes of all things knowable and desirable, “before [the
soul] actually knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p.
92, 408). The pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither
a purely passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an
“incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete
actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul],
and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state,
sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92,
419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with
Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the
thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion:
efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing
that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion
occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved.
Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather
heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example
of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first
kind of motion, James asserts, not the second. Things which possess an
incomplete form naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend
to their completion and are prevented from reaching it only by the presence of
an external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move
downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis,
is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete
actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally
but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy
object is that whereas the object moves upon the removal of
an obstacle, the will requires the presence of an object; it
requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct
it to a particular object. However, once again, the intellect's action is
viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's
proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo
holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions
or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of
the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are
what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and
temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral,
partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17
James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound
Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it,
Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of
the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and
this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence,
prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral
virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is
connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl.
II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians
had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than
himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early
thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his
pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in
fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas
Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued
further that to deny man the natural capacity to love God more than himself,
while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the
operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to
the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy
it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II,
q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally
loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne
1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle
that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and,
hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of
numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain
conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being
Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the
same form. But the being something has by virtue of numerical identity is
“greater” than the being it has by reason of something it shares with another.
And given that the species of natural love follows the mode of being, it
follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl.
II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer
the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of
charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20). This is true both of
the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire,
grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we
love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying
good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only
elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object
loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James
is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates
nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God,
not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural
state man loves himself more than God. James' opposition to the consensus
position on the issue of the love of self vs. the love of God would not go
unnoticed. In the years following his death, such authors as Durand of
Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and attempted to
refute his position (Jeschke 2009). Although James touches briefly on political
issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté), his most extensive
discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On
Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting
Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De
regimine christiano is often compared in aim and content with Giles
of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical
Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical
supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De
regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy
that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De
regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized,
James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace
than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is
divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of
little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show
that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural
inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the
nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most
characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the
question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in
other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses
a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does
institute temporal power, but notes that there have been two views in this
regard. Some, e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as
John Quidort of Paris, hold that the temporal power derives directly from God
and thus in no way needs to be instituted by the spiritual, while others, such
as Giles of Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the
temporal derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy
whatsoever “unless it is united with spiritual power in the same person or
instituted by the spiritual power” (De regimine christiano: 211).
James is dissatisfied with both positions and, as he so often does, endeavors
to find a “middle way” between them. His solution is to say that the “being” of
the temporal power's institution comes both from God—by way of man's natural
inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the spiritual power
by which it is “perfected and formed.” This is a very clever solution. On the
one hand, by rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in
the imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of
temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus
“avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009:
xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely
the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and
inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions.
Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between
the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to
the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a
“middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's
relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he
explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has
such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by
which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move
the vision” (De regimine christiano). In other words, James is telling
us that although temporal power does originate in man's natural inclinations,
it is ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography
Modern Editions of James' Works Abbreviatio in I Sententiarum Ægidii Romani,
dist. 36. Edited by P. Giustiniani, Analecta Augustiniana, De regimine
christiano. A Critical Edition and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill.
Replaces Arquillière's edition (see below for complete reference), as well as
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Asprenas, Quaestiones de divinis praedicamentis, qq. I-X and XI-XVII. Edited by
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Asprenas, Ambrasi, La Summa de peccatorum distinctione del B. Giacomo da
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Augustinerschule des Mittelalters: Vertreter und Philosophisch-Theologische
Lehre,”Analecta Augustiniana, Giacomo da Viterbo. L’iconografia
dell’aureola tra Oriente e Occidente ARTE L’iconografia dell’aureola tra
Oriente e Occidente di Nozza. Nell’arte cristiana occidentale, ma anche in
quella orientale, l’elemento dell’aureola costituisce sicuramente uno degli
attributi iconografici più riconoscibili. La sua immagine identifica
subito la rappresentazione di un Santo, di Cristo stesso, ma anche della
Madonna. Può essere crocesegnata(ossia dotata di croce), per esempio nelle
rappresentazioni di Cristo, oppure semplice, come nei santi. Come elemento
figurativo, la sua origine è stata codificata iconograficamente fin dagli
albori della figuratività cristiana, ovvero nel IV secolo. Gli
esempi del Mausoleo di Sant’Elena a Roma e della Chiesa di San Vitale a Ravenna
Testimonianza preziosa e paradigmatica sono, ad esempio, i due mosaici delle
calotte absidali del Mausoleo di Santa Costanza a Roma. Si tratta di un cimelio
architettonico costruito attorno alla metà del IV secolo per la sepoltura della
figlia di Costantino. Nei due mosaici, parzialmente restaurati e tra i pochi ad
essersi conservati delle volte, si trovano due rappresentazioni di Cristo. La
prima lo vede seduto sul Globo, mentre consegna le chiavi del Regno dei Cieli a
Pietro (traditio clavium). La seconda, invece, lo identifica giovane e
apollineo mentre si erge sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi dell’Eden,
consegnando a Paolo la parola/legge della Nuova Alleanza (traditio legis). In
entrambe le rappresentazioni musive, che costituiscono alcuni dei primi esempi
di iconografia cristiana a Roma, il volto di Cristo è circonfuso da un’aureola
blu-azzurra. Quest’ultima conferisce e immediatamente attribuisce alla figura
un alone di divinità, disancorandolo dalla contingenza terrena e proiettandolo
nella dimensione del trascendente. Traditio clavium (a dx) e traditio
legis (a sx) in due calotte del deambulatorio del Mausoleo di Santa Costanza a
Roma (IV secolo) L’aureola è anche regale Talvolta, poi, sono i
sovrani-imperatori stessi ad auto-rappresentarsi col capo circonfuso da
aureola, come negli straordinari mosaici che arricchiscono il presbiterio della
chiesa di San Vitale a Ravenna.Quest’ultimo, databile al secondo quarto del VI
secolo, raffigura, tra gli altri, anche i ritratti degli imperatori Giustiniano
e della moglie Teodora,entrambi corredati da aureola dorata.
L’imperatrice Teodora (a sx), moglie dell’imperatore Giustiniano (a dx), in due
mosaici del presbiterio della Chiesa di San Vitale a Ravenna (VI secolo)
Entrambi gli esempi, sebbene distanziati da ben due secoli, testimoniano alle
origini del Cristianesimo ufficiale (ossia istituzionalizzato in una ecclesiae)
un’iconografia dell’aureola già compiutamente codificata diffusa. I
primi esempi figurativi di aureole Sebbene, come detto, l’aureola costituisca
un inconfondibile attributo iconografico cristiano, non è però nel
Cristianesimo (che del resto si istituzionalizza nei primi secoli d.C.) che
affondano le radici della sua nascita. Queste infatti, come del resto molti
altri aspetti della liturgia e religione cristiana, devono essere rintracciate
ben prima della nascita del Cristianesimo stesso. Tale scelta
figurativa risale a diversi secoli, se non millenni prima di Cristo.
Consiste nel rappresentare divinità (qualora queste potessero essere
rappresentate) inscritte, totalmente o parzialmente, in aloni di luce
funzionali a proiettare le figure in dimensioni ultraterrene ed evocarne la
natura divina. Per esempio, nella pittura parietale egizia, il dio Ra è
quasi sempre rappresentato con un disco solare situato sopra il suo capo e
inglobato da un cobra. In questo caso dunque, nelle rappresentazioni di Ra, il
disco solare ha soprattutto la funzione di rappresentare l’attributo del
sole, di cui Ra, secondo la cosmologia egizia, era il dio referente.Rappresentazione
di Ra e Imentet (a sx.) sulle pareti della tomba di Nefertari nella Valle delle
Regine a Luxor (Egitto) Quando l’aureola era ancora una corona raggiante
Tuttavia, per poter conoscere i primi veri esempi di aureole, occorre risalire
alle prime rappresentazioni della divinità di Mitra. Questa è nata in origine
dallo Zoroastrismo (dal profeta Zarathustra, o Zoroastro) e successivamente,
soprattutto presso l’Impero Romano, si è costituita come divinità indipendente
e inscritta in uno specifico culto (quasi monoteista), detto appunto
Mitraismo. Nella fase imperiale soprattutto, il Mitraismodivenne la
religione dominante dell’ecumene (sebbene non la sola) e poi concorrente al
Cristianesimo delle origini. Quello che interessa rilevare però è che, in quanto
dio solare e dunque simbolo di vita, anche nelle rappresentazioni di Mitra, la
divinità venne ben presto corredata con attributi iconografici quali, per
esempio, una “corona” raggiante. Rappresentazione di Mitra come Sol
Invictus su un disco argenteo romano Un simbolo trasversale della divinità tra
Occidente e Oriente Possono forse essere questi i primi significativi
antecedenti dell’iconografia dell’aureola? Ben presto questa divenne un vero e
proprio simbolo trasversale adottato in molte altre religioni di origine
orientale. Forse la sua adozione è legata all’efficacia visiva con cui riesce a
restituire allo sguardo un immediato riferimento alla dimensione trascendente
e/o spirituale. Dapprima adottato nel Cristianesimo, questo riferimento venne
poi, attraverso scambi culturali, trasmesso anche ad altre religioni orientali,
tra le quali il Buddismo. Sotto questo profilo appare infatti singolare
che proprio negli stessi secoli in cui l’iconografia cristiana si codifica (tra
il IV e il VI secolo), l’adozione dell’aureola come attributo iconografico si
manifesta anche in diverse rappresentazioni buddiste in area cinese. Come si
spiega questo utilizzo pressoché contemporaneo dell’aureola come attributo
figurativo del divino, in due religioni così distanti e appartenenti a mondi
diversi? La chiave di volta è costituita ancora dal Mitraismo.
Reliquiario di Bimaran, I sec. d.C. circa Il Mitraismo è la chiave di
lettura Per comprendere infatti la trasmissione di tali scelte figurative tra la
cultura latina e quella asiatica, occorre risalire al primo secolo d.C. Per
precisione quando gli Indo-sciti (popolazioni nomadi originarie dell’attuale
Iran, dove lo zoroastrismo e con lui il Dio Mitra ebbero origine) e alcune
popolazioni dell’Impero Kusana (originario dell’attuale Afghanistan), invasero
e conquistarono alcuni territori degli attuali Pakistan e India. Portarono
dunque con sé e trasferirono alle popolazioni conquistate alcuni tratti
della loro cultura e della loro religione, tra cui anche il Mitraismo con i
rispettivi attributi iconografico-rappresentativi. Nella latinità
mediterranea, dunque, l’iconografia di Mitra avrebbe influenzato parzialmente
quella cristiana. Parallelamente, attraverso un processo di osmosi culturale,
la medesima iconografia veniva trasmessa anche alle culture e alle religioni
orientali (Pakistan, India meridionale e, attraverso questa, la Cina), tra le
quali anche il Buddismo. Questo processo pare avvenne precocemente, come
testimonia il celebre reliquiario di Bimaran (città al confine con il
Pakistan), databile al primo secolo d.C. Dipinto cinese
raffigurante Buddha (al centro) Ci sono poi altre importanti manifestazioni
figurative del Buddismo, quali ad esempio alcune statue di Buddha risalenti al
II sec. d.C. e oggi conservate al Tokyo National Museum. Oppure ancora diverse
pitture cinesi raffiguranti Buddha sempre con il capo circonfuso da
aureola. Insomma, dalla pur brevissima disamina effettuata, ci si rende
conto di quanto la cultura occidentale e quella orientale, dopo tutto, non
siano poi così distanti. In questo senso, le testimonianze figurative nate
dalle rispettive pratiche cultuali e religiose ne costituiscono un memorandum
preziosissimo. Capocci. Keywords: peccatum – sin – holiness – aureola
segno naturale della santita. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library. Capocci.
Luigi Speranza -- Grice e Capodilista:
la ragione conversazionale e ll’implicatura conversazionale -- n principio era
la conversazione – filosofia fascista – filosofia padovana – filosofia veneta
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Battaglia Terme). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo
italiano. Battaglia Terme, Padova, Veneto. Grice: “I like Capodilista – good
vintage (literally)! – Capodilista is difficult to comprehend, but when I was
struggling to find examples of implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’
he was whom I was thinking! Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos
eroticus’ – filosofia dell’espressione – metafisica – equilibrio
apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“ “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un
pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da
esso.» (Quaderni). Appartenente ad una
famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo
Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni
sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger. Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo
da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione
dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva
così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza
nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito
intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza
di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità.
Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio
nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il
ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto
fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del
rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto
all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita,
universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di
contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la
popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una
diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due
resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il
problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede
autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la
convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere)
alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno
dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa
partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due
maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo
quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la
autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la
libertà di coscienza. I etruschi sono
nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa
azione originaria. Perché in ogni fede
vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso
nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è
l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua
negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di
distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti
sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla
se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono
orgogliose delle due nudità che socializzanoa. È quindi con la libertà
degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di
uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola
di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza
duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta
espressione del "singolare duale".
Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo
musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia
e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico”
(Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci,
Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le
parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le
monete, come, appunto, i valori. Quando
pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può
“usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se
comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una
verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima
irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che
altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione.
Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di
sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra. È lecito
ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità
di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei
romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi
scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi
estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come
l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio
se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più
mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire
in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna)
del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che
abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella
sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli
intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della
sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità,
conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio
unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se
stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A
noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci
dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.
Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono
la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si
risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La
memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica. La forma
letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola).
Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di
creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come
destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale
e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive
per sé. L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà
assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta,
diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per
definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si
può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la
negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa
stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del
soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la
rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè
l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità
dell’atto. L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è
esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta.
L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? Tutto
ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro
pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. L’arte dello scrivere è
l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e
sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando
si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione.
Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una
negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le
parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la
frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della
parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità,
negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente
congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. Forse
il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono
pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di
vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro
essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto
per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di
realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere,
analizzare. Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di
formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche
verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione
dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono
relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa
ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale.
Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una
forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare
privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la
coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al
discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore
obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? La
nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò
che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di
originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La
parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e
perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che
vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età
dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid
al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una
metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi
alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. Noi siamo la
verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo
quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria
creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un
Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo
espulsi ed esiliati. L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità
nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai
saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e
fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore
con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. Soltanto l’inesprimibile è
degno di un’espressione. La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista
in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è
soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la
Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati
simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è
identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore
della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la
massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non
possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa
irrazionalità; il numero può vivere? Noi parliamo, noi scriviamo, senza
ricordarci la suprema scadenza del silenzio. L’espressione più perfetta è
quella che crea l’inesprimibile. L’aforisma e l’ironia sono una professione di
scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi,
la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la
scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte. Come
esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe
essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in
genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello
verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica,
istintiva e simpatica affinità e parentela. La quantità di parole inutili che
uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale
all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi,
parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui
si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Il
caso della vendita della Palladiana Villa Emo a un magnate straniero. SEMBRA
CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO DURANTE IL QUALE LA BANCA DI CREDITO TREVIGIANO HA
CONCRETIZZATO L’INTENZIONE (SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE AMMESSA) DI ALIENARE
IL BENE. La vendita della Palladiana Villa Emo a Fanzolo di Vedelago è
stata ufficializzata. Il consiglio di
amministrazione di Banca di Credito Trevigiano, che ne detiene la proprietà (da
quando per 15 milioni di euro la acquistò dall’ultimo erede, il conte Leonardo
Marco Emo Capodilista) ha messo ai voti il suo destino e ha deciso: accetterà
l’offerta di uno sconosciuto magante straniero. IL PERCORSO Sembra
chiudersi così un lungo minuetto durante il quale l’istituto di credito ha
concretizzato l’intenzione (sino ad ora mai ufficialmente ammessa) di alienare
il bene. Il 9 gennaio la prima avvisaglia attraverso un comunicato stampa che
parlava di un’offerta d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un privato
appassionato del Palladio, e desideroso di riportare la Villa (Patrimonio
Unesco dal 1996) al suo originario splendore”. Ora la conferma di cedere “il
solo edificio storico e non gli adiacenti cespiti occupati dalla banca.
L’immobile oggetto della trattativa -specifica l’ultima comunicazione- non
rappresenta un asset strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di
amministrazione (…) ha deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche
alla due diligence di tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della
transazione entro l’anno 2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto
dal D.lgs. a favore del Ministero dei Beni culturali e delle altre competenti
autorità”. Nota, quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’ come una
beffa: se lo stesso ente di credito ad oggi dimostra di non poter investire nel
mantenimento del bene (ordinario e straordinario inclusi i restauri di cui gli
affreschi dello Zelotti avrebbero urgenza), ancor più lontana appare l’ipotesi
che possa farsene carico un ente pubblico. LA STORIA La storia recente
del resto lo conferma: dopo il commissariamento (seppur temporaneo) da parte di
Bankitalia, la fondazione appositamente creata per la gestione della villa ha
dovuto dire addio ai 325 mila euro annui che Credito Trevigiano versava.
Insufficienti i proventi derivanti da bigliettazione e affitto degli spazi.
Così i bilanci in perdita, primi licenziamenti per il personale della
fondazione, le dimissioni, nell’ottobre scorso del presidente Armando Cremasco.
Poi, reciproche accuse tra parti, la preoccupazione del sindaco, la petizione
“No alla vendita di Villa Emo a Fanzolo di Vedelago” su change.org che
raggiunge in pochi giorni quota 975 firme. Tentativo inutile ma che tocca,
negli intenti, un nodo fondamentale della vicenda: i firmatari sono soci,
clienti della banca e semplici cittadini che riconoscono in Villa Emo il bene
più rappresentativo della loro comunità. Un bene acquisito da una banca
strettamente legata al territorio e che su di esso ha come stesso suo mandato
quello di reinvestire. Una banca della comunità in cui però la comunità, a
seguito di questo atto, non si riconosce più. IL CASO DI VILLA EMO Il
caso di Villa C., generalizzando, appare uno fra molti nell’inarrestabile
processo di alienazione del nostro patrimonio storico. Perché agitarsi tanto
se, solo per citare i casi territorialmente più prossimi, la magnate cinese Ada
Koon Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a Piombino Dese (Padova)
e il veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande? Perché forse, per fare
un po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe d’un corretto approccio,
di una corretta lettura, esercitando invece proprio il diritto a una non
generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel nostro paese
sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione, gestione
strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare sistema”. Anche
il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla cronaca locale) si
presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni filologiche in
rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora accessibile?) agli
immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia spesso apparentemente
inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener desta per un po’
l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra solamente una sola, nuda
verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a proporre a parole
soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo stati capaci
di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto qualcosa che
appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il nuovo
proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo risolvere
il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per
nulla”. Rodenigo Villa
Emo is one of the many creations conceived by Italian Renaissance architect
Andrea Palladio. It is a patrician villa located in the Veneto region of
northern Italy, near the village of Fanzolo di Vedelago, in the Province of
Treviso. The patron of this villa was Leonardo Emo and remained in the hands
of the Emo family until it was sold in 2004. Since 1996, it has been conserved
as part of the World Heritage Site »City of Vicenza and the Palladian Villas
of the Veneto«. History Andrea Palladio's architectural fame is considered
to have come from the many villas he designed. The building of Villa Emo was
the culmination of a long-lasting project of the patrician Emo family of
the Republic of Venice to develop its estates at Fanzolo. In 1509, which
saw the defeat of Venice in the War of the League of Cambrai, the estate on
which the villa was to be built was bought from the Barbarigo family.
Leonardo di Giovannia Emo was a well-known Venetian aristocrat. He was
born in 1538 and inherited the Fanzolo estate. This property was dedicated
to the agricultural activities that the family prospered from. The Emo
family's central interest was at first in the cultivation of their newly
acquired land. Not until two generations had passed did Leonardo Emo commission
Palladio to build a new villa in Fanzolo. Historians unfortunately
do not have firm chronology of dates on the design, construction, or the
commencement of the new building: the years 1555 or 1558 is estimated to
have been when the building was designed, while the construction was
thought to have been undertaken between 1558 and 1561. There is no evidence
showing that the villa was built by 1549: however, it has been documented
to have been built by 1561. The 1560s saw the interior decoration added
and the consecration of the chapel in the west barchesse in 1567. The date
of completion is put at 1565; a document which attests to the marriage of
Leonardo di Alvise with Cornelia Grimani has lasted from that year. Partial
alterations were made to the Villa C. by Francesco Muttoni. Arches within
both wings that were close to the central build were sealed off and additional
residential areas were created. The ceilings were altered. The villa and
its surrounding estate were purchased in 2004 by an institution and further
restorations were made. Since 1996, it has been conserved as part of
the World Heritage Site »City of Vicenza and the Palladian Villas of the
Veneto«. The villa is at the centre of an extensive area that bears centuriation,
or land divisions, and extends northward. The landscape of Fanzolo has a
continuous history since Roman times and it has been suggested that the
layout of the villa reflects the straight lines of the Roman roads.[2]
Architecture Marcok The main building (casa dominicale). Villa Emo was a product
of Palladio's later period of architecture. It is one of the most accomplished
of the Palladian Villas, showing the benefit of 20 years of Palladio's experience
in domestic architecture. It has been praised for the simple mathematical
relationships expressed in its proportions, both in the elevation and
the dimensions of the rooms. Palladio used mathematics to create the
ideal villa. These «harmonic proportions» were a formulation of Palladio's
design theory. He thought that the beauty of architecture was not in the
use of orders and ornamentation, but in architecture devoid of ornamentation,
which could still be a delight to the eye if aesthetically pleasing portions
were incorporated. In 1570, Palladio published a plan of the villa in his
treatise I quattro libri dell'architettura. Unlike some of the other plans
he included in this work, the one of Villa Emo corresponds nearly exactly
to what was built. His classical architecture has stood the test of time
and designers still look to Palladio for inspiration. Renato Vecchiato
[CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of the villa and its estate
is strategically placed along the pre-existing Roman grid plan. There is a
long rectangular axis that runs across the estate in a north-south direction.
The agricultural crop fields and tree groves were laid out and arranged along
the long axis, as was the villa itself. The outer appearance of the
Villa Emo is marked by a simple treatment of the entire body of the building,
whose structure is determined by a geometrical rhythm. The construction
consists of brick-work with a plaster finish, visible wooden beams seen in
the spaces of the piano nobile, and coffered ceilings like that within the
loggia. The central structure is an almost square residential area.[4]
The living quarters are raised above ground-level, as are all of Palladio's
other villas. Instead of the usual staircase going up to the main front
door, the building has a ramp with a gentle slope that is as wide as the
pronaos. This reveals the agricultural tradition of this complex. The ramp,
an innovation in the Palladian villas, was necessary for transportation
to the granaries by wheelbarrows loaded with food products and other goods.
The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a column portico
crowned by a gable – a temple front which Palladio applied to secular
buildings. As in the case with the Villa Badoer, the loggia does not stand
out from the core of the building as an entrance hall, but is retracted into
it. The emphasis of simplicity extends to the column order of the loggia,
for which Palladio chose the extremely plain Tuscan order. Plain windows embellish
the piano nobile as well as the attic. The central building of the
villa is framed by two symmetrical long, lower colonnaded wings, or
barchesses, which originally housed agricultural facilities, like granaries,
cellars, and other service areas. This was a working villa like Villa Badoer
and a number of the other designs by Palladio. Both wings end with tall
dovecotes which are structures that house nesting holes for domesticated
pigeons. An arcade on the wings face the garden, consisting of columns
that have rectangular blocks for the bases and capitols. The west barchesse
also contains a chapel. The barchesses merge with the central residence,
forming one architectural unit. This typological format of a
villa-farm was invented by Palladio and can be found at Villa Barbaro and
Villa Baroer. Andrea Palladio emphasises the usefulness of the
lay-out in his treatise. He points out that the grain stores and work areas
could be reached under cover, which was particularly important. Also, it
was necessary for the Villa Emo's size to correspond to the returns obtained
by good management. These returns must in fact have been considerable,
for the side-wings of the building are unusually long, a visible symbol
of prosperity. The Emo family introduced the cultivation of maize on
their estate (and the plant, still new in Europe, is depicted in one of
Zelotti's frescoes). In contrast to the traditional cultivation of millet,
considerably higher returns could be obtained from the maize.[5] It is not
clear if the long walk, made of large square paving-stones, which leads to the
front of the house, served a practical purpose. It seems to be a
fifteenth-century threshing floor.[6] However, Palladio advised that
threshing should not be carried out near a house. Hans A. Rosbach. Frescoes
by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall Frescoes Hans A. Rosbach
[CC BY-SA 3.0] Hall West The exterior is simple, bare of any decoration.
In contrast, the interior is richly decorated with frescoes by the
Veronese painter Giovanni Battista Zelotti, who also worked on Villa Foscari
and other Palladian villas. The main series of frescoes in the villa is
grouped in an area with scenes featuring Venus, the goddess of love. Zelotti
appears to have completed the work on the frescoes by 1566. In the loggia,
the frescoes have representations of Callisto, Jupiter, Jupiter in the
Guise of Diana, and Calisto transformed into a Bear by June. The Great Room
is filled with frescoes that were placed between Corinthian columns that rise
from high pedestals. The events in the frescoes concentrate on humanistic
ideals and Roman history alluding to marital virtues. Exemplary scenes
include Virtue portrayed in a scene from the life of Scipio Africanus. On
the left wall is the scene of Sciopio returns the girl betrothed to Allucius
and the right wall a scene showing The Killing of Virginia. The sides
of these frescoes have false niches that consist of monochrome figures:
Jupiter holding a torch, Juno and the Peacock, Neptune with the Dolphin,
and Cybele with the Lioness. These figures allude to the four natural elements
(fire, air, water, earth). Side panels contain enormous prisoners emerging
from the false architectural framework. On the south wall of the great hall
toward the vestibule is a false broken pediment that appears above a real
entrance arch. A fresco of two female figures, Prudence with the Mirror
and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at the center of
the upper part of the building contains the crest of the Emo Family. It is
carved and gilt wood, surrounded by trompe-l'œil cornices and festoons. To
the left of the central chamber is the Hall of Hercules. It contains episodes
referring mainly to the mythological hero. The intent was to emphasize
the victory of virtue and reason over vice. The frescoes are inserted in a
framework of false ionic columns. The east wall contains scenes of Hercules
embracing Dejanira, Hercules throwing Lica into the sea, and The Fame of
Hercules at the center. The west wall is Hercules at the Stake, placed
within false arches. On the south wall is a panel above the doorway that depicts
a Noli me Tangere («Touch Me Not») scene. To the right of the central
chamber is the Hall of Venus. This hall contains episodes that refer to the
Goddess of Love. On the west wall within false arches are the scenes of Venus
deters Adonis from Hunting and Venus aids the Wounded Adonis. The east wall
fresco shows Venus wounded by Love. On the south wall is a panel above the doorway
that shows Penitent St. Jerome. The Abstinence of Scipio appears frequently
in cycles of frescoes for Venetian villas. For example, the Villa la
Porto Colleoni in Thiene and Villa Cordellina in Montecchio Maggiore, built
years later, also use this image, fostering ideals which, had in the 15th and
16th centuries, resulted from the renewed discussion of the depravity of
town life, in contrast to the tranquility, abundance, and freedom of artistic
thought associated with rural existence. Hence, another room in the villa
is called the Room of the Arts, featuring frescoes with allegories of individual
arts, such as astronomy, poetry or music.[7]Within the many frescoes are depictions
of different flowers and fruit, including corn, only recently introduced
into the Po Valley. Many of the frescoes are presented within false architecture,
like columns, arches and architectural framework. Media Markhole [CC
BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org [CC
BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was featured
in Guide to Historic Homes: In Search of Palladio, Bob Vila's three-part
six-hour production for A&E Network. The movie Ripley's Game used
the Villa Emo as a location. The City of Vicenza and The Palladian Villas in
the Veneto: A Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco Office of the
Municipality of Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and Activities, Wundram,
Wundram, Beltramini, Palladio. Italy. .
^ Wundram. Palladio Centre, at the Wayback Machine (in English and
Italian)Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio,
accessed September ^ Wundram ^ BobVila.com. »Bob Vila's Guide to Historic
Homes: In Search of Palladio, Ripley's Game News« ArchivedJune 9, 2008, at the
Wayback Machine Sources The City of Vicena and The Palladian Villas in the
Veneto: A Guide to the Unesco Site. Italy: The Unesco Office of the
Municipality of the City of Vicenza, Wassell, Palladio, Nexus Network Journal, Beltramini,
Guido, Palladio. Italy; Boucher. Andrea
Palladio: The Architect in his Time (revised ed.). New York: Abbeville Press.
Rybczynski, Witold; The Perfect House: A Journey with Renaissance Master Andrea
Palladio. New York: Scribner. Wundram, Andrea Palladio, Architect between the
Renaissance and Baroque, Cologne, Taschen. Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista.
Keywords: in principio era la conversazione, filosofia fascista, I taccuini del
barone Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool Library. Capodilista.
Luigi Speranza -- Grice e Capograssi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’eroi di Vico – scuola
di Sulmona – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Sulmona). Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Sulmona, L’Aquila, Abruzzo. Grice:
“I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him
a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to
the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as
we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious
philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the
greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian
than Vico?!” Si
occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da
un'antica famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia
di Salerno, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia",
in cui già affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra
individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua
filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli. Prende parte ai
lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. La sua
filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla
centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione
stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe
quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua
speculazione la "persona". Il suo pensiero si ricollega al
personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale
che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente
alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per
pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio. Fede e scienza;
Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza
comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del
diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè). “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su
foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i
momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il
personalismo. Il positivismo giurdico in
Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo. I sentieri dell'uomo comune. Dizionario
biografico degli italiani. Kelsen
avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale
come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale,
non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa C.. Ed
è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale che Bobbio può
osservare: Il C. sostiene che tutta la costruzione kelseniana è così solida
solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi presupposti non sono
soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si fondano su una vera
e propria concezione della realtà. E che questa concezione è che il diritto è
forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la
posizione di C. si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista
trimestrale di diritto pubblico», poi in Opere, Giuffrè, Milano). Le
argomentazioni di C., secondo Bobbio, rinviano a una concezione
giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e il
criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen si limita a
dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia giusto o
ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace (il
cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla
concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è
comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione che
il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla forza),
sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione
kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema
del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico,
con la 50 BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile», poi ristampato in ID., Studi sulla
teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino; Il saggio è ora in ID.,
Diritto e potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli. Utilizzo quest’ultima
edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen,
«Sociologia del diritto»,, ora in ID., Diritto e potere, BOBBIO, La teoria pura
del diritto ecc.. Per la posizione di C. si veda: Impressioni su Kelsen
tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», poi in ID., Opere, vol.
V, Giuffrè, Milano, BOBBIO, La teoria pura del diritto, BISIGNANI conseguenza
che la stessa funzione costituente della Norma Fondamentale non viene
esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta,
però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia (come idea di una
fondazione del diritto su valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il
pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della
Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una
“rinascita del giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si
lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello
Stato-Forza che C. rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. C. E IL
NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le
“Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico
kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens”
di C.. C. scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo la traduzione
della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e Treves, edita dalle
Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa C.ana e la
sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa, andante come sempre, ma
particolarmente severa, austera, critica, propositiva, concettualizzante, come
dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella “pars costruens” del
saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato
e del diritto si pone fuori i reali problemi della scienza giuridica ed una
prima immediata impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione
singolare di riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo
pensiero. Come si capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in
un mondo, che ci è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere
di illusioni. Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i
problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel
pensiero e nella realtà. Ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie
di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati.
Se uno potesse accettare. Con tanto più impegno di attenzione il lettore è
indotto a leggere. Il diritto come
concepito e teorizzato da Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento
giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero C.ano testè citato. E’ un
diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di
dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e
spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale,
fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano.
Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza
vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme
giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in
base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il
potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono
soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come,
in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali
forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare
l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è
un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci,
collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il
fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa
costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione
della legge. C. nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento
relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più
decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la
giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della
giurisprudenza. C. osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso
sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il
fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del
diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico
riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono
condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera
della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma
scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita
propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed
eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove
con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la
giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza
sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo
può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente
formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere,
perché questo dovere non ha nulla del
dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando
la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale
è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a
differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà
giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti
di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie
della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema
gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto,
da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata
con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data
autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e
non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto
naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo
contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale
come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa
in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta
separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da
qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la
norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano
proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il
contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale». L’identificazione
perfetta tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e
“l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del
diritto «come forza», come «diritto naturale della forza». E’sistema di «norme
sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al
perpetuo oscillare della forza», ma la cui validità è “emanazione” di una
“norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’evento di forza
che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote
delle norme».Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il diritto
naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa C.ana sul
punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e
forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza». La
“pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora
corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la
visione di quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano
demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla
tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna»,
«ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium”
per città viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore
pari a questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro».
Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza»,
«dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». La “pars costruens” C.ana ed
il richiamo al pensiero del VICO ed alla concezione del “diritto come
esperienza” La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti
considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero
del Vico, sempre presente nella riflessione del C., la storia e lo storicismo,
la nozione di esperienza. C. indica come prioritaria la necessità «di non
mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola
tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma o alla cosiddetta forza»,
alla «nuda forza» e alla «vuota forma»; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè
l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura, cioè
vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto come vita e
come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui si afferma,
per cui si concreta in forme concrete nella realtà». Al riguardo si accennano
idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del
Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità della
conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza umana
di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è
osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita,
degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui
chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera». Ne “Il
problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con
tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente
e lentamente, perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa,
scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso
tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma». E l’idea
viva del diritto si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e
parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua
effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa
nelle sue molteplici e puntuali determinazioni». C., inoltre, soffermandosi
ulteriormente sull’opera di Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana
che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»; richiama il monito,
proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»E rileva che «se uno si
mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore,
necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge». In tal modo
l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto
teorico di Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la
“norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il
“soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla
norma». La “pars costruens” C.ana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità
in perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto,
«l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’
“oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del
diritto e dello Stato di Kelsen. E l’illustre autore, perciò, individua la
«positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita»,
«coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle
«determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto», ricordando
un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali
del diritto” del civilista Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di C. e su
alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla
luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del
“nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica C.ana al
formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto
contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande
pensatore abruzzese, si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per
riprendere il linguaggio dello stesso C., «una situazione che non vorremmo»,
«un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di
una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che
preferiremmo». Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti
dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a
parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di
Barcellona, il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso
autore, “Il salvagente della forma”) di Irti ed “Il diritto e il suo limite” di
Rodotà. Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie
sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” (più
precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la
ricostruzione di una recente monografia di Barcellona, “Critica del nichilismo
giuridico”, che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo”
nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come
lo stesso Rodotà si propone con lucidità, risposte alternative al nichilismo.
Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi significati,
secondo il filosofo Severino ed il giurista Irti, significa, in un senso
specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e
«riportarle al niente». Franco Volpi scrive che esso è la situazione di
disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti
tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al
“perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo». Nietzsche ne parla come
«il più inquietante tra tutti gli ospiti». Sul punto penso al “Dialogo su
diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori
surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite
razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme»,
«la validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la
norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento» ed il
Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore
di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà», «la “capacità”
della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio
aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente
bisogni». L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore
di valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile,
sul viale tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di
crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra
“liberalismo” e “liberismo” che Croce già tracciava negli anni trenta. Lo
stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma
soltanto variazioni di quantità». Il “diritto globale”, come nota un altro
grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non
su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che
viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale», i
cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati
nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso
insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del
diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca
ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo
Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile. Non solo:
i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in
evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Severino, secondo lo
stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che
«attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo
chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla
posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi
può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è
indifferenza verso tutti i contenuti…». Per cui, l’attuale crisi del diritto,
«nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che
“sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed
inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma
qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos
ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento», è il trionfo del
vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di
norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà
normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di
diversa formazione culturale, il filosofo marxista Volpe, che in un saggio dal
titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica
dell’ideologia contemporanea”, individuava i limiti propri della dottrina del
diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad
una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea
borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto
importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha
giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile
a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti. Per
tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della
scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di
un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”, “senza società”, come scrive Pietro
Barcellona realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni
della teoria sistemica di Luhmann. Rodotà nella sua opera summenzionata scrive
che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata
l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe
ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto,
condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia
destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente
prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie
crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse
un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha
chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale. Per
cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile
individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza
del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle
società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali
degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i
diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di
un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una
guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le
scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla
prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area
dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma
strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque in grado di offrire una
guida pur per le scelte tecnologiche») Insomma: qual è oggi lo scopo del
diritto? Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di C. è
attuale e può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una
chiave di lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici
vigenti e degli attuali “usi sociali del diritto”? La critica C.ana al formalismo costituisce un
richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative
teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole
del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare
la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda
vita delle sue determinazioni positive»; anche perché il diritto, come scriveva
un altro importante giurista, Satta, è «dover essere dell’essere» e non dover
essere contrapposto all’essere, “Sollen” staccato dal “Sein”. C. ne
“L’ambiguità del diritto”propone delle conclusioni dense di speranza,
affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così
gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni
niente altro che l’uomo. Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità”
del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico
e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino
ne “La filosofia futura”, che quasi lascia presagire la «fine della storia» e
del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere
Jhering, della “lotta per il diritto”. Il presente testo riprende, nelle linee
essenziali, la relazione presentata al convegno di studi internazionale sull’
“Attualità del pensiero di C.”, Sassari, Mulino”. C., Impressioni su Kelsen
tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, ora in ID., Opere,
Milano, KELSEN, General theory of law and State, Teoria generale del diritto e
dello Stato, tr. it., a cura di Cotta e Treves, Milano; PIOVANI, Introduzione a
C., Il problema della scienza del diritto, Milano, C., Impressioni su Kelsen
tradotto. Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo
gradualista di Kelsen v. WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della
conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto, tr. it. di A.
Carrino, Napoli (ove è scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è
stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche,
priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina
pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi.
Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto,
un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione
di un orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto,
lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo
stesso del suo oggetto empirico»). PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento
giuridico, Milano. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione a Pigliaru, Persona
umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto e storia”, dirittoestoria.it/5/Contributi/
Bianco-Pigliaru-persona- umana- ordinamento-giuridico ed in A. PIGLIARU,
op.ult.cit., Nuoro, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano,
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del
diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato; KELSEN,
Teoria generale del diritto e dello Stato. C., Impressioni su Kelsen tradotto. KELSEN,
Teoria generale del diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto
e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato. Peraltro
Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione formale”
e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale,
la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La
costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale.
La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di
norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali
prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di
tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che
regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la
creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea
rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione materiale” proposta dai
“realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Guarino,
peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in
argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione materiale (tra
congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale. Percorsi culturali e
attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S. Labriola, Milano. C.,
Impressioni su Kelsen tradotto, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello
Stato. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto.
C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni
su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su
Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen
tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen
tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto. Ed il nostro aggiunge nella
stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che
«concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento
giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la
validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la
prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale
dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per
questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano
e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto. Dappresso è scritto che
«la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie
sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione,
e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza
che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non
chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno,
poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda
dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo
irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto
come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa
coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme
vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto
naturale della forza e la sua dogmatica». C,, Impressioni su Kelsen
tradotto, C., Impressioni su Kelsen
tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen
tradotto. C., Il problema della scienza del diritto (1937), Milano (con
introduzione di Piovani) C., Il problema della scienza del diritto. C., Il
problema della scienza del dirittv btg55zo, C. Impressioni su Kelsen tradotto.
C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni
su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su
Kelsen tradotto. Molto intense e particolarmente significative sono le vivaci
conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è essenziale è questo
riportare a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di
vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un
interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come componente il
diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non
il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere
una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della
parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue
determinazioni positive e nelle profonde e immutabili connessioni, con i
principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza. Qui il
giurista è proprio il collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile
del segreto processo traverso il quale la vita concreta si trasforma in
esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente
difesa contro la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se
non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché
vive? C., L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del
diritto, Padova, ora in ID., Opere. C., L’ambiguità del diritto contemporaneo; BARCELLONA,
Diritto senza società, Bari, IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il
salvagente della forma. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto,
Milano. Sia consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in
Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, BARCELLONA, Critica
del nichilismo giuridico, Torino, RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9
ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio
monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale
esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo
caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di
dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura
sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non
diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione
giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello
stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al
dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita; «non siamo più di
fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto». V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER,
Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano; F. NIETZSCHE, La
volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E.
Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano;
IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E.
SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari; ID., Nichilismo e metodo
giuridico, in “Nichilismo giuridico VOLPI, Il nichilismo, Bari; NIETZSCHE, La
volontà di potenza, IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su
diritto e tecnica, SEVERINO, Atto primo, in op. ult. SEVERINO, Atto primo, in
op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in
“Elementi di politica”, Bari, v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi,
in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento
v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce,
in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con
introduzionedi L.M. Bassani, Macerata. IRTI, La rivolta delle differenze, in
“Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico; IRTI,
Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico,
op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna; IRTI,
Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di
geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti
dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano; Destino della
necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia. [61]
V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica.
IRTI, Atto primo; VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia
contemporanea, Roma, ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino;
BARCELLONA, Diritto senza società; BARCELLONA,
Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca
della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della
società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si
realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto
dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come
metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica
sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma
dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella
democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono
inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione».
BARCELLONA, ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare
a meno delle intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in
definitiva, degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie
nella perfetta circolarità della riproduzione auto-referenziale e
auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto
il segreto del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero
di tutte le rappresentazioni della modernità. V. al riguardo N. LUHMANN, La
differenziazione del diritto, tr. it., Bologna. RODOTÀ, La vita e le regole.
Tra diritto e non diritto, RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non
diritto. Su cui v. in generale le classiche pagine di JHERING, Lo scopo del
diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è
scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna
norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo
pratico. Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di
scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO,
Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano).
Sull’attualità del pensiero del C. v. anche il paragrafo quarto di BIANCO,
Nichilismo giuridico. Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ,
La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. C., Impressioni su Kelsen
tradotto. Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria
d’Esposito”, III, Padova, C., in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo
Jemolo”, Milano, ora in Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova. Sull’argomento
sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia trattazione, a G.
BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”.
L’ambiguità del diritto contemporaneo. SEVERINO, La filosofia futura. La
volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa
direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire
quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano
determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è
quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel
futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più
potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in
cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in
ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e
cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo.
Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente,
tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il
divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente
riconosce la possibilità del proprio annientamento»). JHERING, La lotta per il diritto. Sostiene
l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento
storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello
sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo
dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto
incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha
trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude”.
C. The Antiquity
of the Italian NationThe Cultural Origins of a Political Myth in Modern Italy. Francesco.
Oxford. With Italy under Napoleon, the antiquarian topic of anti-Romanism is
turned against the dominant French culture and becomes a pillar of the
nation-building process. The antiquity of the Italian nation — prior to the
Roman dominion — is evoked in order to support an inveterate Italian cultural
primacy and proves very useful for creating Italian nationalism. The issue is
completely forgotten today because Italian studies of Roman history, following
the example of Mommsen, would drape a long veil over the period of earliest
Italy, while, subsequently, Fascism openly claims the legacy of the Roman
Empire. Italic antiquity, however, remains alive throughout those years and it
often returns as a theme, intersecting deeply with the political and cultural
life Italy. Philosophy examines the constantly reasserted antiquity of the
Italian nation and its different uses in history, archaeology, palaeoethnology,
and anthropology, from the Napoleonic period to the collapse of Fascism.
Examining the fortunes and misfortunes of this subject, it challenges the view
of 19th-century Italian nationalism as an ethnical movement, suggesting how
deeply the image of pre-Roman Italy forged the political and cultural
sensibility of modern Italy. Introduction Source: The Antiquity of the Italian
Nation. Francesco. Oxford. The resumption of studies on Italian nationalism
focuses upon the aggressive forms that Fascism comes to represent. The
introduction discusses the easy notions of ethnic or racial nationalism,
questioning these categories and suggesting how complex Italian nationalism is.
Regarding this, the theme of the antiquity of the Italian nation—that is, the
myth of a perpetual presence in the country substantiating a cultural
primacy—represents an important example. An examination of the earliest Italy,
as it was proposed in 19th-century Italian culture, suggests how it did not
have a racial or ethnic basis, its main feature being cultural. This peculiar
aspect of early Italian nationalism is outlined in its historical perspective,
and the structure of the essay is described, indicating how the topic will be
followed from its birth during the Napoleonic years to its final demise shortly
after the fall of Fascism. Keywords: Italian nationalism,
Fascism, earliest Italy.The historic past of the nation The Antiquity of the
Italian Nation. Francesco. Oxford. This philosopher is devoted to the first
explicitly nationalizing reading of the myth of antiquity developed by Cuoco, who, in his “Platone in Italia”,
recalls the existence at the dawn of humanity of a civilizing people, the
Etruscans. In this way, Cuoco, aiming to establish antecedents for the Italian
nation as it measures itself against the French cultural model, could propose
the ethnic-cultural unity of the peninsula’s inhabitants since ancient times.
Italian nationalists rediscover Cuoco’s thesis and see it as the basis of Italian political identity. However, some
philosophers have underlined how this can be regarded as a predatory operation,
which overvalues the actual significance of “Platone in Italia” in the cultural
context of Italy. It also shows how “Platone in Italia” remains known mainly
for emphasizing the cultural primacy of the Italians rather than its assertion
of their ethnic uniformity. Cuoco, Platone in Italia, Etruscans, Italian
nationalists. A plural Italy. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford.
Cuoco’s interpretation of Italian antiquity does not hold up against Micali’s
Italy before the dominion of Rome. Micali responds to Cuoco’s view, suggesting
that cultural unity does not lead one to believe that the country’s peoples
necessarily share a common origin. It is Micali rather than Cuoco that come to
dominate the patriotic culture of the Italians. The significant impact that Micali
has is shown by the fact that Micali became a subject of great interest
throughout the country, accompanying the national movement -- the so-called
Risorgimento -- on its progress towards the events of the revolution. Micali, Italy before the
dominion of Rome, Cuoco, Risorgimento,
revolution. Unity in diversity. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco
Publisher: Oxford. We measure the impact of Micali on the political culture of
the Risorgimento, testing the importance of his “Storia degl’antichi popoli
italiani” on the studies of the Italic past published in several areas around
the peninsula, especially in Lombardia, which remains the main Italian
publishing centre, Napoli, and Sicilia. The analysis shows the multiple and
different nationalizing uses of Micali’s works in tthese regions and confirms
how his reading of a cultural, rather than ethnic, uniformity of the Italian
people, is overwhelmingly accepted by the patriots on the eve of the revolution.
Micali’s model appears, in fact, to be the only one that could be followed in a
country which, though culturally united for centuries, is at the same time
deprived of political cohesion. Micali, Storia degl’antichi popoli
italiani, Risorgimento, Naples, Sicily, Lombardy. The other Italy. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Micali’s model comes
under fire when, after the political unification of the Italian peninsula, it
becomes clear that the encounter between the various parts of Italy is not
particularly harmonious. The problematic area of southern Italy seems to
obstruct, rather than smoothen, the way towards a rapid process of
stabilization for the newly unified state. We cast light on how the southern
regions’s difficulty in becoming an integral part of the new unified Italy
determine the reflections on the roots of a diversity which wocomes home to
roost in the considerations concerning the Aryan race which populates ancient
Italy. Unified Italy, southern Italy, Micali, Aryan race, Mediterranean
race. The anthropology of the nation. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco
Publisher: Oxford Those who insist on the racist nature of the unified state
improperly rely on Sergi’s anthropology as demonstrating firm evidence of his
racist tendencies and establishing a connection between liberal Italy and
Fascism. Philosophers have reconstructed Sergi’s career in order to re-situate
him in his specific political and cultural context. From this point of view,
his theme of racial differences within the nation suggests the existence of two
different peoples on the peninsula: one northern and Aryan, the other southern
and Mediterranean. This distinction remains popular and rapidly becomes a
political matter, pertaining to the left of the political spectrum rather than
the right. It is used to explain the reasons why the modernization of Italy
seems to be grinding to a halt, as well as to help sustain the political
struggle that the radical left launches against liberal Italy. Sergi,
anthropology, racist tendencies, liberal Italy, fascism Return to Rome. The
Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. The Italian state
seems to be heading for an irreversible crisis. Faced with this challenge, many
academics are quick to reaffirm the value of the unified state and reject every
reading of Italian identity which does not sustain the idea of complete
uniformity. This area is covered by philosophy, which deals with the renewal of
the study of Roman history through the example of the work of Pais. A keen
admirer of Micali, Pais soon adopts the model suggested by Mommsen, which sees
in Roman expansionism a work of political and cultural unification of the whole
of Italy. Pais’s main concern, therefore, is the construction of the nation’s
common historical identity. That is why he aligns himself with all the
political choices of the nationalist movement, from colonialism to the
interventionism of The Great War and the acceptance of Fascism. Pais,
nationalist movement, colonialism, Fascism. The Italian Fascist Empire, racial
policy and Etruscology. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford.
Romanism does not eradicate the tradition of Italian plurality, founded on the
specific contributions of peoples of different origins. The theme of Italic
antiquity is useful during fascism. Following the war in Ethiopia and the
foundation of the Italian Empire, the idea of italic antiquity is used to
reject the mixing of races in the name of a civilising policy with regard to
populations held to be inferior. This theme helps to bring about a significant
return of academic interest in relation to the origins of Italy’s ancient civilisation.
Basing his ideas on the example of the
ancient Romans, Pallottino is able to re-read Etruscan origins as the result of
the meeting of different peoples through a cultural model that becomes common
property. In this way, the process turns full circle and the work of Micali makes a powerful comeback. Romanism,
Pallottino, Italic antiquity, Etruscan origins, Italian Empire, Micali. Keywords:
gl’eroi di Vico, il culto degl’eroi, positivismo, positivismo giuridico, H. L.
A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato italiano, il mito dell’Italia
nuova -- stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica
di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il
fascismo – la nazione d'Italia previa all’unificazione -- in concetto di stato
come medimen, medimen medimen medimen previous drafts -- il concetto di stato com medimen --– kelsen,
positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi
d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione,
agire, vita etica, intersoggetivita, intersoggetivo, soggeto, individuo,
interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi,
Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The
Swimming-Pool Library. Capograssi.
Luigi Speranza -- Grice e Caporali: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Pitagora, l’italiano
– scuola di Como – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Como). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Como, Lombardia. Grice: “You gotta (as we say at
Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates
his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just
because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in
fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian
philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how
clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the German
obscurity of Muri!’ And right he is, too!” --
Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia italiana,’
which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” – His
three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating –
especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” Laureatosi
in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo
bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali
e la matematica. Nel corso dei suoi
viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che a Milano, dove l'anno prima aveva dato alle
stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a evangelista,
mentre quella a diacono la ricevette a Terni. E, non a caso, Caporali è stato
segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo. A Perugia, e poi come ministro a Todi finì
per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla
rivista La nuova scienza. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di
reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di
filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò. Dal 1905 riprese e approfondì le questioni
filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe
ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in
funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del
numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della
coscienza e della volontà umane con i problemi della vita. Opere principali Geografia enciclopedica
rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano;
Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte
che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto; La
natura secondo Pitagora, Atanor, Todi; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi;
Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi; La Chiara
religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri
(della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi. L'Enciclopedia Italiana,
vedi, V. Vinay, Desanctis, Claudiana, Torino. In tal senso Croce, Pescasseroli, Laterza,
Bari, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella; Furiozzi,
C. tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia
liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico C.
da Como: da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia. C. su C. M.C.C., C. in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; Pilone, C. Dizionario biografico dei protestanti in
Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi. Filosofia Filosofo
Filosofi italiani Professore Como Todi Scrittori italiani Personalità del
protestantesimo. LA NUOVA SCIENZA. Alcuni
pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii
Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo
grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero
discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche
interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i
rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e
trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con
tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, C., si ritirò
nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto
alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori
pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito
pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa
Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu
stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta
agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli. Restano
quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna.
Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior
numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali
dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero
Italiano. La Formula Pitagorica della Cosmica Evoluzione. L'Evoluzione anti-clericale
Germanica nella disperazione. L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti.
L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione. Monismo Pitagorico antico. Perpetua
voce umana— Commedia degli Spiriti. La psicogenia pitagorica di Pauthan . La
sostanza impasticciata di Pozzo. Il principio Eraclitico con frontato col
Pitagorico -- Pitagorismo di Bruno. La formula Pitagorica dell'Evoluzione
Sociale. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale
facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla
restaurazione della nazionale *coltura. Atanòr, Todi; La Natura secondo
Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità
senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto
l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr]
où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo.
Aristotele (Phys8). La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora
opera insigne del filosofo C. il - nella quale facendo rivivere il Pitagorismo
alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale
coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola. Atanòr. Todi. MI
STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA. Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e
Aristarco (citato da Clemente), e figlio di un gioielliere etrusco, che
mercanteggia a Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre la sua madre e
incinta, dice: Avrai un figlio che sarà utile a tutti gl’uomini, in tutti i
tempi. Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, segue le
lezioni d’Ermodamate e quelle di Ferecide a Siro. Visita in Mileto Talete,
l'iniziatore della filosofia, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi,
presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, e
stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, e da essi ricevuto nel loro
tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa
sua iniziazione, il saggio di Crotone puo bene internarsi in esse, e
principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza del numero e dei principii
universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formida in un modo
originale. Egli arriva agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in
questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei
santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della
plebe, e condotto insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accresce il
suo sapere ed ha rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritorna
a Samo, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggia, e
volle subito fuggirne. Venne in Crotone, ove si stabilisce. Crotone, nel Golfo
di Taranto, e, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che ha
attinto a sì pure fonti di filosofia e acquistato grande esperienza della vita,
nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei altri filosofi,
dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che venne a diffondersi, ha
visione di un rinnovamento da effettuare fra gl’uomini. Onde stabilì di fondare
una setta dalla quale usceno, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei uomoni
dall'animo nel vero senso della parola virile, e che e il nucleo, come il punto
di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico di Crotone,
in corrispondenza al suo ideale filosofico. Secondo questo ideale, affinchè lo stato
e ordinato armonicamente, dovesi conciliare il principio elettivo con un
reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e
della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pedagogico di quei
tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione
laica che sia stato mai impreso; e in breve ha a fiorire in tal modo che, non
solo nell’area, come a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, sono
stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in
Etruria, la sacra terra donde il maestro e oriundo. Egli si circonda di scelti
discepoli, e tutti seduce, poiché avviluppa di grazia l’austerità dei suoi
insegnamenti. Essi doveno levarsi all'alba, adorare il sole, seguendo una
dorica danza, quando il sole appare su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell'
istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio,
affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccoglia all'inizio del giorno.
Indi, in ampie sale, venneno istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella
medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella
religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica
istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la preghiera al sole, si fa un pasto
frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si anda allo stadio per gli
esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, sono tenuti in
onore. Poi si discute di amministrazione della città, di morale e di 'politica
generale, e in fine si anda a cena, dove si mangia anche carne in piccola
quantità e si beve vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di X, poiché X
è il numero perfetto. Durante la cena, si fa una lettura ad alta voce, e questa
lettura e seguita da libere obiezioni e discussion. Poi si ricordano le regole
dell' Istituto, e, cantando un inno ad Apollo, si anda a letto. Il vestito di
tutti i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Pitagora ha due
figli, Arimneste e Telangete. Arimneste e autore di prose e poesie morali. Telangete
divenne più tardi il maestro di Empedocle di Girgenti e a lui trasmise i
secreti della dottrina. Altro pitagorico fu il più celebre degli atleti, Milone
di Crotone. Dall'Istituto pitagorico usceno anche geometri, medici, artisti,
amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portano, sotto certi
aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concede di entrare
nell' Istituto a scolari di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per
avere rifiutato un certo Cilone, ricchissimo, il quale desidera di far parte
dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre sta in casa di
Milone. E, cogliendo pretesto dal voto contrario che Pitagora da sulla
distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati hanno conquistate, il suo
nemico Olone induce la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e
ferendo molti alunni. Pitagora si rifugia negli istituti filiali di Locri, di
Taranto e di Metaponto, dove muore. Pitagora non crede nella metempsicosi, ma
sol-tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la
metempsicosi dei Misteri Orfici e presentata al popolo come opportuna per
spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato
in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava
sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento
della dignità morale, e dice che la virtù non è perfetta se non è accompagnata
dalla fede nel Sole, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina
ordinatrice e perchè il Sole solo può dare alla morale sanzioni efficaci.
Diogene Laerzio narra che Pitagora scrive tre saggi, uno sulla Educazione, uno
sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura. Ma andarono tutti e tre
perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri
filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distingueno Archita di
Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao,
Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Ipparco. Quando Platone viaggia in Italia, e
Archita di Taranto che gì' insegna la dottrina del numerante. Ma Platone la
guasta nell' intrecciarla alla sua teoria delle idee eterne ossia concetti
gènerali delle cose ch'egli suppone esistere da se, indipendenti e separati
dalle cose. Nella filiale pitagorica di Girgenti sorge Empedocle, il quale
abbraccia con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici. Ma mentre Empedocle
osserva da vicino una eruzione dell’Etna
soccombette asfissiato. Nella filiale pitagorica di Siracusa brilla Archimede,
il fondatore della idrostatica, il quale scopre anche la quadratura della
parabola, oggi ancora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere della
filosofia di questa setta di Crotone? Pitagora e l’enciclopedista del suo tempo.
Fonda la Filosofia Italica. Come fa notare Zeller gl’errori di Platone e di
Aristotele erano quelli del popolo ellenico, troppo idealista e portato a
giudicare le cose colla fantasia, ed a studiare poco la natura. Gl’ellenici
sono artisti e poeti, non filosofi o scienziati. Appena hanno fatto dell’osservazioni
superficiali, volano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora e in
stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della natura, sicché puo
fondare il Naturalismo Italiano. Da per primo il nome alla filosofia, come lo da
al mondo, chiamandolo “cosmo”, che vuol dire ‘ordine’, vale a dire che porta in
se la gran legge della tendenza di le IV elementi a formare più alta unità: in
modo che ogni particella sta in armonia col Tutto ed è fatta da una forza
numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione dell’energia
divina, che si contrappone i punti di forza o atomi, i quali, derivando da una
potentissima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla unità primitiva,
sicché tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del
Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del
Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere nell’assurgere
a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e
vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi. Ma
è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e volontà, che a poco a poco,
attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si
vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gl’organi ed i nervi. Egli
precisa con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la
tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni; indovina per il primo che
la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli
in movimento. Scopre il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa
nel triangolo rettangolo. Calcola la teoria degl’ isoperimetri, dimostrando non
commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato. Introduce
nell’aritmetica il sistema decimale X, e nella musica l'ottava, VIII, la quarta
IV, e la quinta, V.. Il filosofo Lucio (in Plutarco Symp.) narra che gli’eruschi,
che stimano Pitagora quanto i Greci, osservano i simboli di Pitagora. Ad un acuto
osservatore come Pitagora non puo sfuggire la legge di attrazione e coesione
che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la
causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta
Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la causa in pretese pressioni
dell'etere cosmico. Empedocle di Girgenti la chiama poeticamente “amore universale”,
contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba
il piacere dell'unione. Empedocle pensa la Natura organica, piante ed animali,
come un processo di crescente unificazione e sistemazione -benché non
conoscesse la cellula -e la malattia e la morte come un processo di
dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in
continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove -come pretendeva
Eraclito, l’eleno che emula Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo
ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire
discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del pensiero
pitagorico Anassagora, il primo filosofo che separa lo spirito dalla materia, e
che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di Omeomerie,
specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono le cose
utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma i suoi
discepoli Socrate e Platone intesero poco il pitagorismo, in modo che dopo
Anassagora la filosofìa d’Atene si allontana dalla Italica. Pitagora e il genio
tutelare del pensiero laico Italiano, e da sempre il midollo alla coltura
nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non e
una provincia della filosofia ellenica. E grazie a Pitagora che un po' alla
volta e sorpassato il Platonismo ed e vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento
con le invasioni dei barbari dal Nord si oscura ogni luce di pensiero. Ma la
idea pitagorica torna a brillare per la prima e a dare impulso alla nuova
filosofia italiana grazie a Cuza, educato in Italia. Cuza scrive: Ratio est
mensura quae omnia in multitudinem, magnitudinemque resolvit. Mens est viva
mensura quae mensurando alia, sui capacitatem atiingit. La mente è la unità che
si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione
della Natura, che era stata lo scopo principale della setta Pitagorica venne
promossa dall'Accademia di Cosenza, a 40 miglia da Cotrone, fondata da Parrasio
dalla quale sorge Telesio che scrive:
Della natura delle cose secondo i propri principii -, dall'apertura in Padova del primo Orto
Botanico, dall’Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dall’Accademie
dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con Porta, le
quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione
delle loro accademie maggiori. Bruno sostenne poi contro i filosofi del Lizio che
gli elementi medesimi della natura si ritrovano in terra e in cielo, indovina
la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa, nota che la
Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono quelle
periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi dell'anima.
Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore
col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio,
fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità
Pitagorica della Attrazione e dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich
concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione
molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali danno ragione agli antichi
Pitagorici e ad Empedocle. Supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile
moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più
fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva
concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti. Noi fondiamo la filosofìa
sopra la totalità dell'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti,
come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere
(lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal Niente
venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. L’Hegelismo, che, invece di stare ai
fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto del Nulla
come equipollente a quello delVEssere li ha sposati per farne uscire il
Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo lasciamo nei cervelli che
lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che questo essere
eterno fosse molteplice, nessuno che guardi il mondo e conosca la Unità delle
forze fisiche che si manifesta, non solo sulla
Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla
precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L'
uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono
filosofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui
che non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. Terra, ma
in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle
più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per arrivarci, quando si
studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno
era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza
Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così
può essere. Nel voi. IV. delle sue opere egli ci dice che questo primo Essere
ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità,
ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e
viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un
determinato spazio. Noi c'inchiniamo al prof. Ardigò per questa bella trovata,
la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la
bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed
una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la
convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la
Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel
gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura
(1). Questa è fatta di sensazioni, di sentimenti, di volontà, di movimenti, dei
quali è dif(1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì,
come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta
dello spirito, senza impicciarsi di Natura. fìcile formarsi concetti esatti, e
si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe
comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con
concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di
azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia
come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi
oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della
Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di
tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla,
come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare.
Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in
questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura.
Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre,
estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due
sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i
punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste
estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in
spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali. La
fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso
muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa
intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta
dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello
spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato
contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe contenerne
mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito;
altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega
la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se
fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi,
uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il
passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di
Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come
spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la
tartaruga, non la potrà mai raggiungere. Ma quando si considera lo spazio come
un sistema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e
il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si
capisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a
scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove
non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il
moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui intervalli
sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono
nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore
della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa. Kant suppose
che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come occhiali
colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le cose
esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa
impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci dimostrano che le
macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni dello
spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i nostri
orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero che
riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo emLo spazio, il tempo, gli atomi,
sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da una Unità
spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la sostanza
comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche, va
considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che per i bambini non sono altro
che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per
raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso
dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza,
che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella
evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi
constitam della filosofìa scientifica. Nella
Teoria del cielo Kant riconobbe
la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indipendente dalla materia,
anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito, vuoto: e
aggiungeva dubito che se ne sia mai data
una definizione adeguata. Le
determinazioni dello spazio non sono
conseguenze del posto che oc cupano reciprocamente gli atomi, ma queste
sono conseguenze dello spazio, e le
diversità nei corpi si riferiscono
sempre allo spazio assoluto, che non è
oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen tale, la quale rende
possibile tutte le altre. Di modo che
non si può percepire un corpo se non in
relazioni spaziali con altri corpi. Più tardi però Kant concepì spazio e
tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi
mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stranezza seguito dallo
Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da
Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da
Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da
Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri
provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono
anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come
Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte
dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza
e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a
distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale
inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A.
Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano
che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli
atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il
rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole
dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre
ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione
delle distanze. Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi
fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra
anche il chiarissimo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non
Euclidea e non Archimedea nei suoi
Problemi della scienza Bologna.
La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il
maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò
che si deve prenderlo per base di tutte le misure. Abbiamo riassunto le ragioni
e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza. La realtà del tempo poi che (come dice
Neioton) fhixus mutari nequit,
equabiliter fhlit è dimostrata vera da
molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la
meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio
astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun
cangiamento può avvenire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare
della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio
e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti,
a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono
così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione
di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la
interazione delle forze; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi
e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se
non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo,
sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di
Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della
Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione; anzi non sarebbe
possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo)
rende facile l'azione dei punti di forza. Spazio e Tempo esistono per se come
sistemi di termini puntuali indivisibili
e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e
larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne
profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di sono intervalli
infinitesimi, ma non nulli. Se fossero nulli non sarebbe possibile il moto e
specialmente il moto curvilineo, die si calcola col differenziale. Infatti una
curva cambia continuamente di direzione, con grandezze infinitesime, che
crescono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che limita e non una
grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva qualsiasi, vi è
bisogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo
pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non è mai una
realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si trattano come tali;
nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli
uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto degl' intervalli
infinitesimi. Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee,
le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili, questi limiti
sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima; non vi
sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè
tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è
quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta
nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè
se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero
infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è
assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità
intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità intima non riveleremmo il
Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali,
perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e
numerabili e fanno la realtà del Tempo. Contro questi intervalli Pascal diceva
che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di rato, ogni
istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza
separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza.
Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi,
in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con
le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare
le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'algebra alla geometria, osservando
che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle linee
perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello
stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono
determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate
con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello
spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di
punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi
che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un
sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le
leggi d' inerzia, scoprì anche la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo,
e quindi del Tempo assoluto. Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg)
che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano
soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono
circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si
toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si
toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi Philosophiae naturalis Principia (Def. Vili)
Newton scrive: Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint
celeres, sive tardi, sive nulli. Il tempo sarebbe il medesimo anche se l'
Universo e i suoi, moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un
pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier) scriveva: Tempus non est affectio rerum sed modus
cogitandi. Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero
del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubiquità non permette di
prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri
sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non
dipende dalla nostra coscienza. Ogni finalità si appoggia sulla idea del tempo,
senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle
proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio
ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia
impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema
solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del
tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a
priori o sieno intuizioni, poco importa. Quello che importa di sapere è quello
che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e
discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di
energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza
diceva: Quo plus realitatis aut Esse
unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt e questi due sistemi di punti e d'istanti non
hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del
Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al
principio delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi
Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande
matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti
nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla
genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto?
(ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz
scrisse che omnibus ex nihilo ducendis
sufficit unum. La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e
ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la
Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come
dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio
di un corpo di materia continua; una siffatta materia si dissiperebbe nello
spazio: sarebbe una specie di atmosfera diffusa allo infinito, con strati
concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non
potrebbero fare un tutto di numero determinato, come dimostrò Saint-Venant.
Nella Révue du mois 1906, Jean Perrin provò la discontinuità
della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non
può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò
è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chimiche ci
provano concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello
scambiare le loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici
e chimici, ecc.). Il Secchi ( Unità nelle forze fìsiche ) fa osservare che teoricamente l'equivalente
definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e
semplici. Questo lo aveva già intuito Pitagora, quando distinse nettamente il
numerato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale: e fu svolto il
suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano
Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di
energia propria semovente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro
la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle
quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre
l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle
forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non
si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una
attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si
dice che è la medesima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è
Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di
eliminare l'indeterminato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è
altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La
realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo
aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue
Philosophique de la France La forza cosmica non può somigliare alla nostra: ma
sic come la genera, devono essere modi diversi della stessa energia. Il potere manifestato in
tutte le cose è alla fine quello che in
noi scaturisce sotto forma di coscienza. La materia vive in ogni Atomo per se stessa. Questo centro, questa
Unità interiore di tutte le cose e
inaccessibile alla nostra coscienza: le
scienze studiano i loro fenomeni e non
la realtà conscia che li fa. Ma siccome
noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione esterna nei termini della Energia intima,
così, (conclude l'eminente filosofo
inglese) si arriva ad un concetto
psichico degli Àtomi. Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è
inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di
lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire
ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il lavoro fisiologico, e formando
così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo
senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità).
Infatti la coesione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni.
E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica.
In altre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell' Èssere in
se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate della
chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le onde
del mare, un buon Capitano (come ce lo descrive l'ammiraglio francese Cloué) fa
portare intorno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di
pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli
alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora
escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi una strada
piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai
due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma
le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia veemente.
Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ, 0QQ di millimetro (poco più
delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione alle
molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè? Unicamente per la forza
di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento
rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di
lungo corso, che attraversano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è
dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di
sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da
qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla
sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. L'atomo di
una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito,
né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga
evoluzione) uscì il tatto chimico e quello delle cellule degli organismi
inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci
costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la
fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il
Wundt, concepiva gli atomi come volontà elementari, come esseri attivi che
sentono (benché più semplicemente di noi): e li aveva concepiti così anche
Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che
in apparenza. Instar arcus tensi, qui
non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti diceva Leibnitz.
La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva
sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle
forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti: mentre
sono le vere realtà. La Materia (dice Righi) ha per proprietà distintiva
Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le
loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici), la
mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti
simmetricamente intorno ad un centro positivo; ma in moltissimi casi non la
mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può
essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico,
il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole
ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la
Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in
forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno
la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e
nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si
sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione
delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono
estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di
energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e
Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo,
vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di
Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi
specie si trasforma conservando il suo valore numerico: ogni Energia è
potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile
ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come laboratorio di
energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la
parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col
consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la
sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di
avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia
cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal movimento dagli atomi
complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti
di forza senza nucleo materiale, senza caput mortuum che li porti, come la
terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga
degli Indiani. Omnis Ens, aut in se, aut
in alio est diceva Spinoza e gli Atomi
sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati
reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne
Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in
modo diverso (Microcosmos). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze,
aggiunge: Non esistono cose meramente
oggettive, passive, esterne. Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un
modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono
eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant,
Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner,
Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer,
Ostwald, Mach.Nella sua Mechanik in
ihrer Entwickelung ossia La meccanica nel suo sviluppo, il Mach
scriveva che La mitologia Meccanica è
sbagliata. Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi
siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di
cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso
Ardigò, il quale scrisse che la Materia
è Pensiero. S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza
Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V
Indistinto. La nostra fame non è molto
diversa dal bisogno di combinarsi delle
molecole. La nostra Volontà non è molto
diversa dalla pressione del tetto sulle
pareti di una casa. E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss)
osserva: se l'Atomo fosse ma teriale, non
opererebbe se non nel posto ove si
trova, non irradierebbe energia termica o elet trica; anzi non si
continuerebbe il moto dopo V urto, se
non per alcuni istanti, e andrebbe
estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto: dunque l'Atomo è Energia psichica. Il
considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un
certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filosofia non è
limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa
le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una
Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si
pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri
simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà
dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci
arriverebbero ne luce, ne suoni, ci convincono che sotto le astrazioni della
scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche individuali minime. L'Etere
cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti
di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due
elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni
negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che tendono ad unirsi, se
vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa
del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente
l'attrazione da un punto all'altro, per quanto sia lontano, Coesione e
gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza
intima degli atomi è quella di formare più alta unità anzi ce lo indica già la
costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro è
positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi.La
massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo
celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra,
peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma
il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in qualunque posto si
trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica. Quando questa è
disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e
sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo cerca di
rigettarlo sui vicini e si disperde. Questa è la seconda forza fondamentale
della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri Ben inteso che l'attrazione o
coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel
punto che si dice atomo non può essere annichilito. Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente
mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la
coesione e la gravitazione per pressione dell'Etere, erano falliti; e di questa
opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi.
tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che
divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi
esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico
contrasto. Che dal calorico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono,
passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne
recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un
campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza:
poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una
corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente
ad una determinata quantità di energia elettrica qualunque sia la sua temperatura; si ottiene
sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si
manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente (dinamica) o in
rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di
condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio
nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si
elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i
metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male Avendo Carnot provato che il calorico non si
converte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi,
Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia convertita in
calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema: così alcuni credono che
l'energia dopo molti milioni di secoli si estinguerà; ma questo sarebbe già
raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua
energia potenziale. orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfregamento
senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca
energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno
stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa
della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di
cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si
ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla
negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di
questo assumono la corrente, senza che l'etere frapposto si elettrizzi ne si
polarizzi e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica
nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche
perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i liquidi
ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici,
rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi
elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi
trovarono che l'Etere è elettricità di forza minima ed il principio di ogni
materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa
i vortici elettrici, l'atomo vorticoso di sir William Thomson (lord Kelvin) il
quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono
emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal
radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai
e sono deviati dalle calamite.fi) Kauffmann: La costituzione dell'Elettrone,
Annalen der Physik. Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha calcolato la massa
apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa
elettromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che
non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di
ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due
elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come
tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si
esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli
più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un
magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie
contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e dividono le fiamme in due corni.
Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi:
e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col
gran calore, sia con urti violenti che scaldano molto, sia coi raggi catodici,
di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed
i gas delle fiamme sono tutti fortemente jonizzati e ridotti ai più semplici
elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati
violentemente, scomposti in elettroni negativi. La luce deriva da vibrazioni
elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da sinistra. Se la
destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma
due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli
negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di
quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono,
non sono carichi di elettricità come i raggi catodici; ma fanno sorgere
l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non
partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q
sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel
vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli
alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I
beta più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e
deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti
degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in
rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni.
Arrestano le scintille di, una fortissima macchina elettrica, perchè
egualizzano le elettricità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen
sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di
Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi.
Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste
nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire
in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli
indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in
lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica
sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elettrica è
un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha
Vinduzione, come dice Righi (La moderna teoria dei fenomeni fisici, 1907,
Bologna, 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della
luce. La efficacia della elettricità e del magnetismo diminuisce col quadrato
della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la
positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni simili
alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde
dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma
colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi
senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. Le onde di Hertz
dipendono da esplosioni per urto.La elettrolisi è la scomposizione in joni
degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una
pila e di due elettrodi, si divide in joni di Jodio positivi che vanno al polo
negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o
Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed
in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli
accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il Le scariche oscillanti, come quelle fatte
negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati passaggi, da una
serie rapida di flussi che, urtando violentemente l'Etere, vi fanno delle onde
concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer alternando lo stato
magnetico permette di far segnali. piombo dall'ossido di piombo (che si
adoperano per muovere i tram elettrici). La genesi degli elementi ossia delle
varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in
Russia e da altri. Dalla infocata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e
l'abbassarsi della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi
leggeri e poi, per successivi
raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte
l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per
successive differenziazioni e complicazioni. Raffreddandosi le stelle, la
elettricità ci va formando nuovi elementi e si complica la loro struttura. Così
nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle
gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle
stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i
metalli sono Tutti sanno che la
piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono che punti di forza.
Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi di millimetro. Certi
infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di un millesimo di
millimetro. Idrogeno, Litio, G-lucinio,
Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio,
Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la
elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 elementi. (Per gli elementi seguenti
vedi Wendt, Evolution der Elemente, Berlino). L'analisi spettrale datante linee
quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii
chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di
idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo
di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad
altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono
gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson
mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati. Dissociando
gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può
arrivare a tale energia che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza
bastante per far muovere un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay
vide il radio trasformarsi continuamente in elio. Le cinque leggi principali
della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale di azione e sono: Inerzia,
Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione
della Materia e Conservazione della Forza potenziale (non della manifestata).
Del resto il principio di conservazione della Energia, ha valore per i fatti
osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono
nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo
aspetto: risolvere il mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le
essenziali, sono psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o
virtus movendi è fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le
spiegazioni meccaniche, quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano
di determinare le variabili che preponderano, di trovare le relazioni
funzionali tra loro, per predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non
danno mai la certezza e sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi
isolati come conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45
come porzioni di un sistema conservativo più ampio: ma gli attriti, le
viscosità e le complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le
rotazioni, rendono la soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La
mécanique classique, 1906). Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse
proporzionale alla velocità, ritenne che fosse una funzione della velocità e
variasse con la velocità, come si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse
crescono con la velocità, per cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare
le equazioni differenziali e cercare le equazioni funzionali, se si vuol
prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I corpi non sistemati o che sono
in moto lento, sono soggetti a cambiare direzione e velocità, se vengono
urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si converte in calore: bensì l'urto
eccita le forzeinterne a difendersi con moto rapido irregolare che dilata e si
disperde. Se si urtano due palle lanciate una contro l'altra, le forze che
risultano sono momenti eguali, ma opposti: così che entra nel corpo urtato la
sola differenza. II moto che segue all'urto non avviene mica per una infusione
di moto come suppongono gl'ingenui: ma esso si verifica sempre per la solidale
elasticità delle molecole, che ritornano al loro stato abituale di coesione,
come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity).
Fin qui abbiamo considerato la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei
e ponderali, cercando (per quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la
consideriamo nel massimo, dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere
infinito, come è sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa,
ne in energia potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il
centro di gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia
se ne andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le
stelle, pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite
stelle, la vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua
estensione. Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe
potuto nemmeno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe
nello spazio: ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi
sotto zero, (che è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori
delle regioni più lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le
forze della Materia sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel
seguente Capitolo. Le ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del
calorico, dell'elettricità che abbia eguale direzione e le esplosive dei
composti chimici in cui entri l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal
disturbo del godimento che è caratteristico delle forze attrattive. La
solidarietà degli Atomi in generale Coi principii delle scienze fìsiche insegnati
da Cartesio in poi, non si è riusciti mai a spiegare l'attrazione e la
coesione, che tengono insieme tutti i corpi e sono le prime forze iniziali. Quanto
tendano a stare insieme gli Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità
dell'Etere. Quanto tendano a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo
vede nelle goccie di acqua, nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni
duri, nei corami, nelle corde di canapa, nei diamanti,. in molti metalli e
specialmente nei fili di ferro: anzi in tutti i corpi liquidi o solidi compreso
il proprio. Al di là di una piccola frazione di millimetro, la coesione
diminuisce e si estingue e subentra l'attrazione in ragione inversa del
quadrato della distanza, perchè gli Atomi irradiano sopra superfìcie tanto più
grandi quanto più sono lontane. Newton e Faraday hanno intavolato bene il
problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,, ed anche il gesuita
padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come tutti i Tomisti, nel
Motore immobile divino) lo hanno oscurato.
L'amore degli animali e anche dell'uomo è la sublimazione di quella
tendenza fondamentale che tiene assieme tutti i corpi del mondo. 48 Newton per
un quarto di secolo ci meditò sopra e
stabilì due punti vale a dire che l'agente della gravitazione non può essere
meccanico (nella Prefazione ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale
muove. Dunque è la unità energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette
per l'Etere la tendenza a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione
arriva ad altri Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca.
Faraday commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume
XXIV), scriveva Nella gravitazione la
forza va per l' Etere alle maggiori
distanze, partendo dai punti Atomi di
Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a tutto il sistema solare. Newton non ammise
che la gravitazione fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la
psichica Unità reale degli Atomi) perchè come fisico diceva hypothesis non fìngo ma non lo escluse e lo lasciò pensare al
lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel 1681
che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè non si
propaga, non si altera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so Newton
studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la gravitazione fin dal
1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal Society. Ma nel 1686
dichiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non aveva il minimo
fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica alcuni Empirici ed
anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il tempo nel tentare di
scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il genio di Newton, dopo
maturo esame, aveva trovata impossibile. stanza gazosa, liquida o solida, non
prende mai la direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non
si trasforma come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è
istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la
coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto
ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero
alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici
li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. Eichiedono
un punto motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. Esigono che la
materia sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora
acquista una enorme velocità. 3. Riducono la gravità, che è forza perenne
indistruttibile, ad un semplice effetto di diverse forze che ci sono ignote.
Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere,
capitali che nessuno ci ha trovati. 5. Se fossero vere, farebbero andare in
frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro
non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N.
Scienza,. IV voi., 282 e seg.). È molto
deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e
per ogni interiorità (senzabadare che essi sentono, vogliono e pensano) e
volendo spiegare tutto il mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente,
sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squiliNewton (nell' Ottica)
dichiarò assurdo che la gravitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia.
Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che
la forza psichica degli atomi faccia la gravità; benché, come dicevamo or ora,
seguisse la regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la
Materia nulla avesse di psichico, che in
Philosophia experimentali hypotheses locum non habent „ Egli veramente non arrivava fino a supporre
che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma credeva in uno spirito
pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa
dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della
gravitazione universale, considerata come una brìi dell'etere possano
attribuirsi la coesione e la gravitazione; dando prova unicamente della
insolubilità del problema. Fra questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra
nel suo libro L'Etere e la materia ponderale uscito a Torino sulla fine del
1902, nel quale, in meno di 140 pagine fa 1400 ipotesi: ma nella Prefazione del
quale egli ha però il buon senso di confessare che il meccanismo di ogni
fenomeno fisico rimane affatto
misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre
concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose. Dal
momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed
altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale,
sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti,
limitandosi a dire: Sic volo, sic jubeo:
sit prò ratione voluntas. Se non è assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi,
senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di sensazione gradita,
nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò
assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era
che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse, come nella
evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti si rendono
solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i
corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla
superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la
coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4. Rucker nel 1885
con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha
analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e disse che a meno di 25
milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le molecole dell'acqua. Nelle
bolle di sapone la pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli
milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad
un milionesimo. Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni
di acqua si attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un
diecimilionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel
1886 disse che l'attrazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana
resa più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di
coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese
molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul
tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli
restavano attaccati tutti i sottoposti. I fenomeni della capillarità nei tubi
stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di
esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique
expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires).
Facendo
cadere a goccie certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani: mentre le
goccie di altri olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno
convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le
onde furiose del mare vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile
strato di olio nel modo indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica
della coesione si può investigare pigliando certe soluzioni, fortemente
colorate, di permanganato di potassa e facendone cadere alcune goccie
sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza
colorata, nel suo discendere e nel modificare l'associazione molecolare assume
la forma di anelli vorticosi, cinti da una pellicola, che, sempre più
assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli anelli maggiori,
discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso e via di
seguito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori anellini
vorticosi fino a che diviene invisibile. Con una goccia di inchiostro il
fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce impossibile di
studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo esperimento dalla
forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi simili sempre
tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che l'unità domina
i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a formare delle goccie.
L'astronomo Young (Il Sole, 63 220) dice che il Sole (che sembra sia in gran
parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline di metalli. Non vi è
corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti Cailletet e Wriblowcki,
con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi quasi tutti i gas. La
teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non si regge più, perchè
gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di traslazione si
rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e Gaylussac (essere a
temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa della pressione)
non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi Hirn variò a
piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza. Clausius credette che
le molecole dei gas corressero senza vibrare e spiegava così la discontinuità
degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma recentemente vari fisici
hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla piccolezza delle loro
molecole, invece che alla fantasticata loro corsa vertiginosa, e fu tolto al
Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo spettroscopio. Venne allora Hirn a
provare che, se le molecole dei gas corressero in linea retta, non vibrerebbero
e non potrebbero mai dare un suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro
parti solidali e sistemate, come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non
vibra più. Per vibrare occorre Tait nel
suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le gravissime
difficoltà che presentava l' ipotesi cinetica dei gas del Clausius, che venne
accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le molecole ritornino allo
stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di Chladni e di Savart
perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse costituita al modo
escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici chilometri,
secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare che tutti i
corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di aria
vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in un
minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa da
onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non
corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva
dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la
gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione,
si spiegano senza bisogno che corrano molti chilometri al minuto e senza che
subiscano tanti urti. Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La
solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere
collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che
tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde
vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si
tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano
via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo
suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non
toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una
solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e
non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali,
battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano
del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo
sonoro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di stromenti
musicali applicano continuamente questa legge, che prova la solidarietà degli
Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente non soltanto fra
gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma anche fra gli Atomi
eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi ponderali. Locke (nel
suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare quanto sia stupido cercar
di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali inventando una pressione
dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti e solidali fra loro,
esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo Etere che premesse il
primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito all'infinito. Sopra
un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday provò che il mezzo
etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si curvano. Hirn ne
dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto elastico persino
nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso continuo, se fosse
di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per poter darsi l'aria
di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la luce con tanta
regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un poco. Secondo
Lorentz l'Etere deve essere in stato di relativa quiete e di solidarietà nel
suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e della Luce. Senza
questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle stelle, come senza la
solidarietà dell'aria non avremmo il suono: quindi non si sarebbero formati ne
occhi, ne orecchi; ed è alla solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la
civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti belle. Alla stessa
solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali
si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli atomi e la loro
solidarietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che
allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi,
volatilizza i liquidi, disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il
piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore deriva dal disturbo
della coesione e che è un moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione
dunque il fondatore della termodinamica Mayer diceva che la coesione e
l'attrazione non sono moti, ma tengono della natura della sensazione, sicché la
Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà innegabile e l' Unità
domina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono
visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da
membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume
più che non ceda e la meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la
tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa
l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. La tendenza all'armonia fa i contrasti
elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei
liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta
nella fisica la tendenza a formare più alta Unità, che si accentra poi e si
rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore delle
Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze
incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait diceva
bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto:
come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia
Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le
forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione
rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà
primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti studino pure i fenomeni
fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia, ossia
alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20). Siamo
coerenti e riconosciamo che la Lo stesso
Ardìgò scrisse, come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e
doveva dire non del Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto
il suo sistema non seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti
delle forze incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia
si poteva affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo
nei suoi Principia Definitio IIIa:
Materiae vis insita est potentia
resistendi. Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé
quindi solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è
assai più elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non
può bandire la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e
indovinare la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo
fatto della fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto;
perchè abbiamo stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale.
Il materiale dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma la
costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole,
orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la
elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a
spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la
assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per
spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere
più schiacciante. L'Illustre Presidente
della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che Each minerai like each plant, or animai,
possess its own individuality. Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non
spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli
(Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV.
pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica
chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici.
Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba
della vita che si chiude fra le pareti; è una vita modesta, casalinga,
incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e mantiene
le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la
temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a
cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi
della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano
che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu
detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o
parallelopipedi non le prendono per
quelle forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono
riunire altro che detriti, arena, polveri e spazzature: le prendono per la
tendenza delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di
equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto
centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità.
Scaldando un Ai sistemi cubico,
prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la
granulare del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio,
la capillare dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine
sottilissime degli scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si
modificano insieme. Il clivaggio o spaccatura produce polveri della forma
medesima a quella di ogni cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si
rompono in frammenti irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per
primo e maggiormente; il polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda.
Le proprietà ottiche variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli
assi secondari. Nei cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di
stella formano l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo
regolare. Si crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno
analoghe a quelle delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua,
avendo le molecole semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più
di un decimo di idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i
Colloidi, perchè le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza
centro, e si ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si
organizzano gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile: però
si induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte
non cristallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la
tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina,
tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non ancora cellulare. Lo
stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le
sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché
assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei
minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà
ottiche di trasparenza. Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano
nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti
cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non
lasciano passare la luce e la assorbono o la riflettono. Per lo più le terre
sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale
omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed
alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si
formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della
loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez,
preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace
ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di
acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido
perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di
borace ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita
cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto
quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni
cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli
inferiori; tutti cercano di innalzarsi, di ascendere a più alta Unità. E se non
arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato
potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica
diventa tetragona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, 94). II principio
della inerzia o della eredità, lotta anche nei cristalli, come nelle cellule,
col principio della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura
che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e
perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più
semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun
cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più
ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla
vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche,
rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica
di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il
polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la
soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi
variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione
dell'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù
propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti
dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la
conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre
proprietà dipendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del
cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti
efflorescenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto
diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. I
cambiamenti vitali delle rocce provengono daliatendenza di quello che è
instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione
fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici
(riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai
vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell'
interno restano semiliquide e viscose, solidificandosi mano mano che corrono
giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice
(combinata sotto forma di silicati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla
magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al
microscopio milioni di cristallini incipienti chiamati microliti. Ve ne sono
anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere
eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e
francesi tentarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali
eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco
abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto
a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la
temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi
dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi in serie. Ed ottennero in tal A rinforzare quanto nella Introduzione
dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati
fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra
Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chimodo la
leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie,
della cui origine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad
ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed
ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti
organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti
misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von
Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il
prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro,
di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che
si duplicarono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio.
lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le detonazioni che ne
succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma
rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina
nel Brasile e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo
quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate.
Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad
impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è
fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui
nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle
primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche,
che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono
spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico
nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate
le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma allorché nelle officine viene
ossidato il silicio) lo si trova anNel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato
gelatinoso del cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi
del radio, in uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro,
mai di più, avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano
nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede
nella materia inorganica una tendenza ad unificarsi sempre maggiore. Essa
assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle
gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli: sempre la intima unità
generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le
molecole in contrasti elettrici, o della forma colloidale che fra le reti
cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa
muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va
assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del
nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle
Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è dovuta all' immediato passaggio
del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la loro
tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni
silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il
silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere
stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con
l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in
acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del
ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che
ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto
magnetico delle Meteoriti conservate nei principali Musei. Sono frammenti di
vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. Sono le forme
primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi
libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni
forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità
senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa,
non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano
distinguendo colla divisione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lrdigoismo,
ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa coadunando,
annodando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed intermittente quello
che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione e della solidarietà,
ma diventa, raffrontato con altri della Chimica, un cardine di principii
naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare indagini nuove. Non
si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della cristallografìa,
perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa non siamo
entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun cenno);
abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia che si
crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio sempre
più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle chimiche
combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e graduale
della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e poscia impara
a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro libero, lo
idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre appaiati in
molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti di
particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di qualsiasi
elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti meccanici
sono enormi. Ad esempio se si combinano per formare 36,5 di acido cloridrico,
un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da innalzare di
un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come osserva
Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma quasi
quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più indifferente di
tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi è spinto dalla
elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i compagni. Non è per
cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti gli elementi con
grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di idrogeno fa
l'acqua, così benefica in tutta la natura. Ma unito coi metalli fa gli ossidi e
le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del legno, delle
candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi organici. Unito
coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano i projetti con
velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la
nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento
di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a
comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare i loro
elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli elementi i quali si trovano
in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima
scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto
indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano in
equilibrio instabile. E più ancora nella nitroglicerina e nella dinamite. Non e
per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente il
modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di
cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas
giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi
riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno
comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi? Chi
troverebbe nel quarzo che cristallizza in aghi esagoni trasparenti, il silicio
nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga un po'
qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo e
dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e suddividendo
all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova piacere e si fa
l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo antitetico dei suoi
concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche ed i loro effetti,
dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere. Non è per cause
meccaniche che le sostanze isomere, vale a dire composte della stessa qualità e
del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo diverso di sentire e di
operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il
fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo
è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la
destrina. Se le cause meccaniche facessero le combinazioni chimiche, la
atomicità o valenza degli elementi (che si può chiamare la loro dose di
energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu supposta quando nel 1855 il
compianto senatore Cannizzaro (allora professore a Pisa) provò che non esiste
contraddizione fra la legge di Avogadro che determina il peso delle molecole e
quella di Dulong e Petit che determina il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì
ben presto. L'idrogeno ed il cloro
valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una
valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con
4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d'
idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo
di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che
è trivalente, può surroAnche i pronubi delle nozze (che sono in generale il
calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle
che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della
somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno
convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette
Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera
la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale
alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza
a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno
e 1 di ossigeno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e
può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti
sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di
1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non
saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di
Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente
e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più
pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di
azoto ne sposano 1 di carbonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca la
diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel bicloruro
e vale 4 nel bisolfuro; si assodò che il solfo, il selenio ed il tellurio
valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si constatò
che l'azoto ed il fosforo che in generale sono trivalenti, in alcuni casi si
fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido di
carbonio, diventa soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le accelerano.
La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono meccaniche. I
composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i composti ternari
(alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi,
destrine, gomme, gelatine, albumine) esigono lungo tempo per formarsi,
moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo si ripete
e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di potassa, o
quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione superiore, è
imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico dell'ascesa a
più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si frappongono
ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così nelle
fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a provocare
l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido solforoso. Come
è naturale le combinazioni chimiche durano e resistono quanto più sono
semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono meno i
deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno
stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali poi, che
sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore: meno che mai i
sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i composti
organici, come è noto a chiunque: e per poco che si vada oltre i quaranta si
distruggono. La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia,
ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e
dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei
loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi
organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze
meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a formare gli
zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno
arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla
esistenza immediata ; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel,
soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non
soffrono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non
esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1
/25000 di millimetro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di
carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo
geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di carbonio si sieno
combinati con l'ossigeno, con l'idrogeno dell'acqua e con un po' di azoto
dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, i quali poi
diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal
bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in
cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse,
secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare
più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando
capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da
queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra.
La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando,
abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono,
formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori,
l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali
avvengono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno.
L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni
organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un
forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico latente (Gautier). E quando
l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo acqua si
prepara ad eliminarle. I sali, e specialmente il marino, o cloruro di sodio,
rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza delle
loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte sostanze
proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata dagli
Atomi; ma è Velevazione delle Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti
maggiori. Se si guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice
si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si
guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei
frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea
oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma
unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ternarie
o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità
dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e
luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle
piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è
formato da due o più sostanze albuminoidi, con acqua e sali. Non si scioglie
nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed
ha granuli che vanno alle pareti della
cellula a prendere aria ossigenata A
questo innalzamento giovano molto gli acceleramenti dei processi chimici che
sono cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del
prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione
superiore. Una molecola di albumina ha
72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale
parecchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. Questi granuli sono per lo più di materie
proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali e luce ed a nutrirsi di
polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle circostanze,
finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le
combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le
viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicurezza.
Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro
nucleo. Il protoplasma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe
indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di
potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non
assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa
la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende.
Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto
all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del
protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia
granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre
molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di
granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o
spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del
protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre
allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a
pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene
guastata, non si accomoda da se, non si provvede da se di acqua e di carbone,
ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non combustibile sotto
la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece
di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé
stesso, come una società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie
chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di ossidazione.
Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale
particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla
Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima funzione delle Unità
confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome), simili alla propria
cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve se non come
elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno
e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le molecole
inerti e semplici in molecole operose e composte, ascendendo (se l'ambiente è
favorevole) a maggior piacere di vivere. La cellula scompone le materie
incontrate, trattenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e
respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e nella sua
chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma
è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se.
Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia,
divide le sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla
cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai
granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po'
di fosforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti
granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata
Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma
(rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma
cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di
fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie
contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la
cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la
Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni
di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle
piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva
in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione
meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno
che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +V2 + 7^ -b 78 4716
ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli
Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo
assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne
derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita
incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. Se si raccoglie in uno
stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si vedranno
cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di
colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di polvere vegetale, facendo
una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la
Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano
struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando
col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta
cellule: è un plasma semifluido con granuli che assimilano e si nutrono. In
questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa
la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza
all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco
a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima
che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono,
assimilano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia chimica.
Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio
della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le
forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel
respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è
utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si vengono formando,
in cui trovano piacere. Nessuna bestia
mangia erbe velenose. Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di
giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e
flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si
gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli
e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si
differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma
in clorofilla. In essi si vede la genesi dei due regni animale e vegetale.
Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile,
sensibile, la vita ameboide si ritrae in pochi punti e si rivivifica solamente
nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda
dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene,
benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali,
prevalendo in esse la clorofilla. I Protozoari o Protofiti non sono organismi,
perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il
contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano,
vivono in società e spiegano i loro pseudopodi, tendono ad impadronirsi dei
frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri
e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo
piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle
piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le
reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di
platino nella fabbricazione dell'acido solforico. I fermenti aerobi respirano
l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto
con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una
vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che
li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è
però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei
digestivi, degli idratanti, che saponificano i grassi (come la steapsina) degli
ossidanti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi
(sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne
l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei
germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo
zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma
vini cambia l'al-cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe distruggono
aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le
circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei
bacteri sono anaerobi; tolgono l'ossigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno
all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono
fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le
terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel
1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha
scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante
coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingrassare la terra da
se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe
me81 diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto
l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava
perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura
intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano
affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu
detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di
operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la
filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la
Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio
del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il
loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una
Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a
dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di
Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione
dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,,
(che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma
che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le
medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere
vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata
in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi
superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole
forze chimiche, e tanto meno con le sole forze incidenti dell'ambiente, al modo
Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza
unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ottenuto nella
cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il
sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es.
la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti,
venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la
libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a
tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei
Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore
Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai
diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte
funzioni specifiche, e quindi si vanno formando differenti strutture. Però la
chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare
che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni
cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi
in due) ha una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività
nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di
carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa
celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti
verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le
piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo
piacere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivismi di amebi
protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si
sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere
gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere
disturbati. Invece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo),
cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La
natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi
vediamo le sole costruzioni e non i microscopici costruttori. Questi
differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi di clorofilla con
pigmento colorato in verde, per impedire la soverchia ossidazione dei carbonati
e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno. Della clorofilla due
terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto.
Essa respira in modo contrario della parte animale delle piante, cioè assorbe
il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi.
Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe al sole e si
dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le
coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora a lamine, ed ora a
rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si ingrossarono, mentre il
protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline col gas acido carbonico
penetravano per endosmosi attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma
animale andava intanto concentrando il senso della coesione e delle chimiche
combinazioni in modo sempre più perfetto, ed arrivava così a fare dei punti
sintetici di amore ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si
affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo
XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale,
perchè è piuttosto una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula
la segmentazione in due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un
modo di associarsi divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono
così formandosi dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino
a cento metri. E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che
questi. Tutti sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui
noi viviamo, furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse
non tutti sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre
portate dai fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al secolo (in
termine medio) e misurando lo spessore dei sedimenti sottomarini che, per le
sollevazioni delle Catene montuose
vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola
che sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o
Arcaica Laurenziano 10 Milioni di anni Cambrico 6 > Siluriano 7 Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano
Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias Giurese
Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene Una volta il sollevamento delle Catene
montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto
in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui
Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino,
dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che
obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la
j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele
una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande
e nelle Montagne Rocciose: oppure 6 In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le
roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo. Quando
le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a
poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si trasformarono in
radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della
nutrizione, della respirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e
graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura
fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o
diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle
volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee
soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi
continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste
ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' Essai sur l'Orogénie de la Terre, 1895,
Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desidera che essa
venga accolta dalla maggioranza degli scienziati anzi crede che questo dovrà
verificarsi in un tempo più o meno prossimo.
Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i
ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di
anni fa, dice il Falsan La période
glaciaire, pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè
sviluppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa
soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf
Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare
sahariano e al modificarsi della corrente calda dell'Atlantico dalle Canarie
alla Norvegia ed all'America. —massima della vegetazione. Però la minima parte
della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia
di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie,
nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la
copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la
vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di
queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee
(numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra
fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua
contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così
grande, che ne sono formati degli strati estesissimi prima della Epoca Terziaria.
Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri
dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime
manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore,
animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante
primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino La psicologia dell'avvenire, ma è una legge
sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più
semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi.
In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle
appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi,
produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono
nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi
composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si
crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si
moltiplicarono assai, restando innocui finche vivevano all'aria. Nelle Alghe
superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due
sessi si associarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei
posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per formare
i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero
piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli
stagni. È noto che quando i Bacteri
penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne
alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne
studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli
che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte
migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro
alimentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti.
Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0°
gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a
16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno
(meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un
sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così
detto Mare di luce Abbe. Il Koch arrivò
così a scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della
peste; riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono
delle masse estese dette Sargassi. Alcune Alghe come la Macrocystis arrivarono
alla lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano
asciugandosi, rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasformarono poco a
poco in Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le
piante femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa
l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie
fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a
fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di
spore, anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante
femmine con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle
infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a
Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono
tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro
muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue
caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei
paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi
tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi
innocenti bacteri per farne in Germania delle lampade a luse verdastra-azzurra,
le cui onde sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per
parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qualunque lavoro.
Invece nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa
ragione la carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari,
giacche la causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei
Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni
lunghi si moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare
edifìci e magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei
'protalli. Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con
generazione alternante: l'una intenta ad accrescere la nutrizione,
riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la
morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le
Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli: ma oggi si
sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano
separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più
piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio,
diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evoluzione
morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal
periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in Crittogame ed in
Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le
Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni e lasciarono,
laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene quattro quinti di
Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le
Conifere e le Cicadee. Nel Trias cominciarono le Angiosperme. Dopo il periodo
giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in
altezza. Fin dalle prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e
fatto incoloro e sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il
tallo poi fu ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono
dominando si divise in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente
nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé) lo sporogono nascose il tallo facendo
spore maschili o polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si
organizzò più in corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo
pollinico e andò ad impregnare i corpuscoli dell'archegono. Le foglie dello
sporogono furono trasformate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati
petali, stami e pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle
Crittogame. Nelle Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il
sacchetto embrionale contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un
piccolo protallo che rimase nell'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il
polline andò a fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme.
Il polline è un surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto
di ainebo, ma ne ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria
nutritiva; è un perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la
robustezza. In questa lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente
che la psicogenia è fatta dalla sensazione piacevole e che la somagenia non è
altro che un risultato della psicogenia ripetuta con perseveranza. La Natura
che si faceva nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra.
Nelle antere, nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono
relativamente caldi e respirano più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo
ha molte cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco
embrionale, composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite
dalle vicine: una di esse farà il germe con due cotiledoni che diverranno la
radichetta e la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in
tutte le parti giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale
permanente: ma non vi riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle
Gimnosperme il protallo sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla
maggior parte delle specie vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni
perpetui, nei quali per spore e per germorgli si gode una riproduzione più
diffusa, benché i germogli non si stacchino dalla pianta madre, come facevano
le spore delle Felci. Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di
altre specie meno comuni nel clima temperato, si moltiplicano per germogli,
quanto per semi perchè spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In
generale nelle piante attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed
è rara la generazione alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle
Fanerogame le parti giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti
sanno che nelle Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di
produrre una pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle
foglie parte dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti
che ne derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle
Meduse ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si
riproducono senza nozze. Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami
alla radice, e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il
fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con radichette,
con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente
nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante
(come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore.
L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della
sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn
variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le
funzioni variavano subito; poco a poco la funzione che era secondaria,
diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed
oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La
maggior cernita sta nelle mutazioni del sistema riproduttivo, più che
nell'adattamento all'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli
allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di
somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione.
L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa,
origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si trovano
reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la
pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina,
nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e
consumano molto ossigeno riscaldandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto
ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). Le parti più vive sono sempre più
azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile, favorisce la
decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste
parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante
resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva,
si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti
in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li
digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. In tre piante insettivore fu
scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella
Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa
anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni.
La lenta Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni
nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle
ideeeterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione
naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo
nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e
prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per
sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la
moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici
sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più
si trovano verso la punta), assorbono per endo Sind Pflanzen und Thiere
beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più
presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e
sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice
e talvolta il ferro. Darwin assomigliava le radici a talpe, che volessero
andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel
terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli
nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi
e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla
intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi
sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie
il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa
la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione
notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma
assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono
l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili.
Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo
scompone e rigettando l'ossigeno mette
il carbonio in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto
l'amido (C6 H10 O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole
azotate, Di notte la pianta vive come un
animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia, restando
all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di ossigeno, mentre
l'uomo ne prende 14 volumi ed un passero 200 a 260. pigliando l'azoto dalla
terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi elementi
saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non saturate e
cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti gialli dei
cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il loro
pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono
l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il
carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è
fatta di C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63 A2 O 4. Nelle piante
acotiledoni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi
formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le
materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre
al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di
solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo
crescere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule
degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice,
il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la
luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto all'oscuro l'amido
si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata
insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'influenza degli alcali può
tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0.
Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati
ad acido cianidrico. Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i
gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli)
si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la
temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua
tepida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a
germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle
analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi
digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali
ascende nel fusto, sciogliendo alcune sostanze che trova nel passaggio e
diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma
dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate
sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si
ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la
corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si
coagula, come il sangue animale). Come latice empie i canali laticiferi
ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il
latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e
depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo,
formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia
delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano
le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei
fasci fibrosi vascolari arcuati sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni
il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste
Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti; e così
avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano
presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la
corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del
mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache
son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera
impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la
evaporazione, e non sono escrementi. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni
d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento
resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i
succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei
cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante
sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce
all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono
invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The
dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come una
macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la
morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno
interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle
animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle
basi ed ai sali.Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di
carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è
idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI)
ingrassano le piante sono fatti di una globulina solubile nell'acqua chiamata
myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il
glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è
alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive
pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti
lentamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo
nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro
acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Riescono
polimerizzando a fare alcuni principii aromatici. Una parte importante l'hanno
i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossidanti detti
ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle sementi del
papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della veccia, del
granturco, ci sono le steapsine che saponificano i corpi grassi ed idratano.
Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi è la
laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui germogli
e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la papeina,
fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali quante
funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi, distruggono
nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio, con lenta
combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si
moltiplicano le cellule interne e si organizzano, vi è combustione e
riscaldamento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si
verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo
indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la
clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva,
limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime
della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla
Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece
interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie
ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è
la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti,
diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Protoplasma, non già
dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le
forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di
specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di
fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni. Origine
psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo abbiamo visto
fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il contatto delle
cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere l'allontanamento di
ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e giova a sviluppare la
propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni forza organica ha la sua
finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura che si fa era, ed è ancor
sempre nelle specie vegetali ed animali sentire, desiderare e volere. Il
sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi lo seguono. Negli animali
più che nelle piante si manifesta la causa evolvente, cioè la tendenza di
elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse, operando e
dominando in relazione. Et mihi res, non
me rebus submittere amor. Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a
rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta,
e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di
combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali
superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la
respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. La
formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e
procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in
organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e
robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a
quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il
materialista crede che le Turbellarie non respirano, perchè prive di branchie,
che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno
circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione
dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per
virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per
virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma
il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene,
ma si compiono: e che ci vuole molto tempo a fare gli organi. La vita intensa
non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per
ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordinano le funzioni e formano
poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime
appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che
i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso: e
quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli
permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie
superiori degli Infiisorii si riuniscono
in una coda, detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli
vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti
degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi, o filamentosi, dai moti
oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle
piante; e quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle
nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia
più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie
proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è
Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia
di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle
isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella
stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso
numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si
ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi. Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino
scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati
dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale
da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli
stagni. La vita animale pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme
minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno
evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso: i grossi vanno a caccia
dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni
vegetali. Queste materie proteiche
vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con
poco risultato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi
piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando
mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per
respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la
quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono difettosi o mancano
del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea
viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' intestino. Quando una
funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo
leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare
opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e
sopratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente
attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le
successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui,
davano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben
nota della diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo
particolare. Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di
difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per
speciale combinazione, è trovato utile, i più stupidi animali arrivano a farne
una funzione, e ripetendola per varie generazioni in favorevoli circostanze un
organo efficace. Così i Bagni in origine segregavano un liquido viscoso per
farsene bozzoli; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui
rami prossimi, videro che ritornando più volte al primo ramo ed incrociando i
fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti geometriche, che all'aria
si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che
getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i nemici e ne appresero l'arte.
La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i
Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con
apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di gelatina, si fecero delle
batterie elettriche con le quali danno scosse violenti a chi li insegue. In un
Vademecum destinato alle persone colte in generale, per far meglio intendere la
multiforme attività della psiche, che va facendo e moltiplicando ogni specie,
ci sembrò utile di dare alcuni esempi caratteristici. Se una divinità inconscia
presiedesse alla evoluzione degli organismi o se questi fossero fatti dalle
forze incidenti dell'ambiente (che YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto
influenti), non sarebbe vero il fatto osservabile in tutti gli animali e
nell'uomo stesso, che le funzioni fatte con coscienza e ripetute, rendono i
moti più facili e più coordinati, omettendo gli inutili, per insistere sugli
utili, con teleologia sempre più chiaroveggente, interna dell'animale e non
esterna dell' Inconscio cosmologico universale. Quando la funzione, ripetuta
per alcune generazioni, ha formato sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi,
cessa il lavoro di convergenza che attendeva ad un determinato progresso
morfologico: la coscienza se ne ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni;
ma la coscienza e la convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le
106 circostanze, e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e
quando impara un mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un
fiume assomma le acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si
fa, trova i moti migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate
per fare i moti nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina,
come i soldati, dopo aver imparato l'esercizio dagli ufficiali, li continuano
da se soli e li ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si
fa poco a poco, perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'animale,
sente fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si
inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore
racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che
egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe
confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La
cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione
interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un
tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose,
nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni,
nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i
sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le volizioni: base psichica, che viene
dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne
dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il
neonato sappia ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti
poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La
funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza
nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli
impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la
Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per
fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet,
mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo,
ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per
convergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I
vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e
rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si
atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in
un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo
Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la
stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto
maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non
fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le
perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali,
perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri,
e le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano
sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento
delle nuove varietà coi vecchi tipi. La figurazione amorosa, separando ed
isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte
delle combinazioni di imagini e di sensazioni che ebbero gli Animali, e
sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei
propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli
animali superiori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase
dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e
vivamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la
più grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche
quando si va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne
citeremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di
specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così
diversi, così opportuni per la vita, nelle foreste, sui monti, sul mare, sulle
acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole
pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato
sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in alcune
specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i
nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o
masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole,
palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater
tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è
dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla
pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono
assai diversi: gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome.
E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di
natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un
mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore
del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio
calcare. In generale le parti mediane cambiano difficilmente. Invece le
estremità vennero adattate facilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni,
quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento,
desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da
Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio
di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra
esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha librato i fenomeni della
Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro
approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di
cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e staccandosi, formando la
testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e
Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio
erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. Come
dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni.
(Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai
piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini,
il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione
alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus
(che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei
quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i
Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo:
tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo
Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come
polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per
cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le
accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano
ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni,
abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni
membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane
inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione
bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio
che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati
Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche
forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili
roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più
energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E
le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari
nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel
cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età
Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo
Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già
Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Siluriano avevano un
sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o
centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano
diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea.
Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico
al Devoniano, abbondarono le Trilobiti, che sembrano essere stati i primi
Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi
estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi
e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e
formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel
Devoniano erano Felci arboree colossali, Sigillane e Lepidodentri) tutte
Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro H. E.
Ziegler: Die Descendenz Theorie in der Zoologie, 1902, Iena. -Piate: Das Darwinistische Prinzip der Selection,
1905, Lipsia. stacci, i Zoofiti, i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili
raggiunsero dimensioni assai notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri
e il loro tronco aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso
nei sedimenti di quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40
metri, con tronchi enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime
foglie; bastino questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si
movessero quei grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano,
Amfibi e Rettili divennero padroni delle terre boscose e delle acque dolci. Il
sangue restava freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso,
senza passare per i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per
lo più, a lingua secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo,
dalle Lucertole derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per
inerzia ed atrofìa le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè
vivevano sempre sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare nel fango e fra le alte erbe. Gli Amfibi antichi
erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi avendo degenerato. Invece
i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi arrivarono ad agguerrirsi
con squame e con corazze. L'apparato
velenoso delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono
materia gialla velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la
bestia afferra la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Trigonocefalo,
Najadi). Dai Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero
una parte delle costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti
della pelle che, senza permettere loro di volare, giovavano però a sostenerli
come paracadute nel saltare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi
non stanno quasi mai per terra, ma vivono sulle cime degli alberi o si gettano
nelle acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che
mangiano. Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole
della Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro
sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo;
essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie
potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra
le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese
si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie
affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio
dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero origine agli Uccelli,
diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si
allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e
volate ed innalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si
vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e
mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: "
Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. Anoor oggi
gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci.
Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di
circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un
prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in
tutto il corpo, con le cellule membranose, perfino nelle ossa, per il grande
esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido,
dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la
faccia a due mascelle, formando il becco, rendendo così impossibile la
masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo,
incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel
ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli
Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di
queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che
era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo
Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola
più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe
alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva
con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar
nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù dell'Argentina. Gli
uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e
dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi
rappresentano nell'aria quella caccia feroce che è stata continua sulla terra e
nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri di
una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o l'amicizia,
e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero delle
specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che vivono di
carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello dei
selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei
delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella
Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive,
e soltanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni,
così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più
quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando
non trovano da sfamarsi. I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi
nel Trias e ne vennero 3400 specie, Gli
animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre
quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli
animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si
fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli
Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati
meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si
allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte.
Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto
sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo;
così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che
impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati,
furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai
Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i
Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi
(Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori,
svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della
coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti
pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Pliocene
dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli,
digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé
nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e
nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la
digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere
i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli
Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati
sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe
cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più
alte delle Palme le Giraffe allungarono molto il collo; per nutrirsi di mosche
e di farfalle notturne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un
mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve
come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le allungò
in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le corna;
per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi
di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a stare dritte
sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'afflusso di sangue
al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza.
Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312
caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni all'Uomo ed al
Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica
mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a quella di queste specie.
Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente in nove mesi: Monerula,
Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto,
Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o evoluzione
dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione della specie.
Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo non cambia mai;
benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo indicati
parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la Omologia o
somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle funzioni, giacche
la modificazione degli organi per farli servire a funzioni nuove è stata assai
frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i molti incroci (cani,
sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le specie estinte o
viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante volontà l'uomo può
perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il sistema vasomotore,
il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i figli tendono al
medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e perfezionano il
corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali migliori. Vi sono
famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di pittori, di musici e
di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far attenzione a nuovi
oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e quindi a sviluppare
gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un risultato della
perseveranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne abbiamo addotte in
prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi per dimostrare che
dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò nullameno Schelling nel
1799 diede all'Inconscio la parte di fare l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo
riprodusse. Die Materie ist erstarrte
Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato. Ed Ardigò Voi.
IV, 269 Il contenuto di ciò che si dice
Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del quale è una forma. L'Infinito
inconscio fa l'Ordine nel mondo disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II,
235. La Unità ordinatrice dello
Indistinto assoluto fa la Natura, 247.
Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma in fondo vi è una
razionalità sapientissima, 249. L'
Indistinto Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine, 250. L'ordine nel caso, e il caso nell'ordine:
ecco la ragione della distinzione o formazione naturale, 129. Lo Indistinto è
Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad ogni distinto, 183. E Ardigò
conchiude che 1' Indistinto assoluto esclude il sopranaturale. E fa alcune
osservazioni al padre Secchi, cercando di provare che la Natura è infinita e
che l'Ordine viene da questa Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi
Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può
essere materia continua, che il mondo non può essere infinito. Dalla falsa
premessa che il mondo è infinito, non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare
il sopra naturale in sotto naturale non si può tirar fuori nulla, perchè
l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la
causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice volendo parere positivista. Ed a
tal uopo scrive, 249: La Intelligenza
viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto. I suoi discepoli poi
ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro
maestro: Marchesini ( Vita e pensiero di Ardigò, 1907, 338), scrive: L'umano
pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite,
succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre. E a pag. 259 ci dà questa
bella genesi degli Uccelli: La specie
della Gallina è un apparato fisiologico
riuscito, per aggiunte e modificazioni
casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del Vambiente. Qui dunque
lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il
caso, è l'accidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di
un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che
cosa è ridotto? Si vuol negare che venga da Schelling, da Hegel, da Hartmann.
Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire:
Potendo invertire le sensazioni che fanno il Me da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar
chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen sazione in se stessa è
indifferente ad essere oggetto o
soggetto, ed abbiamo così lo Indi stinto sottostante ad ogni distinto.
Indistinto po sitivo trovato per induzione.
Via i misteri della divinità, avanti la conti nuità funzionale della
Natura infinita, che si manifesta come
Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione ci dà il
sottostante indistinto. È questo il
Positivismo radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far
apparire come Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha
mai avuto una sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta,
indifferentemente Oggetto o Soggetto: nessuno invertisce il proprio Io nelle
cose o le cose nel proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai tentato
di spiegare l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché
con trovate come quella della gallina or menzionata. La meschinità dell'
Ardigoismo si vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e
l'Indistinto Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed
oscurità. La verità è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha
fatto nella lunga evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche
inconscia o passiva Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non
andiamo a cercare la causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle
nebulose, nello ambiente infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po'
più modesti e positivi, e cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le
cellule ed i primi viventi, e che sentiamo capace di modificarci e di
svilupparci ancora. Questo è il vero Positivismo armonico, pitagorico, Italico.
Come la psiche fa la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella
sua Crisi del positivismo ) stentar
tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il pensiero dagli
animali, mentre Ardigò d'accordo con Non
è una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati
scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si
muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il
caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il
proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filosofia)
scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè
sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere
nelle dottrine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte
schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, 250: L'Indistinto
è la nebulosa verso il sistema solare, è
l' Embrione rispetto all'animale adulto. 253: L'In distinto è la realtà unica
fondamentale della Unità e molteplicità
della Natura. 254: la realtà della psiche e della materia insieme. 260: L'or
dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto e del ritmo. Per l'Indistinto ogni
accidentalità è subordinata all'ordine
universale. Per il ritmo vi è ordine e
numero (tautologia). 296: A sostrato dei
due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi cofisico che ne è la ragione
esplicativa (mentre Ardigò diceva che l'
Indistinto non si può spie gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e questo è l'art. 6 del suo Catechismo). 331:
Il che cosa sia non si rivela che
sentendolo e si risolve nel Divenire che
è VEssenza dell'Essere (frase presa da
Hegel). E il divenire è per noi ed in
noi necessariamente sensazione. Marchesini non ha capito che, se il divenire è
sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le piante, le cellule e le
molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il suo Indistinto
dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. Io non l'ho preso (come Spencer)
dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero filosofico, e poteva aggiungere
tedesco. E infatti il Panteismo di Schelling ed egli non ha mai negato di
averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso assai della filosofia tedesca,
citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per cento pagine, e quando fu
accusato di essere Metafìsico, si schermì evasivamente (come diremo nel nostro
III Volume). Se prendiamo V Indistinto deìYArdigò non verniciato di
Positivismo,. non mascherato dal manto di pontefice dell'Ateismo Italiano,
vedremo che è una nebbia panteistica, che (a quanto egli dice) contiene in sé
la ragione della differenziazione e della continuità fra i differenziati.
Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene che la gran legge di formazione
delle cose è questa: che una linea si suddivida in punti infiniti (pag. 115).
Certo la linea è continua e contiene in se i punti. Ed è tutto. Questa è la sua
gran spiegazione. Chi non se ne contenta, non ha capito come si sono fatte le
piante, le bestie, gli uomini e pretende troppo dall'Ardigoismo. Ora questo
Indistinto nebuloso e vago non ha fatto, secondo noi, veramente niente. Tutto
era preciso e numerato fin dalle prime nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno
fatto l'ordine della flora e della fauna sono le Unità viventi, distintissime e
precisissime della Natura che si fa, che cerca di aumentare la sensazione
piacevole e di evitare la dolorosa, formando le più utili funzioni (e con la
loro ripetizione, gli organi), della digestione, della respirazione, della
sanguificazione o Ematosi, dell'assimilazione, della generazione. Per poco che
noi penetriamo nella genesi della vita interna, potremo ben convincerci, sulla
base dei fatti. Digerire vuol dire scomporre, macerare, idrolizzare le materie
ingerite e poi combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes,
1896) suppone che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità
generale dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione
digestiva dalla motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma
che modificando gli alimenti accumula energia, dall' Ectoderma che fa
tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca, faringe e cavità digestiva protoplasmica.
Ma nei Polizoari YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in
esofago, stomaco ed intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle
feci. In principio il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie
biliari: poi si riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura
che l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi
digerenti come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi,
negli Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un
vero fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed
epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità
generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro
di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli
animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale).
Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto
gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue
cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione
speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio
di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, secondo Ardigò,
è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima
dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti: la ghiandola, che era
pallida, si arrossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire
desiderare volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue,
che filtra attraverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le
ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto
reticolare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e
dell'acido lattico contenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una
digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il
sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per
accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono
finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo
gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una
finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di
Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed
evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa
anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali
superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa
intestinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. Gli animali, mangiando vegetali,
ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle
albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo
fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli
dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e
mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teologia
germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i
vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità
organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto
dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che
assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi.
Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal
tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie
dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare
veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono
mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e
per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule
linfatiche assumono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose
ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i
tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati,
composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa
8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando arrivano nel sangue
questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella
linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina,
fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio,
leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre
durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno
alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie
formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si
combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa
composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso
loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la
individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità
generale. Le unità dei globuli rossi debbono adunque essere formate da elementi
morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi sono
piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo
stretti. Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa entrare per due
terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può
ritirare ancora pulito: ma se il sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. L'asfissia
uccide i globuli rossi e Va notato che
(come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare
senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa,
mentre non sopporta la mescolanza con altre specie animali, locchè prova una
certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. l'ossido di
carbonio uccide la emoglobina del sangue ed i tessuti. La formazione del cuore
non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè
nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie
e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici
mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene
accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso
attribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e
\Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali
per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del
Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie
che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa,
che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia.
Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci
dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano
nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in
muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel
tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra
loro differenti. La chimica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice
Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende
Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse
albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie parti
del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i
muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le
accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse
per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni
distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della
linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere
e suddividere, distinguere e sotto distinguere non è fare da artista morfologo.
Dunque bisogna riconoscere che la Unità organica intima, il Noumenon reale, che
cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni essenziali del
digerire, del far sangue, della assimilazione, organizza le materie in modo da
mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria Vita, combina le
molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la funzione si fa la
compagine fisiologica, adatta a lottare contro le difficoltà ed a rendersi
indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere: è piuttosto
costruire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi sistemi di forze: è
unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà nella Unità. La legge
della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la divisione e suddivisione di
un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di assimilazione, l'animale
trasforma gli idrati di carbonio che mangia in glicogene nel fegato, in glicosi
nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido lattico nei muscoli, in lattina nelle
mammelle, in tunicina nella pelle dei Tunicati, sempre sotto la influenza del
sistema nervoso, che sente il dolore e il piacere. Lo stesso dicasi dei grassi.
Qualsiasi cibo prenda un animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio
Indistinto sopra o sotto naturale) nelle cellule adipose della pelle butirina
ed oleina, nel tessuto cellulare del ventre stearina oleina e palmitina; nelle
mammelle butirina e margarina; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure
nel chilo, nei gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi
grassi, quando.sono arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia
si specificano in sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei
materiali portati dal sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni
cellula, sotto la influenza del sistema nervoso, ordinato dalla Unità organica
dell'animale, dando origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove
sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione
complessiva, sotto la influenza del sistema nervoso, allorché l' animale non
riceve più grassi, né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le
sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli,
ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del
sangue, la quale pesa il doppio della albumina, ed è assai più complicata delle
albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava
dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole
dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione
di essere in fondo panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista)
ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione
indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così
impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo
di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far
l'ordine in generale e Vordine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma
il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non
può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua
intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di
studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va
isterilendosi in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di
casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo
oggi si sono dati alla filosofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann
(Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altrimenti, per fare codazzo al
rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni organismo
una origine del tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi
sopra). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come
credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto,
entra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora
è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano,
ossia nella filosofìa Italica. Si legga
la splendida Conferenza tenuta nell'Accademia dei Lincei dall'illustre
fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. Se no,
allora l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che
nega la unità intima di ogni organismo) se non si ricorre all'Indistinto
Inconscio divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo
stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile.
Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita
sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna
ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale
può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi
sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi.
Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi
nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il
plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero)
e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli
rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina,
lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che
intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione
circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il
sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo
molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette
sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe
ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato
alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come
la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di
vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili
od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi
fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così
anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono
formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari
liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di
una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua
emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di
aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in
piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La
funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e
perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali,
vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le
non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il
glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal
sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chimiche soltanto),
che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed
acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di
ammoniaca. 134 Il sangue sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico
che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato di urea, di acido
ossalico e di acido carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento
accentratore, si fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla
Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di
vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono
disassimilandosi, idratandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni
principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre
fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono
ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato a
rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare
abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di
vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le
guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da
irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per
cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e
da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi
nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni
capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il
nervettino vasomotore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione
generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori:
quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi
rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema
cerebro-spinale, si allargano, accelerando il corso del sangue. Nell'uomo sano,
bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa da
mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a
vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i
vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l'
inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi
o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la
sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno
dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità
generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la
Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la
somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri
della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono
in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto,
per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi dei quali ha
bisogno portano verso le uscite anche i
veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono
l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di rimanere attivi. La
circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I
vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per la pelle i veleni
ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del calore animale. Si
restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare.
Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare la salute; e la
Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta. La febbre è
fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini vasomotori
ed il cuore, e le arterie; alza la temperatura da due a sette gradi sopra la
normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli organi ad
eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le alterazioni
del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei
fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica
quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca
in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un
serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della
linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli
alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo
indurimento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o
Fagoceti che sono amebi atti a fare il tessuto congiuntivo attorno alle ferite
ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati della
milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i Leucoceti
corrono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici corrono agli
ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un processo salutare.
Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di queste guardie sanitarie
benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I quali corrono a prendere
quella parte dei tessuti che si è guastata per portarla fuori verso le uscite.
Nelle malattie acute scendono a milioni a purificare i tessuti, ed
agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le insidie dell'ambiente ed a
rendersene indipendenti, all'opposto di quanto pretende YArdigoismo. E sono
sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo e non dall'Inconscio
Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia sagace che viene
esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano leucomani basiche
dannosissime. Ma la psiche riesce difficilmente ad impedire il moltiplicarsi
dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi dei Bacteri e
specialmente le contagiose: I microbi anaerobi fanno escrezioni velenose che il
prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie venute dall'esterno,
che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna. Sono regali
dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di gravi morbi
è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati, che produce
una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione,
l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico,
che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno del sangue stenta molto ad
ossidare le cellule organiche. Le malattie per combustione incompleta producono
erpeti alla pelle, depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed
ingrossamenti del fegato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi
braditrofiche, ossia malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco
a poco, col massaggio e la ginnastica, la psiche può liberarsene. Tutti
conoscono la riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con
tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino
dell'occhio (se non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte,
e rifarne la parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori
riparano anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli
fanno un tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare
le cellule grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una
impressione morbosa ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti,
si fa una neomembrana, detta Essudato, in cui si organizzano nuovi vasetti
capillari, che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della
circolazione. Se l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si
liquefa, si cambia in pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un
corpo straniero è penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con
suppurazione per espellerlo; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti
profonde, dalle quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti
capillari nuovi, che formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo
per proteggere i tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari,
avviene lo incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si
empiono di concrezioni calcari che loro impediscono di crescere. I flemmoni
acuti della fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella
vescica e negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si
chiude, si organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi
delle sostanze velenose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni.
L'animale vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un
cinquemilionesimo di grammo. Due o tre
secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a lavorare nelle
fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro organismi in poche
generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per tisi è inferiore in
Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come dimostrò il prof.
Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando se ne lasci il
tempo occorrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i
Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a centinaia,
perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i bacilli di
Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città industriose
dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da provincie
Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia
o dalla Liguria dove è frequente hanno resistito assai meglio.Le malattie
croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva, ossia
meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton
(Inconscious Memory in disease, London) attribuisce alle cattive abitudini dei
tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri
persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge
sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma
l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e
la Unità generale invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che
traspira per la secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della
innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la
pelle per raffreddarsi) è il cacciamali per eccellenza, portando via ogni
acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il
sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro
professionale, o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione
sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un
muscolo che lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa,
mentre si rende più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E
siccome l'esercizio muscolare è sempre regolato dalla coscienza dell'individuo,
ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è
necessario solamente all'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma
a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle
cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti,
tutte le condizioni anatomiche, indispensabili al funzionare di
un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare
le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso; mentre chi molto
si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I
muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità,
l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è
mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni
salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a
manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una
natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente, regolarmente.
Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà
tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella
età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il football da ottobre
ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono la monotonia dei
sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non solo i diritti ma
anche gli storpi. E in pari tempo si conserva la tranquillità dell'animo, la
fiducia e l'allegria. In America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una
religione che chiamò Christian Scientism,
ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute;
guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia 142 di Ladies Cureers. A
questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono
curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si
conservano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle cure
mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e
specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno
accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo
nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità
molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di
Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle
quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci
e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali
non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il
Pouchet nelle sue Récherches et
expériences sur les animaux résuscitants
). Egli fece risuscitare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col
tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati,
delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di
carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor Educate nel Theological Metaphysical and Psychological
College di Boston. Il Finot nella sua
Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo,
guarirlo, rafforzarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista,
preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano,
rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei
Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da
secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati
dai crudi inverni, quando risentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco
ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci
entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il
piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa
possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la
vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte
altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono
l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben
conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non
mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la
Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo;
ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche
quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la
salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del
muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie percorse delle sostanze
più instabili, che sono delicatissime e dalle quali si formano i nervi e
servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a trasmettere sensazioni e
volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e
Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile
nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti,
concentrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o
gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei
Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa attraversata
dallo esofago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco
separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e
conservano come i Vermi la catena dei gangli: ma nella metamorfosi il sistema
nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I
Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello; e
nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto,
cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due
emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque
forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la
radiata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi,
degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei
Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente
e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la
più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno
cilindrassi, chiusi in fodere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza
nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di
albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre
sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che
stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore,
ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule
grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che
arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza
fodere; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio,
ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza
che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle
cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con
crescente facilità, finche diventano moti riflessi, ossia Natura fatta.
Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello,
dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi,
grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti
gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal
cloroformio, mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e
quindi di psiche passiva, ma recente, individuale, non ereditata (come lo
scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal
cloroformio. Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle
celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più
tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti,
sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi
ereditari non soffrono per il cloroformio
e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti
nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti peristaltici degli
intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della respirazione, la
contrazione dei muscoli, la defecazione, il parto, la regolazione del corso del
sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori. L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo
Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati
col lanciare frecce a falce al loro collo: essi compivano gli altri tre quarti
della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina
dorsale. Gli anestesici, cioè gli Eteri
ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. I nervi
motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi, essendo
contripeti, basta avvelenarne uno per uccidere l'animale. I muscoli si
avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente
che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta
imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'Inconscio non può fare mai
il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'organismo
animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che
esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la
prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori. La maggior parte dei
moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo
allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte
dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti
del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la
deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire
l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai
gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal sistema
rachidiano della spina dorsale, in cui, intrecciandosi i due sistemi nervosi
(del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne: due dei nervi
sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative
action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti
di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi,
divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle
cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è
fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla
periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la
bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran
parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro.
Però questa si continua nella grigia del cervello fino allo strato ottico e al
corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono
moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una
sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo
in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali
cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la
distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione
e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse
coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si disintegrano
la convergenza nervosa che fa la coscienza le reintegra, con una nuova
figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla
imagine difettosa, succede l'affermazione di quello che dall'animale o
dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine corretta o nuova. Per
sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo
a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap.
XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento
e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che
si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo,
come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in
ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo
spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori,
così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano
e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri
spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri
che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle
cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9
strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali
mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che
sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che conservano
nelle cellule grigie le più minute divisioni dello spazio e del tempo di quello
che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione,
si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che
dopo fatta questa, interessano per ravvivare nella memoria alcune determinate
imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera Unità
dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di
là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee
arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di
quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi
le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a
seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si
riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli
strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule
grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei
simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano
e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno
le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme
nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento
delle cellule grigie avviene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di
materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni
astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le
imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo
delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte
dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite
pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece
quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose
vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della
Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce,
ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il
Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il
lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella
carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è
impossibile stabilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il
cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto
regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i
cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue
arterioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati
corticali ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il
cervello alto, ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata
nevroglie, sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie,
del cervello alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati
consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello,
avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale
contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad
un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce.
Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel
Volume Secondo L'Uomo secondo Pitagora. Il cervello umano pesa un solo
quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie
carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600
nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili,
come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi
e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che
pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre.
Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero
del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli
abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo
vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora alcun
organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile
si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il
protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia
assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i
nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a
morire, è quello che governa la circolazione del sangue e non si arresta mai: è
il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo
che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi
movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si accelerano e si
pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue
(arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una
vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto:
diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la
orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa
la quarta cavità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come
avviene la contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma
assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo
molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino.
Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille
intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il
sangue porta continuamente ai muscoli carbonio, sotto forma di grassi e di
zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non
consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue
arterioso; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e
poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati. E la combustione non
avviene I prodotti della combustione
completa dei ternari sono l'acido carbonico e l'acqua, e il prodotto della
combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma se la combustione fu incompleta,
il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e quello dei quaternari o azotati è
l'acido urico, la creatina e la creatinina, cause di grassezza, di artrite, di
gotta, di renella, di calcoli orinari e di nefrite. se non allora che la
Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli
invisibili sarcous produce quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che
ha fatto i muscoli, è quella che li fa contrarre. La combustione dei grassi e
zuccheri è la principale sorgente del calore animale. La contrazione è atto
vitale psichico della Unità intima volente, esercitata nella syntonina di cui
fanno parte i sarcous. Invece la elasticità, per cui le fibre muscolari
ritornano ad allungarsi dopo che erano contratte, è una proprietà fìsica della
fodera delle fibre muscolari detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i
moti, li fa diventare abituali ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei
sarcous, detto myosina o syntonina, che sta fra le fibre, si coagula come il
sangue. I muscoli viventi sono elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo
affaticato non si contrae più. Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano
2 minuti per riattivare tutti i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di
lotta ne prendono 2 di riposo e così continuano per parecchie ore. Ogni 3
minuti l' Unità intima raccoglie la sua energia per tornare a gonfiare i
sarcous. II sistema muscolare è una batteria di archi intrecciati; ma chi
lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più delicata. Due uomini della
stessa musculatura, lavorano molto diversamente, secondo la loro volontà. La
differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a
contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell' influsso nervoso 155 dal quale
furono fatti, essendo il sistema muscolare una continuazione dei nervi motori.
E va notato che lo stesso nervo motore può contrarre il muscolo e può anche
inibire il movimento, secondo che comanda la Unità intima, per il bene del
Collettivismo organico. Il nervo motore comincia a deperire nella cellula
grigia cerebrale, perchè la volontà è centrifuga; mentre i nervi sensibili
cominciano e deperiscono a partire dalla periferia, essendo emissari del
cervello, che devono prendere le impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni
si diffondono; mentre il nervo motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un
po' innervati continuamente, quanto maggiore è la Energia della Natura che si
fa; e sono quindi elastici, perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano.
Marey dice che, se i muscoli non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro
decuplo, con un risultato ridotto al decimo. La loro elasticità si può far
crescere con la Volontà e con l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente
quei lavori di equilibrismo, di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali
difficili in alcune professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà
si può vedere sui corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle
ginnastiche: ed è un complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare,
di arterie, di vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza
movimenti impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima
Volente. Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati,
gli equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i
pròtagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove
circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca,
Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad
innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono
incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli
hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare,
col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche
anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola
sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà.
Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre
liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella
vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si
contraggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai
delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran
simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo
l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per
sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla
colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi'
intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti
dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della
Unità intima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una
interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali,
riesce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta
dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la
laringe ha due corde che fanno le note basse, vibrando in tutta la loro
lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura
che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che
vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si
contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un
soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono,
senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare
questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note
per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni
fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il
Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è
possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze
fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa
ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e
precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad
esercitare le funzioni essenziali: digerire, respirare, sanguifìcare.
assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore,
bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli
altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli,
nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La
Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi
di cellule, formati sentendo, desiderando e volendo. Fra il sentire e il
volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto
Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo
quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco.
All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie
abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non
divengono Natura fatta della specie, ma quelle continuate da molte generazioni
rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso abbiamo
distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di poche
generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere la
imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i
tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1
muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere
irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei
muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso
respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita,
appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità
conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli
perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione,
delle secrezioni, della sensazione e della locomozione clie vanno complicando e
perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a
quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner
una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie,
in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i
coefficienti del passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni
di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si
riproduce raccorciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di
fruttificare il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie)
si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna
precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco
filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di
un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge,
una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso.
Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli
assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati,
di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale
inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una
libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente,
necessariamente; ed anche le mostruosità, le forme teratologiche hanno sempre
cause straordinarie di disordine. I moti una volta imparati vanno senza
imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici:
camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non
quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si
può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la sostanza
grigia, in cui deporre e conservare le indagini. Hering professore a Vienna è
stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale,
progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione
all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della
natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta
confusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o
statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo
avverso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe
straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come
può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il
dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la
loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia?
Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea. In realtà non vi è affatto questa pretesa
lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la
figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea,
Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale
fra la Natura che si fa, libera, e la natura fatta, necessitata restano
impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che
dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai
sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in
una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del
sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale
dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le
generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta
con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza
dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono
vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della
struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e
nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato.
Platone vedeva il divino nell'Amore sessuale, perchè (egli diceva) prende tutta
l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la trasmissione della
Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo,
converge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per
germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali.
Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i
nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei
Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un
progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare
un individuo superiore, e tanto meno a dar ragione delle forme seriate, ossia
disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono
necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione,
volontà) a trasformare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione morfologica
per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali inferiori
stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente a
diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano
fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi
e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al
genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ricorda il primo individuo
delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli
Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo
anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi
{Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi
sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono
migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando per
godere le nozze, le fanno. Un siconoforo è una federazione fluttuante di
Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I Polipi del
Corallo formano grandi colonie; ma anche fra essi vi è VAnemone che vive
isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come nei
Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi pure
da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli
Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni
anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio
nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano,
fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe,
nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre
piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna
le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede
nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono
con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione
si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare,
portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i
Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi
dai nemici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non
mostrano mai di essere segmentati, e possono anche non essere derivati dai
Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti
tagliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I
Crostacei derivano in gene164 rale da specie che avevano venti segmenti. Il
Peneonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21
segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti
tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse,
quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo animaletto, finche
mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà
crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sempre una crisi di
maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi
della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il
guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da
succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api,
nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si
osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile
senza le forze che accumulano le energie delle precedenti generazioni. La
concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli
ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è
maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la
femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes:
Evolution of sex. 1890, Londra). Nella Biologia taurinensis di A. Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice
che chi vuol spiegare fisicamente la vita, prende sempre per isbaglio delle
analogie parziali, come se avessero valore totale. L'ovulo nasce nella donna
dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei tessuti più bassi, e più antichi
dell'organismo. Anche gli spermatozoidi nascono dal tessuto epiteliale dell'
uomo. L' uovo fecondato del maschio non si sviluppa in modo molto diverso dalle
uova partogenetiche. Loeb e il prof. Delage della Sorbona 1906, trovarono il
modo (con soluzioni saline e semidolci miste a tannino), di provocare la
fecondazione artificiale delle uova di alcuni minuti animaletti marini,
alternando la coagulazione (con acidi) e la liquefazione (con alcali) delle
albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha molto citoplasma ed un pronucleo privo
di corpo centrale. Il maschio ha un centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun
citoplasma. Il centrosoma maschio si biparte fecondando la femmina. Ogni
organismo superiore esce da uno spermatozoide che, nel suo mezzo milione di
cellule, riunisce l'idea vitale da svolgere, ossia la psiche passiva degli
antenati, in sintesi morfologica, che incomincia il suo impulso nell'astro del
coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale in tutte le specie superiori, ma ben
diversa è la psiche passiva che riceve dai genitori. Entrando nell'ovulo lo
irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula uovo principia a segmentarsi ed
a sviluppare (con struttura semifluida) l'embrione, dotato di una psiche
passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto in una delle vescicole
dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue, gonfiandosi e rompe il
follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo mestruare la scimmia e la
donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è piccolissimo, ha quattro
parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il vitello pieno di
granuli, e fra queste la vescicola germinativa di Purkinje e quella embrionale
di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed il guscio calcare,
dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno, covato tre
settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti dalla
placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono parecchie).
Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti, che sboccano
nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano strati di cellule di cui le
più centrali allungano una coda e divengono così Spermatozoidi. Brown Séquard
iniettando sotto la pelle dei neurastenici l'estratto dei testicoli di giovani
animali fatto a freddo, ne guarì molti. La spermina iniettata sotto la pelle è
tonica per due settimane e non fa mai male. Lo sperma contiene un numero enorme
di spermatozoidi ed uscendo si accompagna al liquido delle ghiandole del canale
eiaculatore, al fluido delle ghiandolette del prostata ed a quello delle
ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo sperma cristallizza alla
superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi estinguono i movimenti degli
spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li conservano. La testa dello
spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il corpo è fatto da materie
albuminoidi con lecitina e cerebrina, e il 5 °/ di fosfati. La Psiche ge
Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte dal trasformarsi delle proteine
nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone, il testicolo cresce a spese
della neratrice è affidata a questi elementi chimici, investiti dalla Volontà o
Legge o Statuto sociale ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato,
incomincia alle mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di
globuli bianchi e di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un
composto di caseina, di lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome
il sangue non contiene caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono
segregate nelle mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i
globuli butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte
si altera: ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre
il sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte
le cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione
che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline
come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro
della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le
pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo,
intanto che gli animali non mangiano. Secondo Bang, invece di protamine vi sono
istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più
tardi in protamine e proteine, che formano le teste degli spermatozoidi. Del
resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di
tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli
ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro
di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma.
Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè
il Mesoderma invaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni.
L'Esoderma si sviluppa in sistema nervoso muscolare, con un primo tubo di
nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio.
La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un
corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati,
facendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che
diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione:
è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di
fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte
difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la
genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli
organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le
forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo
zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle
fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono diversamente.
La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di formazione delle
specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La Unità infima nel
Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo organico, ed è
piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La sensibilità organica
(che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita animale, tenendone
gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici) detta in greco
Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i muscoli,
nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della
respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da
milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e
della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è
ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità.
Il carattere viene dal complesso di tutte le cellule nervose, mentre l'
intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è
dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali.
Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime
stasi sanguigne; nella salute si gode facendo una ginnastica, aumentando la
circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra.
Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due
secondi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il bilancio dei
vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti
dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi
all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze
dell'individuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è
abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate
nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di
minuto secondo dopo l'eccitamento. La differenza del tempo dal sentimento alle
sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il cervello
e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini, nella collera
quelle del fegato, nelle inquietudini i reni e la vescica depuratori del sangue;
nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei sentimenti che deprimono, il
cuore si rallenta e nel primo istante si arresta. In quelli stellici il cuore
batte più celere e le arterie si allargano, il cuore si vuota più facilmente,
nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il
popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I sentimenti di piacere e dolore,
salute o malattia, coraggio o paura, simpatia od antipatia esprimono il
rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte dipendono dal sistema
nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini vasomotori. Essi promuovono
la Evoluzione destando i desideri e facendo la convergenza sulle sensazioni e
sulle imagini che più giovano a preparare il proprio vantaggio. Esprimono a
fondo la Unità numerante, perchè consistono dal principio alla fine in
confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero astratto) e sono comuni
agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie vie, i cibi, le
bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi, le risoluzioni
importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono suggerite dal
sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del sentimento il
sistema vasomotore modifica la digestione e la secrezione della saliva, dei
reni, delle lagrime, del latte ecc. Il
piacere ed il dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico,
dell'Intensivo continuo nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le
Energie, la disarmonia che le cocostringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni
piacere aumenta la forza muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La
felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla
ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua
nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che
progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva
Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo
intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione
armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co La gioia aumenta la
secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra
munte da mano straniera non danno latte. nosciute e già provate: e questo è lo
stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni
allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed
asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune è sempre
piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che
sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo
stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale
aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il godimento del
tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di forza, che non
esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più celere, le
narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda, i muscoli
si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca, tutto il
corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della tavola,
dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la
contemplazione di un capolavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di un
progetto industriale promettente, o l'ascoltazione di una musica che
gradevolmente ci molce l'orecchio. Le teorie che fanno derivare i sentimenti
benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false. L'amore
infatti pervade tutto l'universo e dà maggiore piacere che la malizia ed il
calcolo egoistico, anche ai più vili animali.
Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della
innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano
piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità,
specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non
confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la
respirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte
può far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto
cagionato da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto
per cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da
ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà per cui si entra nel modo di sentire
dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette all'unisono con quella
di colui che lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei
muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V
innervazione e restringono i vasi. La paura fa impallidire perchè restringe i
vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il
terrore inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito
deprimente, è un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo,
sconcerta ogni funzione vitale e si comunica altrui, come gli altri sentimenti.
Il disgusto deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al
pneumogastrico, promovendo moti ri Ed è comune anche fra gli animali. Si sono
visti vertebrati di varie specie rifiutare il cibo e morire d'inazione per aver
perduto l'amante, cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche
ed anitre zoppe sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi
intestinali e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto
hanno un fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono
movimenti di avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è,
perchè lotta sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si
intellettualizza, genera l'invidia, e il risentimento, composti dallo istinto
aggressivo e del calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per
evitare le vendette e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che
hanno le varie specie di delinquenti non vanno ascritti a necessità ereditata
(benché si erediti il carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni
nuove. Esagerando le ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole
di un gran numero di osservazioni personali sui delinquenti e sui pazzi,
sovente male applicate, Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a
moltissimi italiani viventi che i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i
nostri delinquenti sieno uomini che ritornano allo stato dei loro antenati
selvaggi. Però non è così; se vi sono e vi furono popolazioni selvaggie feroci,
ve ne sono e ve ne furono molte pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù,
fra popolo e popolo va ascritta più che a nativa malvagità, alla debolezza del
pensiero ed alla incapacità di estendere il proprio ideale sociale al di là di
certi limiti, di fiumi, di monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini
di lavoro. Infatti (come osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i
delinquenti convicts, deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono
in una sola generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda
democrazia del Common Wealih of
Australia dove due città più popolose di
Roma e di Napoli (Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di
beneficenza ed hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa
l'anima: ma è l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente:
chi è triste rende tristi i suoi confabulatori, chi è allegro tiene allegra la
brigata, un buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le
carceri, il domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le
conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il
Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la
causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia
passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che
si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che
forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare
la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della
lorocarriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si
dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo
fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico
del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il
disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è eccessiva, ora
insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze
dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane,
l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina
fatalista, attribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di
cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato
più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale,
quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai
parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime
et folie, 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare,
l'uomo può prevenire o contenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il
controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne
l'atavismo che fa i criminosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi
Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria
amministrava onestamente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l'
ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a
Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si concedeva per favore a chi
obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli
ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il
Colajanni assicura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in
giudizio); nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi,
venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti
dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A
guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i
sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le
cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio
coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a
convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva
inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi dirigenti
erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i
feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e
l'esaltazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di
vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele
ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille? Chi non sa
quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad
infiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando
era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i
suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol
uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento
religioso, come lo ispirano i sacerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi
negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così
basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al
levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo
dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le
cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma
non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono
supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al
culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la
Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole,
nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli
animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche
cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati,
dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo
odierno ci mostra con quale facilità uomini anche istruiti, ma inetti a
pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro
influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi
coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i demoni a
desistere dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le
tribù turamene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti
dell'Africa credevano tutte che, perdendo la coscienza e lasciandosi ispirare
dalle potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei
dei popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci
d'ira e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è
propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei
Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro>ehesi, dei Cafri e dei
Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico
consisteva nel considerare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di
prima e come realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei
Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna
tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende
di grado e diviene più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri
magici, nel mentre si prega come persona a persona e già nei più antichi inni
Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si
accende per la speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e
per conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si
fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il
Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei
Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto
il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull'
Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici,
primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e
nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astrologia dell'Asia. Ra,
Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani,
che insegnavano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del
fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole.
Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi
e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o
illusione del mondo. Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un
Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni.
L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si
estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove
fioriva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli
Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore
dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti,
anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo
Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si
prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya
o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio
del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva
fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che
contrasta coi bassi ideali di ricchezza e di potenza dei sacerdoti del suo
tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari
di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia,
intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la
universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a
svincolare da ciò che è illusione, interesse, vanità e superbia; ma contempla
il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente
nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, speranza,
che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari.
Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si
esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del sentimento.
Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart, L'Italie
mystique, 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non conoscevano.
Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione francese, che
rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito:
Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei geni della
scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento, centro
motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non s'imparano
da pochi, ma si comunicano a tutti. La unità
numerante nella Volontà Se il Sentimento è il governo di ogni Collettivismo
organico animale, la Volontà è il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i
nervi motori e per soldati i muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte
l'ordine, e per il fascio piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il
centro ovale arriva alla capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi
striati (sul dinanzi del cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come
due uova 12 di tacchino e rossi, formati di cellule grandi grigie poligone.
Ogni corpo striato dirige i movimenti del lato opposto. Al corpo striato
seguono il peduncolo cerebrale ed il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i
nervi motori ed i muscoli. L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto
dalla attività del cervello e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà:
Questo fattore psichico è il yero motore dei muscoli. I moti riflessi sono
effetto della Volontà degli antenati diventata meccanismo. I più invariabili
dipendono dalla spina dorsale. I riflessi cerebrali si adattano a complicate
reazioni. I sensori motori vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati
ottici. Ferrier (The functions of the Brain), vide che i centri inibitori
impediscono la distrazione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in
disturbi viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne
contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a
scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere
solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione
illimitata inutile, una diffusione ristretta e limitata al movimento che serve
al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, La
Volontà non può essere Elettricità: come dicemmo sopra, perchè va infinitamente
più lenta; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari
muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a
vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si
moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso,
ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del
meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII
sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la
Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non
manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si
fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre
la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi
sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti
riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora
l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della
imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli
antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di
processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che
l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura
nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto
nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta
la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la coscienza si va
concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono
sviluppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e
piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano
facili, finche si resero moti riflessi irresiQuesta genesi della Natura che si
fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma
nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano
l'individuo e riducono la coscienza ad un'astrazione, risultato del processo di
antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti dell'ambiente
per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire, volere e
pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere, Voi. I, 141
a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. La coscienza non è altro, egli dice, che l'
insieme delle rappresentazioni o esterne (dalle quali si astrae il il concetto
di materia) o interne (dalle quali si astrae il concetto di spirito o di
anima). Il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti
esteriori, non ha luogo per intuizione immediata: ma è un puro effetto di
esperienza, per la quale ne facciamo poco a poco l'abitudine. Dunque non vi
sono schemi a priori dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono
tutti, anche il Me, prodotti da abitudine empirica. La coscienza è un risultato
delle forze incidenti. Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il
soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non
un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è
altro che un astratto che si chiama Anima, è instabile, e segue le variazioni
logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti. Non vi è
differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero: Gli atti volontari
altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per errore (pag. 180).
Le facoltà rappresentative, affettive e volitive, sono solamente combinazioni
variate dei medesimi elementi di sensazione, come altrettante parole formate col
medesimo alfabeto. Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono
tutte sensazioni o ricordanze di sensazioni, e dipendono dall'organismo. Così
l' Italia non si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni
garibaldini e alle masse: no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che
spingevano Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio: Non ci ritiriamo: qui si fa l' Italia o si
muore. E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il
coraggio e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti, sentire, pensare,
volere: tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri:
e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon
capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo
pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa
andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i
marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze incidenti, come un
trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il
Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che
seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero
fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia
allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella
di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva
trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole
quello che facciamo noi? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro
l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che
vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò:
e una eco della gente che lo circonda. Sergi poi, nella sua Psychologie physiologique, fa derivare gli
atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la
volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per
cercare una via nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe
dall'attività automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile
proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi
non si sarebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente
voluti dagli antenati degli animali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà
uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi
che vanno per necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi
nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede
che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana,
attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio alla epilessia
larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte
di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale
epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu,
non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata
anche all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese
Tarde, il quale la segnalò nella Reme Philosophique come profonde et habituelle
distinction. Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della
libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le
esigenze del Determinismo; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri
filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè
B. Perez, Le caractère de l'Enfant à l'homme, 1892, e Fr. Paulhan, Les caractères, 1894, opposero egregiamente i
padroni di se stessi, ossia gli uomini riflessivi, che sanno sistematicamente
inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai
suggestionabili, ai deboli, ai distratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a
coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze
incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza
carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri
caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V
intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso;
i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili,
meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed
ottimisti. Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti
e li dicevano base di quattro caratteri: il sanguigno leggero, versatile,
corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano
poco e difficilmente. Le divisioni fondamentali dei caratteri sono date adunque
nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento, pensiero e volontà.
Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare
che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio
(elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno,
(elemento che si combina cogli altri più facilmente); quelli senza carattere o di
semicarattere all' Azoto (elemento indifferente ed inerte); quelli finalmente
che pensano più di tutti, non hanno naturalmente corrispondenza nella natura
bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come
Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi
caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e
profondo; il collerico che ha molta imaginazione e passioni intense,
corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca
imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere.
Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il
muscolare che è una varietà del volitivo. Perez classifica, osservando i moti,
in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di
associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni elemento, desiderio, idea a
suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure
Janet, Des caractères dans la sante et
dans la maladie. Le
conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc.
lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli
scopi. I cangiamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non
sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare
questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la
politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento
indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie,
alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere
fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento
ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide
che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché
essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il
mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che
meglio degli altri pensatori lo interpreta, osserva che la Volontà è la vera
causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con
l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo
di agire delle energie cimentate: assimilando le forze della natura alla
volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi costante dei fenomeni, che ci
assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e
con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e
trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e
Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra
la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto,se si pensa che
l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto
centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una
carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno
schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere,
ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si
potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse
continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero
concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la
veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio sicuro nei
minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una
partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries
campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di
Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà
più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno
robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci
sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che
superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a
quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare.
Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli
concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vorrebbero divorare
stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed
essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: finche vanno nella bocca
del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla
propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora
scappare volando o saltando altrove. Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II:
L'uomo secondo Pitagora, Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre \ ma
viceversa grandi passioni, desideri violenti sorgono non di rado in uomini di
cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel lavoro e
nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del Riso, che non
ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne estetica, ma si fa
spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci colpisce qualche
contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche notizia gradita che
promette lo sviluppo del benessere nostro o dei nostri cari o quando si fa un
giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi non può misurarsi con
noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e mostra i dentini delle
Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e mostrando (come disse il
Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a scuotere piacevolmente il
petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a saltare. Il giudizio muove
il riso: ma è la volontà che scarica la forza nervosa. Un giovanetto che studia
Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l'
immortale Scappavia, desta l' ilarità irresistibile; ridono anche le
scimmie. Per suicidarsi ci vuole, oltre
ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili:
giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi
vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo
avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il
torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare ossigeno, vivifica il
sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le
idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di
superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa
generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli animali
inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si
annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità
nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra
l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni
meschinità.Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola.. La prima estrinsecazione
dell'Essere Divino (Spazio e Tempo) La
seconda estrinsecazione dell'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) 29 Id. III. La solidarietà degli Atomi in generale 47 Id. IV. La solidarietà geometrica
cristallina 58 Id. V. L'ascesa alle
chimiche combinazioni L'Unità
assimilatrice cellulare Come le Unità
cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore Origine psichica delle
specie animali 101 Id. IX. Come la
Psiche fa la vita interna sana Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI.
Come la Psiche fa il Sistema Nervoso
Come la Psiche fa il Sistema Muscolare
La Psiche generatrice... La Unità
intima nel Sentimento La Unità Numerante
nella Volontà. 181 ^ LBOL'20
AQUINO Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione
L. 3,SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L.
6,ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco
per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50
Frate Elia 2,— Vangelo di Cagliostro, con una Introduzione di
Pericle Maruzzi L. 3, Prossimamente: Gr. Uebini Arte Umbra. L. Fumi Eretici e
ribelli nell'Umbria. Dr. Keller Le basi spirituali della Massoneria e la yita
pubblica. La filosofia di Pitagora che è generalmente conosciuta appena
in alcuni dei suoi punti fondamentali come la metempsicosi, l’armonia
delle sfere, la scienza dei numeri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, e
in realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, un ve?v e
propìzio sistema di speculazione e di morale, la cui conoscenza ci è
tuttavia possibile soltanto in piccola parte sì per la scarsità dei documenti
scritti originali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più
dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì per le amplificazioni, le
falsificazioni, e le invenzioni che partorirono le fantasie di tardi
seguaci di pseudo-eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale
filosofia e non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera e ragionata
speculazione a cui si accompagna, parallela, ima conseguente e logica
ragione di vita, sì che, mentre da un lato potè attrarre, seducendole col
fascino delle verità da essa chiarite e coll’armonica bellezza dei
suoi insegnamenti. le anime di molti cui pungeva r assillante aculeo
della conoscenza., incontrò daW altro ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie
interessate o di volghi ignobili e sciocchi. Divulgata. se
non creata interamente ex novo, per opera di Pitagora, del quale, come di
Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa e coltivata prima che
altrove, sulle rive dell' Ionio nella Magna Grecia e in Sicilia., di dove
si diffuse, sebbene osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca.,
com'essa era., di principii che oggi si direbbero idealistici e
trasceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una sua
particolare armonica concezione della vita individuale e collettiva teorica insomma
e pratica nello stesso tempo., essa era ben atta ad informare di se
religione e scienza., politica e morale. consuetudini e leggi. Essa w
da molti connessa non pure con anteriori antichissime dottriìie della Grecia, dell’Egitto,
dell’ India e per fin della Cina, dalle quali sarebbe in tutto o in
parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di somiglianza, ma
altresì con la posteriore filosofia di Platone, in molte parti ricalcata sulle
sue orme. Conservata poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e
tramandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto delle scuole,
essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filosofi, quando, inalveatesi nel suo
letto altre correditi di pensiero, alimenta le speculazioni della teosofia
neoplatonica e nieopitagorica di Plotino, di Porfirio e di altri molti, e diede
origine a molteplici scritture, quali più quali meno profonde ed attendibili,
intorno alla vita ed ai primi insegnamenti dell’antico maestro. Da essa
infine trassero ispirazione alcuni filosofi della rinascenza, e qualche sua
derivazione può dirsi non del tutto spenta anche oggi.
Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque massime per noi italiani, lo
studiare la storia di questa dottrina e il ricercarne e ìiarrarne le vicende
nei vari tempi e nei vari paesi: poiché sebbene molti abbiano fatto studi
e ricerche in proposito basta ricordare fra tanti, i lavori di Bitter, Zeller,
Gomperz, Chaignet e Mullach, e, in Italia, di Capellina, Centofanti, Gognetti, Martiis,
Ferrari e Ferri -e benché da
tutti Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Hamburg, Zellbe,
Pythagoras und die Pythagorassage, in Vortràge und Abhandlungen geschichtlichen
Inhalts^ Leipzig, e Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2* ed. alleni,
par A. Raymond, Paris, Alcan, Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor.,
Paris, Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et successoribus, in Fragmenta
philosoph.. graecor.
Paris, Capellina, “Delle dottrine dell'antica scuola pitagorica contenute nei
Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di Scienxe di Torino -Centofanti,
Studi sopra Pitagora, in La letteratura greca, Firenze, Le Monnier -CoGNETTi De
Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R. Accad. delle Scienxe di
Torino, Socialismo antico, Torino, Bocca -Ferrari, La scuola e la filosofia
pitagorica, in Rivista ital. di Ulosofia, Ferri, Sguardo retrospettivo alle
opinioni degl'Italiani intorno alle origini del pitagorismo, in Atti
della R. Accademia dei Lincei, Rendiconti, -questi e da altri studiosi
non solo si siano raccolte molte notizie ma si siano anche esaminate e
discusse quistioni importaìitissiìne pure troppe cose ancora rimangono da
chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del
Pitagorismo. E fors'anche^ riprendendone i?i esame il contenuto, ossia
tenendo l’occhio alla sua storia interna, che è poi, per la filosofia, la sola
importante, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata
dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi validamente fondata e tale
da poter resistere agli assalti del nostro più acuto criticismo.
Gli studi raccolti in questo volume furono già da me in gran parte
pubblicati in Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie
ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali ero giunto, e
nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono indotto, anche per aderire al
desiderio e alle sollecitazioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti
insieme. Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia
che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno a dimostrare che
intorìio a queste importantissime dottrine non si è detto ancora tutto e che
inolio ancora si può indagare e scoprire. Da diverse tradizioni
furono connessi i piiì antichi istituti religiosi e politici di molte
città dell'Italia meridionale con il Pitagorismo. Ne fa meraviglia che alle
dottrine di Pitagora si fa risalire anche le prime istituzioni e le
più antiche leggi di Roma. Numa, il sacro legislatore della città
capitolina, e ritenuto scolaro di Pitagora, e le stesse leggi di Le XII Tavole,
copiate dalle legislazioni della Magna Grecia e della Sicilia, che alla
loro volta traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, sono
altresì ricongiunte con questo. Sarebbe indubbiamente assai utile e
interessante poter determinare in che consistessero questi legami di
dipendenza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi
dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze e degli
istituti religiosi e della fondamentale legislazione Seneca, per esempio,
(Epist. ad Lucilium) sull'autorità di Posìdonio, dice, parlando dei
grandi legislatori dell'Italia. Hi non in foro, nec in consultorum atrio,
sed in Pythagorae ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti
lune Siciliae et per Italiani Oraeciae ponerent -romana; ma purtroppo,
sebbene qualche lieve tentativo si sia fatto in proposito, non è, per
ora, possibile una determinazione neppure approssimativa. Ma insieme con
questa azione, da alcuni ritenuta soltanto leggendaria, su ciò che costituì
l'anima della vita civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore
influsso, determinando attraverso le vicende della sua storia vasta e
complessa, una corrente di filosofia sua propria, continua o interrotta,
palese o recondita? Di vera e propria tradizione scritta non ci
restano tracce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo
invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non pochi seguaci che
la dottrina pitagorica ha in Roma. Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora,
anticipando in parte le conclusioni di queste nostre ricerche, che questi
innamorati cultori di una così riposta e difficile sapienza non furono
già uomini oscuri nè poeti o scrittori di second’ordine, ma cittadini illustri,
grandi poeti e celebri letterati, pensatori insigni e grandi uomini
politici. Cosicché la filosofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli
insegnamenti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati famosi,
come APPIO CLAUDIO e il maggiore SCIPIONE, nelle fantasie di autori eccellenti,
come ENNIO e VIRGILIO, nei cuori di cittadini nobilissimi, come FIGULO, VARRONE
e i SESTII, accompagna in certo modo passo per passo il progredire della
potenza e della grandezza di Roma; finché poi, sopra la sua efficienza
pratica e la sua virtù fattiva prevalendo l'elemento speculativo, che,
data la naiura e l'indole dei romani, e il meno idoneo ad allettarli,
e all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un lato
fantasticherie e aberrazioni come quelle di un ApolIonio di Tiana, e dall'altro
frammischiaudosi elementi eterogenei di origine greca, orientale e forse anche
cristiana, essa si ritira di nuovo nel silenzio e nella segretezza
di qualche scuola, illumina appena la vita e lo spirito di qualche
solitario amante della verità e del sapere, e finì per disperdersi e
dileguare nelle acque torbide delle speculazioni di un Macrobio o di un
Eulogio. Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la maggior
diligenza possìbile i ricordi, le testimonianze, le tracce, o. palesi o
recondite, o tenui o larghe, che di sé lascia il pensiero pitagorico nella storia e
nella letteratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e
studi esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di trovare. Brevi
cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere di Zeller, Chaignet, Mullach,
nella “Storia di Roma” del Pais, e in storie generali e particolari
della letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lunghe e
pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse qua e là un po'
dappertutto. L'importanza e il valore delle mie ricerche non consistono
dunque nella novità dei risultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un
tema fin qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella
quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne ho fatto,
seguendo l'ordine cronologico; e qualche questione spero anche di avere
maggiormente chiarita, sebbene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso
costruire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni
definitive. Che molte delle antiche istituzioni di Roma sono derivate
dalla filosofia pitagorica e riconosciuto ed ammesso esplicitamente da CICERONE,
il quale nelle Tusculane scrive: “Pythagorae doctrina cum longe lateque
flueret, pernianavisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniectura
probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indicator.” A conforto dunque
della sua opinione CICERONE adduce due argomenti, uno congetturale e uno
di fatto. “Quis enim est qui putet cum fiorerei in Italia Graecia
potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est, in eisque
primum ipsius Pythagorae, deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset,
nostrorum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas fuisee f Quin
etiam arhitror propter Pythagoreorum admistrationem NUMAM quoque regem
pytagoreum a posterioribus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et
instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapientìam a maiorihus suis
accepisseut aetates autem et tempora ignorarent propter vetustatenii eum, qui
sapientia excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse.” E
questa è la congettura. L constatazione di fatto poi è, che nelle
istituzioni romane e in alcune antiche scritture vi sono molte non
indubbie tracce di pitagorismo. Quanto alle istituzioni, CICERONE trova
materia di raffronto nell'uso dei canti e della musica. “Vestigia autem
Pythagoreorum, quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur. Nam
cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta quaedam occultius
tradere et mentes suas a cogitationum intentione eantu fidibusque ad
tranquillitatem traducere, gravissimus auctor in Originibus dixit CAIO
morem apud maiores hunc epuìarum fuisse ut deinceps qui accubarent,
canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos vocum sonls et
carmina. Quamquam id quidem etiam XII TABULAE declarant, condi iam tum
solltum esse carmen, quod ne licer et fieri ad alter ius iniuriam lege
sanxerunt. Sec vero illud non eruditorum temporum argumentum est,
quod et deorum puloinaribus et epulis magistratuum fides praecinunt, quod
proprium eius fuit, de qua loquor, disciplinae.” E quanto alle
antiche scritture CICERONE ricorda un carme di APPIO CIECO, che a lui
pare pitagoreo. “Mihi quidem etiam APII CACCI carmen, quod valde PANAETIVS laudat
epistula quadam, quae est ad Q. TVBERONEM, Pythagoreum videtur.” CICERONE conclude:
“Multa etiam sunt in nostris institutis ducta ab illis; quae
praetereo, ne ea, quae repperisse ipsi putamur aliunde didicisse
vi-deamur.” È davvero un peccato che Cicerone, per sentimento d’orgoglio
nazionale che non doveva peraltro essere soltanto suo e forse anche per
ragioni, se non di stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e
di utilità pubblica, *tace* intorno a queste molte altre
derivazioni d'istituti romani dal pitagorismo, alle quali, come si è visto accenna
per ben due volte; tanto piii che CICERONE e per le cariche da lui
coperte, e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e
sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda cultura storica,
letteraria e FILOSOFICA, e bene in grado di fornirci in proposito
notizie, documenti e prove certo assai interessanti. Ci è forza dunque
accontentarci di questa sua affermazione categorica, per quanto generica,
e vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano validi e, in
secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò contro la sua tesi.
Che in verità il pitagorismo importato nella Magna Grecia “temporihiis
isdem” come dice lo Cicerone “quibus L. Brutus patriam liberavit” -e
propagatosi in tutta l'Italia meridionale, dove si conserva, non dove rimanere
ignoto ai romani e dove esercitare su di loro, presto tardi, qualche
influsso notevole, è ovvio, e le presenti ricerche dimostrano appunto la
cosa alla luce dei fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale
influsso si possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei
-[E detto che Pitagora venne in Italia “superbo regnante” -suoi
primi seguaci, come Cicerone crede, oppure, come crede LIVIO, se esso si
fa sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la conquista della
Campania e della Magna Grecia -e, d' altra parte, se questa azione sia
stata così larga e profonda da dover lasciare molte tracce di sé negli
istituti politici e religiosi di Roma, o se si sia esercitata solo sulle
prime manifestazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime speculazioni
filosofico-religiose. Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me
che dimostrino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima
dell'Arpinate, e precisamente PRIMA della conquista dell'Italia meridionale,
dove essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla sua
dottrina e alle sue leggi e debitrice di molto Roma. Il primo di questi fatti è
che durante la guerra sannitica e innalzata a Pitagora ai lati del comizio
in Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase poi sino
ai tempi di Siila. Ora la guerra contro i San-niti si combattè in tre periodi. Pais
crede che la cosa si debba ritenere avvenuta appunto in questi ultimini anni.
Ma in realtà non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire anche
ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un poco posteriore, è
che dopo la presa di Turis, di Eraclea -La cosa ci è
attestata da Plinio, il quale però non cita la fonte da cui ha attinto la
notizia. Dice PLINIO infatti. “Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus
Comitii positas statuas, cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo Oraiae
gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari.” Cfr. Plutarco,
Numa. -e di Taranto e con l'arrivo nella città di Livio Andronico,
che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale, sono dichiarati cittadini
romani, Pitagora e il suo alunno Zaleuco. Ora perche mai sono stati
concessi a Pitagora due onori così distinti e di carattere pubblico, se
non si sono riconosciute le sue benemerenze verso Roma? Evidentemente, in quei
tempi più antichi, l'orgoglio nazionale non ha ancora oscurato, come più
tardi, il senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esaminare
la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica civiltà
capitolina, secondo le prove che ce ne dà CICERONE. I carmina convivalia che,
ormai disusati nell'età ciceroniana, sono invece ancora in uso al tempo
della seconda guerra punica e che risalivano, come afferma CATONE,
a molte generazioni prima di lui, sono certamente anteriori alla
legislazione decemvirale. Cicerone, infatti, per dimostrare l'esistenza
di canti accompagnati da strumenti musicali, e quindi di una civiltà
abbastanza evoluta nei tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo
citato, insieme con la testimonianza di CATONE, il fatto che le leggi di
Le XII TABULAE comminavano gravi pene a chi avesse usato quei canti “ad
alterius inkiriam.” Senonchè Cicerone, come appare da un altro passo dei
suoi scritti -Vedasi il framm. nei Fragni. Hist. Graec. e Symm. ep. X,
25. Cfr. De rep. IV, fr, 12. “Nostrae XII tabulae quuni perpaueas
res capite sanxissent, in his hane quoque saneiendam pukiverunt, si quis
occentavisset sive earmen condidisset quod infamiam faeeret fìagitiumve alteri”
-e vedi auche Plinio, Nat. Hist. -audò anche più oltre, ritenendoli
già esistenti a tempo del re NUMA. Se così è, non avrebbe dunque
dovuto valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva, come
si è veduto, alla leggenda che il re Numa e stato scolaro di Pitagora? Neppure
di questi antichissimi canti egli puo logicamente ammettere la
derivazione dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji
istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro autore
credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del filosofo di Samo.
Cosicché o il raffronto istituito da Cicerone e la analogia da lui messa in
rilievo non ha alcun valore storico e così dovrebbe ritenersi senz'altro,
se fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più antica storia
di Roma —, oppure, come è più probabile, in conformità dei risultati
generali e particolari a cui è giunta la critica storica nell'esame delle
primitive leggende romane l'ipotesi della derivazione dei canti dal pitagorismo
ha un fondamento di vero, e in tal caso è da ritenere che fosse errata la
tradizione cronologica, in quanto fa risalire all’antico un'usanza che
dovette essere piu nuova. Quanto poi all'analogia considerata in se,
in che consisteva essa? Semplicemente -(De orai. “Nikil est autem
tam eognatum mentibus nostris quam, numeri atque voces; qtiibus et
excitamicr et ineendimur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad
tristitiam saepe deducimur; quorum Ula sumnia vis carminibus est
aptior et eantibus, non neglecta ut mihi videtur, a NUMA rege
doctissimo maioribusque ìiostri ut epularum sollemnium fides ac tibiae
Saliorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere celebrate.” Di
questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè nel Brutus e nelle
Tusculane. Si vedano anche TACITO, Ann. Ili, 5, Val. Massimo, Nonio ad
assa voce ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner.
nell'uso comune del canto e della musica in occasione di feste religiose
e di banchetti pubblici, non già nel contenuto dei canti stessi, che gli uni. -cioè
i Pitagorici, adoperarono come mezzo terapeutico e di insegnamento esoterico, e
gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare la memoria degli antichi
eroi; come i Pitagorici erano soliti tramandare sotto il vincolo della
segretezza certi insegnamenti in forma di canzoni e riposare per mezzo di
canti accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga
meditazione, così gl’antichi Romani soleno, al principio dei banchetti,
cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù degli eroi, ed hanno
anche l'usanza di far precedere tanto alle mense in onore del divino,
quanto ai banchetti dei magistrati, il suono delle lire, il che fu pure
caratteristico dei Pitagorici. Insomma, le piu antiche manifestazioni
dell'arte musicale in Roma si ha per l'influsso diretto del
Pitagorismo. A quel modo che si è dimostrata la possibilità che sono derivate
dal pitagorismo queste antichissime manifestazioni dell'arte musicale, si puo
anche riconoscere come verisimile contrariamente a ciò che ne pensa
Cicerone la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora. La notizia
che il re Numa e stato scolaro di Pitagora è probabilmente vecchia. Anzi
il Pais afferma che essa si deve forse far risalire ad Aristosseno. Ma in
tal caso e necessario credere che Aristosseno conosce una cronologia della
storia romana diversa da quella che fu poi consacrata dalla storiografia
ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu [Storia
di Roma] ma e anteriore a quella di Pitagora. Tanto è vero che quasi
tutti i filosofi presso i quali troviamo ricordata tale notizia Cicerone,
Dionigi d'Alicarnasso, Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio notano e discutono variamente questa
inconciliabilità cronologica, concludendo tutti press'a poco come fa
Manilio nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di queste
relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali e quindi da
ritenersi un errore inveterate. Ora che dal punto di vista romano o di
scrittori romanizzanti così dovesse concludersi, è troppo naturale. Data
la indiscutibile verità della tradizione e della relativa cronologia, non puo
esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte di Numa di essere
alunno di Pitagora. Ma tale impossibilità non esiste per noi, che sappiamo come
la storia delle origini di Roma sia di formazione relativamente
assai tarda, come i computi cronologici che a quella si riferiscono siano
il risultato di una lunga elaborazione tradizionale, quasi interamente
destituita d'ogni fondamento di verità, e infine come molte figure della
leggenda siano soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso
di fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi successivi e
diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se e validissimo per i
contemporanei di Cicerone, non sussiste più oggi che la critica storica ha
demolito l'antichissima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione
che [De re publ.: Inveteratus ho77tinum errore. Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic.{.Exc. de vlrt. et vii.; Livio; Plut.
iVwma; Plinio, Nat. Hist. quella sollevata da LIVIO, il quale
ritenne impossibile ogni rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni
di distanza e DI LINGUA. Dice Livio infatti. “Auctorem doctrinae Numae quia
non exstat alius, falso Samium Pythagoram edunt, quem Servio Tullio
regnante Romae, centum amplius post annos, in ultima Italiae ora
circa METAPONTUM HERACLEAMQUE ET CROTONA iuvenum aemulantium studia coetus
habuisse constai. Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset quae fama
in Sabinos e aut quo LINGVAE commercio quemquam ad cupiditatem discendi
excivisset e quove praesidio unus per tot gentes dissonas sermone
moribusque pervenisset e suopte igitur ingenuo temperatum animum
virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus
quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum quo genere nullmn
quondam incorruptius fuit.” Ma nel campo della storia, come giustamente
osserva De Marchi, è forse detta l'ultima parola sui rapporti che legarono in
antico la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni
italiche del centro? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una
“disciplina tetrica ac tristis” presso i sabini non è cosa molto più
problematica di quello che non sia probabile l'andata di qualche sabino o
romano nella Magna Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra
Numa e Pitagora dovd dunque, a parer nostro, accettarsi come rispondente a
verisimiglianza, e il regno di Numa, se questi è realmente esistito, o,
in ogni modo, -“Passi'scelti da Livio ad illustrare le istituzioni
religiose, politiche e militari di Roma antica” (Milano, Vallardi il formarsi
di tutti quegli istituti di carattere religioso che la tradizione riporta
a Numa, dovd ritenersi posteriore almeno al tempo di Pitagora, appunto
perchè dalla tradizione e tenuto in stretto rapporto di dipendenza dal pitagorismo.
In tal modo non e più necessario, come fa il Pais, di ritenere inventata
d’Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a questo filosofo che
parla genericamente di Romani accorsi ad ascoltar Pitagora, e piu
facilmente si comprendeno alcuni dati della leggenda di Numa, la scoperta
dei famosi libri pitagorici di questo re, e il fatto che qualche
scrittore, per esempio Ovidio, ammetta la realtà dei rapporti, senza neppure
discuterla. Racconta ancora la tradizione che Numa ha tanta
venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare a un proprio
figlio il nome di “Mamerco”, in onore dell'omonimo figlio del filosofo. Che
significato può avere questo nuovo particolare? Alcuni hanno creduto di
scorgere in esso un tentativo da parte degl’Emili Mamertini di far
risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa. Se così e, noi
doviamo allora ammettere che quando il particolare e inserito nella
leggenda, la cronologia di questa non e ancora quella ufficiale. Altrimenti
il tentativo e puerile. Ma così non è, come e giustamente osservato da Mtille.
Probabilmente il (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp -cioè Pitagora -&<;
cpvjoiv 'Apiaxógsvog, xal Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal
'Ptojjtalot. Così dice Porfirio nella sua Vita di Pitagora; e il medesimo
affermano, senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio e Giamblico (Vita
Pythag.). Quanto a Pais, vedasi St. di Roma -Plutarco, Numa -Emilio -Q. Ennius,
Pietrob. -particolare non ha altro ufficio che di avvalorare con un
indizio di piu la leggenda. Un'altra notizia, a proposito della quale non è
veramente fatta menzione alcuna di Pitagora, è quella che si riferisce
alla Musa Tacita, per la quale Numa ha particolare venerazione. Allude
forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di cui parla
costantemente la tradizione pitagorica? È possibile. E il miracolo della mensa
carica di ricco vasellame, che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli
occhi di coloro che dubitano delle sue facoltà soprannaturali, non
ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pitagora dalla tradizione?
Veramente queste due notizie, per il loro carattere favoloso, pouo
indurci a credere l'austera e quasi mistica figura di Numa una
proiezione storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del
saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica non è
possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione diversa. Voglio
alludere al fatto della scoperta dei famosi libri di Numa, avvenuta in
occasione di uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta
e la inverosimiglianza di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la
tradizione, che questi libri sono antichi. Siano poi essi stati opera del
saggio Numa la cui esistenza, come s'è già detto, dove necessariamente
porsi in un'epoca posteriore o di
qualche altro sapiente imbevuto di sapienza italica, essi
starebbero sempre a dimostrare che effettivamente il pitagorismo esercita
una qualche azione sull'antica civiltà di Roma. Plutarco, Numa -DioN. Hauc.
Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi possiamo dunque
inferire che non solo la leggenda dei rapporti fra i due legislatori dove
essere assai diffusa ed antica, ma che altresì essa ha un certo
fondamento di vero. Di guisa che se Cicerone la disce “inveteratus hominum
error” noi possiamo senz'altro accettarne la vetustà. E, quanto all'erroneità, essa e probabilmente
soltanto un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da un
eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio, che pure scrive
dopo che diversi filosofi hanno mosso alla leggenda le critiche
accennate, puo ben accettarla senza discuterla affatto come una cosa
ovvia e risaputa e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose
attribuite a Numa, persino la sua riforma del calendario – gennaio, febbraio --,
dalla educazione pitagorica da lui ricevuta. Anche alcune disposizioni
legislative di Le XII TABVULAE sono messe in relazione col Pitagorismo. Cosa
ben naturale, se si pensi alla loro origine. Non sono esse infatti
ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia, che, alla lor
volta, com'è ben noto, si informano ai principii di quella dottrina? Ora
questa, che sarebbe, per dirla con CICERONE, semplice coniectura, ha poi
la sua riprova nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi
dai frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo in
esse sancito s'ispira al principio del taglione: Si [Metam., Fast., Pont.].
e. membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ TALLO està, dice il secondo
frammento della XVIII TABVLA, e questo principio, che, come attesta
Demostene, ha largo svolgimento nelle leggi di Zaleuco, e indubitatamente
tolto dai pitagorici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri.
Dice infatti Aristotile che la giustizia e da loro consideata come
ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una proporzione non inversa, ma
diretta, come notò bene Zeller fra
l'offeso, l'offensore e il Giudice. Nel che essi applicarono, secondo
la critica aristotelica, i criteri della giustizia commutativa ad un
ordine in cui non può aver luogo che la distributiva. Ora, dice Chiappelli
-in qual modo si determinasse dal pitagorismo e quali applicazioni avesse
questa teorica del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi
sapere quali elementi di essa penetrassero in le XII TABVLAE e a
quali trasformazioni anda soggetta in Roma. Un punto tuttavia è possibile
stabilire, sebbene solo in modo negativo. Alla legge generale, in le XII
TABVLAE segueno le leggi speciali: la prima di esse riguardava la
diversa Timocr.
ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv è%xó4>ì|7,
àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7joswg oòSs|Jtiac,
àTceiÀTjaat xtg Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aXjjiòv Sxt aòxoù
èxxóc|^st zoùzo'* xòv §va. Le medesime parole si ritrovano in quello che
1' autore della Grande Morale ci riferisce dei pitagorici, il ohe è una
riprova del rapporto storico fra questi e Zaleuco. -Eth. Nic.-xst
5s xtat xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi
nuO-ayópsiot Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò
dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp. Sopra alcuni
frammenti di le XII TABVULAE nelle loro relazioni con Eraclito e
Pitagora, in Areh. Giuria 00 misura della pena per l'ingiuria recata a un
libero o ad uno schiavo. Ora i Pitagorici non pare che avessero
fatta questa distinzione, se l'autore della Grande Morale combatte la
dottrina pitagorica del taglione, come quella che non si può applicare
incondizionatamente al servo o al libero, poiché di quanto quello cede a
questo, di tanto, se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena
corrispondente. E in verità siffatta distinzione e bensì impossibile nel
sistema dei pitagorici, per i quali il corpo e come il carcere
dell'anima, che vaga in una perenne trasmigrazione, e il più alto
precetto etico e l'imitazione del divino per via della virtù,
l'osservanza della legge e il rispetto verso tutti gl’uomini. Ma e invece
possibilissima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così
netto e il distacco fra cittadini liberi e schiavi. Abbiamo anche veduto
come a Cicerone paresse ispirato ai principii della filosofia pitagorica
il poemetto di APPIO CLAUDIO CIECO, che, censore e console, e
indubbiamente uno dei personaggi storici più importanti e, se non il
primo, certo uno dei primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene,
che il giudizio di Cicerone non e errato parrebbero dimostrare a
sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono rimasti. E in
verità la famosa sentenza “fabrum esse suae quemque fortunae” non puo
esprimere meglio il fondamento della dottrina morale di Pitagora. L’altra,
altis [Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ; Manu fustive si os fregit libero CCC,
si servo GL poenani subito.” Magn. Mar.
xò Si^ TotoaTov o5x èaxt Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov
olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv xaOxóv ] sima, come dice Pascoli, se fosse certa la
lezione e l’interpretazione – “amicum cum vides obliscere miserias;
inimicus sies; commentus nec libens aeque idem tamen teneto” -tu
dimentichi la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico
"quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volentieri come con
l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia”, è pure strettamente
conforme alla dottrina pitagorica, che insegna amore e fratellanza. Il terzo
infine sui quemque oportet animi
coìnpotem esse semper nequid fraudis stuprique ferocia pariat” non e
certo disforme dalle pratiche e dagl’esercizi spirituali degli adepti al pitagorismo,
che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del proprio corpo,
ma anche delle proprie attività interiori, per dirigerle al
bene. Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè anche intorno
all'autenticità di questo antico poema, che e una delle prime
manifestazioni letterarie di Roma, si sono sollevati dei dubbi. Il fatto
che la notizia di esso e data da Panezio in una sua lettera a Quinto
Tuberone ha indotto per esempio Pais a pensare che si tratti di una
falsificazione posteriore, da collegarsi con le altre falsità che
andavano sotto il nome di Aristosseno intorno ai romani scolari di
Pitagora e su Pitagora cittadino di Roma. Ma come è ciò possibile, se
Aristosseno e Appio furono contemporanei? E se Appio visse, come è
certo, nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lucania che
ragione c'è per negare che Appio conosce quelle dottrine e da esse trarre
ispirazione per [Lyra romana, Livorno,St. di Roma] il suo poemetto? E poi
come dubitare con qualche fondamento dell'autenticità dell'opera che un Panezio
e un Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attribuirono ad
Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais riconosce che l'efficacia
della filosofìa tarentina si esercita sopra gli uomini di stato romani dal
tempo di Appio e di Pirro? L' ipotesi di una falsificazione, della quale
poi non si vedrebbe neppur chiaramente la ragione, non ci sembra
dunque per nulla fondata. Sì che noi possiamo con chiudere che la
dottrina del filosofo di Samo, in conformità dei dati tradizionali, esercita
una qualche azione tanto sulla più antica civiltà di Roma, quanto sui
primi prodotti del pensiero e dell' arte -Chi, più d'ogni altro,
contribuì a diffondere in Roma la conoscenza delle dottrine di Pitagora e
senza dubbio ENNIO, il padre della filosofia romana. Nativo di Rudie,
paese fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, Ennio studiato a
Taranto, che era il centro italico, in cui si conservavano più pure le
tradizioni pitagoriche. Versato nell'osco, nel latino, e nel greco, Ennio
diceva scherzando di avere tre cuori. Si trova a militare in Sardegna fra
gl’ausiliari che Taranto manda -Gellio, N. A. -ai Romani, e quivi da Catone e
invitato a recarsi a Roma. Come si spiega tale invito? Quali vincoli si
stabilirono fra questi due uomini, destinati a sì grandi cose, che si
incontrarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Sono vincoli di
simpatia e di amicizia creati dalla comune grandezza d'animo e da comuni
aspirazioni? Si sono essi già conosciuti prima, quando Catone e in
Taranto ospito del pitagorico Nearco? Questo mi sembra più probabile. D'altra
parte la profonda scienza e il forte intelletto del rudino dovettero
certo colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che alle
qualità pratiche dell’uomo di stato une l’attitudine del filosofo. In virtù
della sua sapienza Ennio dove apparire al nobile cittadino di Roma come
assai atto a cantare le antiche gesta di Roma; ed è forse per questo che
Catone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria e delle
relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dove suggerirgli l'idea del
poema, che quegli poi realmente scrive, e per la composizione di esso
ojffrirsi di agevolargli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici
e promettergli tutto il suo aiuto -il quale, e per la condizione e per
l'ingegno dell'offerente, non poteva non apparire ad Ennio prezioso e
inestimabile. Ad ENNIO d'altro lato, piena l'anima dell'antica sapienza
della sua terra, di quella sapienza che nessuno in somnis
vidit priu' quam sam discere coepit -Plutarco, Gaio maior, Cicerone, Caio maior
-Annalee, (Yalmagoi)] dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea
di illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al tempo
stesso, di farsi banditore di una sapienza sconosciuta alla città che forse il
suo spirito veggente presagiva sarebbe stata nuova fucina di cultura e di
sapere e maestra di nuova civiltà alle più lontane
generazioni! Venuto in Roma, Ennio vi si dedica totalmente a diffondere
fra i romani colti l'amore del sapere. Ennio chiama intorno a sé, a
formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti cittadini e da
essi seppe farsi amare ed onorare per le cognizioni vaste e profonde, per
la nobiltà dell'animo e l'integrità del carattere, per la modestia della
vita e dei costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascoltarlo
accorsero fra gli altri SCIPIONE Africano, Scipione Nasica, Aulo Postumio
Albino, Marco e Quinto Fulvio Nobiliore, e con tali amicizie Ennio sa
vivere sempre sereno, mostrando così con l'efficacia dell'esempio, che le
verità da lui insegnate e praticate sono le più atte a dare la felicità e
la pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio Elio
Stilone sole dire che Ennio fa il ritratto di sé medesimo nei seguenti
versi degli Annali, che descrivono il vero amico – “Haece locutus vocat,
quocum bene saepe libenter mensam sermonesque suos rerumque suarum
comiter inpartit, magnam cum lassus diei partem trivisset de summis rebus
regundis -E decemvir sacrorum (Livio). Consilio indù foro lato
sanctoque senatu; quo res audacter magnas parvasque iocumque
eloqueretur cuncta simul malaque et bona dictu evomeretj si qui vellet,
tutoque locaret; quocum multa volup et gaudia clamque palamque, ingenium
quoi nulla malum sententia suadet ut faceret facinus levis aut
malus ; doctus, fidelis, suavis homo, facundus, suo contentus,
beatus, scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum
paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas quem facit et mores veteresque
novosque tenentem multorum veterum leges divomque hominumque,
prudenter qui dieta loquive tacereve posset.” In questo ritratto tu vedi
l'immagine del vero sapiente pitagorico, che sa trattare le faccende
pubbliche e raccor gliersi nella meditazione, che sa parlare con
piacevolezza e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non commette
mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'amicizia e servizievole
contento del suo, felice, che infine sa molte cose profonde e recondite,
ma le tiene ermeticamente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle
in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto ad
intenderle. E anche possibile, come osserva acutamente Pascal, che in
questi versi Ennio vuole altresì rappresentare i suoi rapporti col grande SCIPIONE,
del quale si puo dire assai piu convenientemente quello che Macrobio scrive d’'Emiliano,
che cioè e “vir non minus [Gellio – “L. Aelium Stilonem dicere
solitum ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse picturamque
istam morum et ingenii ipsius Q. ENNI factam esse.” I versi sono secondo
il testo dato da Valmaggi (Mìjller, Baehrens). Antologia latina, Milano] philosopMa
quam virtute praecellens -e l'ipotesi tanto pili è accettabile se
pensiamo che Scipione e forse il migliore dei discepoli d’ENNIO, il quale lo ha
in tanta considerazione da comporre intorno a lui un poemetto Scipione
e da fargli dire – “A Sole exoriente supra Maeotis paludes nemo est qui
factis me aequiperare queat. Si fas endo plagas caelestum ascendere
cuiquam est, mi soli caeli maxima porta patet.” Cicerone stesso, appunto
per la sua sapienza, oltre che per la fama delle sue imprese, non lo scolge
come protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De
Repuhlica [Di Ennio e notissimo ai Romani il sogno col quale
incominciavano gl’Annales e di cui ci sono rimasti appena alcuni frammenti
insieme con le testimonianze di Lucrezio, Cicerone, Orazio, di Persio e
altri -In Somnium Seipionis^ I, 3. Cicerone, Tusc., Seneca, e/),,
108 e altri. Seneca poi, nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione
– “animus eius in eaelum ex quo erat rediisse persuadeo rtiihi.” Vedili
in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, ediz. MuELLEE, Q. Enni carm. rei.,
Petrop. e nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, Vedi anche le
osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, e lo studio di Valmaggi
pubblicato nel Bollettino di filai, classica – Lucrezio -Cicerone, Somn.
Scip., -Aead, -Orazio, Ep. -Persio, -Schol.
in Pers. Sehol. Cruq. in Orazio, Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep.12, 74 Nab.;
Sergio, ad Aen. Questo sogno che leva grande rumore nel mondo romano e di
cui spesso si parla, ora con serietà filosofica, ora per ischerzo, tanto
che divenne quasi proverbiale -dove essere abbastanza lungo. Al poeta
addormentato sarebbe apparso sul monte Parnasso il fantasma piangente di
Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno all'ordine dell'universo, alle
trasmigrazioni di ogni anima umana attraverso un proprio ciclo di vite e
alla sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma
intermedia fra l'anima e il corpo e a ricordargli le mutazioni della
propria anima, trasformatasi, dopo la morte del corpo, in un pavone e
rinata appunto in lui, il -Pasdera, Il sogno di Scipione, Torino,
Loescher, -Persio, Prol. “Nec fonte labra prolui eaballino Nee in
bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodirem, e Schol. ad
V. 21 tangit Ennium qui dicit se
vidisse sommando in Parnaso Homerum sibi dicent em quod eius anima
in suo esset eorpore. La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto
di gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere
terreno? -Lucrezio, “rerum naturam expandere dictis” -Lucrezio,
“an contra nascentibus insinuetur anima” “ pecudes alias insinuet se. Lucrezio,
Etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia Eìinius asternis
exponit versibus eidem Quo ncque permaneant aniìnae ncque corpora nostra, Sed
quaedam simulacro modis palleniia miris. Persio, Sat. Cor iubet hoc Enni, postquam destertuit
esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo. Tertulliano, de an., “pavum se
meminit Homerus Ennio sommante; Hbid. perinde in pavo retunderetur
Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus
; cfr. eiusd. de resurrectione I, G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10;
Persio, YI, 9, e schol. ; Lattanzio in Theb. Ili, 484. discendente del re
Messapo, il poeta rudino. Tale, press'a poco, il contenuto di questo
sogno, notevolissimo non solo per l'esposizione delle dottrine
filosofiche, ma altresì per l' accenno alle trasformazioni e
incarnazioni dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela spirituale
dei due poeti. Che il pavone poi, importato dall' Oriente in Samo,
la patria di Pitagora, ha nella filosofia mistica di questo iniziato
un'importanza considerevole, è certo:e poiché era anche per la colorazione delle penne simbolo del
cielo stellato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime umane
-onde l'espressione per me simbolica del fieri pavom usata da Ennio) -opportunamente
fu scelto dal poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere
l'anima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora. Il fatto che il
grande poema storico degli Annales, il quale hada par te dei Romani un
culto analogo a quello che noi tributiamo alla Divina Commedia,
incomincia con tale sogno, ha grande importanza per la diffusione e conoscenza
del pensiero pitagorico in Roma. Poiché, appunto per lo studio che del poema si
fa, fin [Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII,
393. MuELLER, Q. Ennius Cfr. Hehn, Kulturpflanxen und Hausthiere. Dall'interpretazione
letterale data a tale espressione o ad altre consimili nacque forse
presso gli antichi uno dei primi e Senofane, contemporaneo di Pitagora, nei
versi citati da Diogene Laerzio i quali peraltro hanno un' intonazione
scherzosa, se non satirica l'opinione che Pitagora crede nella
metempsicosi anche animale. nelle scuole di grammatica e
di rettorica (e per le pubbliche letture di esso, ancora in uso
nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo, si dovette
necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in Italia la conoscenza di
quella parte della dottrina di Pitagora, che nel sogno si ricorda e che
era poi una delle principali di detto sistema. Difatti sono assai
frequenti nella letteratura posteriore le allusioni alla teoria della
metempsicosi; la quale del resto e forse introdotta in Roma anche per
altro tramite, sia cioè per mezzo dei misteri, nei quali si
insegnano appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle
pitagoriche, sia per mezzo della filosofia platonica e quella del PORTICO,
che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore air apparire
del neo-pitagorismo, e derivata almeno in qualche parte fondamentale,
dalle dottrine pitagoriche stesse. Se nel poema di Ennio vi e altri
accenni alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli
scarsi e slegati frammenti che ce ne restano. Ma non è improbabile che, a
proposito di NUMA, e non solo notate incidentalmente, ma fors'anche
illustrate con una certa ampiezza le somiglianze fra la sua legge ed
istituzioni e quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per
la prima volta e stata inserita in un'opera filosofica latina la notizia
desunta dalla tradizione orale anteriore, che il gran re Numa ha a maestro Pitagora -SvETONio, de gramm. Noctes Atticae, MuELLBB, Q. Ennius. In altro scritto invece noi sappiamo con
certezza che Ennio tratta ancora delle dottrine pitagoriche: e
precisamente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal nome del
filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più valenti seguaci della
scuola italica. Anche in questo lavoro, il nostro scrittore finse un
sogno. Nam videbar somniare med ego esse morluum” e che il filosofo Epicarmo
gli comunicasse, nelle regioni infernali, dottrine di filosofia naturale
sull’origine e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il
verso nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il
noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco – “terra corpus est, et mentis ignis
est.” Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso dello
stesso Ennio, scrive – “animalium semen ignis qui anima ac mens: qui
caldor e caelo quod Mnc innumerahiles et immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit: istic est de sole
sumptus isque totus mentis est.: Yahlen, 0. e, XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt,
Quaest. epich. Yedasi anche lo studio del Pascal, Le opere
spurie di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in Biv. di fìlol. e di
istrux. classica^ a.-Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51. -Prisciano,
YII, 764 (K.). Cfr. gli scolii all'Eneide, YI, -De lingua latina^ Y, 39. Cfr.
Mueller, op. cit., Ili sg. Un'altra sentenza pitagorica è quella che
ricorda Cicerone (“de divin.”) a proposito dei sogni: aliquot somnia vera inquit
Ennius sed omnia noenum necesse est.” Ma oltre che alle opere filosofiche, le quali,
hanno tarda efficacia, Ennio rivolge l'attività dell' ingegno,
trasfondendovi i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale. Senza
dire poi che l'esempio della sua vita intemerata sprona all' esercizio
costante della virtù tutti quelli fra i nobili cittadini di Roma che
accostandolo l'amarono. Ennio si studia di volgere le loro menti ad una libertà
di pensiero e ad una concezione individuale delle cose, alla quale
non sono certo avvezzi i romani, educati sotto una disciplina
ferrea. Abituando le loro intelligenze alle bellezze ed alle sottigliezze
della filosofia, insegnando in privato le dottrine di Pitagora,
combattendo nel nome di Evemero le superstiziose credenze popolari, e
deridendo i sacerdoti ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da
trovare in se stesso, nelle profondità dell'anima, il fondamento
del proprio valore, della propria libertà e della propria felicità, da
impulso a una vera rivoluzione razionalistica nello spirito romano. Sì
che fra quei valorosi soldati e pratici legislatori comincia ad essere
tenuta in conto la filosofia, ad esercitarsi la libera attività del
pensiero anche in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e
legittima, fondata su ciò che l' uomo ha di più sostanziale e di proprio,
cioè su l'intelligenza e sullo spirito. Non è improbabile che appunto per
questo CATONE, il quale, sopra tutto e innanzi tutto, vede l'interesse e
il bene dello stato romano, osteggiasse il movimento a cui ha dato
egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A [ GiussANi,
Letterat. romana^ Milano, Yallardi, Si veda anche su Ennio il saggio
critico del Lenchantin De Gubernatis (Torino, Bocca). Bl
fricano ; tanto che questi, avendo suscitato contro di sé molte ire
violente e molte accuse politiche, si ritira sdegnosamente nella sua villa di
Literno, nella Campania. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, sono scoperti
i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai strano, venneno molto
opportunamente a confermare gli insegnamenti pitagorici di Ennio. La
notizia della scoperta risale, per quel che ci è noto, all'annalista
Cassio Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio narrava come un
impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei lavori in un suo podere sul
Gianicolo, ha scoperta e [Livio, -Sull'esilio e sulla morte di
Scipione Africano Maggiore vedi C. Pascal, Fatti e leggende di Roma
antica -Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, “Ueber
die Bueeher des Numa”, negli Atti dell' Accademia di Monaco -Nat. Eist. XIII,
84 = Hist. Rom. rell. I, 106-107 Peter: Cassius B. Emina vetustissimus
auctor annalium, quarto eorum, libro prodidit Cn. Terentium, scribam
agrum suum, in laniculo repastinantem offendisse arcani in qua NVMA qui
Romae regnavii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos Cornelio L.
f. Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno NVMAE colliguntur
anni DXXXV, et hos fuisse a charta maiore etiam num mir acuto quod tot infossi
duraverunt annis. Quapropter in re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur
alii quomodo ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat:
Lapidem fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis
quoque versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse propterea
arbitrarier tineas non tetigisse: IN HIS LIBRIS SCRIPTA ERANT PHILOSOPHIAE
PYTHAGORICAE – EOSQUE COMBVSTOS A Q. PETILIO PRAETORE QVIA PHILOSOPHIA SCRIPTA
ESSENT.” -scavata la tomba del re Numa, che conteneva i libri di lui ; e,
cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di carta s'erano
perfettamente conservati. Ma, come spiega Terenzio, tale conservazione era
dovuta al fatto che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trova
quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dall'umidità, ed essendo
spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I libri stessi poi
contenevano scritti di filosofìa pitagorica, per la qual ragione furono poco
dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso racconto fa pure
l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Frugi, secondo il quale però detti
libri erano VII di diritto pontificio e altrettanti pitagorici. XIV ano
pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano e contenenti i decreti
di Numa. Secondo Valerio Anziate infine essi sono invece XXIV, XII pontificali e
XII di filosofia, e non si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa,
ma in un'arca adiacente. Se il racconto è vario nei particolari,
tuttavia questi [Plinio, /. e. = H. R. rell. I, 122-123, P.:“Hoc
idem tradii O. Piso censorius primo commentari or um, sed libros VII
iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse.” Plinio l. e. = H. R.
rell. I, p, 142-143 P:“Tuditanus decimo tertio Numae decretorum fuisse”
Plinio /. e.: Libros XII fuisse ipse Varro Humanarum antiquitatum
septimo. Antias secundo libros fuisse XII pontificales totidem praecepta
philosophiae continents. Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R.
rell. I, 240-241 P. Si noti però che Peter crede (/. e. CC.) che
Livio cita per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio Pisone] ed
altri autori sono concordi
nell'affermare sia la scoperta dei libri, durante il consolato di Cornelio
Cetego e di M. Bebio Panfilo sia la loro pronta distruzione per opera del
pretore Petillio. Cosicché non è possibile dubitare che il fatto e avvenuto.
Senonchè la critica piu recente si è affrettata ad affermare che
essi dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore,
fanatico dell’idee pitagoriche, in quegli anni appunto diffuse in Roma dal
grande Ennio, e accettate da Scipione Africano e da altri illustri
cittadini. Ma ad una grossolana falsificazione fatta in quei tempi
medesimi noi non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la
tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa dottrina era
la segretezza e il mistero? E proprio un pitagorico divulga le dottrine
della sua scuola, in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno
stratagemma così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che
già la tradizione ammette la filiazione degli istituti e delle
leggi religiose di Numa dal pitagorismo? Ed è poi possibile che fra i senatori
romani, i quali decretarono, su parere del pretore, l'abbruciamento dei
libri così miracolosamente scoperti, non vi e alcuno in grado di comprendere
una così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i libri
furono bruciati con la convinzione che essi sono quelli del re sapiente e
perchè contenneno, [V. ancora le testimonianze di Yarrone,
conservataci da Agostino (De civ. dei), di Livio (XL, 29, da cui ha
desunto la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I,
1, 12), di Festo (p. 173 M. = 182 Thewr.), di Plutarco {Numa, 22) e
del de vir. ili. 3. Livio osserva che questa convinzione deriva dall'
opinione diffusa che Numa e discepolo di Pitagora, opinione che
[secondo la testimonianza di Varrone la spiegazione degli stituiti
religiosi di Numa (“cur quidque in sacris fuerlt institutum”) fondati,
come quelli di tutte le religioni, su ragioni fisiche e filosofiche e
sopra una concezione particolare della natura. Ora, dice assai
giustamente Chaignet, questa
interpretazione razionale ed umana delle credenze e delle istituzioni
religiose, togliendo ad esse un' origine e un fondamento sovrannaturale, ha certo,
divulgandosi, tolta ogni consistenza a quella religione di stato che,
come tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle
pratiche del culto (le religiones di cui parla Livio) esigendo, come
condizione della propria esistenza, la fede cieca e l'ignoranza
superstiziosa. E proprio a questo pensarono il pretore urbano e il senato, che
si affrettarono a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali e filosoficamente
provata ed attestata 1' origine del diritto pontificale romano, cardine e
fondamento primo dello stato, dall'occultismo pitagorico. Se pure il
motivo di tale distruzione non fu quello stesso per il quale Cicerone non volle
troppo approfondire la ricerca e la dimostrazione dei rapporti fra il
Pitagorismo e i piu antichi istituti di Roma. Stando al racconto di
Plu [egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un mendacio (XL, 29).
Pythag. et la philos. pytkag.^ Parigi, Didier, [È interessantissimo a questo
proposito il passo d’Agostino (De civit. dei), il quale spiega per quali
ragioni demoniache Numa compone i suoi libri e poi li fece
seppellire nella sua tomba, e il Senato li fa abbruciare. Né meno
interessante è il capitolo seguente in cui si parla delle arti idromantiche
e delle evocazioni di Numa.] arco,
infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso e per ordine suo
sepolti con lui. E ciò perchè, secondo la massima pitagorica, non era
bene affidare la conservazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita,
anziché alla sola memoria di quelli che ne sono degni. E, forse, per
questa medesima ragione i pitagorici romani non dovettero fare molta
opposizione alla proposta di distruggere i libri stessi, gelosi come sono
delle loro dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili
di scherno e di riso, se male interpretate o fraintese. Nel tempo in cui
Ennio si adopera così efficacemente per introdurre in Roma l' antica sapienza
della Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e penetrano
nella grande metropoli anche i culti bacchici e le sette orfiche,
intimamente legate con le pitagoriche per gli stretti rapporti che vi sono
fra le due dottrine segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicano II senato-consulti
e si istituirono tribunali (quaestiones de Bacchanalibus sacrisque noeturnis
extra ordinem), che ne di [Sklden, nell'introduzione dell'opera De
jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam, volendo sostenere ch.e ogni
sapienza viene dall’Oriente tre volte rinnovata, di cui gli orientali
erano i depositari, afferma invece che Numa Pompilio e in segreto un
adoratore del vero divino, che i libri da lui lasciati e scoperti solo
parecchi secoli dopo la sua morte sono la giustificazione della sua fede
e la glorificazione del divino d’Oriente, e che appunto per questo il
Senato ne ordina la distruzione, perchè racchiudevano la condanna della
religione di stato. Ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto
in Calabria) che ordina, fra le altre cose: Bacas vir nequis adiese velet
eeivis romanus neve nominus latini. mostrano la diffusione e la forza: e
Livio ci riferisce il violento discorso che il pretore Lucio Postumio
Tempsano pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei malvagi culti
forestieri: contra pravìs et externis religionidus captas mentes. E ben vero
che queste associazioni misteriose “clandestinae conmrationes” come dice
Livio e questi culti sempre perseguitati
dall' ortodossia romana venneno in parte dall' Etruria e dalla Campania, ma le
ricerche giudiziarie ne fa scoprire diversi focolari nell'Apulia, in tutta
l'Italia meridionale, e specialmente a Taranto, uno dei centri d'origine
del Pitagorismo. Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in
tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thiirium ci conservano l'eco di
versi orfici che sino ad ora non si conoscevano per altro che per una
citazione di Proclo, neo-pitagorico.
lo L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia evenerat reliquias
Bacchanalium quaestionis cum omni exsecutus est cura” – “L. Duronio
praetori cui provincia Apulia evenera adiecta de Bacchanalibus quaestio est:
cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam priore anno
adparuerant. Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè. Alcuni testi da
lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli scavi^ e nel Journal
of Hellenic Studies. Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed
illustrate^ Firenze. Framm. 224 Abel: ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog
"^sXCoio quasi uguale al fr. n. 642, 1: àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^
KpaXin-Q cpàog sono sfuggita al cerchio delle pene e delle
tristezze, grida in uno slancio di speranza l'anima che ha subita tutta intera la pena delle sue
azioni inique e che ora implorando il suo soccorso, s'avanza verso la
regina dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre
divinità dell'Ade; essa si vanta di appartenere alla loro razza felice, e
domanda ad esse che la mandino ora nelle
dimore degl'innocenti e attende
da esse la parola di salvezza: Tu sarai dea e non piìi mortale! In
questi brani, dice Gomperz, bisogna vedere redazioni diverse d'un testo
comune piti antico. Parecchie altre tavole, che risalgono in parte alla
stessa epoca, trovate nelle stesse località. Altre sono state scoperte
nell'isola di Creta e datano dall'epoca romana posterior. Tutte prescrivono
all'anima la sua strada nel mondo sotterraneo. Ora è notevole il fatto
che un cap. del Libro dei
Morti egiziano contiene una confessione
negativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello che le tre
tavole di Turio condensavano in poche parole. In queste, come in quello, l'anima
del defunto proclama con enfasi la sua
purezza e solo su questa
purezza YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino,
richiama 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche H. DiELS,
nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, -Cioè alla serie delle rinascite e
delle esistenze terrestri. Gomperz, Les penseurs
de la Qrèce^ Paris, Alcan, Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à
l'Orphisme, Bull. de corr. héll.Y. qualche parallelo buddico in Rhys
Davids, Suddhism, Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. e
Brttgsoh, Steinin-schrift und Bibelwort. Y. anche Maspero, Hist. ancienne -fonda
la sua speranza in una felice immortalità. Se l' anima dell'orfico pretende di
avere espiato le azioni
inique e quindi si sa liberata dalla
sozzura che ne deriva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le colpe che
ha saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti,
dice Gomperz, nella storia della religione e dei costumi sono tali da
meravigliarci piii del contenuto di quest'antica confessione, in cui si vedono
accanto alle colpe rituali, e ai precetti di morale civile accolte da
tutte le comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale
non comune e che ci può persino sorprendere per la sua squisita
delicatezza: Io non ho oppresso la
vedova! Non ho allontanato il latte dalla bocca del lattante ! Non
ho reso il povero più povero! Non ho trattenuto, l'operaio ai suo
lavoro più del tempo stabilito nel contratto ! Non sono stato negligente!
Non sono stato fiacco! Non ho messo lo schiavo in cattivo aspetto presso
il suo padrone! Non ho fatto versare lacrime a nessuno! Ma la morale che
scaturisce da questa confessione non si è contentata di proibire il male;
ha anche prescritto degli atti di beneficenza positiva: Dappertutto,
grida il morto, ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame,
dissetato chi aveva sete, vestito chi era nudo! Ho dato una barca
al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi ! ET anima giusta, dopo aver
subito iiyiumerevoli prove, arriva finalmente nel coro del divino. La mia impurità, grida piena di gioia,
mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso l'ho gettato. Giungo in
questa regione degli eletti gloriosi. Yoi che mi state dinanzi aggiunge rivolta
agli dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io uno
dei vostri ! Nessuna meraviglia quindi che i filosofi del tempo di
ENNIO, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno, fossero più o meno
imbevuti di così fatte dottrine. Di Stazio Cecilio, che fa parte del
collegium poetarum dell'Aventino e abita in Roma nella stessa casa con
Ennio, ci restano troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla
del contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però r
intimità sua col filosofo di Rudie dove esercitare un qualche influsso
sulla formazione del suo gusto e della sua arte. Con Ennio
visse pure in Roma, frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il
nipote Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi, si ritirò poi a Taranto.
Che egli dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre
che l'esplicita dichiarazione di Pompilio: “Pacvi diseipulus dieor ; porro is
fuit Enni^ Emiius Musar um^ Pompilius clueor -i due frammenti
del suo Ghryses^ nel primo dei quali mostra la stessa libertà di spirito
e di parola, rispetto ai falsi sacerdoti, che anche notata
Ennio: nam istis qui linguam avium intellegunt, plusque ex alieno
iecorc sapiunt^ quam ex suo, magis audiendum quam ausoultandum eenseo; pr.
Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio 246, 9. -Si
confrontino i versi di Ennio:Sed superstitiosi vates impudentesque
arioli, Aut inertes aut insani aut quibus egestas imperai, Qui sibi
semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam. Quibus divitias pollicentur, ab eis
draeumam ipsi petunt’, e gli e nel secondo esprime intorno
all'etere un concetto affatto, pitagorico, che troveremo anche in VIRGILIO
(vedasi): v hoc vide circum supraque quod complexu continet
terram.... solisque exortu capessit candorem, oecasu
nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera:
quidquid est hoe^ omnia animai format alit\ auget^ creai,
sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,
indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.
mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat. Istic est is lupiter'
quem dìco quem Or acci vocant a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber
postea, atque ex imhre frigus:ventus post fit, aer denuo, kaece
propter luppiter sunt ista quae dico tibi, quia mortalis aeque turhas
beluasque omnes iuvat. Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^
Milano.) era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è
rimasto il fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio. Se il
pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre e della Terra
madre risale al suo maestro Anassagora e peraltro indubbiamente abbastanza
comune fra i mistici. Questi versi ed alcuni altri, se sono per sé
poca cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti superstiti
di questi primi filosofi di Roma, mostrano una certa continuità di
pensiero, che non può sfuggire neppure ad un esame superficiale. Così,
per lasciare in disparte i altri: Qui sui quaestus causa
fìctas suscitant sententias e Omnes dant consilium vànum atque ad
voluptatem omnia. Congiunse così
questi versi (citati in diversi luoghi da Varrone, Cicerone e Nonio) lo
Scaligero. Questo concetto dell'aria poi ricorda i versi dell' Epickarmus
di Ennio: Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).
versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che si
possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici greci, nonché il suo
concetto della virtu, come non pensare alle dottrine pitagoriche diretto
o indiretto ne sia stato r influsso quando leggiamo sentenze come
queste di Sesto Turpili, l’una che ci afferma la felicità consistere
nella limitazione dei desiderii. “Profecto ut quisque minimo contentus
fuit ita fortunatam vitam vixit maxime ut philosopki aiunt isti^ quibus
quidvis sat est -e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere:
Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est sapientia. Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? E se i
grammatici che ci hanno conservato i frammenti di questo poeta, 200 versi
appena, avessero badato piu al pensiero che alla forma e quindi ci
avessero dato una raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di
arcaismi [V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le
note. Pascal: nam si a me regnum
Fortuna atque opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit e Scin
ut quemeumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas ingenium infirmai
bonum ? pr. Pbisciano III, 425 Keil. Pascal sl pkilosophi... isti annota:
i Cinici ? Io credo piuttosto che qui il
filosofo, imitatore di Monandro, ha alluso ai Pitagorici, dei quaU
sappiamo quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di
mezzo, di cui Gellio {N. a. IV, il) puo scrivere: mediae comoediae
proprium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio. pr. Nonio 392, 26
(Pascal, 67). Si notilo spissum iter., che forse può intendersi in senso
proprio, non traslato. e di idiotismi, potremmo forse citare altri
passi ugualmente notevoli e significativi. Così veramente notevoli
sono le sentenze di comici ignoti citate dal Pascal, che certo non
sarebbero fuor di luogo nei carmina aurea pitagorici e che
riprendono motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del
Pitagorismo quanto di altri sistemi posteriori. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus. Non est beatus esse se qui non
putat. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit. Quod vult habet qui
velie quod satis est potest. In nullum avarus bonus est in se pessimus. Ab alio
expectes alteri quod feceris. Beneficia in volgus eum largiri institueris
perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. Quid ? tu non
intellegis tantum te adimere gratiae quantum morae adicis ?
pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta; esso ricorda
la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si tratterebbe di un
altro verso, che Lachmann ricompone così: suis fingitur fortuna cuique
moribus. V. anche pr. Nepote, Vita Att. Il, 6 ed altri, di cui Ribbeck,
Gom. Fragm. pr, Seneca, epist. 9, 21.
Che la felicità e 1' infelicità, come dice questa sentenza, siano
proiezioni subbiettive dello spirito o non l'effetto di cause esterne, è
verità che i Pitagorici affermano ripetutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7
Meyer. Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la
prima sentenza di Turpilio su citata. pr. Seneca, ejìist. pr. Lattanzio,
div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex. Sever. 51: quod tibi fieri
non vis., alteri ne feceris e nei
Garm. epigr. lat. 192, 3 Buecheler: ^ab alio speres, alteri quod
feceris. (7) pr. Seneca, de benef. I,
2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62:
benefacta male locata malefacta arbitror. pr. Seneca, de benef. II, 5,
2. Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti:
Felicitas est quam vocant sapientiam. Tutare amici eausam, potis es,
suscipe. Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter. In amici
causa es, imm,o certe potior es. Iniuriarum remedium, est oblivio. Ma queste
sono quisquilie, che, se pur dimostrano una certa diffusione del pensiero
pitagorico in Roma, non possono tuttavia essere prese per se come indizi di una
vera e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della filosofia
latina dalla ellenica è da credere che anche gli accenni, spesso
accidentali, a quelle dottrine filosofiche, fossero presi di sana pianta
dalle opere che i filosofi latini imitano o traduceno. Il fatto tuttavia di
trovarli frequenti anche in opere prettamente romane dimostra che le
dottrine stesse avevano un contenuto ideale morale specialmente consono allo
spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale, sopra ogni cosa, ha un
profondo senso del giusto, che poi attuò nel suo mirabile sistema di
leggi. Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10 noi
potremmo certo aver notizia del Pitagorismo, quale egli potè osservarlo
praticato e seguito in Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi
trenta libri di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che
si occupasse principalmente di mettere in parodia e in derisione, ed
anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte [QuiNTiL. YI, 3,
97. Charis.Seneca, epist.^ 94, 28.] nuto che per la forma, i filosofi, le
loro opere e i loro sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo filosofo
poco o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente
libera dai pregiudizi volgari. Ut pueri infantes credunt signa omnia
ahena vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda vera
putant credunt signis cor inesse in ahenis sono versi del 1. XV delle Satire. E
un altro bellissimo frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto
alto e nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtu. Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum quis in versatnm quis
vivimus rebus potesse, virtus est homini seire id quod quaeque valet res.
Virtus seire homini rectum utile quid sit honestum quae bona, quae mala item,
quid inutile, turpe, inhonestum ; virtus quaerendae fène^n rei
seire modumque ; virtus divitiis pretium persolvere posse ;
virtus' id dare^ quod re ipsa debètur honori ; hostem esse
atque inimicum hominum morumque malo rum, contra defensorem hominum
morumque bonorum, magnifècare hos, his bene velle his vivere amicum
; commoda praeterea patriai prima putare deinde parentum^ tertia
iam postremaque nostra. fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22,
13. fr. 119 del Bàhr. = Latt. VI,
5, 2. D’Agostino (ci è stato conservato, dell'opera Yarroniana De
gente populi romani un passo per noi importantissimo: Genethliaci quidam scripserunt esse in
renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav Graeci ; hanc
scripserunt confici in annis numero CDXL ut idem corpus et eadem anima j quae
fuerint coniuncta in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in
coniunetionem. Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano nella
risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano persino il
compimento nello spazio di quattrocento e quaranta anni? Essi erano studiosi di
discipline magiche ed astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi di
caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma col decadere dei culti
ufficiali e l'in [De civitaie dei] filtrarsi di riti stranieri,
massimamente dall'Egitto e dall'Asia, divennero a grado a grado così potenti da
trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello
stato. Poiché, come dice Pascal in un suo geniale e interessante studio, svolgendo
in particolare la dottrina della resurrezione dei morti (filiazione
diretta della metempsicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di
loro particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute
nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di conoscere
dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi umani. Essi non
partivano, come gli aruspici e gl'indovini, dal concetto che gli dei
manifestassero la volontà loro per mezzo di segni particolari, ma dal
concetto, razionalmente svolto,
che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da rapporti
immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire di determinati fatti
o fenomeni dovesse normalmente seguire l'avverarsi di determinati eventi umani.
Era dunque, aggiunge Pascal, un
tentativo di giustificazione scientifica, tratta dal fondo della dottrina
pitagorica e platonica, della credenza popolare che la vita di ciascun
uomo fosse regolata dall' astro che lo aveva visto nascere. Strani
davvero questi filosofi che si sforzano di ribadire con argomenti
razionali e di ridurre a ragioni scientifiche le superstiziose credenze
del volgo! e che riescono tanto bene nel loro proposito da far sentire a
Favorino il bisogno di abbattere con una confutazione sistematica il loro
edifizio logico, ancora saldo sulle sue basi [La resurrezione della
carne nel mondo pagano, in Atene e Roma, e in Fatti e leggende di Roma
antica, Firenze, -AULO Gellio, Noct. Att. XVI, 1, riporta quasi
testualmente il discorso di Favorino a più di due secoli di distanza! Io
in verità non posso acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo
mondano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai
Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argomenti che Pascal porta a sostegno
della sua affermazione mi inducono piuttosto a credere il contrario e
cioè che l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica
greco-italico-romana e da, questa passasse poi al volgo per mezzo dei
responsi sibillini e dei poeti che l'accolsero e la diffusero per il popolo.
Di più, un'altra credenza notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei
Genetliaci: la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano
dovesse essere il Sole od Apollo che avrebbe bruciato l'universo e
riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini rinnovati alla vita;
quell'Apollo che pure Orazio (Carm. I, 2) invoca perchè venisse a
redimere l'umanità dal peccato. Tandem venias precamur^ ISube
candentes umeros amictus Augur Apollo. Così Cicerone ci parla nel
De divin. II, 46, 97 di un' altra scuola di astrologi per la quale
1'estensione di tempo era molto maggiore, e cioè di 470000 anni !
pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4: La Sibilla cumana ha predetto che dopo
quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi. Orazio, I, 2, v. 29
e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI, 748-751; Ovidio, Melavi. I, 89
sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg. Servio nel commento al v. 10 della IV
ecl. di Virgilio riporta il seguente passo del quarto libro de diis di Nigidio
Figulo: Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus
fdistinguunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde
lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt
Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa
ecpyrosis adpellanda est., dieant. Vedasi anche il Lobeck, Aglaophamus.
La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione dell'universo per virtù
di Apollo conflagrazione probabilmente simbolica e che tuttavia potè essere
aspettata da alcuno come reale ed effettiva furono dunque due
concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più precisamente in
quelle dottrine mistiche, nelle quali sappiamo quanta parte e che profonda
significazione avesse il mito apollineo e solare, E come può tutto questo
essere stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo, e
non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole attribuire al
popolo, a questo essere impersonale, così immaginoso e così balordo, così ricco
di fantasia e così credenzone! Non è assai più verosimile pensare a una
genesi più elevata e razionale, a una creazione veramente intellettuale e
FILOSOFICA, che, passando dai dotti agli indotti, dai sapienti agi'
ignoranti, si materializza e degenera dall'essenza primitiva, o, meglio ancora,
acquista con moto parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove
significazioni realistiche e concrete? In ogni modo siamo così
arrivati alle più grossolane deformazioni che il pensiero pitagorico
dovette subire in Roma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei
saggi e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze
d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze,
aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero, come vedremo
più innanzi; oggetto di riso nel teatro popolare, e d'altra parte si spiega
assai bene come i seguaci del Pitagorismo dell'antica maniera, per
sottrarre le loro [Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175 sgg.,
forso dell'Sl od 82 d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto
da qualche terapeuta od esseno. dottrine al ridicolo cui venivano
esposte nei loro contatti col popolo, sentissero il bisogno di
raccogliersi nuovamente in segreto, nel silenzio delle loro case e delle
loro scuole, per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sapienza
loro tramandata attraverso tante generazioni. Chi sopra ogni altro
si curò di far rivivere la filosofìa di Pitagora, che, in un certo senso,
poteva dirsi ormai estinta come complesso di teorie e d'insegnamenti pratici
ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente, del quale
in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e amicissimo di CICERONE. Il
quale appunto nel proemio del Timaeus seu de Universo lasciò scritto
parlando di Nigidio FIGULO: Fuit vir ille cum ceteris artihus,
quae quidem dignae libero essente
ornatus omnibus^ tum acer
investigator et diUgens earum rerum quae a natura invo lutae videntur. E
poi continuava: Deniqiie sic
ludico post illos nobiles
Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta
est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret. Senatore, pretoro, legato in Asia, e
infine esiliato da C. Griulio Cesare, forse non soltanto,mper aver
seguita la causa di Pompeo..
Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili 131 Bait. ci dà notizia di
questa sua legazione con le parole: Nigidius, eum. me in Gilieiatn
profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex legatìone ipse decedens.” SvETONio
fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45 a. C.: Nigidius
Figulus Pythagoricus et MAGVS in exsilio moritur. Si noti che ancora una volta
vediamo qui congiunti, come nella tradizione che si riferisce a Numa e
come, del resto, sempre, il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ.
dei) parlando di Nigidio, lo chiama
mathematicus. Per il suo
sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone, e benché non ci restino che
pochi e scuciti frammenti dei suoi scritti, pure sappiamo che FIGULO scrive
molto e con profondità di ricerche
che arrivava fino all'astruseria, come dice il Giussani, cioè
oltrepassava quel limite al di là del quale gli equilibrati uomini comuni
non vedono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. SamMONico, come ci
riferisce Macrobio (II, 12) lo disse
maximus rerum naturaUum indagator, e lo stesso Macrobio [Sat. YI,
8) lo dice homo omnium bonàrum artlum
discipUnis egregius, e così pure Cicerone, come s'è visto, lo giudica
acuto e diligente studioso dei più involuti fenomeni naturali, e precisamente
di quelle ricerche e di quegli studi, che furono la cura di pochi
solitari d' ogni tempo, quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai
più. AGOSTINO lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e mago '.
Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto mago, dimostrano anche
altre testimonianze e dello stesso SvETONio e di Apuleio e di Dione
Cassio. Il primo racconta come cosa nota a tutti che il giorno in cui
Ottaviano nacque, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Catilina, ed
Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente, essendo arrivato un
po' in ritardo, Publio Mgidio, conosciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa
del parto, afferma che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la
terra. Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto [Cfr.
NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda. Storia della
Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, 230. SvETON., Aug. 94: “a quo
natus est die, cuni de Catilinae coniuratione ageretur iti Curia et Octavius ab
uxDris puerperium serius adfuisset, nota ac vulgata est res Nigidium
comperta siche di essa fa,
con qualche leggera variante, Dionb Cassio (1. XLY, cap. T), alle
elucubrazioni astrologiche di Nigidio. Apuleio a sua volta riferisce di aver
letto in Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte
somma di denaro, anda da Nìgidio per consultarlo e questi, per mezzo di
fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed incantesimi (Carmine) ossia,
coma oggi si direbbe, ipnotizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire
dov'era stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le
altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo
Catone; ciò che fu pienamente confermato dai fatti. E dove mai aveva
acquistate il nostro filosofo siffatte conoscenze magiche ed
astrologiche? Forse durante un viaggio in oriente? Non sappiamo, sebbene
d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella Grecia impara che la
terra si muove con la velocità della ruota di un vasaio. – “morae causa, ut horam quoque partus
acceperit, adflrmasse domù num terrarum orbi natum.” De magia 42, 53,
9 Krueg. Mernini me ajìud Varronem
philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum, eum alia
eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum quingenios
denarium perdidisset ad Nigidium consultum, venisse; ab eo pueros cannine
instinctos indicavisse ubi locorum defossa esset crumena cum, parte
eorum, celeri ut forent distribuii^ unum etiam denarium^ ex eo numero
habere CATONEM philosophum^ quem se a pedissequo in stipem Apollinis
accepisse Caio confessus est. Ciò
si desume da una nota del Commentum a Lucano dove è detto che Nigidio ha il
soprannome di Figulo perchè regressus a
Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae figuli torqueri.” Del
soprannome altri davano una ragione un po' diversa, in rapporto con la
famosa obiezione dei due gemelli così spesso fatta agli astrologi e di
cui fanno ricordo, fra gli altri, lo [Quanto alle opere di
Nigidio, del quale sappiamo ancora che usava una dieta assai parca, possiamo
dire che furono molte e di varia natura. Nigidio scrive di
filosofia, di astrologia e anche di filologia. Di lui si ricorda
un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto dei quali, per
esempio, trattava dei vari regni ed età degli dei, secondo Orfeo e i
Magi, e nel sesto e nel decimo accennava alla teoria etrusca delle quattro
specie di dei penati:quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli
degl'Inferi e quelli degli uomini, cioè, probabilmente, gli spiriti celesti,
acquatici, terrestri (gli elementari dell' occultismo) ed umani. Perchè di
quest'opera ci restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il
grammatico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius
solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theologia^ Me in eommunihus
litteriSy nam uterque utrumque scripserunt. La luce di Varrone dunque
oscura quella di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti
soltanto, come dice lo Swoboda, dagli investigatori della
dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90),
Gellio, N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e
S. Agostino 1. e. IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius:nos
ìpsi ieiunìa ientaeulis levibus solvimus. Egli sostenne, come
ci attesta Gellio N. J.., X, 4, CHE IL LINGUAGGIO E D’ORIGINE NATURALE E NON
CONVENZIONALE. Arnob. adv. nat. Ili, 40, 138, 5 seg. Reiff: idem (Nigidius)
rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas sequens, genera esse
Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^ alios Neptuni.^ inferorutn
tertios, mortalium hominum quartos., inexplicable nescio quid dieens. NiGiDU
FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quaestiones nigidianas praemisit
Ant, Swoboda, Vindob., 1889, 25, ] più recondita, come, ad esempio, quel
Cornelio Labeone, uomo assai dotto. Di Nigidio sono ricordati anche
tre scritti intorno alla divinazione per mezzo delle viscere e intorno ai
sogni, una Sphaera graecanica e una Sphaera barbarica, un libro
intorno agli animali ed altri, interamente o quasi interamente
perduti. Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da Gellio
(N. a.) il quale ci fa sapere precisamente che mentre le opere di Varrone erano
lette e conosciute da tutti Nigidianae
commentationes non proinde in vulgus exibant et obscuritas subUlitasque
earum tamquam parum utilis derelicta est. Dunque gli scritti di Nigidio hanno
un carattere piuttosto riservato e segreto, sono poco intellegibili ai
piìi per la loro sottigliezza. E che significa cotesta oscurità e
sottigliezza che è poi abbandonata perchè poco utile? e da chi fu
abbandonata? dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di
quelle stesse dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla
diffusione delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo
della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva e all'infinito numero di
profezie, di predizioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente
annunziavano l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pensiamo
che fu questa appunto l'età nella quale,
Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port,
dell'anno 1877. Gellio, N. A. XVI, 6, 12. Giov. LoR. Lido, de
ostentìs e. 45 95, 14 96, 3 Wachsm. Serv. ad Georg. I, 43 e I,
2l8. (5) Serv. ad Qeory. I, 19. [in Roma fece la sua
apparizione la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redivivo,
che ebbe immagini e culto divino da parte degl'imperatori, non può esservi
alcun dubbio. Se Figulo e costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli
amici le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze
nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ha molte noie) ; se lo
stesso dovettero fare, dopo di lui, i Sestii, che sono ugualmente perseguitati;
le vecchie dottrine di Pitagora andano tuttavia sempre più
diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà di parola e
d'azione ai loro seguaci, che poterono finalmente abbandonare in gran parte la
segretezza e il mistero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di
cui si servivano prima. LUCANO nella sua “Farsaglia” riferisce
una oscura predizione di Nigidio, che com'egli dice, si studia di
conoscere il divino e i segreti del cielo e in queste conoscenze astrologiche e
superiore ai sapienti dell'Egizia Menfi – “At Figulus, cui cura deos
secret ac/ue caeli nosse fuit quem non stellarum Aegyptia Memphis
acquar et visu numerisque moventibus astra aut hic errata ait, ulla sine lege
per aevum mundus et incerto discurrunt sidera motu: aut, si fata 7novent,
orbi generique paratur humano maturalues Nigidio predice dunque
alla terra e agli uomini un vicino flagello, proprio come, prima di lui,
avevano fatto e con lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi
veramente pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti
di semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi
migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del mondo, su cui
l'aquila di Roma anda stendendo e allargando sempre più le sue ali
insanguinate, erano assai tristi. Ma d'altra parte le predizioni sono troppe e
troppo precise talvolta per non dover pensare a qualche relazione,
misteriosa senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabilmente
certa. Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di
Cicerone, con Nigidio Figulo si inizia in Roma un vero e proprio
risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora in qual guisa egli
tentasse questo rinnovamento dell'antica disciplina italica. Noi possiamo
desumerlo da altre testimonianze, le quali non solamente accennano a una
vera e propria scuola, a un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in
modo, che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio stesso
abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse tenuto da chi, forse
troppo tenero e non disinteressato amico del nuovo ordine di cose creato
in Roma dal trionfo di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè
vagliarle troppo, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori
dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli scolii
bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio queste notevolissime notizie. “Fuit autem illis temporibus NIGIDIUS quidam vir doctrina et
eruditione studiorum praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant.
Haec ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iactiabatnr,
qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari vellent. l V. tomo
V, part. 2, 317 delI'Orelli. A altrove si dice di un tale che €
ablit “in sodalicium sacrilegii Nigidiani.” In casa sua dunqae
Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai misteri della
filosofia pitagorica e forse anche vi si dedicano a pratiche mistiche, come ci
persuade la ciarlataneria di quel Vatinio, che, volendo farsi credere
pitagorico e dottissimo, fa evocazioni di morti e si abbandona a
nefandità d'ogni genere. E questi convegni finirono col suscitar dicerie,
maldicenze, sospetti, calunnie, e vi furono degli ohtrectatoreSy i quali
andavano sussurrando qua e là che quella era una setta riprovevole e
sacrilega; le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto minore
era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi, furono forse un
ottimo pretesto per legittimare l'allontanamento da Roma e l'esilio di un uomo
d'antica tempra repubblicana. Che poi il tentativo di NIGIDIO ha un
carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella ricostituzione del
sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza sociale e nella comunanza
dei beni, il sogno della nuova felicità umana, è cosa più che probabile,
ma non certissima. E così il sapientissimo mago, il maestro pitago [PsEUD.
CicER. in Sali.] – “Tu qui te Pythagoriaum soles dieere et hominis
doctissitni nomen tuis immanibus et barbar is moribus praetendere cum
inaudita ac nefaria saera susceperis eum infernrum animas elicere, Gum puerorum
extis Deos manes rnaetare soleas
Cicesone, in Vatinium. Dal che si può vedere, sia detto
incidentalmente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna! V.
quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii Pascal. Il rinnovamento umano
negli scrittori di Roma antica (Riv. d'Italia, Fatti e leggende, Firenze,
Le Monnier). rico, il matematico Nigidio muore nell'esilio, nel
tempo stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di ottenerne il
richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma dove essere davvero tenuto per
uomo assai pericoloso il sacrilego Figulo, se, non ostante che i famigliari di
Cesare e quelli ch'egli ha più cari ne parlassero con ammirazione e
ne avessero alta stima, il divo lulio non si lascia troppo commuovere, a
favore del fiero repubblicano ! Gli è che in verità in quel momento di
trapasso dalla repubblica (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo
l'interesse dello Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di
fronte agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.
Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente conservataci, nella quale
Cicerone, dando notizia all' esiliato delle pratiche ch'egli fa
indirettamente presso Giulio Cesare e delle speranze che aveva di poter
presto riuscire a ottenergli il perdono, dice cose così interessanti e
adopera espressioni di così alta stima, che metterebbe conto
davvero che la riferissimo per intero. Basti accennare tuttavia che egli
si rivolge a lui come ad uomo uni
omnium doctissimo et sanctissimo et maxima quondam gratta e suo
amicissimo, e che accingendosi a conso [È la lettera 13* del quarto
libro Ad familiars. In essa dice bensì Cicerone: Videor mihi prospicere primum
ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum ad salutem tuam, ma
questa era la semplice illusione, creata in lui dall' amicizia che aveva per
Figulo e dal desiderio che sentiva del suo ritorno ; poiché in realtà il
filosofo e lasciato morire in esilio. E sì che come aggiunge ancora
Cicerone familiares eius (cioè di
Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt, mirabiliter de te et
loquuntur et sentiunt e di piii accedit eodem vulgi voluntas vel potius
consensus omnium !] larlo crede
opportuno di premettere: at ea quidem facultas vel tui vel alterius consolandi
in te summa est si umquam in ullo fuit.” Cosicché, “eam partem quae
ab exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non attingam:
tibi totani relinquam -e concliiudendo termina col pregarlo “animo ut
maximo sis nec ea solum memineris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed
illa etiam, quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges et sperabis omnia optime et quae aecident,
qualiacamque erunt, sapienter feres. Sed haec tu melius
vel optime omnium.” Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue
parole si ricordano i versi citati della “Farsaglia”, e se si pensa
ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente ci sono rimasti
e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, possiamo formarci un'idea
approssimativa del genere di dottrina e di conoscenze che ha e di cui si fa
maestro: il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divinazione
(quella che oggi si dice chiaroveggenza) in tutte le sue forme,
l'astrologia; il tutto espresso e significato in un modo oscuro e
involuto, forse per via di simboli, che fu poi una delle cause maggiori,
se non la maggiore di tutte, per la quale le opere di lui furono poco
lette e a poco a poco caddero nell'oblio. E dopo la morte del
maestro, che ne fu dei suoi seguaci? Probabilmente non si dispersero e
continuarono a riunirsi. Tanto piu che non manca certo fra loro chi
potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la sua dottrina.
In quegli stessi anni infatti, o poco dopo, ci fu in Roma un'ALTRA setta,
ch'io non dubito punto fosse continuazione di quella di Nigidio, o certo
frutto dei suoi insegnamenti: voglio alludere alla “Sextiorum nova
et romani rohoris seda la quale
però Inter initia sua, quum magno
impetu coepisset, extincta est
Decisamente i tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a
certa filosofia! E in verità non potevano essere molti quelli che, in
Roma, desiderassero di attendere sul serio alle speculazioni filosofiche:
le ricchezze e la potenza della nuova Roma imperiale offrivano troppi
svaghi, troppi divertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia
di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate! Cosicché gli sforzi di quei
pochi, i quali avrebbero pur voluto richiamare i concittadini alla serietà
d'una vita meno fatua e più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire
effetti poco duraturi. Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna
Seneca? Le notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma
sufficienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corruzione, come
uomini desiderosi piu delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi,
amanti più della verità e della scienza che delle ricchezze e degli
onori; come uomini infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù,
quanto maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio. Del primo
di essi, di nome Quinto, parla specialmente, e sempre con parole di
profonda e sentita ammirazione, il più grande dei moralisti romani, SENECA,
in quelle sue mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica
sapienza e così degne d'essere studiate e meditate più che non
siano! In una di queste, la novantottesima, volendo Seneca provare al suo
alunno Lucilio che spesso molti disprezzarono quei beni che i più
desiderano come fonti di felicità, cita gli esempi di Fabrizio e di
Tuberone, e poi aggiunge che il [ Seneca, Quaest. nat. cap.
ultimo.] padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere un
giorno governare la cosa pubblica, rifiuta persino la carioa di senatore,
offertagli da Giulio Cesare. Poiché egli non annette alcuna importanza ai
pubblici onori, ritenendoli, come sono, troppo incerti e transitory. Una
rinunzia di questo genere non e certamente cosa che tutti sapessero e
volessero fare in quei tempi di sfrenate ambizioni ; e tanto meno poi per
ragioni filosofiche! Ma tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona
altro ornamento che non fosse il laticlavio:ornamento meno visibile
e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero, che fosse conquista della
sua intelligenza e della sua virtù, che nessuno potesse riprendergli e
che egli potesse liberamente trasmettere senza pericolo di manomissioni o
di latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza; per la quale e
acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio, progressi
sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desiderio, fu sul punto, un
giorno, di suicidarsi. Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ricchezze;
anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene, ripete quanto fa il
filosofo Democrito, il quale, avendo previsto da certi segni astrologici
una carestia d'olio, prima dell'epoca del raccolto che la bellezza delle
olive faceva sperare sarebbe stato abbondante comperò a buon
[€ Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut rempuhlicam deberet
capessere, latum clavum, divo lulio dante, non recepii; intelligehat enim, quod
dari posset, et eripi posse.” Plutarco,
Del modo di conoscere i propri progressi nella virtù, § 5: KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov
àcpetxóxa xàg èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi
cptXoaocpsIv aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt})
x^^®'?^ np{bzo)t, dXtyow Ssyjaat xaxa3aXtv éaoxòv ix xivog Sti^poug. mercato
tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta realmente la carestia, restituì ai
primi proprietarii la merce acquistata, appagandosi d'aver provato così
che gli sarebbe stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto. Ma che
uomo era Sestio! Che scrittore vigoroso e ardito, e come diverso da tanti
filosofi che scrivendo siedono in cattedra, discutono, cavillano, e non
danno all'anima alcun vigore perchè non ne hanno! A leggere Sestio son
parole di Seneca si sente ch'è pieno di vita e di vigore, uno spirito
libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti sempre una gran fiducia
in te stesso ! In qualunque stato d'animo, quando si legge il suo libro,
si sfiderebbe la fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro
qualsiasi ostacolo! Poiché Quinto Sestio ha questo grande merito, che,
pur mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non ti
fa disperare di raggiungerla. Quinto Sestio la mette bensì molto in alto,
ma in luogo accessibile a chi la voglia conquistare, sì che ammirandola tu
speri. Quale più alta lode [Plinio, Naturalts Historia: “Ferun
Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli
societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium, praevista
ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum vìlitate propter
spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum, mirantibus qui
paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant in primis cordi esse.
Atque ut apparuit causa, et ingens divitiarum cursus, restituisse mercem anxiae
et avidae dominorum, poenitentiae, contentwm ita probasse opes sibi in facili,
quum vellet, fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus
Atkenis fecit eadem ratione.” Seneca, Epistola – “Lectus est
deinde liber Quinti Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et,
licet neget. Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum
anim,i! Hoc non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta
clarum] per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da Seneca
? E i suoi insegnamenti poi quanto erano sentiti e profondi,
altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu persuadere un uomo della
bruttezza dell'ira? egli ammaestrava: portalo, mentr'è adirato, innanzia
uno specchio e fa che vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei
vedesse a quel modo anche l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed
agitata ne sarebbe atterrito. Della onestà e della virtù egli ebbe così
alto e giusto concetto che sostenne l'uomo habent tantum nomen,
cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìsputant, cavillantur:non faciunt animum,
quia non habent. Quuni legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est,
supra hominem est, dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque
positione mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus provocare,
libet exelamare:Quid eessas, Fortuna? congredere! paratum vides. Illius animum
induo, qui quaerit ubi se experiaiuT, ubi virtutem suam ostendat,
Spumantemque davi pecora inter inertia votis Optai aprum, aut
fulvum descendere monte leonem. Libet aliquid habere, quod vincam,
cuius patientia exereear. Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et
ostendet Ubi beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non
faciet. Seies illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn
virtus tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres.” Seneca,
De ira Quibusdam, ut ait Sextius iratis profuit aspexisse speculum;
perturbavit illos tanta mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non
agnoverunt se, et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo
repercussa reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere
posset., intuentes nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et
distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per ossa
carnesque, et tot impedimenta., effiuentis:quid si nudus ostenderetur ? et
e. onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che per
avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto il tempo in cui si
conservi onesto essere altrettanto felice quanto Giove, non essendovi tra
la perfezione e quindi la felicità umana e la divina differenza se non di
durata. Ond'è che egji potè veramente additare ai volonterosi il
bel cammino della virtù ed esclamare: Di qui si monta alle stelle! di
qui: seguendo frugalità, temperanza^ fortezza e non già (par quasi sottintendere) per
decreto di popolo di senato ! e potè confortare anche all'ascesa,
persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi la mano. Seneca,
Epistola: “Solebat Sextìus dicere^
lovem plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^
guae ' praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui
locupletior:non magis^ quam inter duosj quibus par saientia regendi
gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque navigium est.
lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus
est. Sapiens nihilo se minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio
breviore clauduntur. Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui senior
decessiti non est beatior <?o, euius intra pauciores annos terminata
virtus est:sìe Deus non vincit sapiente ut felicitate^ etiam, si vincit
aetate. Non est virtus maior^ quae longior. lupiter omnia habei; sea nempe
aliis tradidit habenda. Ad ipsum hie unus usus pertinet.^ quod utendi
omnibus causa est: sapiens tam aequo omnia apud alias videi contemnitque^
quam lupiter., et hoc se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non
poteste sapiens non vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum
iter et clamanti:Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:,
hac, secu7idum fortitudineyn ! Non
sunt Dii fastidiosi, non invidi ; admittunt, et ascendentibus manum
porrigunt. Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit\ immo.,
quod propius est., in hom.'ines venit. Nulla sine Beo mens
bona est. Semina in corporibus kumanis divina dispersa sunt; quae si bonus
cultor excipit.” Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero
suscitatrice di virtù, era la nota caratteristica di Sestio, di
quest'uomo profondo, che filosofa scrivendo con gravità romana, e che
paragona l'uomo sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo
animo, a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e pronto
alla battaglia. Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per
esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio, simìlia origini
prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ surgunt: si malus^ non aliter quam
humus sterilis ac palustris^ necat, ac deinde creai purganienta prò frugihus. Seneca,
Epistola Sextium ecce quam maxiìne lego^ virum acrem^ graecis verbis^
romanis moribus philosophantem. Movit me imago ab ilio posila:ire
quadrato agmine exercitum^ ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae
paratum. Idem^ inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique
expandat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia
sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod in exercitibus
his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^ ut imperium ducis
simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae, ut signum ab uno datum,
peditem simul equitemque percurrat ; hoc aliquanto magis necessarium esse
nobis Sextius ait. UH enim saepe hostem timuere sine causa ;
tutissimumque illi iter, quod suspeetissimum fuit. Nihil siultitia
pacatum habet ; tam superne UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai
latus ; sequuntur pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^
et ipsis terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum
munitus est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si
ignominia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus et
contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante
diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est:non enim inquinati
sumus, sed infecti. Nel De
illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che
ad Q. Sextii philosophi sectam transiisse dicitur ^. Alcuni
codici però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.] questa sua efficace
robustezza di pensiero, e affascinandoli col vigore della sua persuasione
e con la nobiltà della sua vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza,
potè far sorgere quella romani rohoris
seda, di cui abbiamo fatto già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe
tuttavia dei seguaci e prosecutori isolati, come lozione di
Alessandria, che fu maestro anche di Seneca, Cornelio Gelso, Dì lui
parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24. Vedi anche Gellio, èi.
A., I, 8. Nella interessante epistola, Seneca, parlando di se al suo Lucilio,
gii dice come oltre all'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche,
dai funghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri,
aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e ciò per
gli insegnamenti di Soxione che dimostrava la inutilità e i danni di
questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pitagora e di QUINTO
SESTIO, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per intero il passo di Seneca,
che suona così: Quonìam coepi Ubi exponere quantum maior impetu ad philosophiam
iuvenis aeeesserhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi
amorem Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus absiinuisset^ quae postea Sextius.
Dissimilis utrique causa erat^ sed uirique magnifica. Rie etc. At
Pythagoras Haee quum ex posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non
credis^ inquit, aììimas in alia corpora atque alia describi., et
migrationem esse quam dicimus mortem? Non credis in his
pecudibus ferisve aut aqua m,ersis illum quondam hominis animum morari? Non credis
nihil perire in hoc mundo, sed anulare regionem? nec tantum caelestia per
eertos circuitus verti, sed ammalia quoque per vices ire., et animos per
orbem agi ? Magtii ista crediderunt viri. Itaque iudicium quidetn tuum sustine:
ceterum omnia tibi integra serva. Si vera sunt ista., abstinuisse
animalibus innoeentia est., si falsa frugalUas est. Quod istic
credulitatis tuae àamnum est ? Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio.
His instinstus abstinere animalibus coepi., et anno peracio non tantum
facilis erat m,ihi consuetudo., sed dulcis... [Quintiliano,
Lib. X, 1, 124: Scripsit non parum
multa Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine cultu ae nitore.”] Papirio Fabiano, Moderato di Cadice, ed
altri. I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due. Il
primo quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al
tempo di Ottaviano e anche di Cesare, se, come dice Seneca^ rifiutò il
laticlavio divo lulio dante, e
avrebbe pure, secondo il surriferito passo di Plinio dimorato, non
sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene. L’altro QUINTO SESTIO, suo
figlio, anch'esso di prenome Quinto, che prosegue l'insegnamento paterno, che
fu ritenuto, sebbene a torto, autore delle sentenze filosofiche note
sotto il nome di Sesto pitagorico, della cui vita infine non
sappiamo assolutamente nulla. Ora, di qual dottrina furono
maestri questi filosofi, ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di
tristi? [Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib>
II delle Controversie^ prefaz. Questo filosofo pitagorico visse al
tempo di Nerone, e famoso per i suoi insegnamenti intorno alla scienza
simbolica dei numeri, e maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest.
Gonviv. Vili, 7) e scrive un'opera voluminosa intorno alla dottrina
pitagorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. 33 ed. Nauck; Stefano Bizantino e
Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio, Vita di Plotino e. 20
e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III. Epist. XCVIII già citata. Di un
Sestio, filosofo pitagorico., che fiorì ai tempi d'Ottaviano, parla
Eusebio [Chron., all' olimpiade 195. 1 = 1 d. C). Natur. Eist. Vedile nella collezione del
Mìjllach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, e leggi, a
proposito della paternità di esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso
Mullach v. II, pp. XXXI sg.), anche l'esauriente discussione che fa lo
Zeller, Die Philosophie der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg] Essi ebbero intanto una propria dottrina
psicologica, se, come riferisce Claudiano Mamerte spiegarono che l'a-nima
è una certa forza incorporea, ilìocale e inafferrabile, che, essendo capace
senza spazio, assorbe e contiene il corpo. Ma questo evidentemente è
troppo poco per determinare a che scuola essi appartennero. E ben
vero che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epistola)
che volere o no (licei neget), il padre Sestio era un
filosofo del PORTICO; ma quel volere o
no ci fa comprendere che in realtà
Sestio non si professa un filosofo del PORTICO. E infatti qualche altra
testimonianza lo dice pitagorico, e tale lo proverebbero non solo le sue
conoscenze astrologiche, dimostrate dalla famosa esperienza dell'olio, ma
altresì alcune abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di
ogni giorno l'esame di coscienza e quella di astenersi dai cibi
carnei, l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei seguaci del
Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima è da notare che Sestio non
la giustificava, come Pitagora, De statu anirnae, Eomanos etiam eosdemque
philosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater^ Sextius fìlius
propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati sufzt,
atque hane super omni anima attulere sententiatft. Incorporalis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque
indeprehensa vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et
continet Seneca, De ira^ lib. Ili, 2:
Faciebat hoc Sextius ut consuniTnato die^ quum se ad noeturnam
qutetem. recepisset^ interrogaret animum suum:Quod hodie malum tuum
sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es?. A questo proposito, oltre alla Up.
CVIII di Seneca riportata nella nota seguente, si suol citare il passo,
conservatoci da Origene, (contra Celsum,
lib. YIII, 397 ed. di Cambridge), che suona: Il cibarsi di carni è indifferente, ma
l'astenersene è più conforme a ragione. Tale sentenza però è di Sesto
pitagorico, non già del nostro Sestio. escori la dottrina della metempsicosi, ma con
argomenti che ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè
meno astrusi. “Gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri
alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci si abitua alla
crudeltà provando piacere nel divorar della carne; si deve dunque ridurre
al minimo ciò che può alimentar la lussuria e conclude dicendo che
la varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per i
nostri corpi. Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii non
furono ne filosofi del PORTICO ne pitagorici, ma ebbero un proprio
sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di elementi
pitagorici ; e che questo loro sistema non e ne inorganico, né dubitoso
(come quello degli accademici dell'ultima maniera) né materialista -come i
filosofi del Giardino --, sibbene avvivato da una profonda fede,
illuminato da una chiara luce spirituale e fondato su convinzioni ben
salde e su opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo
insomma, che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'oziosa
occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria forza organizzatrice
e ordinatrice della vita, e per ciò appunto destinato a raccogliere pochi
seguaci e a vivere per tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni,
di corruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la grande
Roma nel trapasso dalla repubblica al principato. Seneca, Epist. CVIII:
hie {Sextius) homini satis alimentorum eitra sanguinem esse eredebat. et
criiclelitatis eonsuetudinem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta laceratio.
Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat bonae
valetudini contraria esse alimenta varia et nostris aliena eorporibus. Poiché si è visto come, dopo NIGIDIO, i
Sestii cercano di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non sarà
certo inutile indagare quali tracce esso lascia di sé nella filosofia
romana, siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o semplici
notizie incidentali. Così infatti potremo non solo farci un'idea del
giudizio che ne fecero gli scrittori di quel tempo, ma ci si
offrirà anche il modo di esporne e chiarirne qualcuno dei punti più importanti
o di metterne in luce gli aspetti più notevoli. Certo, in
un'età nella quale le più svariate credenze religiose e i più diversi
sistemi di filosofìa affluendo in Roma da ogni parte del mondo, e
specialmente dalla Grecia e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per
vicendevole influsso, non è facile sceverare e seguire uno per uno
i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che, come la filosofia
pitagorica, essendo molto antichi e avendo avuto larga diffusione e gran
numero di seguaci, trasmisero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche
posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci permette almeno di
raccogliere tutti quei passi di scrittori latini dell'ultimo periodo
repubblicano nei quali si fa esplicita menzione di Pitagora, e di esaminare
altresì quei luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a
dottrine e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per
concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di Samo.
Incominceremo pertanto dal poema di LUCREZIO, che e, come tutti
sanno, il più mirabile tentativo di elaborazione poetica in lingua latina di un
sistema filosofico precisamente del sistema epicureo. Altri felici
tentativi di esporre in versi dottrine di filosofi sono bensì stati fatti da APPIO
Claudio, da ENNIO, da qualche altro, ma per brevi trattazioni. Sì che
Lucrezio pur conscio della grandezza del cantore degli Annales puo ben
affermare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare di
esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e dell’Italia romana, non ancora
assueta alle sottigliezze, alla profondità, alla precisione del
linguaggio filosofico, la speculazione. Il “Della Natura” infatti non
solo espone con ordine sistematico la complessa dottrina de la filosofia
dell’Orto intorno air essere delle cose in generale, all' infinità dell'universo,
ai moti e alle forme atomiche, alla natura, composizione e mortalità dell'
anima, alle cause delle sensazioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini
del mondo e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni
meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano piti sicuro
fondamento i principii della dottrina epicurea, le opposte e diverse
dottrine di altre scuole filosofiche, e combatte le argomentazioni
contrarie e le obiezioni possibili degli avversari. Di questa opera
dunque, costruttiva in quanto elabora su fondamenti nuovi, e polemica in
quanto combatte e distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale
che noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica, per
vedere se e quanto in essa il filosofo – come rappresentante dell’Orto -h
tenuto conto delle dottrine di Pitagora. Ora, su due punti essenzialmente
LUCREZIO discute e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi
dal suo. Sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a
proposito della prima combatte e confuta esplicitamente, nominandoli,
Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo di Samo invece non fa il
nome neppure una volta, né qui ne in altra parte dei poema. Ma ciò non
toglie che un attento esame del “De rerum natura” stesso non ci permetta
di scoprire dove e quando, pur senza dirlo, LUCREZIO pensi a
combattere i principii della filosofia pitagorica, È ben nota, in verità,
la disistima che la filosofia dell’ORTO ha per la matematica; il che
parrebbe che dovesse farci escludere senza altro qualsiasi considerazione, da
parte diluì, per un sistema che studia e rappresenta sotto
l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche matematico-musicali
avevano tanta parte. In realtà però possiamo escludere a priori soltanto
questo: che i filosofi dell’orto tenesse presenti in qualche modo le dottrine
della scuola italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo
studio del “De rerum natura” di Lucrezio conferma senz' altro questa
induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica dei primi due
canti, che contengono 1' esposizione e lo svolgimento dei principii
intorno al mondo e alla materia, e la teoria atomica, manca aJffatto
qualsiasi accenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche.
Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero e dall'
armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima e il dividno), e quanto
all'anima, pur considerando anche di questa l' aspetto numerico e
musicale, sviluppavano soprattutto il concetto della sua eternità. Non mai
nata, perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immortale,
attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (metempsicosi). Sotto questo
aspetto pertanto la filosofia di Pitagora dove pure essere tenuta in
qualche considerazione dall’Orto, se scopo fondamentale della sua speculazione
fu di combattere i due grandi timori onde nasce r intelicità umana, cioè
il timore della morte e quello del divino, e se, per vincere il primo,
difese con tutte le armi della logica il principio della materialità e
della mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran parte alla
filosofia pitagorica la dottrina platonica e le speculazioni del PORTICO
intorno alla origine divina e all'immortalità dell' anima? E la filosofia
pitagorica non si uniforma forse, spiegandole e chiarendole, alle più
inveterate superstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffuse
credenze religiose degli uomini? Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo
della costruzione teorica dei suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che,
accettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1' applicazione al mondo
fisico, l’estendesse, come fece realmente, al mondo psichico (per lui i'
anima constava infatti d' un aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la
conseguenza della mortalità dell' anima o, più precisamente, del
necessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo. Ma, giova
ripeterlo, egli volle anche soprattutto combattere il timore della morte, il
quale nasce, secondo lui, dal pensiero alimentato dalle superstizioni
religiose, e dalle favole dei poeti e dei vati che, morto il corpo,
l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale credenza una ve n' era largamente
diffusa dalla religione, dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da
filosofi e da poeti secondo la quale 1' anima non solo continuava
ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi corpi e
ritessere più d' una volta la trama della vita terrena:insomma l'antichissima
credenza nella metempsicosi. E per di più questa credenza, anche nei
termini strettamente epicurei, poteva in un certo senso apparire
ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità del tempo e nel perpetuo
dissolversi e ricomporsi degli atomi materiali, era ben lecito ammettere
come possibile il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che
ricreasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima anima. Data dunque questa
possibilità teorica, si comprende che l’Orto dovessero esaminarla
anche al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne le
loro conseguenze in rapporto alle due questioni dell'eternità dell'anima e del
timore della morte. Tanto ciò è vero, che Lucrezio svolge appunto in modo
ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione polemica, là
dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima e la vanità del temere la
morte. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte del poema
che si riallaccia così strettamente con la dottrina pitagorica, è necessario
premettere che già al principio del primo libro, in quel mirabile e tormentato
proemio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia della sua
trattazione, è fatto cenno delle varie credenze e opinioni intorno all'
anima e dell' importanza capitale che la soluzione del problema
psicologico ha, nel sistema epicureo, in ordine alla necessità di
sradicare dall' animo umano il timore della morte. E questo
cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che ad esso si collega del
famoso sogno di ENNIO, ha pure importanza per il nostro tema.
Per rassicurare infatti MEMMIO al quale Lucrezio dedica “De rerum natura”
che potrebbe dubitare, accettando la
dottrina epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lucrezio
dimostra che anzi la religione fu causa che gli uomini commettessero
delitti nefandi, come il sacrificio d’Ifigenia in Aulide. E poi soggiunge
che, vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner sempre
quell' altro timore, che è alimentato dalle spaventose favole dei poeti sulla
vita d' oltretomba, da sogni e da apparizioni, e trova la sua ragion d'
essere nell' ignoranza umana intorno alla vera natura dell' anima. Di qui
pertanto la necessità di studiare insieme con la natura delle cose
celesti, degli dei e della materia anche il problema dell' essenza dell' anima
e della natura dei sogni e delle visioni. E precisamente nei questi versi
si accenna in particolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima
e intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo: Ignoratur
enim quae sii natura animai, nata sit^ an cantra nascentihus
insinuetur^ et simul intereat nobiscum morte dir empia, an tenehras
Orci visat vastasque lacunas^ an pecudes alias divinitus insinuet se,
Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno detulit ex Helicone perenni
fronde coronam, per gentis Italas kominuìu quae darà clueret\ etsi
praeterea tamen esse Acherusia tempia Ennius aeternis exponit versibus
edens^ quo ncque permanentanimae ncque corpora nostra^ sed quaedam
simulacra modis pallentia miris; unde sibi exortam semper fiorentis
Homeri 125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas
coepisse et rerum naturam expandere diciis. Quanto all' origine dell' anima, l’Orto
sostene che essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva
entrata già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra [Mi
pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta dal Gobel
(permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più ragionevole
correzione del permaneant dato dai codici. Ne so vedere in qual modo tale
correzione urti, come dice Giussani, contro il senso di permanare. In
questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi attengo alla
lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum natura, Torino, Loescher, nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte
che 1' aspettava al morire del corpo le opinioni invece erano tre:
l'epicurea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi
corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la popolare, che
scendesse all'Orco, o Ade o Averne [tenebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la
pitagorica, che passasse per virtù divina nel corpo di altri animali
(pecudes alias divinitus insinuet se ). Le due ultime però non erano in
contraddizione fra loro ; tanto è vero appunto che Ennio, nel sogno famoso
degli Annali, pur esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1'
esistenza dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discendeva non
già l'anima (questa passava subito? in altri corpi), ma un' ombra, come a
dire un doppio, dell'anima stessa, di mirabile pallore: come quella
precisamente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno doppio dell' anima del divino Omero che,
piangendo amare lagrime, gli svelò l'essere delle cose. E dunque
evidente, per questo accenno alla dottrina psicologica epicurea in
contrapposizione con quella di altri filosofi ed anche di Pitagora, che
nel terzo libro di Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo e
lo è infatti esaurientemente la teoria pitagorica della metempsicosi. Ma
non v' è forse cenno d' un' altra concezione che fu propria di Pitagora e
dei suoi seguaci ; voglio dire della concezione dell' animaarmonia?
La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lucrezio
compose verosimilmente questa parte del proemio del primo libro, quando
già aveva composto il terxo. Si veda in proposito la paziente e lucida
analisi del Giussani). È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di
accingersi a determinare la natura materiale atomica dell' anima nelle sue due
distinzioni dì animus od anima., confuta una dottrina • certo ancor
diffusa ai suoi giorni che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le negava
una consistenza sua propria, non pure extracorporea, ma nel corpo stesso,
concependola soltanto come una specie di armonia delle funzioni organiche:sensum
aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^ vermn habitum quendam
vitalem corporis esse^ 100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat
nus vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens: ut bona saepe
valetudo eum dicitur esse corporis, et non est tamen haec pars ulta
valentis, sic animi sensum non certa parte reponunt. Ora chi,
prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dottrina, che anche ai tempi di
Platone e di Aristotile era tanto diffusa da far sentire all' uno e air
altro la necessità di confutarla ?
Pitagora e i suoi seguaci, e specialmente, fra questi, Filolao, avevano bensì
accettato e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però
tale concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso
datogli Platone, Fedone e. XXXVI e XLI XLY; Aristotile, DelVanima^ I, 4.
Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e difendendola,
Aristosseno talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e DiCEARCo di
Messina (Cicerone). La si fa risalire veramente a Parmenide e a
Zenone d' Elea (Diog. Laerzio): ma che debba riconoscersi anche
come propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel
suo Philolaos.; tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi la
espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate pitagoreo la
riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII). qui da Lucrezio e
neppure quello datogli da Simmia nel dialogo di Platone, è appena
necessario di dire, se esso si accordava nel sistema di quella scuola con
l'altro della metempsicosi, ossia con il concetto della
preesistenza e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana
dunque dei versi recide harmoniai fìomen^ ad organicos alto delatum
Heliconi sive aliunde ipsi porro traxere et in illam trastulerunt^
proprio quae tum res nomine egehat quid quid id est habeant.. come le
argomentazioni di Socrate nel Fedone erano volte non contro la teoria di
Pitagora, ma contro quella interpretazione e limitazione materialistica
di essa, per cui r anima era ridotta a semplice funzione del corpo.
Ed è ben naturale che così limitata e interpretata la combattessero,
insieme con gl'idealisti platonici, anche i materialisti epicurei:poiché
per gli uni rappresentava la negazione della essenza individuale e quindi
della immortalità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesistenza di
quella quarta sostanza atomica (la sostanza sensoriale) onde essi concepivano
costituita (insieme con le altre tre sostanze elementari aria, freddo e
caldo) 1' anima umana. Si comprende quindi che Lucrezio, prima di
[Pell’Orto, 1' anima è bensì nativa e mortale, ma è però, fin che
vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte dell' essere
umano ne più ne meno di quel che ne siano parte le mani, i piedi, gli
occhi, ecc. (Luce.) e localizzata nel petto, di dove si diffonde per
tutto il corpo, è adibita alla recezione dei moti e delle immagini sensoriali e
alle funzioni intellettuali:sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia
veniva a cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle
imaccingersi alla esposizione della teoria psicologica, confutasse questa
dottrina, che non solo negava all' anima una sua localizzazione nel
corpo, ma veniva in ultima analisi a negarne 1' esistenza. Dimostrata la materialità dell'animo, Lucrezio
passa a dar le prove ventotto in tutto della sua mortalità. Ora vi è un
gruppo di queste che combattono il concetto della immortalità sotto l'aspetto
non già del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo preesistere
alla nascita del corpo e della possibile pluralità delle sue esistenze
terrene. Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi,
e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi.
Veramente non soltanto i Pitagorici con la dottrina della
metempsicosi ammisero, fra gli antichi, un' esistenza pre-terrena dell' anima,
ma anche Platone e gli Stoici; e inoltre, come ho già osservato più
volte, tale dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una
credenza largamente diffusa nelle leggende popolari, nella poesia, neir
arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in magini, dei sogni,
delle visioni, delle allucinazioni (anche queste vere immagini materiali)
che V anima riceve dal di fuori, ma non produce essa stessa.
Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice appunto che
essi con la loro teoria venivano a dimostrare
nihil esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^
frustraque ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse
animum vel animam nec in bestia.” {Ttcsc.^ I, 21), e più
esplicitamente più sotto (31 1:
Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum omnino animum esse
dixerunt. segnamenti religiosi che s'
impartivano nei Misteri. Sì che gli argomenti di Lucrezio possiamo
affermarlo con sicurezza non sono esclusivamente contro i Pitagorici. Ma
poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra il popolo tale
credenza, e se pure la derivò, c?ome vogliono, dall' Egitto, fu veramente il
primo che le diede veste filosofica, e su di essa fondò 41 suo sistema
dottrinario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli altri, così
dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta epicureo, che venivano, in
sostanza, a battere in breccia ed a scalzare uno dei capisaldi della
filosofia pitagorica. Gli argomenti che Lucrezio adduce contro 1'
opinione della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in
quattro successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi dopo conchiusa questa parte fondamentale della
sua trattazione nella meravigliosa invettiva contro il timore della
morte. a) Il primo argomento è desunto dalla mancanza in noi
di ogni ricordo dell' esistenza anteriore alla nascita:se la nostra anima
è esistita un'altra volta e quindi è entrata nel corpo al momento della
nascita, perche non siamo assolutamente in grado di ricordarci del
tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri [C è bisogno di
rammentare che appunto ctalla realtà di tale ricordanza rappresentata non
già dalla reminiscenza di particolari di una anteriore vita terrena, ma dalla
inoppugnabile e incontrovertibile esistenza delle ideo innato nella mente di
ciascun uomo Platone deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza
dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone ì
capitoli l8-22ì. 2) E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha
accennato nel proemio al primo canto. membranza delle nostre azioni
passate ? Dunque l'anima ha mutato così da potere perdere interamente la
facoltà di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non
differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere che r anima di
prima è morta e che quella che abbiamo in questa vita è stata creata
proprio in questa vita. Ora si noti che
il poeta non trae, dalla mancanza della memoria del passato, la
conclusione che sembrerebbe legittima: dunque 1' anima non è preesistita ; ma dice soltanto che dato pure che
potesse essere materialmente esistita il fatto di non serbar coscienza
del passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità
(personalità infatti non è altro che persistere di una medesima coscienza),
cioè che è morta da quella che era, per diventare un'altra.
Praeterea si immortalis natura animai constai et in corpus
nascentibus insinuatur, cur super ante actam aetatem meminisse
nequimus nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ? nani si
tanto operest animi mutata potestas, omnis ut actarum exciderit
retinentia rerum, non, ut opinor, id a lete iam longiter
errai; quajjropter fateare necessest quae fuii ante interasse,
et quae nune est nunc esse creaiam. Insomma in questi versi non si
nega la possibilità che siano preesistiti, e quindi che esistano in
eterno i componenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi Su
questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come vedremo fra poco,
Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice cenno (al v. 766) e poi
più innanzi accennando alla possibilità della rinascita dell'anima e del
corpo. stere in eterno della coscienza, che, per Epicuro, deriva
dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima. D'altra parte,
continua il poeta, se 1' energia vitale dell'anima entra in noi quando, formato
il corpo, usciamo alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa che si vede che è cresciuta col corpo e con le
membra immedesimandosi nel sangue, ma dovrebbe, non fusa col corpo,
vivere a sé come in una prigione. Ora, poiché avviene proprio il
contrario e cioè 1' anima é diffusa per tutto il corpo, sì che ogni parte
di esso sente, e cresce e si sviluppa col corpo stesso segno é che non é
entrata in esso perfetta, e che, partecipando delle vicende del corpo,
nasce (e quindi anche muore) con esso. E ammesso pure che, • perfetta e in sé
raccolta all'atto di entrare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua
parte appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e
dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a un morire per
rinascere tosto altra da quella di prima. Un altro argomento pare a Lucrezio di
poter trarre dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il
cadavere in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è costituita, come
pensava Epicuro, da residui frammentari dell'anima primitiva, (il che dimostra
che l'anima stessa, potendo frazionarsi, é peritura e mortale)
bisognerebbe ammettere ed eccoci ancora alla metempsicosi che nei vermi
si incarnino anime preesistenti; nel qual caso, lasciando pure a parte la
stranezza che mille subentrino là di dove una è partita, o esse stesse si
formano il proprio corpo dalla materia putrescente, o lo trovano già
fatto e vi entrano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,
piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontaneamente a
rinchiudersi in un carcere corporeo, dove necessariamente dovranno soffrire;
nella seconda varrebbe il ragionamento fatto precedentemente che un'
anima non può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già
formato senza snaturarsi. quod si forte animus extrinsecus insinuari
vermibus et privas in corpora posse venire eredis, nec reputas cur
milia multa animarum conveniant unde una recesserit, hoc tamen est
ut quaerendum, videatur et in discrimen agendum, utrum tandem animae
venentur semina quaeque vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi
sint, an quasi corporibus perfectis insinuentur. at neque cur faciant ipsae quareve
laborent dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,
730 sollicitae volitant morbis alguque fameque: corpus enim
magis his vitiis adfine laborat, et mala multa animus contage fungitur
eius. sed tamen his esto quamvis facere utile corpus cui subeant:
at qua possint via nulla videtur. haut igitur faciunt animae sibi corpora
et artus, nec tamen est uiqui perfectis insinuentur
corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse conexae, neque consensus
contagia fient. c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la
metempsicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregrinazioni, un'anima di
leone, per esempio, capitare in un cervo o quella d'un avoltoio in una
colomba, e viceversa, per modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi,
cervi e colombe feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole
specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei caratteri fisici.
Se l'anima immortale mutasse solo i corpi, questa costanza non vi sarebbe
o, almeno, soffrirebbe molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima
che, mutando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non rimane
la stessa, che cambia natura, insomma che muore per rinascere
un'altra: Dejiiqiie cur acris violentia triste leonum seminium
sequitur, volpes dolus, et fuga cervi a patribus datur et patribus
pavor incitai artus^ et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris
ex ineunte aevo, generascunt ingenìoque, si non, certa suo quia serrane
seminioque vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ? quod
si immortalis foret et mutare soler et corpora, permixtis anirnantes moribus
essent, eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe cornigeri incursum
cervi, tremeretque per auras 750 aeris accipiter fugiens veniente
columba, desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum.
illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt immortalem animam mutato
corpore flecti: quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo. Se
poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo entro i limiti di
ciascuna specie, e dire che un' anima umana non s'incarna successivamente
in altro che in uomini, allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può,
di [Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni
deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini della
specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribuiscono ai seguaci di
Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lucrezio accenna nei versi or ora
citati, tali testimonianze si può dimostrare che o sono esagerate per
amor di polemica o di satira, sono errate per confusione della
metempsicosi pitagorica con quella egiziana od orientale in genere, o, in
qualche caso, possono spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al
passaggio dell'anima nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per
me, la testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali,
fasaggia che era, diventare sciocca, dal momento che non s' è mai visto
un fanciullo assennato né un piccolo puledro esperto come un robusto cavallo ?
Forse che la mente in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora
dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in tal modo la vita e
il sentimento di prima: Sin animas hominum dicent in corpora
sem,per ire humana, tamen quaerain cur e sapienti stulta qiieat fieri,
nec prudens sit puer ullus, nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui
vis ? scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem
confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst mortalem esse animam, quoniam
mutata per artus tcmto opere amittit vitam sensumque
priorem. Infine e siamo così alla chiusa, di sapore umoristico, di
questa serie di argomentazioni contro la preesistenza e la metempsicosi non
è cosa oltremodo ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e
ad ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in numero
innumerevole, immortali aspettino membra mortali, e lottino e gareggino a chi
prima e di preferenza riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime
il patto che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi non ci
sia fra loro nessuna lotta violenta: Denique conubia ad Veneris
partusque ferarum llb esse animas praesto deridieulum esse videtur,
expeetare immortalis niortalia membra innumero numero, ceriareque
praeproperanter cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di
Pitagora, lo fa anche dire d'essere divenuta un pavone (pavone qui
significa cielo). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica,
la dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto
dell'Eneide. inter se quae prima potissimaque insinuetur ; si non
forte ita sunt animarum foedera pacta, 780 ut, quae prima volans
advenerit, insinuetur prima, neque inter se contendant virihus
hilum. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle credenze e
dottrine pitagoriche:ma poiché subito dopo, in quella parte di questo
stesso terzo canto in cui si dimostra la vanità del timore della morte, è
formulata l' ipotesi della resurrezione delia medesima anima nel medesimo
corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno identificata con l’analoga
dottrina pitagorico-stoica della palingenesi, dobbiamo esaminare anche
questo passo. Continuata e compiuta dunque la dimostrazione
della mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima
conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla. Come non abbiamo sentito
niente di ciò che è accaduto prima della nostra nascita (perchè l' anima
nostra non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, perchè una
volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima (e la conseguente
dissoluzione di questa) noi, che esistiamo solo per l'intima unione di
entrambi, non esisteremo e quindi non sentiremo più. E giunto a
questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi, come infatti,
sembra, si fermò in una prima redazione del poema, nella quale seguivano
a questa dimostrazione i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti
tardi, tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la
suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare. Accetto senz' altro le
conclusioni di Giussani, sì per l' interpretazione, sì per la composizione di
tutto questo interessante brano. Poiché in essa è detto anzitutto che se pura,
dopo avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di sentire,
anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi, che siamo solo in
quanto anima e corpo sono stretti in un'esistenza unica. La
quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta staccata dal corpo) s'intende
bene da tutto quel che il poeta ha detto precedentemente, che non era
assolutamente ammissibile, perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste,
consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame tra corpo ed anima
e nell'immediato dissiparsi degli atomi di questa, appena rimasta priva del suo
coibente. Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più
poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto come la precedente con la dottrina epicurea ;
l'ipotesi cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del
nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso però la morte non ci
riguarderebbe affatto per l' interruzione della coscienza personale fra
le due esistenze. E tale ipotesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e
seguenti, in questo modo: [Giussani crede di poter sostenere che
l'ipotesi, per quanto strana, non è però in contraddizione assoluta in
astratto con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non sembrano
buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia formulata un'
ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina d' Epicuro:come
poteva infatti pensare che una qualsiasi persistenza del sentire dell' anima
fosse possibile, dopo il distacco dal corpo, se per lui l'anima non
poteva assolutamente esistere fuori del corpo che la tiene unita ? Perchè
dunque Lucrezio ha formulata l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente
come ipotesi di transizione alla successiva; se pure non si tratta qui di
un'argomentazione per absurdum. iVec, si materiem nostram collegerit
aetas post ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est, atque
iterum nobis fuerint data lumina vitac, pertineat quiequam tamen ad nos
id quoque factum, interrupta semel cum, sit repetentia nostri;
850 et nune nil ad nos de nobis attinet, ante qui fuimus,
neque iain de illis nos adficit angor, nam cum respicias immensi temporis
omne praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai multimodis quam
sint, facile hoc adcredere possis, 855 semina saepe in eodem, ut
nunc sunt, ordine posta haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante
fuisse: nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente: inter enim iectast
vitai pausa, vageque deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes.
Ora a prima. vista questa ipotesi potrebbe apparire identica a
quella già formulata nei versi 668-676, dove si fa pur cenno della
interruzione della coscienza. Tanto che si è voluto da alcuno vedere in
questi versi un'allusione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano
che nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la medesima anima
rivivessero insieme e ciò
dipendentemente dalla dottrina della palingenesi universale che era
propria dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si
tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si parla del
rinascere della medesima anima in nuovi corpi, e nella dottrina dei
Genetliaci si parla del ricongiungersi dell'identica anima e
dell'identico corpo (nell' un caso e neir altro però 1' anima non ha mai
perduto la sua personalità), qui invece si considera il caso di una
duplice Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucrezio, il
Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei) che ho già riportato
al principio del Gap. III. creazione ex novo per accozzamento degli
stessi atomi, cioè si considera la possibilità della rinascita d' un
identico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della teoria
epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è un'altra quistione ; ma
sta di fatto che Lucrezio formula r ipotesi secondo la logica del sistema di
Epicuro. 7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo veduto
che il nostro poeta accenna a quattro diverse opinioni intorno all'anima: 1*)
che essa non esiste a so, ma risulta dall' armonia delle funzioni
organiche (teoria di Aristosseno e Dicearco); che essa nasce e si
distrugge col corpo, ma ha una propria ubicazione nell'organismo umano (nel petto)
e risulta di quattro elementi (moto, caldo, freddo, sostanza atomica
sensoriale) (teoria epicurea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende
nell'Ade, donde può uscire per apparire agli uomini (credenza
popolare); 4^) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma è preesistita
ad esso e può incarnarsi più volte. E abbiamo veduto come quest'ultima
dottrina, della quale abbiamo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata
in modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze,
cambiando specie animale (teoria egiziana); h) l'anima immortale passa
attraverso molteplici esistenze, ma entro i limiti della propria specie e
conservando la propria identità personale (teoria
pitagorica-platonica-stoica); e) l'anima può bensì rinascere, magari
nell'identico corpo. [L'ha posta con molta sottigliezza
Giussani. Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto Pascal nel suo saggio
“Morte e resurrezione in Lucrezio” Riv. di Filologia classica, ristampato nel
volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti. senza però conservare la
propria identità personale (ipotesi
epicurea-lucreziana). La teoria b poi alla sua volta fu
diversamente sviluppata, poiché vi era chi sosteneva che l' anima potesse
bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece che si
reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in attinenza a una dottrina più
generale, anzi universale, secondo la quale non pur l' anima e il corpo umano
andavano soggetti a periodici ritorni alla vita, ma tutto l'universo si
distruggeva e si ricreava perfettamente identico (pitagorici, stoici e
genetliaci). Con questa teoria però non veniva distrutta la
credenza nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se
anche l'anima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio (eidolon,
simulacrum) che poteva anche riuscirne (e verosimilmente si distruggeva
nell'atto che l'anima tornava a nuova vita terrena) (Ennio).
Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo veduto che
Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi: 1**) nel proemio del primo
libro (vv. 112-126) ; 2") nella confutazione dell'ipotesi della
preesistenza dell'anima nel terzo libro; e che non debbono ritenersi
affatto come riferimenti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell'
animaarmonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della rinascita, come è
formulata nelstesso libro. Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro
; che, in sostanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l'
argomento per lui capitale della interruzione della coscienza anche a
coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero potuto
pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col medesimo corpo. Veri e
propri trattati d' indole pitagorica sappiamo con certezza che compose VARRONE,
di Rieti. Eruditissimo in ogni campo della filosofia, e, appunto per questo, incaricato
da Giulio Cesare di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande
biblioteca, specialmente di opere latine. Ciò che gli diede agio di
allargare e approfondire ancor più le sue conoscenze enciclopediche,
delle quali si valse per comporre innumerevoli opere, trattando dei più
svariati argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, raccogliendo
con cura particolare tutte le tradizioni sacre e profane della patria, e
dettando pure a quel che ci ha lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica
in versi {praecepta sapientiae versibus tradidit). Della sua
prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere letterarie,
storiche, filosofiche, scientifiche si ricordano di lui non meno di 74
opere in CCCCCCXX libri non ci restano purtroppo che scarsi avanzi (poco più di
IX libri) e numerose citazioni che da Varrone attinsero largamente
notizie d' ogni sorta. Sì che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della
maggior parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena
appena il titolo. Così dei suoi famosi “Logistorici” che sono in LXXVI libri, e
contenevano discussioni di argomento filosofico con miscela di notizie
storiche, conosciamo i titoli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o
meno largamente di filosofia pitagorica. Tali sono: “Atticus sive de numeris”,
“Tubero sive de origine humana,” “Gallus de admirandis,” “De saeculis” ed altro
de philosophia; ma quale ne fosse precisamente il contenuto non sappiamo. Così,
d' altra parte, ci è rimasta notizia d' un' opera in IX libri “de
principiis numerorum”, la quale, messa accanto sìi Attico già citato e
alla testimonianza [intorno a Varrone si veda l'opera di Boissier,
Etude sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri
Antiquitatum rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo
studio dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^
Supplementband I Heft, Leipzig, 1di Gellio (Notti Attiche), che riferisce come
Varrone tratta in maniera oltremodo compiuta del numero settenario – “Varrò
de numero septenario scripsit admodum conquisite” -prova che il grande
reatino dovette conoscere profondamente la teoria pitagorica e
specialmente la dottrina fondamentale dei numeri. È veramente un peccato che di
tali opere non resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse
potuto trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,
che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica di Pitagora.
Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto, vale a dimostrarci che larghe
e geniali applicazioni potè avere per opera del Maestro e dei suoi
seguaci la teoria stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili
scoperte nel campo delle scienze sperimentali. Poiché le
investigazioni matematiche dei Pitagorici non furono soltanto rivolte alla
ricerca delle proprietà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell'
aritmetica e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe
applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni naturali. Una
delle prime e forse la più importante scoperta di Pitagora fu dovuta a
una di quelle felici intuizioni che, in ogni tempo, sono state il
privilegio del genio; intendo parlare della determinazione matematica
degli accordi, che poi dalla musica, applicata a particolari fatti della
natura, [Kathgeber (“Grossgriechenland und Pythagoras” (Gotha) scrive.
“Dem M. Terentius VARRO AUSS REATO, der aufgeklàrt iiber Pyihagoras war,
bot sein Werk hobdomades Gelegenheit zur Erwàhnung dar.” portò a molte curiose
osservazioni come quelle che riguardano le due diverse specie di parto (a
termine e settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla
teorica dell' armonia delle sfere e alla concezione dell' universo
come di un tutto perfettamente armonico (kósmos). h) Fu un caso che
fece volgere la mente speculativa di Pitagora alla ricerca della teoria
matematica degli accordi musicali, la cui determinazione, prima di lui,
era affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Passando un
giorno per istrada accanìo a due fabbri che martellavano alternatamente
un ferro sopra l' incudine, Varrone e colpito dai suoni cadenzati e
armonici dei martelli:quelli acuti dell' uno rispondevano così
giustamente a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente
nel suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. Varrone
ha così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno al quale già da
qualche tempo lavora col pensiero, e non si lascia sfuggire 1' occasione
per chiarirlo. Avvicinatosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro
e nota i suoni che sono prodotti dai colpi di ciascuno. Credendo
che la loro diversità di tono dipende dalla diversa forza degli operai,
fa che essi si scambino i martelli e si accorge che invece essa dipende da
questi. Allora volge tutta la sua attenzione a determinare con
esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fa fare altri martelli più
o meno pesanti di quei due. Ma dai loro colpi nasceno suoni diversi da
quei primi e per di più non intonati. In tal modo, capì che
l'accordo dei suoni nasce da un determinato rapporto matematico dei pesi,
che cerca subito di calcolare. Trovati che ha tutti i numeri che corrispondeno
ai pesi dai quali nasceno suoni intonati, passa dai martelli alle corde
musicali. Prende alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale grossezza
e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi proporzionati a quelli
di cui fa il computo e determinato il rapporto coi martelli. Fattele risuonare
per mezzo della percussione, non solo trova che le corde tese da
pesi uguali vibrano all'unisono al vibrare di una sola di esse, ma
ottenne altresì suoni armonici precisamente dalle corde i cui pesi
stavano in rapporto di III:IV 3:4 ( 5tà xeaaàptóv o èrul xpiTov o supe?^
tertium), di 2:3 II:III (5tà
Tcévxe) e di 2:4 II:IV (5tà Traawv). Per averne poi un'altra
riprova, ripetè r esperienza con alcuni flauti. In questo modo: ne
fa preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza diversa, il I,
poniamo, lungo VI pollici, il II, VIII il III, IX e il IV, XII. Poi
facendoli sonare a due a due trova che il primo e il secondo
armonizzavano in accordo diatessdron (6:8 =: 3:4) – VI:VII::III:IV; il
primo e il terzo in accordo diapènte (6:9=2:3) – VI:IX::II:III e il primo
e il quarto in accordo diapason ( 6:12 ^=i 2:4) – VI:XII::II:IV. In tal
modo Varrone riusce molto genialmente alla determinazione
matematica degl’accordi, ciò che permise in seguito di estendere e
perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo conduce alla scoperta non
è molto dissimile da quello per il quale il Galilei, dall'osservazione
dei movimenti d'una lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire
le leggi della oscillazione del pendolo o da quello in virtù del
quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a scoprire le leggi della
gravitazione universale. Tanto è [Vedasi la narrazione,
desunta da scritti varroniani, in MacROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1,
9 e Censorino, de die natali 10,7. vero che il genio in ogni tempo
e in ogni luogo sa trarre partito dalle cose e dai fatti più semplici
! -E una volta messosi su questa via, che mirabile serie di
investigazioni non seppe escogitare quella profonda mente speculativa, che,
dall'osservazione dì due fabbri all'incudine arriva non pure alle leggi
dell'armonia musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di
tutto l’universo! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e alle
distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo e la terra dai
quali, secondo lui, era regolato il corso della vita e degli eventi umani
trova che essi avevano un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai
toni, e suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accordo, da
formare una dolcissima armonia, non però percepibile da orecchio umano, per la
sua forza che supera la facoltà del nostro udito. Calcolate
infatti le distanze dalla terra a ciascun pianeta in stadi italici di 625 –
CCCCCCXXV piedi, trovò che dalla terra alla luna ci sono circa 126000
stadi ; e questo rappresenta per lui r intervallo di un tono. Dalla Luna a Mercurio
(Stilbon) calcola una distanza uguale alla metà, ossia un semitone. Di
qui a Venere, altrettanto; da Venere fino al Sole, tre volte tanto, come
a dire un tono e mezzo. Il sole quindi distava, secondo Varrone, dalla terra
tre toni e mezzo, formando così con essa un accordo diapente e
dalla luna due toni e mezzo, formando un accordo diatessdron. Dal sole poi a
Marte (Pyrois) stima esserci eguale distanza che dalla terra alla luna, ossia
un tono. Di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitone. Da Giove a
Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitone. Di qui finalmente al cielo
delle stelle fisse, press' a poco un mezzo tono. E però da questo cielo
al sole pone un [FIRMAMENTO Orbita
di Orbita Saturno Giove Marte e3 Q. ooII HK> •WiO-SOLE Venehe
Mercurio Luna © •0 Wi
TJSKBà, d>>3 Q. • O o
tt) •0 u cs i) > 3
o 8 ti •0 u e
^ 7] intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo
stesso cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei
toni) [Per queste osservazioni e
scoperte è ben naturale che Pitagora dove convincersi che nell' universo
tutto è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di
fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine e da una
determinata e determinabile proporzione. Sicché dalla musica e dall' astronomia
passando, per esempio, ' alla tisiologia, trova nel decórso del puerperio
ancora una riprova della regolarità matematica dei fenomeni naturali.
Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fa della dottrina dei numeri al
più complesso e meraviglioso dei processi fisiologici, cioè alla
generazione, e appunto spiegata in una delle opere varroniane ricordate
(Tubero seu de origine humana). Queir acuto e profondo osservatore infatti
avendo studiato accuratamente il decorso delle due diverse specie di
parto, l'uno di sette – settimino) e Y altro di dieci mesi lunari (a
termine) che avvengono rispettivamente 210 e 274 giorni dopo la
concezione, e avendo determinato i. numeri corrispondenti ai giorni nei
quali, per ognuno dei due parti, si compiono i mutamenti più importanti del
seme in sangue, del sangue in carne, della carne in forma umana trova che il
parto settimino è in rapporto col numero VI e quello a termine col numero
VII; non solo, ma che i nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto
nell'altro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musicali. Ed ecco in
qual modo. [Censorino, de die natali, cap. 13.
Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4, 14. Nel parto di VII mesi,
per i primi sei giorni dopo la fecondazione, l’umore che è contenuto
nell' utero è di aspetto lattiginoso. Nei successivi VIII giorni è di
aspetto sanguigno. Il rapporto fra VI e VIII è, come abbiamo veduto
più volte, quello precisamente che forma accordo diatessdron (6:8 = 3:4). –
VI:VIII::III:IV -Nel terzo stadio si hanno IX giorni, in cui comincia la
trasformazione dell' umore sanguigno in carne:e il IX col VI forma il
secondo accordo diapènte (6:9 = 2: 3) – VI:IX::II:III ; finalmente nei XII
giorni seguenti si ottiene il corpo già formato:e il rapporto di XII con VI
forma il terzo accordo diapason (6:12 .^r: 1:2). VI:XII::I:II. Questi
quattro numeri 6, 8, 9, 12 – VI VII IX XII sommati insieme formano 35 XXXV
giorni, i quali moltiplicati per 6 VI danno appunto il numero totale dei
giorni, di durata della gestazione, ossia 210. CCX -Nel parto a termine
invece, con analogo ragionamento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10
1/2, 14, -VII IX XII X XII XIV che sommati insieme danno 40 XL e una
frazione; 40 XL moltiplicato per 7 VI dà 280 CCLXXX, da cui detraendo 6 VI
si ha 274 CCLXXIV. Vale a dire che nel parto di dieci X mesi iL
mutamento del seme in umore latteo avviene in sette VII giorni
anziché in sei VI, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo 40
XC giorni interi, che moltiplicati per 7 VII danno 280 CCLXXX, cioè
quaranta XL settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo I giorno
dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei XV giorni, onde ne
restano 274 CCLXXIV Tanto il 210 CCX che il 274 CCLXXIV sono veramente due
numeri pari, laddove Pitagora dava speciale importanza al numero dispari,
tanto da ritenere in virtii delle sue
molteplici osservazioni che tutto è regolato da esso :ciò non pertanto,
osserva Censorino Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I,
39 ; Servio, ad Bmol. Vili, 75. che riporta tutto questo
passo Varroniano, egli non era qui in contraddizione con se stesso,
perchè i due dispari 209 CCIX e
273 CCLXXIII sono bensì compiuti, ma non si compie ne il 210 CCX né il
274 CCLXXIV giorno in cui il parto avviene; in conformità precisamente di
quanto ha fatto la natura sia riguardo alla durata dell' anno (365 CCCLXV giorni
più una frazione) che a quella del mese (29 XXIX giorni più una frazione. Non è il caso di entrare qui in merito al
valore intrinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché anche
se errori vi sono, bisogna naturalmente tener conto da un lato della
diversità dei mezzi d'indagine e di esperimento da oggi al tempo di
Varrone, e pensare dall' altro che molte delle applicazioni della teoria
dei numeri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pitagora, ma il
prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci. In ogni modo però risulta
chiaro dal poco che si è veduto sin qui che le speculazióni stesse non
rimanevano campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica,
ma trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' osservazione
scientifica dei fatti naturali; sì che fu indubbiamente merito di Pitagora e
dei suoi discepoli quello di aver dato un nuovo impulso alla scienza; e,
fatta ragione dei tempi, non fu merito piccolo. f) Se la
teoria dei numeri trovava così mirabili riscontri nella natura e nei suoi
fenomeni, è ben naturale che ad essa dovesse pure conformarsi la vita
pratica degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai misteri e
alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' é, per esempio, che un'altra
testimonianza varroniana ci ricorda Censorino, de die natali 9 e 11. Si
confronti con questo il passo di Gellio, Notti attiche, III, 10, 7.
la particolare considerazione in cui erano tenuti i così detti
numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere i Pitagorici ne
tenevano conto scrupolosamente badando di comporre in una sola volta 216 righe
o versi (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! Ora questo
è uno di quei particolari che, presi a se, prestano facilmente il fianco
al riso e alla satira; ma in verità se noi non possiamo spiegarci la cosa
in modo ragionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo tutto
il complesso della dottrina e della vita pitagorica ; poiché è ben
possibile che pratiche di questo genere rientrassero nell' ambito del sistema
per puro amor dell' ordine e doll'euritmia, al solo scopo di far sottostare a
una certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti della
vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi, di esagerazioni dei
seguaci o di degenerazioni dei primitivi insegnamenti del Maestro.
Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è ben noto
d'altra parte ed è ancora Varrone che parla quanta parte avesse la musica nel sistema
educativo di Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al
punto, che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al suo
svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per meglio disporre 1'
animo ai suoi pensieri divini. Oltre a queste notizie, che io, valendomi
delle indagini già fatte da altri, ho cercato di esporre si [ViTRirvio,
De arehiteetura V pr. 104, 1. Censorino, de die natali 12,
4. Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pythagoreae
doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae) l'appendice a pagina 76 Varronis Pythagoreae doctrinae frag-menta
continens .] stematicamente
raggruppandole intorno alla dottrina dei numeri, altre se ne trovavano
nelle opere di Varrone, intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua
scuola e ai suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema.
Così Varrone pone 1' esistenza di Pitagora al tempo di Tarquinio
Prisco e quindi implicitamente non accetta la tradizione che Numa e suo scolaro
a Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito di essersi
chiamato per primo filosofo, cioè amante del sapere, e ricordandone il maestro
Ferecide faceva risalire: già a questo 1' uso di pratiche magiche per
indovinare il futuro ; come pure accennava altrove alla sua andata a
Turio (Sibari) nella Calabria. E Agostino ci ha conservato un altro passo
nel quale Varrone, da vero romano, esprime la sua ammirazione perchè 1'
ultima cosa che Pitagora insegna ai suoi discepoli, quando già
fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare la cosa pubblica.
Appartiene al libro quinto dell' opera intorno alla lingua latina un brano in
cui Varrone afferma che Pitagora insegnava due essere i principii d' ogni cosa, come
finito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e notte. E quindi
parimenti due i modi di essere:stato e moto; ciò che sta fermo o si muove,
corpo; il dove si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò
che vi è nel movimento, azione; e
avvenire appunto perciò che quasi
tutte le cose siano quadripartite ed eterne, poiché ne paò mai esservi
stato tempo se non prece [S. Agostino, de civitate dei XYIII,
25. , XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.
S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54. duto da moto, se tempo
è appunto l' intervallo fra un
moto e l' altro ; né moto senza spazio e senza corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si
muove e <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione
dove e' è movimento; onde le due
coppie di principii:spazio e
corpo, tempo e azione. Altrove ci ricorda Varrone un altro pensiero
fondamentale di Pitagora, assunto poi pili tardi da Aristotile, quello
cioè che l'esistenza degli animali e però anche dell'uomo non ha mai
avuto principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti. E parimenti
faceva risalire a lui quella teoria dei quattro elementi (terra, acqua,
aria ed etere o fuoco) che comunemente si suole invece attribuire ad Empedocle
di Girgenti, vissuto un secolo dopo. Non manca neppure nelle opere
varroniane qualche accenno alla teoria pita [Varrone, de Lingua
Latina, -Pythagoras Samius ait omnium rerum initia esse hina ut finitum
et infinitum^ honum et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare
item duo, status et m,otus:quod stat aut agitatur, corpus ; uhi
agitatur locus; dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio;
quare fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod
ncque unquam tempus quin fuerit motus, eius enim intervallum tempus;
ncque motus ubi non locus et corpus, quod alter um est quod moveiur,
alterum uhi; ncque uhi agitatur, non actio ihi; igitur initiorutn
quadrigae:locus et corpus, tempus et actio. Varrone, de re rustica, Sive enim
aliquod fuit principium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et
Zeno Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut credidii
Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est humanae vitae a summa
memoria gradatine descendisse. Cfr. CenSORINO, de die natali, IV, 3.
ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI, 724; ad
Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg. E cfr. Diogene
Laerzio, VIII, 25. gorica deir eternità dell' anima e alla sua
dottrina della metempsicosi, a conferma della quale ricorda persino le
sue vite anteriori, essendo stato prima un certo Etalide, poi Euforbo,
poi il pescatore Pirro e finalmente Ermotimo. Altrove ancora Varrone
accenna alle pratiche di evocazioni dei morti, che del resto erano largamente
usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la rappresentazione di
una scena di necromanzia dipinta in un monumento cretese, scoperto da
poco, che risale ai tempo pre-omerico della così detta civiltà
micenea o minoica. È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non manca
di parlare del famoso divieto pitagorico di mangiar fave, connesso con la
credenza nella metempsicosi e con la concezione che Pitagora ebbe della
vita post-mortale Symmaghus, Ep. Vabro,
Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello, 121, 26); Tertulliano,
de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; Agostino, de cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. 289,
11 e 304, 13. Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit.
XII, 24. Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 Quod genus divinatiònis idem Varrò e Persis
dicit allatum, quo et ipsum Numam, et postea Pythagoram philosophum usum
fuisse commemorai ; ubi adhihito sanguine etìam inferos perhibet
sciseitari et nekyomanteian graeee dicit vocari. Quanto alle rappresentazioni
di scene di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero
(Bergamo I9l0) a 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la
famosa Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea. (5)
Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist. XVIII, 118,
XXXV, 160. Tali a un di presso le notizie di contenuto pitagorico, che si
possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità delle opere superstiti e
la varietà degli autori da cui sono raccolte, esse sono slegate e frammentarie,
ma tali però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita quasi
totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si è certo perduto per
sempre un ricco tesoro di notizie utili e importanti per la storia del
Pitagorismo nell'antichità classica. Ma poiché dei materiale già
sistematicamente raccolto da Varrone, come delle sue speculazioni e delle
sue ricerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco i
filosofi contemporanei o che vissero poco dopo di lui, così, continuando
a cercare le tracce di Pitagorismo rimane nelle opere di altri filosofi di
questo tempo, potremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della
dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della conoscenza che ne ebbero i
contemporanei di Giulio Cesare e d’Ottaviano. Fra gli amici dVarrone è
degno di essere ricordato queir APPIO CLAUDIO FULCRO, del quale
sappiamo che e augure, pretore, console, censore, governatore della Cilicia e
legato in rapporti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano
diverse lettere a lui indirizzate. Convinto che la scienza augurale
avesse il suo fondamento non già nel desiderio o nel bisogno di giovare
anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii interessi dello stato romano
come la pensa l' altro grande augure GAIO CLAUDIO MARCELLO ma che
realmente e un dono concesso dal divino agli uomini, perchè questi sono
in grado di meglio intendere la loro volontà e di regolare, uniformandosi
a questa, la propria condotta, era solito far sortilegi, oroscopi, evocazioni
di morti. Ne più né meno di quello che, secondo la tradizione fa Numa, il filosofo Ferecide di Siro, il
suo discepolo Pitagora, e Platone. Questa convinzione, suffragata
dalle dette pratiche della divinazione artificiale cui era dedito, dove
appunto indurre Appio a scrivere quei suo “Liber auguralis,” forse di
carattere polemico, che dedica all' amico Cicerone, lì quale fra l’interpretazione
utilitaria e razionalistica di quelli che la pensa come Marcello, e la fede
ortodossa di coloro che la pensano come Appio Claudio, ha un'opinione
intermedia, in questo senso:che cioè una vera e propria scienza e
arte augurale e già esistita in antico, ma che di essa però non e più
depositario, al tempo suo, il collegio degli auguri, poiché, per il lungo
tempo trascorso e per l’abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata,
era, CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32: sed est in conlegio
vestro inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dissensio fnam eorum
ego in libros incidi, quom alteri plaeeat auspieia ista ad utilitatem
esse reipublicae composita, alteri disciplina vestra quasi divinare mdeatur
posse. CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37:< inde ea, quae meus amicus
Appius nekyomanteia faciebat. Cfr. de divinat. I, 10, 30 ; 58, 132.
Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII, i capitoli 34 e
35. CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17, 39. (5) CicER., Ad
familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone, R. R. 3, 2f 2.] secondo
lui, svanita. Dichiarazione questa, che per essere fatta da un augure di
tanta autorità, non è certo di lieve momento. Sarebbe in verità
molto interessante addentrarsi nella ricerca di quel che e proprio questa
ra antica, come la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ha nella
vita degl’Elioni e degli antichi Italici. Ma questa trattazione mi
porterebbe troppo lontano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del
resto ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto soddisfacenti ed
esaurienti, sono già state fatte in proposito. Basti dire pertanto che la
mantica o arte divinatoria si esercita in forme e modi diversi con l’osservazione
del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo detto “templum” -onde
trasse origine la parola “contemplazione”), con 1' esame dei visceri (cuore,
polmone, fegato) di animali sacrificati a questo scopo (“hostiae
consultatoriae”) con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con la
considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, fulmine, ecc.), cogli
oracoli, coi pubblici e privati carmi profetici ; e che era pure
praticata da Pitagora, il quale vi annette anzi un particolarissimo
valore, tanto da voler essere ritenuto egli stesso augure: il
che CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; Sed dubium non est, quin haec
disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate et neglegentia. Ita neque
illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai unquam in nostro conlegio
fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse etiam nunc putat. Cfr. de divinai.
11^ 33, 70. Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del
Bochsenschììtz, Sogni e cabala nelV antichità, Berlinoe del CakTANi-LovATELLi,
Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889. (3i CiCEBONE, de divinatione,
L. I, 3, 5 .... huic rei (cioè
alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,.. tribuit,
qui no naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche
prova di virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli ne diede
infatti non poche. Altro amicissimo di Varrone e, come è noto, Cicerone.
Negli scritti che in gran numero ci restano di CICERONE frequentissimi sono gli
accenni a Pitagora, alla sua scuola e alla sua filosofia ; non però tali
da farci pensare a una elaborazione personale e originale, o all'
approfondimento di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come e
di un eclettismo che sta fra l’Accademia e il Portico, iniziato ai misteri
religiosi, augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore
della filosofia, della quale si fece divulgatore, creando quasi ex novo per
essi, dopo il mirabile tentativo poetico di Lucrezio, la lingua
filosofica, autore anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso
di arte, tratta dei più svariati argomenti sì metasifici che
morali, Cicerone ha senza dubbio una conoscenza abbastanza larga dell'antica
filosofia italica, l'unica forse che ha già avuto in Roma insigni
divulgatori e seguaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori
come Nigidio. È anche indubitato che molto gli giovarono per
tale conoscenza oltre che 1' assiduo studio dei filosofi l’amicizia di
Varrone e dello stesso Nigidio Figulo, e la lettura dei loro scritti. Ma
non per etiam ipse augur vellet esse. Cfr. I, 39, 87 ed
anche 45, 102: Neq^ue solum deorum voces
Pythagoreì observitaverunt, sed etiam hominum, quae vocant omina. questo
possiamo dire che i'Arpinate fa particolari studi intorno a quel sistema di
dottrine, che, se collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni
personali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute, si prestavano
assai meno delle posteriori e piìi note filosofie ad essere facilmente comprese
dai profani e divulgate artisticamente. 3. In ogni modo,
volendo raccogliere dalle sue opere le notizie che si riferiscono a
Pitagora e alla sua scuola, dovrei prendere le mosse da quel passo delle
Tuscolane in cui Cicerone parla delle dottrine pitagoriche, della loro
diffusione in Italia e delle tracce che esse lasciarono nelle istituzioni
e nella LEGGE dì Roma. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che e discepolo
di Ferecide, specialmente per la sua dottrina suir eternità dell' anima,
in quanto egli insegna l’esistenza di un' anima universale, compenetrante tutta
la natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la derivazione da essa
di ogni anima umana. E per ciò che riguarda la natura di questa, Cicerone
stesso accetta la distinzione fatta prima da Pitagora e poi da Platone De divinatione; Tusculane: Pherecides Syrius primuìn dixit anìmos
esse hominum sempiternos. .. Rane opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime
confirmavit. De natura deorum: Pytkagoras censuìt animum esse per naturatn
rerum omnem intentum et eonmeantem, ex quo nostri animi earperentur. De
seneetute 21, 78: Au dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse,
quin ex universa mente divina delibatos animos haberemus .] dell'
anima in due parti, l’una ragionevole, in cui questi filosofi poneno la
tranquillità, cioè una placida immutabile costanza, e l’altra irragionevole,
onde traevano origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio. Per
la quale credenza l’uno e l'altro ammisero la possibilità di accrescere le
forze conoscitive dello spirito, specialmente nel sonno, quando a questo
l' uomo si fosse disposto opportunamente con particolare dieta e con
una meditazione preparatoria; e credettero nella divinazione, al
punto che Pitagora pretende di essere egli stesso profeta. CICERONE sa anche
dei viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane, del suo
colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la prima volta si
chiamò filosofo, della successiva venuta in Italia, dei suoi studi di
geometria e del sacrificio d'un Tusculane: Veterem illarti equidem
Pytkagorae pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum
in duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y alterani
expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy id est placidam
quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus turbidos cum irae, twìn
cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni. De divinatione: Pythagoras et Plato,., quo in somnis
certiora videamus, praeparatos quodam eultu atque victu proficisci ad
dormiendum jubent ; faba quidem Pythagorei utiqus abstinere, quasi vero
eo cibo mens, non venter infletur. Sulle
meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule 11, 38:Pythagorii
quid quoque die dixissent, audissent, egissent, eommemorabant
vesperì ; e sulla astinenza dalle fave si
confronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119. TuseuL, IV, 19,
44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87. TuseuL, V, 3, 8 e segg.
Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio, Proemio, 12, che desume la notizia da
un libro di Eraclide pontioo. bue alle Muse per aver trovata la soluzione
d'un teorema, della sua dimora a Crotone e a Taormina in Sicilia,
della sua operosa vecchiezza, e infine della sua dimora e della morte a
Metaponto. Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto principio autoritario
dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello che ho accennato or ora
della natura dell' anima, Cicerone ricorda la teoria dei numeri (7), 1'
armonia del mondo e il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii
cruenti e il rispetto per gli animali, naturale e logica
conseguenza del concetto pitagorico della vita, il divieto del suicidio e
infine la bella concezione dell' amicizia, vera comunanza di spiriti e di
vita, che diede fra gli altri il mirabile e notissimo esempio di Damone e
Finzia; oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri
pitagorici. De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par
credibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare una
vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue un altare. E
non ha torto. De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19,
3. De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag. 122. De
senectute De finibus De nat. deor. Per la critica ed il valore di questo
principio autoritario si veda nell'Appendice
Il sodalizio pitagorico di Crotone. Tuscul.; Acad. pr. e Somnium Seipionis, De nat. deor., Tuscul., de re
pubi., De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5. (11) De officiis, I,
17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66. a2) Tuscul. Y, 22, 63;
de officiis, III, 10, 45; de finibus, II, 24-79; Cfr. Porfirio, V. 59.]
e
cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate
di Locri, Timeo ed Acrione contemporanei di Platone. Di
quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo la morte di Socrate,
prima si reca in Egitto e poi in Italia e in Sicilia per conoscere da
vicino le verità scoperte da Pitagora, e che stette molto con Archita e
Timeo e potè procurarsi i commentarli di Filolao (che esponeno per
iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino allora
trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della segretezza) ; e poiché
allora appunto era più che mai celebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora,
pratica con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, prediligendo
egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappresentarlo adorno di ogni virtù e
sapienza, fuse insieme la piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1'
oscurità del simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il
maestro in modo che, anche quando discuteva di morale e di politica, si
studia di mescolarvi i numeri, la geometria e r armonia, alla guisa di
Pitagora. Dal quale poi De finibus, V, 29, 87. De re pubi., I, 10, 16:<
In Platonis libris multis locis ita loquitur Socrates, ut etiam cum de
moribus, de virtutibus denique de republica disputet, numeros tamen et
geometriam et harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio:
Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem, Socrate mortuo,
primum in Aegyptum discendi causa, post in Italiam et in Siciliani contendisse,
ut Pythagorae inventa perdisceret, eumque et cwrn Arehyta Tarentino et
cum Timaeo Locro multum, fuisse et Philolai commentarios esse nanctum,
quunique eo tempore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et
hominibus Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem
uniee dilexisset eique omnia tribuere voluisset, leporem Socraticum
tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima,
aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale. Un complesso dunque di
notizie, o meglio di accenni, superficiali e sconnessi, che rappresentano
press'a poco il grado di conoscenza che del Pitagorismo hanno gli
uomini colti dell'età di Cicerone. Ma vi è un' opera di questo secondo
scrittore, anzi un frammento della sua opera "più importante,
sul quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la nostra
attenzione, per la molteplicità degli elementi pitagorici che contiene: voglio
dire il Sogno di Scipione così famoso e
di tanta importanza per la storia della mistica, sia considerato in se stesso
sia per i commenti che ha; poiché intorno ad esso si affaticarono molti
ingegni, da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima analisi,
all'inglese Wynn Westcott, che su Milìtatemque sermonis cum obscuritate
Pythagorae et cum illa flurimarum artium gravitate contexuit. TuscuL, I,
17, 39: Platonem ferunt, ut Pythagoreos cognosceret, in Italiam venisse et
didleisse Pythagorea omnia primumque de animorum aeternitate non solum
sensisse idem quod Pythagoram sed rationem etiam attutisse. Cfr. De
amicitia: Neque enim adsentior iis, qui nuper haec disserere
coeperunt, cum corporibus simul animos interire atque omnia m>orte
deieri. Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum
m>ajoTum vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque Oraeciam, quae nunc
quidem deleta est, tum florebat, institutis et praeceptis suis
erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo sapientissimus est iudieatus, qui
non tum hoc, tum illud, ut in plerisque, sed idem semper, animos hominuvi
esse divinos, iisque, cum ex corpore excessissent, reditum in eoelum
patere optimoque et iustissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni
videbatur AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris GomQuentarius
ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. Favonii EuLoan oratoris almae
Karthaginis Disputatio de somnio Scipionis, scripta Superio y. e. cos.
Provinciae Bizacenae. non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione
dicendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento che non sia una
semplice presunzione ipotetica) un frammento dei Misteri. Mi preme tuttavia di mettere subito in
chiaro che, affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non
voglio con ciò asserire né che Cicerone e un seguace di quella filosofia,
né che desumesse direttamente le idee informative del sogno stesso da
scritti pitagorici:poiché so bene che studi fatti recentemente da
valentissimi critici come Gylden, Corssen, Pascal, hanno messo in chiaro
che fonti ciceroniane per la materia di esso furono o poterono essere
Platone, Posidonio ed Eratostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in
esso tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso attribuiva a
Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra ancora una volta, se pur ve
ne fosse bisogno, che i filosofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno
all'altro molte delle idee e degli insegnamenti della scuola crotoniate.
L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'esposizione di principi
filosofici già era venuta, agli albori della filosofia romana, a un
grande scrittore e poeta, pitagorico per giunta: voglio dire ENNIO. Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a fragment
of the Mysteries, London Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis,
1848. De Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul.
disp. et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae Di una fonte greca del
Somnium Seipionis di Cicerone, nei
rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle Arti di
Napoli, 1902. Ripubblicato in Oraecia
Capta, Firenze, Le Monnier. Sicché possiamo ben dire pitagorica l'
ispirazione di questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che
abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone, che opinione
Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno e alle forze conoscitive
dello spirito nel riposo e nella quiete del corpo. Questo
sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio, partecipa
contemporaneamente di tutte e tre le forme principali o profetiche dei
fenomeni del sonno, oracolo, visione e sogno: oracolo (oraculum =^
xpr^pta-ctafió?), in quanto apparvero a Scipione addormentato il padre
Lucio Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Maggiore, uomini
venerandi, che avevano anche coperto cariche sacerdotali, e gli predissero
quello che egli avrebbe fatto come generale e come magistrato e la sua
morte; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il sonno parve all'
Emiliano di essere trasportato in cielo e più precisamente nella via
lattea, dove avrebbe poi dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità
concessa dal divino ai buoni reggitori degli Stati e di lassù contemplare
r universo e i pianeti e la terra stessa divisa nelle sue cinque zone ;
sogno propriamente detto {somnium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità delle
cose a lui dette dalla grande anima di Scipione non puo essere
svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica. Tanto è vero che il
commento interpretativo di Macrobio è di gran lunga più esteso che tutti
i sei libri della Repubblica, e non meno lunga è la dissertazione di
Eulogio, che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei
numeri e alla musica delle stelle.
Macbobio, 1. I, e. 3. Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi
uomini che -si resero benemeriti della patria e mostrare quale
premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello cioè di
ritornare alla loro patria celeste, immaginò che uno degli interlocutori
dei dialoghi intorno alla Repubblica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narra
agli altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo
tribuno in Africa, e ospite del re Massinissa, grande amico di Scipione
il Maggiore. Uscita dal corpo durante il sonno, l’anima dell'
Emiliano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea, dove,
giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede le anime degl’eroi,
tanto prima di scendere in terra a vestirsi d' umana carne, come dopo
aver fatto il loro pellegrinaggio quaggiù. Ascoltata dall'Africano
la predizione delle sue imprese e della sua morte, che sarebbe avvenuta
quando la sua Somnium 5, 13: Omnibus qui patriani conservaverint,
adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi
beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores
hinc profeeti huc revertuntur. Al qual proposito osserva il CorsSEN (op.
cit. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti a proposito
dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è detto che le anime
dei Proci guidate da Hermes andavano
alle porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato
degli asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati scrisse Porfirio (àe antro ISiympharum, e.
28) che il popolo dei sogni non sono altro che, secondo Pitagora, le
anime che dicono raccogliersi nel cerchio della via lattea. Poiché il
prato degli asfodeli i Pitagorici appunto lo immaginarono in quel cerchio.
Anche Plutarco (de faeie in orbe lun., G.) scrisse che le anime dei buoni si
indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo che
chiamavano prati dell' Ade. età avesse percorso uno spazio di otto volte sette giri e
rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei quali, per ragioni
proprie a ciascuno di essi, era ritenuto perfetto) avessero compiuto col
naturale succedersi degli anni la somma a lui predestinata, e saputo quasi
a conforto del suo triste destino che egli pure sarebbe salito lassù,
dove si trovava anche suo padre Paolo,
dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri che crediamo
estinti ? E come ! gli risponde
Scipione, anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami
corporei come da un carcere siamo veramente vivi; la vostra, che si
chiama vita, è morte. E riveduta, con intensa commozione, 1'anima del
padre, chiede ad essa: Perchè
dunque, se questa è la vera vita, debbo indugiarmi e vivere ancora sulla terra
? Perchè, gli viene risposto, se
quel Dio a cui appartiene tutto l'universo non ti ha prima liberato dal carcere
corporeo, non ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli
uomini sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa il
centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo, originario di quei fuochi
eterni che chiamate costellazioni e stelle e che, di forma sferica e
circolare, animati da menti divine, fanno i loro giri e descrivono le
orbite loro con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gl’uomini pii
dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e non disertare,
contro la volontà di chi ve l'ha data, dalla vita d' uomini, perchè non
sembri che voi vogliate [Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei
due numeri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI, adducendone
partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e le
speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.\ sottrarvi
al compito umano assegnatovi da Dio . Perciò il padre lo esorta ad essere
giusto ed a coltivare la pietà, perchè così vivendo si aprirà la via per
ritornare al cielo fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora
separate dalla materia corporea, abitano la via lattea. Dalla quale poi
l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo dell' universo stellato e il
roteare dei nove cerchi o meglio globi, di cui il pili esterno, che
abbraccia gli altri, è quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso
divino supremo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri, cioè i
cieli di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio,
della Luna, nel mezzo dei quali sta, immobile, la Terra. E mentre osserva
i cieli roteanti, ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella
cioè che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro percuotere neir
aria, onde si producono suoni acuti e gravi, che insieme formano i sette
accordi della lira: proprio secondo la dottrina pitagorica. L'
ammirazione per la grandezza e la novità delle cose che vede e ode non fa
però che Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano [Somnium.
Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute (20, 73) dove è detto
esplicitamente che questo concetto è di Pitagora: vetat Pythagoras iniussu
imperatoris, id est dei, de praesidio et statione vitae
decedere. Somnium. Tutta questa concezione della terra immobile nel centro
di un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento
i sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure,
secondo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti e
della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken
Naturwissenschaft in Miiller's Handbuch. Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano,
Insite, oratoria, I, 10, 12.] gliene
mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque e conclude che essa è campo
ben ristretto per la gloria degli uomini:onde la vanità della gloria
stessa, la quale non può neppur durare lo spazio di uno solo dei
grandi anni mondani. Se tu dunque,
conchiude la grande anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo
a questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo né porre
la speranza delle tue azioni nei premi degli uomini: bisogna che la virtù
per sé stessa con le sue blandizie ti tragga alla vera gloria Esaltato dallo spettacolo delle cose
viste e dalle promesse, dalle predizioni, dai consigli uditi, Emiliano promette
di adoperarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1'avo lo
conferma nel suo proposito dichiarandogli l’immortalità dell' anima. Ricordati che non tu, ma il tuo corpo è
mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma corporea fa apparire.
Ciascuno é ciò che é l'anima sua, non quella parvenza che può mostrarsi a
dito. Sappi che tu sei divino; se divina è quella forza che anima, che
sente, che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove questo
corpo, a cui è preposta, così come il sommo divino regge, modera, muove
il mondo ; e come lo stesso divino eterno muove il mondo per qualche
rispetto mortale, così il fragile corpo è mosso dall' animo
sempiterno Della durata di circa 12000 anni' comuni,
secondo le dottrine dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo
terzo. Somnium Somnium: Tu vero enìtere et sic haheto, non esse te
mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista declarat:sed
mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae digito demonstrari
potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est deus, qui viget, qui
sentit, qui meminit, qui providet, qui tam Tu esercita questo nelle più nobili cure: e
nobilissime sono le cure spese per il bene della patria ; onde
l'animo che in esse si adopera e si esercita volerà piti velocemente in
questa sede e dimora sua. Anzi tanto più presto vi verrà se, fin da quanto
è chiuso nel corpo saprà uscirne e, contemplando quel che è fuori di
esso, staccarsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che si
abbandonano ai piaceri del corpo e si rendouo quasi schiavi di essi e,
sotto l'impulso dei desideri obbedienti ai piaceri, violano i diritti
divini e umani, usciti dal corpo vanno svolazzando intorno alla terra e
non ritornano a questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne
agitazione molti secoli. E con 1' enunciazione di questi concetti
pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce. regit et
tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam kune mundum ille
princeps deus ; et ut mundum ex quadam parte mortaleni ipse deus
aeternus, sic fragile corpus animus senipiternus movet. [Anche questo, è bene ricordarlo, era un
concetto pitagorico; tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento
ultimo ai suoi discepoli quello relativo all' esercizio dei pubblici
poteri. V. S. Agostino, de ordine II, 24, 54.
Somnium, 21, 29: Hanc tu exerce optimis in rebus:sunt autem optimae curae
de salute patriae, quibus agitatus et exercitatus animus velocius in hanc sedem
et domum suam pervolabit. Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit
inclusus in corpore, eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans
quam maxime se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se
corporis voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros
praebuerunt impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et
hominum iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram ipsam
volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis revertuntur. Nel tempo del quale ci stiamo occupando
non è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i suoi
riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del genere di quelli
che abbiamo già visti, destinati a un pubblico eletto e relativamente
limitato ; che anzi l' insegnamento fondamentale della dottrina di Pitagora,
cioè la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle
fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel dominio pubblico, da essere
oggetto di satira e di riso nel teatro popolare. Fra quelle specie di
farse infatti che sono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione di
morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di Cicerone e del quale
Tertulliano ricorda una satirica interpretazione della metempsicosi:
Insomma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio secondo 1'
opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo e la serpe dalla donna,
e in tavore di questa opinione volgesse, con parola efficace, tutti gli
argomenti possibili, non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non
indurrebbe forse anche a credere che ci si debba perciò astenere dalle carni
animali? Chi potrebbe esser sicuro di non comperare eventualmente del
manzo di qualche suo antenato ?
Laberio dunque avrà tirato scherzosamente in ballo in qualche farsa,
della quale nulla peraltro sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è
neppur difficile pensare che gliene abbia data occasione una
situazione comica in cui fossero in contrasto 1' ostinata cocciutaggine
d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il commento e le deduzioni
ironiche circa l'astensione dalle carni che aggiunge Tertulliano
ricordano quella che è forse la prima testimonianza, in ordine di tempo,
che ci rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica; voglio dire i
noti versi di un'elegia di Senofane, contemporaneo di Pitagora:
E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato,
Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò: € Cessa, ne bastonarlo,
poiché vive in lui d' un amico r anima, che ravvisai, quando 1' ho
udita guair Tertulliano, Apologia,
48: Age jam, si qui philosophus
adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae, hominem fieri ex
m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia argum,enta eloquii
virtute distorserit, nonne consensum movebit et fìdem, infiget etiam ah
animalibus abstinendi propterea ? persuasum, quis habeat, ne forte
bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? I versi ci furono
conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36) Anche in questi versi infatti,
come nel commento di Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la
metempsicosi anche animale (per una falsa estensione però, come ho già
detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ridicolo. Di
un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer, è rimasto uno
spunto di verso, in ci si accenna a un
dogma pitagorico, che molto probabilmente possiamo ritenere che
fosse la stessa metempsicosi. Finalmente Cicerone e Seneca ci hanno
conservato il ricordo di un terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato
Faba, del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso
dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e 1' astensione
dalle fave. Né è davvero il caso di me e prendendoli da lui, li ha
citati anche Suida (sotto la voce Xenophanes). Si veda a proposito di essi e
delle altre antiche testimonianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito,
Empedocle, Ione, ecc. ciò che ha scritto lo Zeller nei Siizungsber. d.
preuss. Akad. 1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio
che questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano
al GoMPERz (Penseurs de la Orèce, 135 nota) infondati. Ed ha
perfettamente ragione. Prisoiano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal. Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3: nec
pythagoream dogmam docius. CICERONE (vedasi), ad AH. XVI, 13:
videsne consulatum illum nostrum, quem Curio antea apotheosin vocabat, si hic
factus erit, fabam mimum futurum ?
e
Seneca Apocoloc. 9:o olim magna res erat deum fieri, iam fabam mimum
fecistis. Debbo tuttavia notare che da qualcuno si è proposto di leggere
8-aù[jia in luogo del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in
proposito la Eiv. di filol. class. Capocasale in un suo breve lavoro {Il
mimo romano, Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che forse vi si dovea mettere ] ravigliarsene,
solo che si consideri con che argomenti piccini e con che sciocche
ragioni si cercava di persuadere della necessità di tale astensione. Del resto
anche ORAZOP si prende amabilmente gioco di questi due stessi punti della
dottrina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava con vivo
senso di nostalgia le parche cenette di campagna fatte di fave e di erbaggi
conditi col lardo, è evidente che egli da buon epicureo si infischiava
del precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un po' in
giro, facendo addirittura la fava
consaguinea di Pitagora. E la prima parte della famosa ode d'
Archita non pare, per dirla col Pascoli,
un attacco ai sistemi filosofici in azione la
parentela che esiste secondo Pitagora tra la fava e l’uomo, ed il
passaggio dell' anima in una fava. Ora queste, più che opinioni del
severo filosofo, sono certo stramberie di begli spiriti, che gliele
attribuirono per burlarsi meglio di lui e delle suo idee, come fa ORAZIO,
per esempio. Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di
Poefirionk. Orazio. Sat.: quando faba Pythagorae cognata
siwiulque XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ? Un'
altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli interpreti d' Orazio nel
v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu pisces seu porrun et caepe
trucidas)^ dove riferendosi il verbo trucidare non solo ai pesci, ma anche ai
porri e alle cipolle {quasi che anche in queste, come nella fava, si
trovassero anime dei morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico
Iccio che s' occupa di filosofia e con lui la dottrina pitagorica
della metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga
estensione. Qualcuno peraltro (per es. Ritter) nega ogni allusione.
che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi quasi personificati
in Archytas, per opera del quale il Pythagorismo entrò nelle dottrine di
Platone ? Dice infatti il poeta:
Te, o Archita, che misuravi il mare e la terra e l' innumerabile arena,
tiene ora fermo presso il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia,
e nulla ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo
abita, e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato a
morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur banchettava con gli
dei, e Titone, che fu tolto alla terra e sollevato neir aria, e Minosse,
che fu ammesso agli arcani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio
di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta (dopo la sua nuova
incarnazione in Pitagora), sebbene, con lo scudo che fece staccare (dalla
parete del tempio di Giunone argiva in Micene) data testimonianza
del tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera morte
(così affermava lui) niente più che i nervi e la pelle ; e tu (che eri un
grande pitagoreo), splendido mallevadore della verace scienza del tutto
lo sai bene.Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti dobbiamo
calcare una volta sola (e non più, come tu credi) la via che conduce
sotterra. Le furie offrono alcuno gra [Pascoli, Lyra romana,
Livorno, Giusti. Per altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28* del
lib. I, si veda il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio, Torino,
Loescher, e in particolare 1' opuscolo dello stesso autore Uode d'
Archita. Roma. habentque Tartara Panthoiden iterum
Orco Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo Tempora
testatus nihil ultra Nervos atque cutem morti concesserat atrae.
dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro di morte
ai naviganti ; si susseguono senza posa i funerali sì dei vecchi che dei
giovani, l'implacabile Proserpina non ebbe mai rispetto ad alcun capo. E. evidente che qui Orazio, affermando
recisamente che tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino
mortale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione al ricordo di Pitagora redivivo, come lo chiama
altra volta, fa doli' ironia bella e buona alle spese del figliuolo di Panto. E VIRGILIO -in qual conto tenne le
dottrine pitagoriche? Esercitarono esse qualche influsso sul suo pensiero
e lasciarono traccio visibili neir opera sua, dal momento che sappiamo per
quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci hanno tramandato i
suoi biografi e commentatori che egli ebbe grande inclinazione agli studi
filosofici e che desiderio di tutta la sua vita fu quello di potervisi
dedicare di proposito? Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono
di far rivivere in Roma la filosofia pitagorica, è possibile pensare che
uno spirito come quello di VIRGILIO, colto, curioso e naturalmente portato alle
speculazioni filosofiche, non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo
non v' è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche
[In uno degli Epodi Orazio accenna ancora alle varie vite di
Pitagora nel verso nee te Pythagorae
fallant arcana renati, dove è da notare anclie 1' allusione al carattere
segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire nomina una volta Pitagora con Socrate e con Platone e
nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52). a;
ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti credette di
ravvisare nelle pratiche e nei prin[Pitagorismo Torigine di molte delle più
antiche L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na;e anche altri.
Orbene Virgilio, che con 1' opera giore mirò a rappresentare in un
meraviglioso r insieme le origini e lo svolgersi della potenza e che
perciò fece lunghi studi intorno alle ) e alle antichità romane, dovette
proprio in modo re rivolgere la sua attenzione alla filosofia pitaa quale
per di più aveva già ispirato anche il Ennio^ la cui opera degli Annali
fu uno dei moi quali fu condotta 1' Eneide. Questo mi par che i affermare
con certezza, anche indipendentemente 3same analitico dell' opera poetica
di Virgilio ; che procediamo a questo esame ancorché molto rio non
solo sarà confermata a posteriori la induzione, ma dovremo senz'altro
assentire al giu)he di lui fece il Fontano, quanda lo disse esplicite poeta augurale e profondo conoscitore
della la di Pitagora. ne
tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e
fu avviato in essi da un ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo
chiama. r amore dei docta
dieta di lui egli avrebbe
[Servio, ad Aen. VI, 752: Qui bene
consideret inveniet omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad
sua tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia
eonfusus est ordo, etc. Poeta auguralis
pythagoricaeque doctrinae peritissimus, come è detto in una nota al Commento di
Macrobìo al Somnium Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag.
66. 9. anche rinunziato in gran parte alle dolci Muse ^ ! Yano proposito ! che
queste tennero sotto la loro amabile tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu
poeta prima che filosofo. Filosofia e in Virgilio solo in potenza:i germi
latenti nel suo pensiero che pur si delinea abbastanza chiaramente a chi
ne mediti l' opera poetica sarebbero certo cresciuti in fioritura d'
arte, se fosse vissuto più a lungo, sì che, condotta a perfezione 1' “Eneide”,
egli ha potuto finalmente appagare il desiderio lungamente maturato
e più volte espresso di poter attendere alla FILOSOFIA:così noi avremmo
forse, accanto al poerna di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del
materialismo epicureo, un poema virgiliano informato ai principi dell'
idealismo pitagorico-stoico. L' avviamento epicureo eh' egli ebbe da
Sirone, e l'animirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio lasciarono
bensì qualche traccia, e non soltanto formale, neir opera sua giovanile,
nei poemetti bucolici e nelle Georgiche ; ma in queste stesse poesie già
si manifesta abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto
opposto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e larghezza di
movenze, è foggiata quella specie di teoria sull'origine del mondo che
Sileno espone nella sesta ecloga ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle
un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente, col trasferirla
da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò che questi fosse epicureo ;
poiché nel campo dell' arte e della poesia sono possibili ben altre
finzioni, e 1' artista fa parlare i personaggi che sono figli della sua
fantasia secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla
stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle idee e
concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta poco prima della
sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ragione, anzitutto perchè in essa il poeta
canta in persona propria, in secondo luogo perchè il concetto che l'
informa tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti posteriori.
Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva in quegli anni essere
ancora definitivamente orientato e formato. La quarta ecloga fu
composta quando il poeta aveva ventinove anni, e precisamente allorché
stava per entrare in carica Asinio Pollione, console designato per 1'
anno successivo. Sulla interpretazione di questo carene, così stranamente
suggestivo, s' è tanto discusso, che non si sente davvero il
bisogno d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai
commentatori cristiani si credette di poter vedere in quest' ecloga, scritta in
tempi così vicini all' apparizione del Cristo, qualche accenno alla imminente
venuta del Messia; anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu
addirittura identificato col Nazareno, e non con Ottaviano, come Virgilio
affirma. Non e' è da meravigliarsene, che r intuizione artistica nei
grandi giunge talvolta a tali profondità e 1' espressione poetica
acquista tal forza di significazione e un tale carattere "di
universalità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle
[Generalraente si ritiene composta al principio del 40, anziché alla fine
del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa sul finire del 41,
ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di anno la nascita del figlio
di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo Servio, nacque appunto Pollione
eonsule designato), mi pare che non possa esservi ragione di incertezza ;
tanto più che in tal modo meglio s' intende il futuro inibii che
accompagna il te eonsule del y. 11. disposizioni dell'animo
e dagli atteggiamenti del pensiero di chi legge, aspetti e valori sempre
nuovi. Ma che poi proprio Virgilio ha consapevolmente ‘profettizato’ ex
post fato la nacita d’Ottaviano per conoscenza che avesse delle predizioni
messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta dai critici in senso
non del tutto negative. Certo è che, in occasione della nascita d' un
fanciullo che si ritiene generalmente e, se non Ottaviano, Asinio Gallo,
figlio di Pollione, a cui è dedicata l' ecloga Virgilio afferma
ormai venuta 1' ultima età (quella di Apollo) predetta dall' oracolo in versi
della Sibilla di Cuma, e sul punto di iniziarsi da capo, incominciando
dall' anno del CONSOLATO di Pollione, una nuova serie di
generazioni umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tornata sulla
terra la vergine Astrea (la giustizia) e sarebbero tornati i beati tempi del
regno di Saturno (ossia l’età dell' oro) e dall' alto cielo sarebbe fatta
scendere Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron) scrive:
(p. 48/: Non si può appunto escludere assolu tamente (sebbene io non lo creda
necessario) che Virgilio avesse in
qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa
per tratteggiare il suo puer, che
di questa conoscenza sentisse insomma gli ef fotti l'economia del carme. Per la
rinomanza che Virgilio si acquistò con questa ecloga dedocata a Asinio
Gallo, per ha quale fu sollevato alla dignità dei profeti, si veda
il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze.) e gli scritti ivi citati. L'
interpretazione di questa eclog a
Asinio Gallo era già molto in voga presso i filosofi. Si vedano anche i lavori
di C. Pascal, “Il culto d’Apollo in Roma nel secolo d’Ottaviano e La
questione dellEcloga IV di Virgilio (Torino), ristampati nel volume
Commentationes vergilianae (Palermo, R. Sandron,). una nuova
progenie d' uomini (v. 7:jaw, nova
progenies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, Asinio Gallo, figlio del
console Pollione, allora nascente, avrebbe visto scomparire del tutto
la gens ferrea e crescere insieme con lui la gens aurea e ricevendo la vita degli dei avrebbe veduto sulla terra dei ed eroi
e anch' egli si sarebbe mescolato con loro: nella giovinezza avrebbe
veduto ancora residui delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo
condizione necessaria al ripetersi delle vicende umane) nuove
spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre, come la
trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto a pieno la felice pace
della nuova età, della quale già si allietavano e cielo e terra e mare. Come
si vede da questo accenno, siamo lontani le mille miglia da Epicuro ! E
che cos' è poi questa concezione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì
profondo entusiasmo poetico? Pura finzione del suo spirito? No, senza
dubbio. Una predizione dei carmi sibillini prometteva certo con l’ età d'
Apollo 1' ultimo dei grandi periodi della vita universale il rinnovamento
del mondo e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filosofiche
allora correnti e che ho già avuto occasione di ricordare, ammettevano anch'
esse il rinnovarsi periodico dell' universo e il ripetersi perfettamente
identico dei medesimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e
delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci). Pensa
dunque Virgilio, nel fingere che proprio col cominciare dell'anno colla nascita
del figlio del console si iniziasse l'ultima età mondana designata dai
carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare che non se ne possa
dubitare. Solo ci si potrà chiedere se queir < altro Tifi, quell' altra nave Argo che trasporterà ancora gli
eroici compagni, le altre guerre
che si rinnoveranno e il grande
Achille, che ancora sarà mandato a
Troja, indichino l'identico ripetersi di tali eventi, il ritorno al
medesimo punto della vita universale, oppure indichino soltanto una
generica legge dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così
vicino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo quei nomi
simboleggiare genericamente il ritorno di eventi simili, ma non proprio
gli stessi. "Certo però che, assegnando Virgilio alla seconda età dell'
oro già imminente quei medesimi, identici caratteri che la tradizione
dotta e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto indotti ad
ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato e rappresentato in
atto, coi colori smaglianti della sua arte divina, l' avverarsi della
teoria pitagorico-stoica della palingenesi. E ancora : parlando della
<^ nova progenies, la quale eaelo demittitur alto, a che cosa ebbe
precisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua immaginazione
come un flusso di anime emananti dall'anima universale all' inizio del nuovo
anno o periodo mondano posto sotto 1’egida di Apollo ? L' anima del
fanciullo nel pensiero del poeta non v'ha dubbio che appartenesse a
questa nuova progenie spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato cara deum suboles, magnum lovis
mcrementum (v. 49), non parrebbe che si
dovesse intendere altrimenti che la sua anima è emanata pura e semplice
direttamente da Giove, e Giove starebbe qui a indicare, più che il
supremo dio dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima] Mi pare, non ostante il diverso parere di
qualche commentatore (p, es. di Pestalozza), che si debba precisamente dare
all' espressione il suo senso proprio e letterale. dell'universo, secondo
la teoria che "Virgilio doveva ancora riprendere piìi tardi, nel secondo
delle Georgiche, e che doveva svolgere più compiutamente là dove,
dall'anima di Auchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la
famosa storia dell' anima. Vero è
che, come ho già rilevato, bisogna andar molto cauti nella
interpretazione di siffatti motivi poetici e nelr inferire da essi il pensiero
filosofico animatore operante neir artista; che questi può,
indipendentemente dai processi logici normali, assurgere per pura intuizione
alla visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro il
poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale com'era la predizione
sibillina, ha forse raccolto intorno ad essa reminiscenze d'altra origine
ed aggiunti elementi nuovi di pura elaborazione fantastica; ed
espressioni poetiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si
prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide seste della
logica. Non potevamo però non tenerne conto, almeno come indice di quella
tendenza mistico-idealistica, che ancora e meglio doveva rivelarsi più
tardi, in successivi momenti dell' attività poetica del nostro autore. Da
ispirazioni così diverse e lontane come quelle della sesta e quarta
ecloga appar probabile dunque che prima dei trent'anni Virgilio non
avesse ancora definitivamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse
non lo aveva neppure orientato definitivamente quando compose le
Georgiche ; poiché in queste si osservano ancora da un lato somiglianze
di pensiero e di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si
incontrano immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti
ricordare, per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro nei
quali VIRGILIO accenna, senza ancora accettarla come propria, ma con
evidente simpatia, la concezione panteistica (che fu prima di Pitagora e
poi di Platone e degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli
esseri viventi non è che una parte, più o meno grande, dello
spirito divino che, suscitando in mille forme la vita, pervade e penetra tutto
1' universo, e a cui tutto ritorna. His quidam signis atque kaec
exempla secuti 220 esse apibus partem divinae mentis et haustus
aetherios dixere : deum namque ire per omnia, terrasque traefusque
maris eaelumque profundum. Hine peeudes, armenta, viros, genus omne
ferarum^ quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ; seilieet
hue reddi deinde ae resoluta referri omnia, nec morti esse locum,
sed viva volare \ sideris in numerum atque alto succedere eaelo.
Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam...
dixere)^ fa ancora le sue riserve; ma il poeta evidentemente vi aderisce, e
l'altezza dell'arte ci dice la profondità dell' adesione sentimentale. Non solo
; ma il fatto che uno di questi versi mirabili non è nuovo, ma
Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga, lega idealmente questa
col passo delle Georgiche. L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo
a lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali avevano combattuto
la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio; ma il suo temperamento prima
e poi le convinzioni che via via si vennero elaborando in lui col
maturare degli anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ;
sicché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide, immergendosi tutto nelle
ricerche intorno alle origini e alle antichità romane, si trovò di fronte
al Pitagorismo, che la leggenda collegava colla sacra figura del re Numa,
che aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in quegli anni
cultori come Nigidio e come i Sestii, egli dovette sentirsi preso tutto quanto
da quelle idee e assimilarle ancora più profondamente, tanto che ad esse
volle poi dare anche più precisa e più degna espressione là proprio dove
il poema attinge la più alta romanità e acquista nel medesimo tempo
carattere di universalità. Al principio del libro VI dell'”Eneide”, che
si ritene generalmente dagli antichi contenesse la più profonda dottrina
virgiliana, Servio credette di dover premettere queste parole: Tutto Virgilio è pieno di scienza,
nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la parte principale
è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del canto XI dell' Odissea). Alcune
cose sono dette semplicemente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla
storia, molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi. Talché parecchi
hanno scritto interi trattati su ciascuna di tali cose che trovansi in questo
libro. Di questi trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno
quello, certo assai interessante dal punto di vista del nostro tema, che
scrive Macrobio, 1' erudito grammatico; poiché dei suoi Saturnali, che
pure ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella
parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico dell' opera
virgiliana. E un peccato, perchè Macrobio, Il compito di tale esame se 1'
era assunto, nei dialoghi dei Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi
tempi assai erudito, come ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V). Anzi,
per la superiorità della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni,
1' esposizione di Eustazio e la prima di tutte, come appare da ciò che è
detto come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii elementi
pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del quale, per esempio,
ricordando nel commento al Somnium Scipionis il terque quaterque beati,
riconosce neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri.
Non è certo il caso di andar cercando, come qualche antico ha
fatto, in ogni espressione, in ogni parola di questo mirabile libro, al
quale doveva ispirarsi Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse
allegorie, e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel
comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come la chiave di volta
di questo canto e che indubbiamente è di quelli che Servio ha detto
provenire dall'alta sapienza dei filosofi, noi fermeremo la nostra
attenzione. ENEA, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso all'Inferno.
Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte, attraversato 1'
anti-inferno o limbo (dove sono le anime dei neo-nati, dei condannati a
morte ingiustamente, dei suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti
per causa d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il
Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mutilo
; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori, e si deve far
risalire al tempo in cui questi tendevano ad accentuare il carattere
profetico di Virgilio. [Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in
ogni genere di sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al
Somnntm lo dice nullius disciplinae expers e diseiplinarum omnium
perìHssimus; così nei Saturnali: omnium diseiplinarum peritus.
(2j Per esempio Elio Donato, il quale attribuiv a Virgilio un
sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi
filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai. (dove
subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti coloro che in qualche modo
hanno violato le leggi umane e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete
pianure che sono il felicissimo regno dei beati locos laetos
et amoena mrecta fortunatorum nemorum sedesque heatas. Quivi, in una
luce perpetuamente serena e fiammante, le anime dei beati (eroi morti per
la patria, sacerdoti, poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della
umanità) trascorrono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in
boschetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro abitudini ed
occupazioni terrene : fra esse è Museo, al quale Enea chiede notizie d'
Anchise e che gli si offre per guida. Il padre d'ENEA sta in quel momento
ad osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse nel
fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare alla vita terrena,
passando in rassegna fra esse quelle che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti,
per conoscerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future. At
pater Anchises penitus eonvalle virenti 680 inclusas animas superumque ad
lumen ituras lustrabat studio recolens omnemque suorum forte
recensebai numeruni carosque nepotes fataque fortunasque virum 7noresque
manusque. Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incontro,
dopo il quale Enea vede da un lato della valle un bosco appartato e
cespugli pieni di suoni e il fiume Lete (il fiume dell' oblio) che
lambisce quelle placide sedi e intorno a questo una infinita moltitudine
di anime svolazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sussurro, simile
al ronzio che fanno pei prati, nei sereni meriggi estivi, le api, quando
si posano su ogni sorta di fiori e si addensano intorno ai candidi gigli.
L' eroe, stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia
quello, e che uomini quelli che si affollano così numerosi sulle sue rive. E il
padre subito gli risponde : Le
anime alle quali è dovuto per destino un altro corpo, bevono alle onde
del fiume Lete le acque che sigilleranno in loro per lungo tempo il
ricordo degli affanni e della vita trascorsa: animae, quibus altera fato corpora
debentur, Lethaei ad fluminis unda'm seeuros latices et longa oblivia
potant. Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli,
enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi discendenti (i re Albani e
gli eroi gloriosi di Roma da Silvio a Marcello il giovane) perchè s'
allieti con lui di essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed
Enea subito gli chiede: padre, si
deve dunque credere che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e
ritornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual mai assurdo
desiderio della vita terrena hanno le infelici ?: pater, anne aliquas ad
caelum hinc ire puiandum est
sublimis animas iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis
miseris iam dira cupido ? Nella concezione orfica pare che le anime
destinate alla palingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della
similitudine (Sabbadini). Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh
io ho chiamata la storia dell'anima: Anzitutto un' interiore forza spirituale
anima il cielo, la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un'
intelligenza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra la gran
mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli animali che vivono sulla terra,
che volano per 1' aria^ che si muovono negli abissi del mare: essi,
particelle dell'anima universale disseminate nello spazio, hanno vigore
etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la lue corporea e
le membra terrene e periture li ottundono. Oud' è che essi vanno soggetti a
timori e desideri, a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco
carcere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto che, anche
quando nel dì del trapasso le abbandona la vita, non si stacca tuttavia
dalle infelici ogni male né le lasciano interamente le sozzure corporee ;
molte delle quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono
necessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo in modi
meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e pagano con supplizi il fio
delle passate colpe: delle cui infezioni alcune si purificano rimanendo
sospese ed esposte all' azione dei venti, altre immerse in un profondo
abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando nel fuoco.
Tutti subiamo da morti la nostra espiazione, dopo la quale passiamo nell'
ampio Elisio ; e pochi soltanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un
lungo volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le
traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro il senso etereo
e il fuoco della semplice aura. Tutte queste invece, quando son volti
mille anni, sono chiamate da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè,
immemori del passato, rivedano la volta del cielo e comincino
a sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v. Principio
caelum ac terras camposque liquentis lucentemque globum lunae Titanìaque
astra spiritus intus alit totamque infusa per artus
mens agitai molem et magno se corpore miscet. inde hominum
pecudumque genus vitaeque volantum et quae marmoreo feri monstra sub
aequore pontus. igneus est oUis vigor et caelestis origo
seminibus, quantum non noxia corpora tardant terrenique
liebetant artus moribundaque membra. hinc metuunt cupiuntque, dolent
gaudentque, neque auras dispiciunt clausae tenebris et carcere
caeco. quin et supremo cum lumino vita reliquit, non tamen
omne malum miseris nec funditus omnes corporeae excedunt pestes,
penitusque necesse est multa diu concreta modis inolescere
miris. ergo exercentur poenis veterumque malorum supplicia
expendunt. aliae panduntur inanes suspensae ad ventos, aliis sub gurgite
vasto infectum elicitur scelus aut exuritur igni ; quisque
suos patimur manis ; exinde per amplum mittimur Elysium ; et pauci
laeta arva tenemus, donec longa dies, perfecto temporis orbo,
concretam exemit labem purumque relinquit aetherìum sensum atque
aurai simpliois ignem. has omnis, iibi mille rotam volvere per
annos, Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno, scilicet
immemores supera ut convexa revisant rursus et incipiant in corpora
velie reverti. Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti
vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di una teoria,
nella quale è riaffermato anzitutto il concetto di uno spirito immanente nell'
universo, di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli
esseri animati uomini e bruti sono delle manifestazioni ; cioè il
medesimo concetto che abbiamo già veduto nel quarto delle G-eorgiche, e
perfettamente identico a quello che Cicerone, come s' è visto, attribuiva
a Ferecide, maestro di Pitagora. Di piti la forza spirituale, di origine
divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, e concepita in
perfetta antitesi con la materia del loro corpo, che è per l'anima un
carcere, un peso, un impedimento, e che è la causa degli errori, delle
passioni, delle colpe, dei traviamenti. Sicché la vita è un male. Anche
questo concetto di un dualismo o antagonismo fra spirito e materia non ò
nuovo ed appartenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come
s' è pure veduto. Ma se la vita è un male per tutti, per i malvagi e per
i buoni, tutti, dopo la morte, debbono purificarsi delle infezioni corporee. La
purificazione infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, non
però eterni, che debbono subirsi per il tempo necessario all' espiazione
perfetta. Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua
e del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle
cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1' espiazione purificatrice tutte le
anime passano nell' Elisio, luogo di beatitudine, dove alcune poche,
quelle degli eletti che furono in terra i migliori, rimangono a godere
una serena felicità, anche questa non eterna, ma che dura
fintantoché non sia compiuto il tempo prescritto tempo assai lungo,
quanto è necessario perchè si esaurisca e scompaia da sé il loro attaccamento
alla vita terrena e il ri Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De
Senectute 21, 78. Cicerone, Somnium
Seipìonis, ?, 15 e altrove. cordo delle belle opere umane per riprendere poi la primitiva natura
eterea e spirituale e di nuovo dissolversi in seno all' anima universale. Le
altre invece, e sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in
una delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate da
Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete r oblio della vita
trascorsa e si incarnano in nuovi corpi. Non s' intende peraltro, poiché
Anchise non lo dice, se queste ultime anime, destinate a nuova vita,
quando ritorneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conseguente espiazione
negli elementi, all' Elisio, vi resteranno tutte in attesa di convertirsi
in puro etere e spirito, o se parte di esse dovrà ritornare nuovamente
sulla terra. Nel primo caso il numero delle esistenze terrene
sarebbe limitato ad un massimo di due una con prevalenza del male e
una del bene, nel secondo sarebbe indefinito. Ma in un modo o nell' altro la
teoria della resurrezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal
momento in cui r anima si stacca dallo spirito universale fino al momento
in cui si ricongiunge ad esso, è perfettamente conchiuso ; il concetto
panteistico e il processo di involuzione ed evoluzione dello spirito,
appena accennati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiutamente. Né
si può dubitare che anche 1' ultima parte che si riferisce alle pene e ai
premi d'oltretomba e che espone la dottrina della metempsicosi, sia, come le
prime, foggiata secondo i principi dell' Orficismo e del Pitagorismo.
Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio le
occupazioni a cui attendevano sulla terra. Sarebbe certo oltremodo
interessante svolgere questi principii fino alle ultime conseguenze
logiche, e chiederci, per esempio, se in tale concezione il
processo di emanazione delle anime dallo spirito universale avvenisse una
volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente. Si vedrebbe allora
che, non potendo avvenire ne una volta tanto (perchè in tal caso, col
ritornare continuo delle anime individuali in seno all' anima universa,
ne sarebbe seguita in un determinato momento la scomparsa della vita
dalla terra), né ininterrottamente (parche in tal caso, essendo sempre
infinitamente maggiore il numero dei cattivi che non quello dei buoni, a
un certo punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il
male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad intervalli, r idea di tale
processo d' emanazione si ricollegherebbe alla teoria già accennata dei grandi
anni mondani. Così ancora, poiché dall' anima universale emanano non solo
quelle degli uomini, ma anche quelle dei bruti, ci si potrebbe chiedere
che cosa dovesse avvenire di queste, alla morte dei loro corpi. E si
vedrebbe come, dal modo in cui dovette esser risolto questo problema
da qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi quasi Ognuno di
questi anni o periodi della vita universale era diviso in dieci mesi (di
mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto il particolare influsso d' una
delle divinità maggiori, concepita forse, filosoficamente, come aspetto, manifestazione,
atteggiamento, emanazione particolare del dio universale. La durata però degli
anni stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi secoli
; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre identico di
emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e si ripetevano gli
stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto più su (§ 4) parlando
della quarta ecloga. unanimemente attribuita a Pitagora d' una
metempsicosi anche animale. Ma
prescindendo da queste considerazioni, che ci porterebbero al di là di quello
che Virgilio ci ha voluto o potuto dire, come si concilia questa storia
dell' anima con tutta la rappresentazione precedente dell'
anti-inferno e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione
fondamentale esiste: che 1' esistenza delle anime nel preinferuo e le punizioni
evidentemente eterne che subiscono quelle dei malvagi nel Tartaro non si
possono accordare con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi.
Sicché noi siamo indotti a pensare che nella rappresentazione virgiliana
dell' oltre tomba si debba forse vedere un tentativo mal riuscito per la
mancata elaborazione ultima del poema, impedita dalla immatura morte di
Virgilio di fondere insieme quella che
era rappresentazione popolare e il concetto o rappresentazione filosofica del
poeta. E poiché, considerata in sé stessa, questa storia suggestiva
e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e d' altra parte sappiamo che
Virgilio compose 1' Eneide a pezzi staccati, che poi collegava insieme,
non vorrebbe la voglia di credere che essa sia stata scritta a
parte, fors' anche indipendentemente e in tempo anteriore a quello
della composizione del poema, e poi opportunamente inserita in questo, allorché
il poeta artista, fi [Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le
incarnazioni dell' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano,
ma anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo
che le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che nelr
altro elemento: e la vita animale avrebbe perciò rappresentato uno stato
di vita intermedio fra due vite umane. losofo, cittadino nello
stesso tempo concepì l'idea di valersi, per esaltare la grandezza della
Patria e per la rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della
dottrina della metempsicosi, antichissima e largamente diffusa e conforme alle
credenze religiose dei suoi concittadini e già consacrata dall' arte di Ennio ?
Anzi non mi parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse
proprio vedere in essa un brano di quel poema della Natura al quale
Virgilio già pensava quando finì il secondo canto delle Georgiche (vv,
475-494), e forse addirittura il principio del poema stesso o 1' idea
madre eh' esso avrebbe svolta: principio ed idea eh' egli certo
prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo veduto, si iniziavano
appunto con 1' esposizione della dottrina della metempsicosi. In tale, ipotesi
dunque la teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto una
finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto per ottenere una
grande e suggestiva efficacia di rappresentazione, ma esprimerebbe la genuina e
schietta concezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel
contra^^to Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l.
VI dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di
rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea e
quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne parlasse in
quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella quale appunto si
conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera virgiliana fatto da
Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una effettiva somiglianza di
contenuto fra i due squarci poetici, come sono indubbie alcune analogie
di pensiero fra i due poeti. E gli arcaismi che si trovano in Virgilio
{ollis, aurai) potrebbero essere un altro indizio d' imitazione enniana. Anche
il Pascal (Gommentat. vergilianae, 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio
ha derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli
Annales. a cui abbiamo accennato fra l' idealismo pitagorico-stoico
e il materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testamento filosofico.
Mirabile testamento davvero, che lasciava in eredità alle più lontane
generazioni l' alta e sublime espressione artistica d'una teoria che,
sorta agii albori del pensiero nelle più remote età dell' uomo, trasmessa
di generazione in generazione da una civiltà all' altra, dall' Oriente all'
Occidente, custodita con cura gelosa nel mistero dei santuari, insegnata
come la verità più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una
volta, come già nei miti immortali di Platone, alla luce della
poesia e dell' arte. Ho già parlato nel cap. I della tradizione, secondo
la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato scolaro di Pitagora. Raccogliendo là
tutte le testimonianze di questa tradizione, ho anche accennato a quella
che ne fa Ovidio nelle Metamorfosi. Essa ha una importanza
specialissima e merita di essere studiata separatamente dalle altre anche per
questo, che della tradizione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione,
se non profonda, tuttavia molto estesa la più estesa e la pili
organica che ci rimanga nella letteratura romana della tìlosofia pitagorica,
specialmente in attinenza a due punti fondamentali di essa: l'astensione
dai cibi carnei e la metempsicosi. Dice dunque Ovidio (vv.
1S\ che, scomparso Romolo, si cercò subito chi potesse addossarsi un peso
tanto grave com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e
che una fama non menzognera designò all'impero Numa, già famoso per la sua
giustizia, per la sua pietà, e, sopratutto, per la sua sapienza: che, non solo
conosceva a perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,
abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti ed essendo avido
di scrutare i più ardui problemi della natura, aveva abbandonato la
nativa Curi e si era recato a Crotone: Quaeritur interea qui tantae
pondera niolis Sustineat, tantoque queat succedere regi. Destinai
imperio elarum praenuntia veri Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae
5 Oentis habet ritus: animo maiora capaci Goncipit, et quae sit
rerum naiura requirit. Iluius amor curae, patria Guribusque
relictis, Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem. Quivi
insegnava Pitagora e segue appunto nei versi l'esposizione delle dottrine
di questo filosofo, che or ora esamineremo e Numa ne ascoltò le lezioni;
dopo di che ritornò in paCria e prese le redini del governo di
Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e le arti della
pace: Talibus atque aliis instructo pectore dictis tn patriam
remeasse ferunt., ultroque petitum Acoepisse Numam> populi
Latiaris kabenas: Goniuge qui felix nym^pha ducibusque Gamenis
Sacrificos docuit ritus, gentemque feroci Adsuetam bello pacis traduxit
ad artes. Come si vede e l'ho già rilevato, Ovidio non solo accetta
senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa^ la tradizione che faceva di
Numa un discepolo di Pitagora, ma vien pure in certo modo a mettere in
connessione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a Numa e l'
educazione pitagorica da lui ricevuta ; per quanto con l'accennata
collaborazione della ninfa Egeria e delle Camene la leggenda abbia
certamente voluto rappresentare la parte che ebbe l'elemento indigeno
nella creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico periodo
regio. Il poeta pertanto, non tenendo conto dei dubbi e delle critiche
messe innanzi da qualche erudito, preferì seguire senz'altro la
tradizione leggendaria, che pur Cicerone aveva chiamata inveteratus
hominum ei-ror; e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva
mirabilmente il modo di esporre quella dottrina della metempsicosi ch'era la
piìi naturale conclusione d'un poema come le Metamorfosi, quanto perchè, molto
probabilmente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza dei
contemporanei, per i quali il poeta scriveva, massime dopo la recente rinascita
del Pitagorismo in Roma. [Lo stesso Ovidio, in altro luogo
{Fast.) accenna alla possibilità che la riforma del calendario sia stata
ispirata a Numa dal filosofo di Samo: Primus Pompilius menses sen sit abesse
duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos putat, Egeria sive
monente sua. Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge
nella terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta,
immaginando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro, lo
rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da quello
che fecero altri discepoli verso i loro maestri: Eumolpo verso Orfeo,
Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc.: In Crotone
teneva dunque scuola Pitagora; il quale, nativo dell'isola di Samo, aveva
abbandonato spontaneamente la patria, mal sopportando la tirannide onde
era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia. Per virtù di
questi egli potè elevarsi con la
mente, per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio
celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intelletto ciò che la
natura ha negato alla vista degli uomini: Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed
fugcrat una Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul
Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^ Mente deos
adiit et quae natura nogabat Visihus humanis^ oculis ea pectoris
hausit. Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in
evidenza Pitagora, e determinata con molta precisione e con grande
efiìcacia rappresentativa la natura del suo misticismo, fondato sopra
l'esercizio assiduo dell'intelletto e la profonda intensità del meditare,
per giungere alla visione e alla comprensione delle più alte verità.
Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura In medium
discenda dahat, coetusque silentum Dictaque mirantum magni primordia
mundi Et rerum causas et, quid natura, docebat: Quid deus, unde nives^ quae fulminis esset
origo, luppiter an venti discussa nube tonarent^ Quid
quateret terras, qua sidera lege fnearent, Ed quodcumque latet.
At non Chionides Eumolpus in Orphea talis; In Phryga
nee satyrum talis Olympus erat ; Praemia nec Chiron ab Achilli talia
eepit, Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam. Nomina neu
referam longutn collecta per aevum, Discipulo perii solus ab ipse
meo. E in questi altri versi ecco parimenti accennata con grande
chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti, che il filosofo
impartiva all'attonita e silenziosa schiera dei discepoli e che
abbracciavano le origini
primordiali dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della
natura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine, del tuono e
del terremoto e le leggi onde è regolato il corso degli astri: insomma,
tutti i problemi più reconditi della filosofia naturale e della
scienza Egli 'per primo, aggiunge ancora
il poeta, vietò di cibarsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione
con molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approvazione: Primusque anitnalia mensis Arguii
imponi: primus quuni talibus ora Docta quidem solvit, sed non et eredita,
verbis. Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima persona,
l'uso delle carni e descrivere l'età dell'oro, quando gli uomini non
conoscevano ancora tale uso; e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo
accingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni più ardue
e a svelare più riposti misteri: Et quoniam deus ora movet, sequar ora
moventem Rite deum, Delphosque meos ipsumque recludarn Aethera et
augustae reserabo or acuta mentis. Magna, nee ingeniis evestigata
priorum, Quaeque diu latuere, canam. luvat ire per alta il) I vv.
67-71, cke riassumono la supposta fisica pitagorica, sono manifestamente
ispirati da Lucrezio, dice il Lafaye, Les métamorphoses d' Ovide et leurs
modèles grecs, Paris, Alcan, 1904, 197; masi accordano pure benissimo coi
principii dello stoicismo. Astra \ iuoat terris et inerti sede
relieta Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^ 150
Palantesque homines passim ac rationis egentes Despectare procul^
trepidosque obitur/ique timentes Sic exhortari, seriemque evoltere
fati. E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina,
seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il rito, e vi
svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi schiuderò gli oracoli fin
qui nascosti nel profondo della mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai
scrutate dalle menti dei padri, e che per lungo tempo restarono
occulte. Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abbandonata la
terra e questa inerte dimora, lasciarmi trasportare da una nube e poggiare
sulle spalle del vigoroso Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi
qua e là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con
trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere la visione del
loro destino con queste parole. Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la
cui conoscenza appunto deve distruggere negli uomini il timore della
morte: genus attonitu7n gelidae
formidine ìnortis ! Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana
timetis, Materieni vatum^ falsique perieula mundi? Corpora, sive rogus
fiamma, seu tabe vetustas Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, Morte careni animae; semperque priore
relieta Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae. Cade
ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie Georgiche: Felix,
qui potuit rerum eognoscere caussas, Atque metus omnis et inexorabile
fatum Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari, schiatta
attonita per lo spavento della fredda morte ! Che temete lo Stige, la
tenebra e i suoi nomi vani, fantasie di poeti e pericoli d'un mondo
inesistente? Non crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la
sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire mali di sorta,
E quanto alle anime, esse non muoiono; e sempre, abbandonata una sede,
vivono e abitano in dimore che nuovamente le accolgono. E in prova di ciò Pitagora ricord
d'essere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel corpo d'
Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente chiarita ed espressa, la
dottrina della metempsicosi animale, volgarmente attribuita a Pitagora: Omnia
mutantur, nìhil interit: errai et illìne Hue venit^ hine illuc, et
quoslibet occupai artus Spiritus: eque feris humana in corpora
transita Inque feras noster, nec tempore deperii ullo, Utque novis
facilis signatur cera figuris, Nec manet ut fuerat^ nec formas
servai easdem, Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper
eandem Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras. Tutto si trasmuta,
niente muore. Lo spirito va errando e si muove di là a qui, di qui a là, e
s'incarna nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei corpi
umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle che si sogliono
riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giungevano alla medesima
conseguenza pratica (inanità del timore della morte) partendo da premesse
assolutamente opposte: 1' uno, cioè Pitagora, dimostrando che il morire è
soltanto trasformazione, o passaggio dell' anima d'una in altra forma di
vita corporea; l'altro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento
totale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi
onde l'anima si compone. cera si foggia in nuove figure, sì
che, pur non restando quale era prima e non conservando le stesse forme,
tuttavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sempre la medesima,
senonchò passa sotto varii aspetti. Da ciò un nuovo argomento per astenersi
dall'usar carne. A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga,
e il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il
divenire incessante di tutto il creato: Et quoniam magno feror aequore plenaque
ventis Vela dedi: nihil est tato, quod perstet, in orbe. Cuncta
fluuni, omnisque vagans formatur imago. E poiché, aperte le vele al vento,
navigo in alto mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in
tutto l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni
mutevole aspetto. E questa nuova proposizione illustra con una lunga
serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicendarsi delle
stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissitudini degli elementi (vv.
179-251). Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di mutamenti
regolari, determinati da leggi immutabili ed universali ; si compiono anche
intorno a noi, nei corpi inorganici e negli organici trasformazioni impreviste,
che i saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano le
cause: questi fenomeni straordinari spesso elencati e descritti nel
periodo alessandrino, in opere intitolate Questa, prima parte
deiresposizione ovidiana è molto probabilmente modellata sul Sogno
degli Annali di Ennio di cui si è già visto. Paradoxa Ovidio
li fa esporre da Pitagora, non senza qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i
vv. 307-336 riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^
mirabiiia fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri, che descrivono
le rivoluzioni avvenute nelle società umane, sino al glorioso principaio
d'Augusto, predetto già da un oracolo fin dal tempo della caduta di
Troia: Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere Rotnam^
Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis Mole sub ingenti rerum
fundamina pomi. Haec igitur forviam crescendo mutata et olim
435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates Vaticinasque
ferunt sortes: quantumque recordor, Dixerat Aeneae^ cum res Troia?ia
labaret^ Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis: Nate dea^ si nota
satis praesagia nostrae 440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite
Troia. fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una
Pergama rapta feres, donec Troiaeque tibique Externum patria contingat
am,ieius arvum, Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes, Quanta
nec est nec erit nec visa prioribus annis. Hanc aia proceres per
saecula longa potentem^ Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli
Efficiet. Quo cum tellus erit u>sa, fruentur Aetheriae sedes^
caelumque erit exitus illi. Raec Helenum
eecinisse penatigero Aeneae Mente mem,or refero, cognataque moenia
laetor Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos. Così
Pitagora è fatto profeta della divina e fatale potenza d'Augusto, come con
analogo procedimento, nel La sola predizione che troviamo accennata, a proposito
di Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade, e fu
riprodotta da Virgilio {Aen.). poema virgiliano la dottrina
pitagorica della metempsicosi è assunta quale mezzo artistico per la
predizione della futura grandezza di Rom3. Nei pochi versi
che seguono Pitagora finalmente ritorna al punto di partenza e conchiude: Poiché tutto cambia, poiché al termine della
vita la nostra anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidiamo
le bestie; chi può sapere se, uccidendole non facciamo scorrere il sangue di
nostri congiunti ?. Analizzato così il contenuto della esposizione
ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia stato r
atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo. Ne fu egli per
avventura un seguace ? A questa domanda noi possiamo rispondere negativamente
senz' ombra di esitazione: la vita e l'operosità poetica di Ovidio, anche
nel periodo posteriore alla composizione delle Metamorfosi, furono in antitesi
troppo stridente con gl'insegnamenti e la pratica pitagorica, per poter
immaginare pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a
quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tempra di filosofo né
eccessivo amore per le ricerche e speculazioni astruse. Che però una certa
simpatia, o almeno una certa insistenza del suo pensiero su quella
filosofia ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua
maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizione quasi sistematica,
ma altre volte ancora accenna ad essa, come nel citato luogo dei Fasti e
in alcuni versi delle Tristezze. ìrist,, III, .3, 59-64:
Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^ Effugiatque avido
pars mihi nulla rogos. E quasi certamente poi questa predilezione del
poeta si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo,
che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima metà del secolo
(onde abbiamo già visto quan te e quali traccie se ne riscontrino nella
letteratura dell' età di Cicerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del
poeta fece sorgere la scuola dei Sestii: sì che Ovidio potè averne
notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano alla
generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce e dagli scritti di
qualcuno dei nuovi seguaci. Gli studiosi infatti che, proponendosi la
questione delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pitagorismo,
hanno cercato di risolverla, per poter quindi determinare il valore
storico della trattazione stessa, hanno riconosciuto in sostanza che tali
fonti debbono essere state le opere varroniane (le Antiquitates rerum
divinarum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis) Nam si morte
carens vacua volai altus in aura Spiritus, et Samii sunt rata dieta
senis, Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^ Ferque feros
manes kospita semper erit. Il poeta si augura che abbiano ragione coloro
che 1' anima col corpo morta
fanno e che nessuna parte del suo essere
sfugga alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, se lo spirito, immortale, vola alto nelle
vuote regioni dell' aria e sono veri gì' insegnamenti del vecchio di
Samo, 1' ombra di un Romano sarà costretta a vagare fra le ombre dei
Sarmati e sarà sempre un'estranea tra feroci anime di morti. Il passo è
importante, perchè mostra che, di fronte al pensiero della morte, il
poeta era in sostanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che
affermavano la immortalità dell'anima. oppure gli scritti di Nigidio, o
dei Sestii, od anche dei loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione. Sicché, qualunque si accetti delle
ipotesi messe innanzi, sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto
non sono moìto anteriori a lui. D'altra parte, anche tenendo
conto del fatto che Ovidio, più poeta che filosofo, non intese certo di
trattar l'argomento con rigore di metodo scientifico e filosofico, attenendosi
scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma che avrà usato di una
certa libertà e indipendenza, e che (pur valendosi, se si vuole di uno o
più modelli, oltre che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà
seguito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi della materia
dogmatica nella forma genuina soltanto nei limiti atti a recare efficacia
estetica all' opera sua e non poco forse aggiungendo, sopprimendo o
modificando di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mostrare,
per esempio, che certe intrusioni nel sistema pitagorico di principii
appartenenti ad altri sistemi come a quelli di Eraclito e di Empedocle non
sono affatto imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute
negli scrittori dai quali egli attinse. La sua esposi Si vedano in
proposito le opere seguenti: Hottingee, De Pythagora omdiano \ìn Opuseula
philologica, Leipzig); A. ScHMEKKL, De omdiana Pythagoreae doctrinae
adumhratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der mìttleren Stoa,
Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificate in parte le
conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye.Per Eraclito si veda C Pascal, La
dottrina pitagorica e la eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909
ripubblicato nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, 207;
e per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^ Firenze, Le
Mounier]. zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore
di documento storico, in quanto che, supplendo in parte alla deficienza
delle nostre cognizioni m proposito, dovuta alla perdita delle opere di
Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^ ci mostra molto approssimativamente in
che consistesse il neo-pitagorismo romano. L'esame che abbiamo così compiuto
della filosofia latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua
maggior fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pitaorismo e nelle varie età
di Roma abbastanza largamente conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica
sono alcune delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno
tramandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione e il Canto VI dell'
Eneide: sicché dobbiamo concludere che nelle idee che quel sistema svolse
era implicita una grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed
artistica. Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee
esercitarono notevole influsso nel sorgere delle più antiche
istituzioni romane, e che contro di esse mossero guerra invano
l'arte titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la
forza politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il sodalizio di
Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo tenere per certo che in
esse fosse insita una grande forza di resistenza e quella specie di malìa
fascinatrice che suscita le pili alte energie morali. Se le idee tanto piii
valgono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna e che le
trasforma in forze vive cioè operanti nella vita degli individui e dei
popoli, le concezioni pitagoriche, venute da sì lontane scaturigini e
assurte a così varie, molteplici, alte manifestazioni d'arte, di
pensiero, di moralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo
valore altissimo. Che se poi, uscendo fuori dai limiti del
nostro tema, pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono,
al loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicissitudini
del pensiero, ai loro successivo e alterno rinascere con sempre rinnovato
vigore nei momenti di più intensa attività spirituale nella Magna Grecia
con Pitagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi
neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Costantinopoli con
l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ultimo rinascimento con Giordano Bruno e
se riflettiamo che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico,
operanti con la forza della fede in milioni di coscienze, e che accennano
per diversi segni, in questa nuova primavera dell'idealismo, a risorgere anche
nel mondo occidentale, noi possiamo con sicurezza affermare che esse non
furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero individuale, ma
parole di quel linguaggio eterno che sgorga perenne dalle più profonde
radici dell'anima umana. Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico
libro di scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita
(Genova, Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale
del Mattino di Bologna. p: U P H O R B o s. Rivista Ligure di
Scienze, Lettere ed Arti Genova. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. Pitagora
rincaraazione di Eùphorbos. 3. Altre incarnazioni di Pitagora. Y'è
forse alcuno per il quale, meglio che per Eùphorbos figlio di Panto,
possa ripetersi il famoso verso dell'antico commediografo, che il Leopardi
tradusse muor giovane colui ch'ai cielo è caro
? Poiché veramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni
sotto le mura della sua Troja per mano del divino Menelao, dopo aver ferito,
primo fra i Trojani, il fortissimo Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura
non solo di una spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade,
ma di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato per
sempre al ricordo di un grande pensiero e di una più grande vita: al
pensiero e alla vi+a di Pitagora. Fusa nel vivo indistruttibile
metallo della poesia d' 0mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel
racconto dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione
guerresca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille, più grave è per i
Greci il pericolo nella memoranda giornata del combattimento presso alle
navi, Patroclo, indossate le armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni
alla battaglia, verso l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte
ad Ettore, che Apollo protegge: in tre assalti egli ha uccisi tre volte nove nemici, ma al quarto assalto un colpo
del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto cadere lo scudo,
slacciata la corazza: II. XVI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le
valide membra, fermossi e titubò. Di dietro allor con la punta de
l'asta infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un trojano, il
Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali con la lancia e sul
cocchio e al muover degli agili piedi, 810 ed anche allor, venuto
appena sul carro, sbalzati venti nemici avea, di guerra già prode
campione. Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ;
ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia, tratta fuor da
le carni la lancia di frassino; incontro Patroclo, ancor che ignudo, ei
già non attese a l'assalto. Patroclo
allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta, anco a 1' amiche schiere
traeva, fuggendo la morte. Ma com' Ettore vide dal ferro piagato
ritrarsi Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia,
820 presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse sotto
a r addome: fuori n' uscì da l'opposto la punta. Quei con fragor giù
cadde, e grave fu il lutto de' Danai. I versi 814-815 trovo segnati come spurii
nella quinta edizione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia, 1890),
sulla quale è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare ohe
sia proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi, così omerici
pur nell'apparente disordine dei particolari accennati: prima la pronta
ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle carni di Patroclo 1'
asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore innanzi a un pubblico di
ascoltatori), dopo accennato 1' ardito colpo del giovine, è quella del
suo rapido sottrarsi alla vendetta di Patroclo ; fermata questa, il poeta si
riprende p3r aggiungere ancora un particolare descrittivo (lo sforzo dello
strappare dalla ferita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte
a Patroclo, Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma
il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vittoria non è stata merito
suo, sì degli dei: che lo hanno ucciso la Moira e il figlio di
Latona e, degli uomini, Eùphorbos
; e predettagli la fine imminente per mano d'Achille, muore e rimane
supino in mezzo al campo di battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte,
che cerca di portare in salvo il cocchio d'Achille. A guardia
del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'Atride Menelao, armato di lucido
bronzo, tenendo davanti al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo
scudo, fermo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora Eùphorbos,
il cui intervento dà luogo ad uno dei piìi begli episodi della battaglia:
II. XVII, 9 Pronto di Panto il
figlio, esperto nel' asta, s'avvide ch'era atterrato Patroclo, e fattosi
subito innanzi che, pur ferito e spoglio della difesa delle
armi, era sempre un troppo temibile nemico, anche per un più esperto
guerriero che non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo
rappresentare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il
figlio di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con
Menelao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle parole del
testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo: Anzi
dal corpo ricovrando il ferro Si fuggi pauroso, e nella turba
Si confuse il fellon, che di Patroclo Benché piagato e già dell'armi
ignudo Non sostenne la vista. {IL) L'epiteto (eummelies) non é
certo ozioso: infatti già il poeta ha detto che Eùphorbos primeggiava fra
i coetanei con la lancia, e che con l'asta acuta ha ferito Patroclo, come con l'asta dà un
colpo J' ultimo !) nello scudo di Menelao. disse al figlio d'Atreo,
al prode guerrier Menelao: Menelao, divino germoglio, signor di gran
genti, vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento. Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì'
illustri alleati, 15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor
de la mischia: lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra'
Trojani, che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro. Bieco
d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo: Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza
vantarsi ! 20 Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o
leone di cignal feroce, a cui nel fiorissimo petto gonfiasi il cor
superbo, alter di sua grande possanza, qual de' figli di Pauto, esperti
ne l'asta, è la boria ! Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già
valse 25 di giovinezza il fiore, allor che sprezzante affrontommi e
disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero ! Or ei non più, te '1
dico, da' suoi propri piedi portato, ad allietar ritorna la cara consorte
e i parenti ! Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu
ardisci, 30 rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti
dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento. Disse così, ma quello ne pur gli die retta e
rispose: Or, Menelao divino, trar
dunque dovrò gran vendetta pel fratel eh' uccidesti e ancor tu me '1 dici
vantando 35 e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa, e i
genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti ! Oh ! che per me dei miseri
avrebbe il cordoglio una tregua, se la tua testa io stesso e l'armi
portandomi in Troja, fra le man lo gittassi a Panto e a la diva
Frontide! 40 Ma non più a lungo, ornai, s' indugi a far prova con
l'armi s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura. Detto così, die un colpo nel tondo perfetto
suo scudo, ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta
nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta Le armi di Patroclo,
sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo, giacevano in terra poco lungi
dal cadavere. l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre,
e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del collo; dentro
spinge con forza calcando la mano pesante, e dall'opposto n' esce pel
tenero collo la punta. Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor
risonare ; 50 s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le
Grazie, i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'
argento. Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre in
solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello, pien di
rigoglio, e poi, come l' agita il soffio 55 di tutti i venti, un
velo di candidi fior lo ricopre, (2; ma piombando improvviso un vento con
turbine grande dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo
abbatte; tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo
l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi, 60 Come allor eh' un
robusto leone cresciuto fra' monti * da pascolante gregge rapì la
giovenca più bella, Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e
non bionde^ come ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando
Pindaro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lunghi ricci
spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella letteratura dei Greci
(cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro, fr. XIII neìV Antol.
della melica greca di A. Taccone). Si veda in proposito quello -che
scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire a Micillo: questi, fra le
altre cose dice al suo gallo-Pitagora:
e mi sembra che Omero per
questo abbia detto le tue chiome si mili alle Grazie, perchè avvinte eran d'oro e d' argento: in trecciate
infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi dentemente, molto piiì
pregevoli e desiderabili. Accenna forse il poeta coi soffi di tutti i venti la stagione di primavera, quando fra il marzo
e 1' aprile le piante s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono
anche della loro fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio
alla prima fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo
turbine schianta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinetto
forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che già s'
intesseva intorno al suo capo. ] cui la cervice infranse tenendola
forte co' denti, poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande
frastuono 65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno
non regge il cor, che tutti li fa scolorir la paura; così Jiessun de'
Teucri ha l'alma nel petto sì ardita, eh' osi affrontar da presso la
forza del gran Menelao, E questi agevolmente porterebbe via le
splendide armi di Eùphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo,
il quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente, lo
consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli d'Achille e
ad accorrere invece là dove or Menelao frattanto, il figlio pugnace
d'Atreo, 89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani,
il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire. Ettore
infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede r uno che toglie le
magnifiche armi, 1' altro disteso in terra e il sangue che sgorga dalla
ferita, irrompe fulmineo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo
subito, non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il
corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare qualcuno in
soccorso. Così egli non ha potuto neppure portar via con sé sul suo
cocchio la preziosa armatura; della quale tuttavia dovette certo
impadronirsi più tardi, quando i Trojani sconfitti furono costretti a
rinchiudersi entro le mura. E non sarà stato quello il meno
glorioso trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene. Ma
Eùphorbos, morto di così bella morte e glorificato già dalla divina arte d'
Omero, non rinacque per avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad
opere non meno belle e gloriose? Poiché alcune antiche testimonianze
ci hanno tramandato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola
italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsicosi, nel tempio
di Hera Argiva, veduto uno scudo di
bronzo, disse che quello portava e gli era stat^ tolto da Menelao quando era Eùphorbos. E degli
Argivi, staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome d'Eùphorbos. Così afferma uno scoliaste
d'Omero (Il.) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricordano
accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto per citare i piìi
noti, quella famosa ode d'Archita, dove Orazio afferma appunto, non senza
una sottile ironia, che il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto,
sceso all'Orco un'altra volta,
sebbene, con lo scudo, che fece
staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja na, non avesse
concesso alla nera morte niente più che
i nervi e la pelle? Il buon
Orazio, tra scettico ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella
metempsicosi e si burlò un poco di
Pitagora redivivo! Anche OVIDIO (vedasi), che nell' ultimo canto delle
Metamorfosi fa esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò
esplicito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo: Ben io sì lo rammento nei dì della
guerra di Troja ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel
petto Orazio, Garm.: habentque Tartara Panthoiden iterum
Orco Demissum, quamvis clipeo Trojana refixo Tempora testatus, nihil
ultra Nervos atque cutem morti concesserat atrae. Id. Epod. VI, 21: nec te Pythagorae fallant arcana renati
] la grave lancia infissa, per man .del più giovine
Atride, Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne,
or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno. E ancora due secoli
dopo il filosofo neo-platonico Porfirio^ raccogliendo in una breve biografia
molte notizie intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi ricordava a molti di quelli che si recavano da lui la
precedente vita che 1' anima loro
aveva vissuto già un tempo pri ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé
stesso rivelò con prove
indubitabili d'essere stato Euphorbos
figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa gnandosi
mirabilmente con la lira, quelli di preferenza: 50 s' insaguinàr le
chiome, che simili aveva a le Grazie, i caj)elli ricciuti, eh' avvinti
eran d'oro e d'argento. Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre
in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello, pien di
rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio 55 di tutti i venti, un velo di
candidi fior lo ricopre, ma piombando improvviso un vento con
turbine grand® dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte
; tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo r Atride
Menelao uccise e spogliava de l'armi. Poiché quel che si racconta dello
scudo di questo Euphorbos frigio,
che si trovava in Micene, nel bottino Ovidio, Metamorph.: Ipse ego nam
memini Trojani tempore belli Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore
quondam Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae. Cognovi
clipeum, laevae gestamina nostrae, Nuper Abanteis tempio lunonis in
Argis, trojano dedicato a Giunone
Argiva, lo passo sotto si lenzio come cosa ben nota.La tradizione dunque era
assai diffusa Tra gli antichi. Ora quale ne sarà stata 1' origine?
Un'invenzione pura e semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso
dovremmo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace del Maestro,
il quale, per confermarne meglio la dottrina della metempsicosi, avesse
immaginato di sana pianta la storiella, cercando poi di accrescerle
autorità col farne autore lo stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata
da quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che il
filosofo, appassionato lettore d' Omero, recitava e cantava spesso i delicati e
soavi versi della morte d' Eùphorbos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare
molto più semplice e forse più ovvio senza andare vanamente fantasticando
in ipotesi credere senz'altro alla concorde testimonianza degli antichi.
Vi è forse nella cosa alcunché che trascenda i limiti della credibilità e della
verosimiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsicosi, e non era anzi
questo il pernio della sua psicologia e della sua morale, e convinzione
(non pura ipotesi speculativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei
suoi seguaci ? Dunque e ben possibile che egli, il quale aveva
virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meraviglioso, anzi il
miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante profonde e misteriose cose
aveva imparato nei suoi viaggi in Egitto e nell' Oriente, esercitando
quelle sue pratiche magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue
me PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano
nei Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a
Menippo, questi si rivolge subito a lui con le parole: Salve, o Eùphorbos.
ditazioni così intense, che erano
quasi astrazioni dal corpo ed estasi vere e proprie —, credesse di
leggere nel suo passato la storia della propria anima e ne desse
notizia ~ se non proprio alle turbe agi' iniziati della sua scuola,. agi'
intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei quali poi la cosa sarà stata
divulgata. Insomma per me r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo
spirito inventivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite
anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che credibile: lo zelo
dei seguaci avrà forse potuto aggiungere qualcosa, inventare qualche nuovo
particolare o magari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine
prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo stesso
Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e naturalmente anche credere
poiché non é ammissibile la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui
vita fu tutta un apostolato di verità e di bene di essere stato
Eùphorbos. Ma in tal modo si potrebbe osservare se noi
accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha tramandato,
che cioè Pitagora credette e diede a credere di essere stato il
giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di conseguenza che egli avrebbe
anche creduto nella realtà storica d' Eùphorbos, non già iato dalla
feconda fantasia d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per questo
? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo per non dire di quelli dei secoli posteriori
non credette nella realtà della guerra trojana, e dubitò della
esistenza di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di
Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e dell'
Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la quistione omerica erano nate
ancora, e Federico Augusto Wolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli
a nascere e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruosità
dei suoi Prolegomeni ad Omero ! Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche
altre incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Porfirio,
un poco più innanzi: Affermava di essere
già vis suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù phorbos, poi
Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1'
anima è immortale e riesce, in chi
sia purificato, a ricordarsi
dell'antica sua vita. Ma Diogene Laerzio ci ha conservato in
proposito una testimonianza che risalirebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di
Platone, Speusippo ed Aristotile) la quale differisce da quella di
Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda incarnazione, essendo stata
la prima quella di Etalide, ma anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza
incarnazione), anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che
sarebbe Veramente si é incominciato già da qualche tempo ~ anche in
Germania ad essere un po' meno radicali in fatto di negazioni. E a quel modo
che il Beloch, per esempio, ammise come possibile che fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle
diverse parti del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una
volta si mosse sulla terra in carne ed ossa, così il Drerup
{Ornerò^ Bergamo) afferma d'esser
disposto a vedere in Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse
anche in Priamo e in altre figure dell' epopea, reali persone storiche.
Gli rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della
spedizione contro Troja. l. e, 45. Della cosa discussero anche gli
scrittori cristiani, come Tertulliano (de anima), Lattanzio {Epit.
Instit. dio.), Sant'Agostino {Irinit.). inoltre stato appeso nel
tempio di Apollo a Branchidas, e non a Micene. Ma ecco senz' altro le
parole di Laerzio: Dice Eraclide
Pontico che egli (Pitagora) afPermava di
se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her raes. E che
Hermes gli disse di scegliere quel che
volesse, tranne F immortalità: onde egli chiese il dono di conservare da vìvo e da morto il ricordo
di tutti gli eventi. Che pertanto
in vita si ricordava di tutto, e
dopo che fu morto conservò egualmente la memoria. Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito
da Mete nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e
ricor dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute, e attraverso
quali piante ed animali fosse passata, e
che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte attenda le altre anime. E che quando Euphorbos
morì la sua anima passò in
Ermòtimo, che alla sua volta,
volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran chidas ed entrato
nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo
che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re stando solo la parte
esterna d'avorio. E che quan ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica
discendenza da Hermes, il dio dei misteri, vedere significata la
iniziazione di Pitagora alle dottrine ermetiche? Mi par probabile; se
pure non dobbiamo vedere in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva
di Pitagora un figlio d'Apollo, delle
espressioni del linguaggio mistico fraintese. Pausania,
nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion di Micene, dice ben
chiaro che nel pronao del tempio, a destra, dov' era la statua della dea,
vi era anche appeso in voto uno
scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio. (Descriptio
Graeciae). Ora, poiché sappiamo che Pausania descrive nell' opera sua
proprio quel che ha visto coi suoi occhi do Erraótimo morì, rinacque Pirro
pescatore di Delo ; e di nuovo si ricordava tutto: come fosse stato
prima Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si
ricorda va di tutto quel che s' è detto. Non solo, ma a sentir Gelilo
anzi i due filosofi Clearco e Dicearco vissuti fra il quarto e il terzo secolo
avanti Cristo avrebbero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre
tre volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come una
bella etera chiamata Alce. E così
r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto voltee avendo sperimentato, chiusa
nel carcere corporeo, le più varie condizioni d' esistenza, sarà essa dopo
aver compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino tornata a
dissolversi nel gran mare dell' anima universale ? o non avrà continuato ancora a vestirsi
d'umana carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano? (tanto che
una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta delle famose tombe
dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto quell'antichissimo logoro
avanzo, o una copia in bronzo fattane fare di poi, o addirittura un
qualunque scudo che i sacerdoti del tempio vi abbiano appeso in tempi
tardivi a ricordo e testimonianza dell'antica notissima tradizione?
Pausania in ogni modo visse nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo.
Diogene Laerzio,Gellio, Noctes Attieae: Pythagoram vero ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum
fuisse, dictitasse; ita haec
remotiora sunt bis, quae Glearchus et Dicaearchus memo riae tradiderunt, fuisse
eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam,
deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen
fuerat Alce. Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo
i principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De
republica secondo la quale chi aveva commesso ingiu Lungo sarebbe a dire
così parla il suo gallo fìlo sofo (Pitagora redivivo anche questo!) in qual
forma r anima mia venisse via da
Apollo volando, ed entrasse in
corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa. Mentre eh' io era Eùphorbos
combattei a Troja, e quivi ucciso
da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare in Pitagora ; ma fra 1' un tempo e V altro
non ebbi casa, aspettando che
Mnesarco mi apparecchiasse r abitazione.... Ma quando ti spogliasti di
Pitagora (domanda Micillo al suo
gallo) di che ti vestisti? Di
Aspasia, femmina di mondo, di Mileto E dopo Aspasia qual uomo o qual nuova donna
diventasti? Grate, cinico. figliuolo di Giove, qual differenza! Di femmina di mondo, filosofo ! Poi re, poi
un po verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc chio, e mille
altre cose che non finirei mai a dirle tutte. Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me
sopra le stizia verso un altro doveva subire dieci volte
quella medesima ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite
per scontare le colpe della prima bisognerebbe veramente ammettere (s'
in tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina)
almeno altre due vite. Per il luogo platonico e le relazioni che esso può
avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si veda ciò che ha
scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea del dicembre 1911
(ripubblicato in Credenze d'oltretomba^ II, pagina 199). Padre di
Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sulle altre note incarnazioni del
filosofo. Ma altrove {Vera Historia) egli dice:
In quel tempo appunto ci venne (nella città di Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di
Samo, che allora aveva finita la
settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il
lato destro. Fu de ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se
chia marlo Pitagora od Euforbo. altre amatissima) servendo ad altri molti,
a re, a pove relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa gnia,
facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que reli della tua povertà, e
piangi e ammiri i ricchi perchè
non sai i mali che comportano. E con l'amabile arguzia lucianea possiamo
ben chiudere questa singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto, il
quale fu veramente molto caro ai celesti. Luciano, Il Sogno o il Gallo
(secondo la traduzione di Gasparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo
dialogo. Il nostro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su
Eùphorbos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque
indice delle opere di Luciano. IL SODALIZIO PITAGORICO DI
CROTONE. Edito dalla ditta Zanichelli di Bologna. The Theosophieal Review
(Londra. Oggetto del presente studio. Origiiae o formazione del Sodalizio
pitagorico. 3. Carattere e scopi di esso. 4. Sua durata. 5. Suo ordinamento. 6,
Natura degl'insegnamenti che vi si impartivano.Una tradizione che fu
diffusa e concorde nelr antichità anche prima dell' apparizione del
neo-pitagorismo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato nelle
regioni d' Oriente in Fenicia, nella Babilonia, in Caldea, nella Persia,
nell' India e in particolare nell' Egitto e ^ver presa quivi conoscenza delle
dottrine segrete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio
nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse e nell'India Gotamo
Buddho venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della Magna
Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di ammiratori, istituì un
celebre Sodalizio. Di questo appunto intendo ora di esporre le origini, la
durata e la costituzione, valendomi delle notizie abbastanza
numerose e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea
esatta. Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G.
De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza). che ce ne
hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio, Porfirio, GiambJico,
Clemente Alessandrino, nonché, incidentalmente, gli scrittori classici
maggiori, delle quali poi si servirono, in misura piii o meno
larga, con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni della
filosofia greca in generale e del movimento pitagorico in particolare,
come il Krische (5), lo Chaignet, il Centofanti, lo Zeller, il Cognetti de
Martiis, lo Schuré ed altri. Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la
tradizione concorde narra che verso la LXIP Olimpiade o poco dopo
Pitagora, giunto a Crotone, forse accompagnato da numerosi discepoli che ve lo
seguirono da Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali
da conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in gran
numero ad ascoltare la sua parola ispirata, che Vitae et placìta clarorum
philosophorum 1. YIII e. I. De vita Pythagorae. De pythagorica
vita. Stromat. libri, passim. De soeietatis a Pythagora in urbe
Orotoniatarum conditae scopo politico commentano^ Gotting Les Qrands
Initiès, Paris. Ed. ital. (Bari, Laterza Variano dal 529 al 540 le date
proposte relativamente all' anno della sua partenza da Samo; la prima
data è ammessa dall' Ueberweg, Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy,
Orundr. d. gr. Liti. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto
all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che Pitagora vi si trovasse
già. GlAMBL. 29. (9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la
notizia da Nicomaco e Cfr. GlAMBL. l. e. 30. predicava verità non
mai udite prima d'allora in quella regione e da quegli uomini. Accolto
con molta deferenza tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica,
che allora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo suscitato dalla sua
predicazione, fu eretto dai suoi ammiratori un ampio edificio in marmo bianco homakoeion
od uditorio comune nel quale egli
potesse insegnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vivere sotto la
sua guida. La tradizione, quale la troviamo presso Giamblìco e presso
Porfirio, aggiunge altri particolari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe
parlato ai giovani che vi si trovavano suscitandone l' ammirazione,
del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori avrebbero
manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ; ed egli, venuto dinanzi
al Consiglio dei Mille, vi ottenne tale approvazione da essere invitato a
rendere pubblico il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero
prontamente, mossi dalla fama, subito dilBFusa per tutto il paese, della
grande austerità d' aspetto, della dolce soavità d'eloquio, della
profonda novità di ragionamenti del forestiero. Via via, la sua autorità crebbe
in modo che egli potè esercitare nella città una vera dittatura morale;
poi Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella che
al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana. V.
in Giamblìco un largo sunto di questo
discorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento essoterico di
Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo Zeller fra il
racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi pare sufficiente per
trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso riferito dal primo non può
essere stato preso da Dicearco, citato dal secondo ; ad ogni modo è fuori
di dubbio che Dicearco stesso lo conosceva, se potè dire che conteneva molte belle cose. si allargò, diffondendosi nei paesi vicini
della Magna Grecia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania,
ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle tribù italiche dei
Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed anche da Roma vennero a lui discepoli di ambo' i
sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco, Caronda,
Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro, sì che per merito suo si
sarebbero ristabiliti dovunque r ordine, la libertà, i costumi e le leggi.
In questo modo, dice il Lenormaiit,
egli potò giungere a realizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in
unione nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la
diffeirenza di razze degli Elleni italioti
; il che peraltro ò inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento
di Pitagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu politico
nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, aggiunge un altro scrittore, non fu
estranea all'accoglienza avuta dal filosofo ed al successo da lui
riportato, una persona con la quale egli doveva essersi trovato in
rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico erotonese Democede. Ma senza
dubbio, più che a conoscenze personali, l'approvazione ottenuta da
Pitagora in Crotone e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna
Grecia DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc. V. Seneca, 90, 6 che cita
Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf. 21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, ; Eliano,
Var. Hist. Ili, 17 ; Diod. . V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg, 54;
Giambl. 33, 50, 132, 214; CICERONE (vedasi), Tusc.; Diod, ìragm. 554;
Giustino XX, 4; Dione Crisost. or. 49, 249 ; Plut. c. princ. philos. Cognetti
De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì 465. furono piuttosto
l'effetto da un lato delle virtù intrinseche delle sue dottrine e del suo
insegnamento, e dall' altro della disposizione e attitudine di quelle genti a
intenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni moto idealistico
trovò sempre fra loro un generale e pronto assenso e un gran numero di seguaci,
sia nei tempi più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moderna. In
queste attitudini dei popoli del mezzogiorno sta la ragione del rapido
diffondersi delle dottrine pitagoriche, che furono accettate quasi
universalmente: tanto che molti, i migliori per intelligenza e per
elevatezza morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del
Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare più addentro
nella conoscenza del suo sistema filosofico, di cui intravvidero ed
intuirono la vastità e la comprensione, si ridussero a poco a poco a vivere con
lui, attirati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella spontanea
simpatia che hanno sempre esercitato sugli altri tutti i grandi apostoli dell'
umanità. Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi
aperto Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e
cavaliere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioacchino da
Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II). Del resto il
Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Meridionale, (di dove penetrò
in Roma con Ennio) e vi sorse a nuovo splendore nei sec. XYI e XVII con la
Scuola di Bernardino Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il
Campanella e il Bruno— Cfr. David Levi, Bruno Torino. Porfirio op. cit.^ 20
sgg., racconta che più di duemila cittadini con le mogli e i figli si
raccolsero nell' Homakoeion e vissero mettendo in comune i loro beni e
reggendosi con statuti dati loro dal filosofo, che veneravano come un
Dio. l'accesso a tutti i buoni uomini e donne : e alla sua
filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo ordinamento che aveva forse
visto attuato nelle scuole dell' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s' è
accennato, egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.
L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione, un'accademia
scientifica e una piccola città modello, sotto la direzione d' un grande
iniziato ; e per mezzo della teoria accompagnata dalla pratica, delle
sciq^ze unite alle arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza
delle scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intelletto con
l'universo, che i Pitagorici consideravano come l'arcano della filosofia
e della religione. La scuola pitagorica ha perciò un'importanza assai grande,
perchè fu il piti notevole tentativo d' iniziazione laica: sintesi
anticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il frutto
della scienza sull'albero della vita, e conobbe quindi quell'attuazione interna
e viva della verità che sola può dare la fede profonda; attuazione
efiìmera, ma d'importanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio. Secondo
che fu data maggiore importanza all'uno all'altro degli elementi
costitutivi della dottrina pitagorica alle forme e agli effetti esteriori di
essa, diverso Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile
uno studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era
impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni parallele,
adattate ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267, dà i nomi di
17, tutte chiarissime Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo. Vili, 41 sg. ; PoRF.
i9 sg. ecc. V. anche Schure. ScHURÈ . e il criterio che gli
studiosi portarono nel giudicare per quali intendimenti il filosofo
avesse voluto creare questo Sodalizio. Alcuni non ne videro
che l'intento politico; così, secondo il Krische, la società ebbe meramente lo scopo di
restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto degli ottimati
e, subordinati a questo, due altri scopi, uno morale e l'altro di
coltura: di rendere cioè i suoi membri buoni ed onesti, affinchè, se fossero
chiamati al reggimento della cosa pubblica, non abusassero del loro potere con
l'opprimere la plebe, e questa comprendendo che si provvedeva al suo
benessere, stesse contenta al suo stato ; e di far studiare la filosofia
a coloro che si accingessero al governo dello Stato, perchè non si
può aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia colto
ed erudito. Ora quanto sia incompiuta ed imperfetta questa opinione del Krische
apparirà dal seguito del nostro studio. Gli intenti del riformatore non
furono politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;
né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o alla Magna Grecia,
sibbene ^Wuomo in generale ; il contenuto politico che esso poteva avere era
quindi appena una parte, e neppure la principale, di un larghissimo
sistema scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile.
Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe l. e. p 101
Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc. etc. V. II, ]85 e quello
molto strano del Mommsen, St. di Roma antica^ Roma-Torino 1903, v. I, 124
sg.: Siffatte tendenze oligarchiche
informavano la lega solidaria degli
Amici (?), fregiata del nome di Pitagora ; essa
ingiungeva di venerare la classe
dominatrice come divina, di trattare come bestie quei della classe servile ecc. ! rebbe l' indirizzo fisico e
matematico della scienza pitagorica, e il fatto che le testimonianze piti
antiche intorno a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di
Stato, il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale. In realtà egli mirava ad elevare nello spirito
e nei costumi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e una
scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la più rigorosa
disciplina dell'animo e delle passioni. Con questo egli otteneva anche lo
scopo, eminentemente civile e umanitario, di migliorare via via sempre
più facilmente e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché
ogni discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola,
nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dottrina in quella
acquistata, diffondendola con la parola e con l'esempio tra i famigliari,
i parenti, gli amici. E in conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a
poco un mutamento anche nel governo della città, per il fatto che i
primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove dottrine essendo stati
probabilmente gli ottimati, questi direttamente, se ne facevano parte, o
indirettamente, se erano privati cittadini, dovettero portare nel
governo un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.
L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come osserva
ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto dell'indirizzo generale
della scuola che chiamava a sé i migliori ; e se la tradizione ci
rappresenta il Sodalizio come un' associazione politica, ciò è vero a patto che
non vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso, etico
e scientifico sia stato una conseguenza della posi V. Eraclito pr. Dioc.
Vili, 6; Erodoto IV, 95 Zeller, D. PhiL d, Oriech. zione che i
pitagorici presero nel campo politico ; perchè invece fu proprio il
contrario. Assai diversamente giudicò la natura della società pitagorica
Grote, che la disse di carattere religioso ed esclusivo, e ad un tempo
attivo e spadroneggiante, poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1'
ufficio di influire nel governo e sul governo, mentre i contemplativi
attendevano agli studi; proprio come nella organizzazione dei Gesuiti coi
quali, dice, i Pitagorici presentano una notevole somiglianza. Secondo
lui insomma i seguaci del filosofo non furono che un privato e scelto nucleo d'uomini, di
fratelli^ che abbracciarono le fantasie religiose del Maestro, il suo canone
etico, i suoi germi d' una idea scientifica e manifestarono la loro
adesione con particolari osservanze e riti. In tutto questo vi è
appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la mano
all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio in Pitagora, esso
costituiva anzi il pernio di tutto l' insegnamento esoterico, e il punto di
partenza della meravigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma
non si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazionali ch'egli
volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì bene di quella stessa
dottrina religiosa che in Egitto, in Oriente e in Grecia si insegnava nei
Misteri e nelle scuole filosofiche, unica nella sua sostanza benché
diversa nelle forme e nei simboli esteriori perché dovunque
derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica, fondata tuttavia
saldamente sopra una verace e controllabile esperienza. Il paragonare poi il
sodalizio stesso alla Hist. of. Oreeee^ T. IV, 544; cfr. Ritter, Oeseh. d,
Philos, I, 365 sgg. setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha
potuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spirito che informava
quell' antichissimo istituto ; è un giudicarlo dalle sole apparenze esteriori,
un disconoscerne gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno
svisare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apostoli che r
umanità abbia avuto. Più vicino al vero è il giudizio di Lenormant,
in quanto egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' intendimento morale
di Pitagora ; ma ancora più giusto e compiuto, perchè rispondente a tutti
i dati di fatto lasciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio
diede uno storico italiano, Centofanti, col definirlo una So ci età
modello, la quale, se intendeva a migliorare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad
occupare una parte nobilissima e meritata nel governo della
cosa pubblica, coltivava ancora le
scienze, aveva uno scopo morale e
religioso e promoveva ogni buona arte a per fezionamento del vivere secondo un'
idea tanto larga quanto è la
virtualità delV umana natura. Con lui si accordarono press' a poco
Chaignet e Zeller, per il quale la
scuola si distingueva da tutte le associazioni analoghe per il suo indirizzo morale poggiato su motivi religiosi or guidato da
sani metodi d'educazione e di istruzione scientifica. Duncker quindi scrisse
con molta verità che Pitagora fu non
solo il Maestro d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di
una Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Firenze, Le
Monnier), Opere Pythagore et la philos. pythag. I, 98. Die Philos. der
Orieehen nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi tore d' una
nuova fede. Soltanto tale novità, va intesa come relativa ai luoghi e ai
tempi ; poiché, come ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina
aveva origini assai remote. Se tale era dunque l' intento della
Società pitagorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande
di Samo pose quella di riformare interiormente gli uomini e con ciò di
modificare anche necessariamente le condizioni esterne della vita
individuale e sociale, se egli mirò a costituire una religione fondata
sul sentimento interiore e non sulle pratiche esterne del culto, alle
quali ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata conoscenza e
persuasione, e che perciò acquistano un valore di mera superstizione e di
vuoto formalismo dogmatico, era troppo naturale che la nuova istituzione
dovesse suscitare i timori degli elementi conservatori della società
crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli aristocratici ignoranti
che ne erano stati esclusi per deficienza intellettuale e morale, e dei
sacerdoti che vedevano allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi
sfuggire al loro dominio tanta parte la parte migliore della
gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero spargere, dovevano purtroppo
trovare, come sempre, facile credulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro
che dalle nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi
personali; tanto pili che come accade in ogni nuovo movimento d'idee che tocchi
e trasformi l'assetto politico e sociale, delle incertezze, degli errori, delle
de Qeseh. d, Alter. bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli
adepti e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre
partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove dottrine. Ma di
questo noTi è fatto ricordo da nessun autore. È fatto invoce espresso ricordo
di un tal Cilene, aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la
sua inettitudine non potè essere ammesso a far parte del Sodalizio
interno, e che pien d' ira e di
corruccio cominciò a brigare fra i
malcontenti, a spargere voci calunniose, a mettere in cattiva luce le cerimonie
e 1' azione segreta della Società, continuando la lotta con
quell'asprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gravemente offeso
e dalla certezza di essere spalleggiato da molti. Egli in questo modo,
favorito com' era anche dalla sua elevata condizione sociale e dalle idee
democratiche, allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe abilmente
trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano dei Mille una forte
opposizione, che, allargandosi e diffondendosi fra il popolo, facilmente ingannato
dalle apparenze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero,
dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro il filosofo ed i
suoi seguaci. Così che, se il moto fu effettivamente moto di popolo
contro il reggimento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla
parte meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale. Un decreto di proscrizione bandì senz' altro
Pitagora, die, dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a
Locri, fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo dopo ; ed una
fiera persecuzione fu iniziata contro i pitagoV. in proposito ciò che dice con
molta verità Centofanti rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando
e profughi nelle terre vicine. La durata del Sodalizio fu
dunque assai breve, di non pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia
dell' insegnamento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i secoli e la sua fiamma non si spense mai,
conservata religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione
in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sacro deposito ; cosicché il fondo delle dottrine esoteriche
si mantenne, e i tempi successivi in grande o in piccola parte poterono
conoscerle. Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti;
quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (discepoli genuini o
famigliari) e quella dei novizi o semplici uditori (acustici o
pitagoristi); ai primi, distinti alla loro volta in varie classi, forse
in corrispondenza coi diversi gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici,
matematici, sebastici) e discepoli diretti del Maestro, era fatto
l'insegnamento esoterico segreto; gli altri potevano assistere solo alle
leziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente morale, e AmsTOTiLE ci
fa sapere (Polii.) che \q sissitie italiche, anteriori a tutte le altre,
duravano tuttavia nel suo secolo; certo per la congiunzione loro coi
posteriori istituti pitagorici. V. CenTOFANTi, e cfr. Cognetti De Martiis Il
Pitagorismo appare nel mondo romano e noli' Italia medioevalo e moderna in
tutti i periodi di risorgimento filosofico. La repubblica utopistica di
Platone come quella del Campanella riproducono molto da vicino l' ideale di
vita che fu realmente praticato neir istituto Crotonese. ; V.
Clem. Stromat.; Ippol. Eefut. ;
PoRF. ; GiAMBL.; Gell. Cfr. anche
YilLOisoN, Anecd. II, 216. Secondo uno scrittore dal quale attinse non
erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come dice la tradizione, lo
sentivano, talvolta, parlare da dietro un velario che lo nascondeva ai loro
occhi. Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi d'iniziazione, ma
anche al noviziato, bisognava subire prove ed esami rigorosissimi,
poiché, diceva Pitagora, non ogni
legno era adatto per farne un Mercurio ; anzitutto, come ci narra Gelilo, un
esame fisionomico che attestasse della buona disposizione morale e
delle attitudini intellettuali del candidato ; se questo esame era
favorevole e se le informazioni procurate intorno alla moralità e vita
anteriore erano soddisfacenti, egli era ammesso senz'altro e gli era
prescritto un determinato periodo di silenzio (echemythia), che variava,
secondo gli individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non
gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri, senza mai
chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In questo come nel lungo
meditare e nella piìi rigorosa e severa disciplina delle passioni e dei
desideri praticata per mezzo di prove assai difficili, prese
dall'iniziazione egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui
erano Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in
Sebastici, politici, matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e
lo stesso scrittore aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano
chiamati pitagorici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici o
novizi pitagoristi. Dal che Roeth deduce che i membri della piccola
scuola pitagorica erano chiamati pitagorici e quelli della grande
pitagorei ; ed a ragione, purché non si identifichino questi ultimi con i
pitagoristi o discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh
iniziati di primo grado. Noci. Att. OmaiNE fa Pitagora inventore
della fisionomica. sottoposti gli acustici. Costoro appena
avevano imparato, col lungo tirocinio, le due cose piti difficili, cioè
l'ascoltare e il tacer e, erano ammessi fra i matematici e allora soltanto potevano parlare e
domandare, ed anche scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo
liberamente la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad
accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro sapienza si
faceva a grado a grado più elevata e più vasta, sino a giungere
all'intelligenza deìV Essere assoluto, immanente neil' universo e nell'
uomo: chi arrivava a questa che era la più alta cima della speculazione
filosofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento esoterico, otteneva
il titolo corrispondente a questa iniziazione epoptica, cioè il titolo di
perfetto (teleìos) e di ve nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per
eccellenza nomo. L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti
era quello del silenzio e della
segretezza verso gli altri, senza eccezione per parenti o per amici.
Tanto che persino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche
cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appartenere alla Società e
considerati come morti dagli altri confratelli, che innalzavano ad essi
nell' interno dell' isti (Ij Così chiamati dalle discipline che
professavano, cioè la geotnetria^ la gnomonica, la medicina^ la musica ed altre
d' ordine superiore, per mezzo delle quali si elevavano alle più sublimi
ed eccelse vette della scienza umana e divina. Sulla medicina v. ELiANO,
Var. Hist. Tauro pr. Gellio, L e; Diog., 10; Apul. Fior. II, 15; Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. ; Giamel.; cfr.
21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct. 3; Plut, De curios. 309. tuto
un cenoiafio. È rimasta famosa e proverbiale quindi la fermezza con la
quale i Pitagorici sapevano custodire il segreto su tutto ciò che riguardava la
scuola. Allo stesso modo era considerato
come morto chi, pur avendo dato buone speranze di sé e della sua
elevatezza spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto
che aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò bene
notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lunghezza del tempo di prova
che precedeva il passaggio da un grado a un altro aveva appunto lo scopo
di rendere impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le
delusioni. L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta
iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica. Molti anzi, o
per la loro condizione sociale o perchè non sapessero rinunziare
interamente al mondo o per altre A questo proposito sappiamo da Clemente
(^S^row.), che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa
appunto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro con
un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche Diogene
Laerzio (VITI, lo) e Giamblico, fu cacciato dalla Scuola. Cfr. Oeigune,
Cantra Celsurn Cantab,; GiAMBL. ; Th. Canterus, Var. Leet. V. Plut. Numa^
22; Aristocle p. Edseb. pr. ev.; PSEUDO Liside pr. GiAMBL. . e Diog. ;
Giambl. (ViLLOisoN, Aneed.); Porf. ; un
anonimo pr. Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. ,
l'affermazione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello
stesso scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. ) secondo il quale Myllia e
Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si tagliò la
lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ragione dell'astinenza
dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili) afferma che Empedocle e Platone furono
esclusi dall' insegnamento pitagorico, perchè accusati di
logoklopia. ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che naturalmente
informavano ai principii morali e alle conoscenze acquisite, diffondendo
così con la pratica e con la parola il bene a cui l'insegnamento appunto
mirava. Erano questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune
testimonianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre
nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre pratiche e
leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano sopratutto a far scomparire ogni
forma di egoismo e di orgoglio individuale, era praticata un'assoluta
comunione di beni. E non è poi così strano da doversene negare la
verità, che uomini dati a speculazioni filosofiche e religiose e a pratiche
morali, e che vivevano insieme' per uno scopo unico, mettessero in comune
i loro beni, per il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione
delle loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^
non legati più dai vincoli del mondo, da questa comunione di beni ? E quanto
agli esterni, non è naturale pensare che, per la virtù della fratellanza
e dell'amore acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse
spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me Secondo lo
Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr. Diog. X, Il e di TiMKO
di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche, secondo Fozio (Lex. y. v. Koinà)
introdurre da Pitagora la comunità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia
sono troppo recenti. Ma cfr. anche gli Schol. in Fiat. Phaedr. Bekk., e le testimonianze che troviamo
in Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol. Refut. I, 2 12; Porf. 20; Giamrl.
30, 72, ecc. Krische crede che fonte di
questa tradizione sia stata una falsa interpretazione della nota
massima le cose degli amici sono
comuni ; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi che non è neppur
corto che questa massima appartenesse in modo particolare ai pitagorici
(Aristot. FAh. Nic.). desimo a disposizione dei suoi confratelli ?.
Ed infatti noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni
di riconoscimento come il pentagono e lo
gnomone, incisi sulle loro tessere, e la forma caratteristica del saluto dei quali dovevano servirsi sia per
conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni sia per essere
accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di altre scuole consimili,
numerose così nella Magna Grecia come nella Grecia e
nell'Oriente. La vita che si conduceva nell' istituto da quei discepoli
che vi rimanevano in permanenza ci e sufficientemente nota per le narrazioni
dei neo-pitagorici e per le notizie sparse qua e là nelle opere dei più
antichi autori. Tutto era ordinato con norme precise che nessuno
trasgrediva mai; il che si intende facilmente, se si pensi che ognuna di esse
aveva la sua giustificazione razionale e che, salvo alcune rigorosamente
prescritte, erano V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. ; Diog. Vili,.
GiAMBL. ) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249
Dind. Krische l. e. 44. Luciano, De Salut. Per
questo, e forse per altre analogie (come quella delle adunanze notturne di cui
ci parla Diog.) si è paragonato da alcuno l' Istituto pitagorico con
altre società segrete dei nostri tempi. V. su questo proposito un cenno
fuggevole nel Dici, de biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, col.: Les
souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens ce lien
sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle société de
Roseeroix ou de Francs-ma^ons. PoBF. che cita Nicomaco e Diogene (autore d'
un libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256. date
più in forma di redola o di consiglio, che di vero e proprio comando. Di buon mattino, dopo Ja levata del
sole, i cenobiti si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e
silenziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno prima di avere ben
disposto il loro animo con la meditazione ed il raccoglimento. Poi si adunavano
nei templi in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare poiché ciascuno
era e maestro e discepolo e praticavano
continuamente particolari esercizi per acquistare la padronanza delle
passioni e il dominio dei sensi, sviluppando in modo speciale la volontà e la
memoria e le facoltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trattava
peraltro né di mortificazione della carne e rinunzia forzata ed obbligatoria ai
piaceri normali delia vita, ne di altre simili aberrazioni fratesche e
conventuali: Pitagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado di
assoggettare il corpo allo spirito, per modo che questo fosse libero nelle sue
operazioni e nel suo svolgimento interiore: ma il corpo doveva essere
mantenuto sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno strumento
perfetto quant' er: possibile: onde gli esercizi ginnastici d' ogni genere
fatti ali' aria aperta, e le prescrizioni minuziose intorno all' igiene e
specialmente ai cibi e alle bevande. In generale i pasti erano assai
parchi, Il rispetto alia libertà individuale era una delle
caratteristiche, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V.
su tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque
instisiuerit. Anche questa era una sapiente e razionale disposizione,
abituando i discepoli alla virtù attiva. ridotti al puro necessario,
eJiminaudo tutto ciò che potesse offuscare la serena funzione dello spirito ed
aggravare inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe
cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità ed animali,
raramente il pesce e pochissimo vino la sera durantB il secondo pasto, il
quale dove essere terminato prima del tramonto, ed è preceduto da passeggiate,
non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre, e dal bagno. Terminato il
pranzo, i commensali, riuniti intorno alle tavole in numero di dieci o
meno, si trattenevano a discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il
più anziano prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della buona
musica che disponeva gli animi alla gioia e ad una dolce armonia
interiore. Poiché la musica, onde tutte le parti del corpo sono composte
a costante unità di vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e
morale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfettaLa tradizione più
diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle carni, dal vino e dalle
fave. Pitagora forse era un puro vegetariano, come ci attestano Eunosso pr,
Porf. 7 ed Onesicreto pr. Strab. Gas. Ma non possiamo affermare che tale dieta
fosse assolutamente obbhgatoria per tutti: altrimenti non potremmo spiegarci
come mai alcune testimonianze parlino di certe qualità di carne
rigorosamente proibite. Probabilmente P astinenza dalle carni e dal vino (
quella delle fave pare fosse prescritta nel modo più formale e
categorico) fu un semplice uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di
manteaer sempre sveglio lo spirito e di rendere meno tirannico pur
conservandolo sano il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina
della trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto
; poiché essa ha un significato e un valore assai diverso da quello
normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della sua
derivazione dall' Egitto. mente disciplinata di ciascun pitagorico. Non
mancavano iiifìno, durante la giornata, alcune semplici cerimonie religiose,
piii precisamente simboliche, che servivano a mantenere sempre vivo e presente
in ognuno il culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e
a cui doveva tornare secondo la
dottrina mistica del Maestro il
principio animico e sostanziale di ciascun individuo umano. Altre
testimonianze ci parlano di astensione dalla caccia, dell'uso di vesti bianche)
e di capelli lunghi. Quanto slìV obblUjo
del celibato di cui parla Zeller, non solo non ò dato da alcuna
testimonianza, ma è contrario anzi a quelle molte che ci parlano di
Teano, moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto piìi
figli ed alle altre ove sono determinate le norme ri CentoFANTI) GiAMBL.
che desunse forse la notizia da Nicomaco cfr. RoHDE, Rh, Mas.).
Aristosseno, da cui è forse presa mediatamente la notizia contenuta nel §
lOO, non parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De
Magia; Filostb. Apollo??.. ; Elian(., V. (Iht. FlLOSTR. l. C. Egli
cita veramente Clem. Strom. IH, C. e Diog. Vili, ; ma nel primo di questi
luoghi è detto solo. che da alcuni si affermava i^he i Pitagorci si
tenevano lontani dall'amore carnale ; ciò che non significa punto che l'amore
stesso fosse loro proibito: anche qui probabilmente si trattava di una
semplice pratica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo
citato è detto semplicemente che Pitagora
non si seppe mai che si abbandonasse a pratiche sessuali. Ermesianatte pr. Ateneo , a; Diog. Vili, ; Porf. ; GiAMBL.; Clem. Paedag. Il, e. 0;
Strom.; Plut. Coniug. praec.; Stob. Eel. I, 302; Fiorii; Fiorii. Monac.
268-270 (Stob. Fior. ed. Mein.); Teodoreto, Semi. guardo al tempo
più opportuno per dedicarsi all'amore; e contrario poi ciò che è piìi
importante allo spirito della dottrina del filosofo, per il quale la
famiglia era sacra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta
precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto alle donne.
Anche il celibato insomma non dovette essere che una pratica dei piìi
ferventi discepoli, i quali, dediti interamente alle speculazioni
filosofiche ed agli studi, credettero forse di trovare nei vincoli di famiglia
un ostacolo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni. Queste,
in breve le notizie che ci restano della storia esterna dell' Istituto e
del suo ordinamento interno. Per quello che riguarda in particolare
l'insegnamento, abbiamo dunque veduto che esso era duplice e che per essere
ammessi a quello chiuso o segreto ènecessario aver dimostrato, con lunghi
anni di prova, di esserne degni e di avere tutte le attitudini necessarie a
riceverlo. Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto dell'
insegnamento esoterico o comune, privo di ogni simbolismo e alla portata di
tutti, di carattere essenzialmente morale. Abbiamo anche accennato che i
discepoli esoterici erano iniziati gradatamente a forme sempre piìi elevate di
conoscenze teoriche e pratiche, nascoste sotto il velo di particolari
formule simboliche, facili da ricordare e schematiche, le quali avevano
il vantaggio che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla
il loro senso riposto e metaforico. Con ciò si voleva eviDioG. vili,
9. L' Arte Mnemonica di Lullo, uno dei precursori di BRUNO (vedasi)
e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cortare il pericolo che conoscenze
d'ordine superiore fossero date in balia a menti inette a comprenderle, le
quali, appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,
limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza inadeguata e
così nascesse il discredito e il ridicolo sulle dottrine fondamentali e
su tutto l'insegnamento. Il criterio usato neir impartirle era dunque che non si dovesse dir tutto a tutti e tale criterio aristocratico nel senso
più ampio e più bello della parola del proporzionare le conoscenze alla
capacità individuale, non può certo reputarsi illogico o segno di vana
superbia e di orgoglio intellettuale: anzitutto ò accaduto in ogni
tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via perduto, col
troppo diffondersi, gran parte della loro perfezione primitiva ed abbiano
finito o con V andare soggette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti
od anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale, pur
conservando le manifestazioni esterne e i segni formali di esso ; in secondo
luogo non essendo mai chiesto all'individuo più di quello che le sue
facoltà naturali e le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo
svolgimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella progressione
che la natura pone nell' esplicarle e secondo i gradi della superiorità
loro nell' ordinata ed armonica conformazione della persona umana, non
veniva ad essere turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale
sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di ciascuno, e
ne nasceva per l’individuo stesso una pace indisturbata e una fiducia in
se medesimo, che non dava NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo
stesso carattere di una. simbolica universale, intelligibile ai soli
iniziaci. mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la
vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione sistematica e c(mtiuua,
e delle attitudini individuali facevano uno studio diligente, coscienzioso ed
incessante quelli che erano piti in alto nell' ascesa verso la
perfezione. Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri
uomini era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava sovrano tra
quelle anime, avide soltanto di ben© e desiderose di attuare quant' ò possibile
in questa vita quell'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la
perenne aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegnamento
invece era il principio autoritario che prevaleva ; principio razionale e
giusto quando corrisponda a una vera gradazione di merito e di valore
individuale, e per nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia
animato vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri, e
quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi si avvia per la
stiada del sapere e vuole arrivare all'acquisto di un qualsiasi sistema di
conoscenze ha sempre nozione imperfetta e inadeguata delle verità che
impara, finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine
necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non sono mai
sufficienti a costituire il sapere, se non vi si unisca l'esperienza
positiva della loro realtà. Ma poiché non tutte le nozioni, come si è già
detto, potevano essere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era
necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle loro ragioni
intrinseche ed ideali, non era possibile l'insegnamento di esse senza il
principio d'autorità. E d'altro lato, non potendo questa medesima autorità
essere tollerata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse
accompagnata anche la persuasione, nata dal riconoscimento sperimentale di
altre verità prima soltanto apprese, è giustissimo il priocipio di
coordinare l'insegnamento teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti
accettavano volentieri e senza discutere le dottrine che gli
iniziati superiori insegnavano in forma di precetti brevi, semplici,
facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'autorità suprema del
Maestro da cui derivavano, sia perchè gradatamente era anche insegnato a
ciascuno il metodo per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse
dixit era pertanto, come dice benissimo Centofanti, la parola
dell'autorità razionale verso la classe non ancora condizionata alla
visione delle verità più alte e non partecipante al sacramento della Società ,
mentre poi il vedere in ?>7/r> Pitagora vale appunto la meritata
iniziazione all'arcano della società e della scienza. Resterebbe ora da dire in
che cosa consisteva l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso
e prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò fra quelle
popolazioni, così piena di fascino da persuadere tante nobili intelligenze
ed ammaliare tanti cuori, e a quale spirito era informato un. sistema
educativo, che non solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto
potere da trasformarne la natura morale e tutta la costituzione psichica. Ma
poiché questa esposizione della dottrina pitagorica è già stata fatta da
molti), basti qui il dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero
reli[Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori di Centofanti e ScHURÈ;
per quanto a quost' ultimo manchi in parte il necessario corredo di prove
e di testimonianze. gioso che la tradizione leggendaria personificò in
Orfeo, coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e
compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimentale e accompagnata da un
ordinamento razionale di tutta la vita, mirava a perfezionare gli
individui, non solo con l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze
teoriche, ma anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado
la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo ottenuto con lunghe e
pazienti pratiche delle facoltà latenti del riposto ego divino, principio
sostanziale di ogni attività dell* uomo. Erano pratiche magiche che si
usavano del resto in tutte le scuole mistiche e che non eccedevano, se
non apparentemente e solo per i profani, i limiti della natura; e chi
abbia una conoscenza anche superficiale di questi studi sa bene che la magia
non era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed
esercizi particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste
pratiche V. Plut. Numa, Apul. De Magia; Porf.; GiAMBL., dove sì parla d’antichi
scrittori degni di fede. Cfr. anche Ippol. Refut., Euseb. pr. ev.;
Aristot. p. Eliano, ecc. Inizii leggendarii e storici. Quinto Ennio e i
suoi tempi. Sette e scuole pitagoriciie in Roma. Pitagora e le sue dottrine nei
filosofi latini. Lucrezio e il poema Della Natura. Frammenti della dottrina di
Pitagora desunti dalle opere di Varrone. Appio Claudio Pulcro. CICERONE e
il Somnium Scipionis. Mimi. Orazio.Virgilio. Pitagora e le sue dottrine
nella poesia di Ovidio. Eitphorhos. Il sodalizio pitagorico di Crotone
rigs pytagoreum pythagoreum Turis Turio fatto fatta persino e persino
permaneant permanont stituiti istituti Queste righe sono rimaste inter nel
testo, mentre andavano in i pie di pagina ist isti per fra intellegibili
intelligibili ultima Geory. Georg. ferun ferunt prae vista praevisa
aequo aeque ilUis illis maior maiore Mullach Mullach ultima
Leipzg Leipzig (Centra Centra a poco a poco a poco senza altro
senz'altro Gianola. La fortuna de Pitagora presso i Romani dalle origini
fino al tempo di Augusto. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora
– pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi –
Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica
pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica –
pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library.
Caporali ..
Luigi Speranza -- Grice e Cappelletti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’entellechia –
izzing and hazzing -- all’origine della filosofia antropologica – scuola di
Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia
anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of
‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but
vegetable implicatures are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features
large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life
(zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima – And then came
Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!” -- Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo. Dopo gli studi liceali classici, si laurea
prima in medicina poi in filosofia. Consegue la libera docenza in storia della
scienza che insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, all'Roma La Sapienza
dove consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina
all'Università Roma Tre fino a quando è andato in quiescenza. Collabora con
l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne vicedirettore
generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale. Questo periodo, vedrà
una progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale
dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché
l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali. Vicepresidente e
direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni
trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino
di cui C. sarà appunto collaboratore. Già condirettore della rivista di storia
della scienza Physis e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences,
dirige Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a
Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei
"Martedì Letterari". Presidente della Domus Galilaeana di Pisa e dell'Académie
Internationale d'Histoire des Sciences. Presidente della Società Italiana di
Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e dell'Istituto Accademico di
Roma. Inoltre, commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi
Germanici, quindi presidente, promuovendone il passaggio da istituzione culturale
a ente di ricerca. Presiede inoltre la Società Europea di Cultura,il Centro
Italiano di Sessuologia, la Fondazione Nazionale "C. Collodi", il
Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di
Roma), la Fondazione FUCI. Dottore honoris causa dell'El Salvador e di
Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di
Bucarest. Riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze umane.
Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito della medaglia Koiré
dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della
medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi
dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia della
scienza. La sua attività scientifica ha
riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche
nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare
la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le
altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la
filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere
di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Morgagni, Emil Du
Bois-Reymond, Virchow, Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito
gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e naturali, i
suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la sociologia
delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che
epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con
particolare riguardo alle scienze umane. Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del
mondo, Firenze, Tip. L'impronta,; Atomi e vita, Bologna, Cappelli; Entelechìa.
Saggi sulle dottrine biologiche; Firenze, G.C. Sansoni; Opere di Helmholtz,
Torino, POMBA; Virchow Vecchio e nuovo vitalismo, Roma-Bari, Editori Laterza; L'interpretazione
dei fenomeni della vita, Bologna, Società editrice il Mulino; Emil Du
Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura, Milano, Giangiacomo
Feltrinelli; Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza;
Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica, curati da C. e
Antiseri; Roma, Arti grafiche E. Cossidente; La scienza tra storia e società,
Roma, Edizioni Studium; Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a
Valerio Tonini, Roma, Casa Editrice Jouvence; Antropologia dei valori e critica
del marxismo, Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia; Alle origini della
"philosophia anthropologica", Napoli, Guida; De sedibus, et causis.
Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove
opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro; Le scienze umane nella cultura e
nella società odierne, Edizioni Studium; Etnia e Stato, localismo e
universalismo, Roma, Edizioni Studium; Introduzione a Freud, Roma, Laterza; Filosofia
come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con
Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, L'Università e la sua
riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium,. Natura e
pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,. Onorificenze
Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme
ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte, Roma; Notizie
bio-bibliografiche sull'autore si trovano in C., Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici,
Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino; Appendice; Cfr. C.
"Attualità della storiografia scientifica", in: La storiografia della scienza: metodi e
prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, Domus Galilaeana
(Pisa), CLUEB, Bologna. La maggior parte delle notizie biografiche qui
riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da Cimino per
l'Enciclopedia Italiana; Istituto Italiano di Studi germaniciHome page Società europea di Cultura; Cimino, C., Enciclopedia
Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
italiana di Vincenzo Cappelletti, su Catalogo Vegetti della letteratura
fantastica, Fantascienza Registrazioni
di Vincenzo Cappelletti, su RadioRadicale, Radio Radicale. C. La nascita della
Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio, documento video, Rai
Scuola. Filosofia Filosofo Storici della scienza italiani Roma Roma. Il termine entelechia
(entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare
la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se
stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di una
pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti
composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo»,
a significare una sorta di «finalità interiore». Aristotele parla di
entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere
come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non
da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel
cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare
se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto. È noto
infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente
spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa
Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine
Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione,
di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono
in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva
essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia
trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima
per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad
esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova
in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna
animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e
armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del
mondo. Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione
neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni
"centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la
propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma
tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia
prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di
tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di
loro. Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta,
cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera
tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta
alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il
termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per designare
la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e responsabile del loro
sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li consideravano alla
stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di qualcosa che ha la
«vita in potenza» (De Anima); Così Plotino in Enneadi; Goethe, La metamorfosi
delle piante; Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio
Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki; Dizionario di filosofia Treccani. Voci
correlate Aristotele Monade Entelechia, Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company.Filosofia Portale Filosofia: filosofia Categorie: AristoteleConcetti
filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da
Aristotele in contrapposto a potenza (δύναμις), per designare la realtà che ha
raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da Leibniz per
indicare la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo
sviluppo. Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per
definire il principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa
accezione il termine e. fu ripreso da Driesch, che nella sua dottrina
neovitalistica ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente
in sé l’idea della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente
sviluppato. Energeia and Entelecheia. Entelecheia possible to
transfer this meaning to the opposite extreme, so something can be “completely
ruined” or destroyed: “even death is by a transference of meaning called
an end, because both are extremes, and the end for the sake of which
something is is an extreme” (Met.). Thus, telos is not
determined by its being opposed to something. It is not logically or
ontologically dependent on its opposite. Rather, the opposite is borrows its
meaning from the telos. It is not defined as the end-point of a sequence. Rather,
the sequence is derived from it by positing an opposite. Aristotle argues for
the primacy of an ongoing condition of telos over telos as
endpoint in his discussion of happiness in a complete life (Eth. Nich.). The
primacy of the completion-related use of “telos” (fine, end) over its sequence-related
usage is reinforced by Aristotle’s use of telos to
mean source (archē). The completion-related use is evident in
the phrase, “hoi en telei,” which refers to a governor or magistrate. Telos thus
suggests “origin (archē)”, a source of action, events, or being that
directs or structures what arises from it. Aristotle argues for the
identification of telos with archē in Met. To be
a telos is primarily to be that for the sake of which, which is
different from (though not exclusive of) being an end-point of change
(Met.). When we speak of teleology, we may not necessarily mean
Aristotle’s concept of telos. We seem to mean the Scholastic idea of
teleology, that is, an assimilation of the Aristotelian idea to the historical
concept of divine providence (il fatum). It thus takes on the usage, for us, of
a kind of goal set for a creature in advance, external to it, and toward which
it is confined to strive. By contrast, at minimum, telos in Aristotle
means the inherent completeness or wholeness of a thing, a
completeness that may coincide with, and be the thing itself. “ Telos,”
for Aristotle, does not primarily mean “ended,” or “
finished .” It means “complete,” “fully there,”whole,”
“entire ;” and here it means “having its complete sense.” Its
finality is akin to what makes us say “at last,” as in “at last we
find water.” Echein. The word echein means “to have” or
“to hold on” to something. The “grip” of having, as it were, is “being in
charge of, keeping,” or even “holding in guard, keeping safe,” and in a related
sense, “holding fast, supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can
mean “to be able.” When a location is specified, it can mean “to dwell”
there. The relationship of telos to being is the reason the
word echei, “have,” is im portant to entelecheia. Aristotle
uses echein to say: “Those things are said to be complete [ teleia
] for which a good telos initiates activity from within
[ huparchei ], since it is by having the telos that they are
complete ” (Met.). A thing is complete (teleia) by having or holding
onto telos. “Having,” then, stands in for the term “initiate from within”
(huparchei ), a word often translated as “belong to” or “be present.”
Echein, then, is another way to express the inherence of the telos.
The most revelatory sense of echein for our current context,
perhaps, is that in ordinary Greek the verb can substitute for “be”: in
response to a greeting, kalōs echei means “it is well.”
29 Now3: Energeia and Entelecheia Energeia and Entelecheia in the Proof
of Change 10 “having,” “holding on,” and “sustaining” are ongoing
conditions or activities. Using echein as a synonym for being, then
suggests that being is not static or passive, but a continual
accomplishment. Based on these considerations, it seems clear that the
standard practice, which translates both energeia and
entelecheia with the word “actuality,” should be
abandoned. Energeia should be rendered “being-at-work” or
“activity,” but could also be translated “being insofar as it works.”
Entelecheia can only be rendered by a range of nearly-equivalent
renderings. “en-“ literally makes the word mean ‘being in the
telos,’ ‘telos’ is not conceived horizontally as “at the end of a
sequence” or “finished off,” but vertically, as fulfillment, completion, or
accomplishment, while echein means ongoing activity, but also is a
word for being. In general, entelecheia should be rendered
by “being-complete,” with the word “being” a translation of “having”
(echein), and understood as an ongoing accomplishment. Less versatile
translations are “staying-fulfilled,” “holding o nto completion,”
“holding itself in completion,” “holding its completion in itself,” “in active
completion,” and other such formulae. Energeia
and Entelecheia in the Proof of Change Now that we have
examined the words energeia and entelecheia themselves
in general, we need to see how they are used in Aristotle’s account of
change, and to resolve an apparent self -contradiction in the use of
being-complete (entelecheia) to define incomplete motion. I shall argue
that energeia applies to individuals,
while entelecheia applies to composites, a broader class of things
that includes individuals. In the proof for the existence of
change, energeia and entelecheia are used differently:
being- built (oikodomeitai) is the being-at-work (energeia) of what is
built (oikodomēton ), while building (oikodomēsis) is change (kinēsis) and the
being-in-completion (entelecheia) of what is built as built:
being-complete (entelecheia) change building being-at-work (
energeia ) of agent being-at-work ( energeia ) of what is worked-on
builder / agent ( oikodomikon ) buildable / patient ( oikodomēton ) requires
buildable requires builder Energeia as being-built ( oikodomeitai )
means theVincenzo Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia
antropologica, entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of
Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia
filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cappelletti” – The Swimming-Pool Library. Cappelletti.
Luigi Speranza -- Grice e Capra: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del del corpo animato –
delo l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic]
– scuola di Nicosia – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Nicosia). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Nicosia, Enna, Sicilia. Grice: “Plato,
who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught
Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the
body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at
them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the
conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most
general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he
philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley
of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to
self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary
Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s,
and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of
Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to
SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio –
un ginecologo. Tornato
a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In
seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni
D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla
battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego
Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste
e descrisse i risultati dei suoi
studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et
curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà
mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio
filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi
di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede
corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta
dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista
di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di C. non si conoscono
esattamente il luogo e la data precisa della morte. Uomini illustri della Sicilia. Dizionario
biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come
incerta. Ma ciò sia detro di passaggio; che noi non vogliamo, ne dobbiam
difendere l'Immortalità dell? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi,
l'immortalità dell'animo è vita futura? rispondiamo, esser futura la sanzione.
ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole
corporea Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità
del corpo, mostravano, che questa immortalità intendeano, come una permanenza eterna.
La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale
effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è
la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente
irretita la mitica. L'uomo adunque, come egli è creato in mezzo fra l’Angelo, e
la bestia, cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello
spirito, e in alcune cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della
carne insino, che la carne. Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae
et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum,
quando de Sede Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non
intelligere firum, qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco,
folisque competit corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus de
instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti
Bufalini, C., de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot.
adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. Panormi, apud J. F. De
Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum,
Lucretium et Pithagoricos quaesitum C., nicosioto, il quale inandava
fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta,
adversus Galenum, l'altro De Immortalitate A nimae rationalis, justa principia
Aristotelis, adversus Epicurum, LUCREZIO et Pythagoricos; C., nicosiensis, De
sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum.
Panormi in 4. De immortalitate animae rationalis, iuxta principia Aristotelis,
adversus Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche
relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal C. in
quel torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta,
adversum Galenum. Quaesitum (Panor.); De immortalitate. C., filosofo siciliano
originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario
della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a
Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato
l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e
psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di C., si vedano
PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae
et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al
viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, C. dà
ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese
della psicologia aristotelica. Per C. la quaestio de sede animae si presenta
immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima
come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e
corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un
principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis).
Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una
aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non
eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de
sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de
sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis
dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si
presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso
scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica
dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. C.
distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio)
dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si
modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece,
ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In
quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere
suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di
esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni
tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene
negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del
corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua
interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis
particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam
ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam
per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si
anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere
animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus
principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima
iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse
extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem
esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis
vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si
id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec
essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut
corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore:
et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse
animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta,
invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse
solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue
quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete
all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda
rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica
attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso
che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene
torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et
rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad
reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu
et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in
ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis
parte. Ma essi, secondo C., evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a
ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con
le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da
un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo
ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre
forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che
tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa
possiede un principio dal quale dipende. E per questo il LIZIO afferma che
l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale
da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme
inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali
forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci
del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima
sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa
in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal
cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più
sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo
delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le
specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende
dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal
cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in
toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod
quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum
principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures
potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem
et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia
Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem.
Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam,
et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et
divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus
spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem,
et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem
ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus
partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione
corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e
quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità,
mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa
in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede
dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al
corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere.
Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per
rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, C. fa
affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes
quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec
operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes
affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove
infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche
l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno
origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto
il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve
rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli
spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito,
giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato
né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni
anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono
sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il
cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono
avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si
deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun
singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id
quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus.
Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum
in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque
praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris
origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent:
non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae
singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo
dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue C., si riuscirà facilmente a
giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei
nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la
tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti
relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal
movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole,
affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da C.. Et cum cor primo
movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per
sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime
diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici,
quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id
conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel
ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur,
scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche,
esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso
insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già
visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo
Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di
calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle
proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle
dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gl’anatomisti inoltre
legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi
legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane,
che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in
primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente
incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono
anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti
spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il
cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia
formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa,
invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem.
Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui
vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis
referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim
nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite
saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito
corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur.
Non
tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune
communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e
quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale
si unisce (copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in
successione tutte le altre: secondo C., infatti, gli esperimenti di legamento
indicano che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti
prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa
strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può
sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno
all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis,
ma si ricollega di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e
Cremonini, in cui il primato del cuore non necessariamente implica una
svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del
cervello come sede del pensiero verrà in parte recuperata nella sezione
conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la concezione galenica relativa
alla localizzazione delle funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in
generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile --, sia nello specifico
-- la sede da cui si sviluppa la totalità delle funzioni organiche è il cuore,
non il cervello -- non può tuttavia negare che gli esperimenti galenici
dimostrano come il cervello debba essere considerato sede almeno di alcune
delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo caso, tuttavia, parlare
di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale, immateriale e ad essa
non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a favore della
localizzazione cerebrale esistono anche secondo C. e possono essere articolate
almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero richiede l’ausilio di
phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o fervor degli spiriti
nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel cervello; accade invece
che, se si è preoccupati o agitati – pur restando inalterata la fisiologia
cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della preoccupazione. De
sede animae et mentis (Palermo) negli accessi febbrili non si verificano danni
alla ragione, a meno che il calore non raggiunga la sede del capo (ovvero
l’interno di esso); le funzioni dell’intelletto subiscono mutamenti in
relazione alle lesioni del capo o alla corretta conformazione dello stesso. Per
le ragioni esposte, dunque, la soluzione fornita da C. è quella di postulare
una duplice unione tra anima e corpo; una secondo natura (coppulatio et sede
naturalis), la cui sede interessa il cuore in qualità di organo principale
dell’organismo; l’altra secondo la natura dell’operazione (“coppulatio et sede
operationis”), che avviene in un organo di per sé secondario come il cervello,
nel quale hanno sede tuttavia le operazioni della phantasia e dunque,
metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla soluzione della questione,
si deve considerare che chiunque dei Peripatetici ritenga l’anima soggetta
nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe
affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima sia il cuore. E perciò
Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì proprio questo. Coloro
che, al contrario, affermano che la mente è eterna, ritengono che essa si
unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una per natura, l’altra
per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello, dato che il cervello è
sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si addice una duplice
unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice modo, all’anima spetta
una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per natura la mente si
unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono portate a compimento
le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo senso saranno vere queste
conclusioni,vale a dire: conclusione.
Alla mente non spetta una sede. Questa conclusione risulta vera per la ragione
già esposta che la mente non dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede
un organo particolare. conclusione. Il cervello è sede della mente. Questa
conclusione risulta vera non in ragione della dipendenza, ma in ragione
dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate a termine le operazioni
dell’immaginazione, facoltà che è ministra dell’intelletto. conclusione. Il cuore
è sede della mente. Questa conclusion risulta verà in ragione dell’unione
dell’intelletto con noi stessi, che si chiama unione per natura. 4.
conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima. Sede cioè della facoltà
animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto operante e delle sue
operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli spiriti, dal momento che
essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro strumento comune. conclusione.
L’intera specie umana è sede della mente, in particolare, però, l’uomo in
quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è la facoltà immaginativa. conclusione.
Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente membro più importante del
cervello. conclusione. Il cervello è membro divinissimo in modo accidentale ed
estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è eterno ha necessità di unirsi a
ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede della mente, perché solamente in
lui troviamo il riposo ed il fine ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad
quaesiti dissolutionem considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam
omnem ortui atque interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander
innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt
esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per
naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in
cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem
asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei
sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam
iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum
erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Menti non convenit sedes. Haec vera
est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non
dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis.
Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro
perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est
ministra intellectus. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis
intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua
animae sedes. Sedes inquam virtutis. Cererbum est sede. Operantis animae, et
operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum
facultatum, eiusque commune instrumentum. Tota humana species est sedes mentis.
Proprie tamen homo sapiens. Imaginativa est sedes mentis. Cor essentialiter, et
intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Cerebrum
accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum
aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in
eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula
saeculorum. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni
storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di
averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza
averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede
animae et mentis” C. si assiste al tentativo di riportare il problema della
localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo
galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido
aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il
corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo
galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete
mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che
intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato
sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di
vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la
legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a
sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il
principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere
un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a
meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del
proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti
che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del
De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si
muove anche la critica antigalenica mossa da Telesio nel Quod animal universum.
Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se gno alcuni
fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza. Il primo di questi
riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele
compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio nali
che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con getturale in genere. Il
vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli
che aveva caratteriz zato per tutto il V secolo termini quali smefon,
tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra fia,
nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi genze di una
definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e
separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza, non ha che un
successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico
che Aristotele riesce a rendere rigoro se e rigide le distinzioni, proposte in
due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa
prosa del la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argomento
scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond, l'uso dei vari termini del
lessico semiotico gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie
gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia,
il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia
stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continua nella
trattati stica successiva, fin nella retorica romana. Del resto le esigenze di
distinzione teorica non si limiteranno a intervenire con un'operazione
normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni profonde
coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del
tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in
quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del
passato, del presente e del futuro e un elemento essenziale, sebbene secondo
modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende,
concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale
aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella “Retorica,”
Aristotele individua in primo luogo due categorie di destinatari dei discorsi:
colui che osserva (“theoros”) e colui che decide (“krits”). Il primo agisce
nella dimensione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al discorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agire nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passato. Il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro. Come osserva giustamente Lanza, la classificazione è totalmente
estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di
congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni
del tempo che fin dall'epoca d’Omero appaiono associate agli am biti di
manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro fatto importante inaugurato
dalla riflessione aristotelica è quello che riguarda la disarticolazione, e la
conseguente trattazione separata, della teoria del linguaggio e della teoria
del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché in alcune teorie semiologiche è assolutamente dato per
scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "segni". Anzi,
secondo un certo strutturalismo, questi termini del linguaggio sono i segni per
eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arrivati ali'eccesso di
pensare che essi potessero fornire il modello anche per gl’altri tipi di segno.
In Aristotele, invece, gl’elementi su cui si costruisce una teoria del
linguaggio ricevono il nome di “simbolo”, mentre gl’altri elementi di una
teoria del segno vengono denominati semeia o tekmiria. La teoria del segno
propriamente detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un interesse
sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema
delle modalità di acquisizione della conoscenza. Il “simbolo” linguistico è
connesso principalmente al problema dei rapporti che si instaurano tra una espressione
linguistica, una astrazione concettuali ed uno stato del mondo. È nel “De interpretatione”
che Aristotele espone la sua teo ria del *simbolo* linguistico, articolandola
secondo uno schema a tre termini. Un suono della voce e un "simbolo"
di una affezione dell'anima, la quale, a loro volta, e l’immagine di una cosa esterna.
Ordunque, i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle
affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le
lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso
modo, poi, che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni
sono i medesimi; tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi
tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono l’immagine (homoi 6mata) di una cosa (pragma), già identici per
tutti. (Arist., De int.) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare
il termine “semeion” come apparente sinonimo di “simbolo” non significa
affatto che le due espressioni sono intercambiabili. In questo passo Aristotele
usa il termine “semeion” in un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma
appunto la tendenza a un “uso sfumato” di una espressione del lessico
semiotico, quando non e in questione la costruzione del sistema di demarcazioni
teoriche. Qui Aristotele usa “semeion” per dire che l'esistenza di un suono (o
di una lettera) può essere considerata come un indizio dell’esistenza parallela
di una affezione dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando
il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo. Affezione
dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil). Penstero (nomat8) -- rapporto o
rappresentazione convenzionale o arbitrario – versus motivato o iconico
rapporto o rappresentazione ( sn ti
phntl (prSgmsta) suono della voce – cosa estrena. Come si può osservare,
diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade. Tra un
suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo c'è un rapporto o rappresentazione finalmente
immotivato e convenzionale o arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico,
secondo Aristotele, per tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera
diversa a seconda delle varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham),
esattamente come avviene per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la
cosa esterna c'è un rapporto o rappresentazione causale percettiva di
motivazione iconica, che appare addirittura iconico. Il primo e l’immagine del
secondo. Bisogna precisare che e scorretto identificare in maniera diretta la
tesi dell’arbietrarieta o convenzionalità degli elementi del linguaggio,
cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico
sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto
arbitrario tra due entità strettamente interne al linguaggio: il significante –
segnante -- e il significato – segnato -- sono le due facce del segno, in
quanto unità linguistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto convenzionale
tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che
propriamente non appartengono al linguaggio, in quanto sono entità *psichiche*
(l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre rilevare che
la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di
prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche
nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione
poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte
attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presenta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressione tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte diverse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione
(“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussure dà al termine
"significante" quando spiega la natura del segno linguistico.
Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti,
ma all’espressione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no ma
(nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione
– Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ragioni di
questa scelta si basano sul fatto che questi elementi, facenti parte del
programma di analisi di Aristotele, vengono definiti "simboli" delle
affezioni dell'anima nell’Analytica Priora. Ora è indubbio che Aristotele
intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea
molto chiaramente la veste fonica e il carattere di "significante".
Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristotele, almeno
nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sembra diversa da quella
saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e la
garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della realtà. Tale garanzia sembra
esserci quando si dia una reciprocabilità tra i due ambiti del linguaggio e
del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la simbolicità del linguaggio nei
confronti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per
un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del
triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De
interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore.
Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”, che Aristotele riprende da
una tradizione risalente fino a Democrito (D-K). Le ragioni che permettono la
specializzazione del termine “simbolo” per indicare una espressione linguistica
convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo” indica ciascuna delle
due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta -- in maniera intenzionale, affinché possano servire, in
un momento successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa
cosa (Belardi, Eco). Il fatto che le due metà riescano a combaciare
perfettamente viene a indicare la presenza di un rapporto precedentemente
istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la
cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola.
Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti
può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di
prova. Così dal momento che ciascuna parte presuppone – o implica, come per
consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corrispondenza,
“simbolo” viene ad acquisire il significato di "ciò che sta per
qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria
linguistica aristotelica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure
indica uno "stare per") induce a indagare su una
possibile specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca
so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione)
non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo,
senza che necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo,
invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un caso che symbolon
sia attestato per indicare "ricevuta", talvolta redatta in duplice
copia. Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto
etimologico è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa
dell'espressione sjmbolon nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un
simbolo di uno stato d'animo (percezione di una cosa come ‘shaggy’) in tanto
che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro
e una perfetta intercambiabilità, che garantisce la correttezza del nome
stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Belardi In quanto sjmbolon, il nome non è
più deoma ("rivela zione"), come lo era per Platone. In Aristotele il
nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phone semantika
katà suntheke) (De int.). Questo marca il passaggio da una linguistica che
conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che
non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per
Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano"
qualcosa di non percepibile (l'essenza del l'oggetto o la dunamis), per
Aristotele esse sono simboli che stabiliscono finalmente di modo convenzionale
o arbitrario una pura relazione di equivalenza tr tra i due correlati, senza
alcuna preoccupazio ne che l'un termine "riveli" l'altro. Del resto,
l'opposizione convenzionalel/naturale permette di distinguere anche tra il
linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali -- questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma
di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De
anima” si dice che un suono e definito una "voce" quando e emesso dalla
bocca (con lingua) di un essere animato (II.); ed e dotato di significato
(smantikos) (Il.). Ora, i suoni emessi dagli animali, per quanto definiti
ps6phoi (''rumori"), hanno tutta via le due precedenti caratteristiche.
Ciò che li distingue dalla voce emesse dagl’uomini sono due fattori. Non e una
voce convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma e
involuntario, meramente causato "per na tura" (De int.). E la voce e
agrammata, cioè "inarticolabili" o "non combinabili"
(Pot.). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue è al centro stesso del carattere di semanticità del
linguaggio umano. Una voce o suono semplice (adiafretos, "invisibile")
puo articolarsi per il primo grado in una unità più grande dotata di
significato. Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili (‘miao’
‘read chimp lit.’), ma non combinabile (Pot.). Si possono illustrare
riassuntivamente i caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai
suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano -
per convenzione - elemento indivisibile combinabile e elemento divisibile -
lettera - elemento dotato di significato - simbolo – nome – nome aggettivo
(shaggy) – suono e voce degli animali - per natura – causato fisicamente –
involuntario – istinto – risponsa allo stimolo --- elemento indivisibile non
combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non
simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni
emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivelano", De int.),
-- “manifestare” in Witters -- fatto che conferma l'idea che per Aristotele,
quando non sia in gioco la convenzione o finalmente l’aribitrario, come nel
caso del linguaggio o il suono o la voce di un animale non umano, torna di
nuovo in primo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono o la
voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma che rivela la loro causa fisica.
We must know the character, age, sect, nation, and
other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a
cer possessed their minds that they became mere automata in his hands, and
pour out words and thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of
a cistern, betrays profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was
entertained in former times, and is probably not extinct. It doubtless
originates in a vague notion, that the more entirely human agency is excluded
from the doctrine of inspiration, the higher honour was bestowed on the divine spirit.
And the etymology of the word “inspiration” has also its effect. It originally
and properly signifies, a breathing in, and suggests the dark and mysterious
conception of an effect produced on the thinking substance of a man, not unlike
the inflation of a bladder. But inspiration has nothing in common with its etymology.
Inspiration simply expresses the idea of super-natural assistance and guidance
in the communication to mankind of a truth previousl unknown. He who is honoured
“magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates” with it, is enabled to speak, act, and write,
as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him;
so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no
puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a
living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the
faculties with which he has been endowed by his creator: with perception,
memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater
violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his
ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our
business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between
agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined
for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not
explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from
each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence,
that their own spirits performed an important office in composition. In the author
of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified
monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom,
made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold,but
somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing
with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but
expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative,
tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah -
the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with
proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that
revelation consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus
in verbis scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We insult the Holy Ghost by supposing him unable
to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he
honoured with his influence that when he " When we read the Epistle
to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a
finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of
Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions,
bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear -
fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends
making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with
him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious
catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think
of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity
seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld
“the Lamb slain from the foundation of the world,” never lost froin his view
the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and
yet speaks in milder tones, though with made the prophet he was forced to
unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his
writings,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person
of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart
from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him
to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the
Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen
through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds
constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly
reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to
these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of
the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads
Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no
difference between them except in the length of the lines. It is important also
to note the different kinds of composition they employed. Some were poets,
and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must
not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the
Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or
the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican,
David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp.
Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The
accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the
letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors
intended to give simple and perspicuous narratives of events as they actually
occurred. The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them
away, by doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws
which are applied to other historical compositions. Yet it has been sanctioned
by great names, especially in Germany. Grave divines are found, who insist that
there is not one miracle in the gospels. The events which SEEM miraculous are
entirely natural, but exaggerated and embellished by the warm fancies of the
people among whom they occurred. Only strip, they say, the Evangelists of this
semi-poetic drapery, and the business of exposition will go on delightfully.
Moses fares, if possible, still worse. They turn him into an allegorist or reciter
of mythological fables. The first ten chapters of “Genesis” contain about as
large a body of real truth, as can pass with out inconvenience through the eye
of a needle being made up of old stories and scraps a — of song, which mean
nothing, or anything, that a lively fancy may suggest. i authors are conceited
sciolists, who, pranking Let not the Christian student take great pains to
refute this wretched infidelity, which does not openly avow itself infidel,
merely because its advocates earn their bread by a profession of Christianity; the
most of them being either professors of Christian theology or pastors of
Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum est. Such
interpretations do not deserve the name. They are feats of jugglery and
legerdemain; and their In expounding Scripture, let there be a constant
appeal to the tribunal of common sense. Language is not the invention of metaphysicians,
or convocations of the wise and learned. It is the common blessing of mankind, framed
for their mutual advantage in their intercourse with each other. Its laws therefore
are popular, not philosophical- being founded on the general laws of thought
which govern the whole mass of mind in the community. Now, however men may
differ from each other, themselves as the high-priests of philosophy,
prove by their irreverence for things sacred, that they have not reached the
portico of her temple. The true philosopher always trembles when he stands, or
even suspects that he stands, in the presence of God! He can not trifle with
such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the falsehood of
which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him of his last
stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello Capra.
Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita
dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in
philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism,
manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour –
body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una
materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di
aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo
dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave
naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse. life, soul – Aristotle on soul and life –
zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The
Swimming-Pool Library. Capra.
Luigi Speranza -- Grice e Capua: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia romana – scuola
d’Avellino – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Bagnoli
Irpino). Filosofo campanese. Filosofo italiano. Bagnoli Irpino, Avellino,
Campania. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago Laceno – he
founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!” Vestigia
lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!” -- Impegnato
nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi capiscuola come
Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, è a capo di un'accademia dal nome gl’investiganti.
Pubblica il "Parere", sostenendo le idee di chi oppone la ricerca
medica e scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in
Via Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse
facoltosa, non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi
oltre le basi grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da
giovanissimo, all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi
entrambi i genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua
educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola
dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano,
leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che
segnarono profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del
suo "Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle
mofete". Si laurea e fa ritorno a
Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed
anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il
supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo
pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni
di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore
di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria,
collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza.
I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli. Si
trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu
favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una
lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca
scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della
rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura
legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla
scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli
Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.
La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali
napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal
Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome
di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità
scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo
ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua
opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che
fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per
contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico.
Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un
illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della
seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute
galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano
al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel
periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta,
ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il
suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali
scienziati e filosofi italiani ed europei come Bacone, Cartesio, Harvey,
Hobbes, Gassendi, Samert, Hooke, Willis, Boyle. Tra Cornelio e C. sorse
una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non condividevano né
l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno.
Dello stesso pensiero era Borelli, medico fisico e matematico, ammiratore,
anche lui, del metodo di GALILEI. Infatti lo sperimentalismo galileiano,
basilare nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con
l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani. L'ambiente
culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio
dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle
novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. C., ancora prima della
fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a
contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente
alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del
Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto contrastante
alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta anni aveva
preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle attività
scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli: si passa
dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine e romane
a quella napoletana. Si forma quindi in questa “nuova” Napoli, sotto lo
stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante i loro
viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi e la
“Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere”
richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati,
intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il
metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a C. una
lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete",
in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad
effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia. L’ammirazione che
provava nei confronti del C. era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito
nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del circuito
napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò
vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con
maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza
della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei
Medicamenti”. Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto
alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva
soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità
intellettuali di VICO, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo.
Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di C., che affiorano
in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente in
tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità
scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano
e frequenta la casa C., che considerava il suo ideale maestro. C.,
Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre
illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano.
Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo,
dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle
teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie
rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di LUCREZIO:
"vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le
tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti
nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali. L'Accademia fu
chiusa per la peste. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da
una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese per
mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si riunivano
ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari argomenti, ma
anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della Royal Society di
Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi, le prime lezioni
furono tenute dal C. su argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero
come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche
esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove
certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli,
nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono
una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella
fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei
Discordanti", guidata dai famosi medici Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu
primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla
morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da
allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il
viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In
seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla
fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli
alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero
culturale a capo di C., tanto che, il viceré spagnolo Faiardo indisse un
congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò
che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu
così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in
otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il
conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo
del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Marino, ritenuto dai
suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara
nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica,
analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra
marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il
trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che
Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La
notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua
italiana ebbe una notevole presa su C. grazie anche alla sua predilezione
per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati “antiquari”
dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in quanto
purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca. Di
fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati
da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del
Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza
arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su VICO. Questo sottolinea il
suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato,
tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo
atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in
ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione
filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione
tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua
da lui scelta. La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il
martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune
commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari. Di questa produzione non abbiamo
testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I
sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione
petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo
dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire
che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime,
considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al
razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere
drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato
in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a
Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte
dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina
fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale, un
bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune
posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel
testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis,
che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di
Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di
coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo.
La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e
di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico
anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza
che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve
piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti
dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto
ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo",
il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore
della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al
"Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua
finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come
proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto
soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva.
Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel
"Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella
descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati
dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di
origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla
dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di
un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera
pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale
milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita
l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25
colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua
concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla
dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità
unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Rogatis,
Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine Jannaco
Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano, Piccin nuova
libraria, Padova); Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, POMBA,
Torino). “Parere di C. divisato in VIII ragionamenti, ne' quali partitamente
narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della
medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Amenta, Vita di C.,
Venezia). Niccolò Amenta, Vita di C. detto fra gli Arcadi Alcesto Cilleneo”
(Venezia). Badaloni, Introduzione a Vico, Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La
sorte di Vico e le polemiche scientifiche e letter.; R. Ospizio V. E.,
Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli,
D'Anna editore, Messina-Firenze); Maturi, Nicolini, La giovinezza di Vico; saggio
biografico, Napoli); Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite
nella città di Napoli, Bologna); Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo
agli ateisti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); Amedeo Quondam,
"Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle
"risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino" in Rivista
storica italiana, Napoli); Reppucci, Saggio monografico su C.,
scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di
Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico,
Autobiografia, a cura di Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano).Capua's “parere”
is just that: an opinion -- in response to a specific request by the Viceroy
and the Consiglio Collaterale put to a
group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. C.'s attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary
Aristotle-bashing. C. maintains a theoretical investment in the anima. This is
not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Capua's part.
Capua wishes to protect philosophy from a mechanical application of a logical
technique, and also from a premature, reductionist applications of the beast or
the machine metaphor. Aristotle offers a biological concept of the soul as the
first actuality of life, the principle of life. C., Il suo parere, divisato in otto
ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progretto della
filosofia, chiaramente l'incertezza della medesima si sta manifefta. Napoli, Bulison
Columa de Superiori. 1” All'illustrissimo, ed eccellentissimo signore LCTEA
CARRAFA, principe di Belvedere, marchese d'Anzi, &c. On avendo io cosa, eccellentissimo
signor mio, che m'abbia in più pregio di quel che so la padronanza vostra,
cerco per quanto posso di farla palese a ciascuno, sicome altri fa il possedimento
delle cose più care, e preziose, ch'egli s’abbia, o per sua industria, o per
fortuna acquistate. Ho pensato dunque, che a ciò fare io non potrei avere
migliore opportunità di questa che mi porge il presente saggio filosofico, che
per mia gran vençura essendomi capitato alle mani, ho preso a far istampa re,
s'io il mettesli fuori sotto il nome vostro, La scrittura veramente a giudicio
di voi medesimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale, che agevolmente posso da
lei promettertii il fine, che m'ho proposto; im perciocchè ben tosto n'andrà
ella per le mani delle persone di miglior giudicio nelle buone letiere, sì per
per ta cognizione, che s'ha dell'autore di lei, doa vunque ha di quelli, che se
ne dilectano, sì perch' ella il vale, per l'eloquenza, e doctrina, di che si ve
de ripiena: oltre all'autorità, e fama, che le si accrescerà dall'istesso nome
vostro ch'ella porta seco. Poichè possiam dire, che poche sono quelle parti
d'Europa, ove non s'abbia conrezza di voi, e delle vostre egregie qualità, o
per la fama, o per la presenza di voi; ma che quasi tuttele havete cerche colle
lunghe, e laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guisa, che da voi sono state
fatte, sidebbono riporre fra quegli studj, con che vi siete sempre ingegnato, e
v'è venuto fatto d'aprirvi la strada all’intera cognizione delle umane cose, e
d'accrescere con le doti dell'animo, e dell'ingegno lo splendore ch'avete
ereditato da'vostri maggiori. Oltre a ciò non doveva questa scrittura venirne
fuori sotto altro nome che'l vostro: mentre, e la stima, che voi fate
dell'autore di essa, e l'affezione, che gli portate, sicome fare ancora a
ogn'altro huomo letterato e l'antica dimestichezza, ch'egli ha con esso voi il
richiedeano. Ricevete dunque il presente dono, ch'io viso di questo saggio, o
per più vero dire, della picciola parte, ch'io ho in quello, per l'opera da me
polta in farlo stampare, con l'usata vostra umanità in segno dell'osservanza ch'io
viporto. E pre go Iddio, ch'avanzi in bene ogni vostro desiderio; e alla buona vostra
mercè umilmente mi raccomando. Di V. E, Umilissimo Servidore. Giacomo Raillar
D. Carlo Buragna; a'Lettori. E Gli sono già alcuni mesi pasati, che d'ordine
del Signor Vicerè fu tenuto consiglio da alcuni filosofi di metter qualche
compenso agl’abusi ed errori, che tutta via si commettono nella filosofia. E dopo
qualche ragionamenti intorno a cotal bisogna avuti, divisarono eglino, che per
potere con piis loro acconcio esaminar le ragioni, e i pareri proposti, e da
proporsi, ciascuno doveſſe mettere in iscritto il suo. Perchè convenne a C. che
e uno de’chiamati a questa adunanza scrivere il parer suo intorno a cotal
materia; e parendo a lui, che ciò non si potesse fare acconciamente, senza considerare
innanzi tratto, e riandar con diligenza la natura della cosa, che s'aveva a
trattare, cioè della filosofia. Sì il fa egli con tanta dottrina, eloquenza ed
erudizione, che, ejfendo il suo scritto venuto al le mani d'alcuni huomini
letterati, e altri amici di lui, par ve loro dettato più tosto per l'universalità
di coloro, che fi dilettano delle bettere piie esquisite, che per haversi egli
awe rimanere fra i termini d'una picciola, e privata compagnia. Comechè
l'autore di quello non s'avesse nello scrivere proposto altro fine, che di soddisfare
al carico da quella impostogli. Stimarono dunque coſtoro, che fosse una tale scrittura
dameia ter in luce per mezzo delle stampe: e tanto fecero, che alla per fine
persuaſero C. a farne loro copia, e a contentarſi, che si stampase almen queſta
delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non
pure ebbero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i
curioſi della lettura di queſto scritto, ma all'utile an che ne può riſultare a
ogni forte di perſone, e spezialmente agl’avveduti, e giudiciofi ragguardatori
delle cofe. Poichè, vedendo eglino la varietà delle opinioni, e delle Seite, e
le diverſe, eSpelle volte contrarie guise del filosofare, che fra i filosofi di
tempo in tempo fonvenute sì, anche ſenza entrar coʻfilosofanti in più sottili speculazioni,
potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D
1 grand 4 derë, o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè
dubbiosa e incerta ha in se dottrina, o principi, ſu i quali altri pola porre
alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di
coloro, che così fi danno ad intendere, espezialmente dove ne va la filosofia.
Oltre a questo, chi non vede di quanto frutto può rium scire queſto scritto a’
filosofi, che danno opera alla filosofia? mentre dalla fola lettura di lui
potranno efi per avventura apparar più di ciò, che alla cognizione della natura
di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più
riputati, e solenni maestri di quella: e accorger fi a un'ora qual via
nell'impreſa del filosofare ſi vuol tener da colui, che laſciate andarele
giunterie, e le ciance, intende Secondochè la condizined'untal mestiere
comporta, faronore a fe, e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi. Ne
meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere
apertamente quanti, e nella filosofia, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e
fono di quelli, che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o
norciès o pure non ſi ritro va; e, come dile il noſtro Alighieri, Trattando
l'ombre, come cosa falda. Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler
dimoſtrares chente, e quale, e quanto profittevole, e dotta fi fia queſta
ſcrittura, a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche
non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare, non per queſto
rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa, e all'opinione,
che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof. Sta ſano. EMINENTISSIMO
SIGNORE Antonio Bulifon espone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un saggio
da C. intitolato “Il mio parere intorno alle cose della filosofia”, per ciò
ſupplica V. Em.commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus,
et c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo
Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum, quod
R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat, et in ſcriptis referat eidem
Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs.
EMINENTISSIMO SIGNORE. O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si
gnor Lionardo di Capoa: intitolato Parere intor noalla medicina, ne vi ho
ritrovato coſa alcuna contraria alla dottrina della Fede, overo a' buoni
coſtumi. Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità, e per
ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita, e fruttuosa filosofia. HE
Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi. N
Eminentiſs. Dom. Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum,
quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris, imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN.
1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio
Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato
Parere del sig. Lionardo diCapoa, intorno alle coſe della medicina, perciò
ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, et c.
Magnificus Michael Biancardi videat, &inferiptis referai. CARRILLO REG.
CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680.
Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto
il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della
inedicina, e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie
giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita.
In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa
ſupraſcripta relatione, iinprimatur, et in publicatione fervetur Regia
Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA: 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa, o Signo
ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroso principe,
quanto l'adoperar sì col ſenno, e colla mano, che i popoli alla ſua cura
commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente
oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole, e generoſa il render
loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più
gravemente nuocer ſogliono,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella
carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e
compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli,
che rade volte,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no. E nel vero,
che monterebbe eglimai l'uſcir talvo, e ſicuro da' manifeſti riſchi della
guerra ad huom, che poi nella tranquillità della pace,in tanto più
acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe? Anzi queſti
di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi, e più dure, e
lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella
nave, che ſcampata da più alti mari, giunta poi in bocca del porto
miſerabilmente virompe. Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo,
e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè; il quale
auendo con maraviglioſa, e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto;
e reſi vani gl'in tendimenti, e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e
crudeli infeſtando i mari, e le terre, ad ogn'or di ſangue, e di fuoco ne
minacciavano; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de
gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno
malmenavano; ora con ogni ſtudio, e diligenza và riparando, che non ſia mo aman
ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della
filosofia. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia
infra’li miti mantenuta della ſperienza, e della noſtra comeche debil ragione,
eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune: così allo incontro
s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino, affai più delle malattie mede
fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano. Nè prima alla notizia
di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le
Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per
noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar
riparo: e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere, certe, ſicure,
e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo
quan te, e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare, tante fra me mcdeſimo
confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre
biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol
patiſca, du ro molto, e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la
appartenenti. Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare, tacendo di non darmene
briga, ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti
di colui, icui senni,non che le richicke debbo di preſente, ſenza replica
alcuna, e con ſomma venerazione ſeguire; da' quali ſol moſſo, ed anche dal giovamento,
ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di grado mi
vilaſcierò entrare. Ed acciocchè ogni diliberazione, o partito, ch'intorno a
ciò ſia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non rie ſca, tutte le forze
del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi; diviſando in prima le
malagevolezze, in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o Maeſtrati; ma FILOSOFI
ancora, comechè faggi, e intendentiſſimi in dare ſtabili, e certe leggi alla
Medicina; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura incerta, e dubbitoſa,
ed incoſtan te. Indi poi pian piano, e con diſcreto avviſo più adden tro
facendoci,ilmodo proporremo, col quale quanto law natura della coſa comporti,
un buon Medico, ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne altro provvediméto
intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole, ed a propoſito ſia per
riparare alle perpetue, e quaſi fatali calamità della filosofia. E per
cominciare dalle memorie più antiche, laſciando da parte ftare quanto poco
duraſſe in India, in Babilonia, edin Afiria quel lor diviſo di dover allogure
gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura ti da’
viandanti; nell'Egitto là, dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj nacquero in
prima, e fiorirono, ſolamente a’Rè, ed a' Sacerdoti, ed a pochi Baroni d'alto
affare ilmedicar gl'infermi era conceduto; onde da Manetone fra' Medici
d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima dinaſtia
de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia: e Tofortro Rè
della terza dinaſtia, la qual’era de'Menfitani. Ma poi tratto tratto cotal
meſtiere con tutti s'accomunò, eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero
de' Medici s'accrebbe, che ben per ciaſcun male era il particolar Medico
ſtabilito, che ad altro malo re non dovea por mano, come ne dà teftimonianza
Erodo. to della Greca Iſtoria padre, con queſte parole:; dè intpoxaj A κατα: 1
2 I Strab. lib. 3.8. 16. κατι δέ σφι
δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι
μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής, οι δε όδόντων, οι δε τών και
νηδήν, οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per
ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico: Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin
gombro,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo, altri i denti, altri le
parti del ventre, e altri i mali interni, e na Scofi. Rimaſa poi in man
ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri, quanto cadendo
dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed
ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento, che come dice
ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia,
allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire, ma
coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero. Perchè ſicome ſenza fallo è da
credere, fù a’Medici, come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il traviar
da’coman damenti degli antichi Maeſtri, a' quali ſe alcun contrave gnendo
interveniva, che piggiorato ne foſſe lo infermo, n'era perciò acerbamente
punito,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες
αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα,αθώοι παντός εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά
το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca
fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer
egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così agevolmente n'avrebbe
ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda autorità di tal legge oso
pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον, αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς,
ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα, και
ταλόγω. ciοε, πότερον αληθές εςιν, ή fèuda ö yayçá Daci, Io ciò offervo non
ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che
non così di leggieri foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe
laſciato ſcritto;maprima il vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla
ragione,ſe vero, o falfo fifia;ſe pure egli, che valente maeſtro di loica era,
per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi,
e tanto i lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati, finche paruti fof ſer
conformi a ciò che più gli era a grado. Coſtuina, che più di ogni altra han poi
ſeguita, e ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo, i quali in tal
guiſa i ſuoi detti sformano, ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta
di dir tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero. E forſe gli Egizziaci
medeſimi con iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte
operavano ſecondo il proverbio: fatta la legge, penſata lamalizia. E a tanto
giunſe per avventura la lor traſcutata arditezza, che ſo vente vegnendo toſto
alle purgagioni, e per lo più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata
la prima legge una nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri ARISTOTELE con
quette parole: Εν Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε
πρότερον επί τω αυτε" κινδύνω, eler lecito a' Medici muovere ſolamente
dopo il quarto giorno, che fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor
pericolo.La qual mellonaggines non ritrovò gran fatto, ch'io mi creda,
ricevitori, ſe mai avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir que’mali, a?
quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro giorno, e toſto che
ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel Medico, che
procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della propria vita, Eda tali
ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i quali come nell'arti,
c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra nazione ſi laſciarono
ſenza contraſto addietro: non mai dar vollono determinate leggi alla Medicina,
ed a que', che la eſercitavano; amando me glio, che ne'liniſtri avvenimenti de
gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna pena la ſola infa
mia portata: και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042
Tinio a'došíns, la quale a coloro, cui preme l'animo cu ra di vero onore, più
ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La qual coſtuma ſi vede
manifeſta da File, mone, ovc dice: Μόνω. 2 Ippocrate, Μόνω διατάω τούτο και
συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν, αποθνήσκαν δε μη. Cioè a dire, al Medico
ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man ſalva le genti. Piacque
ciò anche all'al to ingegno del divino PLATONE, laſciando egli così nella ſua
Republica ordinato: Aniuna pena fia,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo
da lui curato contro ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο
θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's tsw na odvopov. Dal cui divilo non
punto ſi di lungo LUCIANO, ove dice: L'arte della Medicina quanto di maggior
pregio è degna, e più dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri
debbono più godere di libertà'; e convene volcoſa è, che goda di
qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta, o foggiogata da potenza veruna una
dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna
alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa, e al timore, e alle pene acTribunali.
π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και
ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις, και πνα πονομείων έχειν την
τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως, αναγκάζεσθαι δε μηδεν, μήδε ποσάττεσθαι,
πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν
γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar dixæsnetw. E cõciofoſſecoſa, che frà
Greci gli Atenieli ſolamente vietaſſero alle donne, e a'ſervi lo ſtudio del la
medicina; non è però gran fatto da lodare, per non dir che molto da biaſimar
ſia un cotale ſtatuto; perciocchè,co me più avanti diraſli, lo intendimento di
valoroſe donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril
mente imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura
più volte animo, e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio: perchè a ragione
non guariappreſſo fù rivocato: rapportando Igino: Obſtetricibus neceffitatis,
honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab Atheniensibus con ceffus fuit. E
molto meno dovrem noi credere, che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco,
che tal potremoſenza fallo quella ſua legge chiamare, colla quale non altrimen
te, che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti
gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne aveffero da loro Medici la licenza
ottenuta. Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G-
ταθεραπεύ αντG,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από
o'Se triev. LA ROMANA REPUBLICA, che non pur nel governo militare, ma nel
politico ancora avanza di gran lunga le greche tutte, e le barbare nazioni, giudica
convenevol com fa il non commetter senza freno alla balia de Medici la cu sa
della vita de gl’uomini; e perciò prese per partito, che AQUILIO, tribuno della
plebe, non so se GALLO, o altro e' ſi fofíe,con un plebiscito, il qual fu poi
annoverato infra le leggi di Roma, qualche pena a'loro fallimenti iinponesse,
per la qual’accorti divenuti foſſero, e cauti nell'operare. Non per tanto dimeno
è da credere che legge tale, o plebiscito, che si fosse, non mai ſi metteſſe in
uso, ch'altrimen te avrebbe avuto il torto PLINIO di sclamare in sì fatta gui.
fa contra’Medici. Nulla præterea lex punit inscitiam capitalem, nullum exemplum
vindiétæ: indi soggiugnere: difcunt periculis nostris, experimenta per murtes
agunt: ed in fin conchiudere: Medicoque tantum hominem occidiſe summa impunitas
est. Ma vi ha di vantaggio secondo il me delimo Autore tranfit convitium, et intemperantia
culpa tur, ultroque qui periere argauntur. E perciò immagino, ch'in compilando
i Digesti per commandamento di Giusti niano a bello ſtudio traſandaffero que
celebri Legiſtila sentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo sopra la
legge Cornelia de Sicariis. S Si ex eo medicamine, quod ad salutem homini, vel
ad remedium datum erat homo perierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in
inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur. La quale a giudicio di
quella grand'animadella civil ragione Giacomo Cujacio, alla già detta legge
Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il medico sanandi, non
nocendi animo dedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta, e ne’Di
gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo di LA LEGGE AQUILIA, ma
ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano, Sicuti Medico imputari eventus mortalitatis
non debet, itad quod * Elannt. lib 2.9. cap.z. lib.recept. lent. 6 Cuias. in
Ang Corn de Sioar. tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo
pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium
eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo
cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo
lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero;
infra’quali il dottiſſimo Agnolo POLIZIANO in una ſua piſtola al Leoniceno così
ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem, quod in fegraſari tamdiu impune
tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat,
unde mors certifima proficifcatur,e'l Vives co sì grida: Errata illius (del
Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battista da
Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros,
homineſqueimpune necandi. E un satirico italiano scherzando col titolo del dottor
dice a queſto propoſito medeſimo del medico: Mapoichè un tal ci può donar la
morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l
noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo, hoc tamen ipfo -ſecuri, dice
parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem: immo
vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam
cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur. E un'altro Autore: Si
quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula
pænas? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante
diem ægrotos demittitis orco.? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum
Vna potens. Clades inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu, laudemque
parare. Ed avvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici,
perche non gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore,
nondimeno l'eſfemplo d'un tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna; e fu
queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo
ſecolo, ſicome anche Alessandro meritevolme te riportò titolo di crudele, per
haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia medico, per ſoſpetto, ch'egli
aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione.
Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario
Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i medici già alla morte dannati, perchèlui
aveſſer malamente cnrato, volentier permiſe, che liberaci foſſero da Democide
illuſtre Medico da Cotrone. Ma non però creda alcuno, aver I medici per
traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata; anzi egli è ſomma nc
ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi
affatto ſpenta, e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier della filosofia,
ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal
huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai
avrebbe vanamente logorato il tempo, e le fatiche dietro ad un'arte (ſe pur
arte poſſiamo chiamar la Medicina, non avendo quella niuna certa, e filla
regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a
conſeguire, e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè
qualmaggior noja, e ſpiaci mento, che quel di colui, che continuo ha da
bazzicar co? malati, e veder ſempre, et udire l'altrui miſerie ſenza aver
talora opportuno argomento da riſanarli? Ed è anche malagevole ad imprendere, e
incerta ſempre negli avve. nimenti: imperocchè nella cura delle malattie non
meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor
parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto
benigna coſtellazion nato. Ed o quanto aſſai ſoyente avviene, che contro ad
ogni avviſo umano, ficome ſcriſſe Celso, etiam Spes fruſtratur: et moritur
aliquis, de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed: Ippocrato medeſimo avvegnacchè
altiſſimoMedico, et avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a? !. 10 giudicato, purconfeffa se da tal meſtiere
ancor più di bia limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove
uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o
malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite
de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto avvengano, o da natura delmale, o
da altra interna cagione, in cuiſenno alcuno, ne umano provvedimento giammai
non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi
ſono,maſſimamente delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate; perchèdiceva
anche Celſo: Neque ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas
falutis,& mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e
talvolta anche di preſente, iveleni per ſubitana, o precipitazione, o
coagulazione; e può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Esculapio
medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori,
che quando egli men ſi crede ſian, valevoli ad irreparabil morte condurlo; e
ciò anche nel tempo ſteſſo, che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto
poi i rimedjmedeſimi, e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò
poſſono alcuni medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi
giudicano, tal curbamento dentro cagionare, che l'ammalato le new muoja avanti,
che noi col noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi: 8 Quæque
medendi caufa repertow ſunt (comene fà teſtimonianza Celso ) nonnunquam in
pejus aliquod convertuntur, neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta
varietate corporum poteft. Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta
piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai
coſa del mondo determinare. Ma su concedaſi, pure, che per legge ſia a' Medici
l'uſo del medicar preſcritto: come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la
travalicaſſero? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto, acciocchè poi
ſecondo il diritto delle leggi vi ſi procedefle? E chi baſte volmente non sa
quanto i Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6. IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro
ſentimenti? Perche oda paleſe nimiſtà, o dacoperta invidia, il che è peggio,
ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro parziali,
traſandata la verità delle coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro, che di
giuſtizia dovrebbero,e dannoli a divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo,
ſecondo il lor diſiderio; ſenza che il timor della pena, in cui potrebbe di
leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in
prender partito anche quando faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente operare; ed
egli timido, econ fuſo per non porre a riſchio la ſua perſona nelle piu gravi
malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non
partirſi dal comun ſentimento del vulgo, comechè falſo, e almal contrario,
talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe. Coſa, chepiù ch'altrui a'Medici
de Principi, come avvisò il Cardano, avvenir ſuole; i quali per tema non pur
dell'infamia, ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar grandi, e non uſati
medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier
della guerra,da quel della Medicina non guari in verità per l'incertezza
de'ſucceſſi lontano. Compativano anzi che nò I ROMANI Maestrati gli erroride'
Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò
L’IMPERIO DI ROMA, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi
conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario. E più vicin
deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno,
e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando ingiuſta mente per la
ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e
ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di
Vicenza, e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto.
E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle principali cagioni, onde i
Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben
potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia,
cometutt'altre leggi B 2 de' 12 1 ! DE’
ROMANI da noi teſtè rapportate, nõ già per li valétiMea dici oMetodici, o
Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi
Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo coloro di non ſolamente con nome
di Medico i volgari Empiricichiamare, ma quegli ancora, che di caſtrare i
fanciullieran uſi;come agevolmente ſi può ne'Digeſti, e nel Codice così di
Teodofio, come diGiuſti niano comprendere. E certamente in coſtoro ſolamente da
credere, ch'aveſſe luogo l'ignoranza dell'arte; per cagion della quale furono
IN ROMA contro a' Medici ordinate le leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben
ne do vrebbe eſſere acerbamente punita: intramettendoſi teme rariamente in
meſtier di tanta conſiderazione, quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca
rimedi di riſchio sù la vi ta de gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai,
ch'in mol te parti dell'Europa, venga loro ſotto graviſſime pene if medicare
interdetto; avvegnacchè poi cotali divieti poco, o nulla fian melli in uſo. E
ben d'eſſo loro a gran ragione dice Anneo de Roberti ciocchè degli Strolaghi
diſſe in pri ma TACITO: Genus hominum potentibus infidum, Sperantibus fallax:
quod in civitate noſtra vetabitur femper; et retine bitur: Se non ſe troppo
fcarſo èil paragon del Roberti; che i cattivelli degli Strolaghi altro no
fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro
di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti, e con lor
ciarle, o rattengono gli ammalati, che non prédano rimedj da'buoni
Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor nocevolifumi medicamenti eglino
medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per avventura furon prima digradati, c poi
nella perſona condenvati que' viliſimi paltonieri nel reame di Francia, ch’in
vece diguarireil Rè Carlo VI, preſſo a morte coʻlor medicamenti, e quaſi a
perduta ſpe ranza ilcondufſero. Ma egli fu per mio avviſo poco ſag. gio,
cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano di giuntatori, e pancaccieri la
propia vita; e ben come da pri ma li s’offerſero di voler riparare a'ſuoi
malori, così do 1 veali toſto e ſenza niuna pruova fare, o aſpettar di lor pro
meſſe:del temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza,
edaſtio de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli,
Ma come potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi
Popoli, o i Maeſtrati, i quali po co, o nulla per la più parte di quella
s'intendevano; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per
venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella
ſentivano? Inventore per quel che fi creda, o almeno antichiſſiino ſcrittore fu
della medicina Eſculapio, e come ne da teſtimonianza Ippocrate, o chiunque
altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio
del medicare egli preſcriffe: ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj
ſaviſſimamente diſ fenne; quròs, dice e' parlando d’Eſculapio, è moois
deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano
lirico, che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento colui, che dietro lo
ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene
cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le
cagioni. La medicina tanto, e tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di
maggioranza co’più illuſtri, e più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua
giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra:
pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta,
come avviſa per tacer d'altri l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év
GOTÁVOLS ñ; e'l nostro Seneca: Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum;
anzi in quel dolce, e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte
Del pargoletto Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi
medicavano, 9 E pur viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando
l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir, 3. Non
davan l'erbe, ne'lfapere ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina,
come avviſa altresì Seneca: Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, et facili
cibo,nec per artem, voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di
quaggiù è dato, eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la
medicina trarre l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro,
o dal caſo, o da bruti animali, o dalla propia induſtria venian manifeſti. 10
Perchè ragionevolmente credeſi, che Age nore, e Chirone tenuti per alcuni ipiù
antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli
Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα
μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone
ritrovatore del Panace Chironio: πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι
κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο
δείρη narra 11 Euſtazio, ch'eſſendo egli nella mano ferito, oco me vuole PLINIO,
nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην
χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio,ilquale
inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε
φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che
medicaſſero altresì non con altro, che colle fole piante Ercole, onde traſſe il
nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e APOLLO, e Arabo, e Cadmo, e BACCO
per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in
pregio il vino, medicamen to poderoſo, e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo
la gran virtù dell'edera, la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni, che
provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato, ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον
οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το
τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και
τεφανά. σθαι διδάξαι τα βακχένοντας, ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο, τα κιλά κα
ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10
Trif.appo Plur. u lib.i'lliad. Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe
dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio, col
quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και
πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν
αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e
che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi
anche adoperare. δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της
θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo, il quale come ſi
legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè
de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained,
cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay, e Podalirio, e Macaone non
d'altro, che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca, e prima della guerra
Trojana Medea, come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone, di
Laerte, d’Atalanta, e di Tefpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και
τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν
ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou. E Trifone appo Plutarco in
nalza, e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß.
Quindi provati più volte, e riprovati poi i lor medicamenti, dieder la prima
bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio: Per varios caſus artem
experientia fecit Exemplo monftrante viam. Macome pochi, e ſemplici erano in
prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole
della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la
ſperiêza,abbiſognò,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler
faccia,cam biandoſi tuttavia, è migliorandofi i primi medicamenti. Così
cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza. Ma
non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette, che tratto tratto
non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da
ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me? dicamenti tratti vi
cifoſſero; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero
poi a tale,che bia ſimando, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità
del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina; comeche
Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore, ed egli ſembri per quelche
ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi
debba attribuire: onuéte? Quiséger G Astana's (ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω
πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην. ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το
θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών
προς πλησμο νην και κένωσιν, και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και
αίρον έρω το, 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το '
ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι: και οίς μη ένεστιν έρως δει
δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι, και εν όντα εξελεϊν, αγαθός αν είη
δημιουργός: δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι, φίλα οΐόντ είναι ποιείν, και
έραν αλήλων, έξι δε έχθισα, τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί, ξηρονυγρό
πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν. Ma non per tanto
non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze: e
come varj erano, e diſcordanti quei, chela cſercitayano, così varia ella ne
divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con
iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta; intanto che
da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe, come Celso avviſa, parte di
quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella
fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico. Or coſtui come rio
traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginnasio dell’ACCADEMIA, di
cui egli era Maestro, cpriino ministro, cagionevole divenuto della perſona, per
lo biſogno, che gliene faceva, a coltivarla medicina con tutto l'aniino, e
conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnastica congiugnendo, e prescrivendole
alquante regole da lui per via della ragione, e della sperienza daprima
ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle
incominciaſſe. E allora venne ella pian piano a perderdella FILOSOFIA l'an tica
uſata dimeſtichezza: comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per
opera d'Ippocrate primieramente avvenuto. E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il
reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare, ed Eurifonte, e altri il coſtume
di trattar ſeparatamente dalla FILOSOFIA le coſe alla medicina appartenenti
apprelo aveſſero. Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran
giovamen to alla medicina; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà
comprendere per colui, ch'alla verità delle core voglia ben profondamente
guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè
quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina, e
quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando, per poco di
razional non le rimare, altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol
coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava
no: e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti.
E Galieno pure osò dir d'Ippocrate, aver lui certamente gran ſenno fatto in non
inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone, inveſtigar la
natura, e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi,
ondegiudicano ciaſcuna coſa, ela malli... turta del mondo cſſer compoſta, e
ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente, e non già a'Medici
appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente, compiuto,toſto che a
ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento, o dalla meſcolanza del
caldo, e del freddo, e dell'umido, e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre
curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa
più offendevole, c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici, che
razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando,
più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina
rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per
vaghezza ſolaméte della verità con C trila traſtar ſolevano, allora affondati
tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire,
e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i
primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio
della medicina, era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de
Medici tenu to, rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone, e mil lantatore;
e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli
dall'altrui urmanità, e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise
gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria
ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio,e gloria formontar ne
doveſſe incominciò lo ſcaltcrito,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da
Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello,aprēdo la
ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio
anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe, è di poca fermezza in
mcdicando;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua
ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro, ficome
narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo
rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermo Principe
vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente
eglimeri tóne poi cffer fulmimato,ed arſo da Giove;e laſcionne a'pe fteri un
così ſeoncio, e così abbominevole eſemplo. E ol tre a ciò dicono,ch'egli in far
l'indovino, el malioſo, ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo
digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria
per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille
modi, e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre, che
anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il
titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe. Ma per recarvi le
molte parole in una, e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la
Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa: 19 la di medicina s'intendeſſe: e molto meno
ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio; perciocchè sfidandoſi colui di poter
nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di
Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio, e
tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo, che per guarire un menomo dolor
di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine
con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva
forza no'l cavava, fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito? E'l ſuo
gran Maestro Chirone non che altri, ma ſe medeſimo cu far non valſe, allor che
a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita, e
dell'immortalità 2 Prometeo, e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio.
13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere, re vere foſſero quelle tanto
maraviglioſo, e tanto impareg giabili pruove, che di lor falfamente la
menzoniera anti chità và millantando. Così per avventura gli aftioſi con
tradittori di que'primi maeſtri favellano: c Io ancora a vo lerne dire al
preſente ciò, che me ne paia, non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer
que’ primi ritrovatori della medicina appo' Greci poco in quella cercamente pro
firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora, quando colletà in cia lcuno ſtudio,
carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì
d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome, e pregio per
tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza
rimanerci; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente
mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della
medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici;
perciocchè ogni lor grave fallimento, ed errore in medicando, eſſendo, come
diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra; e allo incontro
appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro
riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro. agevolmente
acquiſtar loda, e pregio immortale. Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive
perſone certamente ciò avviene; le quali ſicome aſute, e malizioſe ſi van
procac ciando per tutto favorevoli, e parteggianti; e dalla vera
fapienzalontane non laſciano qualunque froda, 0 giunte ria, onde preſſo la
minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da
giudicare eſſere ftati coſtoro, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta
tori, e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran
dovizia potrei ritrarre dalle anti che, e dalle moderne memorie; ſolamente non
laſcerò di rapportarc,effer'antica fama,che Acrone di GIRGENTI avesse una volta
damortifera peſtilenza liberata la Città d'Atene colle grandi luminarie, e
fuochi, cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa, non che
da altro,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto
ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate. E Toſſare
ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini;
perciocchè, come narra LUCIANO, in tempo che Atene era più che mai dalla
fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata, e ſgombra, diceſi eſſer
apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago,e averle
ſicuramente det to, che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di
preſente farebbcſi attutata la peltilenza; e ciò facendo co loro, dilubito,
conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti, δπι της ελάδα κατά
τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ
λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον (8 ' γαρ
ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io
amereil'uſato ſuo avvedimento in LUCIANO, il quale ſcioccamente ſe'l crede, e
va fantaſticando, ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino, i quali
trameſtati all'aria Paveſſero purgata, e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi,
che l'infcrtavano.Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo
lungo ſterminio,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male; perchè
dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e
poco giovevoli ar gomenti, e non più toſto per isfogamento, c periſtracce del
malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti
giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per
procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto
conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro, che alla
natura del male attribuita. Artificio,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici
ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có
quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar
déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che
diceÆfculapius: primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per
lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante, e si diverſe
guiſe nar rate, ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da
dire del tutto favoloſe, wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή
ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω
ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio
alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti
alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli
Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti
per iſdegno di Giunone impazzati. E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto
ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil
ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto, e riſuſcitato Ippolito
ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri.Ma Filarco rapporta tutto il ſuo
buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto
dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra '
Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν
Εριφύλη ειπων, όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά. ΠολύανθG-δε ο
Κυρηναίς, εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα
χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο.Παρράσιο- δε, δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα ·
τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων, όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO
EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις
παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες. ΦύλαρχG- δε, εν τη
εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή
Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως. Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα
επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente,
e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero? Egli volle (liçome
narra Cclio Rodigino, c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar
fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le
cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente
oxaloDeéy @ ne fu chiama to, e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no
ftro Azzio Sincero. Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto
giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i
ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre
fraſche,e giunte rie, ch'egliuſava; ficcando carote alla ſciocca gentane, c
tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi
coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E
per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e fanfaluche,
oltre alla fama grande, che gliene ſeguì, di povero conta dino, ch'egli era,
inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi, e ſovrani Signori
delle due parti delRe gnodiPreto, e mariti delle figliuole di lui da sè
riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li ſippe, e
lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo del vino,
o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo brancoloni, e muge
ghiando coinc vacche per le valli della Morea, e d'altri paeſi intieme con lor
ſorella Ifinoc, la qual prima di eſser medicata ſe ne morì: delle quali narra VIRGILIO
nella Bucolica. “Pretides impleruntfalfis mugitibus agros; At non tamturpes
pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus; quamvis collo timuiffe: aratrum, Et
fæpè in levi quæfiffet cornuafronte.” E che per opera di Melampo poi poſeſi
conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come
vuol Dioscoride; avvegnachè Galien giudichi, e con più falda ragione,eſsere
ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse. Il qualmedicamento apparò in
prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto, o più toſto dalle capre,
ch'e'guardava,come scrive PLINIO; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano.
Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite
non già coll’elleboro, ma con latte di capre paſciute in prima di quello; e
altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo, che loro il ſenno
ricoverato aveſse; ma un'altro Melampo detto l'indovino: E Polianto ciò ad
Eſculapio attribuiſce, ſicome narra Seſto Empirico, ed Eudoilo appo Stefano
antichiſſimo Geografo: Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo
dopo lunghe cerimo nie, e facrifici,e ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz
zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio;
perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi
rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το
μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον, Της μέν από
κρήνης αρύσαι πόμα, και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον. Αλα συ
μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης. Φεύγε
δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης
Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν
αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di giudicar di
verſamente quella cura: e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente,
e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per noiavviſar fi
poffa, egli ſi pare, ch'amena due i medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati;
perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio:. Clitorio quicumquefitim de
fontelevarit; Vina fugit: gaudetquemerisabſtemius undis, Seavis eft in aqua
calido contraria vine: Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas
attonitas poftquam per carmen, &herbas Eripuit furijs;purgamina mentis in
illas Mifit aquas; odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per
avventura riguardo l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte
in mare il ſuo forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in
Ciclo per guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte, E ſette volte ſott'acqua
l'attuffa Si che dal viſo, e da le membra folte Lava la brutta ruggine, e la
muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render
più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote
in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni, e ſi valca oltre a ciò degli
augurj, e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te
dell'indovinare, e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle
poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare
l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo
all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo
dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν
και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα
ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε. ψενοι δε γενόμμoι τέλιου
σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω: ma's exca's Txis gaca sesi exclougor.
o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία. και
παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe, per quanto lo mi creda,
tanto commercio colle menzogne, e colle frodi, e colle ſuperſtizioni, quanto il
meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di
quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3. di
vantaggio mi v'affacichi. Non però di meno non laſce? rò d'accennare le ſtrane,
e ridevoli cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte,
acciocchè poi più ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati
foſſero i lor medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno; perciocchè
dubitavano non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja
vi foſsero in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben
ſi guardaſse dal verto contrario: e prima dicavar la formavale con un coltello
incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta
verſo Occiden te: e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le
andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce,
e laſcive, come racconta Teofraſto con quette parole. Περιγράφειν δε και τον
μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω
περιορ - χεΐσθαι, και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των
περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ. Le Quali poida PLINIO
nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate. Cavent, dice egli,
effofuri contrariun ventum, et tribus circulis ante gladio
circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori
cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che
altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le gittavan
ſopra del ſangue metruo, o dell'urina delles donne, quindi cavandole intorno
alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane; il qual poi chiamato
dal padrone in correndo la ſtrappava di terra, e di preſente ne moriya. Cosìda
Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου περιεχέσης την
πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην αυτώ αύτη φλογί
μεν την χροιαν έoικε, περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα τους δε επιεσε και
βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει και επόπρον ί' Edi
quell'altro delmedeſimo Ariſtotile, che il tralaſciar da parte i ſenfi per
laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza d'ingegno ar
gomento ſia? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche Galieno? ecco le
ſue parole: coloro tutti da giudicar fono, anzi forſennati, che ſavj, i qaali
potendo le coſe pie namente comprendere, ed apparar da' ſenſi, voglion pures
che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni. Ealtrove il medeſimo autore: è
dottrina da tiranno, e piena di confu fioni, e di contefe quella di coloro, che
ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan pure una volta il
me deſimo fentiinento nel loro Avicenna; e ſe non altro, va dano, e sì
l'apparino dal Principe de' Teologi, Giovanni Scoto, ove dice, che tutti
coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede, degni giuſtamente ſieno delle
fiamme. E ſappiano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di
ragione, diqualunquc Serta egli ſi ſia, debba pure con quel gran lume della
Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire: non debemus
profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes,
nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis
videre, alienis auribus audire, alienis naribus odorare, aliena ſapere
intelligentia: ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia
alienisaffertionibus committe remus, nihilque à nobis ipfis diſcutiendum
putaremus. E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galieno oltremodo
tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico
lettore uſato lun, go tempo, ed invecchiato in ſu'libri d’ARISTOTELE, abbatté.
doſi per avventura un giorno in una notomia, e veggendo manifeſtamente la vena
cava dalle innumerabili fila, ora dici, chę ſon nel fegato la ſua originç
trarre, tutto ingom, bro, e pien di maraviglia, Come chi mai avf4 incredibil
vide, confeſsò, che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena
cava diramar dovelle dal fegato; ma non per ciò egli credédo a' fenfi
contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile, il quale tutte le vene nell'huomo
aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più
agevole allai eſſere, i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande, e
fourano ARISTOTELE in errore alcuno giammai eſſere caduto. E più avanti cbbe di
male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni
letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna, la qua le a ficvol lumicino
di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo ARISTOTELE,
negante law medeſima coſa, osù pur dire, che quel dalui veduto non era miga
graſcio. Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò, che a tal pro poſito anche
narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30, Santoro. mac ro in iſcriteura peripatetica, perchè non
veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle, ed altre nuove core dal
gran Galilei in Cielo ravviſato, ricusò l'ajuto dell'oc chiale; e ch’un altro
più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle
picciole rane, che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano, per non
eller altresì coſtretto a confeſſare, ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante
dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare
i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico PROSPERO
MARZIANO IN ROMA s'accrebbero? il quale di non volgare dot trina, e di faggio
avvedimento fornito, quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente
in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re,
che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto
il vero ſentimento di quelgran vecchio. E ciò anche Pier Castelli narrando
dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no
Platone i dottilimi ſentimenti: Galenus, vel non intel. kexit, vel intelligere
noluit Hippocratem, et Platonem, ut ſua extarent. Quindida'rimproveri, e
da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio, ſpezialmente intorno alle c.2
gioni delle febbri, coſtantemente affermando, non ſola mente Ippocrate non
avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro, ſe non ſe ove caſo di
grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse: il che già prima di lui
pienamente CARDANO avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl, che la
febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono. E queſte,
ed altre buone dottrine il valent:huomo di MARZIANO faggiamente manifcftando,
ravvivò con eſle la caduta, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate. Ma
non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na, la qual comechè tale, pur
merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata. Io dico la
Signoras D. Oliva Sabuco: Coſtei gl'ingegnifemminili, egli uſi Tutti Sprezzo
fin da l'etade acerba: A’ lavori d'Aracne, a l'ago, a' fufi Inchinar non degnò
la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile
abbondevolmente fornita, animoſamente fi iniſe col cere vello, e con l'animo ad
inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior
utile, e prò la mente rivolgendo, acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche
concio ne traeſsero, ad un nuovo, ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè
maraviglioſamente principio. Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo II d'e
terna,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar
errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales,
por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu
raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no
ſolamente losſabios y Chriſtianos Medicospue den ſer juezes, pero aun tambien
los de alto juyzio de otras facultades, y qualquier hombre abil yde buen
juyzio. E quin di poco appreffo: y el que no la entendiere ni cumprehendie re,
dexela para los orros y para los venideros, o crea a law eſperiencia, y no a
ella, pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan
provadola medicina de Hippocrates y Galeno dos mil años, y enella han hallado
tan poco effecto y fines tan inciertos, comoſe vee claro cada dia, y so vido
enelgran catarrotavardete, viruelas, y en peftes paf Sadas, y otras muchas
enfermedades donde no tiene effetto alguno, pues de mil no viven tres todo el
curso de la vida basta la muerte natural: y todos los demas mueren muerte
violenta de enfermedad, fin aprovechar nada su medicina antigua. E nel dialogo
della vera medicina: No me podreys negar, señor Doctor, que la medicina escrita
que ufays eſta incierta, varia y falta y que ju fin, y efeto fale incierto,
falfu y dudoſo, como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines y
efetosciertos, y verdaderos fin variacion, ni engažo, comola Aritmetica,
Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas, que a quel fin, y bien que
prometen, lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers
que falta en la medicina,pues eſta tanengañoſa, incierta; yva ria:luego claro
eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes, y fundamentos,pues no
echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas
māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas:lo qual al buen juyzio pondra en
duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae, razon, que los antiguos
tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento
ſoggiunge: No nze podeys negar,Señor Doctor, la incoſtancia, y quantas ve zes
fuemudada la medicina, y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma, y que muchos
ſabios mo le han dado credito, ni ſe han querido curar con medico por las
cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia. Ylos Sarracenos, y los del Reyno
de la China, no admiten inedicos, j' ay mas gente que en Eſpaña. Y eſosmiſmos
autores antiguos, graves le ponen gran dificultad, diziendo, que la vida
esbreve, y el arte es largo, el juyzio difficultoſo, la eſperiencia engañoſa,
et c. I dixo Hippocrates: que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe
alcanca, y no me podeys negar, Señor Do Etor que fueron hombres, cimo noſotros:
y que ſus dichos, no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella fueffe lo
quc ellos dezian, que ella ſe quedo en lo queera, y ſu dicho no la mudo, y
pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada, como lo
podeys veren Plinio, donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante,y
mudable, que la medicina: y que cada dia ſe mude. Più oltre
crapaffala signora D. Oliva, i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente
raccorre, ed annoverare, che troppo a lungo ne verrei. E baſterammi accennar ſo
lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite,
inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle, come intorno
all'ordimento, che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il
nutriinento, che H cla 58 ellämolto avanti ravvitate appieno, e glorioſamente
già paleſate ne'luoi libri l'avea. Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un
novello Siſtema di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre
filoſofante, e maeſtro in divinità CAMPANELLA. Non miſe egli già le mani all'
opere della medicina: ma pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani; e
comeage vol fu al ſuo pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia
dalla volgare, che nelle ſcuole comunemente inſe gnavafi, così potè
ancheordinar con belle dottrine un'al tro trovato dirazional medicina, e quindi
ancor ne ſegui rono molti, e varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i
ſegni, e le coſtoro mete, o quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il
grand'Ermete della balla Germania, Elmonte, che con più alti apparecchi, e
colla mente di più nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa, onde vie più
s'accrebboro i contraſti, e le miſchie. Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno,
cãdidezza accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa
girica, intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a
fatica,ne a ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli
dietro l'orme glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a
tanto, che ull maraviglioſo, e non più udito liſtema di razional medicina egli
giunſe felicemente a formare. E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di
noſtri per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi
co'l ſuo novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis; ne di
leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe
d'ammannar tutto ciò, ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro: e con
qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo
allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore
induſtria adope rarono per fomigliante impreſa, e’l Silvio, celebre per lo
innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio,e l'El vezio, e'l
Meſfonieri; e'l Travaginis, ed altri illuſtri l'ette rati rati dell'età noftra,
a molti de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non è venuto fatto di poter
mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di que'valent' huomini, che
tuttavia ſudano all'opera, e colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia, e
della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo
de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E
taccio altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di
ſperimentale, e di metodica medicina, ma dall'an tica gran fatto varia,
ediſcordante, Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine ſiano acceſe con
porre ſottoſo pra, ed avviluppar la medicina tutta, non fa meſtierial preſente
narrare, ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì
noftri l'eloquentiſſimo PLINIO vi vo fosse, griderebbe dicerto più che mai con
quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties intarpollis, et in
geniorum flatu impellimur, non già di que’della Grecia ora Icioperata, e
incodardita ſotto'l giogo della barbarie; ma di que'celebratiſſimi
dell'Inghilterra, e d'altre Provincie, da lui ne’tempi ſuoi barbare giudicate,
Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de medici,in tante ſchiere, e
tazioni partita, e quaſi ſtraccia ta veggendo la medicina, che ormai per
ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon coſtoro que'cutti,che nondi
Greco, o DI LATINO, o di Barbaro, o d'altro ſtrano ſcrittone, modernoso
anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta,ed a gli altrui ſentimenti ſempre
ligarſi; ma liberi affatto, e ſciolti gir con iſpedito voloi valtiſſimi Regni
della natura fcorré do; quindi cozzando contro i più duri, cd oftinati malori
con quell'armi, ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono,nonpreſe, o
tolte da gli arſenali altrui, ed alla cic ca adoperate, fanno con glorioſe
impreſe render eterni, e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo, ſalvo
ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato,
tutcoyogliono ſpiare, a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio
curioſo eſaminare;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle
ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento
confannoſi. Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto
nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or
me d'Ippocrate, e di Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare. E perciocchèlo
giudico, che aſſai monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà,
debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi
d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA EBBO per
ſoddisfare all'obbligazion del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le
ragioni di quei filoſofanti, che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di
fer vitù generoſamente ſdegnando, voglion gir liberi a lor talento fpaziando
pe' vaſti, e ſiniſurati campi della Natura. Ma conciosſiecofachè el le fien
molte, e molte, e tutte di gran lieva,io non ſo qual prima mi debba dire,
quafdopo; ſenzachè a me non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare,
perchè con purgato ſtile ſpianandole (e quale alla lor dignità per av ventura
ſi converrebbe) la for ſaldezza, e valore veniffer per voi più chiaramente
compreſi. Ma forſe hanno elle an cora ciòdi vantaggio, che rôzzamente accennatc
poffano, e pregio, e commendazione non ordinaria da voi merite volmente
ricevere. E per venirne omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta
guiſa d'eſſo loro parlamen, tando potrebbe imprenderne il filo. Egli non alzò
certamente natura con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo
inverlo il Ciclo la fronte; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi, e
ſublimi, e liberi ſpiriti abbondantemente fregiandolo, perchè egli poi qual
paluſtre mergo, raden do lempre maiil ſuolo, non avelle ardimento di battere
generoſamente in alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e
inveſtigare quelle si varie, e sì ſtrane apparen ze, onde bello ſi rende, ed
ammirabile l’Vniverlo; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli, il tutto
e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda, non già nelle
copie incerte, e ragionevolmente d'error ſo ſpette, manel primo, c vero loro
originale. Così quell' Aquila de Greci filosofanti glorioſamente adoperando,
con felice., e ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque
omneimmenfum peragravit mente,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta
madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe, e de gli altri Segnò le mete, e'n
troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano, facendo sì, che i
troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero, ch'a leggere, c
rileggere, e tutto dì di chio ſe, e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche
d'un mondo tutto fantaſtico caricare. Quicfto non volle già,che faceſſe in modo
alcuno il giovinetto Lidia, quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene:
quando di nuovo libro, di nuoyo ſtile, ditavolette nuove a doverſi fornir
gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui voleſſe; e ciò, perchè egli compré deſfe,
che le coſe,che per lui, da regiſtrar foſfero, eſfer quelle non doveano, che
già da altrui ſcritte in prima, diviſate ſi erano.. Eciò anche molto innanzi ad
Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio, che primadi tutt'altri, Filoſofia
chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva, non doverſi da loro nella,
popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare. Equeſta libertà
nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri, e rinominaci filoſofi comunemente
ancor richieſe: c da più illufri medici, e per valor d'ingegno, e per opera di
mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbracciata. La cui altezza
d'animo ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico, e filoſofo Claudio
Galieno, ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o
quand'egli oltremodo uccella, e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato,i
quali a' detti di lui, come agli oracoli d'Iddio riverenti
s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità, ſempre mai giudicandole, o
quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto, ed
abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze, cd a'giudicj
altrui, non volendo coſa alcuna bilancia re, ne punto a lor paſſare innanzi: o
quando altrove iſtan cemente priega, e ſcongiura i parteggianti tutti a por giù
la ſcabbia, e'l furore, e la ſtolta follia delle ſette: 0 quin do adiratamente
grida effer dura, e malagevole impreſa a ridur coloro alla ſtradadella verità, i
quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi fi fieno. Quindi
la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe opinio niingombrando
gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi ancora
renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò, che altri di
neceſſità rimira. O quando altrove proteſta, eſſer egli un male da non potere
in verű modo guarire,la folle, e ſciocchiffima caponeria di cotali
parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre: e
che cotali uccellacci non che fappian, giammai nulla di buono, anzi ne men
d'appararlo ſi ſtudj no: o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro,
cfer della patria, che della propriafetta traditori, e rubelli. Et o piaceſſe
pure al Cielo, che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima
pertinacia di coſtoro av verativolendo: più toſto manifeſtamente uccidere i
miſeri infermi, che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri.
Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci trarre
afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a
grado, ch'a noi ſpiace voli ora ſono, ed affatto nojofes Cosi la gente
prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda, e
dolce cibo L'acqua, e le ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo, e
bevanda d'animali, Or che s'è poſto in ufoilgrano, e l'uva, O forſe alcuna coſa,
ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p
opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta? Così ſon veriſſiine prove de’mo
derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec,
edel códotto del Virſungo,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi
delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati,che crollano, c
ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono, cd atterrano ogni razional ſi Atema
d'antica medicina. O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer'
eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo, e colpa, certamente
commiſerla in prima coloro, i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri
tralignando, e nuove ſchiere di filoſofia, c di me, dicina anmutinando, ofarono
in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole
cſemplo di si follo, e temerario ardiinento. Imperciocchè ognianți co a'tempi
ſuoi fu moderno; perchè figgiamente il Princi pe CLAUDIO Ceſare apppreſſo TACITO
ha a dire: quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere: inveterafcet feculum no
firum, et quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit, (1 ) cd a queita
medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que', che per eller
egli moderno biafi mavano il Paracelſo, in ſomigliante guiſa conchiude, Qui
nova damnatis, veteres damnetis oportet; Aut iſta nihil eft in novitate novi
Saran dunque acerbamente da vituperar Platone, Antiſte nc, Eſchine, ed
altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole, che
allora nella Grecia fioriva. no, a quella di Socrate, che nuova era, per
imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono? anzi ne furon perciò foin (1
) Etienne Paſquier. 05 sómamente da
cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure ARISTOTELE, e
Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe
perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli. E dalla novella ſcuola nel
ginnasio del lizio d'ARISTOTELE in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon
tinuo, che uguale, e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal
padredegli ſtoici filoſofanti Zenone, funne poi grandemente lodato. E nuova
anche fu la scuola di Zenga ne, e nuova quella d'Ariſtippo, e quella di Fedone,
equel. la di Euclide da Mogara. Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide,
d'Epicuro, di Menedemo, d’Arcuila, e d'al tri molti maeſtri di filoſofia, e
pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie, e famoſe ſcuole degli
antichi filoſofan ti furono antipoſte, riportandone ſempre mai buon nome, e
fama non ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi. E perchè nó
ſarà lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella
indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe, ove già i manifeftiffimi errori
degli anti chi maeſtri abbiam compreſi? E forſe ſarebbe a tanta altezza
pervenuta la nobiliffima arte della pittura, ſe gli antichi maeſtri paghi
ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio Filocle, nö ſi foſſero ſtudiati
di vantaggio con la loro induſtria di limarla: e col tirar ſolamente le linee
dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe,
e diſtinate figu re? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in
gegnoſo Cleofante, odi Parrafio, o di Polignoto, o di Zeuſi, o d'Aglaufone, o
del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e
più ſquiſite le om bre, onde poi vive, e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero,e
gli augelli, e i deſtrieri, ei cani, ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente
ad ingannare? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro
a'tempi d’ALIGHIERI, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed or ha
Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento
Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto
commendato dal Divino PETRARCA, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti
ſi tolſero il van to, ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere
maraviglioſe di SANZIO, e di Tiziano, e di quel grande Michel più che mortale
Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera della
ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime lira
di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte, di Teocrito, e di tant'altri
illuſtri, c nobili Poeti; o ROMA de' ſuoi Lucrezj, de’ Virgilj, de’ Catulli,
de' Properzj, de' Tibulli, degli Orazj. Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino
canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo. Ne goderebbe la Francia
l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo, e del Bert: ſſo. Ne il noſtro più,che
tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il divi no cato
dell'incóparabile Torquato Taſſo,di Giovani della Caſa, o la maraviglioſa
evidenza dell'ARIOSTO, e dell'ALIGHIERI, o la dolciſſima muſa del PETRARCA, del
Bébo,dell’Ala māni, del TRISSINO, del Molza, del Guidiccione, del TASSO Pa dre,
del Guarini, di Galeazzo di Tarſia, edi altri,ed altri nobili ſpiriti, che di
valor colla ſuperba grecia gioſtrano,o pur la vincono, ſe coſtoro
tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il perchè
faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe eſſer
van taggiate, e creſciute non già per coloro, che le comunali, e uſitate
ritennero, ma per coloro, che d'ammendarle, e torne via glierrori, e
migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των τεχνών,
και των άλλων απάντων, και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν, αλα δια
τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων. Ε fe cio fi
vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare, che omai poco,
o nulla fi poffa più oltre andare, e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a
maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi
dourà an che ciò alla filoſofia, ed alla medicina permettere? malli mamente,
che il campo di eſſe è queſto si vafto, e grandif ſimo teatro dell'univerſo,
nel quale ad ore, ed a moinenti apparir tutto dinuove, e nuove coſe fi veggiono,
da te nervi i più ſublimi, e pellegrini ingegni mai ſempre img piegati. Multa
dies, variufque labor mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa
è, che'l mondo più ſempre mai col tempo invecchiando,dinuovi, ed utili
ritrovati per la noſtra ſperienza di mano in mano i ſecoli arricchiſce. Così
noi veramente ſiam da dirci vecchi, e gli antichi, i quali nel vecchio mondo
ſiam nati, e non que’tali, che nelmo do infante, e giovane,men di noi
ſperimentando conobbe ro. Anzi coloro, che per innanzi naſceranno, più di noi
ſaran vecchj, ed antichi, e conſeguentemente d'eſſer più di noi dotti, e
ſperimentati, e diquant'altri per l'addietro mai furono, auran cagione. Ed a
propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime parole del gran Baccone da
Verolánio: de antiquitate autě(dice egliopinio,quam homines de ipfa
fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua: Níundi enımſenium, et grandavitas
pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus noftris tribui debent,non junio
ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri
antiqua, &major; reſpectu mundi ipfius,nova, minor fuit.Atque revera
quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam, á maturius judicium, ab homine
fene expectamus, quam à juvene-propter experientiam, et rerü, quas vidit, et audivit,
et cogitavit, varietatem, copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas
nuffet, et expe riri, &intendere vellet)majora multo, quam à prifcis tem
puribus expectari par eft; utpote ætate mundi grundiore, infinitis
experimentis, et obſervationibus aucta, et cumulata. E in verità, chi ha mai
tante, e si diverſe maraviglie in Cielo, e in terra, e nell'acqua, e negli
augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto, dove
turto di attenti, ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filoſofanti
viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età, cioè a dire il mondo vecchin, il quale
ne va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto, che ora
d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo
Auderet, folvenda dies en attulit ultro. Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i
confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare, così altii ani
mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne
conobbero, e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari, c d'altre
perſone idiote, e volgari, dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante
incredibili bugie. E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò, che Erodo
to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in
prima l'arbore con iſtorace: iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti
(tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori: τον μέν γε λιβανωτον
συλλέγεστ, την σύeακα θυμιών της. E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του
λιβανωτοφόρ, όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα, Qurárrs01,
Trnýber mondo, me ei sér d por exasov. E del Laudano, affer: mò eſſer quello
odorifero, e dilettevole a fiutare, e pur na ſcere in luoghi puzzolenti, e
ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce
da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών
των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον, οιται γλοιός από και o'rins.
Ma Rufo da Efeſo dice, alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che
le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων
λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG-
επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί
λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω. E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E
ſimilniente fi pare, che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del
Ciſto: Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e
ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tenace graffezza, onde poi
pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia
del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono. Sonyi alcri, che tirando, e
sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza, chevi
s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού
νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως •
και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει,
και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις
θάμνοις, και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo
dir vollc Plinio, ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene
peravventura intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe: Sunt qui
herbam in Cypro, ex qua id fiat,ledam appellent: etenim illi ledanum vocant: hu
jus pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita
offas fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno, quando dice gevers auto
del laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e
Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ
αυ τον αι αίγες, εν τοίς πώγωσι, και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον, και
οπώδες πόας αφαιρούνι. Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών, και
τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano
Diofcoride, e PLINIO, pur troppo groſſi nell'informarſi, e nelcreder leggieri.
Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre; e'l
ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur
ſappiamoeſſer foglia di ben grande, co ſpazioſo albore, non già paludoſo, ma
ſalvatico, emon tano. Io non farò menzione delle tante, e tante inyeriſi. mili
bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata (piganardi
inventarono. Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove
diffe, che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co
me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di
credere, cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in
diſtillando da tali alberi fi rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar
fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che
per gli occhj fuor verſarono le pie, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo
caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe,
onde poi Fluunt lacryme: ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis: qua
lucidus amnis Excipit, du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli
a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della
caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za
gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono, que Ite effer due piante fra
eſſe lordifferenti; e vuol egli, che la callia naſca in una palude non guari
profonda,per entro, e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate
fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza,
e vigore; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola
ſi cuoprono il volto, e'l corpo tutto,da gli occhi in fuora,di cuoja,e d'altre
pelligec colefue parole: επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα,
και το πόσωπον, πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν
λίμνη φύεται ου βαθέη, σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ. λίζεται κού θηeία ερωτι,
της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί. SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα
δη απαμυνομένες από των ópfamutów. E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi
pare ciò, che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer
nervoſi non poffano ſcortecciarſi, ma tagliinſi in pic cioli pezzetti, i quali
ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati, perchè i vermicelli, che
nel corromperſi del legno s'ingenerano,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia
no la corteccia intera, mercè l'amarezza, e l'acrimonia del fuo odore, την δε
κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα, και ουκ είναι
τριφλοίσα, χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και
κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον
καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι, από
μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι, δια την πικρότητας και
δριμύτητα 7ης οσμής, 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò PLINIO con l'uláta
eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum, mox præſuunt
recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum,ut ijs pu trefcentibus
vermiculi lignum erodunt, et excavent corticem tutum amaritudine. Ma che direm
noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili delle
ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto. Il Cinnamomo,
dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove, e'n qual modo naſca, ſe non che pro
babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu nutricato, e le
feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci traſportate in alcune
ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi inidi,contro a’quali han gli
Arabi ritrovato un ſottil modo: cglino tagliano in pezzi, e con quidono le
membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli appreſan quanto è
poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono; gli uccelli intanto calan giù, e
preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi, i quali non valevoli a ſoſtener
tanto peſo caggiono a terra, e gli Arabi allora ne fan race colta:όκα με γας
γίνει αι, και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ, έκ έχεσι - πών, πλην όπλόγω άκόπ
χρεώμενοι, εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο Διόνυσος εξάφη
• όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς, απο Φοινίκων
μαθόνης, κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας πεπλασμίνας
πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι, ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι: πεος ών δή
ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο. μένων, και
των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία
και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε. « θαι έκας αυτέων• τας δε
όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας
νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους
συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di
Ro manzi ſarà, ſenza fallo, quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo
fatto,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo PLINIO
chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue
fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi, onde pofcia gl’arabi con faette di
piombo lo ſcroſtano, e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον
όρνεον είναι οι εκ των το. πων εκείνων, ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν
τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε
εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς
πέοσαρ των τας, τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν, έκ του φουτου το
κινναμωμον: elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας
τε το κιννάμωμον όρνεον είναι, και αρώμα et φί. ραν, και τους νεοφίας εκ τούτου
ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων, 7ους δε εγχωρίες μόλιόδον
τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν, και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας. E non molto
diffimile e cio, che ne vien creduto da molti altri antichi appo Teofraſto:
néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν φάραγξιν, εν
ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας: πεος ούς φραξάμενοι τας
χώρας,και τες πόδας, καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν εξενέγκωσιδιε
λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in
animod'annoverare gli errori tut ti, ne'quali caddero gli antichi per eſſer
eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te
dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia, ed indi aſſai più vaneggiãdo
ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo
poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni
d'affermare, ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe, e pericoloſe
navigazioni, ove non giova governo de nocchieri, ne vela, o remi,inafol l'umano
ardire, e la for tuna gli regga. Direi come in alcuni antichi Greci comentarj
leggaſi, che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto,l'acque bogliéti rin freſchi, e
meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti;e che tutti gli
animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες
θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν
διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν, και αφανισικήν των εκ
φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio, co medel pepe
favoleggiado Dioſcoride ne narri, naſcer quel lo in India da un coral
arbuſcello, che produce un frutto lungo, ſicome baccello, il qual chiam ali
pepelungo: den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau
quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè
aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella, ficome gli
veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco,
e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero,e
dilettevole al guſto più che'l bianco; il quale perciocchè a debita maturezza
non è pervenuto, non è cotanto perfetto. Πέπερ, δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν
ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι, κα. &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί
μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και
τέλειον πέ. περι. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε
κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το
λευκόν πε. περι, epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου,
φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας
αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ. ng IWY, Ma
troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad
uno tutt'altri lor fallimenti annoverare. Perdoniam pure a gli antichi ogni lor
negli genza, ſenulla ſeppero, over nulla curarono del muſchio, dell'ambra
grigia,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri
aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna, il non aver eſſi avuto
contezza niuna della Mecciocana, della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè, del
Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa, della China, e
d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così
manifeſti, e conti, che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno. Mache più:
laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole,
che peravventura cader potrebbono in penſamento umano: 0 pure avendole da
altrui udito, co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute, sì le abbinn per
vere, e le rapportino. Laſciam, che creda Anafſagora appo ARISTOTELE, che i
Corvi uſin per bocca colle lor semmine, e dea cagione dicantare a colui:.
CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che
infinſero agli antichi della Catapleba, di cui Plinio, e Solino fan parole, e
Sor gona appellafi appo Ateneo, la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo
diffonda, che immantinente l'animal rimirato, ſtupido,ed inſenſato divega,e
poco ftante fi muo ja; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne
l'eſtremo occidente V na fera è ſoave, e queta tanto, Che nulla più. Mapianto E
doglia, e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che
favoleggiarono Megaſtene, Daimaco, Nearco, Ariſtea, Onoficrito, Te fia, ed
altri appo Erodoto, Strabone, Diodoro, PLINIO, e GELLIO degl’uomini, che in
Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore: degli huo
mini, che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo: de gli altri, ch’appo i
Troglodici ſon ſenza capo, e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla:d'altri, che
han faccia di cane, e latrano, e di tant'altri di fimil figura, a quei, che la
ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva. Non fu veduta mai piùſtrana
torma, Più moſtruoſi volti, e peggio fatti. Alcun dal collo in giù d'huomini
ban forma, Col viſo altri diſcimie, altri di gatti. Stampa no alcun co’piè
caprigni l'orma: E traſandiam Platone, che verace credette quella bugiar da
fama de'Poeti, che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello,
e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal
fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano
pe'l gran contento, che prendono del preſto ritorno, cli’al lo ro Apollo a far
hanno. E con queſto di Platone,laſciamo impunito anche il fallo d'ARISTOTELE,
qualor prende licenza di dir, che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari,
che buſamente, e doloroſamente cantavano; eſſendo in verità il lor căto
un'imporcuno gridare,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura
diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo, da Solino, e da altri, perchè po co, o
nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così
d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei
Poeti, che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome OVIDIO, Id quoquequod ventis
Animal nutritur, et aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua vefcitur
auram Reciprocat Cameleon. O di caffar quegli, che vollero,eſſere it Camelconto
della grandezzadelCoccodrillo, ſe pure non fu queſto, crrore di Plinio;imperocchè
tutto ciò che narra delCameleonte, dice d'averlo tolto di peſo a Democrito, che
un libro in tiero ne fcrife, ρve dicendo και το μέγεθος ομοιον είναι τώ κροκο
dergoe, ' non badò punto, che nel Ionico linguaggio, nel qual Democrito
favellava,la parola xpowodeina, val quel la Lucertola, che appo gli Atenieſi, e
gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio.
Elaſciamo ſtare ciò, che gli antichi, a'quali ſi parve, che deffer credenza VARRONE,
PLINIO, Solino, COLUMELLA, Marziano CAPELLA, e SERVIO follemente vaneggiaro che
alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento, e moran fuori
polledrivelociſſimi al corſo. Co per vero dir non men fantaſtica del Pegaſeo di
Bellero fonte, o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo, e ben degna, che ne freggino i lor
Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro ardicainente
attentare. E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille, Εάνθαν και
Βαλίον,τωάμα ποιηση πελέσθην, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη. E
ſimilmente VIRGILIO Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante;
leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis, ventogravide, mirabile dicru ! E SILIO
Italico delo lociſfimo Peloro no, fa K 2 Nullus erat pater ad Zephyri nova
flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il
noſtro ammirabil Torquato, Queſti ſu'lTago nacque, ove talora L'avida madre del
guerrero armento Quando l'almaſtagion, che n'innamora, Nel cor le inftiga il
naturaltalento, Volta l'aperta bocca incontra l'ora, Raccoglie i ſemidel
fecondo vento, E de'tepidi fiati(o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe, e
figlia. E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei, della
Fenice, del Centauro, dell'Aquila, del I.eone, del Coccodrillo, della
Salamandra, della Pirau ſta, della Remola, del Cavallo marino, del Baſiliſco,del
l'Elefante, de'Satiri, degli Ipogrifi, de'Ciclopi, delle Si rene; e tant'altri
errori, ne' quali non pur degli animali, ma de’minerali altresì in trattando
incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga
ma teria, ſol che a noi ſi conceda picciola,e ben dovuta rin chieſta, il poter
da’lor falli ritrarci, uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne
loro ſtrane ſentenze, e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in
no cale; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto, e mercè la
diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi, i
portamenti, i coſtumi degli abitatori: ma di che animali qualche ſi ſia paeſe
venga fornito, quali piante germogli, quai minerali produca. E non v'ha ge te
nel vero sì barbara, e feroce, la quale, o per avventu ra, o da neceſſità
coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato, il
quale ad al tre più umane, e ben coſtumare nazioninon è occorſo. E ben ciò a
pruova ſappiamo; imperocchè ne per lunghe vi gilie, ne per iſparti ſudori
di'ſavj greci, o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar
la ferocia delle febbri, quanto è quella maravigliofa corteccia,inſe gnatane
da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quanto egli ora ammirerebbe per
Dio queſta fortunata, e prodigioſa fecondità, e con qual leggiadria, ed altezza
di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe, IL SUBLIME POETA FILOSOFANTE
LUCREZIO, ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente
preſe a cantare: quædam nunc artes expoliuntur: Nunc etiam augeſcunt: nunc
addita navigiis funt Multa: modoorganici melicos peperere fonores. Denique
natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper, et hanc primus cumprimis ipſe
repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p
Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito, con tutte
l'antiche, e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di
tempo, che itati non ſiano per addietro tanti, tanti altri ſecoli paſſati. Si
paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi
bilancino. Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni? baſta ſolo un ſol
filoſofo, l'ingegnoſiſſimo GALILEI, per tacer di Renato, del Gaſſendo,
dell’Obbes, del lungio, e di tant’al tri, ad oſcurare, cſommerger affatto la
gloria di tutta quanta l'antichità. Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar
tanti belliſſi mi, e nuovi trovati dell'età noſtra? ſe de’tempi ſuoi, che pur
ne furono affatto ſterili, ed infecondi, così ebbe a di re: Sum ex illis fateor,
qui mirer antiquos; non tamen, ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa, et effeta natura elt, ut nihil jam laudabile riat. Ma ſu
concedaſı pure ciò, che a niun modo conce der mai certamente ſi dee, cioè a
dire, che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene; come mai potrà egli
ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come
ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter
le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj,
e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra? Che farà il
filoſofo, e'l medico ſenza il microſcopio? Quanto ri pa marrà a ſuper della
Terra al Geografo, ſenza le novelle; tavole dell'America? in quaiviluppi,
cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova
aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti
ricevuto? Non s'addofferebbero le ſghignazzate, e le riſa anche del popolo
minuto, e de più ſemplicifanciulli, s'eglino mai a negare ardiſſero lo
innumerabili ſtelle della via lattea? o faceſſer veduta di non iſcorger in
faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno,ch'alcuniorecchj, altri
anella, ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee, o lo ſcambiar
della faccia di Venere, o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece, o
le montuoſità della Luna; o l'aggirarſi di Venere, di Mercurio, di Giove, e di
Marte intorno al So le? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender
l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli, la sfera del
fuoco, e tanti, e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli? E come ardirebbero i
medici ſenza i novelli trovati della notomia morta, e della notomia vitale ad
impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati? Ed o quanto,e
quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li
porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita
più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico, il cui meſtiere, comechè
manchevole, tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede, che la
falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira, e biaſimata, che
ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile
poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe,
cavarc. Ma laſciando ciò al preſente, che troppo larga materia da diſcorrer
ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di
ciaſcuno, o antico, o moderno autorch'egli diafi, appigliare, ne a ' ſentimenti
d'alcuno tenacemente ligarli, ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte,
fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato, e da' più
ſavj filoſofancije da ſacriTeo. 1 logi comunemente leguito, e fommamente da
ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e
de'Satirici POETI LATINI, checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti
dell'Epicurea, c della Stoica filoſofia addolcendo, così ne canta Quod verü,atque
decens,curo, di rogo &omnis in hoc să. Condo, &compono,quod mox
deprumere poffim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare tuter: Nullius
addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas, deferor
hofpes; Nunc agilis fio, et verfor civilibusundis; Virtutis vere cuſtos,
rigiduſque ſatelles: Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res,
non me rebus ſubmittcre conur. Equel, ch'altrove eglimedeſimamente va
diviſando..., Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis, quid nunc
effet vetus? aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus?
Odafi QUINTILIANO: neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia, quæmagni
autoresdixerunt, utique efleperfecta; e recando « gli di ciò la ragione,
ſoggiunge: nam, et labun tur aliquando, et oneri cedunt, et indulgent
ingeniorum, fuorum voluptati: nec intendunt animum: Odali il Romano Oratore:
non tam autores in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt,quin etiam
abeft iis qui dicere van lunt, plerumque eorum autoritas, quife docere
profitentur: definunt enim fuum judicium adhibere, atque id habent ra tum quod
ab eo, quem probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il
vituperevole coſtume de' Pittagorici, a'quali per certa, ed infallibil ragione
l'autorità fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava: conchiude: tantum
opinio præjudicata poterat, ut etiam fine ratione va leret authoritas. Odali
oltre a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente
di Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone, ove diffe: 10 ſon di sì
fatta natura, che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che
a quella ragione, che più vol te da go Ragionamento Primo te da me
diligentemente ſtacciata, e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima:
as iywa õ jóvov vũ, anc ' wy de Tolos 1G-, οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή
τώ λόγω, δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou, Odaſi il famoſo Ariſtotile,
ilquale, avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità
d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo,
pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la
verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων, όστον πτοπμαν την αλήθειαν, e pri ma
auea egli detro a pro della verità, far meſtiere, maffi mamente al filoſofo,
diſtrugger le ſue proprie credenze; ma odaſi quella maraviglioſa, e divina
ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti
coloro, che Ariſtotelici, o Ippocratici, o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno,
vien comunemente traſandata,an zi affitto ſpregiata: Amico Socrate, Amico
Platone, ma più amnica la verità; la qual diviſando, esfigurando queſti
Iciocconi indegniſſimi del nome di vero filoſofante, foven temente dir ſogliono:
eſſi amar meglio di ſcioccheggiar con ARISTOTELE, Ippocrate, e Galieno che con
altri laggia mente diſcorrere. E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il
medeſimo lor ARISTOTELE, ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete,
PITTAGORA DI CROTONE, PARMENIDE DI VELIA, Anafſiman dro, Anaſlimene, Meliſſo,
Democrito, Anaffagora, cd altri molti, che prima di luieran lodevolmente feduti
fra filoſofica famiglia; e ne meno per riverenza talor ſi ritena ne,
chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate, e Platone il fi inigliante non faceſſe, i
quali manifeſtamente alle volte bialima, e riprende; e forſe ſe ſua
malavoglienza, ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi ancor credere, che egli per
ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e carminaſſe, chiamandogli
talora, e ſcempiati, ed ebbri, e farnetici, e ſciocconi, e ſtolti, e ſcimuniti,
e non farebbe per avven tura gran ſenno, che ſon pur coloro gran maeſtri in
filoſo fia, e danon così gravemente mordere. Ma queſta cotai ſentenza ebbero in
bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2
vol volmente e'ſi puote, in Teofraſto, in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno,
in Ipparco, ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la
verità, ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta, almedeſimolor maeſtro, e duce ARISTOTELE,
non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e ſenza
ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza, dipoi
han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della filoſofia,
a’quali tanto, e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri tà ad ARISTOTELE,
che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a
guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon eroica fortezza, e con
in vincibile, e veramente filoſofica coſtanza, nulla curanda che perciò ne
foſſero eglino mai ſempre, e proverbiati, e deriſi,il ripreſero ſoventemente, e
lo dimentirono di non, pochi ſuoi falli. Ma odaſi omaiquell'altra non men
famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da Platone attribuita rávws
γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον αληθές λέγεται η ου, Non
già chi abbia detta la coſa, ma s’eidica, o non dica il vero,doverſi
conſiderare. Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre latino Stoico; il
quale al ſuo LUCILIO in una piſtola, così favella: Epicurus, inquis, dixit:
quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli foggiugne con quelle
veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi ingerere, utifti qui in
e verba jurant, nec quid dicatur æftimant, fed à quo fciant, quæ optima ſunt
eſſe communia. Ne meno è da notare as noſtro propoſito ciò che altrove
parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium fequitur, nihil
inve nit, immonequequerit; e ciò, che altrove ancora: Non ergo fequor priores?
faciofed; permitto mihi, bu invenire ali quid, mutare, nec fervio illis fed,
aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta: Qui ante nos ifta
noverunt,non domini noftri, fed duces funt. Ne è da paſſar ſotto filézio quel
belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον δύναταιτους ανθρώσες ποιάν
Θεό Παραλεσίες, L. cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci.
Poft Deum,veritatem colendam, quæ fola bomines Deo
proximos facit. E
ſe tanto può far la verità, dove più riporrem noi l'a nimo, a qual'altro fine
indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche, ſpargerem noftri
ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità? Eccovi, ecco
vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità, e della glo ria. Ecco quel
ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i
moderni noſtri filoſófanti, che in tanto pregio,e tanta fama glorioſamente
falirono; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe, e Talete, e
Anaffimenc, e Senofane, e Anafſimandro, e PITTAGORA DI CROTONE, ed EMPEDOCLE DI
GIRGENTI, e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate, e
Platone, ed ARISTOTELE, ed Epicuro, e Zenone, e tanti, e tant'altri filoſofi
d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente, e lidian yanto i noſtri ſex coli
d'aver recati almondo il Cardinal Cusano, e' Copernico, el Patrici, e'l TELESIO,
el Ramo, e'l Donio, e Ticone, e'l Cheplero, e'l BRUNI, e'l Gilberti, e'l
Montagna, e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l GALILEI, e lo Sti gliola, e'lCAMPANELLA,
e'l Verulamio, e Renato, e'l Gassendi, e'l lungio, e'lConte Digbi, e'l
Oggelandio, e'l Boile, e’l Borrelli, e'l Maignano, e'l Robervallio, e'l Mal
pighi, e'l Redi, e lo Stenone, e'l Ricci,e l'Vliva, e'l Por zio, e ' Bellini,
e'l Marchetti, e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria
Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci, e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto
s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi,
che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni
della natura, fu perbi,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va
ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno,
ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono. E viuran ſeipremai
pe'l contrario ſenza fama, e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri
delle coſc tutticoloro, che toglier non vogliono una sì 1 commendevole, e
neceflaria libertà; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca
oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio,
e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar
lungamente potrei, e di sì fatti errori quaſi infinito numero
rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia; c fie baſtante il ri
duryi amemoria, ſol ciò, che d'un ' oſtinato, e duriſſimo Peripatetico LIZIO narra
il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora
più che altri già non fe la ſua Grecia. Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico
molto „ ſtimato in Vinegia, dove alcuni p loro ſtudio,e altri per » curioſità
convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno, non men
dotto, che diligen te, e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno, chę ſi
andava ritrovando l'origine, e naſcimento de'ner » vi, ſopra di che è famoſa
controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici LIZIO; c moſtrando il
notomiſta, co » me partendoſi dal cervello, e paſſando per la nuca il gra »
diſſimo ceppo de' nervi, s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc,
diramandoſi per tutto il corpo: eche ſolo un fil ſottiliflimo, come di refe
n'arrivava alcuore: voltofi 5 ad un gentil'huomo, ch'egli conoſceva per
filoſofo Perripatetico LIZIO, e per la preſenza del quale egli avea cons
iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò, s'egli
reſtava ben pago, e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello, e non dal
cuore: al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc, riſpoſe:
voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta, e ſenſata, the quando il
teſto d'ARISTOTELE non foſſe in chiaro, ch'apertamente dice i nervi naſcere dal
cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera. Ragione. volmente adunque
potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros, famaqueverendos,
Errare, et labi contingit, plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis
alti Autores, uticonnivent, deducere eajdım, 1. Tantum exemplavalent, adeo eſt
imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere in
tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere. Ma vegnamo a
moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà,
che noi commendiamo, eglino altresì, ed approvino, e lodino. E chi
baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro
che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra
gli Scolaſti ci Teologi Durando? Egli con chiare, ed efficaci ragioni
manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui
detti acchetare (il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario, e
così folle farà,the più toſto a’Pagani, e perfidi gentili fede preftar vorrà,
che a’ facri, e piiſcrittori, e Padri di Chieſa Santa da divin lu me
illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già, ch'a'ſuoi detti dar
s'abbia ferma credenza: ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini, et abburatti,
e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito, e
rigetti;indi le parole medeſime di AGOSTINO recate avendo così fieramento
ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori, che vogliono impor meta alla libertà
degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore,
e che altro, eſclama egli, è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale
ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa? fe non che un chiudere il varco
a color,che vanno in traccia della verità?Se non che un far argine a quei, che
s'inviano pe'lſentiero della ſapienza: ſe non cheun'ammorzar violen temente,
non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione. Così quel gran Dottor della
Chieſa, non men d'ammira bil ſantità, che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo
al Gran GIROLAMO, lume maggiore della Criſtiana Religio ne, dopo avergli detto,
ch'egli dava intera, e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura,
ed agli autori di quella, degli altri in sì fatta guiſa egli favella: Alios
autem omnes ita lego, ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant,
non ideo verum putem, quia ipfi itas Jenſe is fenferint,fed quia mibi, vel per
illos authenticos autores,vel probabili ratione, quod à vero non devient
perſuadcre po tuerunt. Ma prima di S. AGOSTINO quel criſtiano Tullio, Lattanzio
Firiniano, avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non
ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via
coloro,che ſenza diſcreto giudicio,i trovati degliantichiapprovano, e a guiſa
di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre; per ciocchè:
ficome egli ſoggiugne: Hoc eos fallit, quod maa jorum nomine pofito non putant
fieripulje, utaut ipſi plus fa piant, quia minores vocantur, aut illi
deſipuerint, quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de:
Quid ergo impedit, quin ab ipfis fumamus exemplum, at quomodo illi, quifalſa
inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos, qui verum invenimus poſteris meliora
tradamus. Or dunque, fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi, che talor
dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri, ed a’Dottori medelimidi
Chieſa Santa, ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in
veſtigar la natura delle coſe; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici.
Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun
paragone; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad
alcuno, altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli
alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno, che all'altrui vita ſeguir ne poſſa:
i Medici per lo contrario, con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare, non di
naſconder ſolamente altrui le verità naturali,non di ficcar carote al baſſo
vulgo ſolamente ſi ſtudiano, ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro
aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto
di crudeliſſima mente veggiamo. E pure i mediciduri, e oſtinati dietro al lor
Galieno le veſtigie di lui, nõ già la verità,vā ricercă do; e come ſaggiamente
notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet
qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am,. 1
maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono; e mi ricorda
a tal propoſito, che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa
il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene
acquoſe in un cane da lui aperto; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio
Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer
eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno )
e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato, c adattandoſi gli occhiali al
naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra: ne era inai egli
per rifi pare, ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente, e in vo ce piena di
carità, e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato, ſe non
valere ſtar su le difeſe, mu eſſer pienamente pagodi ciò, che gliocchi, e le
man pro pie le facevan chiaramente vedere. O ſtrana, o incredi bil pertinacia
de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi, e ſordi, e tradir ſe medeſimi,
ei malati, che ponen do giù la dura, e pertinace loro oſtinazione ricrederſi
de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità,
e'lnatural conoſcimento, e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo,
Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una, a due, a tre: e l'altrefanno
Timidetteatt errandol'occhio, e'l muſo; E ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete, e lo perchè non ſanno Ma
chczben ſo lo, che per la più parte ciò fanno coſto ro, non peraltro, ſe non ſe
ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa, e malagevolc briga
d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa, ed a’lor m.cítri non cono ſciuta
verità; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio,
quella, che certamentealtro non è, che dapocaggined'intelletto groſſo, e tondo;
e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi
d'aſtio, c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per loro ſi poſſa alla
gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi
argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio, forte lagnádoſi
Marziale col ſuo Regolo così canta: Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur
Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores
Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i
veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono, ed Ippocrate, e Diocle, e Plistonico,
e Praſlagora, ed Erofilo, e Filotimo, e Cri fippo, ed Eraſiſtrato, ed
Aſclepiade, per tacer d'altri, es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così
anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l
Valentino, c'l Paracelſo, e'l Quercetano,e l'Elmonte, e'l Villis, e'l Silvio, e
tant'altri avvedutiffimi medici moderni. Non è giàtale crederemio Galienifti,
non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno; (gannatevi pure una volta, e ſe
non altrui, credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel, che n’abbiam di ſopra
rapportato, egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe
medeſimo narra, che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro, i
qualidaIppocrate, e da Praffagora, o da chiunque altro fi foſſe predevano il
nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore: ήρετο πνα
των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους
εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες, η όλως από πνος άνδρας, εκ
λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο, ίνα μάλιση των πα hasūv in
aivoso: ma che? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a
manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che
fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti, che il maeſtro della ſua
fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa? conciosſiecofa chèſecconc
una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ
ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ. λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα, τα δε
κακώς κρίναντα, τα δε αμελί segov ypay ar to,cioè: egli è malagevol molto, o
pure impoſſibile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non
s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando,
e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì
Galieno, il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun
traſan darſi, o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più, che a
tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti, i quali lodovrebbon
prontamente ſeguire, ſe non mai per altro, almeno per darne a divedere, ch'elli
veramente há bo in quel pregio, ed in quella ſtima, che tutto dì millan tano,
il lormaeſtro, il lor principe Galieno; altrimente vero dirà Paganino
Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in
queſte parole, Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt, atque
contemnunt. Tanto dice o Signoriilſaggio, e ben conſigliato rino vatore della
vera filoſofia, e medicina, e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior
lieva più oltre proce derebbe, s'egli non avviſaffe, che il rimanente ben pote
te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle
divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo TELESIO ſotto l'effigie della
Verità giuſtamente (culſe Móva pod pina, cioè a dire Sola coſtei a me amica; e
con quelle parole, che replicar così ſovente il Paracelſo folea: Alterius non
fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio, coſa,
che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e
pur ella è certa: ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani,
cioè, che poco men, che tutti i più celebri, e più ſtimati parteggianti di
Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi
miſentimenti, e quaſi tutti tanto nel filoſofare, quanto al fatto del medicare
foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni
liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa, e'l contrario tutto
con fatti adoperando, di ciò,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono. E
percominciar dalle Spagne, acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche
ordine ſi proceda, Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo
inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del
ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle
differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire: Eſſer egli da credere,
che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami
nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri;
ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo, perchè
dalla verità non venghiamo a dilungarne; e quindi a poco paſſando a di ſaminar
le ſue dottrine, il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente
egli pregiandoſi, alla fine con chiude: quæ animadverſiones liberum animum
oftendunt,com uni veritati vacantem. Nequi rapporterò lo altre ſue parole
intorno al mede fimno ſentimento, che troppo lungo ne verrebbe il mio di.
ſcorſo; ma non laſcerò lo già di dire, come forte per lui ſi ripigli, l'haver
Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì
folle opinione, unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta
cerò, come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi
eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male, contro luiprorompa
in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis
faceret? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio
séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare? cgli avvedutiffimo
ne'luoilentimenti, non pure il ſuo maeſtro Galieno, e'l ſuo divino Ippocrate
nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona, fi come nelpurgare,
e nel cavar ſangue, quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue
forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi; ma in un particolar luo
libbri M cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe
contrarj, e diſcordi, ch’in niun modo, ſecondo lui, difender mai, o riconciar
baſtantemente fi poſſono; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare
quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo
degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati, e per
altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato, il Mena, il Segarra,
il Peramati, il Pereira, e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri
Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo
profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe; la qualcoſa così egli
faggiamente proteſtā do, dice, che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co
ſe, ch'e' rapporta, alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe
inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun
modo: quàm(ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes,sed
rationum momenta conſtet preponderare, indeque, vetus verbum: Amicus Plato, fed
magis amica veritas, oy tum babuiſe. E per far motto intorno a sì fatta maniera,
ancor de Medici di Valenza, i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar
ſogliono ſtrettamente confederati, che anzi a ſommo fallo li recherebbon, che
no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine. Pure il Pereda
fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di
pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli
antichi maeſtri, così dicendo; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ
falf et barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum
auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe
ſue chioſc, ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta
ſtra da, non ne torce ancor'egli, e non una, o due, ma più, e più fiate? certo,
che sì; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero
in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio,
fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14, ut 1 na, ut
multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth. vo. lunt. Or ecco, come da
Galieno ribellando il ſuo giura to campione, e lotto le bandiere del barbaro, e
miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta, e cerca, di mandare a
terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu
quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce, cotanto replicata
da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala,soy eli cw, ws dignton, φλέβα
τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς, αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί
σήψ « χυμούς, όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας, ή τα τ δυνά pescos pead montées: Egli
è coſa falutevoliſſima, ficome io hogià detto, ilcavarſangue, non folo nelle
finoche, ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate,
fol, che l'età, o be forzeno'l vietino. E comechè li forzi egli di ceſſare la
fellonia, con dir, che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella
terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando: queſto però
è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della
Crusca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo, in modotale, Che non
l'avria Demoſtene difeſo; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il
maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno, il che affai monta in
faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra,che molto fedel ſia di Galieno il
Pereda, colà ove dice: Mul ti fequuti Galenum lib.VI.derat. vict. in morb.
acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium, d hemorrhoidibus, autalia
plethoricaaffectione orto,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum
nobis videtur,immo falfum, quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do
funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer
filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il
Pereda, favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno
ſpiegato; quem locūzignofcant mihi ejus manes, Galenusnon recte explicuit.
Stefano Roderigo da Caſtello, Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma
ſcuola di Piſa, nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia
d'effer medico, e filoſofante libe ro, dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile,
che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare, forte ſgridando co loro,
che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno, e farti ſervi d'altrui, così
favella: fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit? Proh dolor, ingewa
phi lofophia ſervos parit: ed altrove: ego vero quid antiquiores fenferint parü
ſollicitus, &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi
qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una
fiata Galieno negligente, duro, oſtinato, caparbio, protcryo, e catti vo
filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel
menzionato volume, che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina.
Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce, quante volte, e quante
all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi, o non bada, o non cura, o talora lc
fpregia? Noil dic'egli una volta: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina; ed al
tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate
có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi
Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate, come colui, che non
intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle
malactie: eccone le ſue parole: Hippocrates elio modo, et forfan clariori
caufas debilitatis nobis propo fuit, quamvis Galenus illumfine ullo fundamento
repreben dere aggrediatur. Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne
tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc,
affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del
medico della Regal caſa Gaſpar Bravo, valoroſo, e forte cam pione della
doctrina diGalieno: e fono le ſeguenti: liens Non eft conformatum à natura, ut
fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore, quod Galenus, et reliqui
dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura
conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina in infantis anatomes non potuit
circulationem fanguinis, cu motum percipere. E in priina, di Galieno medeſimo
avea già detto:fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in pueris, non
ftandum ejus doctrine. Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà
piena credenza, fi come all'aggirarli del ſangue, ed alle vene latree, e ad al
tri molci diviſi moderni; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice:
quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat, quod nova, ab illo noviter dicta,
quia in naturali busnon tam quis dixit, quam quid dixit examinandun. O faggia
veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo, degna d'un
vero medico, degna d'uns vero, ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di Galieno
! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella di
Valenza in fuori, la qual ſola, eco ſtantemente di non dipartirſi giammai in
coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto? Coſtoro certamen te han
ſeguito ſempre, cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri; ma
in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi, non ſi può egli
bastantemente narrare. Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta
Andrea Santacroce, il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove
coluidice, che ne’troppo fred di, o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun
partito cavar ſangue, avvegnachè grave, e di riſchio ſia la malattia,e
l'infermo freſco, e giovine, c ben’atante della perſonas foggiugne inanifeſtamente
poi: certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo, &in ifta tam calida
Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit fanguinem? quid mira
quod multi interierint, ut dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum aberrent
multi, ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia? Malaſciādoci omai
addietro le Spagne,valichiamo pu., rca ragionar della Frácia, nella quale
avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano tutt'altri
Chimiciperſeguitati, e banditi, non fù ella poi così fal dase coſtante, che non
abbandonate talvolta, ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo tamente non
rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate, e di Galie no; imperciocchè da’ſentimenti di
coſtoro, quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare, e d'alcune altre
core di lieva alla medicina appartenenti, tanto, e si fattamen te fi dipartono,
e s'allontanano, che più non farebbero p avventura i medeſimi liberi, o vaghi
mcdicanti; il che pienamente ſi può per ciaſcun comprenderedall'opere de più
famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è da logorar punto di tempo in
far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà,
con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre
in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran
fatto da prender cura di porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi
moftraſſe ſempremai fido amatore, e difenſor della verità,le cuilo di di
celebrare, ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima
penna; oltremodo commendan do altresì Galieno, perciocchè ancor'egli per amor
della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate;
eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte. E oltre
a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio
ad Ippocrate, ARISTOTELE, e Galieno faccia contraſto; palesí do ſenza riſpetto,
quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli, ſpezialmente colà,
ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan,
do dell'amaro ſapore, e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan
conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma
non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio, il quale, comeche foſſe
motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole:
fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit, Ferneliime dicina;
namque fi totam illius inftitutionem, omniaque dig mata diligenter
animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria, ut prope fint
nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro
mila, 1 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della medicina eſtimar fi; perchè
credendolo proverbiare il Maſſaria, il vennes anzi a commendare, che nò;
imperciocchè, fe ad altro, ch’a ricercar nuove coſe, e per alcun'altro non mai
prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto, e'l penſier rivolto, per certo,
che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno imitatore, anzi einolo
d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non riguardò punto a quelle
parole, le qualiil Fernelio,antiveggendo,che delle ſue novità ſareb be per
alcun da eſſer tacciato,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte;
la dove egli con sì efficaci, e convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa
facondia, la fua cauſa difende, che più non farebber per avventura, o'l
fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per eſſere
ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo quell'ultime
ſue parole, colle quali maravigliando egli de famoſi trovati dell'età fua, così
al tamente favella:nihilvere docto illifeculo debet hæc invi dere. Dicendi
ratio, fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ genus omne
excolitur:m:ufici, geometra, fabri, pictores, architecti,fculptores,aliiquc
artifices innu merificmentis aciem extulerunt, ut artes quique ſuas pre claris,
magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore
celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit
temporum ex curfio, fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã,
velingenium, vel induſtria penetraverat. Quindi ſieguo egli a raccontar delle
bombarde, delle ſtampe, delle bof fole da navigare, e d'altri maraviglioſi
ritrovati de'tempi addietro; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a
vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio
com menderebbe la noſtra età, fe vedeſſe a' dì noftri di nuove, e più
maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli
ingegnoſi moderni, o le carrette a vela, o le trombe parlanti, o le lanterne
magiche, o i teleſcopj, oimicro ſcopi, o le tante, e tante, e sì
maraviglioſeforti d'oriuo J ligo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in
opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o
le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite
telc: o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi
gettino le Cittadelle, ultimo rifugio de’vinti, et ultimo ſtento de’vincitori:
e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze, traendo
argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi
della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare. E come egli au rebbe
aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti, ed altre fille non
mai più vedute Itelle, ed altri, ed aleri movimenti, oltre a quegli già per
l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto dell'
Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre, e degli ſtrumenti del vuoto,
in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria? Eche de’nuovi, e
maraviglioſi uſi della calamita? e che del trasfonderli del ſangue e di
cotant'altre prlove, che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età noftra.
Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe, e con onta pur degli
inutili e pecoroni parreggianti: fi omnem laborem pofteri collocaf-, fent, ut
eas folum artes, diſciplinas exædificarent, qua rum fundamenta priores jecerant,
nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum mentem non
venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis vigiliis excitafent:
nova ingeniorum lumina minime lucefcerent. Ma e'l Fernclio, e tutt'altri autori
Franceſchi prima di lui, quanto al filoſofar liberamente poſſon ceder tutti la
maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore nell’Academia di Mompelieri;
il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de gravioltraggj, che per opera
d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi ſavi patiti, haven do colui
si fittamente i lor ſentimenti inviluppati, e {tra yolri, che s'eglino pur ci
ritornaſſero, non più, comopro pi lor parti ravviſur certamente gli potrebbero:
indico 4 1 1 4 silog. sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit, ut
quum maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent,in iis nullo
refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi
perſuadens, quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero,
e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli
altrui pareri,manifeſtamente proteſta: avve. gnachè ſian quelli pure diGalieno
medeſimo, dicuiegli così dice. Hec dum animadverto,non poffum non illius quo
que dicta exactiusperpendere, de pleriſque dubitare: ut diligentiore facta
inquifitione veritastandem (abfit invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia
libertà, dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità,
che ol tremodo ſe ne ritragge, e per l'autorità de'letterati più prodi, ed in
iſcienze più valoroſi, che ſempre glorioſamé te l'han ſeguita; de'quali egli fa
un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo
Gugliel mo Rondelezj, e ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo
Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa
coſtan ża, anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili
ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi. Perchè un
diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione, che oggidi ancora vien
da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e
valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa, la gran forza ſpiegando della
verità, dice, quella ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta
condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza: e da quella ſola ani cora
eſſer la Criſtiana Religione introdotta, e ſeminata in Europa: e cô la verità
medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi
armato ARISTOTELE; e nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato CICERONE.
E fu opera anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro,
e opporſi Agoſtino a Cipriano; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di
quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N
gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida, che più le viete anticaglie
degli ſtolidi maeſtri, chela nuova, e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano
così ſoggiugne. Et paganorum quorundam (cioè a dire d'Ippocrate, e di Galieno )
memoriam ſuperſtitiosè coletis? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis, ut à
falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere
judicetis? Ma non comporta il tempo, che più avanti lo ne rapporti, comeche per
tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno: ed a
cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà. Di tanta, e sì valevol forza fur
le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri, cioè del Rondelezine
del Giuberti, che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri,
da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben
filoſofare è cam. peggiata. Ne con più ardente, e con più vigoroſo ſtile altra
ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della
Chimica, e del Quercetano, quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri: da cui
ſon ſempre uſci ti, ed eſcon tuttavia valorofi germogli. Che più? egli è táto
non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli
ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri, macoloro, i quali la liber tà
in altrui ſommamente riprendono, come il Silvio, l'Ol Jerio, il Doreto, eiduo
Riolani, lor fa meſtieri, ch'a ' giurati maeſtri, o di naſcoſto ſi ſottraggano,
o manifeſta mente ribellino. Anzi (chi il crederebbe !) anche colui, ch’a
difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi, voi m’intendete o
Signori, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo, udite come pur ebbe a dire:
Ego enim hactenus is fui,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa prioribus
ſeculisincognita, et diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in apertam
lucem profero. Mala Lamagna, quantunque foſſe ſtata il Teatro,ovej con
Paracelſo da prima, e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più
oſtinati difenſori degli antichi maeſtri: es quan Del Sig.Lionardodi Capoa. 99
quantunque ſurti vi foſſero, ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor
Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio, il Platero, il Cratone, ed altri
acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti: nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de
France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più
liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la, come colui, che in
trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi
maeſtri, e Taddeo Duni, il quale, tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo
ſuo maeſtro Galieno, un libro partitamente compo ſe, ove nel procmio così
apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, et fcriptor antiquus, et illuftris.,
vene randus: veritas tamen, et antiquior, et illuftrior, dve. neranda magis.. E
che direm noi di Geremia Triverio,di Felice Plateri, di Corrado Geſncro, di
Martin Rollando, e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua
le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre una volta dice con
efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro,andar Galieno follemente errato nel
filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia: e che de' ſuoi falli eredierano
rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del
lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata, ut (per dirla colle ſue propie
parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras, quain inveteratam hanc
opinionem àpuero con ceptam, ipfis è mente eripias. Ma quel che maggiormente
recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo,
eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata
congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri, Tomaſo Era fto, Giovan
Cratone, Gaſparre Ofmanno, nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero
ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò,
che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo: l'un
de'quali, che fù Daniello Orſtio, così pro verbiando il motteggia: ad Hoffmanni
modum, qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al
tro, che è Riollano il figlio, ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo ferive:
Hoffmannusnimis liberè, et licentiosè caftigat omnes Medicos, utfolusſibiſapere
videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo, e
medico digran pregio, il quale coll' armi, dal medeſimo Galieno un tempo
adoperate, coraggioſaméte diféde la ſua ragione; e dopo d'aver acculato Galieno
de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di lui, e
degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio na. Si in his medicina partibus,
in quibus plus externi ſon Jus, experientia valet, quam judicium, et ratio,
tantū deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris
omnibus, quæ fola ratio, et ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft? E che
direbbe ora il Solenan dri, ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo, quanto G2
lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in
filoſofando dietro le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i
Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia,
quanto, ſecon do, ch'io mi creda, quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel
Sennerto;del quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà
meſtieri al preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente
apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona. Semper
novum (dice egli) Suſpectum fuit, antiquum vero lauda tum; fed an jure ſemper,
dubito; nam, quod nobis antiqui, olim novum fuit: ideoque non tempore, fed
rationibus opi niones affirmandæ funt, eæque veriſimehabende, quæ cum natura,
qua antiquiſſima eft', confentiunt. E poco avă ti: multa adhuc in natura
reſtant explicanda; et plurimas in ea ita obſcura ſunt, ut magni etiam
viripleraque vix de finire aufi fint. Ma non hà egliper mio avviſo animo me no
nobile, e generoſo del Sennerti, il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio
Lindeni intorno al giudicar li beramente, e fecondo ragione,la verità delle
coſe, ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri, e
memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno, e avviſando in quante
beſtemmie, cd empiezze foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente caduto
così eſclama: Quid eft abnegare Deum, fi hoc non eft? fi enim iſta non poteſt,
ne quidem Deus eſt? alla fine contro i parteggianti di lui ſtizzoſamente
prorompe: &hic eſt illes homo,cui non aſſurrexiſe grandenefas eft? cuique
contra dixiſſe mortale peccatum eft? E altra volta così del ſuo mae ftro
Galieno ragionando: Galenus (diſſe ) magnus eſt, et fuit, &erit; non tantus
tamen, quem patiar libertati med fibulam imponere in iis, qua meliori ratione,
atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo, e
libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio; intanto
che non laſciandoſi tra ſcinare,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti
del maeſtro, ritroſo, e reſtio, ſovente a quelli ricalcitra;e tra viando dagli
antichi ſentieri, per nuove, e non uſate vie s'argomenta talvolta, comechè poco
felicemente, d'ag giugnere alla verità. Priorum veſtigia (dice egli) omnia
premere, et eaděſemper inculcare ridiculū eft.E no guari ap preſſo: Pigri eft
ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis inventa, fiquidem mentis acrimoni:
nihilnon humanarum rerum ſubjicitur. Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona,
non è la medicina, o la filoſofia così ſtretta, così anguſta, e di sì poca
ſpazioſità, che di preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta
ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna altrui; ne così manifeſta, e
ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella
aveſſero avuto ventura di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante
ſperienze; e giugnendo primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano; veri
tas, fù ſentenza di lui, in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis
inde extrahi poſſit feculis. Énel mede fimo ſentimento fu certamente
ciaſcun'altro medico, fi loſofante di Ollanda; c Io ne potreiquì rapportare
infini te teſtimonianze, ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente
ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire
dell'ingegnoſo filoſofante, e medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio; il qual
veggens е doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo,anzicoſtret to, e vinto
a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non
l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la
ricevette, e intanto l'abbracciò, che conchiuſe alla fine doverſi quella in
diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto
dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi, e andarne a fondo;
perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina,
e in mi glior filo certamente ſi metterebbe. Sic contingit, oſſer vò egli,
concefo, ftatutoque ſanguinis circulatorio motu,in numera veteris doctrina
fiatuta inverti; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere, et fine certa
methodo, et doétrina omnino confuſe inſtituitur, addiſcitur; quam pofitioni bus
cashenatim cohærentibus, &certo ordine inſtructis ſia biliri decer. Ma che
direm poi del medicar della Lamagna, il quale, da queldella Francia poco
certamente s'allontana? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de Franceſchidi ſegnar
ſi ritengo no; e intanto l'abborriſcono, e ne ſon ritrofi, che deter
minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli, e ſconcj, e ſe non
altro alla per fine menomandone gli ſpiriti, raccorciarne miſerabilmente la
vita. No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i Tedeſchi ſien
filoſofi, emedicidabbene, e amatori della verità, no appiccandoſi oſtinati, e
provani a Setta niuna; ed egli ſiè ben manifeſto a ciaſcuno, non più fortemente
altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito, e ricreduto più fiate
de'ſuoi errori Galieno. Ma non men libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta
gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di
Galieno, o d'altri antichi medici, ſenza in prima lungamente abburattargli, e
porgli allo ſquitti no delle ſperienze, e delle ragioni. E ciò agevolmente
potrà comprendere chiunque prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci
tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo, o di Giubetto, o di
quelGiovanni, che ſopra tutti manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti
in quel li bro mandato fuora da lui, ſotto nome di Roſa Anglicana; e da
cotant'altri antichi Inghileſi, a' quali, comeduchi,e maeſtri del filoſofare, e
dell'opere di medicina, piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri
nelle loro ſcuo le ſeguitare. E più allor crebbe, e avanzoſſi nell'Inghil terra
la libertà del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più
preſſo a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le
lungamente ſepolte greche, elatine lettere; perciocchè allorcertamente con
maggior ſenno, e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar
vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del
Primeroſio, dell'Igmoro, e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà
delloſcrivere nella medicina, che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non
mi terrò di ſommamente commendar quelle famo ſe ſcuole,onde ſi moſſe da prima
l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento del ſangue, la qual sì forte, e
valo. roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio, e folle
Pariſano, che vergognato, e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello
per innanzi far ne più motto. Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde
Ar veo? ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette, e di nimiſtà, intanto
avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe,
che nelle ſue glorioſe. opere così par, che ſaggiamente ragioni: Io miſon forte
fovente meco medeſimo maravigliato di coloro, anzi tal volta hogli preſo a
gabbo, i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'ARISTOTELE, o di Galieno, o
d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione, e compimento, che nulla
certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio. Non è la natura delle coſe
cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa prenderſi,
ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla. Ella ha i fuoi ſegreti na
ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento
Secondo la guida di lei medeſima: e ciò, che in alcune coſe confu ſamente, e
inviluppatamente n'accenna, altrove poi reſa. ne fedeliſſima interpetre, più
diſtintamente, e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza dubbio mal potrà
giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo, o alme ftier delle
parti del corpo umano, chiunque in prima non n'abbia ben preſo argomento da
ciaſcun ' altro bruto ani male, e'l ſito diligentemente, e la fabbrica,
eicongiunti vaſi, e altri accidenti di quelli, e delle lor parti conoſciu to, e
l'uſo loro per pruova ſaputo. Et putabimus, dirolla pure colle ſue propie
parole, nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum nobis accedere; verum
omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam fuiſe? Ignavia
profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt. Ma che non di ce egli, e quali
ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi ſentimenti, o nella
famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra, o nel proemio del libro
della generazion deglianimali? Pudeat, udite, come all'alta impreſa del
liberamente filoſofare ne ſtuzzichi, e ne ſpro ni il magnanimo amator della
verità: pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo, tam.admirabili,
promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere; incerta indè
problemata videre; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas nectere.
Natura ipſa adeunda eft; et ſemita quă nobis monſtrat infiftendum. Ma dalle
nazioni ſtraniere, paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima Italia,
pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze; la qual certamente,
intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili, e i Dini,
ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi, e i Platearj, e i
Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado, e gli
Arduini, e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli, e cento, c
millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine: hebbe anche Aleſſandro
de Benedetti, e Matteo Curzio, e Gio van Manardi, e Giovan Battiſta Montani, e
Antonio Mu fa Brafavolo, c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali
più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine d'Ippocrate, e di
Galieno fominamente ſeguire. E pur veggiam talvolta effer coſtoro
manifeitamente, trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri, e in
mol te, emolte coſe, che a grado lor non furono, avvegna chè di non poca
conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare. Ne reco Io già al preſente per
teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer
curiale,ne Ercole di Saſſonia,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli
Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri, e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi
commendati ne’loro tempi, c pregiati allai. Solamente ricorderò le glorie del
famo fiflimo Giovanni Argenterio, e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci, e
imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi
maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina, ſenza appiccarſi
molto tenacemente, ad Ippocrate, o a Galicno,comechè Ippo cratici, e Galieniſti
eglino li foſſero. Ma cometutt'altri, e in dottrina, cin chiarezza di fama
avanza di gran lun ga queltanto valoroſo, ed eccellente ſcrittore Girolamo
Cardano, così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella
gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno, ſolamente
s'affa. tica, e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue
opere, ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno,
prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela, e manifeſtamente
biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare, e del ſuo ſcrivere, e del
porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere; infra le quali non mi par da dover
tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri, di lui narra, dicendo eſſere ſtato
colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo, e ſtudio logorato
v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re. E
delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere
ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli
arzigogoli dello ſpecula re, ſcnza diſcender giammai all'operare, e ſenza far
prìo O va delle ſue mal credute dottrine: Caufa errorum in medi cina eft, quod
quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus, et c Princeps, et hodie
omnes medicine profeſores; ideo (avvertimento ben degno da dover far faldiffima
im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum, &dogmatum fcribuntfomnia.
Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti, e'nó mipare di dover
tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità
egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro; per
ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità, e la caſtro naggine de' teſtereccj,
émalandati parteggianti de' ſuci tempi,infra l'altre, cosi una volta
ſtizzoſamente gli pun ge, egli beffeggia. Demiror, dice egli, credulitatem, de
mentiam, et impietatem medicorum noftræ ætatis, quorum aliqui eo deveniunt, ut
cbliti omnis humanitatis, maline perdere homines, utferviant pertinaciæ, quam
revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner
l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle
dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero,
anzi l'anime loro medeſimc non curando, foventi fiate il diritto delle divi ne
leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis, grida egli pictoſamente
piagnendo, addicti ſunt, at nec immor talitatis aninorum,nec præceptorum
philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat. Machirccherammi amcinoria tutti
gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla
pertinacia, dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi
parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando:
Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da
tanto, che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci
volte si, e tanto operano colle loro trappole, che ne tolgono la voita aʼmedici
più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati, che sfregiando colle loro
opere il digniffimo nome di Criſtiano, e laſciata affatto la pietà, cla ! e la
carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto, tuttiaya: ri, e ambizioſi,ſi
veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare, e i poveri, e
miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o
affatto non curare, o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili
giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli. Del quale
graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno, da cui
eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari.
Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano, au tor fuitnofter Galenus,
qui nil ubique jactat, niſi proceres, atque Imperatores; quum tam juveniseffet,
ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a
ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri, i quali a perpetuar
la lor tirannia,agl’ingan ni, alle millanterie, alle beffe, all'aſtuzie, aile
giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano. E di tanti
misfatti, e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone
nobili, e d'alto affare, i quali per ciocche delle coſe del mondo, e della
natura poco, o nulla ſi conoſcono, non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo,
ficome certamente dovrebbono; anzi intanto giugne la lor biaſimevole
dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina, buoni
coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande, ſcienze alla medi cina
appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza
delle cure malagevoli, conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente, amor
di glo ria, che naſca dal ben operare, diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli, e
ardente diſiderio d'apparare; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta, aſpetto
grazioſo, viſo piacevole, adulazion di parole, abbondanza d'ammalati illuſtri,
e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità.
E ben gli parve, che meritevolment, coſtoro ne portaffer poi la debita
penitenza, omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem
premai ſparuti, c triſtınzuoli, e cagionevoli aſſai dell i perſona: diuturno
cruciatu protractorum per longumtempus morborum: per rapportarvi omai alcune
altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum,
debilitatum,quæ poft fanationem illis relinquuntur; avs vegnachè affatto non ſi
vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur
eſli,magl’innocentiloro figliuo li, e amici. Ma troppo piacevol coſa è a
ſentire ciò, che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra, i quali
baldanzoſi, e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto, e
abborrando, e malmenando la medicina, co (trignevano alla fine i cattivelli
infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano, a pagare a ingordiſino
prezzo i rimedj, e talora anche la morte; facendo eglino ancora forſe la lor
mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di
Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi. Egli comechè
fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano, e s'argomentaſſe a ſpada tratta
dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto, che ne pur la loro oſtinatiſſima
nimiſtà Ha diſciolto colei, ch'il tutto ſolve. Atque ut etiam nunc poſt cineres,
dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ
chara te; non però di meno, ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia, e
di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere, allorcertamente
poſto giù lo ſdegno, e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di
parteggiare, e far capo oſtinatamente alle ſette. Errata majorum, diſſe
generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala, diſi mulanda non funt, ne eo
ipfo pofteritati imponamus.E benſi valſe egli del ſuo avviſo, quádo
cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano: Tueris, atque profiteris nefandum
illud Hippocratis deliramentum, à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam
nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe
egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà, e ſtizzoſamé 1 te
bia. te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato IL REVERENDO ARISTOTELE; come
ſe graviſſimo fallo, c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus,dice
egli, carpendi longe de meliorem; in quella guiſa appunto, che quel nobile Ga
lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva, che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato
il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori; della qual coſa,
non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri, così
rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque
aliis omnibus, qui funt ingenio, em judicio aliquo prediti, ut poffint ea
reprehendere, quæ ma lè funtdieta, &meliora tradere: foli Argenteriohanc li
centiam adimis. Ma prima delCardano, e di Giulio Ceſare della Scala, per
ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide, e
nelfiloſofare, e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche, e
nella filoſofia, e nella medicina aſlai bene fcorto, ed cſercitato; perchè
meritonne d'eſſer'altamente pregiato, e onorato da quel generoſo favoreggiatore,
e intendente delle buone lette re Lione il Decimo, Sommo Pontefice. E fu
coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato
ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito, no curante l'altrui autorità in non
poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica:
coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia: volle in cc minciando un capo
diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna, più manifcftamente
proteſarlo, portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole, e di gran
lie va. Quoniam noſtri antiqui progenitores, dice egli,fcien tiarum inventores,
rationibus, experimentis, comperie runt ſcientias; veriphilofophantes ipfos
imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta
venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo, e pocta de Verona Girolamo FRACASTORO,
avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il
fuo maeſtro Galieno, e molto a capitale il teneſſe; non però dimeno, reſo
talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio,
d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli
ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo
ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo. E oltre a ciò nelmedicare,e
nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder
ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione, eins
altri luoghi; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide, per cui huom
certamente crede, lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto, e che
tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro. Nel qual poemacontro l'opinion
del ſuo Galieno va egli cantando, l'aria ſola di tutte coſe eller principio,
così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft,
&originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato:
Principio quæque in terris, quæque æthere in alto: Atque mari in magno natura
educit in auras, Cuncta quidem nec forte una, nec legibus iiſdem Proveniunt, sed
enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur:
Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve, locifve, quibus
violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant
tenebris, &opaco carcere noctis, Milletrahuntannos,fpatiofaque ſecula
poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum. Quindi con l'uſata ſua eloquenza
della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non
omnibus una Nafcendi eft ratio, facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus
babet, &primordia praſto. Rarius emergunt alii,
poft tempore longo Difficiles cauſas, et inextricabile fatum, Et feropotuere
altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo
Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galieno,
e iſeguaci di lui, prendendola oſtinatamente a favor d'ARISTOTELE, e
de'Peripateticiin LIZIO ciò, che da coloro dipartonſ i Galieniſti; ſenzachè
egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia
ſcoprir glorioſamente al mondo l'aggiramento del ſangue:tutto, che parer poſla
ciò, che moltoprima di lui aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε
όταν α'μαι καθαρά συγκερασθείσα, το τών ινών γένος, εκ της εαυτών διαφορή
τάξεως. αι διεσπάρησαν εις αίμα, να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους, και
μήτε δια θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι, μήτ' αυ πυκνοτέρον
δυσκίνητον ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua: E
maf. fimamente quando (la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella
ſpezie di fibre,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una
mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per
lo corpo,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo,
e difficile a ſcorrere, sì, che appena poipoteſſe andare, eritor nare per le
vene. Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e
raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere, non
avendo ri guardo a ſetta niuna, per aver eglicol Sarpi, e col Gali Jei un tempo
ufato; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi
propj diviſamenti manifeſta re, e ſpezialmente in quel libro cotanto per
ciaſcun com mendato, della Staticamedicina, comcchè il più delle vol te male
egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue
volgari ſconciamente me ſcolandole, fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti
lettori. Maciò da parte al preſente laſciando, non ſi può egli di leggier
narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i
parteggianti tutti medici, e filoſofi; e quantunque volte gli vien fatto loro
l'accocca, rapportão do in ſuo pro varie, E MOLTE AUTORITA D’ARISTOTELE, e di
Ga lieno; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti
Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani: e molti,
e molti errori ne'moder ni, e negli antichi ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e
non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così eglibiaſimando, e maladicendo
oltremodo la follia, ſicome e'dice, di pa recchj ſcuole dell'Europa, dice, che
in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar ſogliaſi a L’ORREVOLE AUTORITA
D’ARISTOTELE, d'Ippocrate, o di Galieno, che a' ſentimenti noſtri medefimi; E
PUR DICE EGLI ARISTOTELE MEDESIMO, Galieno di comun conſentimento più volte
affermare, ef ſer anzi alla ſperienza, e a' ſentimenti, che all'altrui auto
rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo ragionamento più luoghi di Galieno
egli rapporta, così alla per fine con chiude: Quare quum Galenus,neque meus
fueritaffinis, confanguineus, aut majorum meorum avunculus, quod ſciã, neque in
Sanctorum catalogo fit collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus, non
video cur omnes non poffint honorificè, fi fenfibusudverſetur, eum relinquere.
Neè da tralaſciare al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea
Mattioli, il qual comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno, purc in più luoghi,
della verità reſo ay veduto, dice manifeſtamente, eſſerſi colui in leggendo
Dioſcoride aggirato,e ſovente non averne parola inteſo; e una volta infra
l'altre non puotè ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare: videtur Galenus non
folum plurimum à Diofcoridis fententia,ac hiſtoria aberraſſe, fedetiam à ra
tione ipfa, acveritatelongè fane abeffe. E oltre a ciò dice eſſere ſtato
Galieno di poco ſenno,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer
egli ſtato nato a’ Poeti, c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver
preſtato fede, non altrimente, che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da
raffermar con tutti i ſacramen ti del mondo. Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini
in tutti que'ſuoi libri della metodica medicina, avvegnachè ancor egli di parte
Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i
metodicida’mordimenti del ſuo Galieno, e d'altri R.2 zionali medici; e
ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze
ATTALO famoſif troppo affezio fimo Timo medico metodico, dicendo, che per opera
di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico. Ma quanto poco capital
faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici il narrato Attalo, ſi può
agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno;la qual
coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse, volle nell'opere ſue laſciare ſciocca
mente regiſtrate. E forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento,
che egli ne racconta. Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente
digniſſimomaeſtro del grand’Arveo? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur
da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte? Quante,e quante fiate grave
mente il proverbia, e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza? Pure infra
cotanti biaſimi, e rimprocci, ch'Io per brevità tralaſcio, recheronne al
preſente uno, che val per cutti, lagnandoſi egli forte del tempo, ch'avendone
tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente
laſciate quelle d'ARISTOTELE, e diGalieno, como ſchiuma de libri, e viliſfimo
fondaccio di tutte le buone dottrine; eſſendo coloro in molte, e molte coſe
ſempre mai fallati; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione
intorno alla formazion della viſta. E intanto è vero ciò, che noi raccontiamo,
eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor
maeſtro Galieno ribellati, che maraviglia è a narrar come Aleſſandro Maſſaria, cotanto
oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno, pur’una fiata ponendolo in non
cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria, comechè cer caſſe poi a ſua
poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il
ſentimento del ſuo G2 lieno; e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua
ce del medeſimo, pure l'aveſſe fronteggiato, e ripigliato, 12, ove egli ragiona
delle cagioni del color glauco degli occhj; ed ove dice, che l'acque de'pozzi
non fiano,me appajano fredde l'eſtate più, che in altri tempi; percioc. che ſi
toccano colle mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde,
perocchè ſi toccano colle mani food P dc..
1 1 1 de. Ma quel, ch'è più da conſiderare ſi è,ch'egli in un'in? tero
libro riprova l'antico, e praticato uſo di medicar le ferite, appigliandoſi ad
un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto, non che adoperato.
Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei, ſe recar qui ora voleſsi ciò,
che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente
ne diviſino. Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo
Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da
greggia maggiormente ſdegnato, così proruppe: An omnia novit folus Galenus? an
nihilreliquit pofteris inveſtigandum? Quo merito infudit illi uni Deus (quod
alteri nulli) totam, perfectam, &integram medici nafcientiam,nihil nobis
reliquens? e dopò molte graviſſime parole, che egli apporta a queſto propoſito,
così alla fine conclude: Patet boc, quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt
additio, ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente
filoſofare in medi cina,ben da molte, e molte fcritture publicate in iftampa,
apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie, ond'è sì
abbondevole, ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte, e'l mar
circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti, ragio
nerò ſolamente della nobili: lima noftra Città, delle Sirene, e delle Muſe
amenillima ſtanza, che non pur nella gloria delle lettere, ma in ogni altra a
niuna delle più celebri, cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda. E
laſciā do di favellar del Belli, del Bozzayotra, del Tucca, e d' altri, e
d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna:
come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger
le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio; al cui ſottile in gegno,
ed avveduto giudicio,non miga, come altri per av vétura coftumano,baltādo il
copiare, e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine; ma volendo egli diſaminare,
e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e
avveduto, e giuſto Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare; il qual non a tutti
pienamente dà fede,maaltri approva, al tri traſanda, altri manifeſtamente
rifiuta, ficome appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore. Su
mus omnes in arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut
pedariiftatim pedibus in aliorum fententiam ire debe mus, fed ut prudentes
Senatores viderequid conveniat; at que ita ingenue proferrede rebus, quod
rationi confonum ar bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo, ed eccellente
giudicio dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da
queſte parole di lui ravviſarſi. Non tam Servili, dice eglifimus, animo, ut
omnia veterumplacita, oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur, vel tam ab
jecto, ut pofteris omnem, meliora excogitandi occafionem prareptam, ac præciſam
effe arbitremur; quafi vero non idő nuncſit, quod olim Cælum, eadem terra, idēgenerandimo
dus: eadem denique, et facilior etiam, quam aliis fueritdin cendi,
inveniendique ratio. Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con
filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti
d'Ippocrate, o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della
ribaldaglia del volgo, con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero, facendo
ſempremai veduta di abbracciar, e di ri tener tenacemente tutto ciò, che
inſegnato viene per Ip pocrate, c per Galieno. Infra'quali Filippo Ingrafiagavi
do oltremodo, e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe
ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da
alcun degli antichi medici ravviſate; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc
d'Ippocrate, ne di Galieno punto curando, di purgare cziandio nelvigor delle
malattie. Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti
Bernardi no Longo, Paolo Monaco, e Giovanni Antonio Piſani: un diſcepolo
de'quali (1) in una apologia in difeſa diſe, e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle,
che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non
folum con P 2 (1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra
recentiores medicos, et Philofophos, ſed etiam contra Gao lenum ipfum,
&Platonem, alioſque illuſtresfcriptores dice re, fi quando ratio dictaverit.
Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon
giovanni, e Latino Tancredi, huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte
lettere, e di molto giudicio, e gran difenſore della dottrina del Telefio.
S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani, e Mario Zuccari, il qual
co sì forte, e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè
intorno alla malattia d'Erofonte: ed altrove sì ardicamente, che nulla più, e
come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani,
intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai
le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur
veduto Giovan Battiſta Ma fulli, Antonio Santorelli, e Girolamo Fortunato, il
qual tutto ciò, che nell'opere d'Ippocrate, e di Galien fi riſer ba, sì
fattamente per le maniavci, che non v'era forſe parola, di cui improviſo
domandarone non gli veniſſe to ito a memoria; e nondimeno tanto, e sì fovente
ove gli pareva, cheragione il richiedeſſe, coſtumava egli a rim beccar
l'antiche, e comuni opinioni, che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia,
e crepacuiore: e ſofina, e cavil Joſo ſempre chiamavanlo. Ma ben comprendelí
l'animo fuo libero, dal libro, ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali,
ed in quello ancora de ſenſi,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò
fuora. E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio
del Riccio, huomo veramente per vivezza d'ingegno, e per dabbenagginc d'animo,
tenuto fommamente caro dalla Città tutta. Ma perchè addietro laſcio ora Io
Paolo Emilio Ferrilli della nuova, e della vecchia medicina parimente inteſo, e
di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc?il qual da' fuoi lunghi viaggi,
e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla
patria riportò, che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli
ſpeziali 1 1 * corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio
ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio, che aveſſer mai le noſtre ſcuole, il
dottiſſimo Marco Aurelio Severino, il qual non ſolo, ſe miglior Chimico, o
medico, e ſe più va lorofo in fiſica, o in cirugia, e ' li foſſe. Egli
animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro: anzi oltre
affai più gittandoſi, in favellando, ed in iſcrivé docon filoſofica libertà
ripigliò Galieno, e gli altri anti chi, e nelle noſtre ſcuole tante fiare, e
tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di
tutti i ſolennillimi falli, che iGreci, egli Arabi, ei Latini lor ſeguaci nel
notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo
aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli, non avendo huom, che non ſappia, che
tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre, e valerſi d'una sóma
libertà nel filofofare, colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema
di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav. volgendo,
ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora, che ſaldi, et interi
i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto,
come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno,
in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il
quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate, cdiGalieno
s'allontani, avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi, agevolmente può
da ciaſcun ravviſarſi. Ed Io,per chè di più non mipermette il tempo, daronne al
preſente qualche breviſſimo ſaggio. E percominciar con qualche ordinato
diviſamento, manifeſta coſa è, che gli argome ti maggiori, de'quali fornir ſi
vuole la medicina, s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot fine
d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp
pocratici, e Galieniſti,a tre capi quali tutti, principalmen te fi riſtringano,
nella Dieta, nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf; Φαρμακευσης.
Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento Secondo 1
ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti, dicalo ir mia vece quel famoſo
Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala, (1 ) fuerunt, dice egli,quiprimis
tribusfaltem diebus, aut inedia, aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant,
pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant,quos
Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi
rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta
mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi
poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti
d'Ippocrate, e di Galieno; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un
de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo, Paolo Tucca avviſato,così nel la ſua
pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum, quod longediftat modus
dietandi Hippocratis, Galeni, et Avicenna, ab eo quem obſervamusdiebusnoftris.
Illi enim principes voluerunt in febrium principio craſſiusfore reficien dum:
in ftatu vero, aut nihil offerendum, aut tenuiſine dietandum. Nos vero quaſi
oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive, in principio autem alternative
cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di leggier crederſi quanto vie più da
Ippocrate, e Galicno in cibar gl'infermi ſianli i noftri medici dilungati, e
ciò fu cagione di quella famo fiffima difeſa, che ancora va per le mani
de’letterati, fatta a pro di Giacomo Bonaventura medico di Clemente VIII.
contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini
da Lecce. Ma non che nella quantità, e nel tempo co'due Greci maeſtri i
Napoletanimedicimanifeftamente conſentano, anzi nel modo ancora, e nella
qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono, di tutt'altrevivande nutrendo
gli in fermi, che diquelle, che da’lor venerandi maeſtri ne fuz rono in prima
ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora l'acque melate, e l'orzate, e
altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci commendati, certamente in lor
luogo i brodi di polli, e le peſte carnidelle galline nella noſtra Cit 1 (1) In
comment. in problemat. Ariftot. ye Città ſi coſtumano.L'orzata, dice una volta
Ippocrate (1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e
lodo coloro, i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι
των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas.
Ed altra volta dice, eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare, e perciò a'
febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui
medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni
tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno (2) oltremodo berteggia, c
proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no
poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i
Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi, anzigli ammaeſtramenti di Petronas,
che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire. Così è da dir, che le
brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè
quelle al parer d'Ippocrate, e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere,
e di ſtrignere, dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa,
e mezzanamente umoroſa,ne punto riſtri gnente, perchèqueſta, c non quelle a '
febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole. Ma che direi noi del vino, che
da’Napoletanimedici, non altrimente, che ſe toſſico foffe,a ' febbricitanti ſi
victa? e di Galieno fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta, e come egli ne
narra, di cal do, e ſecco temperamento; anziegli manifeſtamentene conſiglia, e
ne conforta, che inzuppandovi il pane ſi dia, mangiare a'febbricitanti, anche
talvolta nel comincia mento delribrezzo. Ne è già mio intendimento al preſente
di dar giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre, ch'io qui rap
porti; ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen, e piano il coſtumedel
cibar Napoletano; e che null'altro, che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar
fatica l'abbia in pri (1) lppocr. nel lib.i.della dieta (2) nel com. 1. fop. il
2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s. della dieta. (4) nel 1.lib. della
facoltà de'med.Jemplo in prima a'neghittoti Cittadiniportato, traſandandoſi co
sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate, e di Galieno, che malagevole
affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava.
Iinpercioc chè, licome il primo de'Greci maeſtri dice, (1 ) e l'altro il
conferma (2 ) eragione il richiede, dee il ſaggio,ed avve duto medico in prima
ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia,ed in ciò gli argomēti tutti del
ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a
certamente comprendere, ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato,
ciaſcun da per se baſtantemente, ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà
ravviſare. E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi
malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato, e nelle men
brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico, onde poi nel maggior
avanzo del male ne venga debole, e ſpoſato, e ſenza poterſi con ar gomenti
ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della
malattia maggiormen te ſcarſeggiando, poco, o nulla concedergliene. Intorno poi
alla Cirugia cgli è duro molto a credere, quanto da ſentimenti d'Ippocrite, e
di Galieno, il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come
quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi
cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te, anzidi tutt'altri medici del
ſuo tempo, o più antichi, i quali, ficome narra il Cardano:in febribusnon
folebant mit tere fanguinem,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il
ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli, ma eziandio
a'bambini di latte, e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto
il contrario di ce Ippocrate: Τα δ' οξέα πάθεα, φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί
γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw. Ma
negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male, e l'infermo
giovane fia,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti, e
molti luoghi Ga (1 ) ippocrate nit lib. 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10. (2
) Gal.nel Com. * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (1) in un fra
glialtri dicendo: si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη
θεoρoίημεν, ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του
λόγε μόνατα παιδια.. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia,
oſe pre Jente quella già,o pure in ſu'l cominciar fia,avědo ben prima le
forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena:So lamente da queſto
divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive.,
ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano, dicendo (2 ), che non ſi debba no
aprir le vene a' fanciulli, intin, che giungano all anno quattordiceſimo. E
altrove (3 ) anche dice, che ſe le forze di colui, che ammalerà di febbre per
putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno, toito come coinin cierà ella a
farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue: ſolo, che non abbia crudità nello
ſtomaco, e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte; perciocchè altrimenti
aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma
nifeſtamente ſoggiugno: che ſe l'infermo farà bambino, o non giunto ancora
all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da
tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno; le quali molto al no ſtro
propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò, ch’al falaffo richiedefi cosi
dice: (4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν, ει ακμάζει καλά την ηλικίαν
οκάμνων» ούτε γαρ παίς, ούτε γέ έων, φέρει την φλεβοτομίαν, ουδ ' αν μέγα
νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue
fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec
chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia, che loro
dea noja: E tralaſciando di rapportare al triluoghi, ove ſempre il medeſimo,
e'grida, e ripete, di rem ſolamente de'tempi, ch'egli giudica al ſalaiſo oppor
tuni: mentre che in Napoli, ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo
calde ſtagioni avere, cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti,
a' troppo.crcduli, e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer (1
) Gal.della maniera del curare col falafo. (2 ) aelmed.luogo (3 ) nel mes. (4)
nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per. 122 RagionamentoSecondo zi
fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno, e d'Ippocrate.
E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro, e
maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole, che oltremodo ſi debba dal medi.
co aver riguardo al temperamento dell'aria,ch'ella non ſia eſtremaméte calda, e
ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo;e ravviſa
egli, che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer
fuora del ſangue, irreparabilmente morirono. Così vuol Ga lieno ancora che
nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa,
che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano. E perciocchè egli ſtima
va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione, dopo tan to, e tanto
manifeſtarlaci, di nuovo con queſte parole la ci perfuade:(2 ) πτoσθήσω δε
ένεκα του μηδεν λείπειν, τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών, όταν η θερμος
ικανώς και ξηρος, ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ
αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma
acciochè nulla vi manchi, aggiugnerò quell'altra coſa, alla quale è di meſtieri
averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria, che ne circonda: e guardare s’ella fia
sformatamente calda, e fecca, intanto, che molto ne venga a ſvaporare, ed
sfalare il corpo; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè
graviſſima ſia la malattia, e l'huom per tofa, e robuſto. Ma no meno i
Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia
fie vole, o vizzi, graffa, o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno,
avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente, o molto poco
fangue è da trarre; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate. Ma egli
è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper
Ippocrate, e per Galieno, al ſalaſ ſo richieſte, alle quali o poco, o nulla mai
i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo
ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente,
come ne precedenti abbiam (1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. (2 ) nel
com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo manifeſtato, quanto i Napoletani
medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate, cda Galieno allontanarſi. Eglino
in priina molti, e molti medicamenti coſtumano, che da Ippocrate, e da Galieno
ne inen per nome conoſciuti già mai furono; ficome ſenza dubbio veruno son la
Callia, i Tamarindi, il Riobarbaro, la Siena, la Scialappa,ilMec ciocano la
Gottagomma, la China, la Salſa,ed altri aſſai, che per eſſer ben conoſciuti, e
per non recarvi noja al pre fence tralaſcio. Le compoſizioni poi deʼmedicamenti
nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più,o dagli Arabi tratte, o da gli
Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de
medicamenti puganti ſi è, che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte, ed
abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do,
ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo, in
ogni diſpoſizione di ſtagione, in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di
malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice, e
credula gente, che cosìvoglia Ippocrate, e che così co mandi Galieno;
imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con
gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare. La qual nuova coſtuma,
quanto da Ippocrate, quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò,
che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων
τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare
alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di
leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo, cosi
parimétedice: jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και
ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και
των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι, και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και
επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται
και τα μου απο φθίνει, τα δε λήγα, τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu,
weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due iSolſtizi; eſpezialmente
quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio; ma quel
maggiormente dell' Autunno. E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle
ſtelle,mafimamentedella Canicola; quindi altramon. sar dell'Artaro, e delle
Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi
giudicano: altre morte recan do, ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato
facendo paſſag gio. E Galieno in altro luogovuole, che anche a ' tempi troppo
caldi, o troppo freddipormente ſi debb.2; che lè'l temperamento della ſtagione,
o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è,
purgheremo sì bene, ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un, ne
l'altro il ci vietaffe. E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il
detto d'Ippocrate, che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole,
e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti. E parimente in un' altro luogo (2
) egli dice, che coloro, i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione
accolgono abbondanzas di non cotto umore, oche più dell'uſato averanno gonfio,
il ventre, e'l corpo tutto ingroſſato, non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole
altresì Galieno, che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi, che
moleſtan loro lo ſtomaco, non ſi debban ne ſegnare ne purgare: A niun di
coſtoro, ſono le ſue propie parole, e' fi fuole trar ſangue giammai, chenon
gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione,
nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe
fenza queſto ſincopizzanti pur fono: (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της
αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ '
έτη φλεβοτομίαν, έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε, και καρλς Tobrwv étaipuns
ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli
infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi, e diſliparſi; eſſendo ella
ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia: ma
però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole.
Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib. del metod. (2 )nelmetod,allib.9.(3) nel
met, al lib.12. 1 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel
corpo continuo ne s'ingenerano, non è di giovamento alcuno alla gente; anzi le
alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia, voleſſeſi
avvezza. re a purgarſi una, o due volte il meſe, oltre al manifeſto nocimento,
che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole, e peſſima uſanza. Ma
ſopratutto, quanto al purgar gli umori nelle malattie, i quali abbian dicocimi
to biſogno, da’ſentimenti d'Ippocrate, e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono
i noſtri medici; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a
divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino. Ne lo prenderom mi troppa
briga di dimoſtrar ciò con lunghe, e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi
ſolamente le parole d'Ippo crate, edi Galicno rapportare, acciocchè da quelle
per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa, quanto nella crudità degli
umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar
fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte, e nel principio di quellemalattie, che
có enfiamento cominciano. Ilmaeſtro di Galieno, e de' Ga lienifti, per quel
ch'eglino tutto dì dicano,fipare, che ne ſuoi Aforiſmi, ne’qualibrievemente,
quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita
egli mai aveſſe riſtringa, una cotal co? a con una general pro
poſizionenediffiniſce; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi,
anzi quindicome conſeguenza ſi cava; la qual coſa è sì chiara, e manifefta, che
di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me
deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto, oftinatiſſimo
diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque (1) così dice; ab hoc aphoriſmo
cæteri omnes, qui huc fpe ctant, tanquam corollaria deducti ſunt: ed oltre a
ciò ſog giugne: ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe
expreffit: quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù
chiamato una volta, cosi (2) Le materie cotte purgare, e muover fi debbono;
mas, non (1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib. 1. -non
già le crude; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor, che turgidefono,malepiù
volte turgide non ſono: Témava Pago μακεύειν, και κινέαν, μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν,
ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy: Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi
cô. fiderare, che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti, che
diſiderar ferventisſimamente, e con impazien za; ed avvegnachè non men
dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia, tuttavia più
acconciamente agli animali ella conviene, ſecondo il ſentimento di Galieno,il
qual forſe da ARISTOTELE (1 ) appreſo l'avea. E diceſi di quegli animali,che
tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio, e come diſſe Virgilio
In furias, ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma
no, i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente, e con impeto, diparte in
parte ſi muovono, non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato. Ma noi,
avve. gnachè diſcorrimento, o foga più ſaggiamente da dir ſia, o enfiamento, o
pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza, o Turgidezza: dal gonfiare, o
ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel
latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate, e di Galieno traportando,preſero la voce
turgere: onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia, ad orecchio
latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita:
gonfie, e turgide parimente chiamiamo, quelle materic, che a si fatto movimento
ſoggiacciono;ed in verità gli umori, che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano,
ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer
mafi per quell'altro (2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado
lepurgative medicine da uſar ſono: e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare: iv
Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι, και τούτο
πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato,
che folamente quegli ammalati da purgar fieno, ne' quali liu mate (1 ) nel
lib.o dell'iſtoria degli animali: (2 ) nel 1.degl' Aforiſmi.materia, onde il
mal s'ingenera, ben cotta, e digerita ſia, fe pur quella non turge, è che rade
volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai
ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in
ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto
ad Ippocrate, ſcar ſo altrove di parole, enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi
mo, e riſtretto, oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa
avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave
precetto avviſar ſi debba, ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e
di riſchio fia a travalicare. Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria
chioſando poi Galieno,oltremodo ciò ne impone, e ne accomanda: e sempre, che
egli di tal biſogna impren de a dire, toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme
nor me, che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano. Ed avendo
in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto; ne'mali oltremodo acutifon da
purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento; concioſiecofachè
allora l'indugiare è dannoſo affai(1) Papuaxetes, év toñosning οξέσιν, ήν οργα,
αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν, κακον Galieno però vuole, ed
eſpreſſamente n'impone, che an che in queſto caſo dell'enfiamento, il che molto
di rado 'avvenir fuole, vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare,
cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare, che nulla più: ne meno ove fia
enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento;
perchè aj tal propofito Galieno dife (1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν
νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων, τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή
τους λυπούνας,μήτε, ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την
κάθαρσιν όντG-, αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la
qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado, nel prin
cipio impiegheremo noi purgative medicine; concioffiecoſachè gli afflittivi
umori, nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno, (1 ) nel lib.di
que'che convien purgare.fieno, e potrebbe intervenire altresì, che ove eglino
fienosi fattamente ſtuzzicati, allor non foſelo infering a fojtener la
purgagione adatto. E più addietro, de' medelimi umo. ri favellando avendetto:
τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες, τε τέσι τους εν κινήσει, και φορά, και
ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν,
ούτε φαρμακεύειν, πζίν εφθή. ναι: τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν.
Αdunque con venevol coſa è, che cotali umuri ſtando in continuo moto, e
diſcorrimento, e fluffo, fi vuotino; ma que', che in qual che luogo del corpo
giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no, ne con purgativa medicina
damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti; imperocchè allora anche la natura
dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale, ficome
ne inſegna Galieno, prendeſitalora per lo primo aſfalimento, o quando da prima
comincia a chiocciar l'ammalato; altre volte anche inſino a’tre primi giorni; e
aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo,nel quale niuno affatto, o
troppo debi le, e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare. E'l gravamento, o
accreſcimento del male liè, quando manifeſtamente il cociinento, o pur ſegnia
ciù contrarj ſi ſcorgono; e dura finattanto, che alla dovuta perfezione il
cocimento ridu caſi; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie, e le
noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono. Ma il gó fiamento avviene, o toſto,
che alcuno ad ammalar comin cia, o non molto indiappreſſo, cioè nel primo, o
nel ſeco do giorno, ſicomc par, che in più d'un luogo avviſi Ga licno. Ma
ritornando al tempo delle purgagioni: ſo ben’In, non eſſer paruto ſaggio a
Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni,
anzi de' primi tre giorni: ma ſi ben dopo il quarto, a coloro, che patiſcono
ſcorrimento di ventre; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo:
Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica
menti, ma ficomediceapertamente l'aforiſmo(1) Negli acu. 11 111.1 (7)
L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e
nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la
coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in
fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè
fe alcun determinerà ſolamente nel principio, o non iſtabilirà alcuna delle
parti, rimarràſenza fallo ingan κato. πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς,
αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις, και εν
αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε, και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε
και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη, και πότετην πέψιν
αναμείναν. τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς, και μη
διορισάμε. ν ©·, εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento
d'Ippocrate, c di Galieno, di rado nel cominciamento delle acute malattie da
inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai, ma ſolamente,facendo di
meſtiere, nello ſce mo del male. E ben ſaggiamente troppo, ſecondo che ad huom
paja, in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più, e
più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc; imperocchè egli avviſava graviſ
ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire. Perchè altrove
favellando egli di que', che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che
Galieno nel comento vuol, ciic s'intenda anche, di que' tutt'altri mali,
chedagli umori procedono:dice, che per coſtoro nulla dal luogo offeſo
certamente ſi vuota, non mai cedé do alla forza del medicamento, ciò che ancora
è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe,
che ſane eſſendo, al inal contraſtano, per chè infievolitone il corpo,
agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto: ne potràricoverarſi più
mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως
επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου, και φλεγ μαίνοντG- έδεν
αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG-, τα δε αντί. χον% τω νεσήματα και
υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι ·
οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per
buona ventura dell' ammalato pur non R gliene liegue, non per tanto certiſſimi
danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro, certamente
gliene andrà alla lunga il male, e ſconvolgeraſli il giudi cio, che ſopra
quello da dar era; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate,e Galieno (1)
pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì, chi non iſcorge allai chiaro, che minorar
ſecon do Ippocrate, e Galieno non mai li puote la cruda mate ria, come
beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle
ininoranti, che lor dicono,medici. ne. Ma comechè in ciò grandiſſima arte,
emalizia ado perar ſogliano coloro, che ſon di contrario ſentimento, p coprire,
e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri; pur non fanno sì
fare, che da ciaſcun non li conoſca, e non ſi ſcopra la ragia, onde ne reſtin
poi vergognoſamente dinnentiti, e convinti; così ſciocche ſon le chioſe,
eicomenti, co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare, e travolgere
gli apportati Aforiſ mi, e con lor ciance far calandrini, non ſolo la volgare,
e cieca gente, Cheficrede ogni coſa, che l'è detto: ma col volgo ancora
que'letterati, che poco, o nulla a sì filtre coſe,avvegnachè digrandiſſima
conliderazione, ſo glion badare. E certamente non poſſo non maravigliarmi forte
della lor tracotanza: ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di
sìvenerandi maeſtri, ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano. Perciocchè
volendo coſto ro, che nella copia grande, nella malizia, e nella ſorti gliezza
degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo
della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male, o della grandezza
delle cagio ni, o del pericolo imminente, o per altre ragioni ſia das purgar
l'ammalato, tutto che la materia cruda lia, e non pur nel principio, ma
nell'aumento, e nel vigore delma le: o ciechi affatto, e diflennati; e pure
ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo,
perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto, ſe non (1) nel lib.4. della dies.
p.44. di malvagità, di traſcuraggine almeno, i lor maeſtri; poi chè in materia
di tanta conſiderazione, ne Ippocrate, nes Galieno di cotalicaſi han fatto
menzione alcuna, comes certamente doveano; ma anco, perchè, o non avviſano, o
fingono dinon avvederſi, che poco men, che ſempre; o una, o più delle coſe per
lor dette, ne'mali acuti ſi trova no. Laonde, ſe tale veramente, qual per loro
fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate, e diGalicno, aurebbon
elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di
rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te, o poco men, che ſempre nel principio
degli acuti ma li ſi debba purgare, e che nell'aumento, e nel vigore di ef fi
ciò anche ſi debba eſeguire. Ma pure per iſchermirli da cotal colpo
s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro
maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de, che qucl, ch'elli
intendono. Ne dovea in buona veri tà Ippocrate, ſe pure frenetico, e mentecatto
egli del tut to non era, in que'luoghi, ove del gonfiaincnto ſolamente fe
menzione, non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni, per le qualis’aveſſe
parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta. Che ſe
non è da dire, lui quivi averle per balordaggine dimenticate, masſimamente
negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli
logorò, perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe, biſogna di
neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui, cioè a
dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe, a purgar
s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche
in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam
dire, che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe
affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re, ch'egli
così traſcurato ſi foſſe, che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria,
fe ftato foſſe meſtieri, diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in
que'caſi'la pur R 2 gage ga, e quanto ſtrabocchevoldanno, e nocimento, traſan
dandola,per ſeguir ne foſſe al malato. Ma certamente no fu tale il ſuo
ſentimento, ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a
divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti, cosìdel paſſa
to, come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino, avvegnachè
del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo,dicédo:
Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis,
cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu. E
di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa
vella, e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo,così
delle purgagioni nel principio delle malattie, ebbe a dire. Et licet
Hippocrates dicat buc raro faciendum, nos rationibus adductismoti, crebrius id
face re poſſumus, debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro
Maſſaria ciò, che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe.
Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra
non defunt Manardus, &alii,ſidiis placet, Heroes, qui audent affeverare,
illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in
diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian
piano avan zata, che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera,
che piacevoli, e deboli, ne più, che una, o pur due volte: ora a gran dovizia
grandi,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte,come ſeinplici, da'noſtri Galie
niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta, o per tema, che n'abbiano
gl'infermi, o per altra cagione, alquan to più lievi, e deboli loro le
impongono, nondimeno, o con accreſcerne la quantità, o con meſcolarvi per entro
alero in ggior medicamento, o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono
maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio
degli ammala ti; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo; il qual ficome
di ſopra è detto, tante, e tante fiate manifeſtol loci: e Galicno medeſimamente,
il quale oltre a ciò av vifa, che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν
έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως, αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω
σώματι παρά φύσιν, διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών
αιτίων η φύσις, απεψία δ ' ες των χυμών, εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον •
πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν, 49' εξής κένωσαν την αγαθή
γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia, ſe cofa maiavvien, cheppura
ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura, ma ciò Farafficontro le
diſpoſizioni diquella; imperocchè,'quando la natura vien aggravata dalle
cagioni delle malattie, ma fon crudi gli umori, allora impoſſibil coſaè, che
alcuna eva cuazionefelicemente rieſca,concioffiecofachèfadi meſtieriche in
prima il cucimento, quindi lo fceveramento, e finalmente l'evacuazion ſi faccia,
perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la
qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru. dità,
ſemprealtresi nocevol ſarà, e darnofa l'evacnazione di si fatti umori: ώς τ' εα
ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε. ψίας εσιν αι σημάα, μοχθηρα δια παντός
έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos: E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge
quan to vadano errati, così coloro, che follemente immagina no non aver vietate
altrimenti quelle purgative medicine, cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate,
ne Galieno nella crudezza degli umori: comequegli altri ancora, che ofano
affermare, che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni,
che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine, che violenti
ſono nell'operare; il che però eſſer molto, e molto dal veroló tano chiaramente
ogn’huom vede; imperocchè per tacer del latte rappreſo, dicuicosì ſovente
Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è, che gli antichi ebbero contezza della
Mercorella (la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino, della
Fumaria, dello Goico, del Polipodio, dell'Agarico, il quale per Galicno
malamente venne ſti mato radice, comeche fungo egli veramente ſia, e d'al tre,
e 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice
a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo,
medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del
cocimento. Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera
di Temiſone, leggeriſſima medicina, ſe non che quando la materia ſarà al
cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva
ſolamen te fia, nondimeno, come la ſperienza, ne inſegna data in quantità
grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo, ed alPolipodio, Galien dice
chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano (1) E
quanto è a me, Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate, e Galieno aveſsero
dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere
appreſo; e perciò eſſer'avvenuto, che così ſtabilmente poſcia l'avel fer
ſempremai conſervato; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran
padre della filoſofia, e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella
Grecia recate; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito
in fuori, che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l
ſuperaſse giammai. Ma che Pittagora, foſse di tal ſentimento, egli li par
manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo, che della natura
dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico
introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del
commovimento ſuol riuſcir, ma non però ſempre giovevole ad huom, che da grave
neceſſità vi ſia tratto; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare,
cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono
guari pericololi, non ſono da ſtuzzicar con purgagioni; concioffiecoſachè la di
ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali: c
certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata, che generalmente ha i
termini della vita già ſta biliti, e qualunque animale ci naſce, con fatale, e
deter mina (1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. minato ſpazio ncmena egli i ſuoi
giorni: trattone fuora quelle paffioni, che di neceſſità avvengono; imperocchè
i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono, che ſol
yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo, oltre al
quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita. Lamede ſima
diſpoſizione adunque è data alle malattie, e ſe altri colle purgagioni contro
al fatal tempo ſconccralla, al lora di piccioli,grandi, e di pochi, molti
diverranno; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da
correggere, e rintuzzare, per quanto a ciaſcun veriì, ad huopo; ne il durevol
male con medicamenti irritar fi dee: Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ
αναγκαζο μένω χρήσιμον, άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον, το της
φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει
κινδύνες, ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων, όσον πνα τη
των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον
γίγνει χρόνος, του ο γένες ξύμ. παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον
έκαςον, τον βίον, φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς
καρχας εκάσων δύναμιν έχον et ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών, ου
βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα
νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις,
άμα εκ μικρών μεγάλα, και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο
παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ, όσον αν και τα αλή » αλ ' ου
φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον, Ma diſcédédo a qualche
particolarmalattia,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle
febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato,
quantunque ben fi pareſſe, che la materia per la ſoccorrenza uſcita, non foſſe
ella alla debita purgabaſtá te, o altro vi foffe da dover cacciar fuora
nell'ammalato; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone, eſſervi
ſtatialcuni, che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a
gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi. Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di
Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann maeſtramenti
di lui affatto traſcurando, a lor talento, e purgano, e ſegnano in ſomiglianti
caſi, nulla guardando a’riſchj, che, ſecondo egli avviſa, ſeguir ſovente ne pof
ſono. Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della
diffenteria)vieta in tutto il falaſſo, e le pur gagioni'; e pur coſtoro
arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano. Così
anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle
coſtole, vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle
coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja. Ma
cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente, che vaniſſime
fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta
ſolamente loro in tali avvenime ti, che col dolor vi ravviſin la febbre, che
come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc,e di chiunque ad Ip pocrate
crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole,
direbbe Proſpero Marziano per avventura. Ma dove laſciato avea lo il purgar le
dó ne levate appena del parto, e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati
apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare? E dove nelle lunghe
malattie, nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno, ne
fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i
manifefti divieti d'Ippocrate, e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli
ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi, o alle
ſtagioni dell'anno, e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione,
ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono? Troppo largo campo o Signori da
valicare aurei, s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a
capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia, che in tante coſe, e malli mamente
nel purgare, c nel trar ſangue dal loro Ippocra te, e Galieno i noſtri
Galieniſti partiti fi fiano: e che ezian dio que' che han riſtorata la lor
medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza, pure travalicando i lor diviſi
abbia no in ciò manifeſtamente fallato; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli
ammalati, e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di
rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi
veggono; come fe da quelli il lor ſalvamento, e non più toſto la lor morte
dependa. Perchè nelle malattie, e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore, e
accreſcimento di quelle, ove l'intermo maggiormente languiſca, per non
moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno, fi va gliono
di cotali medicine, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi
coloro contro lorvoglia i me dici menati; perchè altrimenti a color non
ſarebbon a grado. E quinci anche è, che alcuno de’moderni intro duttori di
nuovi ſiſtemidi medicina,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare:
non perchè egli veramente crcda, che ſien valevoli conſigli, da riſtorare
ammalati; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa, ed incallita
la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da
medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò, che detto è compré
der ſi puote, che purtroppo grandemente nel medicare, da Ippocrate, e daGalieno
i Napoletanimedici ſi diparto no, e s'allontanano; emolto più aſſai di quel,
che'l Paracelſo, e l'Elmonte ſteſſo, e altri moderni ſpargirici, o altri,
ch'elli fieno, per avventura ſi facciano. Mafi laſci ad altri la briga di ciò
conſiderare: baſti a noi il ſapere,co. me ancora da ciaſcun Galieniſta
Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò, che con parole da alcuni di loro
manifeſtamente ſi biaſima; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed
il loro Galieno, ove lor venga in talento: e che tutti igualmente abbandonando
l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri, alla ragion
ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo
a’moderni medi canti, e di mordere, e di lacerar tutto dìla loro lode vole
libertà, ne mai più per innanzicon uggia, e crepa mente > S cuore ſi ſtudjno
di contradiarla, e di metterla in fondo; poichè, come per addietro ſi è fatto
per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è
ab bracciata, e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri
Accademic, e Scuole dell'Italia, della Lamagna, della Francia, dell'Inghilterra,
della Svezia, della D2 nia, della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo
glorio famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri
tornerò pure a'piati,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E
quantunque fin'ora per me molte narrate ne ſieno, pur molte ancora, e quaſi
infinite a raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi
ragionato a baſtanza, e già il ſole comincia a gir ſotto, riſerberolle. alla
ſeguente aſſemblea. RA 139 j: Milli Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando
rammento quel tranquillo, e feliciſſimo ſecolo, che meritevolmente dell'oro per
ciaſcuno vien detto: tante a biaſi mar la preſente, e miſerevol noſtra età;
quaſi di forza ſon tratto. Non pure, perchè a quella la terra dall'aratro non
ancor tocca, tutto ciò, che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna
abbondantemente produceva; ed ora a romper zolle col Vomere, e col Raſtro, a
ſveller pru ni c ſtecchi anza, e ſuda, e talora anche in darno il Bi folco; ne
perchè allora, e nuvoli, e nebbie,e tempefte ', c turbini non intorbidavano,
ficome or fanno, i lucidi ſereni dell'aria; ne perchè l'eſecrabil fama
dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo: reſo ora ſcellerato, e crude le,
poichè fol vince l'oro, e regna l'oro; ne per tant'al tri privilegj, che
diquella s'annoverano, de'quali altro che un'intenſo deliderio, ch'il cuore
acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo; ma ſi bene perciocchè, e liti, e S
2 piati, econtefe, ed armi,eguerre non allignarono. No arruotava le zanne a
mordere il cinghiale; non digrigna va i denti il maſtino;non rabbuffava il
doſlo il Lionefra; l'erbe, e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue. Ma che è
ciò? l'huomo, l'huomo di tutt'altri animali duca, e ſigno re non fabbricò nave,
ch'apportaſſe guerra agli altrui li di, non forbì, non arruotòferro periſvenar
l'altrui petto: non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe, di corni, o di
bellicofi tamburi; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città. Ed
a'dinoftri, che più fi tenta, che più fi machina, ove più fi bada, fe non ſe a'
nuovi ordigni da guerra, perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica,
l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città, l'altra
ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne, ſi
combatte nelle Città, s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario
albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de;
va in ſomma il mondotutto in conteſe, e benchè tar dis pure è gionto agli
antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero, chele diſcordie abbian per
qualche tempo auuto fine, ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate
sbarrate. Ma quel, che pür troppo è da maravigliare, è ciò, che lo ne’paſſati
ragionamenti v'ho detto, e debbo nel preſente ſeguire; egli cono le tante, e
tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta, quefte non han
inai line; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate, pur altre aflai a
narrar ne rimangono; le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente, e darvia
diveder, che tutte quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale
perchè più chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi
paja delle ſette de'medici. E perchè fi comprenda, quanto queſt'arte fia ſempre
mai nemica naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar
ſolamente al cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi,
e ritorti ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi,
Non per ſaper, ma per contender chiari. Eper la verità delle loro ſtrane, e
ſtravolte opinioni da. to brigando romoreggiano, che poco men fanno per av
ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci
tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione
diftrahor, dper surbor (dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa
lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum
defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe
aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni, ne preſero anche in
preſto dalla brigante filoſofia, altri più inviluppati, e nodofi, da fare
ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo.
Perchè riſtucco, ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives, così (clamando
proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem, ácopiofifſimă
difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione,
et remilline formarum, de raritate, et denfitate departibus proportionalibus,
de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient ventilantes fua fomnia;
defertapugna cum morbis interea loci premen tibus, atque occidentibus. Ea res
fecunda, e infinita non aliterquam bydra quædam diutiſſimèremurata eft ingenia,
cum fructu aliis vacatura. Videre eft cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis,
nec minus fpinofas, nec minus inu tiles, quam Suiceticas: nec prolixitate, cu
moleftia cedentes. E Gregorio Giraldi huom di rara, e di ſquiſita letteratu ra,
così de’diſcordanti pareri,che a danno altruiportano, e mettono in campo i
medici, fe vagamente parole. Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi
ratione ejuſq; partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus, ut no ftra
etiam hac ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo, ut corumaliqui vena
inciſiunem omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per
recarne brievemente un faggio, eglino intorno aº principj delle coſe naturali
contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe, e
confuſisſime opinioni ciaſcun di loro ne porti. Dicono alcuni ritrovar fi veramente,
e formalmente gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti,ſolamente
in virtù, ed in potenza. Vogliono coſtoro, ſecondo ilſentimento del lor maeſtro,
effer le qualità formevere degli elementi, e de'milti: co loro tutte le forme
eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno, amendue le
qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi; altri una in più
alto, e altra in più baſſo grado ne allogano; quin di infra coſtoro altra nuova
quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie
accoppiar ſi ſoglia no. Ma ſe le dette qualità ſien tutte, come dicon poſiti ve,
e vere: 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle, lungamente affai
ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano
alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti, formal mente
avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti; altri ſono dicontrario
parere. Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le
moderneopi nioni? ſenzachè non ſon minorile conteſe, s'egli ſia pur vero, che
vi ſia temperamento; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come
cmpiamente avviſoſ ſi Galieno, o pure altro, che quella; ſe ſia da porre il ſo
ſtanzial temperamento; e ſe quel poſto, del qualitativo in nulla differente
egli ſia. Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno, e dell'altro
teinperamento ſi ſieno; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle
quattro prime qualità riſieda, o pure in altra qualità da quelle riſurtu. Ma
troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì
fatta materia, le zuffe, e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen,
ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra
nodati, e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi
nella natura? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi, rifiutando
altri ciò, che altri ne dice, e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi;
an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte, e molte
ragioni recate,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj
ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet
videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis
penficum latis,puto non poffe vera, et efficaci rationeprobari, ejetan tum,
veleffe debuifle quatuor elementa, ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli
toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni. Concluſione indegniſſima nel vero
non pur di lui: ma di qualunque più cattivello ſcolaretto, che per filoſofante
ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele, c
dal ſuo Galicno ſchernito, e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola,
e delgocciolone, le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc
gno in mano delle ragioni, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo
tutt'altre pruove, con ciò manifeſta mente inſegnando, che non miga delle
autorità, ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re
Iddio voleſſe,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li, i quali ſecondo
il ſentimento del Pemplio, non alla migliore, ma alla maggior parte degli
ſcrittori voglion gir dietro,pecorum ritu,perdirlo colle parole di Seneca, non
qua eundum eft, fed qua itur. Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de
letterati,immaginano, che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere,
qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di
ſtornati, e danneggiati così, come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze:
Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada, Che
tutto errandopoi convien,che vada. Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla
memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo, Argumentum peſſimi turba
eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam
in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes,
interrogati incola non patiuntur errare: at hæc tritiſima quaquevia,
&celeberri ma maxime decipis: certamente infomiglianti falli ſcimu. niti,
14 Ragionamento Terzo niti, ch'elli ſono, non fi laſcerebbono traſcinare. Ma
egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion
parlaffe, ed ironia, ' fe poi ſenza al cun rimordimento, e fenza ſcrupolo
averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente di LE DOTTRINE D’ARISTOTELE e di Galieno famoſtra
di non curare. Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali
inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono,
ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo, al caldo
natio, all'umido, che dicon ra dicale, all'eſiſtenza, alla natura, e al numero
degli ſpiriti; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che
innumerabili quiſtioni della natura, del numero, del luogo, della diſtinzione
delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe, onde il chilo, e'l
ſangue, e gli altri umori s'ingenerano; o pure in trattar del polſo, dell'arte
rie, e del movimento del cuore: ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il
moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto
celebre, e faniores conteſa, e di tanta conſiderazione in medicina, ſe la bi le,
la flemma, ela malinconia ftian di fatto, o pure in po tenza nella maſſa, come
dicono,del ſangue? Il che in buo ſentimento viene a dire, fe veramente vi lieno,
o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere, ac ciocchè ſi
dica,che vi ficno;ficome direbbeſi altresì, che nel ſangue vi ſieno in potenza,
e carne, e vermini, e cene to, e mille altre coſe, chequivi ingenerar ſi
poſſono. Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe, e
ſtrane opinioni, riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar
della natura, delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e
de'luoghi, ove s'ingenerano; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni
maeſtri: e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar
dall'intralciato, e confufiffimo labi rinto di tanti, e sì fatti riboboli, e
indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina
di Galicno s'attenga, Tralaſcio pure le lunghe, ed inviluf pate quiſtioni
intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza,alla malinconia,
a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre
dubbioſe cotro verlie, che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle
quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare.
E comechè per queſto capo incerta, e confuſa, e inviluppata la medicina de'
Galieni fti oltremodo ſi ſcorga, e perciò inucile, e nocevole ad adoperare:non
peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta
maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta: i fini, e le
condi zioni del trar fangue: la natura, la facoltà, gli effettia e'l modo
dell'adoperar de’medicamcnti: quando, ed in qua’rempi del male ſien da dar le
purgagioni: ed altre, ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho
quì bric vemente raccolte, una menomiſſima particella ſi fono, e certamente lo
m'avviſo, ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi;
anzi forte ſoſpirerano, s ſdegneranſi, veggendo a quante controverſie,a quanti
ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare, e la
vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo
ſterminio, che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di
quella, cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora,
chenti, e quali elle fiano, e d'onde naſcano, come operino, e muovano il male;
quindi intorno a quel. le d'entro combattono, ſe fien verainente qualità: efe
tali, naſcoſc più toſto, o manifeſte, o pur ſe da loverchio di putrefazione
avvengano, o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta; e corrotta; e oltre a ciò
in quali luoghi elle fi covino, diverſamente contraſtano. Così mordendoſi l'un
l'altro, e piatcndo, niun l'imbrocca, e tutti a malpartito menano gli ammalati;
volendo altri i falaſſi, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta
permettendogli, chi ſcar ſamente, cchi fino a trar loro tutto il ſangue, chi
dalle venc delle braccia, e chi da quello de piedi, e chi anches da quelle
parti, delle quali è bello il cacere, con appic T carvi le mignatte; altri a
tutti coſtoro cótraſtando voglió, che dalla buccia ſolamente per coppette fi
tragga. Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de
boliſſimo ſegnal di cocimento;ed altri, o nel principio pur gar logliono, ove
turgide lien le materie, il che di rado. avvenir ſuole, o pure inſino allo
ſcemo del male s'indugia no. Molti poi nel purgare, de’violenti medicamenti fer
vir ſi fogliono,molti de'mezzani, ç moltide’deboli, e be nigni n'adoperano: e
parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi
purga una ſol volta, e chi più volte in ogni tempo, e ſtato del mal lo coſtuma.
V'ha alcuni, che come il mal comincia, cosi toſto con le purgagioni v'accorrono;
ma dopo i trè dì af fatto le victano; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di
sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male
a' rimedj, che chiaman veſcicanti, gli infermi condannano; altri vuol, che in
prima purgati, e ſegnati color fieno; echi in un luogo, e chi in un'altro cô
-sì fatti rimedj marchiar gli vogliono, togliendo loro così manifeſtamente le
forze, e crucciandogli, e dando loro vigilie, e dolori, e forſe con riſchio di
gangrene,di piaghe nelle reni, e nella veſcica, di malagevolezze d'orina,e
d'altri malori, che ne foguono. Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici
alcuni più rinominati, che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno, cd
Ippocrate, o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen
zioſo; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele, oleremo do vituperino, e
danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento, ma ſolamente
a fraſtornarlo, ed indugiarlo, con accreſcer le cagioni ad un'ora, e gli effet
tidel male, e con piagar, ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni, e la
veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente
morire. E v'ha, eziandio di coloro, che non d'altri rimedi, che de ſolian
sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora
diverſamente piariſcono. E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo
infra qualche ſpazio di + tein tempo le lor conteie? e le loro incertezze
appianate, fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile, e veriſimile
fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a
giornate s'accreſcerannoi piati, e le conteſe, e ſempre più confuſo, e incerto,
e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle?
non le autorità, non le ragioni, non l'eſperienze; imperciocchè, così gli uni,
come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra, e pompa; morendo
vera mcnte, e guarendo così degli uni, come degli altri, i malati. Per amendue
le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci, e quindi ogni conteſa
ha ancora i fuoi parziali. Ne v'ha cagionealcuna, per la qual mag giormente
attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia, ad Orazio degli Eugenj,
che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria,ed a Fabio Paccio, eze
Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti
egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina, ed egualmente di
maggioranza gareg giar îi veggino. Perchènon ebbero certamente il torto, per
quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non. polje comprehendi patere
ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia; ciim de ifta re, neque inter
ſapientia profeſſores, neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par
te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina
tutta ſoggiaccia, diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura,
e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione. Alcuni ſciocca. mente fi
perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire, i quali oltremodo d'onor
deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo, e naturalmente ancora riottofi, e
ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai, e ſimalmenino; cercando a ſpada tratta ciaſcuno,
ove a lui venga in concio, altrui travaglia re, e neinichevolmente affitto
atterrare. Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e
tenzonare, non altrimenti, che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi
facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα, και
τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα, και αοιδος αοιδώ. Che in lingua noſtra
riſuona Al fabbro, è'l fabbro in odia: e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno:
arde diſdegno Contro un mendico l'altro: el’un cantore Contro l'altro cantor di
rabbia freme. Malo per me fermamente credo, che alcra di ciò ne ſia la cagione:
e che non tanto per uggia, e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento
dell'arte medeſima così in certa,e intralciata,e dubbioſa no poſſan goder mai,
ne pa ce ', ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità
di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le, in quante la medicina ſi
parte, ſe già non foſſe, che la filoſofia, e tutte quelle ſcienze, c'han colla
filoſofia qual che attacco, o dependenza, alle inedeſime tempeſte del la
medeſima ſoggiacer ſi veggono; nelle quali malagevol molto, e difficile è lo
inveſtigar la verità, licome confeſſa no que'filoſofi, e medici medeſimi, che
d'haver preſte loa lor pruove, e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano,
Nemailetto di ſelva allor, che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde
quante, e quante diverſe, e diſcordevoli fette ha l'anti ca, e la moderna FILOSOFIA;
o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de
parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente, chi non sa quam to li
premano, e li rintuzzino iGreci,egli Arabi, eiLa tini Maeſtri? quorum fudium,
dice un di loro, perpetuum,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant. Ed a
cui non ſon manifeſte le continue, ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche
ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali? E a tanto giunſe la lor riottoſa
oſtinazione, che poco fallò, ch'un dì in Parigi venendo alle mani, nó iſve
gliaſſero nella Francia una nuova, e fanguinofa guerra ci yile. Ed infra i
Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi
co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti? ma per noi 3
dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante,
e tante diſcordie cagione, ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la
verità delle coſe naturali. E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le
parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile: ο
λόγG- δ'αν ηκρίσης άη, το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία.χαλεπος και δυσθήρατός
εσιν όγε αληθής, ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων
•ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές, ας τοσούτον ήκον
αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι. 11
giudicio, dice egli, fi è la ragion medeſima: poichèper quella le coſe, che da
far fono, fon giudicate. E certamente egli è difficil molto, e malagevole, a
rinvenire, Io dico il giudicio vero, il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla
diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin
venir la verità, non ſi ſarebber tanti, e tanti valent'huomi ni, che per
imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti. Fin qui
l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo, il rinvenir la
verità effer certamente molto più malagevole, o piùardua imprefa aſſai di
quel', che s'immagini, e dica Galieno. Ad inve Aigar di ciò la ragione convien
ridurci amemoria, che noi non men, che gli altri animali, poveri, e mudi
affatto di qualunque, comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo; verità così
chiara, e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere, e
molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a
confeſſar fa, avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia
opinione, dicendo, che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia, ſe non,
che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune, che già noi prima di naſcere
ſape vaino; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene, che da noi
ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad
inveſtigare. L'animanoſtra, alla quale, come a parte più nobile, e più
principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe;
ondefolea ſaggiamente Epicarmo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe
tutte fon forde, e cieche; l'anima noſtra lo dico, comechè in corporca forma,
ed inviſibile ella fia, in sì fatta guiſa no dimeno unita, ed avviticchiata,
per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di
fuora toc co, emoflo ad eſſer mai viene, varj, e varj penſamenti in effa egli è
valevole a ingenerare; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano,e muovono le
fibre de’ncryi, le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in
ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi
avvalorate da un diſcorrente, e ſottil licore, gli avvti mo viinenti alla prima
loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima, ove quella il
comprende, o per me dire ſente. E le fibre poi col venir variamen te premute da
quelle parti del corpo, che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col
piegarſi in varie, ed in varie maniere sì, e tal mutamento ricevono ne pori,
enel ſito delle lor particelle, che da loro, e dalla diverſità de li ſenſibili
oggetti di fuora la diverſità del comprendera, o fia de'ſenſi,ncll'animna
procede. Quinci ſcorger ſi puore, chei ſenſi ſono quelli, per li quali non
altrimenti, che per le fineſtre liz luce, entrano nell'anima le prime contezze
delle coſe, e da queſte ella poi altre, ed altre contezze col mezo del diſcorſo
tracndo, tratto tratto ſe ne viene ad arricchire; ma come, e dove ſi riſerbino
l'acquiſtato notizie, e come l'anima l'abbia più, o meno pronte, quae do valer
ſe ne vuole, e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino, è
malagevoliſſimo ad inveſtigare; ne queſto propoſito più che tanto appartiene
forſe a noi il fa perlo. Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera
mente, e confeſſo, che i ſenſi nc ſe medelimi, ne l'anima mentir non poſſono
gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai
ſempre tali all' anima rappreſentano, quali eſſi appunto le ricevono, fen za
curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità, la quale non ſo lo come DE’PERIPATETICI
LE SCUOLE COL MAESTRO ARISTOTELE LIZIO abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe
nella maniera, la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe
la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe,
come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante, e poeta latino:.. Vt in
fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et
libella aliqua fi exparte claudicat hilum: Omniamendose fieri:atque obſtipa
neceſ umft: Prava: cubantia: prona: Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut
quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i
ſenſi mai poteſſero una ſol volta, o ſe, o altri ingão Nare, ſi toglierebbe via
certamente dal mondo ogni con tezza, ogni giudicio, ogni fede; e non per altro
in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i
filoſofanti d'una sì erronica, e ſciocca dottrina: Re cita Ioannis teftimonium,
dice Tertulliano, quod audivi. mus; quod vidimus oculis noſtris, quod
perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta
-tio fi oculorum, aurium, et manuum fenfusnatura mer titur. Ma a chi mai
ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo?
ad altro forſe? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà
ſoſpetto difalſità, e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti:
manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità? o ſia una, o ſieno più le
perſone, che ne deano teſtimonianza, nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa,
ed incerta la fede. O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade, gli errori
de'ſenſiconoſcerà la ragione? ma come potrà cio mai eſſa fare, fe per avvederti
dell'error d'un ſenſo, ad ammendarlo, dineceſſità le fa meſtieri fervirſi
dell'opera d'un'altro ſenſo, e di notizie, e di regole col me. zo de'ſenfi
parimente avvte. A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura
Ariſtotele, ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del
l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo, il quale abbia però più ben
fatto, e ſquiſito l'organo; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo
dell'anello, il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi
ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno, or nell'altro dito della inano appare al
ſenſo del tatto non uno, ma due eſſer gli anelli; il quale per error del tatto
vien ſecondo lui avvertito, ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo
della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto. Ma a chi
per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza
dell'organo perfetta aſſai, e compiuta ſia, nó ſarà mai valevole ad operare,
che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato. E per valermi del
medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti,
SECONDO CHE PORTA OPINIONE IL MEDESIMO ARISTOTELE, ne'colori dell'Iride, e
delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore
ſoggiacere, fi ritroverebbe per tale, che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più
agevolmente ad errare il ſenſo della viſta, che tutt'al tri ſentimentiincorrere.
Ma lo forte mi maraviglio poi, come non avviſaffe ARISTOTELE, che ſoventemente
l'errore del ſenſo, che ha più eccellente l'organo, da un'altro fen fo, di cui
l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi, e cor reggafi; comeincontrarſuole
nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien
ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla
fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la
ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti, ſieno anch'eglino tali, e ſe
tali pur ſono, perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà
giudicar la ragione appiccata allc lor pruove, c certamen te mal può convincer
perſona di falſità quel Giudice, al quale convenga dineceſſità valerſi di
teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe ARISTOTELE CON LA SUA USATA POCA
FERMEZZA IN ALCUN LUOGO DICE, i sensi non potere in modo alcuno errare, cche
ſia debolezza d'intelletto i sensi per la ragione lasciare. Ma quantunque non
poſſano iſenſi, ne ſe, ne altri in gannare, non però di meno poſſono molto bene
allo in telletto, cui propianente il giudicar s'appartiene, effer 1 cagione
d'errore, e d'abbagliamento; ecomechè poffafig avventura l'inganno, o l'errore
ſchivare col non precipi tar coſto,e inconſiderataméte il giudicio, ma
ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti,
tanto, e tanto celebrata per Epicuro: tutta fia ta,perciocchè ne in
tutticorpi,ne in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza, e per
altro impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi, e di profondarſi conceduto, e
quando ben loro ciò venga permeſſo, ne men altro egli no certamente comprender
ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono, pchè no
già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer
manifefta; ma la ragion poiè quella chedal le varie, e varie operazioni
de'corpi, varie, e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad
inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti
s'avviſano, varie, e diverſe eſſer poſſono le cagioni, e nel trarne argomento
vezzoſa talora, e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza, e
larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente,da tale
cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene; e come già cantò
l'Ennio noftro Ita liano: Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar
falſa matera Per le vere cagion, che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che
l'oriuolo collo ſtelo, e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi
l'ore del giore no, vero per avventura egli direbbe; ma non mai potreb be
certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare.
Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile
ſolamente ef ſer può, non già dimoſtrativo, ſe pur toglier non nevo gliamo
alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono, i quali d'una ſola, e
certa cagione poſſono avveni re; ſicome per avventura farebbe il dire, dover
eſſer ne V ceſke ceſſariamente corpo ciò, che gli organi de'ſentimenti ne muove;
concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier, che tocchi;
e'l toccamento, ſalvo che da corpo,non ſi può incontrare: perchè SAGGIAMENTE
LUCREZIO: “Tangere, vel tangi, niſi corpus, nullapoteſt res.” Così ancora,
che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate
eſſer diviſo. Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di
divario,ſalvo, che nella grandezza, nella figura, nel moviinento, nel l'eſſer
diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario
il ſito, e l'ordine tra di eflo loro;co ciofliecoſachè altro di queſto non
poffa, ne al corpo, ne al le parti, nelle qualiil corpo ſia diviſo, avvenire. E
però è da dire, la diverſità, che così grande eſſer noi veggia mone'corpi
dell'univerſo, altronde certamente non pro cedere, che dalle coſe già dette,
che'l calore, la freddez za, la ſaldezza, il diſcorrimento, icolori, ei ſapori
tutti, cd altre ſomigliantiqualità, le quali a noi parc, che nc corpi
dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno, ſe non ſe,o l'accennate coſe:
ſe veramente elleno ne'corpi ſono: e ſe ſono in noi, cffetti di quelle, o per
me' dire de' corpi per quellemodificati. Maqueiti,e ſomiglianti argomenti ſon
così pochi, e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle
particolari cagioni pervenire, ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il
pregio tutto è ripoſto. E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci
filoſofanti Demo crito, ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap
portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni
s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo
ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de GALILEI, che
tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che
al parer del dottiſſimo Obbes: Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam:
pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro, che qualche particella di filo fofia ſi
ſappiano, e Iddio ſolamente ſaperla tutta, eche quanto più in perfezione
monterà la filoſofia, tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da
quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica
ſcuola, avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta, pur tanta forza ha la
verità, che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca, e far apertamente
confer fare, eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura,
qual'occhio di notturno augello a'rai delSole; e 'altrove, che diquelle coſe,
che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato
penſar dob biamo, quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente, come
eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo, c poeta fa, che
ſecondo il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica, e
facciagli a ſapere. dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali. E
innanzi parimente avcagli colei detto: Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di
ſenſo non differra. Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano, o pure
il naſcoſero, E ALIGHIERI ED ARISTOTELE le naturalico ſe eller a' ſentimenti,
non perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate, e
che noicolsé ſo non già le coſe, ma ciò, che in noi le coſe operino ſo lamente
comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj, che diſſero
appo Aulo Gellio: (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis, cioè
a dire, come egli ſpiega: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet, ncc quod
habeat vim propriam naturam; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque
videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud
fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a
che più da filoſofi,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta,
la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re
Salamo V 2 (1 ) lib.iLcap.i. ne: 0 m !ne:
Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum,
ut occuparentur in ea. Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo
invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole, et quanto plus laboraverit ad
quærendum tantò minus inveniet. Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe,non poterit
reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe
a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no, ove s'intralcia, e s'inviluppa
maggiormente LA FILOSOFIA? Ne in ciò la medicina, dalla filoſofia è differente,
re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion
ſolamente, o ſemplice diſcorſo s'acche ta: e queſta ha per ſuo fine, e
berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia, la medicina ancora di
pochili me coſe naturali conoſcer douraſi, e quelle forſe poco, o nulla al
medicar ſaranno acconce: intanto, che non ſap piendole non è gran fatto per
huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più
ſi pof fa una tal verità manifeſta: non vi par’egli, o Signori, che alla
medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc,
e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero
interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco,
degli inteſtini, del fegato, della milza, delle reni, della veſcica, del
pulmone, del cuore, delle glandule, le quali ſparte per tutto il corpo poco men
che innumerabili fono, ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto
del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare, per tacer d'altre, e d'al tre parti;
e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la
notomia, che nulla più: nientedimeno non ſi è egli potuto, ne men ſi potrà giam
mai camminar ſicuro, ne determinare, ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno
all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle
operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero, licome avvenir
noi parimen te veggiamo, in tutt'altre partidella filoſofia, e della me dicina
dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tanti ſparti ſudori per cotanti
valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente
in verità an dar le coſe di quel, che s'avviſavano, e davano a noia divedere
gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati
poco men che lincei fie divenuti, eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto
Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali,
per l'addietro inſuperabili; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle
menomiſfime particelle pe netrare, le quali ſe non vengono ben ſottilmente
avviſa te, e ad unaad una diligentemente conſiderate, Io non ſo in qual modo
ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che
ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono. Perchè egli avvien ſovente,dover
noi in sì fatte bifogne camminare al bujo, attenendone ſola mente a troppo
deboli, e incerte conghietture, e per cal. laje inviluppate andando. La
inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e
nell'o perazioni dieſſe parti; e quel configlio, che porger ne puote in sì
fatte traverſie il vital notomiſta, fia pur detto con pacedel Valentino, del
Paracelſo, c dell'Elmonte, quantunque grande, ofere ognicredere egli ſi paja, e
che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta, fovente ſuole, per la
malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo, e debole molto riuſcire, e talvolta
anche in tutto inutile; il che da non altro certamente naſce, ſe non ſe dalla
troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali. Ma
della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa, Dio buono, che
han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre? non
è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana, facendovi ma la pruova la
loro induſtria, e’l loro ſtudio? Egli ſono le fi bre, che'lcervello compongono,
così minute, e ſpeſſe, e ſottili, e sì la for teſſitura, e reticulazione è
dilicata, e la lor ſoſtanza molle, che a volerle ben partire fenza riſchio di
romperle, o di perderle, inalagevole anzi impoſſibile: ogni impreſa rieſce. E
sì, e tanto egli è ſpinoſa, ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte
reſtādovici anche egli tutto inviluppato, e preſo, ragionevolméte quell' huom,
ch'egli compoſe per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo
appellato. Ma ſe tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute,
che farà cgli da dir poi delle picciole, inolte, e inolte delle quali ha forſe
la natura a nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate? eci ha alcune di eſſe
parti cotanto menome, e ſottili, che non ha mano cosìſcaltra, ed avveduta, che
poſſa ſperar di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono
più ſottili aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col
più fino, eſottile microſcopio ravvi fare; E di queſte ancora vi ſono
altreminori, e quaſime nomillime linee, nelle quali inutile ſi prova ogni arte,
vano ogni ſtrumento per ravviſarle. Ma chi mai potrà le particelle del ſangue
darne piena mente ad intendere, le quali ogni chimico ritrovamento per farne
notomia vincono? Chiquelle del ſugo nutritivo, della linfa, del licor
pancreatico, dell'orina,del fiele,del la mucilaggine, che veſte le membrane,
detta dal Paracel. ſo finovia, e d'altre, e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor
po delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa, ne ſe ne potrà giammai per avventura
per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli
fia. E chi finalmente aggiugnerà a capire, ſe non ſe per in certe, e fallabili
conghietture, o la grandezza, o la figu ra, o'l lito, o'l movimento di quegli
inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde, e delle
liquide parti del corpo dell'animale compongovo? E ſe ciò all'u mano ingegno è
naſcoſo, come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e
l'operazioni, e tute'altre biſogne, che di neceſſità all'economia degli animali
s'ap. partengono. E come ravviſar mai potrafli, da chi, ed in qual manie ra
s'ingencri il Chilo, e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue, e coine
il ſangue ad ogni ora in tante, e tante maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe
ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale, e come ſi faccia il
ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne
men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie
e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da
riſanarle? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli
antivedimenti de'medici, ſe non ſi fa, ne può ſaperſi giammai coſa, che certa,
e ſicura ſia dell'orina, e de polli,chi può indovinarmai, per Dio, non che
ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni, per le quali eglino, malimamente
ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno?
che direm poi de gli altri ſegnali della medicina, onde argomentar parimé. te
ſogliono imedici le malattie, e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e
dell'orina, anzi aſſai più di queſti talora incerti, e fallaci? Certamente non
mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore, e la cagione argomé
tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i
greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere, per tacer d'altre
ſue opere, in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe;
che lo per me credo, che quelle, che a forec loro ne riuſcirono, certamēte
colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare. De'cibi, e de’medicainenti, e
delle loro facoltà, e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per
defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re. E comechè i Chimici
più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento
giuſtamente vantar potrebbono; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che
rimarrebbea fapere è poco, anzi nulla. E ſon di vantag gio tutte le pruove non
altro, che probabili, e poco ſalde conghietture; perciocchè, non ſolamente
imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an
cora, e'l fuoco, e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti, che vi s'a doperano,
ragionevolmente d'errore, e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più
diligente, e accorta notomia, ſe me 1 con ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi,
che ſi dividono qualche lor particella, che magagni, emuti la lor compleſſione
i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono; i
quali dalla terra, e anche altronde melli fuora, e infra quelle monome
particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi, agevolmente le potranno
in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle
particelle, licvi, e ſottili, che rubate ad altri corpi ſuol con leco
ſempreportare; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle
delcor po del quale ſi fa notomia, e maſsimamente le più nobili, ele più
operative, che in eſſo dimorano: comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come
dicono, ermeticainente turata; o purcolla ſua forza nel digeſtire, e nel
formentare, e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo, del qual li
fa notomia, diſponendo altramente quelle, e altramente meſcolandole, e dando
lor movimento, per nulla dirdel. la grandezza, e della figura loro per eſſo
diverſamente cambiate. Perchè fe tante, e tante cagioni poſſono alla fotomia
delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi
argomenti vantuti dipienamente, conoſcerle: Anzi tanto egli ne ſaprà meno,
quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora,
e infruttuoſigli avviſi, e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci
rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente, e ſottil notomia delle coſe a
ſpogliar dalle dubbietà, e dalle incertezze la noſtra Medicina: Io per mè non
ſaprei qual conſiglio prender mi dovessi a dichiarirla dalle sue nubi. Ne è da
tralasciare a questo proposito quanto agio s’a veſler presso i filosofi dall’incertezze
sull’uomo a ragionar sovente, e piatir nelle scuole or d’una or d’altra parte,
più per vaghezza d’ingegno che per amor della verità, difendendo tutte
opinioni, ed ove lor concio viene, giudicando non altrimenti che quel sottilissimo
filosofante Pittagora face a veder della filosofia de omni re pervalermi delle
parole di Seneca “sin utramque partem disputari pole ex aquo”. Perchè non è da
maravigliare, se DICANILIO EGEO, prendendo a difender cento contrarie opinioni
in altrettanti capi partite, da a diveder manifestamente l'incertezza di cotal
arte. 1. Egualmente dal padre e dalla madre si inandi fuora il seme a ingenerar
gl’animali. 2. Non d’ambedue si mandi. 3. Il seme si mandi da TUTTO’L CORPO. 4.
I testicoli solamente v’hanno parte. 5. Il cibo nello stomaco per opera del
calor si smaltisca. 6 no. 7 iò sia per lo suo sfacimento e stritolamento. 8 no.
Il capo V che sia dal nativo spirital calore. Il capo VB, che no. Il capo VI che
per lo corrompimento del cibo sia. Il capo VIB, che no. Il capo VII che avvegna
per propietà de' ſughi. Il capo VIIB, che no. Il capo VIII che il calor natio a
qualità s'appartegna. Il capo VIIIB che no. Il capo IX che per lo calore
avvegna la digestione de'cibi. Il capo IXB, che no. Il capo X che la
diſtribuzion de'cibi lia per attraimento di calore. Il XB che no. Il capo XI: dagli
spiriti la digestion si fa. Il XIB che no. Il XII: per opera dell'arterie si
digestisca XIIB: no. XIII: ciò sia per mancamento a vuoto accompagnato. XIIIB: non
per ogni mancamento eglilia. XIV: il glauco degl’occhi per mancanza d'alimento
al condotto visivo s’ingeneri. XIVB: no. XV: quel nasca per discorrimento di sangue
nelcondotto visivo. XVB: no. XVI: dalla graſſezza degl’umori e dalla esalazione
si faccian gli’occhi glauchi. XVIB: no. XVII: La frenesia dal distendimento
delle membrane del cerebro e dal corrompimento del sangue si cagioni. XVIIB: no.
XVIII: Per soverchianza di calore ella non avvegna. XVIIIB: no. XIX: Per infiammagione
ella sia. XIXB: no. XX: da infiammagione si cagioni il lecargo. XXB: no. XXI: Per
distendimento e per corruzione egli sia. XXIB: Non già per soverchianza, ma per
la qualità dell'esalazione avvegna. XXII: La fames e la feresia di tutto il
corpo. XXIIB: Dallo stomaco solamente provenga. XXIIC: sia sol nel pensiero e
nell'immaginazione. XXIII: La sete per disseccamento s’accenda. XXIIB: no. XIII:
Nello stomaco due diverse operazioni si facciano. XXIIIB: no. XXIV: dalla
pellicella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi. XXIVB: Lo
traggan da quella di fuora.e parganti medicine operino XXV: per lo corpo spargendosi.
XXVB: Colloro scorrimento solamente, senza spargerſi vuotino. XXVI: usarsieno
purganti medica nienti. XXVIB: no. XXVIC: Da ſegnar sia. XXVIC: no. XXVD: sia
da dare a febbricoli il vino. XXVE: no. XXVI: Ad operar debbano il bagno. XXVIB:
no. XXVII: Nell' accrescimento de’nrali sia da far il cristeo agl'infermi. XXVIIB:
no. XXVII: In su’l principio delle malattie fan da usar le unzioni. XXVIIB: no.
XXVIII: Nella testa possano ad operarsi i cataplasmi. XXVIIIB: no; ma solamente
vi li debbano porre cose odorifere. XXIX: Esser giovevoli quelle cose che
muovono a vomito. XXIXB: no. XXX: Dal cuor si dirami al corpo il sangue. XXXB: no.
XXXI: Gli spiriti dal cuor si mandiitos ne dall'arterie sien tratti. XXXIB: no.
XXXII: Da per se il cuor si muova. XXXIII: no. XXXIVA: L’arterie per lor natura
sieno stanza del sangue. XXXVB: no. XXXVI: tutti i vali che soprastano, e
gonfiano, sono semplici. XXXVIB: i ricettacoli sieno in voglie in tessure. XXXVII:
Per mezzo de’ nervi facciali il sentimiento, el moto. XXXVIIB: no. XXXVIII: Il cuor
e principio delle vene. XXXVIIIB: no. XXXVIIIC: E il fegato. XXXVIIID: no. E: il
ventricolo. F: no. XXXIX Tutti i ricetacoli si diramino dalle pellicelle che vestono
il cerebro. XXXIXB: no. 90: Il pulmore e principio dell'arterie. 91: no. 92: L’arteria,
la quale sta presso alla spina, sia di tutt'altre arterie capo. 93: no. 94: dal
cuor nasceno tutte l’arterie. 95: no. 96: dalla membrana del cerebro traggano i
nervi origine, non già dal cuore. 97: no. 98: non nel cuore, ma nella testa la
potenza ittellettuale dimori. 99: nel cuore. 100: nel ventricino del cerebro
ella sia. Ma di cotante rivolture e mutamenti d'opinioni e di sentimenti
certamente Dicanilio Egeo non è da maravigliare, se tanto forse ancor fa Galieno
medesimo, ove in concio gli fosse venuto. E di ciò Galieno stesso ne’ suoi
libri si va millantando sommamente di poter improvviso ci alcuna serta de’ medici
de' suoi tempi a buona ragion difendere. Perchè se dir non vogliamo, esser egli
stato Galieno un riottoso giuntatore, o berlingatore sofista, che co’ suoi fisicoſi
aggiramenti per diritto, e a torto il tutto a difender togliendo, uccellar
n'avesse voluto, convien di necessità affermare, ciascuna setta de’ suoi tempi
anche secondo il sentimento di lui essere stata igualmente ragionevole; e conseguentemente
a niuna certezza esser la filosofia appoggiata. Eccme chè Galieno ciò
dimenticando vanti sovente di poter far pruova de’ suoi detti, avendo sé pre in
lor concio nuove dimostrazioni. Non però di meno X 2 (il ci ta, 7 il dirò pur
con buonapace di lui) le sue millanterie row vente fogliono in vanissimo vento
riuscire. Anzi Galieno medesimo dimentendosi talvolta, e in più luoghi contastan
dosi, ne fà della sua bessaggine, e della sua poca fermezza avvedere. Quid enim,
dice di lui stizzosamente gridando il Giuberti, quid enim in Galeni scriptis frequentiusoc
currit, quam ipsum plerumque videre, quod alibi multis rationibus fuerai demolitus,
id constantssime afferere? ERi nieri de' Solenandriz non men del Giuberti della
dottrina di Galieno intendentissimo, così parimente avvisollo. Galenus,
quiuberrimo ingenio fuit, ca oratione liberali ferè prodigus, innumeros propem
conscripsit libros: in quibus rerum et dogmatum multitudine plurima sunt discrepantia,
nec fo bi ipsis consentientia; quasi quis attentem cum judicio legit, fi quis diligenter
in unum colligit, ingens chaos agnoscit. Ma lo dirò di vantaggio (il che non mi
sarebbe per avventura peralcun creduto, se con l'autorità del medeſimo Galieno io
non gliene facelli certa, e ben falda pruova) che se ancor la filosofia fosse
dattanto, che a saper dicer to molte, e molte di quelle cose aggiugnesse, le
quali per addietro dicemmo esser di quelle, che in quistion cadono tutto'l
giorno, e più altre assai: ne meno alla sicura nell’operar sarebbe; abbisognado
a tale effetto, secondo Galieno, che molto bene in prima la propria natura, e
complexione di colui si conoscesse, il quale sarebbe da filosofare. il che
ſecondo, che egli medesimo apertamente confessa, non si può per partito alcuno
bastevolmente giammairav viſare, Ma se sì poco da noi in filosofia per la sua
dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però dimeno e'non creda alcuno,
che sicura ne fia la sperienza. Anzi per maggiormente incerta, e dubbiosa più
avanti per noi sarà mo Itrata. Perchè seguiranne poi sicuramente, che non purla
sagione dalla sperienza accompagnata, valevol sia a render certa, elicura la
medicina; concioffieco fachè verisimile a verisimile accozzando; e no certo a
non certo, e per lunghi argomentise pruove che vi si aggiugono, non potrà mai,
che I certa, e incontratabil fia, ſicuramente riſorgerne. Magià ſi è per queſte,
e per altre coſe addietro diviſa te veduto a baſtanza, e con quanta diligenza
per noi li è potuto la varietà delle ſette della medicina, e le diverſe; e
ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare, e la varieră dell'opinioni, che
fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in sù, non da altro, che dalla
grandiſſima incertez za dell'arte pervenire; egli forza fit, ch'al preſente
fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della medicina come già
proponemmo, ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare; quantunque a chi
attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la medicina breveme
te abbiam fitto, riguardare, non farebbe forſe meſtieri più diſtintamente
diviſargliene, potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere, ſe giammai un'arte
così dubbiola, in coſtante, ed incerta poſſa avere in ſe dottrina, o principi
tali, che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to, e ſicuro. Ma per
dar cominciainento dalla volgare Empirica, chiamata imperfetta, è ella
certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi
medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare; infanto,
che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba tanti animili
il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle
alcuna notte, Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe
maicampo,nepiaggia. Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui, ſe più
coſtoro ſi foſſero, o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti
interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota
profanus, Iudæus.... hiſtrio, rafor, anns. E ben diſſe il Carlectone: Medicos
ſe fingunt quoque Rizo tomi, Seplaſarii, fordidi Balneatores, triobolares
Phleboto matores,fpurcidici Lenones, indo&tiparochiaram Sacrificuli,
favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghileſe, de'quali
fa parole altresì, e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes,
audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes, veteratores Fatidici, lj
bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa,
ingratifimaque impoſtorum gens, Pharmacopo le; qui ſuntin Rep. agrorum
pernicies,reimedicècalamitas, et Libitin et præſides. Che più, fe toccar quaſi
co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da Ferrara il
motteggevol Gonnella, allor, che nel novero di coloro, oltre allamaggiorparte
della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole; ed egli era così celebre, e
ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti, e molti
de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne. Maper
Ferrara medicando quanti Veggo andar io, che barbagianni funo Ridicoli,
ineſperti, ed ignoranti: Che non ftudiar d10 anni, fur a ſuono Digran campana
alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono: Che ne ARISTOTELE
mailejer,ne Plato, Ne Avicenna, o Galien, ma due ricette, E le regole appena
del Donato. Ma ciò permio avviſo, non altronde certamentewviene, che da una tal
naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente
abbiamo, e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi
medeſimi, e per gli amici, e per tutt'altre perſone del mondo. E perciocchè ad
interamente apprenderla, e ado perarla, qual veramente fi conviene, di
grandiflima fiti ca, e di ſudore non ordinarione fa meſtiere, ciaſcuno, co me
il meglio puote malmenandola, ed abborrandola, in pochi giorni l'appara, e
ſenza troppo diſagio la mette iz opera. E in vero cotalforte di medicina è
molto agevole a imprendere, e ſovente dinon poco pregio, eguadagno Suol eller
cagione; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per
fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dietro a feminine diinondo, o nelle
follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle, ſtenchi alla fine,eigannati ri
courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no. Ed ora mi
ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato, il quale avédo perduti có la grazia
del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli
ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina, e ſpacciarles a
prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja.
Ma non fa meſtier, che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in
manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri; che purtroppo chiaramente per
ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino, ed ari fchio,
ed a ventura; non ſappiendo talora ne men groſsa mente, econfuſamente i ſegnali
delle inalacrie, non che la natura di quelle; perchè convien poi loro nel
diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone, con af pettarne,
timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio
della perfetta Einpirica; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare,
nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione,puofſi
in certo inodło covenevolmente Razionale Empirica chiamare; conciolliecoſachè
la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue
fondamenta, che è la fperienza, non folamente per la baſ. fa gente, ma per
gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata, e a capital tenuta: che apertamente
talora, e in ifcritto, e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla
fogliono; eſſendo l'altra, fecondo lor ſentimenti la ragio ne. Anzi huomini
chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici
nemica (tra’quali fur ERACLIDE DA TARANTO medico e filosofo di sì gran sapere,
e così nell'arte eſercitato, che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére
medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto
le ragioni alla fola sperienza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi
rifuggirono;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de’ razionali, pur ma
niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la sperienza alla
ragione; e dicono, che ove d'una parte la ragione, e d'altra la ſperienza il
contrario ne perſuadono, che allora il medico laſciar debba affatto la ragione,
e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filosofi di grido ARISTOTELE
apertamente confeffa, all'arti tutte aſſai più di con cio, e d’utile la sperienza
recare, che la ragione, e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far
pruova continuo degl’ammalati, che con beccarſi tutto giorno il cervello
ne’libri. E quel scrittore, che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così
addentro innoltrare ne gli affari del mondo, avvisa, la medicina non eller
altro, che sperienza fatta dagl’antichi medici, fopra la quale fosi dano i
medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano, medicina
ex observatione salubrium, atq; his contrariorum reperta est, et ut quibufdam
placet,tota co hat experimentis; nondimeno l'Empirica medicina, non che abbia
giammai nulla di certo, anzi ſoventi volte in graviffimi errori traſcorrer ſuole,
laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente guidare; la qual
come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa, ſovente è fallace,e vana. E
in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta
ſtate ſono oſſervate, chi oſerà mai certamente affermare, che ciò che più volte
av venne, debba poi altre, cd altre volte ſomigliantemente avvenire? Certamente
niuno, ſe non colui ſolamente, che inveſtigatane la cagione, onde quelle volte
già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi
potrà cavarc; delle quali cagioni, ſe le medeſime ſaranno, certamente nc
ſeguiranno i medeſimi effetti, ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto
diverſi,e varjef. ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la
diverſità delle molte circoſtanze, che l'accompagnano, non ſempre ſuole i
inedeſimi effetti produrre, ina diver ſi, ſecondo la diverſità delle perſone,
de'luoghi, c d'altre coſe, che vi concorrono, Alche ficome in tutte ſcienze è
ſommainente da riguardare, così non è da traſcurar punto in medicina: nella
quale avviſaſi a giornate, noul ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni
avvenire: non ſempre congiurar le medeſime circoſtanze in mante ner le
medeſimemalattie: e finalmente non ſempre que, mali, che i medefimi eſſer
ſembrano, effer veramente ta li, quali ſi pajano; concioſliecoſachè i ſegni
tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente, e
fallaci fieno, facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male, il qual poi
tutt'altro ſarà di quel, che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno
giudicar puoſ, fi con piena certezza, ſe ſia ſtata opera del medicamento il
migliorare,e'l guarirc dello infermo; imperciocchè tal volta dalla ſola natura
del malato, o del male ſuole ava venire; ed altri pur follemente immaginerà,
eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito. E allora più mala gevol ciò, e
intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge; perciocchè
allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia
per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò, che di
leggier forſe po trebbeſi ſchivare, comealtresì è da tacer della credenza, la
qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli
ſcrittori preſtare: coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole
Galieno. Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio, che da
parte a parte far fogliono gli Empirici, e dal la ben compoſta analogia di male
in male; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to
ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina, e d'e videntiſſimi riſchj
tutta ripiena. Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò
che della ſperienza un graviſſimo autore, e più, che altri per avventura in
quella eſercitato ne manifeſta dicendo,eſſer la ſperienza in man del medico,
non altrimenti, che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale,
quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo
lato. Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento
Terzo mo, e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale
ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien
quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno. Ma volete voi, ch'lo
brievemente vidia a diyedere quanto vana, e fallace ſia nella medicina la
ſperienza? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare,
che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate. Ma riguardando i maeſtri,
e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica: e d'altra
parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e
delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri: vollero ſolamente a certe poche coſe
veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor
medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono:
uno de'quali diſcorrente, e l'altro ſtretto chiamano. Naſce il diſcorrente
allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati, e fatti maggiori
aſſai di quelli, che in prima erano; o quando altri nuovamen te accreſciuti
glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette
infra loro, e congiunte lì ſo no, perchètalora, o più abbondevolmente, o più di
ra do li vuota il corpo. Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò,
che far li dee argomentar fogliono: una di ſtrignere, ed una di allargare: e
queſte chiaman comu nità curative, e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag
gio le comunità temporali, cioè a dire il principio, l'avā zamento, il vigore,
e lo ſcemo della malattia. E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime
comunità con polto effer ſoglia, cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto: vo gliono
allora i metodici, doverſi la cura alla maggiore, e più ragguardevol parte
ſolamente indirizzare. E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato;
chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno, e
Proſpero Alpini, il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli
avanzi dell'antica Metodica medicina, e di difender quella con cutta forza
oſtinata medite i senza troppa mente ſi ſtudia; ma non puote però per fatica,
che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a'
curioſi l'apprenderne intera la dottrina; concioſie coſachè alcune coſe, poco
forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur
tentone, ed alla cieca. Ma lo quanto è a me, voglio al preſente più di Galie no
medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici, e conce der loro di vantaggio
molte, emolte di quelle coſe, che fatica durare, agevolmente negar loro po trei.
Sien pure, com'eglino s'avviſano, le comunità cut te manifeſte, e piane, e a
quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per
prender aº mali conſiglio, ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz
ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza;
adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando
alla ventura, e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti,
manifeſtamente talora inceſpando traripa no. Ma ciò traſandando,ſia pur da
curar malattia di ſtret tezza, come di poftema, o d'altro ſomigliante malore,
che di allargamento abbia biſogno: manifeſta coſa è,che la materia ingozzata, e
rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni; ed acciocchè
poſſa li beramente far punta, ed uſcir fuora, conviene in primas, che la
durezza liſciolga, ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare
valevoli, et opportuni. Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in
prima, di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il
ſuo vero, ed acconcio rimedio trovare, ed adato tar viſi poſſa: O forſe ciò,
che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote?
anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit,
bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a
terra l'evidenza de Metodici; ecco, che pur convien loro entro i confini de? 1
1 Y 2 Razionali medici alla fine ricoverare. Ne più intorno alla lor dottrina
impiegherovvial preſente parola. Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci
così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie, che non v'ha luogo alcuno di
diviſarne, non che d'abburattarle, o per avventura riprovarle; anzi ne men
ſaper certamente por ſiamo, chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci, cui
foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina, e ciò chealtrove
andato ſe n'è per noi ricercando, non li è potuto ancora così rinvenire, che
foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà. Ma non è egli però da porre in for ſe,
ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai
più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua
origine; e forſe forſe ella è sì antica, che non pur ne convien dire, ch'af fai
prima della volgare Empirica ella naſceffe, ma chel Empirica volgare ſia della
Razionale, anzi, che no giove nil parto, e creatura;la qual coſa in sì fatta
guiſa leggier mente noitoccheremo. Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono
talora da' corpi le malattie, e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien
dineceſſità, che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda (non avendo altri
ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente, da alquante poche in fuora ſi alla
medicina non fanno, le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre; ma può
tali medicamenti l'huomo ap prendere, o a caſo in effi abbattendoſi; o col
diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo
ritrovar ſi poſſano; nc ſembri veriſimil punto, che le tante erbe, e radici,
onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite, ma gl'interni malori altresì
medicavan ſi, veniſſero a ſorte lor conoſciute; rimane adunque, che per la più
parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti. Ma come que'primi rozzi
huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen
ti, non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui
voglia pormente a'bruti, e andar mi > che nulla qua nutamente ſpiando come
tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie. I brutistutto
che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi, ſi trova no di
tutto ciò, che a lor fa meſtiere a comprendere le; coſe neceſſarie al proprio
mantenimento, baſtantemente provveduti,anziabbondevolmente dalla larga, e prodi
ga mano della natura arricchiti. Vengono talora agli animali le medicine dal
caſo di moſtre, comedel Dittamo, erba crinita, e di purpureo fiore, avvenir
ſuole, eſca oltremnodo gradita, e foave al palato delle capre; onde ſoventi
fiate ſavoroſamente la paſcono; e ravviſando elleno, che ſe mai ferite vengano
da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta,dalla fe. rita, allora Volontario
per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue, e ractamente ſe ne
fugge il dolore: ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe
ſe ne corrono; e per queſta da noi menzionata ſtrada, e non già per quella del
ſognato, e favoloſo iſtin > to,. maſtra natura alle montane Capre ne inſegna
la virtù celata Qualor vengon percole, e lor rimane Nel fianco affilala faetta
alata; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon
languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra
il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo,
allora, che infermi fi ritrovavano, giovevoli aſsai ſperimentarongli: E ſomi
gliantemente altresì La teſtuggine allor, che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide,
e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute,, e vita Dall'Origano cerca, e non
indarno. Opera ſomigliantemente del caſo, e' certamente ſema bra,ſe per qualche
male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale
aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono
di ci barſi. Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni
medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti; comene'lupi,ne'gatti, e ne' cani, per
tacer d'al tri, manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora, che ſenten doſi eſſi
aggravare, e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto, e corrotto cibo, ed avviſando,
che alcune erbe, le quali talora forſe loro punſero il muſo, poſſano,
ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op
portunamente ſi vagliono. Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza, e
ſollecitudinc ricercando, ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore
della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno
lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato, e perſpicace, valevole
più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da
ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente
regolare; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole, diritta
mente non gliſcorge, elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne
fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè
veggiam tut to dì le capre, le pecore, le vacche, i cavalli, ed altri ani mali
infermar gravemente; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e
velenoſe; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a
divedere, non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo, ed
inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro,
che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare, che nella prima ſola corteccia
delle coſe. Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto, che poſſan talora con
qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare, o
pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina; come non aurà potuto l'huomo,
ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico non
avrà potuto ſino a’ primi tempi, e col naſcente mondo, col diſcorſo i
medicamenti ricercare, e ritrovare? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo,
ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta, o d'ani
male, o di vegetabile alcuno, prender in duce, e in iſcor ta la ragione;
imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe, che grande
a maraviglia aver-, fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo, o
liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo
rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in
confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente
l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente, che a'primi maeſtri della
medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica
menti. E percominciar da’ Cineſi: Popoli ſenza fallo di tutt'altri più
antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo,il quale
ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c
che quivi prin cipe de' medici, e inventore della medicina vien comune
mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte,
emolte radici, e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare
lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora
li ſon valuti, e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or
dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata
e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta, o radice per farne la pruova?
Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione;
altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che
Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò,e
rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a
rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale, e tanto avvedimento econ ſucceſſi
così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i
luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo ccrviero acuti, c penetranti. E più
chiaro molto rio ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura, ſe colui che
ſi diè cura, e impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le
croniche de'Cineſi,il medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina. Ma più
certo ſi rende, che que'primi Cineſi medici, da ragione ſcorti, aveſſer rivolto
l'animo ad inveſtigare i medicamenti,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor
della Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder
pariméte ſi dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono, i quali
altresì della chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo
valuri: non riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per
dir qualche coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra
nazione, conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to
medeſimo; tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca;della
Scitia lo dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via
della ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo, dal quale, ebbe il
ſuo primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi
vide la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente,
come mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle
barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla
ſoverchiaza degli odori ſoavi. Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti
diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato,o lia Filalete, appo Euſebio
ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi
foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural
filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia, nõ meno in
filoſofia, che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel,che
dica Plinio, il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo
mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo
fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura
dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia,
da qualche ragione moſli furono Chirone, Eſculapio, Ercole, Melampo, ed Achille
a valerli primieramente della Centaurea, dell'Aſclepio, dell'Eraclio,
dell’Achillea, piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per
effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno, in cibo uſate. E ſe mai
eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven. ne sì
factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici,
malimamente, che alcune di loro convien che con zappe, o marre dalla terra a
viva forza li ſuellano; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe
più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea. Fu dunque
l'eſperienza dalla ragion; preceduta; ed ebbe il corto Quintiliano affermando
il contrario colà ove difle:Vulnusdeligavitaliquis, ante quam hèc ars effet, et
febrem quiete, eo abftinentia, non quia rationem videbat:fed quia id valetudo
coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile, che Melampo, il quale parve,
che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali,rinveniſſe a caſo
effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità. Ma ſe razionali furono
avvegnachè roz zi, ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri, ed invento. ri
della medicina,convenevole certamente egli ſembra.' che qualche coſa anche di
loro da dir ſia. E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio. Coa me, e
quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il
grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo, e gli altri primi medici
della Cina, Io porto per me ferma opinione, che penetrar non ſi pof ſa per huom
giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle
voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine
dell'Imperado re Cino, il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe
mura, e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando
faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle, rendea gli animi ſnervati, ed
imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure
Z de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi
intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono, è tanto,
comeſe ſmarriti anch'e glino, ed abbruciati fi foſſero. Ma da qualche veſtigio,
che tuttavia ne rimane, ſi ſcorge apertamente, che i Ci neſi nella geometria,
nella filoſofia, e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati, e ſi valſero
della Chimica, e conobbero,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e
fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo, legno, acqua,
fuoco, e terra; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi
chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici. Ma ſi
par certamente, che Cinnungo non molto nella filoſofia, e nella medicina
avanzaffeli; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa, c di tanta
lievas in un tratto naſcere, e ricevere l'ultimo ſuo compimen to; masſimamente
alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal
lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione, e di eccellenza
pervenga. Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien
favoloſe, ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano, che egli
faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli, e rift orative, e
che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata, tante ne provaſse, e ne ripro
vaffc; il che fa chiaramente conoſcere, quanto la medici na, ſe acquiſtar vuole
eſtimazione, in tutti i tempi, cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in
opera le men zogne, ele millanterie. Quáto poi valeſſero gli antichi medici
Cineſi nella Chi mica, chi potrà mai indovinare fi la ſolo, che eglino s'
ingegnarono di trovar medicine, non ſolo acconce agua rir le malattie: ma anche
valevoli negli huomioi ad eter nar la vita; e comediRaimondo, d'Arnaldo da
Villanova millantano i frati della Roſea Croce, che vivi anche oggi ſien o, che
vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! sì fingono,e danno ora ad
intenderei moderni Cineli Chi mici, eſser molti, e molti di quegli
antichiſapienti, che, fattafi colla gran medicina immortali, dimorino nelle cia
me degli altisſiini monti, e quindi vadano, anzi volino dove lor più ſia a
grado, ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più, che
tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici
Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas
da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro, di
cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte
miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui
vce ta eravi una conca parimente di bronzo, formara a guiſe d'unamano, nella
quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove
macerar pofcia fi dovea no le perle, ed altre peregrine, e rare coſe, delle
quali compor li doveva quel prezioſo, e divino medicamento, che facea
l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo. Ed anche a’giorni noftri ſi
veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia, andar ad ogn'ora vagabon
deggiando, in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati
più e più ſecoli addietro, vendon altrui la medicina, che fà gli huomini
immortali, e tra per le loro trappole, e per lo deſiderio, che è in ciaſcheduno
di conſeguir l'immortalità, ritrovano, e più tra’letterati che tra gli altri,
chilorpreſta credenza. Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare, ſi ſcorge
quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi, dalle
maraviglioſe cure, che con eſli tuttavia fanno i moderni medici. Solamente
potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto
dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali
appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da; imperocchè col ber caldo ſi
ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra, alle podagre, e ad altre
atrociffime malattie, che così frequenti, ed abbondevoli ſono fra z 2 noi. E
quanto al non trar ſangue, oltre al novero de’gre ei, e de’noftri medicanti,
che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più
ſecoli, ne? quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai
brieve le malattie, non gli rende degni, non dico di ſcuſa, ma d'altiſſima loda?
eda ciò vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi
laſciano a' medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti, che
gli antichi già fi faceſſero, de’ſemi, delle frondi, delle corteccie d'alcune
piante ſi vagliono, e d'alcune pictre al tresì, e ſerban libri, ove ſon
figurate l'immagini di tali piante, e pietre, e le loro virtù narrate
ne’precetti, e nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani.
Preſcrivono a’loro infermi sì rigoroſe diete, che alle volte laſcian paſſar
fino a venti dà fenza dar loro altro cibo, che certo ſugo dipere, tre, o
quattro fiate il giorno, e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime
malattie a buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno, che tal dieta non
potrebbe fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far
vedere l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci, e l'eſſere i Cineſi
di noi più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i
Cineſi compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de'
mali,da’quali,non avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri
i Cineſi la ſogliono apparare • Di. cono tutti, che i Cineſi medici ſono séza
alcun paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno
ancora ivi colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio; ed eſſendo
eglino intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai,
s'interrégono fin’a mez ' ora, fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni
in toccandogli, e danno a diveder dapoi, che con una tal diligenza eſſi
aggiungano a ſapere d'ogni varia, e più oc culta interna diſpoſizione, e
diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura, e la vera cagione. Ma è per mio
avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter
talora porre utile cos penſo alle più gravi malattie. Vlano frequentemente la
prezioſa radice, detta da loro Ginſen, dalla quale ſové te ſi veggon guarir
gl'infermi, eziandio morienti, e però una libra di eſa, non val meno di tre
libre d'argento. Nil la io dico dell'erba Te, percioccliè ella ſi adopera tutto
dì anche ora appo noi: comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici
effetti, che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion
così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola
tile Alcali, e con eſſo inſieme poco men, che tutta la ſui virtù, o qualunque
altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno
ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione, che di tal erba portavano,dicendo,
ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi; non però dimeno
noi ben ſappiamo per pruova, cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato, che alcuno
avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia, certamente non vi ha avu to ella
parte niuna. Egli è vero però, che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe
ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia, e di ſoverchio
acetofo: il che adoperar ſuole altresì il Cafè, ela Cicolata; alla, qual coſa
riparare ottimo rimedio è il digiuno. Ma io no voglio laſciar di dire con
queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati
qualch'er ba noftrale, cos lor giovamento non ordinario:e che gli Ollandeſi
portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una
libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere
coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi. Ma avvegnachènella
Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato
abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio,c ſtima. E quinci avvien
poi, che tutti coloro, i quali ſien d'alto in gegno, e di ſaggio avvedimento
dalla natura forniti,nul. la badandoviaila, moral filoſofia ſtudioſamente ſi
volga no, onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio
avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 1 1 ! doti, gioni, per la
quale de'buoni libri dell'antica medicina, e della natural filoſofia pochi
rottami ſi trovino, e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural filoſofia
tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia ri,erinominati
al inondo, ſe'n viſſero già lungamente per fama, quegli avveduti, e
ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente, e ſtabilirono
il Egitto: altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol
ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza, e della fragiltà
della gloria monda na; perciocchè eziandio di coloro, iquali ebbero già vé tura
d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il vero nome pervenir
potuto. Caſtigo ben douuto all'invidia,cd alla tracotanza di quei Principi, e
Sacer, i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare, e l'eſercitar la
medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla, e invilupparla con
cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di ricoprirne i
miſteri ſommamente ſi ſtudiarono. Perchè io giudico, che po co, o nulla della
medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi
valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla
inacemati ca, e colla filoſofia naturale, e altre buone arti nell'Egit to
pellegrinarono; ed in quel tempo appunto per lor di (grazia vi giunſero, che
caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta
divenuta, comun nemcnte da' medici ſcimuniti, e balordi ſi malmenava; ed i
ſacerdoti l'antiche note più non intendeano, o ſe pu re qualche coſa ne
penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine, tenevanſi d'inſegnarle altrui,
e masſima mente a' foreſtieri; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il
leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano, quan do e' diſſe, che i Greci
niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato. Eλήνες δε ούτε παρ'
Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav. Senzachè, ſe a
Greci al trôde venuta foſse la medicina,certamente ella non ſareb be tanto
indugiaca ad allignarvi, e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di gloria, a quanto
ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio
de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta;pur
potrebbeſi ragionevolmente argomentare, eſſere ſtata quella a grandiflima
altezza da' Re, e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta, da ciò, che ne ragiona
Omero colà ove narra, che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to
celebrata Nepente ad Elena. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα, Αυίκ'
άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον
απάντων. ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη, Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και
δάκρυ παρειών, ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε, πα ής τε, Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν
αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων, όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα. Τοϊα Διός θυγάτης
έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς. Onde a la
bella, e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove, allbor nuovopenſiero Venne ne
l'alma, che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo, alme Liquur, che toſto
ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa, e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce, e
graziojo oblio Di tutti i mali; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella
tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per
le guance l'onde Del pianto; o d'attriftarſi;ancorchè morti Davanti aveſſe i
cari madre, e padre; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro
l'infelici membra, Del frate amato, o del fuo dolce figlio. Cosifatti i liquori
erano, e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno; Cb'erano utili, e
buoni, a lei dati Polidanna gli avea di ToneSpoſa. Il qual medicamento,
qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare; ne
comporta il mio ſcarſo ragionamento, che lungamente lo ne favelli, ne che fra
sì varie, e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri, mentre altri vogliono,
non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino;
altri allo incontro medicina artificioſamente preparata, chi dice d'uno, echi
di più ſemplici compoſtage lavorata. Io giu dico, ne forſe da' limiti della
ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana, chela Nepente opera
foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo
medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato, al tro cercaméte non ſembra
chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe. E
fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima; pcrciocchè Vulcano figliuol di
Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il
fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò, e diè principio egli altresì all'arti tutte,
che del fuoco ſi ſervono; il cheoltre a Zezze moderno, e ſti mato da alcuni
poco veritiere ſcrittore, il qual dice. Πύρ, και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας
tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano; 'e Vulcano
altresì, ſecondo ARISTOTELE, e Sozione appresso Diogene Laerzio, inveſtigò da
prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na
ragione affermare, aver lui per dover più acconciamé te farc, e rinvenir
ne'corpi diſciolti, eminuzzati, i primi lor componenti, adoperato da prima il
fuoco, e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio. E quin ci
nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano
a gli altri Dii paleſato; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a
divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte
eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato, e dalui poſcia a’Re,ea
Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tutto ciò, che dietro a tal fatto
potrebbeſi più profon damente eſaminare. lo dico, che non ha dubbio veruno
avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran, pro dalla Chimica;
imperocchè ella venne a tale, cheti to altamente ne puotè favellare il
dolciſſimo Iſocrate con queſte parole: gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo
dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella, che ſi
valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra, che potendoſi colla
medeſima ſicurtà adoperare, che gli ordinarj cibi d'ogni giorno; recar ſuole
poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo:
Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν, και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην: αλα
τοιέτοις, α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν: τας δε ωφελείας
τηλικαύτας, ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos.
Magran pezza avanti Iſo crate, e nel tempo appunto, che in Egitto fioriva la ve
ra medicina, avea detto Omero, dell'Egitto favellando, Ιητςος δε
έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων. cioè, ficome volgarizza il Baccelli:
Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio.
Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per
Diodoro, quand'e'dice: gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in
uſo, fe non fe criſtci folamente, purgative medicine, c digiuni, e vo mitivi:
τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα. τα κλυσμοϊς, και
ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην
ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes.e'debbeſi ſolaincnte di
quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re, c da' Sacerdoti, in mano della
più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita, eſſendo già
caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta;
ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate, che il
mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne
foſſe lecito porger a’malati al; A a cun medicamentoprima del quarto giorno, ſe
non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico. Al che forſe po nendo mente
il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire, la
medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale. Ma ſe perciò dal
Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato, egli fareb be certamente
aſſai più da biaſimar Galieno, il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima
de Greci avefler contezza de'medicamenti, pure osò dire eſſere ſtato il lo ro
conoſcimento affai groſſo, e rozzo, e che con l'agio di aprire i cadaveri p
imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti.
Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe
da’Perſianiſoggiogato venne, e domato in guerra, che i ſuoimedicipiù celebri, e
più valorofi, quali effer do veano ſenza fallo que", che medicavano il
Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi,
enovizi nell'arte. Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro, l'Egi ziaca
medicina, ruinà anch'ella, e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi
da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino ALLA CADURA DEL ROMANO IMPERIO in
Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato,
edorrevole durarono; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina,
che a Galieno, come egli me delimo ne da teſtimonianza,non increbbe d'andarvi
per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto,che di Galien
medeſimo era ſtaro maeſtro; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta
grandezza, e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto, che, come narra Ammiano
Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in
Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto. Narrali per
Damaſcio nella vita d'Iſidoro, i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino,
per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e
ſpezial mente in Atene. Coſtui quarant'anni continui logorò facendo eſperienze,
e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina, ed
inſegnandola al figlio, che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro
vò quivi medici, che poco, o nulla di medicina ſappien. do, non con la
ſperienza, come doveano, ma congli al trui detti medicavano a ritroſo, anzi (conciamente
mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il
figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E
quanto al fatto della Cirugia, oglino ſolean molto di rado porre in opera il
ferro, e'l fuoco; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro
amendue farebbero da ri putar degni di molta loda, ſe non foſſero ſtati
ſuperſtizio fi, e idolatri, come par,che dica Fozio, comechè un an rico autore
appo Suida affermi, Giacomo eſſere ſtato Criſtiano; maavviſa il dottiflimo
Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo, moſſo ſolamente da
coloro, che'l credeano mago,per le maraviglioſe cure, ch'ei facea. Dice di più
Damaſcio, che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto, il qual di muſico, ch'egli
era in prima,li fè medico, e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli,
che in molte coſc, emolte, ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro. Fu coſtui
gran matematico, c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi,
comeche di coranto intendimento non foſſe, che poteſse i miſteri d'Orfco, e
de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in
pregio Giacomo ſuo Mae ftro, e degli antichi, Ippocrate, Sorano, Cilice, e Mal
leoco. Perchè ſembra, ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici; e
quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini, che in niun pregio
avcano Ga lieno. Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco,
già lungo tempo traſandato, e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella
famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo, ponendoſi al naſo, e alla bocca
la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente, che
racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria, onde egli agevolmente
reſpirar do veſse; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo
artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò, che di vantaggio di lui narra
Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio. Tanto vo dire,che de'
medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama
riſponder dovea il loro valore. Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo
buon nome lungo tempo durò; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli,
finche tolto al ROMANO IMPERIO per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e
venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in
ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi,
e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire, di Metodica mcdicina
aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata, e ſtabilita,
le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni, cvidenti principi, fondamenta di
quella, c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto. Egli ha ora in
Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri, i quali per pochi bajocchi
ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali, over princi pe de'medici, deſtinato,
ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo, o che ſappia egli, o
non ſappia di me dicina,medicano, una o più fortidi malattie, comc più lo ro in
concio viene; c giudicano eglino, due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil
caldo, e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto,
immaginano qui vi follemnente, che tutte le malattie, o procedan dal cal do, o
fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate; perchè giudicando, che l’un
contrario ſi ſpegna per Taltro, ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci, ſecondo
la loro opinione, e valevoli a rinfreſcare. Perchè traggon · largamente ſangue
in tutte le empleſſioni, in tutte l'età, in tutte le ſtagioni dell'anno, ed a
tutti infermi, e dan be re acqua agghiacciata; il che «i ! anto fuor d'ogni
ragione la fascia, non ha cercamente huomo di sì mezzano intendimento, che di
leggieri avviſar no'l poſsa; ſenzachè i cauterj, e le ſcarificazioni, che
crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo
gliono adoperare, tolgono affitto loro ogni buon nome; intanto, che affatto
contrarj a quegli antichi mediciſein brano, i quali avean piacevoli argomenti
folamente il uſo. Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi,
certamente lo non ſo, come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo, nel quale
que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della
medicina; il că po della quale è così vaſto, e così malagevole, cheappe na, che
più, e più persone colle lunghe eſperienze, e col le ragioui una menoma parte
oggi coltivar ne poſsano. Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per
aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia, corrotta,
e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio
Firmico: Nekepfo egli dice, Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de
bonus, per ipfos Decanos omnia vitia, valetudineſques collegit, oftendens quam
valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur, quia Deum frequenter
alius Deus vincit, ex contrariis ideonaturis, contrariiſque pote
ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit.
Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum, ac per duodecim
fignorum numeri ifte Deorum numerus, ideft decanurum dividitur. Se poi dagli
antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza, che nel tempo
d'Erodoto, nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer
bavali, clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per
conſervarli fani ſi purgavano col vomito, e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης
τοιώδε διαχρέωνται: συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg, εμέτοισι
θηρώμενοι την υγίειην, και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας
νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι. loper me non credo,come si poſſa generalmere
favellando, comeche rieſca calor peravventura giovevole, tal coſtume in tutto
lodare; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito, ei medicamenti, lo ſtomaco, e
gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono, e fi ſconvolgono notabilmente, e
alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi
umori le mucilagini, che veſtono, e difendono le loro membrane, ed altre, ed
altre ſoſtanze non ſolo utili, ma ſommamente ancora all'economia, all'
operazioni, ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non
rimane a dire dell'Egiziaca medi cina, ſe non chenon coſtumò ella ne meno
allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato, per quel, che ſe ne ſap pia,
di trarre mai ſangue: comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo, o ſia
cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè
egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora, oco. me Ammian
Marcellino, fra'canneci delle rive di quel 1o. Ma Prometeo, o pure Magog, onde
ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua
opera primieramente ritrovata, dinoli, e molti nobili, cgiovevoli medicaméri,
co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli
ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo, ch'egli medicava me
[ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie, con guarir
tutti coloro, che così malamente ſi ritrovavano ridotti, che non ſi cran pocuti
per niun riine dio in prima riſanare, e che prima, che a lui veniſse fatto di
ritrovarle, e di porle in opera, non vi avea rimedio al cuno per le malattie To
pelice régason, et nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν, και
δε πιςον, αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων
ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος, Ma di lui ancor ragionevolmente
dottar ſi potrebbe, nó egli aveffe dato alla ſua medicina principio con
iſcioglie re i corpi più duri, quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co:
mentre è coſtante fama appo l'ancichità, ch'egli pri ma di tutti da varie, e
varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν,
σίδηρον, άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού. E conciofoffe
coſa, che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente
ancora al fuoco, e in diverſi gradi partirlo, e perciocchèegli peravventura,
del calor del Sole ſervisſi: finſero, ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle.
Ma tafciam di ciò, a' Chimici il penſie ro, come anche di fpiegar l'allegoria
dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga
remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to, ed è nel noſtro tale
il ſenſo, Gia fiam giunti,o Vulcan, ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte
Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore; Equeſto
audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri
faffi. Eito fplendore Del foco onnipotente, onde tu altero N'andavigià,
furotti, damortali Dono nefeo: dritroi, che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la
meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno
amare apprenda. lo perme immagino, che Promeceo, o che'l caſo il por: taile, o
da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole, e che da
queſto traerſe origine la fa voka accennata. Mache che fia di ciò, li diede
Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus
di nous isoleradio il che fa vedere, che in fin al ſuo primo cominciamento la f
media medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio: ſe, e vane. Ma come
poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero, Io non ne ſaprei dir
altro, ſalvo, cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni, e della dieta nel cu
rare le malattie, come appo Plutarco riferiſce Talete την δίαιταν αυτή et τον
καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και αφθόνως, και προθύμως
παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia:ebbe ella ne'primi tem pi huomini
d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento, e ſopratütro aſſai vaghi
d'inveſtigar le biſogne del mondo, si fattamente, che prima di ciaſcun'altra
nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari (fabbricando ad ogni ora
nuove Città, e popolandole di gente douunque capitavano ) a lontani, e per
addietro non conoſciuti paeſi d'Africa, e d’Aſia, e d'Europa, perchè creduto
venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il mare: onde
diſſe Tibullo. * Prima ratem ventis credere docta Tyros. Perchègiudicar
dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender colle
ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina, e che però ella nella Fenicii, fe
condochè la natura d'un talc affare comporta, alcolmo della perfezioneaggiugneſſe.
E di vero convennc, cho gni ſua parte arricchita, ed illuſtrata veniſſe dal
profondo fapere di Cadino, come colui, che dopo diverſe,c glorio ſe vittorie
dell'Africa avute, come canta Nonno nel poema dc'fatti dfBacco, edificò cento
Città. •... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας πολέων εκατονταδα, δωκε δεκάτη
Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove
egli regnar poi do veva. Quindi egli ſpogliando dell'antica rozzezza, c pe
coraggine la grecia, le diedeinſieme con tante, e tante doctrine molti vocaboli,
e le lettere ancora, e l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente
confeſſano, dicendo Erodoto >, per tacer di Filoſtrato, d'Ateneo, e di
Diogene Laerzio, chei Fenici, che vennero con Cadmo, con molte altre dottrine,
le lettere, che prima non vi erano, in Grecia introduffero: ως δε Φοίνικες
ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι, εσήγαγαν διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη,
και γράμματα ουκ toy a aliv eranos. Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò, che
nella Fenicia la vera natural filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone,e
Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano, da Moſco Fenice, Leucippo da prima
apparò. Ma più che altro, l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da
manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar ſaputo, come ſi poſſa col
canto domar la ferocia delle malattic; al che certamente imprendere ben ſalda,
e ſottil filoſofia loro abbiſognava, eun'avvedimento non. miga ordinario, e
volgare; eſſendo loro neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del
ſuono, qual veramen te ella lia, ſe l'aria, o ſe pure qualche ſpezial
ſoſtanza,che nell'aria fi crovi, e le figure, e la grandezza delle parti celle,
che la compongono; e come la lingua, che forma il canto per via di miſure, e di
convenenza, or fortemen te, or pianamente, or velocemente, or tardamente la
muova; e coine sì fatto movimento or s’uniſca, or fi di funiſca, or creſca, or
manchi, or fi rifletta, or s’attuti; come intorno intorno egli così velocemete
liſpáda;e co. me all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza, o
penetri i poridel timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto, e della
chiocciola aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico, o
pure le ſue particelle dieno il lor movinento al timpano, e'l timpano le com
munichialle particelle dell'aria, qual falfamente inn.itu chiamaſi, e queſte
poi alla membrana, che veſte la chioc ciola il compartano. Ma ſopratutto
inveſtigar loro cer tamente ancora conveniva, come le fibre de nervi dell'u
dito, rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle
quali elleno tocche, e percofie furo no, facciano sì, ch'ella la sì varia, e
táta diverſità deluo ni ne venga ad imprendere; e come l'anima poi da una ſorte
di ſuono noja, e da un'altra diletto tragga; e come da ciò s'ingenerino in eſſa
amore, odio, ira, timore, ed Bb altre, ed altre paſſioni; e come queſte
finalinente, o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue, e dell'altre
diſcorrenti ſoſtanze del corpo, o allargando, o riſtrignen do, o chiudendo i
pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li, come d'ingenerare, così anco di
menomare, c di eſtin guere parecchie malattie. Mache che ſia del filoſofar,
ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del
căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo; a ' qu ali per lo
ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente
comprendano, s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono, e ſi
ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e
vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio
ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che
d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo
colla muſica, ecol ſuono eſtingucſse. Mapoimaggiore senza filo ſi prova la
virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole,come quelle, che
ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono. Onde
non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro, che la muſica dagli Egiziachi, non
ſolo inutile, ma nocevole anzi che no venille ſtiinata, Tu'vuge σακην νομίζεσιν,
ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio
dice: la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini: ettes, ¿ '
atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις. Perché non eeglia mio cre dere
affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto, e raffrenar
le menti offuſcate, ed alterate dall'ebbrezza. E ciò, che narrafi di Terpandro,
e d'A rione, ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di
graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano; e di Pittagora ciò,
che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto
infiammato d'a moroſo foco, l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate, ad
un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio
arreſtato; e di Timoteo, che con furioſo canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a
prender l'ar: me; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di
bel nuovo; e di Aſclepiade, che le impazzate men ti, e da furor turbate, aveſſe
con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte; e del medeſimo, che a ſuon di
tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito. Ma non così di leggieri pe I ) ſembra,che
preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella, il quale afferma,eſſere ſtate guarite
le piaghe perla muſi ca; ed à ciò, che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto
guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore, e
le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate. Ma che Talere poi colla
ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz, coſa ſembra affatto
lontana dalla verità. · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte
quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni, e l'armonie
framettere; come quelle, che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi
de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado; e talora
incoraggiargli a più pericoloſe impreſe. E sìi Geti uſa rono le Cetere, e le
Siringhe: i Creteſi ', le Lire: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali
pria di comin ciare la miſchia, di cantare un melos qucſti eran uſi, che
Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime
impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza
dell'aria,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano; e l'eſſer
ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato; onde diffe Polibio, che fin
dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni, i
quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei
della Patria; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente
diviſando; e ne fa anco parola Atenco.. Vennero, ma non guari feliceméte i
Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati, i quali le maraviglioſe pruove,
che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo, e non ſap piendone la cagione,
ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giammai penetrar potendola, li fecero a
credere, che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse; anzi vi ebbe di van
taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò, non ſo lamente ſopra gli animali,
maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare, e fin ſopra i Cieli, e
nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono, che colà giuſo nell abiſso
calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i
latrati, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori:
raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te,
aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli
Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio, ne le membra a Siſifo dal grayoſo
ſaſso sfra cellare; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute
poma arrabbiaſse Tantalo. E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col
ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì
poteſse fa re, e tanto, che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara
Euridice otteneſse di riportare; il che vagamen. te deſcriſse l'ingegnoſo
latino poeta. T alia dicentem, nervofque ad verba moventem, Exangues flebant
animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam: ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere
jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum
primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas: nec regia
conjux Suſtinet oranti, nec qui regit ima, negare: E per tal cagione altresì,ad
imitazione di Teocrito, Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina, vel Calo
poſuntdeducere lunam. Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in
pratis cantando rumpitur anguis: Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro
Poeta puo tè far dire alla Ninfa, dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal
Giella Luna al mio cantar difcende, S'agghiaccia il foco, e l'aria fifa dura,
Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra, ed ho fermato il ſole. Ma
cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori
de'Fenici, che non ſolamente nel canto, manelle parole ſole ancora una tanta
virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono, e di quelle in medicando fer vivanſi:
onde fi legge in Omero,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite
d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν
δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν
Εχεθος: cioè, Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe, e
prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue, che già fuor n'uſcia
Conparole d'incanto entro le vene. Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti,
per cacer de’latini, ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero, infra'
quali il Taſso padre finge, che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle
parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito,
cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già
ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti, Gli fanò in breve tempo ogni
ferita. E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in
tutt'altre malattie: infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab
occultis tribuens miracula verbis: e priina di lui Quinto Sereno:
Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle
Vana fuperftitio credit, tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata
fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo, attenendoſi a
cotali fraiche, e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe, maancora quei, che
tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa
mofiflimo Peripatetico, per tacer d'altri di minor liéva, con vaniſſimi
ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di
dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag
gioancor giudicano, che le parole eziandio ſcritte, e ad doffo portate, non
ſolo a guarire i mali, e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade,
e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri
Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti, co me di Ferraù narra l'Arioſto:
Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato,
Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del
ſuo valorofifſimo Orlando: Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato,
furrche in una parte: Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni
ſtudio sed arte. Duro era il reſto lor,come diamante (Sela famadal ver nonſi
diparte ) E l'uno, e l'altro andòpiùper ornato, Che per biſogno a le battaglie
armato. Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo, e l'Arioſto,
la novella d'Orillo, il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone, ed Aquilante
ſu le ſponde del Ni lo, non mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita:
imperocchè per virtù diparole,e d'incanto, egli era sì fattamente ciurmato, che
dopo eſſere ſminuzzato, e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe
acozzandoſi, -ri tornava, ſicomeprima a vivere, e a combattere; onde cantò il
Bojardo Segli tagliafſi il collo, il petto,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l
panico, 6 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti torna vivo.
Famoſa ſenza fallo, e chiara al mondo fe la medicina de Traci il valencillimo
medico, e filoſofante Orfeo, come colui, che per teltimonianza di Clemente
Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai; e fu il pri
mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia, dell'erbé ſcriſfe: primus, dice
Plinio, omnium, quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit. Compoſe
egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito delle
fibre, e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli antidoti, e
molti, e molte altri libri di coſe naturali; ſenzachè non ſi può egli di
leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo
nia del ſuo canto, e per altre ſue rare dottrine, maſlima mente della politica,
di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania, fù egli un gran maeſtro, molte,
e molte di di quelle coſe inſegnando, le quali alla vita, e al regime to degli
huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto, e tenuto a capitale per le
molte, e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo, che dell'animo
dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo affatto, e vano
fia ciò, che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata:
non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori, che Orfeo la riſa naſſe,
preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe
per colpadel medeſimo Orfeo.Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel poema
dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò, dottar non
ſi potrebbe, che egli non foſſe ſtato della Chimica molto, e molto avviſato,
mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo
gran magiſte ro, che deſcritto era, come ſi finge nel libro, che Orfeo con gli
altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i
poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello
dell'o ro:, il quale, come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio,e Suida, e Varino
Favorino, altro veramente ei non era, che una pelle, nella quale l'artificiofa
maniera da cambiar in oro qualunque altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le
tante arti, e ſpezialmente la muſica,e la poeſia; nelle quali dilettavali aſſai
Orteo, e l'eſſer egli ſtato, CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore
deltaco, e no per altro, che per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi.
tabile neceſſità quelle morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano,
mi dan per avventura giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella
filoſofia,e nellamedi cina da mé, che altri credevalo;ne tāta loda meritar
dovel ſe, quanta in prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo
ſemplici, enon eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze
delle coſe, nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche
Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare, e
diſcerner ſuoi librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori
teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no, il quale di moſtrare a' fentiinenti
d'Orfco que'diPi tagora, e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è
da dottar della ſua dottrina, e valoria; percioc chè non è egli vero ciò, che
il ſemplice vulgo parimento di lui credeva, efſer le ſue azioni, ed andamenti
tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati
accompagnati; conciofoſſe coſa, che egli dimoltes malvage uſanze, c cattive
vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe: Sacra Liberi Patris, dice
Lattanzio, pri mus Orpheusinduxit in Greciam, primufque celebravit in monte
Bootie Thebis, ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio: Ille
etiam Tbracum populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares: Ma la
medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di
Zamolſide, non meno ſaggio, che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente
appo Ero doto creduto ſervo, e diſcepolo di Pittagora. Ma della medicina di
Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco che appo Platone ſe
nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta,ne la teſta ſenza
tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra
gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci, a’quali
non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè
al tutto, il qua le non iſtando bene, è imposſibile, che qualunque ſuas parte
ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene, o
male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo, e da quello conſeguentemente a
ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca; e però giudicava in
prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc; acciocchè bé poi ne ſteſſc la teſta,
e tutto il corpo.Mal'anima egli volc va, appo Platone,che da medicar foſsc có
incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni, e indirizzamenti, i quali
certamente fan pro a render l'huomo temperaro, e ſigno reggiante l'impeto
de'ſenſi alla ragione rubelli; e quindi 1.2 ſanità al capo, e a tutto il
rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº
itu'sa's Guo ας, τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις
ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι,ής εγγενομένης, και παρέσης ράδιον ήδη είναι την
υγίειαν, και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων, Ma non facea meſtieri
certamente di molto ftudio, e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja
sì fatti di viſamenti, che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più
idiote perlone. Nevero egli ſi ritrova, che le malattie tutte del corpo,
dall'anima dependano, o ſem - prc, chepatiſce una parte, debba neceſsariamente
patir il tutto, o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte
principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del
corpo, ſano, et una, o altra parte ſolamente magagnata. È ciò avvenir tutto dì
live de,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte
offeſa ſola, ſenza badar ad altro, quella feli cemente ſi riſana; e ciò
conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto, dicolui, che portar non
potendo il troppo acerbo dolore, che per la podagra pativa in un de Сс diti del
ſuo piè, venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo, ne più
mai in altro luogo poi venne gli la podagra. Macon gran prontezza venne
abbracciata, e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di
medicare da'Greci medici razionali; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri
medici ancora, tra per far pompa di quel ſape. re, ch'effi non hanno, ed ancora
per menar la cura alla lunga; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al
male; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono, le quali al la malattia punto
non s'appartengono; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle
opportunamente: acciocchè prima il tutto, e le parti principali medicate ſieno;
e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo; e immaginando follemente
ancora, che ciò far conaltro argomento non ſi poffa, i lor ſalalli, e le
ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza,
mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada,
fino a far infralir gli ſpiriti, e preffo, che amorte giugner i malati; ma ben
ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella, o altro menomo Empirico ',
cui il vero rimedio ſia conoſciuto, di sì fatte lor cianceri mangan beffati, e
ricreduti. Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai
più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di
lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere. Fabbricò egli un belliſſimo palagio (co
me narra Erodoto, comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale
convitava a mangiare la gente più principale, e lor perfuadeva, che ne eſſo, ne
alcun di co loro, che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con
eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita, eterna beatitudine
goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli
infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni; nel qual tempo con pieto fi
ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione
poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi ciò, in vita ritornato; e queſto, ed
altro egli ebbe agio di fa. re, perch'era in grandiſſima gloria ſalito, tra per
la medi cina, e tra per eller qnci popoli groſſi, e materiali ſoprá modo;
intanto, chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya: ma ancora dopo
mortc in cotanta, maraviglia fu tenuto, che venne da loro per Dio adora to; ed
a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno
ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto, che giunti
ad un ſoli tario, ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am
baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal, ch'eglive niſo a cader giù loura
tre lance a tal effetto acconce; il quale fe immantenente ſe ne moriva, eran
ſicuri, che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande; ma ſe per
avventura morto non foſſe, n'era accagionato, coine indegno dell'ambaſceria, e
reo, e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera
fare eleg gevano, al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna
medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che
poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli, che valevoli foſ
ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi
conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de'
popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare, avendo in
pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia, e la Libia, e l'Oriente tutto,
e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano, e fin
l'ultime regioni della terra penetrate, e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi
trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in
tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina, che non già
monarca, e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato. E
nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe, che per tacer de
Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al
nipote, huom di loro nazione propiamente Сс 2 inveſtirle; ma ſi ben non ſeppero
con loro novelle la coſa comporre, che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede.
re ciaſcun, che de'tempi di coloro faceſſe ragione; per ciocchè egli è coſa
manifeſta, che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci
foſse Bacco vivuto, ſecondamente che s'avviſa in Euripide, introdu cente nella
Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co, fol perchè egli antico fi foſse:
Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα, χρόνων Κεκτήμεθ', έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed
Ateneo,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco
nella lapida del ſepolcro di Nino, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima
de'tépi di Cad mo; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani,
eſſer Bacco, non dalla Grecia, comealtri crede, ma dall’Affiria nelle loro
contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra
ſenzafallo il ritrovamento del vino. E ciò fù per av ventura, che adoperando
cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo
avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e
diciò avvedutofi egli, a bello ſtudio poi la colaj provaſse, eriprovaſse,
finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo, e giovevole al genere umano
l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar
gamente il concedeſse. Ma forſe egli, ſecondochè lo immagino, per via della
Chimica ritrovollo; la qual, ficome in Egitto, così anche doveva allora in
quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col
digeſtimento, e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i
quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano. E potrebbe
eſser’anche, che Bacco apparato l'aveſse in ciò, che lo frutte, da ſe
medeſimeforinentar fi ſogliono, el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino
acquiſtare; avvenen. do ciò per opera de'movevoli ſommamente, et acuti cor
picciuoli, i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajutati da cotali
atometti di quelli, onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco,e che
in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima
foſtanza, ch'anima del vino può dirſi, e da' Chimici, che colla diſtillazione
ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè
del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre
Noè; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri
trovato,per travalicamento di tempo, ſmarrito: cche Bacco poi da capo il
rinveniſſe. lo fo, che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a
divedere,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè, e Bacco; ma ciò trala fcio, per
non effer egli in modo alcuno da credere; per ciocchè per quel, che comprender
ſi poſſa dalle ſagre car te, non guerreggiò giammai Noè, ne altra impreſa fece,
che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca. E molto meno è da preſtar credenza al
Voſſio padre, il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato, giudica, non altri
eſſere ſtato Bacco, che'l ſanto Moisè; perciocchè Moisè non fu mai in India a
guerreggiare, non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al
noſtro propoſito dico, che ciò, che ſifacefle in inedicando Bacco, e quali
altrimedi camienti egli adoperaſle, e come co'l vino guariſse i mala ti, e
coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe, non; ne abbiamo al
preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna. E avvegnachè
valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita
chiamato, non però di meno eſſendo egli avido di loda, e vanaglorioſo aflai,
pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale,
vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure, con far veduta, che
qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse; perchè ſerviſſi delle divinazioni e
de facrifici, i quali tra per queſto, e per la ſperanza di veni re anch'egli
dopo mortequal Dio dagli huomini celebra. to, nell'Alliria, e ne'paeſi dalui
ſoggiogati, in primaj introduſſe. 1 Ante
tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber, et in gelidis berba reperta focis.
Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi.
Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti, Deque triumphato viſceratoſta
bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi, ſe
rozza veramente, e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe,o ſe
talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò, che da Agatorchide per teſtimonianza di
Strabone, e di Diodoro, che da lui tolfer di peſo ciò, chc ſcriſſer delle coſe
degli Arabi, narrato ne viene. Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia
per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro
piante, diffolvendoſi, e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di
quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni, e malattie.
Soggiugne egli poi, che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi,
e del bitume davan riparo: da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε, και μη τικής
δυνάμεως, και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ
την.Ρcrche fembra ad alcuni, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican
ti da quel volgar ſentimento, che l’un contrario, per l'al tro curarſi debba.
Ma che che ſia della verità di ciò,tan to, e tanto oggi meſſa in dubbio
da’moderni medici: di co, che ſe rimedio pur quellera, certamente era cgli più
acconcio a conſervare, e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani,
che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio
giudica, esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina;
perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di
ſoverchio turati, o ſpalancati i pori degli animali, e oltre al convencvole
ſtemperati. Maccrtamē te è da dire, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie
l'Arabia, quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi
quivisì fatte malattie, fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di
que'tcmpi; o alti vode,che dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò
della tram { curaggine di Strabonc, e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i
quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e
pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi,
e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina, Io quanto a me
confeſſo affatto non ſapere; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di
quel, che comunemente ſi giudi ca, quivi eſſere ſtata quella ritrovata: e ben
priina aſſai, che Cadmo le priine lettere vi recaffe; perciocchè per le gravi,
e crudeli malattie, che continuo quella infeltava no, ſommaméte allora faceva
la medicina alla Grecia me ſtieri. Il che fu anche cagione, perchè con tanto
ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e
non fu egli al mondo,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare, nazione alcuna,
che cotanto vis'inviluppal ſe, quanto la Greca. Perchè ſembrami egli certamente
imposſibile, che nelle tenebre di tanti, e tanti paſsati ſe coli, e da poche, e
non ordinate memorie, che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in
alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe; ſenzachè fon le loro ſtories
tutte ſofperte di falſità, e millantatrici, ccon l'uſate lor favole, e novelle
ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto
i Greci ſcrit ture pubbliche, nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe.
memorie delle coſe avvenute, oguiſcrittore poteva,come più gliera a grado
narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e
convinto di bugia. Arro ge, che i Greci, come afferma Dione, erano così avvez
zi al piacere, che ſtimavan vere tutte le coſe, che narrate foffero con
eleganza di ſtile; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi
deſsero, chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere, fenza durar fatica
nell'inveſtigar la verità de' fatti; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano, meſco.
lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie, di fare altrui delle loro
ſtrabocchevoli impreſe maravigliare; e altri fi adoperavano in ben comporre, e
inviluppar le coſe per coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò, che di
ma. gnifico, e di pregiato andaſſe attorno. Così il comun der Greci le glorioſe
geſte in medicina d'Oſiri Egizio, perta cer d'altre ſue impreſe, che non fanno
al preſente a noſtro propoſito, al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at
tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro, e illuſtre co' fat ri di Bacco
Afirio. Così ancora quanto di grande, e di glorioſo in medicina operaſle
Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente
attri buì; laſciando così in tanti volumi, e confuſioni il pren. derſi cura gli
ſcrittori di rapportare il tempo, in cui par citamente quegli antichi medici
Greci viſſero, de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche
contezze,che malagevole, anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene.
Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo, faronne una breve, comechè
confuſa accolta, eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà, ter rò
ragionamento di ciaſcuno. E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone
tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte
del medicare, che ragionevolmente giudicarono, aver lui meritato d'eſſer medico
diGiove, e cotanto lafsù pregiato, e tenuto a capitale, che più dicia
fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero.
Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων, e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea
detto, i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di
Peone: Tlainavos dirigevédans. Il che ci può far credere, che Peone foſſe
Egizio, e non Greco di nazione, ma inſieme con gli altri, che teſtè dicemmo
agli Egizi da'Greci rubbato; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone,
che ciaſcun medico dopo di lui giudicava, ſe eſser ſommamentelti mato, e
commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime
de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie; e peonie
parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina;
perchè cantò il Poeta Et fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis,
cioè a dire, come avviſa Servio, à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando
le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le
mani d'Er cole grayemente ferito: Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων,
Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone
appreſso gli antichi in maggior pregio aſs:ri del medeſimo Apollo: comechè
alcuni vanamente giudichi no, la modelima perſona eſſer Peonc, ed Apollo. Ma
ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce, che Omero nel
ſuo maggior poema, di Peone, e d'Apollo, come di due diverſe perſone ſeinpremai
farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che
vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo, ch'Eſculapio; nel quale crrore cadde
poſcia Artemidoro,quando diſse: Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces:
imperciocchè nc' tempi d' Omicro, Eſculapio non era ancora deificato; trattando
Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice, in favellando di Macaone, che
egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico: Φώτ' Α ' σκληπιά υον
αμύμον G- ιητήρG-, Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro
poſito della medicina, dico, che di Peone non s'hà ine moria, ch'Iomiſappia,
niuna, fuor ſolamente della Peo nia: Vetuftifima,narra Plinio, inventio paoniæ
eft, no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato
cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo
rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui
una fola ferita ſaldaca. Perchèè cgli a buona ragion da crede re, che Peone per
dovere a cotanta gloria, quanta egli acquiſtonne, condurſi, tutti i buoni, c
malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca, e fem, D d
plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic. E per av ventura egli ſi fu il
primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia:
dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle
ghiandaje veduto,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando, e volan do
accorron coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle; ſen zachè dicono correr
colui manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini, ſe digiorno la coglie.
Novella ſecondochè giudica Plinio, a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar
maggiormente ammirazione alla coſa. Ma non che ciò ſia vero, anzi le virtù
tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate, e da Peone forſe da prima
a quella attribuite, ora in verità tutto vane, e falſe ſperimentate fi ſono: ne
ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono. Perchè colſer cagionc alcunidi
dubitare, non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe, che quella cotanto
tenuta in pregio dagli antichi, e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri
giudicano effer veramente quella; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono,
che ſia in certi tem pi ſolamente, e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre.
Ne è da tacere in queſto propoſito, quanto arditamente uccellar ne voglia
Galieno, il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato, che la radice della
Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta, non ſolaine se
glidifenda dal mal caduco, ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di
preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc, e trapaſſando a dir d'
Apollo, creduto comunemente Dio della medicina: egli è da ſapere, che molti
Apelli già furono in Grecia, e cctante, e sì diverſe, e dal vero lótane ſono
quelle coſe, che per gli ſcrittoridilor ſi narrano, che ſarebbe certa mente un
logorar fuor di propoſito il tempo, il venirle qui ad una ad una a raccontare.
Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche, e confuſe memorie alla ſua
me dicina pertinenti, che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono.
E in prima, quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina, quale
è quella percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo
hanc berbam,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio
dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe; inper tanto non è perciò egli da
eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina, ficome
dal vula go, or follemente ſi giudica; perciocchè in quel medeſi mo tempo,
ch'e'fioriva, molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone; il qual
certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore, ch'egli inedefino conoſcendolo
tale, volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne
la medicinaapparaſſe, come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai. Senzachè narra
Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli
occhj, non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo,
Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i
pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες: έκ δε νυ Φοίβε, Iyisod dedeany,
ardermoor Java Toio: ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della
gente volgare, non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò, comeſi
voglia: lo quanto a me immagi gino, che Apollo, o avendo egli col ſuo ſtudio, e
colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole, o
pur da qualche vegliarda appreſa aven dola, a quella adoperare con ogni ſuo
ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe
ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire,
nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo, e dappoco in medicina, e'l ſaper ſuo
manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di
que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal
foſſe ſtato anch'egli Apol lo, in ciò certamente ravviſar fi potrebbe, ch'egli
poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo,
quella parte della medicina a imprender ſi dic de, la quale intorno agli
antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 poco in quella ancor profittando,peraltre
ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi,
apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita, cingannevo le del vaticinare.
Quindi andato in Delfo, la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la
ſerpe ingannevol mento ucciſi, la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu
dell'oracolo, ingombrollo di preſente, e cominciovvi in un tratto
maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole:
Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός, του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς
χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν
παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών, το μανλείον παραλαμβάνει. E queſto
vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo,
che abbia ſaputo la coſi. Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato
nell'arte de' vaticinj da Pane, che diede le leggi agli Arcadi, ſe n'an daffela
dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di
quel luogo chiamato Pitone, ribaldo, e terribile huomo,che per la ſua
grandearroganza dicevali se zw,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’
vaticinj, ſe ne impadroniſſe, e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli. Coſtuma poi
ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi, c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri, i
quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro, vezzatamente davanj le riſpoſte
inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto, chequalunque caſo poi
n'incontraſſe, ſipotea ben dire, eller quello verainente ſecondo il lor divino
predicimen to ſeguito. Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo
Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli
malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo, c con duplicità, delle lor
malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe.
E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò
Apollo, che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio
della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 perare, che di
più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante, e poco del meſtier
della medicina confa pevole reputato. Ne per pruova altro che talcertamen te
potevano giudicarlo, riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua
ſorell.2 (la qual medica ancor ella, ritrovò, e diede ilnomeall'Artemiſia)
morirſi a centina. ja i miſeri malati, ſenza mai guarirfene niuno. Infra’qua li
furono i figli della ſventurata Niobe; di chic eila cotan to dolor preſe, che
mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti, ſenza
alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò; perchè poi preſer cagione i Poetidi
favo leggiare, ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe. E quinci nac que poi,
ch'eziandio dopo che furono Apollo, e Diana nel numero degli Dei allogati,credevaſi
comuneméte, che tutti quegli infermi, che capitavan niale delle lor malat tie,
ſe femmine follero, perman di Diana, e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro;
perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ
κατέκτεινε. E’l medeſimo poeta finge, ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel
campo greco; ne per altro, al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle
mani d'Apollo, é ne ven ne giudicato Dio infernale. Qual ſi foſſe egli poi
ne'co ftumi, il taccio; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie,
e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto, per fua mano, e a Lino. Tanto mipar,
chedebba lo ac cennare ciò, che alnoſtro propofito ſi conviene, cioè, ch ' cgli
avvili da prima, e profanò il ſanto meſtier della me dicina, inſegnandola ad
Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità, e l'onore; perchè
ella co sì preſso Ovidio fi vanta, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille
med fpolium virginitatis habet; Id quoqueiaétando: rupi tamen ante capillos,
Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas, aurumque
popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt. IR. L:Ipfe ratas dignam medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua
dona manus. Quècunque
herba potens ad opem,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe,mea ef. Ma
trapaſsando a Melampo: grande nel vero, e non ordinario fu il pregio, che
guadagnoſli oglicolla me dicina, mentre oltre alle figlie di Preto, egli guarà
an cora della ſterilità, per quel, che nc narri Euſtazio, Ifi cle, colla
ruggine del ferro; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici, maſſimamente di
que' tempi, per più ragguardevole render l'opera, facefle egli veduta,do po
aver ſacrificato un bue agli uccelli, con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua
parte, ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe, che la ſpada, colla
quale Iflaco té tò d'uccider lficle, e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio,
l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano
intendimento fornito, e che egli for ſe il primo, che cominciato aveſſe a
medicar nella Grecia co’minerali. Perchè agevolmente porraſſi argomentare ',
l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo: comc che per loro poca
uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente
diprima lieva, detto fia, che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe.
Ma come ciò avvenir poſla, che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la
ſterilità dall' huomo, e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare, egli
non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde
provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere
talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi: alla quale ammendare fa
certamente gra diſſimo proil ferro, e maſſimamente la ſua ruggine; la quale
oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare, che la
limatura diquello talvolta apporta, el la preparata dagli aliti acetoli del
nitro, e del fal ma rino, che continuo per l'aria diſcorrono, i qual eſsendo
più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno, più cfficace, e
profitcevole ſi rende di quella ruggine, che per ! man de'Chimici maeſtri li
lavoraziinperciocchè è più accô. ia a meſcolarſi colle ſottiliflime, e acute
particelle, che travagliano le viſcere. E di ciò fenne più volte pruova quel
celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio. Ma ſoſpettar p avvétura alcú
potrebbe,che o nell'Egit to, o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni
una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle; percioc chè, focondamente
chenarra Erodoto, egli dell'Egitto alla Grecia, inlieincco'ſacrifici di Bacco,
molte, e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes
oφoν, μαντικήντα έωυτή συσή σαι, και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά
απηγήσασθαι Ε΄ληση, και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά. Tanto, e
tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone, che non
ſolo all'indebolite parti del corpo, come Maſſimo Tirio racconta, con efficaci
ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi
ancora utiliſime medicine appreſtava. Ne ſolo fu cgli (per quel, che n'avviſi
Stafilo ) eccellente in filoſofia, e in aſtronomia; ma valſe ancora affai nella
mu fica, e in modo, che ſeppe, come il medeſimo Stafilo, e Boezio narrano,
parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di
ſpiare i ſegreti del la medicina, che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan
doffene aid abitar nelle ſelve, per poter ivi a più bell'agio la natura, e le
complellioni dell'erbe inveſtigare; nel che s'adoperò egli si bene, che
inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri
inventor di tutta quanta la micdicina fu detto; e in cotanta fama, e grido
crebbe, che non iſdegnarono (come narran Filo ftrato, e Zezze) per appararnela
medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio,oye egli
ſtanziava, Telamone, Peleo, ed Achille, e Giaſone, ed Ariſteo, ed Ercole, c
Teleo, ed altri: huomini di gran pro, eva lore; i quali, coine laſciò ſcritto
Maffino Tirio, egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando, e nelle cacce,
e nel corſo, facendo loro giacer nella nuda terra, e per burrari, e per aſpre
vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di
fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli; e doppia utiliti da
tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini; per. ciocchè non pure il modo
di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano. Neè da tacere,
che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze, media car ſoleva
anche i bruti animali; anzi cgli li fu il primo a ciò fare; e imperò venne
Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia,
comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli, coine
narra Apollodoro, relicuita la viſta a Fenice, il qual fu poi un de ' compagni
d'Achille nella guerra Trojana: cù. το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης
φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος. Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας
υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις, βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora
par, che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato;poichèdeſiderava,ch'egli
tornaiſe in vita, acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone,
perciocchè egli pativa del mal della pietra, co me dice un'antico Scoliaſte di
Pindaro, o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας, et Κρεαν
του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες, ζώειν τον απικόμδυον, Io
vorrei ch'il Filliride. Chirone, (Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea
reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ
Χείρων, και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν, ατήρα του κέν
μιν πίθον, και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών, Or ſe ne l'antro fuo
foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato, Saria mia voglia inteſa A
dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali, ch'induce Eſtremo caldo, bai
didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia, che'l antiche
ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic, o
perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone, come vogliono Euſtazio, e Paulo da
Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo, che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate,
com'eſtima Galieno. Ma io, ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di
leggierimilaſcio trarre, a cona feſſar il vero, aſſai dappoco, e rozzo parmi,
chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia; perciocchè egli l'uſo del ta ſto, e
le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva. Perchè ragionevolmente
immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire, perchè
Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle; e sì fattamente, che vano riuſcì
tutto il ſuo ſtudio, e ſapere, nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il
dolore acerbiſsimo, che quel le gli cagionavano; intanto che a morte poi ne
divenne; comeche alcuni dicano, ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille. Ma
vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa, enegli antichiſecoli
celebrata. Tiene Eſculapio, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più
orrevol grado in medicina, che inedico giammai aveſſe; intanto che meritonne
quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe, e di gran
lieva ſi narrano, le quali traſandando lo, alcune diquelle, che alla medicina
s'ap partengono ſol brievemente dironne.Già dicevam di lui, eſſer fama, che
primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole
poi all'eſperien za, e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di
sfenne affatto, el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo
morte, cancellate in tutto, ed annullate Еe avrebbe, ſe di ciò tare gli foſse
avanzato tempo. Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse
folamente inteſo alla Cirugia, ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai
intramelso.Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui
cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo, il medico: egli è da dir, che
di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse; perciocchè
quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte
ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per
curar (i non ſolasiente i feriti, ma i febbricitanti ancora, c que ch'entro
d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων
ξυνάονες, και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι, ή χερμάδι τηλεβόλω, À Deenvã Avei nego
tórefwoodśuas, και Xepewo, aurons amor, áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με
μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων, τους δε προσανία πί νοντας, ή γύoις περιάπων
πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς. Quindi veniano a lui le
ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali, O traejjero in fen fiftola,o
piaga, O dapietre, odaferro aſpra ferita, O pur nafceffeil duolo, Da'diſcordi
fra lor femivitali, Ogni dolor, ogni tormento appaga: Porge con molli incanti a
queſti aita, Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme
aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia, Drie 1 1
1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra, e fero duol travia, E prima
l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ'
ήετανούσων. Ffculapio s'appella, Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo
da lbson caccia, e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò, che dice P12
tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina, la quale
ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato
aveſe il ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare;
perciocchè nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo
altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli
inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi.
chevoli, e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e
raccheti le contele, e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando; e queſte
diſcordá ti coſe vuol egli, che ficno il freddo, e'l caldo: l’amaro, e'l dolce:
il fecco, e l'umido, e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in
medicina Eſculapio, certamente è da dir, che troppo ftrabocchevoli le lodi
immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto; -e ben ne potrebbe egli a buon
concio eſſercontento di meno; imperocchè, non che egli l'intero compimento
aveſſe giammai dato alla medicina, come Erodoto immagina, anzine men la pri
mabozza, per que, che fi ſappia, certamente le dicde.' E che mai potrà il
medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare, o
che queſte nel cor po umano ſi trovino, ſe poi più avanti non ſappia minuta
mente, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo,
onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga, in che la lor natura
conſiſta, con quali argomenti poſſan porſi d'accordo, come vuotarli, qualo ra
lien di foverchio rigoglioſe, e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora
piggiorino,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora infievoliſcano; che per altro
quel, che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio, ad ogni huom di
contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto. Affai rozza dunque,
e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina, ne sì grandi, e
rag. guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice; e ſc cgli oltre
all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci, ei bruti molte, e
molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto,
oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava, o per trar fuora i denti dalla
bocca, che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria, co mechè Cicerone ad
un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice. Aeſculapiorum primus Apollinis, quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe,
primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur. SecundusſecundiMercurii frater: is
fulmin percujus dicitur humatus effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe:qui
primus purgationem alui, dentiſque evulfio nem, ut ferunt, invenit. Ne ſembra
punto vero quel,che Diodoro dice d'Eſculapio,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi
argomenti guariſse; onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati
anche in vita i morti; imperocchè Strabone, graviſſimo autore, e degno ſenza
fallo, che gli ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni
furono d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono, le
cure tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe
dire, ſe non fe, cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei, perchè l'arte
della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua
groſſezza forbita: quoniam adhuc rudem, a vulgarem, dic'egli, parlando
d’Eſculapio, banc fcientiam paulòfubtilius excoluit, in Deorum numero rece
ptuseſt. Convenne adunque certamente, ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la
ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse; imperciocchè cgli,come Pindaro
dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San
Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con
giunterie, ed altri rei artifici andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo (il
che mol to ajutar ſuole i medici, ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo
liberamente a ciaſcun, che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che
giugneva prometten do le maraviglie. Così egli vanagloriando per tutto, ſe non
huono mortale, ma celeſtiale Dio eſser diceva, e millantaya temerariainente il
ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti. Le quali arti, e giunterie,
acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli, che
l'iſpida, e folta barba nudrendo, e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga
ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole
trovato crcdito. E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili, che
ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso. Il che diede forſe cagione a Luciano
di far dire da Momo ad Apollo, ch'egli non operaſse come fanciullo, ma
favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare
per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio, il qual così grande, e
lunga, e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας, αλα λέγε θαρρών ήδη τα
δοκάνα, μη αιδε. σθεις, αγένειο» ών δημηγορήτις, και αυ% βαθυπώγωνα, και ευγέ
ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole, ch’Eſculapio a quella guiſa
appunto, che a'noſtriciurm.dori veggiam fare, portaſse ſecole ſerpi: e che per
riſparmio camminaſse a piedi: e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue
ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe, e'l baſtone; ſopra le quali
coſe poi ſognate ſi ſono tante, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori,
chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare. Ma vie più dopo inorte
crebbe in fama, edono re Eſculapio, tanto era folle, e cieca allor la gentilità:
perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia
ricchiffimi tépj, co maraviglioſe,e belle ſtatue dimarino, d'avorio, d'argento,
e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie; e sì, e tanta
era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi
vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte; i quali # di notte, edi giorno
quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di
ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto, dove del ruffiano dice Fedromo a Pa
linuro: Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano; e così
ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi, fcaltriti, facendo veduta
dinulla ſaper dimedicina, o del male, che coloro avevano; quindi appreffati
all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento
all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno
additaſse il rimedio;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato
ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio, c per li lunghi ragionamenti, che
dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti, i quali
avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver
inteſo quel rimedio fterfo da'incdici,o da’altri. Ma pur v'aveva fra' Gentili
huomini di ſcalcrito intendimento, chea ciò niuna credé za preſtavano, come
Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio,che
s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred
do, egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo, c
che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato, le medicar avelli voluto un
bue? E ſe mai interveniva, che alcuno (o che'l rimedio, o ch'altro ca gioné ne
foſſe ) guariſſe, oltra’doni, che coluiagli altari offeriva, toſto alle mura
un'effigiata tavoletta, a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a
gloria d'E ſculapio; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj
rimedj; c delle dette già tavolette, anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni;
delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra, in cui fu
regiſtrato, che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo
ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta, che veniffe, e da tro altari piglialle
pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo
liberato colui, lefe le grazie alla prefenza di tutto il popolo, αίμα
αναφέροντα Ιαλιανώ, απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών,
καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ. φας,
και εσώθη, και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla
medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina, foſſe così ſtato valoroſo Ne
l'ardue impreſe del ſanguigno Marte, non avrebbe certamente ripieno il mondo
delle ſue mara viglioſe prodezze, ne ſtancate di tanti, e tanti ſcrittori le
penne per celebrarle. Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire, o a poco
intendimento, ch'egli avuto avef ſe; perciocchè logorò egli gran tempo, egran
fatica ad imprender la medicina; e fu sì profondo, ed acuto il ſuo
intendiinento, ch'ei ſi fu il primiero a comprendere, che per ta fimilitudine,
la quale i Chimici chiaman ſegiratu, ra, ravviſar ſi poteſſe la complesſion
delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal
l'Idra, ricorſe per guarire alla Dragontea, la quale coll? Idra ha alquanta
ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo, o per più
ragguardevol renderli appreſso la gente, o per altra cagion, che ſi fofse,
infin. geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato: il qua le l'aveſse
impoſto, ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole; perciocchè
quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra,colla
quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto
medicare, eguarire. Io non ſo, ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti
portato, che foſse giunto a penetrar, che la Dragontea col ſuo fab volatile
acuciſſiino, del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare
l'acetoſità, in che co filte il guarir delle piaghe; ma la medicina non era
allora tanto oltre paſsata, che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire.
E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC, per la quale Ercole non potè
nella medicina sì eccel lente divenire, e che guarir non poteſse egli le piaghe
al fuo maeſtro Chirone, comechè gli veniſse fatto di guarir la moglied'Achille
preſso a morte ridotta; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte, averla lui da
morte riſucitata: E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere della medici na
d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti, iquali così di lui
confuſamente ſcrivono, che nulla più; dicendo Varrone, eſsere ſtati quarantadue
famoſi huomini di tal nomé; altri dodici, altri tre, altri due, e Ci cerone ſei;ed
evvi ancora, chi porta opinione, non eſser mai ſtato sì fatto huomo al mondo.
Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo, o pur di Giove, come altri
giudica, non ne vengono ſcritte, per quanto lo ſappia, ſe non certe poche, e
confuſe memorie; ſolamente ſap piamo da Cicerone, e dallo Scoliaſte
d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio, il miele, e'l
Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ. φίον
εξεύρεν, ώσπερ, και το μέλλG-. Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino col
miele, per quel che dica Plinio: Ari Seusprimus omnium in
eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte
provenientis: e non fi dee tacere ciò, che d'Ariſteo dice Giuſtino: Arifteum in
Arcadia lase regnaffe, eamque primum, apum, á mellis ufum, &lactis,
&coagulihominibus tradidiffe, folftitia. leſque ortus, do federum primum
inveniſe. Ma quantun que il filfio, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non
fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù, e
la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero, abbiano recato gran giovamento
al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo, non sò locome ei ſi
poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto
avvedimento fornito, che ſeppe con l'uſate giunterie,e menzogne riparare alle
diffalte del ſuo poco ſapere; e raccontaſi di lui da Teofraſto, da Apollo nio,
da Cicerone, da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo
furor della canicola gravemés te percoffa, sì che feccavan le biade, e gli
huomini mi ſeramenre morivano, eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo
domandato, come ſi poteſſe a tanta calamità ri parare, n'aveſſe rilpoita,che
proccuraffè egli prima di pure garcon vittime, e ſacrificj l’Ilola, la qual era
così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario; e
quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto,
ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli
doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi
venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente
compenſo; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito,ſpiraſſero i promeſli venti,
e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w?quell'Iſola
cagionati; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço, ed Apollo Agreo chiamato, e
frale ſtelle in Cie: { o collocato. Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat
folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo, ſappiendo di
certo, che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono, cd
accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del
greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne
altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi, che l'invincibil fortezza d'un tanto
Eroe; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe
battaglie, ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da
non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e
perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione, quanto
più generoſo, e più magnifico ſenza fallo è il dare, che'l torre altrui la vita.
E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe, che però appo
Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da
Chirone fuo Avolo inſegnata. Quin etiam ſuccos,atque auxiliantia morbis
Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos, quid hiantia
vulnera claudat, Queferrocohibenda lues, que caderes herbis Edocuit. Ff Fu cgli
tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente ferito,
volle effer ſolamente da Pa troclo medicato, perchè eglifoſse compagno
d'Achille, c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato; Νίζ υδαπ λιαρώ,
επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα, τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι. Ma
ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella
peſtilenza, che allor travagliava ſommamente il campo greco; e per aver anco
ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri
molto giovevole alle ferite, e ad altri parecchj malili ſperimenta; e
ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la
ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva: Eft,
rubigo ipfa, ſcrivePlinio, in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles,
five id area, fiveferrea cufpide feo cit; ed in un'altro luogo il medeſimo
Plinio dice: arugi nem inveniſe, utiliſimam emplaftris, ideoque pingitur ex
cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi; avvegna chè altri vogliano
averlo egli con l'Achillea guarito,ed al tri, con l'Achillea, ccon la ruggine
del ferro. Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo, cheſi fappia infra'greci me
dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura
alcun ſoſpettare, e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine
del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo, non già alla feri ta di
lui; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non
coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re, che l'atta d'Achille
modelima faceva, e riſanava le feri te. Il che ſe vero foſſe, non moderno
ritrovato, ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura, che chiaman ſimpa tica
nclle ferite. Dice Plutarco, che Achille intendente foſſe del modo di guarir
colla dieta, e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in
prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano, e li ripoſano, toſto
triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono; e però dice
che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per
l'intermeſſo eſercizio, l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di
Plutarco, Io non ſo, che gran coſa queſta fi ſia; ne per eſſa, ne per l'altre
di lui narrate coſe ſi può dire in verità, che Achille gran medi co ſtato e’ſi
foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa
invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti, e tanti
valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper
ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente
negando; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione; ma, ne queſti, ne
quelli avviſano, chele ferite tal volta,eziandio più gravicpericoloſe ſenza
rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor
guarigione a pro della ſimpatica medicina. Io non ſaprei ridire ſe Palamede
inventore di cotante; coſe, ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco
ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto
veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a
filoſofare; in tanto, che ne venne appellato noivoo PG, cioè a dire il ſavio di
tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda; quantunque Omero non
faccia di Palamede menzione alcuna, o per invidia, che gli aveſſe, perchèegli
era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone,
ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà; impertanto li ſcorge
manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero, eſſere
veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza
non puntominor d'Achille. Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non
ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato; il quale l'introduce una
volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte, faccia
meſtierimangiar po co, e affaticarſi molto, e che così egli avvezzati aveſſe a
viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città
dell’Elleſponto, ed in Troja appiccata, aw ni un de’greci noja mai diede;
comechè eglino fi foſſero in Ef 2 peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto
cotali avver. timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia
non ha guari pienamente ſperimentato; e però di più dirne al preſente mirimarrò.
La medicina di Patroclo compagno d'Achillo, e di Po dalirio, e Macaone
figliuoli d'Eſculapio, che ſerbaraſſi eterna, ed immortale nella memoria degli
huomini mercè del ſovrano poeta greco, che ſi diè cura di cele brarla: ſembra
ad alcuno, che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe; e veramente a riparar i
dannidellapeſtilenza, che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi
leg. ge in Omero, che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai
s'adoperaſſero: avvegnachè la cura de’ga voccioli, e d'altre enfiature, che
ſuolo cotal morbo cagio nare, alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual
coſa vien raffermata ancheda Celſo, allor che facendo men zione di Podalirio, e
di Macaone, dice: Homerus non in peftilentia, neque in variis generibusmorborum
aliquid at tuliſe auxilii, fed vulneribus tantummodo ferro, et medi camentis
mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto
Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e
fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro
buon nome in medicar quel morbo, cui non v'ha rimedio alcuno, e che l'antichità
credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna
divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe;
ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio, non ſolamente curò diverſe infermità:
ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina.
Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone, e per
Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente
comprendere. Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle
labbra il ſangue delle ferite; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao
la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ'
εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα. Sem.,per Sembrare egli potrebbe per
avventura ad alcımno il ciò fa re vano, ed inutile, anzi per l'umidità della
ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare, ſenzachè è ſtomachevol coſa, e
pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io, comeil primo Baron
dell'oſte greca, e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi
poteſse ad una sì vile, e vituperevole opera. Non ſolo permet teyan poi
coſtoroa'feriti mollidi fudore, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla
battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra, ed al frelco ventilar de’zefiri per
riſtorar dolcemente la ſtanchezza; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch? egli
fu ferito ciò fece: οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og
ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino
molli di ſudore fiano,non che a’feritija? quali feoza fallo per lo minor danno
inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia. Ponevano altresi medica do
alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude, e ſem plici fenza eller punto
confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι
διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti
intorno al regolainento del vitto degl'infermi; eglino cibavangli di groſse
cipolle, e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά
ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone; bem veraggio il
qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di, e poderoſi vini delle
Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ. E queſte fono le
care, e falucevoli vivande, e beverage gj, che la belliſſima Ecamede concubina
dell'antico Nem ftore dava loro; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo
Macaone,ſenza conſiderare, ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che
agevolméte ſeguir ne poteva Ma ben ſo lo, che di fomiglianticoſe, ed in pro, ed
in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino
ſomigliantiguiſe di sì reo, eſconcio medicar praticafsero; ma che Omero a ſuo
talento le finga, poco eſsendo della verità informato; che ſe ciò vero foſse,
lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero
l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro,affai ben
conoſciuto; nihil unquam. ceciniſe, dice Pier Laſena, quod nun prudenter
excogita tum,ex induſtria diſpoſitum, &in alicujus rei utile dixeris
documentnm. Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole, a
ſtagnar il ſangue delle ferite, o pure a ſciorlo, ove egli fia rappreſo, e
corrotto; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag. gio
a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca
flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire, che
per lo lorotale aguto, oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che
difender le ferite dall'accroſità, da cui certamente la febbre, e'l dolore, e
lamarcia,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene. E ſe pure
coloro uſava no con ſemplici radici, e crude, medicar le ferite, ciò era,
perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli, e vigoroſe,
quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto
confarle, e ma cerarle, e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla
fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire, eſsere ſtate di tanta
virtù, e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi
punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma
raviglioſamente ſaldavano; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento
alcuno di mangiare, o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa,che a'
tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti,
poco, o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser
gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe, mangiando in
brigata; ſenzachè Platon dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel
mangia re, e pel bere, non avevan poi gl'infermi biſogno, che regola alcuna
intorno a ciò la preſcrivelſe; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non
eſsere fuor di ragione; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare
al gua ftamento del ſangue, traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col
fuo ſale dall'acetofità, per cui elleno marci ſcono; perchè cotal medicamento
a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo
eſser giovevole a'feriti, e utile aſsai; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani:
da’quali per avventura Podalirio, e Macaone, oi loro più antichimacſtri
ildovettero da prie ma appararc; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda
a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare?Maper me non cre do, che si facce
difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse,
deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o
dal la famaerano rapportate, maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna
d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago, c più inır.zviglioſo il ſuo
poem 1,0 per altra cagione; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo, imperoc che,
ſe pur è vera la ſtoria, il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e
valevoli a guarir le ferite, che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in
quanto al Ciceone; egli è una bevanda in verità sì ſconcia, e mal fatta, che ſenza
fallo non può ella altro inai, che nocuinentu agli huomini ſani, non che
agl'infer mi apportare, che che ſi credan Plutarco, ed Ateneo, i qualinon
avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne, che'l cacio, il vino, e la
farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere. Vltimamente, le radici, e
l'erbe non preparate, maffimamente l'Achillea, e l’Ariſtologia, colle quali
molti antichi ſcrittori ſi credono, che Podali rio, Macaone, e Patroclo
medicaſsero, abbondevoli ſo no d'umore acquoſo, e non ben digeſto, il quale
oltre che infievoliſce il ſolfo, e l'alcaliloro volatile, in cui law virtù
conſiſte, per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole.... In
quanto poi al lavar, come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite, non è
vero'ciò, che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente
il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero, appo il quale ſi
ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni; ina di ce eglichiaramente, che
l'acqua, colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai
ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no
poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge, che'l ſuo Mezenzio ſi
lavaſſe le piaghe. Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat
lymphis, corpuſque levabat. Nove, aphyſice, dice ſu queſto il chioſatore
Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua, Oratio
vera eft,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente
troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di
favellare: ma un tal modo di mcdicar le ferite, con l'acqua lavandole, tut to
che ricevuto,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci,
onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti
Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente
ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento;laonde con più lag gio avviſo
da’moderni medicanti leferite col vino, o col l'acquarzente, ovc,lor huopo ciò
lor faccia, vengon lä vate. Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio,
e Macaone, venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti,
che furonodi ſtatuc, di té pj, e facrificionorati. Quelle coſe poi, che di
Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino, elle fon
tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi; ciò Zono,degli avendo
rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al pericolo da un'avvenente
paftore,e lu’l lido corteſemente accol to; e che poi; il Re di quel paeſe
avendone coutezza avu ta, per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis
gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta; cui egli facendo crar
ſangue da amendue le braccia, e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità
rimeſſa; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del
Cherſoneſo dotatala, data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel
Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città, una col nome della moglie
Cirene, e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata
ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo,
avellimo molto addietro fatto parole di Teſco, di Giaſone, di Pe. lco, di
Telamone, e del ſuo figliuolo Teucro, e d'Erobo te: ora concioſliecoſachè
ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli; e
perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco, c Gor gaſo
figlidiMacaone, e d'Anticlea, i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro
Avolo materno, e come nar ra Paufania, lolevano gl'infermi corteſemente curare,
e maſſimamente le dislogate oſla, o membra in buon concio rimettere; onde per
grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati. Ne meno terrò lo
ragiona mcnto diSoſtrato,di Dardano, di Cleomitide, di Teo doro, di Criſime,
dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a'
più baſſi, e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci
alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema, del quale Ippocrate fa parole
nel libro della vecchia medicina;ritrovato,comepar ch'ca. gli porti opinione,
da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e
ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero,che ne il caldo,ne
il fred do, ne l'umido, nc'l fecco, ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe
d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino, o l'ecceſso, che
vogliam dire, il qual per Gg ſoverchio di vigore, non poſſa eſſer dalla natura
ſoprava zato, ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto
proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via; il quale ecceſſo dicevan'
eſſi avvenire, qualora l'amaro, amariſſimo: il dolce, dolciſſimo: l'acetofo,
acetofilimo divenga;mentre portavano opinione, l'Amaro, il Dolce; il Salſo,
l'Acetoſo, il Diſcorrente, l’Acerbo, e altre infi nite coſe di varie, e molte
virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente, che fteano
frá eſlo lor meſcolate, e confuſe, e l'una temperata dall'altra; che foj mai
avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi, così ſceveratamente ſe ne
ſtca, allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi
con mole ftia ſentire, e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli,
eglino ſomigliantemé te diſcorrevano:dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1
huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe, e ſa pori acconciamente
temperato, e che quegli, onde alcun danno riceve, abbiſogni ch'una delle già
dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi, che il caldo,
e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi; cd ove rimeſcolici
inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano; ma quantunque volte ſi
leparino,e che o riprezzo, o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro
contrario imman tinente accorrendovi, e la furia del tiranneggiante nimico
affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi. Il che ſe pur
non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre
gravi malattie avvenire, dicevan'eglino, che in sì fatti cali non già dal folo
caldo, ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la
febbre veniffe generata. Finalmente tutto ciò, ch'Ippocrate dietro a tal
materia fiegne a narrare, e come egli prenda a ripigliar coloro che
dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido, al
ſecco, al freddo, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo,
e forſe di poco momen to, lo to, lo tralaſcio diriferire. Ma quanto al fatto
del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo
Ippocrate, che Apollo, o Chirone, o Eſculapio, i quali è fama d'aver
primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad
Eſculapio, comechè contuſamente ne faccia parole Platone, e a guiſa d'huom, che
di dubbia, coſa favelli, par che dir voglia, ch'egli in tal modo fi loſofaſſe,
ed è veriſimil molto, che dal ſuo maeſtro Chi, rone, o dialcun'altro egli
appreſo l'aveſſe: e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico: eche
poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d '
Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando,e a quelter mine condotto, ſicome
egli il riferiſce; ma egli è nondi meno per mio avviſo, aſſai manchevole, e
ſcempiato, ne Ippocrate interamente, e qualli converrebbe il rapporta; si che
ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi
capiſſe. Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti, e
medici inſie me, o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e
confuſa notizia, che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge, che non mai
dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi, che di quattro
corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati, tutto l'Vniverſo com pongali, i
quali diquelle, che prime qualità le ſcuole, appellano forinati, con altre, che
ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2
che quaſi infinite particelle di figura diverſe,in varie gui le ora
accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro; o per me'dire, e più
ſecondo la loro opinione, da tale accozzamento, o ſceveramento tutte le coſe ſi
faceffcro in varie guiſe ſenſibili; e che, ne generazione, ne corrompi mento
v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il
medeſimo Ippocrate; ma che ogni coſa, che dinuovo ſimanifeſta, pureravi innázi.
Il qual modo di filoſofare, ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora,
certamente da quello non è guari di verſo. G g La maniera del medicare di
quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema, viene apertamente
accennata da Ippocrate quando dice, ch'eglino davano.opera a tor via dall'huomo
tutto ciò, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole, e no'l potendoella
vincere, offefa ne rim.z. ne; come l'amariſfimo, il dolciſſimo, e altre
ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino,
che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare, cioè allor,che per eſſer elleno
al dovuto cocimento perve nute, era ceffato il lor impeto, e mitigato il
furore; d'on de fi cava, che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le
purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le; e chiaramente dice
ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate, che allor, che nell'huomo ſomınamente
creſce la collera, in tutto quel tempo, ch'ella ſi trova ſtemperara; cruday e
ſincera per arte niuna ſi poſsono, ne il dolore, ne la febbre, che da
leicagionanſi mitigare, non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino
cercato aveſsero di cuocere, e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli
materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare, per quanto
raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole, che reftè abbiam
noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi. Ritrovò a'noftri
vicini tempi un sì facro fiftema, oltre al Paralcelſo, al Severino, ed al
Quercetano altri, eal. tri doctisſimi ricevitori; i quali colle tante, e rante
cu rioſe, e ſottili dottrine, che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono, e lo
fecero altro in verità parere da quel lo, che così rozzamente defcritto nel
libro della vecchia medicina ſcorgeſi; ma non poterono nientedimeno que'
valentisſimi huomini, per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in
opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia, ritrovar argomento
giammai, che effi cacemente provar poteſſe, che nell'huomo, ed in altri
corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe; laonde degni
certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa,fe ne meno eglino
non le vennero in quelli a dimoſtrare; ed in verità lo per me crcdo, che ne me
no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai; imperoc chè ſe ſono, come esſi
vogliono, in minutisſime particel le diviſe, e l'une coll'altre meſcolate, e
confuſe, necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere, ne effetti poſſono
produrre, da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo,
ed in altri corpi, e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle
dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe
vi erano in primanaſcoſe, o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono
ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e
ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia? Ed oltre a ciò
fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la
natura dell' acerbo, delPacecoſo, e d'altre ſimili coſe, qual contezza de’loro
effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic, e della virtù
deʼmedicamenti, e del modo d'ufar gli. E forte aggiroffi Ippocrate, ſofifti
tutti que' fapien tìſliini filoſofi, emedici nominando,i quali volevan,che il
medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato, e intefo
minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali, e quanto al ſuo
mirabiłmagiſtero concorra. E parvc al buon huono, che il conoſcimento di ciò
antaa più alla pittura, che alla medicina s'apparteneſſe; e ba it are al medico
ſol tanto, ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare, e al bere, che gli
convicne. Ma quefto medelimo chi non vede, che non mai poſſa fa perfi, fe la
natura dell'huomo in prima, e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e
d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi
pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le
malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ
maiimmagino,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo
Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire
eglino, o eſſer mol altra opera, greca, molto, e molto agevolea ritrovare il
rimedio, ſe le malac tie dalcaldo, o dal freddo ſolo avveniſſero, avendo noi
pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare, o raffreddarne
poſſono; o pure, che il loverchievol caldo, in perdendo le particelle, che
fanno il moto, les quali sfumano velocemente, ove non v'abbia coſa, che vaglia
a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir
potevano delfreddo fover chievole,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte
ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più
antico ſiſtema della medicina, ficome a noi ne giova credere, al preſente aver
detto; onde come d'abbondevole, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi
d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono: chenon pur
la grecia tuttav, ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E
primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa
Ippocrate mézione; il quale dell'u mido, del ſecco, del caldo, del freddo nel
filoſofare ſi valſe; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to, di
coloro, i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo
d'inveſtigare li ſtudiavano; ed altri, ed altri Siſtemi ancor covenne,che a
que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte, e
varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò
fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità, e per vaghezza di
ſpiarei ſegretidella natura; ed altri per intendere oltre al filoſofare, anches
all'opera della medicina, fino a’tempi d'Erodico, oveda prima ad alcun ſembra
che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina; le pure alai
molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne, e ben’ Ippocrate nel libro
della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta
menzione, formati da que'medici,che volevano, o dal ſangue, o dalla collera, o
dalla flemma elfer formato l'huomo, Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro;
más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo: ed lo
tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo, che già omai è
l'umid'ombra della not te ſopravenuta, egli fie convenevole, che ad un'altra
ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP)
RA: 240 All E quelle gravi, ed acerbe quercle, che veggiam tutto di metterſi
fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate,
perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi
libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente
guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli,
cmenche giuſte doglianze; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca
medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti, fideu
certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita, ne da do Ierſene gran fatto,
anzi da non mettere in conto; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano, e più
vera, e fotril doctrina contenenti, bcn'a torto, s'io pur non vado erra to,
oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni, o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto
accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed
a ſignoreg giare la Grecia tutta; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore ſurſe
ſtruggédola, ed ingiuſtaméte uſurpádola, cd occupandola inleme colla Città,
ſede, e capo dell'Orientale, Imperio, allora preſſo che tuttii libri, che vi
avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini nelle
noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche,
ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi
godo no. La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non purdella
medicina, ma delle più nobili arti, e delle più ſovrane ſcienze,non già alla
furia dell'armi, o delle fiamme nemiche: non già alla rabbia del tempo di tutte
l'umane coſe fiera divoratrice; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men
furioſa, e mentemuta cagione.Diec tracollo, chi'l crederebbe ! dier tracollo
dal lor primo ſplendore le lettere, non per altro, ſe non ſe per manca mento, e
per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno, e riſtoro,
quindi ſterminio elleno ebbe ro, c ſtruggimento; conciofoſse coſa,che, ficome
talora in bello, e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene, logli, ed erbe
ſterili, e dannoſo, e ſoffocarlo, cosìſur ſero tratto tratto nella Grecia fra
quell'anime grandi, es valenti, che del vero ſapere eran ſolamente paghe, alqua
ti huomini di ſtolido, ed ottuſo intendimento, i quali da vaghezza tratti
divano onore, e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi tener alla
minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera; e tutti intelero a certe vane ombre di
dortrine; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a conſumar dalla
polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di riſerbare, e di
tramandare a' po fteri que’libri, che con pompa, cd arringo di belle parole facevan
veduta d'inſegnar tutto quando poco, o niente in lor v'era di pregio; e delle
lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte, la troppo credula,
anzi cieca, pofterità, come prezioſi teſori gli ha ricevuti, e ſempre mai
venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai ſcorgerci da
miglior lume la verità: mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la incominciata tela
de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora per la più Hh
parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va
buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico,la
quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però
di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata,ere ſa
immortale, per fatica, che vi ſi duri, Io non ſo vede re, come ſi poſſa giammai
ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie
avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere alcun degli
argomentiond'ogli fabbricolla indovinare; impertanto a volerne dir ciò che per
noi fi può, rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior
maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e
ſtropicciarle, ed ugnerle, e regolatamente prendere il ci bo, chedi giovevoli,
ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo
Platone affai Íconciamente vituperato; dicendo, ch'egliin sì fatta gui fa non
diſtruggeva altrimenti le malattie, ma le complcf fioni ſolo a poter quelle
lungamente foſtenere ajutava; ond' egli paſsò ad affermare la medicina
d'Erodico eſſer arte da Pedagogo;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini,
così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe
meritevolmente pagata; imperoc chè della ſua inutil medicina, penofa, e
cagionevolvita traſſe continuo, e ad una lunga, e ftentata morte ſempre
diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo, egli per
trovarqualche argomento da ſoftenerla, tutto nello fludio della medicina
s’involſe, traſandando tutt'altre biſogne, e ſolo a ciò di forza intendendo,
altro non gliene avvenne, ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente, e
regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare,
e più che prima cagionevo le diveniva; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo
inutile, e grave peſo, viſſe infino all'ultima vecchiczza; ove di que favita
rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone
motteggiandolo conchiude, che una eccellente, e ragguardevol palma e'
riportaſſe dall'arte ſua, e talc, qual veramente gliſi conveniva, come a colui,
il qual non ſapeva, ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non
aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta: ma ſi bene
perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o.
pera ſua convcncvole aſſegnata, alla qual fornire doven do intendere, mal
potevagli ozio lungo avanzare, du potere a ſtéto da una tal medicina attender
prò, o riſtoro; coſa, la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la
mai negli arteficiconfiderata. Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo, il quale
ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia, egli
toſto inan dando per lo medico, da lui richiede, che diviſandoglial cuna
purgativa, o pur vomichevole medicina, o col fer ro proccuri toſto di torgli
ogni inale, e ogni ſeccagin da doſſo;ma ſe allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta,
e altri così fatti riguardi, certamente, che colui gli re plicherebbe, non
eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per l'aja, e foggiacere a una sì
nojoſa, e miſerevol vi ta; e così datogli dipreſente il congedo coll'uſata
libertà ſe ne rimarrebbe; e ſemai avveniſſe per forte, ch'egli guariffe, ſi
viverebbe per innanzi felice; ma ſe il corpo no potendo al mal far contratto ſe
ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da tante noje ſviluppato. E dopo
queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua
repubblica, come dannoſa, e tale, che i ſuoi cittadini non meno alle lor
private biſogne, ch'a quelle del comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre.
D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni, con la quale egli va
dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra
l'altre coſe dicendo, la vita ſo bria non poterſi appellar ſana, eſſendo la
ſanità un'acci dente, che coll’inferinità, ch'è il ſuo contrario via ſi cac cia
del ſuo ſoggetto; perchè ſe nella vita ſobria non può effer inferinità, non può
eſſer (anità vera; c ſe tinto, e non più fi mangia, quanto baſta al vivere noi
ne coin H h 2 batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò
fare, perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere, il che
ſarebbe un gran difetto nell huomo. Oltre a ciò e' dice, che come la mano
ſtorpiata, non è mano, perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no
è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to, e come dee l'huomo operare.Dice
parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che
poſſa fare l'huomo:perchè queſto è inorir di fame; della qualmorte parlando
Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente: ed elegge
più coſto lo an negarſi, che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i
Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino,benchè foſſe
traditore della Patria. Con chiude egli alla fine, che chi è ſobrio nel cibo
faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe: peſare il vino, e'l pane, nu
merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere, il leggere',
e ſimili cofe, che impediſcono la dige ſtione: numerare i palli, e le parole,
che ajutano la dige ſtione: non dormir ſe non tante ore il dì, e tante la notte.
Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro, a cui era in dirizzata la lettera; col
ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano, e fuor di ragion
fia: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano, c vigorofo, e bene atante
della perſona anche nella cadente età ſi mantenne, e viſſe oltr'a
cent'annipronto ſempremai, e col ſenno, e colla mano alle biſogne tutte della
ſua patria;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato
ncl Ja ſua giovanezza, ca molti, e graviſſimimali ſoggetto; intanto, che
comunemente da'medici dopo varj, e diverſi argomenti indarno adoperativi,
diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe. Ma quanto vane,quanto deboli,
e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi
co,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio, e de figliuoli di lui egli
di ſcuſare s'ingegni: Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo,
potendo ciaſcũ 1da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo. Macome non
ſi può in modo niuno negare, che quel me dico, il quale aveſse per le mani
ſicura,ed efficacemedici na, che ſenza indugio poteſse un grave male di
prefence guarire, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi;
nondimeno non ſo lo fe Eſculapio, cotanto da Platone commendato, aveſse pronta
ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia, ma ſola mente alle
ferire; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti, e radiſsimi coloro,
che alcun certamente ne ſappiano; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico
per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa
almeno tantoſto indugiar la fua morte, tem poreggiando, e ſcherinendolo a ſuo
potere. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co,
il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse
l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe, che ſe non
ſono ditroppo vaglia, s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte
dellamedicina. Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno
da’malati, e poca, e niuna fatica. s'imprende a porle in opera. MadalPaverle
Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne
meriti, Galieno mede. fimo il confeſsa; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip
pocrate attribuiſce. Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo
che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone, e recatone
nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare, che Platone in ciò
ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor
gli Atleti ad eſser valo roſi, ed abili a loro eſercizj. E certamente ſe
quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse, ciafcun farga mente le
ſciocchezze di Galieno crederebbefi. E come voleva Platone biaſimar la
ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi, s'egli nella ſua Città ordina, che
s'edifichiil ginnaſio, e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i
per quello, e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti, così per
derivarla in uſo de' caldi bagni, coine per irrigare il terreno, e render vago,
eadorno il luogo; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope
re di celebrare il ginnaſio, e quegli eſercizi, che ivi fico ftumavano di fare:
come ſommamente utilia conſervar la ſanità; e fra l'altre egli ebbe a dire una
volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la
quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata; cioè
della muſica, che all'animo, e della gin naſtica, che al corpo appartiene. Ma
laſciando ciò da par te ſtare, egli va grandemente per mio avviſo errato Pla
tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il
regolaricibi a'malati, e che ciò eglino faceſse ro, non peraltro, ſe non perchè
non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi, i
qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo
diregola alcuna di medico; concioffiecofachè le tante, e tante förti di
malattie, che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano, faccian’aperta, e
fedele teſtimonia za del contrario. Ma quantunque vero foſſe ciò,che Pla tone
immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini, pure altri cibi
a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico, il quale cibaſse l'infermo
come fano, e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno, ed all l'altro
nocerebbe. Egli poi non ha dubbio alcuno, che'l regolar i cibi foſse la prima
coſa certamente, che s'ado peraſse in medicina; anzi da ciò venne ſuſo
primieramé ce la medicina; e prima, che foſsero i medici, i medelimi infermi da
per ſe il ritrovarono; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il
quale ci giova quì tutto rec.le re, comemolto al noſtro propoſito faccente:
Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant, alios propter aviditatem
primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe, alius propter faſti dium ahſtinuile,
levatumque magis eorum morbum effe, qui abſtinuerant: itemquealios inipfa febre
aliquid ediſ Te, alios paulò ante eam, alios poft remiffionem ejus, optime
deinde his ceflife, quipoft finem febris id fecerint. Eadeque ratione alios
inter principia protinus ufos effe cibo ple viore, alios exiguo, graviureſque
eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent,
diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent,dein
deægrotantibusea præcipere cæpiſſe:fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute,aliorum
interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati,
certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima
d'Ippocratemol. te coſe, e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere
nel libro della vecchia medicina, ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo,
onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò
far yolle il buo Ippocrate autore. Ma, che che ſia di tali faccende, terri bile
allai ſembrami nel vero la cenſura, con la quale Ip pocrate, non avendo veruno
riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico, fconciamente il riprende,e
vitu pera; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li
febbricitanti, ch'e' medicava colle fatiche, e co' fummi. caldi, che loro
imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il
pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti, eifomenti oltreinodo contrari.Aggiugne
Galieno a ciò che dice lppocrate, che Erodico in ciò fa re, ne anche alla
ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe,non volendo niuna ragion delmondo, che'l
male col male, la fatica colla fatica, il ſimile col liinile da medicar ſia; an
zi e'dice, che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri, valevoli
più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore, che a toglierlo. Ma
certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in
rimboccare Ippocrate, e Galieno,dicendo,che Erodico, come buon medico razionale
non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual
togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava,
avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di
tempo; ma poi ſenza fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne; ſenza chè
ben potrebbono di vantaggio aggiugnere, il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate,
e da Galieno: i quali con fregamenti, e con dare a {piluzzico, e a riguardo il
cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti. Ne qui deb befi tacere,
ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare
in altri, come manche voli, e malfatte anchequelle coſe, che eglino medeſimi in
ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia
riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende
il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare, che ello ancora alcune febbri
linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia; perchè egli vien forte
ripigliato dal Tralliano, il quale rintuzza lo, c percuotelo, e con maggior
ragione per avventura, con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero
dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia, coloro
ſe'l veggano, i quali comeche con parole il biaſimino, purcon fatti talvolta il
ſogliono ado. perare: ſolamente lo avviſo, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte
afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla,e che col limile il ſimile ſi cura.
Quinci ſcorger ſi puote, chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono
di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare, valerſi di quelle
coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera; e percið
Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando
gl'infermi, e d'altre opere, ch'erano in uſo nel ginnaſio, di cui egli aveva
avuto la cu ra; così veggiam que',che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono
medici, non preſcriver rimedio alcuno, che non ſe ne fian colle ſtelle,
eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno, che'l maeſtro, o preferto
del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare, o d’ugnere que' ch'eran deſtinati
alle lutte, al corſo, e agli altri gilochi, che ſi fa cevano nel Gimnaſio; ma
il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio, e conliſteva nella ſupreina
autorità di quello p li vile li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe,
che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri; edun taluficio era in sì grá
pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili, o ben’agiati
huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente,che i medeſimi Romani
Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche Città
amica, e qualche popolo a loro affeziona to, infra i titoli, egli onori degli
altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto, o maeſtro del Ginnaſio.
Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio, e venerazion l’arte
ginnaſtica, la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne de
ſagaciflimiſcrit tori, che nulla più; d'alcun de'quali con ſomma lode fa
menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio,che non ſolamente eglino
contendevano co’più chiari, ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi,
chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate,che egli
temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte, dicui cgli era affatto
ignorante, e digiuno. Ma ritornando ad Erodico, chc che ſi dica di lui Platone,
non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina,
ma ſi valſe d'altri, e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui
parimente fi valſero: come ſi può vedere in Ce lio Aureliano, il quale in
facendo parole della ſciatica, delle medicine d'Erodico così dicc: Herodicus
igitur, ut Aſclepiades memorat, ventrisadhibet purgationem, atque pofl cenam
vomitus, quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis
aceti decocti exhalatione con fectis utitur, vel aqua marina, admifta thalsa
herba,atq; biljopo, et his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va purandum
probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari jubet, e
tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte celebre
medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido, il quale,come riferiſce Sorano
inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia, dalle poche memorie,
che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera egli medicaffe, ene
meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe; e delle ſentenze Gnidie, dicui
voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate, il qua le fi
diè cura di eſaminarle, ch' Io per me non ho che di viſarne. Egli vien
rapportato da Ippocrate, che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed
a ſpiluzzico avel ſer raccolto, e diviſato tutte quelle coſe, che avvenir ſo
gliono agl'infermi in ogni lor malattia; ma non è per ſuo avviſo da far gran
fatto ſtiina della coſtoro induſtria, come quella, ch'aſſai leggiera, ed
agevole impreſa è a chiunque neprenda cura, quantúque niente informato di
medicina egli ſia: baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della
propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo,có buona pace d'Ippocrate, ſono
in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici, e fieno
ſom mamente da commendare, qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non
di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le
ſcritture de’me dici. Ma che è ciò, che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli
fia queſto un peſo da tutte braccia, ne v'abbiſogni in tendimento di medicina?
E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a
ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne
ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di
ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole, ed anfanie, che talor foglion
narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi !
e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo, foffe offeſo il
cervello, che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli
l'infermo? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico,
lo giudico, che ſe altri vi ponetle mano, chemedi co non foffe,peraltro
riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe; iinpcroccliè nurrerebbe egli
ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo, ove da ' medici
mercè dell'ufire loro aliuzie, tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento
de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 alera cagione,cofa,che
ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai.
Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe, delle quali dee aver contezza ilmedi
co per propia fua induſtria, oltr'a quelle, che poſſon ſa perſi dalla bocca
dello infermo, molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie,
che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do,
col quale curar fi dee ciaſcuna malattia, non s'app.2 ga affatto di ciò, che
color ne dicono; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi
foſſe, e che, ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit
to affai bene in medicina: nientedimeno, per quel che Ip pocrate
parimenteriferiſca, chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte, come que' della
ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina; imperocchè nel medi
car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del
latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne
ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode
l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro
veramente a que’mali, a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la
biſogna. Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni
medici, i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro
poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi, travagliandogli ad
ogn'ora con importuniffimi rimedj, la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario
operare; concioſliecofachè il ma de, il quale qualche ſpazio di tempo dur.2,renda
aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio; il
che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote, i quali per ſe ſteſſi, o bene,
o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il
medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il
vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di
que'tanci rimedi, che gli furono dal medico preſcritti: non avviſando, che
celeres, ! I i 2 et acu 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur, &nunc
fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila; e ſe
purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno
contento, ed appagato li tiene, inmaginando, che egli non abbia laſciata coſa p
riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e
l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede, perciocchè, ficome avviſa il
medeſimo Ce lio, neque natura, neque fortuna folvuntur, ſi portò pelli maméte,
per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo
fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici, che
furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte, Io non ſo, s'egli, o pure
alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente,
come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in
prima vi li legge vano, come chioſa Galieno, affatto togliendo, e parte in
altro cambiando; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato,che provenir
ſogliono dall'incertezza della medicina; e queſto è quanto laſciò ſcritto
Ippocra te della medicina d’Eurifonte. Si valſe cgli, come Ce Jio Aureliano
dice, di qualche medicamento d'Erodico, e ſcriſſe per quel che narri Galieno,
di notonia,e di quel le inedicine,che ſi poſſono in luogo d'altre, che mancal
ſero porre in opera. Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer
tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei
ſentimenti; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure
a teinpo dell'an tico ſcrittore, che ne racconta la vita, dar fermo, e ſicu ro
giudicio ſe ne poteva. Ma che unque diciò ſia,manife ſta coſa è, che parecchi
dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi, ed altre manchcvoli
in parte, tronche li riinaſero; ed in altre ancora molto, e molto co ſe, o da
ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno
che, coll'efler perdute l l'opere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e
d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate
ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di
medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel
gran nome,che da alcun medico greco in prima, e poi da altri anchenon medici
ſenza troppo ben'eſaminar la coſa,egli n'ha ripor tato; ne lo ſo permevedere,
come ſi poteſſer mai, nu Platone, ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto
quanto nella filoſofia naturale, come Galieno, e altri medici ſo gliono ad
ogn'ora millancare. Ma chi per Dio paſſerà sé. za riſa la beſtaggine di
Macrobio, il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto, e nõ avédo forſe mai letti
i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo, gli attribuiſce ciò che a Dio
ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius.
Nulla poi dico diGalieno,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare
Ippocrate, con dire una fiata infra l'altre,che le ſentenze dilui tutte ve
riffime fieno, Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la
parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros
réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole:
imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana; anzi
tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode, for te il proverbia, e'l
biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo. Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli
antichi ſcrit tori, quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber
più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero
Ippocrate: come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade
chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte. Ma noi non
badando a'cicalecci di niuno, diciamo primicramente, ch'egli ſi pare certamente,
che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla
medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi
anninello ſtudio, e nell'eſercizio di ella continuamente involto; e comechè non
ben intelo scorgeli ſovente delle coſe, ſembra pure, ch'egli ciò che ſi
conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto, et veduto
egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere affai più
manifeſte le fondamenta delle varie, e diverſe ſette della medicina, di quel,
che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe, d'avere i principj tutti
delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti; perchè fi dee
‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme dicare non
aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare, e deter minare ciò chepiù vero gli foſſe
paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente ſtacciata,
ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più
da appiccarſi ad uno, che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual
dubbietà;e quinci egli poi di varj, e tra effo loro contrarj ſentimenti da'
capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic; e per tacer d'al tro per
ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a
parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina, ed'un altro nel libro della vecchia
medicina, e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel
libro della dieta, comechè qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco
ben'inteſi, e ſpezialmente con quello della vecchia medicina; il quale ultimo
ad alcuno ſembra, che intorno a tal materia.e ' compoſto aveſſe; e viene
ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate, ma di Democrito; ma
certamente fuor d'ogni ragione; perciocchè in altra più nobile, e più ſottil ma
niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe. Ma che che di ciò ſia,per
tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze, e tcmpellante: Ippocrate,
par che talvolta alla ſperienza, ed alla ragione il tutto raſſegni; ed altre
yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga; e da ciò moſſi negli
antichitempi alcuni, come narra Ga ļieno, ed alcuni altri della noſtra età,
infra'quali è il Mon tano, preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina
da parte empirica, o da parte razionalc veramente tenuto haveſſe; ma non poteva
certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento fornito, nel
maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e della molta
dubbierà di quella. Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di
quell'intendimento, che a gran filoſofante, emedico, qual vien' egli
comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue
opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo
egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto, che
cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al
vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò, che
la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata, ma unamenoma
ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire;
egli nondimeno, ne molto, ne poco vi s'affutico; anzi andò dietro ad altri, ed
altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco, che séza guida alcuna vada caſtoni,
ed attenědoſi a ciò che, incontra, or per una, or per altra ſtradì errando,
ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului
me.Iclimo conoſciuta, e finceramente paleſata nella piſtola (ſe alori ſecondo i
ſuoi ſentimenti in nom:) fuo, pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito;
over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte, che
diviſato ſi aveva, avvegnachè negli an ni molto, e molto avanzato, e nell'uſo
del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe. Map far pienamérc vedere,e
toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi
convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra
loro diſcordanci ſiſtemi di medicina; coinechè ciò per avventura ſoverchio
giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali, e tante ſono le dippocaggini di lui, e
le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti, che tolto per qualunque mez zano
intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono; il che egli ancor
conoſcendo, e reſtandovi alla fine inviluppato, e contuſo, in njun di quelli
riſtr fermame te fi volle, dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E
conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente
detto ſia', cominceremo al preſenteda quello, che nel libro della dieta con
lungo, e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in
quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento, ch'egli altrove rifiutato avea
dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a
ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente, egli con venga in primain
prima aver piena,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di
qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe: e oltre a ciò ſpiar minutamente, e
com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino.
Sentimento quanto ſaldo, evero, e che non ha di pruova alcunabiſogno,
altrettanto volgare, e agevole a penſare; perchè eglimoſtra,che Ippocrate non
abbia per quello, ſe pure è ſuo, cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare;
non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto,ne
vuol far pruo va, ſo giugnendo, che ciò non fi ſappiendo, mal ſi po trebbe cibo,che
profittevole abbia ad eſſere, ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi
foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi, e vivande,
che noi uſiano eſſer conoſciuta;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā
pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto
biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe
della natura, in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali
di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor
facultà, all'uſo nondimeno ſon concordevoli, e acconci; ciò ſono l'acqua, e'l
fuoco; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe, che l'uno all'altro
ſcambicvolmente ba fano; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo, ne ad altra coſa
del mondo non baſta; e la virtù, e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo
fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia, c in qualunque luogo dimori: e
per l'acqua convenevolmente ella ſi nutrica, e creſce. Ma in conti nui piati, e
battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no, e ſi vincono; non però sì
fattamente, ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto, eſpoſſato ne rimanga, che niente
più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo
all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto, toſto il debito nutrimento
gli manca; perchè egli volgeli colà, ove nutricar ſi poſſa; e l'acqua d'altra
parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento, e
nulla vale; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata. E
imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo
verchiar l'altro, che affatto l'uccida; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa
ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa
rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di
cieca paſſionc ingombro, che non iſcorga pienamente quanto vani, e ridevoli
ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj. Vn ſol principio,
dice egli,non baſta; ma baſterà egli, che sì il dica? anzi vi ſarà chi vi
replichi, uno eſſer ſufficientiſfi mo, ove le parti, che il compongono di
diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato, e infra loro compoſte, e
ſi muovano: perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano;
ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli, che ſieno il fuoco, e l'acqua,
perchè egli non ne ſpiega lor natura? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il
fuoco valevole a dare il movimento; perciocchè ben do veva egli più avanti
ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco, e ricercarminutamente
diche egliſia compoſto, e chedifferente il faccia dall'acqua: e queſte coſe
ritrovate riporle poi per principj delle coſe, come quelle, onde tuce'altre
vengono ingenerate: e non già il fuoco, e l'acqua, che non ſon primieri
nell'ingenerare. Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna
briga ſi prende, certamente dall'acqua, e dal fuoco in quella guiſa, ch'e' ne
favella, nc huomo, ne altro animal K k niu i
1 niuno coinpiuto, ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre
giammai; econtraſtino pure, e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua, e'l
fuoco tra cſſo loro, che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno:
licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi,
fuor ſolamente, che due fillabe: conie da A, ed L: di cui altro, che LA, ed AL
non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto, eammaſlarla le
particelle dell'acqua, che formar ſe ne poſſano, ecar ne, e oſſa, e nervi, e
cotant'altre fulde, e dure parti d'a nimali, e d'altre coſe del inondo? Ne ciò
può adoperarli punto dal fuoco; perciocchè egli nell'acqua altro far non può,
che le particelle diquella col ſuo movimento, che chiaman dilatante, ſempre
partire, e ſceverare, licome noicontinuo incontrar veggiamo: perchè l'acqua vie
più liquida, c diſcorrente, e rada ne diviene, non che s'am maſſi, e fi
riſtrigna in coſe falde, e dure. E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma, e
faccil diventa, che ſe non, d'aria, d'un corpo all'aria ſomigliante, certamente
ella prende forma; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre
il fuoco, e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le
venga ſom miniſtrato. Ma che'l fuoco,come s'avviſa Ippocrate, dall' acqua
nutrito fia, e perchè l'un l'altro vincer non poſla, ſciocco troppo lo mi
terrei, ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo. Vuole oltre a ciò Ippocrate,
che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco: e che'l fuoco riceva
dall'ac qua l'umidità, e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che
così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante, e tanto varie forme, e
generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre: e cotanto diverſe infra
loro, che ne quanto all'apparenza, ne quanto alla lor virtù hā nulla di
ſomigliante; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua, e'l fuoco nello ſtato
medeſimo: e ſempreinai cam biandoli, e diſcorrendo, forza è, che le coſe, che
da lor 1: fi ſeparano, eli producono,diſſimiglianti oltremodo rie? fciano. E
certamente, com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore, nc ſi fa quel che
in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe: come chè
giudichi alcuno, che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi
crii: e altro incontrario,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi
diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno, che fia più toſto da preſtar fede
agli occhi, ch’alle opinioni, o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la
pruova, dicendo animali ef ſer queſtie, quelli, e non eſſer miga poſſibile,
ch'uno ani mal ſi conſumi, non con tutti: conciolliecoſachè chi po tri mai
diſtruggerlo? ne può ingenerarli giammai quel che non è, non avendovicofa
alcuna,che non ſia, onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li
meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci
s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo, che lo
ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia, che'l meſcolamento, e lo
ſcevera mento. Ma più avanti facendoſi dice, che lo ingenerarſi, e'lcorromperli
la medeſima coſa ſieno: e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento, e lo
ſceveramento: e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia: el
corrom perſi, e'l menomare altro non fit, che lo fceveramento: e che ciaſcınıa
coſa ſia la medeſima, che l'altra: e tutte lien uno; e in queſte sì fatte
coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura; ma ſpartamente ciaſcuna
cofa, o ſia di vina, o umana,ſufo, e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte,
più, o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno
avvicinamento; il Sole l'hà lunghiſſimo, e breviſſimo; di nuovo queſti, e noi
qucfti; la luce a Giove, le tenebre a Pluto: la lu ce a Pluto, e le tenebre a
Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano
quello coſe di queſte,e queſte di quelle; ne fi lanno quel che el leno medeſime
fi facciano, comeche faccian veduta di fa. perlo:ne ciò, che veggono,conoſcono,
ma in tutto ciò Kk 2 ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel
le coſe, che vogliono, comein quelle, che non voglio no, perciocchè
accozzandoſi, e partendofi quelle quà,e queſte là, fra eſſo loro avviluppate, e
confuſe, ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione
accięcato, e imbard.ato, che manifeftamente non ravviſi in ciò, che rapportato
nº abbiamo, effer egli una ſtrania cervelliera, e poco men, che ſpiritata
colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti
aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò,che meno intende?
e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine, e
ignoranza; ma anche farne cotanti Calan drini:e tenendo lo ſciocco vulgo in
parole, il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma
nifeſto, darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura
oltremodo conoſciuto ſia. Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali
letterati ſtimanſi,há creduto, o moſtrato di credere, che in queſti riboboli,
cd enimmi d'Ippocrate, e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i
libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina, edell'alimento,
ch'egli tutti i più naſcoſi, e pregiati miſteri della medicina, e della filoſo
fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico
ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un
valentiſſimo chimi co. Ma ritornando a ciò, che diciavamo, lo m'avviſo, che
Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi
filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare:e che poco cgli
incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati, in quella
guiſa,che fileggono; e tanto più, chemoſtra,ch'egli confonda in ſieme, e
meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj; da che
egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe,
che non baſtavano, parla poi non altrimenti, che ſtabilito aveſſe in prima, che
ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia, nella maniera appunto, che ſi accennò nella
cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci
s'ingenera di nuovo, ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le
coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto, mà ſparpagliandoſi, e
dividendo ſi vien meno. Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò,
ch'aveva egli in prima detto; perciocchè ſe l'acqua, e'l fuoco i principj ſono
dell'huomo, meſcolan doſi queſti, e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne
potrà certamente altro naſcondere, che l'acqua, e'l fuo co medeſimo,prendendo
ſembianza delle parti dell’huo mo, com'e' dice; ma non già le parti dell'huomo,
ciò ſo no carne, offa, nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima,
comechè appiattate, e naſcoſe, nel meſcola mento dell'acqua, e del fuoco ci ſi
laſcino poi di preſen te vedere; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā
doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne,ne l'ol fo così menoma, e
tritolata, che non ſi parrà; ma tutta la carne, e tutto l'oſſo diverrà acqua, e
fuoco: e queſti che in prima non apparivano, manifeitamente nelloro.ſcioglimento
poi ſi vedranno. Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le
particelle, chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan
per huom ravviſare: le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co, compongano, e
guaſtino le coſe. Ma ſe pur queſto cgli volle intendere, comepotrà mai il fuoco
le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è
dilatativo, come dicono, e ſempremai ſcioglie, e parte? Convenivaadunque, che
Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe, le quali ciò poteſſer operare.
Ma concedaſi ciò pure a lui: non perciò l'acqua,c’lfuoco, ma le par ticelle
ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò,che
poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua, eal fuoco: e in
favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco,che empio, e miſcredentc,dice
quella ancora, come tutt'altre coſe, eſfer d'acqua, e difuoco compoſta. E
tante, e tali sono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta, che
lungo ſarebbe ad una ad una narrarle. Ma trapaſſando all'altre ſueopere,
contende il Vale riola, e con luianche ſi conforma il Cardano, non eſſer
d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär, overo degli ſpia riti groiſi, o
vizioſi: peralcuneſciocche, e falſe dottri ne, che in quello s'avviſano, e
altre ancora contrarie a quelle, che in altri ſuoi volumi egli divisò, Ma fe
tale oppofizione aveſſe luogo, converrebbe certamente con dannar come non ſue
l'opere tutte, che ſotto il fuo nome fi leggono; perchè è da dire, che poco
ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma
Galieno, comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri
conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate, il reca ſovente in
concio di qualche ſuo ſentimento. Sembra certamente il libro miglior per
avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto
l'autore; imperciocchè ha egli ordi ne, e qualche forte di chiarezza: e moſtra
fovente, che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica. Vuole egli in eſſo darne a
divedere, che tutti mali, che n'avvenge:10, da una ſola cagione ſi dirivino;
comeche per li diverſi luo ghidelcorpo, ove n'aggravano, diſſomiglianti affai
ne ſembrino. Tutti corpi, eglidice, così dell'Iruomo,come d'altri animali,del
cibo,dello fpirito, edel bere ſi loſten tano. Gli ſpiriti, che ſono entro il
corpo, vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po
aveõua cioè: a dire, aria. L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le
coſe, che accaſcano alcorpo: ed è donna, e lignora del tutto. Indi egli
lungamente fopra quella ragionando, dice delle fue gran virtù, ed opere,
Itabilendo in prima qualche ſentenza; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è
moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore, c fommamente comincndevoli of
fervazioni de’noftri moderni. Dice egli, che tutto ciò she fra’l Cielo, ela
terra s'interponeſia, da ſpirito ingôn bro: e che lo ſpirito cagioni il verno,
e la ſtate: e che'l corso della Luna, e delle Stelle per lo īpirito facciali: e
che lo ſpirito alimenti ilfuoco, intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco
più vivere: c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo
del Sole. E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico;
perciocchè ſe quelnon vi foſſe, dice egli, che i pe ſci non potrebbono in niun
modo vivere; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua
traen dolo. Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta
veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella: e quella
ſolamente eſſer cagione a noi della vita, e diciaſcuna malattia, che n'avviene;
intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore;
perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo, o beveraggio alcuno viver qualche
giorno: ma non già ſenza ſpirito; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre
operazioni, comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc. E
quinci egli vuol trar conſe guenza, eſſer molto ragionevole, che ficome la
morte, così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano, e che quello
calor compreſo, e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo
n'offenda. Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando, ficome ciaſcun
ma le dallo ſpirito ſi formi: e tutti minutamente gli anno vera. Ma un sì fatto
liſteina, perchè ingegnoſo fia, e conte gna in se qualche coſa di ragionevole,
non però di meno, generalmente ragionando, falſo affatto, e inveriſimiles eſſer
fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno, chedell'aria
abbiamo, non è perciò quel a ſo la, che ne mantiene, e ne nutrica: ma l'acqua
ancora al noſtro vivere è neceſſaria, e altre molte coſe, così den tro, come
fuora del corpo; le quali, o mancando, oſo verchiando, o alterandoſi, non men
dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie. Nemeno al preſente è
da tacere, come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti, i quali non
cheda Ippocrate foſſer provati, anzi dalvero talora manifeſta mente appajon
lontani. E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero;
non però di meno fon da lui con parole non propie, e ambigue a bello ſtu dio
inviluppati, e adombrati; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica
a ritrovarne il coltrutto, da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar
talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani, com poſtida lui
per uccellarne maggiormente. Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così
liberamen te afferma, è colui, che ſignoreggia, e governa ciaſcuna coſa del
mondo, e che la vita, e la morte ne porge: per chènon iſpiega egli poi, ficome
certamente fargli con veniva, come, e con quali artificj tante maraviglie quel
lo adoperi? e perchènon ragiona della natura di quello, e diquell'altre
ſoſtanze, che, come e' dice, imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a
noinocevole, e peſti lenzioſo il rendono? E per avventura gran ſenno egli fe a
non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire, che ciò egli non ſappiendo, non
potrà certamente mai la natura, e la generazion delle malattie per sì fatta
ſtrada incoglie re; e ſeguentemente gli argomenti ancora, come a quel le da
proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi, che ne men di que’mali, cheper
compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo
rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui
compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona, la quale,
com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte: ſenza dubbio non giugnerà egli
giam mai a penetrare gli effetti tutti, che da quelle diverſame te provengono,
e le varie maniere, colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura
d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo
ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica,o altri ſomiglianti
mali, come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare: o donde trarrà egli gli
argomenti da porvi ragionevol conſiglio? Ma ſe le ſoſtanze, che collo ſpirito
-meſcolanſi, ſon ca gion di cotante malattie, come potralli eglia buona ragić
dire, che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino? perchè è da
dire, che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco,
e vi ſia infe liceinente fdrucciolato, dicendo eſſer l'aria cagion del. le
noſtre malattie, e non più toſto le varie, e diverſe for ſtanze, che per quella
diſcorrono, e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi,
e animaletti, chę ſovente fi ravviſano, così nelſangue, come nell'altre parti
liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi
talora o nel cuore, o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e
molte manie re le moleſtano; ſenzachè ſon nell'aria varie, e varieme nomiſſime
altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate: alcune delle
quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono, fannofi anoi per opera dell'odorato
ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente, es quali
ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al
merlo d'un'alta torre; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo
le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò
egli eſſer ancora nell'aria molte, e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le
quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare. Ora in queſte,e in ſomigliati
oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio
impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc
che prender vi dovelle convenevol riparo: e non fare il pancacciere con lunghe
dicerie, e vane, e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo
libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò
da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo
nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò, che cgli della
febbre và diviſando. Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di
cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266:: noi grandi ventolit, le quali non
potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo, ruggiando per ic bu
della diſcorrono all'altre parti del corpo, maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi
il langue, e sì l'infreddano, e'l fanno intriſire. Or come domine potrà mai
dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere? ma
egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle. vene, il qual
per l'aria di fuora divicn freddo. Ma che che ſia di ciò, davcva ben
egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle
vene l'aria, in che di verno crudo, e rabbruzzata dalle nevi, comeche continuo
ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in
dicendo, che'l ſangue dall'orrore, e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi
rifugga alle parti più calde del corpo: ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per
maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc
divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il
corpo, e'l faccia febbricoſo. E certaméte in ciò egli ragio nando, molto
ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa, il caldo tutto al
corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte
del corpo rimaner calda; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio,
come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il
riprezzo De la quartana, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando
il rezzo. Ma, ſicome egli s'avviſa, rimangano pur calde l'altre parti del corpo,
nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no; non mai tanto però faran vive, e
affocate, che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in
quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre. Ma troppo
nojolo lo nc verrei, ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori
d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema; perchè rimanendomi al preſente di più
ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1
eenuto in pregio, e commendaco dal luo chiòfator Galie no, che nulla più: di
cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando, e in iſcrivendo ſi ſon valuti,
e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo, e indicibil fallo il
mu* farvi contro, non che manifeſtamente abburattarlo. E queſto ſi è il
diviſamento, ch'e'fa nel libro della natura umana; il qual libro non può
recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia, in ciò che, come
faggiamente avviſa, e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi
più volte Platonc; e ben può per quello chiun que n’abbia talento
agevolmentecomprendere,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco,
ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala
tre coſe alla medicina pertinenti; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere
ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore, e inventore d'un sì fatto
ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento
ciò eſſer fa ſo s'avviſa; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della
vecchia medicina manifeſtamente na ragiona, come di dottrina da altri già prima
di lui ricrova ta, einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112
agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere, che Ip pocratc,non come di ſuo
propio diviſamento ne ragionin. Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar
noi al pre ſente, darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio, e
inagnifico, che nulla più; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia
nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne
imprender con ingordigia tutto ciò, ch'e defidera: giudicando, ch'un si
valentemedico, e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi, verainente
trattata l'aveſic, licomealla propo fta materia ſi conveniva: cche,comegià
Marco Tullio del divino Democrito, il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro
ſcritto aveir, b.ec loquarde univerſis, ebbe a dire nit excipit de quo non
profiteatur, così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato
aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI
2 folier [ chernixo, e beffato
rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra
tolto una così ma lagevole, e così vaſta matcria; e ciò, che è affatto impor
tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli, egli è il libro più ricco
aſſai di parole, che dicoſe; anzi di poco falla, che tutto parole egli non ſia:
e quelle pochiſſime coſe, che vi ſono, così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto,
opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi
ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo
aggira mento di ciarlc, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una
coſa; ma, che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello, di cui
favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando; concioſlīccofachè
quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe, che ci ſono
eſſer una, e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi
oltremodo inſieme in dando a quella nome; perciocchè altri dicevano eſſer aria,
altri fuoco, altri acqua, e altri terra. Soggiugne egli poi, che ciafcun di
coſtoro recava teſtimonianze, e ſe gni, ma di niuna lieva, in concio del fuo
ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione, e contradiandoſi nel le
parole, davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la
coſa; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor
continuo piacire, che tratto tratto facevano, non mai per tre fiare continové
riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore,
ſecondamente che ben parlante egliera, edat popolo tenuto in pregio. Conchiude
alla fine Ippocrate, chuom, che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa
role, ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe; o che ſembra a lui, che
coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi, che per altro; perciocchè
tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo. Ma
Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi
maraviglia, una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di
que'filoſofanti, i qua live Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la
contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma
ftiaſene pur con pace Galieno: non ſembra per Dio, che con sì fatto
cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della
materias ch'egli imprender a ragionare, e quale appunto quella richiede?
mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente
uccellare, laſciandone affatto digiu ni della mate ria, ne inſegnandone coſa
alcuna di lieva. Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate: qual ſi foſſe
veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz
niuna d'inveſtigare; tanto accennerò, che eglino tutti una medeſima coſa
dicevano: e cheniun di loro giu dicava, che o l'acqua, o la terra, o l'arir,
o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo:ne di ciò mai fu conteſa
infra loro, comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno; ma ſolainente
eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da
prima, allor,che fu fatto ilmondo,ſe d’acqua, o di fuoco, o d'aria, o di terra.
Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate
recata; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel
piatir de? letterati huomini, maſſimamente appreſſo il vulgo, non mai vincer
foglia colui ', che ſa ben la coſa, e che dice vero: ma colui, che meglio con
vaghe', e ben ordinate dicerie Ja fa colorare: eche il più delle volte nelle
conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante, e'l ſofiſta,come ilme deſimo
Ippocrate ancor rafferma? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer
d'accordo colla ſentēza di Me liffo, il qualnon diterminò mai il principio
delle coſe nx turali, fe eglino, comc Ippocrate racconta, il ditermina vino Ma
che che ſia di ciò, Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la
ſentenza di Meliſſo, come Ip pocrate dice'; ma ſe ciò era, a torto certamente
da lui fur biaſimati: dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il
principio delle coſc qualli foſſe, con chiamarlo o arias, o acqua,o fuoco, o
terra; ſe pure non vogliam dire, che Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che
que’valent huomini fi diceſfero, it che fe ben li conſidera, il fue vellare,
che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole. Fin
qui e' fi pare, cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato: ora ſe'n
viene egli a’ medici, e dice, che alcuni diloro affermavano non alira cola, che
ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera: ed altri ſolamente
flemına; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima
raccon tati, tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col
nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra, o diflemma, o di ſangue, e che
quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante, ed in virtù, e di
venga, e amaro, e dolce, e bianco e nera, cd ogn'altra.com fa. Soggiugne
indiappreſſo Ippocrate, che molti, emol ti così dicevano, e che altri, ed altri
dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia
ramente chenei,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le
conteſe; perchèmoſtra veramente, che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia,
ch'un fertiliffi mo campo, che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca.
Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu
ammirato, e celebrato, che nulla più: ſe una coſa fola, dice egli, l'huomo ſi
foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde
venir gli potefíe il dolore, per eſſer ogni coſa una ſola coſa; e fe pure
l'huom mai li doleffe, convera rebbe ſenza fallo, che uno ſi forre il rimedio,
coʻl quale egli guarir doveſſe; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè
nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della
vanità di sì fatto argn mento, pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani
prima ſe contro coloro, a'quali par propiamente indiriz zato, coſa alcuna egli
conchiuda. lo permeavviſo, che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di
sì tutte ciuffole, ed anfanie, imperciocchè eglino tenevano, che 1 1 1 o'l
fangue, o la collera, o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde
iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da
quell'altro pri mo principio, del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte
ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente
dalle parole, chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice, che eſi
volevano, che o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro,
e'l dolce, e tutte altre coſe, che nell'huomo li ravviſano; or comenon può
agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe, ayer
cagione di dolore dall'a. maro, dal falſo, dall'acetoſo je da altre, e altre
coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate?ora a que. fte tante
cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari: e
ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è, ſalvo che o ſolo
ſangue, o ſo la flemma, o ſola collera: potrannocertamente rondime no nelle
vene ſteſſe, o dal fangue ſolo, o pur dalla flem ma; o dalla collera., ed oltre
a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura,contrarie;
e moleſte all'huomoingenerarfi, che potranno ſenza fallo elfer cagioni di
dolori, e di varie; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con
altrettante medicine di fcacciar ſi convengono. Egli doveva adunque provar
Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue, o dalla ſola flemma, o dalla
collera, fola,nientealtro,che o ſangue, o flemma, o collera inge: nerar fi
poffa; il chein niun modo fa egli, e ne men fare veramente il potea:
concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon
potuto dire que'medici, il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici,
ma compoſte coſe di que'quattro corpi, che Ip pocrate vuole, che ſiano i primi
principj; e come tali ben poter eglino in varie, e varie forme cambiarſi; ed in
vero fe le varie, e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica, come dovetter fenza
fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo: no di ſangue formate, e d'eſſe
nondimeno s'ingenera il sangue, convien neceffariamente dire, che varie, e
varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue, fi pof fan dal ſangue
parimente ingenerare; e cosi ſomigliante mente della collcra, e dellaflemma
aurebbon potuto co loro filoſofare, Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di
que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare,
chel'aria ſola col riſtrignerſi, e coll'allargarſi, e con altri, e altri
movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare, e ſangue, e
carne, e oſſa, e nervi, c altre, e altre parti cosìſalde, come diſcorrenti
dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar
poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba
l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori, e di malattie, alle quali
faccian, meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso,
e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno
ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono, che non ſolo veramente uno ſia il
principio.di tutte coſe, cioè il corpo: ma che ſe uno il principio non foſſe,
non ci ſarebbe ne dolore, ne malattia, ne rimedio alcuno giammai, e che a fare
diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer
quell'uno corpo di verſamente ſtritolato, e partito: lecui ſottiliflime
particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif
feriſcano. Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno, il qualnon s'avvede,ciò che
impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo; ma ciò che nedee recar
vcra mente più maraviglia, ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno
vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto
medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte
dice,checo lui ilquale porta opinione, che l'buomo ſia ſolo ſangue, debba
mo& rar, che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie, e varie
maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno, o qualche età dell' huomo,
nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli
degli altri. Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato
diviſamento nel favellare, avendolo egli ſempremai per coſtume: Io l'addimando
in prima, perchè ſecondo lui la collera, il ſangue, e la flemma, e la
malinconia nel comporre varie, e varie parti dell'huomo, poterono sì be no
cambiar natura: e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente? e
s'egli riſpondeſſe, che non già col cambiar natura, macol ſolo meſcolamento
quelle parti formarono, lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo
meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta, c tanta varietà
dicoſe; e addurrei per eſemplo, che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo
meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare. Ma ſe que’mcdici diceſſe ro
eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate, come potrebbe
mai Ippocrate quelli impu gnare? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar
vedere, che quelle coſe, delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre
nell'huomo medeſimo: Io per me non ſo, co me ſarà egli ciò mai per moſtrare?
Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi
pio; recando perragione, che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi. Ma
chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga
comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio,
il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura, per grandezza, e per
movimento, con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole
egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe. Per far pruova poi maggiormente
della ſua ragione ſog giugne Ippocrate: ſe ne meno il caldo, il freddo,e l'umi
do, e'l ſecco,fe temperati eglino non ſono,non baſtano a far la generazione,
come aurà mai vigor di farla un ſol principio: Io per me non ſo, che ſorte
d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate; doveva certamente egli, il che mai no
adempie, provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il
tutto s’ingencri; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio,
che a lui avreb M m bon riſpoſto quei filoſofi, che clleno, comeche ten perate
ſi fingano, non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene
valevol' eſsere: ficomenes terra,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre
coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza, e tanti, e tanti
iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re: imperocchè il ferro ſolo è
quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non
altrimenti il corpo, il quale in particelle, o ſia già diviſo, o divider ſi
poſsa, le quali ricever poſsano parimente varie, e varie grandezze, fito,figure,
eordine, può ogni coſa produrre, ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che
egli va filoſofando, potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape
giammai ingcnerare. Ma non altrimenti, che s'egliavuta già aveſse la vitto ria,
faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e
dando a lor la ſentenzia finale co tro, determina temerariamente la quiſtione
con dire, che eſſendo la natura dell'huomo, e dell'altre coſe chente, e quale
egli ha diviſato, non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe, che lo
ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato. Magodaſi pure
Ippocrate della ſua vittoria, e ne riceva l'applauſo da Galieno, il quale non
per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima, ſe non ſe per
acquiſtar fede alle ſue opinioni; qual coſtu maegli parimente negli altri
autori tener ſempremai ſcor geſi, delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a
ſuo pro fi vale commendagli, che nulla più; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue
opinioni contraria, non ha villania, che ſi diceſſe mai a triſto huomo, che
lornon dica. Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo, vuol egli intendere certamente
per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore,
la fredezza, la ſiccità, e l'umidità nel corpo per loro ingenerato. Ma cotante
altre, che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono? Dirà egli dall'
accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi,
come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver
voluto mai volger 1. ſiad fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro
qualità; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal.
Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo: e dall'aver ciò
traſandato Ippocrate, avvien, ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il
leggiero, e diſcorré te caldo quelle coſe operare,che a ſpiritual ſoſtanza ſola
mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante
biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance, che in
diſtruggendo fi l'umancompoſto, tutti e quattro i già detti corpi ſce
verandoſi, alla lor primiera natura ritornino; e ciò vuoľ anch'egli,chenel
disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna. Ma le egli ficomea caſo, in
fretta, e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a
poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole, lo porto opinione, che in
cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere;
perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri, che quelle
ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non, miga
ſemplici, ficomee'vuole, ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo
ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue, la Flemma, la Collera
gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to, che ſi convenga,
l’huom viva in ſanità:mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali. S'affatica egli
con lunghe dice ric di moſtrar, come poffan que' quattro umori tutte le
malattie ingenerare:maciò fa egli troppo groſſamente, e generalmente ne'dubbj
maggiori tacitamente paſſandoſe ne; e dopo queſto torna di bel nuovo alla
canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li, di
natura, e di nome fra effo lor differenti; la qual di verſità immagina egli di
ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e
dalla diffomiglian za del tatto, che ſecondo lui vi s'avviſa. Ma s'aveſſc egli
mai poſto mente a cotante coſe; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi
diverſiſſime, e al contrario ad al tre, ch'avendo una medeſima natura han
colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi, ſicome le Fraghe,
le Ciriegie, le Azzaruole, le Corniuole, eľVve, e i Fichi, certamente, del ſuo
ab baglio ſi ſarebbe avveduto. E più avanti dovea fomiglia temente avviſare,
che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando
grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell'
Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate
ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to, che i vari colori non ſian buoni, e
fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe. Ne la ragione il con
trario ne addita; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo
che dal variamento del ſito, o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la
qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente
ad Ippocrate allor che diſſe, che dalla varietà del toccamento, poſſano iva
rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa
avviſarfi, ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano, tutti egualmente nelle
vene, e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più
par te e'li rapprendono, e in una maſſa s’uniſcono, nella quale, poco, oniun
divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo
l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore, dell'umidità, della ſiccità, no
aurem di forza a confeffar, ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle
prime, e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando
Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha
ficcità, come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi? e ſe
l'umidor del corpo altro non è, ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi
agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia
Tanamente fi loſofure, egli dourà concederſi, che tutti gli umori del corpo
umano egualmente fian umidi, dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo
tangente, e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo,
tutti ſono egualmente caldi, e fuor di quello tutti fimilmente dalla circonſtante
aria raffreddati vengono, o riſcaldati. Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo
umano ſognati da Ippocrate, ſicome e vuole veramente ſi foſſero, e alcun di
elli, o calorc,o freddo eccitaffe, impertanto no potrebbe dirſi effer cotale
umore,o freddo, o caldo: imperocchè ſe o ſpina, o chiodo, o altra pugnente, o
doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella
ſuol poco ſtante, e freddi riprezzi, e ardenti febbri ecci tare; e pur la ſpina,
il chiodonon per tanto, o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano. Finalmente ſi
sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte
dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma, dice egli, ad huom da
raſli giammai, certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire
dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo: veggiam noi per ogni
ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo, o d'eſtate, o
d'inver no, o digiorno, o di notte; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad
Ippocrate, come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti, e più celebri
fra gli antichi medici,non avervi medicina, che vaglia a vuotar determinato
umore, che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il
vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia
aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine; che ſe mai di quello ſi foſſe
alquan to inteſo, forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche, e
novelluzze; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui
credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza
buglio di sì diverfi umori compoſto: c pur egli non giunſe mai la mente di
que'valent’huomini ſanamente a compren dere, come chiaro dal medeſimo ſuo
diviſamento ſi fior ge. Credettero, dice Ippocrate, coloro uno effer l'huo mo;
perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un
ſolo umore; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo, che quel folo umore; ed
altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non esser altro
l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il
ſangue l'anima umana. Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate, e immagina di
gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni, dicendo non mai alcuno
eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere
inſiemcmente ſcappati fuora; e vuol che quantunque volte huom prendendo
medicina purgante la collera ſe ne muoja, vomiti primicramente la collera, ap
preſſo la flemma, indi la malinconia, e finalmente il ſan gue di forza
ancordalla purgazione ſia tratto fuori, e ſo migliante avvenga nell'altre
purganti medicine. Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe
altrui uccellare, o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero, fenza
prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle
purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche
aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione, cioè, che il
medicamento entrato in corpo vada da prima movendo, e cacciando fuora
quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra. Aggiugne per iſpianar la
materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli; dalla terra per lor
nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli; c ſomigliantemente po
tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma
coll'ordinamento, che teſtè accenna vamo: cioè, che la medicina purgante la
flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori, e finalmen te il
ſangue, e cosìſimilmente tutt'altre; ma dagli ſcan naci prima il ſangue, poi la
flemma, e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non
che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia,
e ravviluppa; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa
pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere, o mani, e ſenza poter
dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra, o altro, che lor bi fogni; elleno
ſi nutriſcono della terra, macon altro ma giſtero di quel che troppo
groſſamente immaginò il buon Ippocrate. Evvi nelle piante una fotcililina, e
volantes sostanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali, la
quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella
sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici; or
tra per lo movimento d'eſſa, e per quello, checontinuo dal Sol ri ceve la terra,
e damolt'altri minuti corpi, che perla lor focofa, e attiva natura, a guiſa di
tanti ſpiritelli l'agitano,e la commuovono, molte parti d'eſſa in ſu vengon
fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli
pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare, e fic candofi elleno in così
farti buchi vengonoa cambiar figu ra, e da'formenti digeſtivi delle medeſime
piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad
accreſcere, in lei traſmutandofi;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a
comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi; pongaſi mente alle
me lagrane, che a volerle aſſaggiare ritroveralli, che le ſue fibre portano a'
granelli un amarisſimoſugo, il quale, o dolce, o alquanto agro divien nella
carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido, e ſcipito; e ſimilmente
avviſeremo altresì in quelle frutta, che colte da propj alberi, e ripo ſte
ſoglion venire a inaturezza: alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi
dolci, e ſaporofi, ficome ſono le ſorba, le neſpole, e le melegrane medeſime.
Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante, acciocchè fi nutrichino;
il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura, comechè di ciò alcuna
pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile
abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro, cheſimpa tia, la quale altro
noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il
tale,o'l tal determinato umore; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò
offer vato: ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano,
formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra; e quinci avvien,che ciò
che ſi vuota appaja di diver fi colori, e prenda una puzza ſimile a'cadaveri
sper, eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe, che aprono ledelicate boccuzze
de'vaſi facendo, da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto, e
corrompendolo; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali, chein
eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano
mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi; e quinci avvien, che le
fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono, e diſcorrenti. Finalmente lo
immagino, che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno,e che ſe pur
cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari, aveſse avuti gli occhi di
glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel
lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé
glicle cóſento,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get
tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non
giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello
ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli, e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc,
ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò, che altrove
più d'una fiata racconta, altri ſughi aver egli oſſervato recere, c per ſotto
altrui cacciar fuori certi altri umori, i quali eglinondimeno vuol, che nelle
vene non abbian luogo; sì cheanche ſecondo lui, non è fano diſcorſo, ne
concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene, perchè ſi vuotano
colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo
indarno, ſtillarli sì fattamente il cervello, e porger cagione a' poſteri di
ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che
con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare? Ecco come una ri cevuta
opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri
della verità. Orlo, direi ad Ip pocrate, e a tutti quanti i ſeguaci di lui,
traggaſi ad huom fano il ſangue, cd aſsaggiſi, chee' non ritroveralli ne af ſai
ne poco amaro; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo, oveè la
malinconia? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì
fatti umori fraſtorni tal diſcerniméto al palato; ma ſe a giuſta porzion di
ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli,
e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga,e fi confonda,noi proverem nel
ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima,
novi do vevan eſſere. Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che
nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori
d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo,in su'l quale
vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo
giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero; ma s'egli ciò vero
foffe, abbiſognerebbe, che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc;il che
no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà
una materias rappreſa, la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do; ma
non miga egli è vero, ficome per coloro ſi eſtima che quella, ch'è in fondo del
vaſo ſia la malinconia, 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa, ma del ſapor
medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata,
la roffa parte in nera, e la nera ſcambieraſli in rof. fa; il che avvien
dall'aria, la qual movendo le particello; della fuperficie del ſangue, le fa
così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette
coſe, due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una
dellequalicſſendo diſcorre te, e bianca, ne fa chiaro veder, ch'ella fia chilo,
in fan gue non ancor traſınutato: l'altra gaglioſa,e tenace, di cui ne fa
purmenzione Ippocrate; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del
corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va
col ſieroſo migliantemente miſchiato; e agevolmente la coinprenderà chiunque
ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo
unore agiatamente eſalare. Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare, che in
quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non,
mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore, nepur quella parte, che vi va
a nuoto; ne in quell'altre, che per Nn avviſo di lui dalla malinconia
provengono, il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo; ne men quella parte d'ello che,
nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate,
ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi
aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe
d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a
coſtoro egli non ne traeva, in altre opportunità potea farne eſperimento. E più
di lui era debito di Galieno tal fatto, nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di
cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate. Ma Io non poflo non ammirar quì
quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate, perchè elle dicano,
effer flemma l'huomo; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza
ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere, di quella effer formato
l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata, di
quella il latte, diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad
Ippocrate ritornando: tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più
nobil parte del ſan gue, dico della parte ſpiritofa; quantunque altrove oſeu
ramente ne faccia motto, e ſenza penetrare, o diſaminar tanto che bafti la ſua
natura; e moftra, che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide, licome
è l'aere,e non già fra le umide, com'è l'aqua: il cui ſembiante più coſto par,
che ritiga lo ſpirito del fangue;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da
Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze
dell'huomo, e diſaminar così di effe, come delle parti ſolide, la natura, gli
uficj,e le ope razioni; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na
tura di quello, la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne
meno manchevole, e ſcempio ftabi fire di razional medicina. Ma il buono
Ippocratc, come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto, e come ſe quanto
avea diviſato foffes incontraſtabile, e fermo, paſſa più avanti nel fuo libro a
narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più
d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la
qual coſa egli vuol ritrarre non altronde, che dal toccamento; ed afferma
coſtante mente, cha la fiemma,del ſangue, e della collera ſempre ha'l tocco più
freddo; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli, che
l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia
ne veg giam per le bocche, per le narici degli animali uſcir fuori; e per
l'enfiature, e altri mali dalla flemma cagionati, che ſovente in quella
ſtagione afcir ſogliono agli huomini. Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına
Ippocrate più che mai le viſcere, ele interiora ſon riſcaldate, non ſo lo come
poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma,
poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò,
che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici, e ch'ella produceſſe que'mali,
che freddi s'appellano. Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua
cſperienza contraſto, e ſcorgeſi, che l'eſtate, ſe avviene ad huom qualche
catarro, qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici, e per la
bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro
inca po, ne in corpo, ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente
diſcorrere, dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori
della' noſtra pelle: il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah
bondantemente quella ſoſtanza, che in ſottile alito,altro tempo ſvaporar ne
ſuole, vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade
ſivuota. La Primavera vuol, che ancor ſian copioſe le flemme; ma collo
ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil
ſanguigno umor vada creſcendo. Ma feper opinion di lui anche la primavera le
vilcere lon cal:liffim, chefanno in corpo le fléme, e chi loro da luo go? Ma la
ragio, che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe
dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2: la Primavera dic'egliè calda, ed
umida,e caldo, ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma
pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga, anziche
no, ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli
Idropici, in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir
degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal
ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui, dic'egli, fogliono
avvenir diffenterie, e vacuazion di ſangue per le narici, ed è il ſangue più
caldo, e roſſo, che mai? Certamente come altre fiate abbiam detto; im perocchè
la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti
d'Ippocrate è umor piacevole, e dolce anzi che no; e più toſto la malinconia, e
la collera dovreb bon eſserne accagionate, le quali eſsendo aſpre, e ſtimo Joſe
avrebbon a rodere le inteſtina, e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono
altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal
materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo, e groſſezza fi
trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a
chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho
curato d'oſservare. E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato,
perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare
dietro le biſogne della medicina; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero,
ne mai imbroccato aveſse al legno. Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter
con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia:
imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e
per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica
in contrarioGalieno; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole,
e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito;
ma che chc ſia di ciò, non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne
l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori, tutto il
ſiſtema deila ſun ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier
foffio, e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi
ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene, e
particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto
lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida, che loro non
già inortal coſa, ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti,
che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto. E per lo meno
cre de altri, che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta; c
anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo, ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe
raccolti; c altri, ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio
d'Eſculapio. E certamente ſe mai vero foſſe, che Ippocrate, come An drea
antichillimo autor riferifce, miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre
libreria di Gnido, egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli
Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche,
ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend'
egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì
malamente compilare le aveſſe; e quinci ſia altresì avvenuto, che tante varie,
e diſcordan ti dottrine, e opinioni per entro vi ſi ritrovino; e perciò ſia
indarno gettata la fatica di coloro, che di accordarle tanto lungamente ſi
ſtudiano; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco
Ottomanno: Vercor ne ple rumque in iis, qui confultò inter fe diffentiunt
conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò, lo per me ſon
ſicuro, che agevolmente accorgerafli, cui caglia di chiarirſene, non effer
degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate, quante d’uma cieca, e comun
fama ne han ri cevuti; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro
Petrarca,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel
di Coo, che fe vie miglior l'opra, Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del
poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra i Greci ebbero inaggiore
ſtıma,e rinomea;i quali non men, che di tutte altre opere d'Ippocrate, tenner
pochiſſi mo, o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe
manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero,e ſmar rite tutte loro ſcritture;
ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc, dalle reliquie, chene'
libri di Galieno, e di Celio Aureliano, a ' dinoſtriſe ne riſerba no; e per
quelle poche memorie, ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo, e medico,
quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno. Ma ſe ancor foſsero in piè
que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero
almen rimaſe le chioſe, che ſu d'er ſi fe Lico, il quale ſi diede cura
d'andargli un per uno mi nutamente, e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente,
e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro, comechè io non mi dalli briga di
favellarne; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano
così generali, che per la medicina poco, o niun pro trar ſe ne poſla; e di
leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha
porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con
pochisſimo ſtorciméto alla politica, alla milizia, e ad altre arti, e
diſcipline; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie, che ad
ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute; altri, come avviſa il
Santoro, non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno, e ſenza
l'indirizzamento delle regole dell'arte;di fetto, ſenza fallo,gravisſimo ad
autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole, e leggi in qualunque arte,
emaſlima mente in medicina; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove, fur da
lui tralaſciati ſenza alcuna ragione; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta
qualche argomento, ritroveral fi eſſer poco ſaldo, o inefficace; anzi loventi
fiate ridevo le, e frivolo; altri ſe ne ritrovano,la cui dottrina, o aper
tamente, o per poco che ſi vada diſaminando, falſa, e fal lace ſi ſcorge. Altri
finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi, e oſcuri,e impigliati,
ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri
trarrà coſa, che monti un frullo. Ma l'oſcurità è vizio si ordinario
d'Ippocrate, che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì,
che non ne faceſſe motto, a non ne lo proverbiaſſe, e ſcherniffe più fiate. Ma
fe è vizio, ed error grave l'oſcurità in qualunque materia, egli è ſenza fallo
graviſſimo, ove ſi tratti dimc. dicina; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa, e
in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni, e nocumenti cagione; if
perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe, che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion
farſi per alcuni, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le
ſue opere, e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe
ro ſenza riſerbo; ma quafi ſotto bel velo ricoverti, e aſco ſi; imperocchè lo
primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella
medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta, ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco
vrirla; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a
interpretrarla, quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di
divenir dovizioſi d'oro, e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano.
Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi
riſapeſſe, potea con un più bello, e fottil modo ben farlo, cioè rimanendoſene
in pace, ſenza ſehiccherarle carte, o por tanticervelli a partito per intender
la ſua mé te, con si grave riſchio de' poveri ammalati. Or veggafi di vantaggio
quanto egli foffe dabbene, equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti,co’quali
dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe
gnare; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri, e
particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato, e in quella sì
confuſa maniera, que' catti velli l'olio, e la fpeſa indarno vi dovettero
logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer
tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi, e
regole di ciò, che fi dce nell'arte eſe guire, è tanto biafimevole, e ſconcia,
che nulla più; e ſe Principe mai, o Repubblica in dettando leggi, e ftatuti ſi
valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre, in quai
garbugli, in quali intrighi, in quantipiati, o conteſe ſe ne viverebbe quella
malnata Città, quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate
col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant
animidociles, teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli, a quel,che poco
avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto: Decipimurſpecie recti: brevis effe laboro
Obfcurusfio: Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate, per
tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre, sì chenon aveſſe
arditamente a dire d'Ariſtotele, ed' Ippocrate, e de'loro eſpoſitori favellando:
ita perplexe, et obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum
illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint. E
quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo:
Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis:
cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam, et immenfam artem contrahereftatuiffet,
ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh unoquoque plura præcepta
recondere, quàm quæ verbis deſignarentur: &fingulos Aphoriſmos prêter id,
quod exprefsè docent, proponere, ut figna, du notas, quibus aliarum rerumeadem
ſpectantium recordatio excitaretur: no però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì
fattamente ad iſcuſarſipiù tolto, o ad accagionarli Ippocrate; imperoc chè
qualbiſogna, o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut to, e'l tutto
avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti, e sì diſgiunti ragionamenti per
diviſar pochiſſimecoſe, c di niun rilievo? E qual lode è mai d'uno ſcrittore
l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa, e laſciarnu cento, e
mille, cuiabbiſognerebbe, che dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi
ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe medeſimo, a che
affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo diſtento. Ma ſe pur
po telle teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in
alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità, che per tacer
d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta, degli umori, degli alimenti, in cui
ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore,
Hippocrates anigmaticè, dw obfcurè adeo loquitur, ut divi nandum magis
quandoque, quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili
difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo. Egli adú
que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare, che
l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo, e oſcuro conoſcinicnto, ch'ebbe di
quelle coſe, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure, c affai brevi
parole cerchi toſto sbrigarſene, come fan coloro, che di future, e loro ignote
coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e'
meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode, e commendazione dalla voigare
ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono, comes cofa maggior
de’loro ingegni vie più commendano; e per ciò è avvenuto, che sì folta turba
de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per
volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi
naſconda; e dico indarno: imperocchè a gente di ſano intendimento quelle
cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono; eſſendomanifeſto,
che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda,e ſappia, ſicome quando
narra avve nimenti, e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di
notomia, ch'egli avea oſſervata, non torbido, e confuſo ſtile;ma cõchiaro,e
intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti
qualche antica, e vieta, e poco inteſa parola: impertanto non può renderli
tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda.
Egli è adunque oſcuro, ove di ciò che non inten de, imprende a favellare. Ma
per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali, c diſcender omaia qualche particolarità:
lo dico, che il primo, ove procura di ſcorgerne la medicina, come poſta lu la
vet Oo t21 1 ta d'un erta, e lunga, e ſtraripevol roccia,' oue mat puofli, tra
per la brevità della vita,ei molti, e gravi peri coli, che vi s’incontrano per
huom pervenire; e tale,e tan to, che vale a torre il pregio a quanti e'ne
ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la medicina per fe medelima,
ei, che dovea far altro, fe non ſe a tutto sforzo. agevolarne il ſentiero? e
pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna, che ove huom dietro a lui
mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben
avviſar Ippocrate, chela brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo
ſcrittor di fatica, al lettore altrettanto ne aggiugne. E nel vero chi potrebbe
confide rar quanto ftento dovettero durar tutti coloro, che prima di Galieno ſi
dieder briga d'interpetrar l'opere d'Ippocra te; e pur nientedimeno non uſciron
dal laberinto, come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente
porto il filo da poterlo ſpiar tutto, e ritornare in ſalvamé to; quantunque
v'há chi non gliele vuol credere, e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia
rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri; e ne ci reca la ragion dicendo, che ſe
vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate,
cotante quiſtioni, e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti, per indovinar, che
diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail
té. po, che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con
maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina,
opportunamente impiegato? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi
chè tanto gli è a cuore la brevità, a che perder parole per dire,che, acciocchè
il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio, abbiſogni che vi concorrano
l'opere dello in fermo, de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno
fian preſte? O utiliſſimo, o raro, e non mai caduto in mé. te umana conſiglio
del diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta, e Monna Nonna ſomigliantemente non
l'averebbe ſaputo? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam
venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più coſto con aringo
d'ornate ciance, che con faldezze di dottrina, cerca difar riparo Galieno a
petto degli argo menti, che incontro gli avventa Giuliano: non contien al tro
certamente, ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa, ch’un Maeſtro
Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina, maſſimamente
ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione; ella è tales: le
vacuazioni, che per vomito, o di ſotto ſpotaneamente avvengono, ſe fian tali,
quali eſſer denno, giovano, e age volmente ſi collerano; e ſe ilvuotamento
de’vaſi tal lia,qual çiler dee, giova, e ſi tollera. Orlaſciando da parte
ftare, che con chiarezza, e brevità maggiore potea cotal diviſa mento
ſpiegarſi, per avventura dicendo, cheſe l'arte, o la natura vuoterà ciò che
pecca nel corpo, fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe
moftro, ove ſia l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe,
e dell'inventore, come Galien lo dice, della razio nal medicina Ippocrate;
adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi: A che
dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina, sì lungamente, eintan ti
libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli
uinori, e dell'altre cagioni delle malattie, e delle altre coſe confacenti alla
medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo,egli abbiſogna, ch'a
ſuomal grado,alla fallace empirica abbia ricorſo. Ma più oltre: onde fe
meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli
Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo, che molto bene non
ſappia, che al lor, chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap
profitta, che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente,
&aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate, che quantunque non ne tragga
alcun diſagio l'infer mo, e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca,
avvenir può talora, che l'umor vuotato non ſia tale, quale vacuar ſi dec;imperciocchè
ben potrebbe egli di leggieri avvenire, che dopo la vacuazione di qualche
materia, la quale niente aveſſe che fare colmale, riſtoraſleli l'infermo Oo 2
per qualche vacuazione inſenſibile di ciò, che cagiona il male,fattanel
medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia, ſe talora ne’più gravi, e pericolofi
malori, quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la cagioni, che
l'adoperano; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera di
quelmovimento,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli, e nell'ufcir fuora, e nel
mutar faccia, fito, o movi mento que corpicciuoli, onde il mal ſi cagiona: a
pruova conoſcendoſi, che huom ſuda, vomita, e manda fuori per altre parti
quantità d'umori, e ſi ſgrava immantinente dal male; che ſe non uſciſſe allora
o pietra, o altro, che'l ca gionaſſe, ogn’un di certo giudicherebbe, che per la
vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò
che lo dico, in quci, che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo
preſi gli antidoti vacuarſi per vomito, e per ſudore gran copia dimaterie nel
tempo medeſiino, che guariſcono; e pure quelle non han coſa del mondo che fare
col veleno della vipera, il quale in altro non conſiſte, che in una
piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza, la quale rappigliandone il
ſangue nelle ve ne toſto n’uccide. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e
nelle ferite, ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non
pertinenti,c guarire, ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii
medici con falaſli, e purgagioni, ed Jorinojoſi, cimportuni rimedj i loro
infermi crudelmente ſogliono malmenare; giudican do così imitar l'opere della
natura; e per aver talvolta av viſto, che qualche febbre, o altro male ſi ſia
diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue: comandan poi, che nelle febbri ſi
tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di
Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio, nell'accreſcimento,e nel
vigo re delle malattic, ſe non ſe dall'aver eglino veduto, come chè radillime
volte, che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato, e
riſanato qualche infer mo; e queſto è quello, s'io non vado errato, che dovca
norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quelle materie ſi vuotano,
quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo;
concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la
delicatezza della parte, per la quale ſi vuotano, e per altre cagioni ancora
recar ſogliono noja grande agl'infer mi; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo
dimenticando al trove avviſa; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia, e
ripiglia Ippocrate dicendo, ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come
vera una propoſizione non miga per lui provata, ne dimoſtrata in prima, cioè,
che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente, o dal cambiamento degli
umori in altra qualità di quella, che in prima aveano, la qualvien da'medici,
corrottela, chiama ta; ch'egli però giudica,che ove non ſi ſcorga legno di cor
rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione. Coſa, la quale
foggiugne Giuliano, in modo veruno in tender noir fi puote, ne è vera:
imperocchè fe ciò foſſe, eglinon ha dubbio, che tutte in fermità agevolmente
gua rir potrebbonſi: ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia: e una ſola
la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe; imperocchè ciaſcun potrebbe
agevolmente qualo ra a grado gli foſse, effendo ciò in ſua mano, comeilmal l'affale,
così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro, falvo che fa ſola
vacuazione, la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col ſegnare,
ſe'l male ſarà cagio. nato dal ſangue, e fe dalla flemma, e dalla collera,condar
loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire, che
allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio;
perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale,ficome Ippocrate
ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il
vuotamento di quelli; il che certamente non avviene; anzi Galieno medeſimo ri
portando in ciò molte fperienze, coſtantemeure altrove il niega. Ma come allor,
che fon crudele materienel princi pio de’mali,quando le parti ſalde non ſon
potute ancora contaminar da eſſe, le vacuazioni riefcono nocevoli, non che
infruttuoſe: e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma Galieno, elle
giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non può eſſere, che
non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le partiſalde, le quali in
tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate, e ſconce ne vennero? adunque
direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con quelle malattie le diſcorrenti
ſoſtāze del corpo; e allor, che li veggono dopo la vacuazion di qual che umoré
ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente per la vacuazione,comeIppocrate
afferma. Ma par egli certa mente, che Ippocratemedefimo non troppo fitidi in
ciò della ſua dottrina; imperocchè avviſa egli poi nell'ultima parte
dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al paeſe, alla ſtagione, e alle
mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione. Ma per tacer della ſtagione,
dell'età, e del paeſe, onde niuna certezza trar ſi puote, con qual argo mento
in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia,
e qualſia quella parte diſcorrente, che cagioni l'infermità? Credeſi la collera
cagionar la ter zana: la malinconia, la quartana: e pure queſte alla va
cuazione, che penſan fare i medici di tali umori, non ce dono:'maſivincono
ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù, e con altre molte sì fatte
medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina
di sì poca conſiderazione, che egli lo tra sformò sì, che in tutto è diverſo da
quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli
auto ri, egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian
pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo
poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien, che vada al peggio; e che però
dipreſente huopo faccia vuotargli. Primicramente la ragion d'Ippocrate, la
quale ha dato cagione di quiſtionar canto, e d'aggirarſi fra vani argomenti al
Forli alSermoneta, e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero., e
materiale, e più li ſten de aſſai di ciò, che Ippocrate s'avviſa; imperocchè
perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo, sìfatte perſone dovrebbono
andaralpeggio; il che falſo ſi ſperimenta; e ben ſi conoſcerebbe apertamétc per
ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate, s'egli come far
dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata, comepofcia fecero i ſuoi chioſatori,
dicendo, che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente, nepofare: perchè
continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in loro il chilo, e'l
fangue, c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del corpo, ne
potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos debba di
neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato. Ma non poſer mente coſtoro
alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti, e ſalde
del. le loro foſtanze, checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e p
cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p. la continua formentazione di
quello, che in aliti lotciliſi-. mi mai ſempre gli va ſciogliendo; e quanto più
abbonde vole, e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo, e
valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni; e quindi
ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo: e
comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già
per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al
dovere per qualche cagione di fuora a muo-, verfi, e a rarificarſi
ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono: 0 pure quello
diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo, cdivi fermatofi, or
una, or un'altra ſorte di mali, e talvolta con impedir affar to la circolazione
del ſangue repétina morte alcresì cagio na; e ciò è quanto dovea il noſtro buon
Ippocrate avvi fare. Appreffo fålla egli gravemente, ſenza dubbio, in tacendo
come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle
vacuazioni, o pur colla dicta; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi fa
colla die. ta, comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente
egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta, e quando altrimenti e
in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco,e vani farebbono ſta i per
avventura i ſu: i avvertimenti. Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al
venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi; e come chè in lor
ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del
favellare, confonde quelle materie, che meſtier fenza fallo gli facea
illuſtrare; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe
più neceſſarie a ſapere in medicina; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole,
alle quali fa meſtieri d ' eccezione, le dovea egli almeno accennare; ed era
aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò, che le tant' altre bazzicatu re, in cui
inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia, come quello, che
agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è, che non
ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina, che ne'mali
lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar
non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo, ma un poco più largamente x Chiè, che
non conoſca, che nell'acceſſioni della febbre, non ſi debba a niun modo cibare
il malato? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar, ch'alcuna fata
anche ciò far colz venga. Nel duodecimo aforiſmo fi da briga, e ragionevolme te
nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie; ma in
materia di sì gran lieva, e onde, com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto
regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro, e intral
Lito favella, e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine;
tralaſciando non per ſuo mal talento, ma per ſuo poco ſapere di far motto
de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli, egli è molto ſcarſo: recandone un ſolo
della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel
cominciamento di quella lo ſputo, il male abbia poco a durare. Va errato
parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori, alle fecce, e ſpezial
mente all'orina; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal
ſangue;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada
tragittaſi alle reni; e ro, comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate,
dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi, che appena tranghiot titi, di
preſente ſi orinano: e agli ſparagi, al Terebinto, e ad altre coſe, che ſenza
toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina. Nel tredecimo aforiſmo
dice Ippocrate, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno; e quindi paſſa a far
paro le dell'altre età. Ma queſto è un'errormaſchio; imperoc chè dal continuo
ſperimento ne fi fa chiaro, ch'a’vecchi tra per la lor debolczza,e perchè poco
nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi. E
verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo: inediam facillimè fuftinet media
etates, minus juvenes, minimè pueri, et fenectutes confećti. Vien
poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici, cioè,
che coloro, i quali cre ſcono, abbiano in copia grandeil caldo innato, e che
per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo, alorimenti il cor po ſi conſumi.
Ma non avviſano coſtoro, che alcuni peſci creſcono oltremodo, e non che eglino
caldi fieno, anzi só freddi si fattamente, che lc loro interiora
agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono: come avviſa de’luccj del la
nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani: ho aperto (dic' egli) il luccio ancor
vivo, e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro.
Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella, per la cui opera
ben,' digeſtendoſiicibi, e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a
quella in prima dovea por mente Ippocra te, e poi diterminare; ma eglia ciò non
badando, indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino, che di verno, o di
primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime, ei louni lunghiſſini; e
perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba;concioliecofachè l'innato
calore allor creſca, cui maggior cibo certamente abbiſogna, e che di tal coſa
nes fan pruova l'età, egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì
breve ſen tenza: ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile; ma ab biz Рp
biaſi pur ciò per niente, egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio, che
quantunquevero in tutti huomini, per tacer d'altri animali, ciò che
diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno, e di primavera affai meglio
fmaltiſcanſi i cibi: la ragione nondimeno, che di ciò e' ne reca è falſa;
concior fiecofachè falfo apertamente ſia, che nelle menzionatcſta gioni
caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle, nemen nulla
montcrebbe: non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome
ne ſiamo omai tanto accertati, chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè
in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni
fanciulleſched'Ariſtotele, che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il
caldo, come ſenſo egliavel fe, e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe, alle
più naſco fe interiora ſi rifugga; e certamentecotal ſciocca filoſofia, che i
luoghi ſotterra caldi ſiano di verno, e freddi di ſtate, per lo Termofcopio
falſa apertamente ravvifaſi, comeché tali pajano a noi, che di ſtate caldi, e
di verno freddi v’en triamo dentro. Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir
potrebbeſi, che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener
quella ſoſtanza, che di ſtate eſce fuori, la quale da al ſan gue col movimento
il calore: non però di meno, come fiè accennato, manifcſtamente in noi ſtesſi
ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte, non altrimenti, che quelle
di fuora, effer più affai calde di ſtato, che diverno; ne per altro nella detta
ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo; ne
Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare; il quale dice altrove, che di verno s'
ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore, eche avvengano lunghe, e
cagionate da tardi, lenti, e freddi umori le malattie. Ma Galieno volendo le
parti del ſuo maeſtro difendere, immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con
dire, che di ftate ſian calde, maggiormentc che diverno le viſcere, di quel
caldo, ch'egli avveniticcio, e foreſtiere chiama,ma non già miga deicaldo
innato. Chiama egli caldo innato una i 1 1 remo. una aerea acquoſa ſoſtanza
d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata, e avveniticcio allo
incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato; e di queſto egli di ce
nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che
abbondevoli fiano maggiormente i giova ni, e di quello i fanciulli. Ma quanto
ciò poco, anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre
Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal
ſangue; perclié folea dire l'Arveo, altro non eſſere il caldo innato, che'l
ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum, ſeu primo natus calor
ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium,
præfertim pulli in ovo luculenter conftat: utentia, multiplicare fit
fupervacuum. Argomento manifeſtiſimo è di ciò, ch'io dico lo ſcorgere,
ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale, immantenente ogni calor
viene ella a perdere: e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue, ben
toſto dal cuore, dalle vene, dall'arterie, da altre parti falde tutto il calor
fi diparte. Vano, e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi
ſuo le, il cuore effer fonte del calore: ne ſo lo vedere, come in sì fatta
opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte;
imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo, che
l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue (e ciò avviſa infra gli al tri il
noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo, convien! inveſtigare, onde il
calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre
nell'arterie, e nelle vene quello mantieneſi. Credettero alcuni degli antichi,
che'l fangue ſi riſcaldi, e caldo continuamente ſi mantenga, perlo movimento,
che dal cuore, o dall'arterie egli conti nuo riceve; ma non baſta certamente un
si debile movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore; anzi prima che'l
cuore, e che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo, caldo vi ſi ſperimenta il
ſangue; ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro;
ma chiunque P p 2 pon mente alla materia, onde ingeneraſi il ſangue, più age?
volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio
il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe, e di frutta, e di carni, che
altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte, e ingenerate; or sì fatte
vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la
divengon calde sì factamente, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la
forinentazione, dura parimente in loro più, o meno il calore; cofa,la quale nel
mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora
ravviſar eglifi puote; ma d'altra affai più nobile, e più maraviglioſa maniera
certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue, la quale in
parte è ſomiglian te a quella, che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze
minerali; onde avviene che lo ſpirito,che per chimica ma no dal ſangue li trae,
ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi
formientati vegetabili trar fi ſuole. Ma come veramente una tanta opera nel
ſangue fi faccia, e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a
conghietturare; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella,
la quale diliberando nel fan, gue i ſemi del fuoco da que'ritegni, per li quali
non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco,
v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo
al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi
rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno, o molto pochi, o in
sì fatta guiſa con altri, et altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che mal
ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia
agevolınéte ſvi luppare. Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per
manevole negli animali il calore, il quale, or naturale, or non naturale porrà
dirſi, fecondochè convenevole, o non convencvole e farà alla natura di quelli.
Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo,
intanto,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio,
certamente convien dire ch'appena ne'fanciullinon inolto guari dopo i loro
naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno,
ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa
della doctrina d'Ippocrate, portati per Ga licno. Ma per ritornare al noſtro
propoſito: di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante, la qual continuamente
dagli huomi niper la reſpirazione li bee, e per le ſoſtanze del volante. ſalc,
che'n quella, più, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano, sformatamente
la formentazione del ſangue, e in eſſo in prima, e poi nelle viſcere divien più
grande,e pa riinente ilcalore; allo incontro poi il verno, mancando all' aria
que'ſali, e tra per queſto, e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla
formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore; ne
per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue, e le viſcere,
maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di
eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente, che
per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono; ne pare dalla verità lontano ciò che
de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero: Dicono che agli kuominidi Lucu morie:
coſa mirabile, e incredibile, e che ha più della favo la, che del verifimile:
fuole intervenire, chequelli per ciaſ cun'anno, cioè a' ventiſette del meſedi
Novembre, nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio,
muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la
fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino. Ma che che faſi di quelli:
lo dico, che ſe Ippocrate, e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare,
avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione, per la quale di verno, e di
primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi
quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco, e fa
la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per
lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa, e fi dilegua; cf fendo
ella, comechè accender non fi poffa, vie più dello {pirito delvino volante, e
ſottile; e per mancamento d'u pa co na
cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene, che gli huomini, co mechèpiù caldi, men
gagliardi ſi ſentano, e atanti della perſona. Ma nc.men ſe ſi concedeſſe a
Galieno, che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali, ſarebbe ciò
pun-, to per giovare ad Ippocrate; concioſliecoſachè, o innato, o avveniticcio
che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi.nell'animale, conſumerà ſenza
fallo il corpo diquello; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel
precedente aforiſmo recata, converrà certamente dire, ch'a' giovani più ch'a'
fanciulli, e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere; ma
ciò Ippocrate, e Galieno fe'l vedano, che per altro poiifanciulli più
largamente eſ ſer denno cibati; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per
creſcere, sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di
ſtate abbian più biſogno di riſtoro, e dicibo gli animali, nondimeno non molto
bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione, convien che
parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi,
che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di
caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in
cui certamente il caldo avveniticcio, è quel che ſovrabbonda; tralaſcio ciò che
dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore, non
ainmalino co sì, come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il
calor de'febbricoſi, ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato, ſalvo che per
gradi. Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc;
imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente, ſuppone le due ſorti di caldo;
perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire. Nell'aforiſmo
ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color,
che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli(purie, i qua
per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco, e l'altres viſcere
ripiened'acquoſe, ed unnidiſſime ſoſtanze, lo per me li me non sò, comegli
umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più
de'cibi, fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative; foggiugnendo
nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe, le quali o figiu dicano, o giudicate
interamente già ſono, non ſi debbano muovere, e ne con medicine, ne con altro
irritare, ma lila fcin così ſtare; ſentenza, la quale con altre de' libri degli
aforiſmi volle Ippocrate, che ſi leggeſſe nel libro degli umori, ed in altre
ſue opere, e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento;mapotea
certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga, cotanto ella è
chia ra, e manifeſta coſa; e nel vero chi ignorar mai potrebbe, avvegnachè non
inai ſtudiato abbia in medicina, che ad huom perfettamente guarito della
malattia, non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi
namento del corpo, ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere? Ma
forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che
li facciano og. gidì que' de’noftri, o poco, o nalla vi badavano; e ciò per
mioavviſo avviene, perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far
coli, chepaja al vulgo grande; come è il vuotar con ſalafli, e con purgative
medicine; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli
no fare;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in
un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo
ingenerarle? ma chi ben riguarda la coſa, apertainente ſcorge, che non
ſolamente in ciò,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano
i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate; e queſta
certamente è la cagione, per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in
qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò, dovea annoverar Ippocrate
minutamen te i ſegni, per li quali ravviſar poſſa il medico, che'l male
interamente lia andato via; c que'ch'egli altrove, e Galić nelle chioſe
brievemére produce in mezzo,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer
puote. Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane
do po le malattic; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna, chenon
ſia a tutti ben noto. Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che
ciò che vuotar fi dee,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e
per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo. Qui il gran macſtro delle più
aſcoſe materie dell'ar te, non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume, imprende
ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di
niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente
regiſtrare; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella
convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti, e per le
mordacità de’lughi, o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare
di quel,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi
recaro, che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto, e molto ne ceffario a
ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie; ma
da’ſeguaci d'Ippocrate, e diGa licno, come abbiam dimoſtrato,in niunconto
tenuto. Mów la colpa, s'Io pur non vado errato, in gran parte ſi dec ad
Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento
d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno
al propoſito, e poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere.
Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili
novelluzze; anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo:nel cominciamento de’mali,
ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro,
comecertamente dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima
avea egli inſegnato. Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò
ch'egli altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne, egli è
certamente un'avviſo così fuor di ragione, che giuſtamente da più avveduri
medicanti, comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato; cioè che vuotar fi
deb ba fin’allo sfinimento, ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa
comportarlo l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno, che Ippocrate dato c'non abbia
il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta, che poco addietro
corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di
grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli
rifiuti.Ma più v'è di male, che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto
intēder vo glia; ſe di quel, che per li ſalaſli, come ſpiega Filoteo, o pure
diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò, che in
prima egli ha detto; o diquel che fafli, e per gli uni, e per l'altre,comevuol
Galieno, il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata, dottrina
dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe
Ippocrate, e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte
eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni
s'abbiano a porre in opera sì, che o giúgano appunto allo sfinimento,o
no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero
infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze
curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita;séza chè p
cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto
vuoti, e groſſo calice d'ama riſſimo, e violentiſſimo beveraggio nulla non
operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi et ritrova adatto;perchè trop po
pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate,
ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo.
Ma poſto, che ciò che inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui
re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le
più nobili, e utili foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì
ci accade d'avviſar la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi,
i quali no avendo ardimento d'imnitar Ippocrate, e Galieno nel ſe gnare fino
allo sfinimento, l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e
nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando,nel far grandemente vuotare,
tutto il ſapere, e'l va lore del medico, e l'eccellenza dellamedicina
confiftere; e RI pure il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che
non miga per la quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni, ma per la qualità
degli umori,che ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice
in quello, giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè
chiaramente ſi vede, che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel
biſogno maggiore, le conſuma poi, ove non fa meſtieri; ma non una, o due fiate
egli in ciò ſi vede fallare; e ſimigliantemente ciò, che ſi dice nell'ulti mo
aforiſmo, fù detto già nel ſecondo;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente
vano, e ſoverchio da Galieno,che che fi dicano in contrario gli altri
chioſacori:onde non è da farne più motto. Egli era sì agevole impreſa ad
Ippocrate il dettar aforif mi, che lo immagino, che egli dormendo ancora ne com
poneſle; imperocchè non ſolamente in queſta, ma in cuce ' altre ſue opere gliva
egli ſeminando; e quelche più dej recar maraviglia ſiè, che ne reca alcuniegli
ſovente, che colla materia, la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando
di ciò lo vado ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza
non procedere, ſe non fe dal ſuo poco intendimento, e dal non diſaminar lui
bene le coſe; perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele,
che coloro, che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano; e quindi
avviene, ch'egli tratto tratto diſguiſato, econfuſo non ſerba ordine, o maniera
alcuna, a guiſa de’noſtri Romanzatori, i quali di palo in fraſca ſem pre
faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano,
e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam Bradamante, e non v'increfca V dir,
che così reſti in quell'incanto, Che quandoſarà il tempo, ch'ella n'eſca La
farò ufcire, c Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca,
Così mipar, che la mia iſtoria quanto Or quà; or là più variata ſia, Mero a chi
l'udirà nojoſafia. Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle
purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo: il ſonno
ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera; ma ſe
ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale. Egli l'ha indovinato
certamente alla prima; e non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti,
che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva: e allo incontro rimaner
in vita altri, che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o da altro
aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre
nell'avanzamento dell’avute malattie, che gli infermi più moleſtia in ſonno,
ch'in veg. ghiando patiſcono? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano;
oltr’a ciò le terzane, e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più delle
volte con faſtidioſi ſonni gli am, malati sformatamente annojare: e pur le sì
fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e
quantunque,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda, di favellar de fonnida
tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe
apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori, o de' lettori
laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate, che ſe'l ſon no la farnetichezza
raccheta, vada ben la biſogna. Ma che è ciò per Dio, ch'egli dice; Io vo
conceder, che talor vaglia, ne vi ha chi il nieghi, ch'un placido, e ſoave
ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare: eche aver fano
l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima; ma ſe un sì fatto giovamento
s'aveſſe altronde, che dal sô no, domine ſe ſarebbe male? e ſe ſarebbe ancor
bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo: buona coſa è, che i
farnetici dal lor farneticare riſanino; e five drebbe ſenza fallo regiſtrata
una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione
di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase
non aveva ſonno, E queſt'era cagion,che non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe
fatto Ippocrate, e quanto Q92 con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli
il tem po, ſe in vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre, e a
dimoſtrarne di quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a
recarne quelle tante utilità,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare:
fomnus Jant um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim, abfit
difto error, an, et qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, et repentinumfit
auxilium, adeoque corpori, acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co sì col grave
fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati dolori della
perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente gli abbandona
in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in no ad Orfeo
attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies rerum,placidifſime
fomne Deorum, Paxanimi, quem cura fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis
mulces, reparaſque labori. Canta Ovidio; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum,
requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida
ombrofa Noite placido figlio, o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali
Si gravi, ond'è la vita aſpra, e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre
gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo, e rio, Col ramo: molle
dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore; ne altro rimedio
ritrovò Erminia (appo il maggiore deno Itri Poeti ).a? ſuoi dolori,che'l ſonno
Cibo non prendegià, che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete;
Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing
Son. DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori, e l'ali Diffefe
fuura lerplacide, e chete. Ma comechè ciò fia vero, pocomontava a noi certame
te il faperlo, fe non fappiamo inſieme chenti, e quali ſiano irimedj daciò
operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti,
onde a’malati ſi può chiamare il ſonno; e comechèoſtinato ingannarlo: e non
folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato;
perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre, e fe,
che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la
ſua natural mutolezza in prima naſcoſi: conciofoffe co fa, che chioſandocolui
queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo: nova ratioexplanandi
aphoriſmos Hippocratis, per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec
ta. mea conſcriptireperiuntur. Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli
poi al poſtro Aforiſmo, dice per fenté za d'Ippocrate: ad praxim revocabitur
hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus
concilietur. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi
ſarlo, il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe: Som nifera
quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt;
fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum
pretioforum. Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum,rectè
applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff. Non igitur folum
defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur,fed oportet ut euminrelligatis,
fcut medicum ex pertum, qui ex fpiritu medicina locutus eft, non ut Humori Ba,
qui ignorat quid fit fomniferum,fed ut artifex. Mache mivo Io più nel farnerico
degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo, i quali di sì picciola
levatura ſono, quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo
tranquillo, e ripofato, e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro,
e'sì gli giudichi cutti, e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica
logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia
diquelli, che fin quì diviſati abbiamo:eche malamē: te allogata abbian l'opera
in affibbiarvi tante chioſe, eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il
narrato Signor della Sciambre, il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni, e
a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire,
e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una
sì magui. fica impreſa. Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il
Signor della Sciábre diviſa, e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto,
gran coſa pur cgli non fa rebbe, come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole. Ma
incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente,
perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto, o quell'altro aver
Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie
chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo, ficome quando p
ſoftenerche'l, ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate,
vuol farne a credere colui aver avu to in animo, che ancora fuori del
gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano; error,che in verità non mai gli
porè cadere a niun modo in penſiero. Or ſe la potente faſcinazione
dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori, eglino ſiſarebbono,
fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco, 0 niun valore del volume degli
Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente
falfi vi s'avviſano; intanto, che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno,
e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere. Ma comechè cotanto
imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento,
c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual
dice, che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a
infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro, ove inten de
Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte, dicendo; ſe
conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia, innanzich'ella vada a
coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre,
di certo, che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe
l'aforiſmo è falſo, abbiſogna anche dir, che in vano ſi becchiil cervello
Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal
operazione; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte
s'avvide, che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal
beveraggio; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai
l'aſſaggiarono, o gravide, o non, gravide, che ſiano elleno, foglia talora la
mulla dolori di ventre cagionare: il che avviene ancora dalla mulla com, poſta
coll'acqua piovana, della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato.
Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo, che mortale ſia a donna gravida ogni acuta
malattia. L'Aforiſmo, di cui meritevolmente dice il Santoro: ne, mofana mentis
defenderet hunc aphoriſmum: cioè, che co loro, de'quali l'orina è fabbionoſa
abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica,
egli è così apertamente falfo, che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta, e
ripiglia fortemente alcuni antichi medici, che ciò dicevano · Galieno ancora
avvifa la ſua falſità, e dice eſſer errore d'Ippocrate, o dc'copiſti, e che
l'Aforiſmo do vea dire, o nella veſcica, o nelle reni; ma con cutta que fta
aggiunta di Galieno, falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo
Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto
l'orina ſabbionoſa, ſen za aver avuta mai menoma pietra, o nelle reni, o nella
ve fcica. Soggiugne oltre a ciò, che di dieci perſone appena che una additar ſe
ne poſſa, che non abbia l'orine ſabbjo noſe: e pure rari fon coloro, che han
pietre nelle reni, e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica. E oltre a ciò
egli racconta, che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa, e
nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra. Ma
non menofalſo è quello altro aforiſmo,che'n bocca de’medici tutto di eſſer
veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina, qua le è quella
de giumenti, o hanno attualmente, o auranno di preſente dolor nel capo. E
quell'altro, che a coloro, a ’ quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore,
ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro, di cui Giulio Ceſare della
Scala, così a Girolamo Cardano ragiona: nequemés ægrotat, ut falfo voluit
Hippocrates, cum dolorem, quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi
trovi la ragione, checolui poi ne recà ſoggiugnendo:fed quoniam dolentem ad
locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E
quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non
mai vegna loro la po dagra. Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche
volmcntc in udendo quell'aforiſmo, che i malchi per lo più s'ingenerino nella
parte deſtra della donna, e le fem mine nella ſiniſtra? E di quell'altro, che
ſe la donna aura conceputo maſchio, ſi vedrà ben colorita in volto; mares avrà
conceputa femmina, farà pallida; e di quell'altro: ſe una donna non ſarà
gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà,co prila bene con panni, e di ſotto adopera
ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca, e alle
nari, ſappi, che per ſe ella non è ſterile. Taccio altri, altri aforiſini
intorno alla medicinal materia, che fan vede re, che Ippocrate poco avea che
fare certamente quando fcriveva un tal libro, ſe vi pone sì fatte fraſche, che
ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban
regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete
coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto
poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina;
ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto
ria delle parti del corpo umano, e degli ufici di quel lc, e del modo, col
quale adoperano, come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri, che non fa
meſtieri, ch’lo ne faccia parola. Solamente narrerò, come per ſaggio dell'
altre coſe, ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata, di cendo, che quelle
parti, che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca, com'è la veſcica, il
capo, e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen
re, 1 1 1. te tras 1 i ; te traggono, e ſon pieni degli attratti umori; ene
reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae, e che
fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra, e adata tandovi una fiſtola,ſi
trae agevolmente ciò che ſi vuole, e che le ventoſe, le quali ſogliono
appiccarſi per attrar re dalla carne, ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo
la bocca; ccco le fue parole: Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη
εκ τέ άλε σώματG-, πότερον τα κοίλα π, και εκπτ. παμύα, ή του στρεά της και
τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές. συνη μία, δύναιτ' αν μάλιστα,
οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε, και ευρίG-' καζ μανθάνειν
δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς, υγρόν δεν
αναστάσεις προσμελήναςδε, και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον
ποθέ. μυς, ρηιδίως αναστάσεις αν ό, τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι
εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται, προς το έλκαν από της
σαρκος, και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης,
χήμα τοιούτον• κυρίς τε, και κεφαλή, και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο
μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici. Non occorre, che Io mi dia
briga in diſaminar si fatte fanfáluche, potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi
fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori, che parole.
Egli vuole, che la veſcica tragga l’o. rina; il che tanto è, quanto s’un
diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote
del ca po, e della matrice. Ben ſi pare poi, ch'egli ignorimolte di quelle
ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del
corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli
pur ſi cõcedeſſe, ch’elleno adoperaffero per traimento, ficome fin ' a' dìno
ſtri han follemente creduto, e inſegnato le ſcuole; ma qual maraviglia, che ciò
Ippocrate aveſſe affermato, s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del
fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo, e ſe ne nutrichi:
Távce δε, σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι, ποιέει οι οδον
αυτ έωυτώ, και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον
πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής, αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea
diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quanto gli faceva luogo per la
medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa,che molte, e molte coſe di
notomia, che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale,igno te affatto
gli foſſero; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a
quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie, le itrade
del chilo, l'aggira mento del ſangue, la fabbrica, e gli ufici delle giandole,
e altre, e altre molte coſe, delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai;
nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina
ignoraffe Ippocrate, non ſi può negare, cheegli molto nous'avanzaffe ſopra
tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel, che noi fappiamo, il che da
altro certamente non nacque, che dal talento natu Tale, che egli ebbe adatto
aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli, e accrebbe ſommamente in
coltivan do oltremodo quella parte alla medicina, molto neceſ faria, qual è
ſenza fallo l'offervazione; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore;
perchè ebbe a dire di lui Ga lieno, ch'egli affai più coſe colla ſperienza, che
colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le
trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe; e ſenza ad
altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria
intorno agl'infermi da lui medicati; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti
felicità nell’ofſervazioni Ippocrate, che, o per poca dili genza, o per alcro,
che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel, ch'è peggio, anche talora in coſe
agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra,
ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado. Ma in
quella parte poi della medicina, ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel
vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne
meriterebbe una grandiſſima loda, ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente
conoſcere, ch'egli ſtato foſſe molto manchevole, e difettoſo in quel, che più
propio, e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte, ed è riporta
l'eccellenza, anzi l'cf fere tutto del medico; cioè nella concezza
de'inedicamen ti: maſſimamente di quelli, che tali veramente ſono, e che
da’moderni, ſpecifici chiamanſi; i quali ſenza cagionar ne vacuazione, ne
movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male, e riſtorar l'infermo;
ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto
intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe, rade volte
adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare
gran quantità d'umori, le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore.
Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente
da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj, ne'quali ſi veggon le
malattie ne'terminiloro fatali, o in bene,o in male eſſere oftinatamente
terminate; c alcu. na fin’al centeſimo giorno eſſer durata. Si ſcorge ancora
ciò nelle medicine, le quali egli adopera, come quelle che pericoloſe ſono, e
poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio, comea tutti conoſciute,
le cantarelle, di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia,e in
altri ma li dando cinque di effe, e togliendone ſcioccamente il ca po, i piedi,
e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno; e racconta Galicno,
ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo;
ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate, che con peffimo
conſiglio e' vuol, che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla
de’malvagi umori; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la
Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli, è una ſpezie d'orpimen to velenoſo
corroſivo, cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine; il che volendo
ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata
iinitare, riduſſea, pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca
méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin
allo sfinimento; c quel che ſi è il peg gio, e Galieno malagevolmente il
comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori
ſi ſtea da il dolore, ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma
chi voleſſe annoverar le mal preparate, violcntise veler noſe oltremodo, c
ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate, elle ſon tali,
chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo. Ne per al
tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta,
per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele, o aceto
con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε
χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap
preſſo,che nel quinto, e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera
gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto,acciocchèil ſettimo giorno
menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire: και έτι τή αίματη, και την έκτη
ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι, ως την εβδόμην δια
jnásoe spegno dydyn. Ma da queſto,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre
coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio, ch'egli da al medico:che non
avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde; e ſe
co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba
coll'aſciugare; ma ſe'l male non ne ſcemerà, e ne di verri piti graveil
citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων,ών μη επί 5ηταί τις, φάρμακον είσαι μη
ισχυρό,. ήν δε ράων γένηται, δίδεικται «δος, εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε
μη ραων ή, άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila. Dalle quali parole, e da quel che indi
appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere, che il
medico,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine;
e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna
a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo, intorno a ciò certaměte parmi
più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no
conoſcêdo ilma Ic, altro farnon debba, ſalvo che preſcrivere all'infermo una
rigoroſa dieta, e intáto ſtar cauto, cariguardo per po, ter quello per qualche
ſegnal fotcilmente avviſare. Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate,
per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici,
cheabbiamonarraci, coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa.
317 terie ricoprir cercolla, perchè diede opera grande agli arr tivedimenti, e
ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli
inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon,
che lo gnando færnetichi; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare
della Scala, che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento. Divulgò altresì
Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento, in cui
no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza, o law fua malizia. Quelle
cofe, ch'e' giura Io non le reco; ma ben può ſcorger ciaſcuno,che elle vi ſono
poſte tutte per farlo credere huomopio, e divoro, non altrimenti, che Ser
Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono
baſtevolitanti se sivarj artificj, ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome, e che,
come egli mede fimo confefſiz, più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare e ’ no
riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo, dal non aver lui
avuto niuna contezza di nobili, e va loroſe medicine, per le quali egli in
pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe, qualora in qualche
finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene
Ippocratc, ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni, i viluppi, e
l'incertezze della ſua arte, e qua to poco ſia il frutto, o'l giovamento, che
poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre; perchè egli ſcarſo anzi che no mai
ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci;
temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe; ne coſtumava egli,
come ab biam veduto, trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da
grandi, e interne infiammagioni accompa gnate: ne purgar coſtumava, ſe non ſe
molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol
tremodo biaſimato dalle genti minute, le quali giudica vano, comechè grave
foffe, e di riſchio il male, eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo, ſolamente
per la tra. ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel ſe al tempo
con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fatto riparo; ſıcome la ſciocca
rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti
malattie mol ti, e varj medicamenti,ficome egli narra, adoperavano, non
altrimenti, ch'or ſi facciano poco men, che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi.
Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc
indegnamente ol traggiato, o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima
di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro
ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a'
tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a
Paulo Emilio Ferrillo, per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni
ritroſo; e indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi, perciocchè
nel ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace
d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava, ne mo riva giammai infermo, chenon
ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine, e traſcuratezza d'aver colui
ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato morire. Com tanto il non
operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo, grave crrore, e biaſımevole
ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu
mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole, 1 1 RA 319 1, des S
É ſtanco, c anſante pellegrino, cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane,
acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine diterminato agiatamente
pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta,or
indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e
chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e
minatiffimaerba ripieno, e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura
rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi campidel
inare tante, e tante Iſole, acciocchè quando a'Soli più tiepidi s'accolgono,ri
trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies tormedegli uccelli;
ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e malagevole imprefa di
dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi medici abbia già comin
ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo i noſtri lúghi
ragionaméti préder nuova lena; e táto più, che vie più ſghembo, e inviluppato
ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato, orci ſi fa innanzi;
imperocchè ab } biano, ficome avere potutofin'ora comprendere, piena
mentediinoſtro,ſe'l mio avviſo non m'inganna, a quanto mal riuſciſſe a coranti
valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional medicina ſtabilire; e
fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando;avvegnachèa trattar
dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri; imperoc chè di loro opere
nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba, e quelle poche, e intralciate memorie,
che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a
farne diviſar di loro dottrine; imperciocchè quel buon huomo, tra perchè non
l'intendeva, e anche, perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare, e porre a
fondo ogni lor fama, e gride, cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a
gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre, Ma comunque ſia la biſogna,
Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro
ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando, ſeguitar la coſtuma del noſtro im
preſo diviſamento. E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio,di
Diſippo, e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj, e diverſi
ſentieri avviandoſi, a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder
principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire, ſe non che alcuni di
loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato: darem comincia mento
dal famoſo Diocle. Dico adunque, ch'e' fi puòbé ammirare, e commendare la ſua
grandiflima corteſia, o umanità veramente ſingulare, colla quale, come teſtimo
nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi; ma tion già la ſua dottrina, eſſendo
molto rare quelle notizie, che a noiper venute ne ſono; ſi legge nientedimeno
ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità, dove permio av
viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e
particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto
chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe, al quale ella è
fcrit ta; vi ſi ſcorge tuttavia, che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia, e
che ben poco egli gradiva le compoſte medicine, e che non moito gli erano a
cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno, egli ha Dio
cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo, e'l freddo, e'l fecco, e l'umido;
de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol, che fieno. Dottrine,
che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo
fatto ſermone, non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle
d'altiſimo intendimento, e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe, non però di
meno, o per manca mento di maeſtro, o di guida, ch'al diritto fentiero l'avel
fe fcorto, o per altro, che ciò operato aveſfe;ſconciamente laſciandoſi trarre
a’hiſicofi impigli della dialettica, sì, e tal mente bambo, e ſcempiato ne
divenne, ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere, non eſſer
altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer
molto probabili fue ragioni, nondimeno da colui, come troppo durauna
talopinione, e come ripugnante, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte
bialimata, e rifill tata. Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli
s'avanzaffe Diocle, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando
favella della malattia ipocondria ca, di cui un libro ben'intero e compofe, il
quale ſcëpia to, emancheyolc ftimnafi per Galieno; ma che che nedica colui,
degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro; imperocchè ci fa
vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della
medicina, da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con
ghietturando le cagioni delle maraviglioſe, e ſtrane appa senze di quel male.
Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro,
che ſon travagliati da’mali ipocondria ci, non quelle venc, che ricevono
l'alimento dal ventrico lo, abbian aſſai più calore del convenevole, e'l ſangue
in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto; concioliecoſachè cerca coſa ſia le
menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi
dall'alimento, ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce, e nel
ventricolo, indigeſto ri Sf inane;mane; quando davanti per li meati ſi ricevea,e
per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre, come dal vomito poi
manifeſtamente s'avviſa, quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece, per non
eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo; mache'l calore in sì fatti infermi fiz
più del na turale ſoverchievole, agevolmente fi ravviſi, così dall'in focamento,
che a loro avviene, come da quelle coſe,che anche lor li danno; imperocchè
giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente
rintuzzare, e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες, υπολαμ.
βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος
την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι
έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη
γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων, τα δε
πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων
ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν
της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς, και της ποσ φοράς •
φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων,
και μαραίνουν σωθεν. Soggiugnc indi appreſſo Diocle, che affermino al cuni
eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto. maco, la qual s'uniſce
con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar,
che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno, e ſtabilito; perchè
dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti,
e'l calore, e l'altre coſe tur te, che menzionate per lui in prismafi fono:
Λέγεσι δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω
φλεγμαί ΥΑν, δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι, και κωλύειν καταβαίνουν τα
σιτία ας το έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα, πλείονα χρόνο
του δέον- έντή γατε μένονά, τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ'
άλατα πποειρημένα, Egli vien Diocle ripigliato da Galieno, perchè infra le
tante coſe, ch'egli in mezzo produce, del timore, c della triſtezza, che propie
ſono delmale ipocondriico, e'punto non favelli, ma Galien medeſimo diciò poi lo
ſcuſa, fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto, impertanto
Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la
maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò;maſolamente forte fi maravi
glia, dicendo eſſer una quiſtione degna da fare, perchè non abbia Diocle recata
la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta
quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere;
imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di
produrre in mezzo coſa,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che
avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno, il quale così ſcon
ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e
deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare
Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato
Diocle; cõciof ficcofachè in priina, per tacer d'altro,non continuo ſi avviſi
ſmoderato calore nello ſtomaco, o nelle parti vicine, ma talora fredde
ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro, che pa ciſcono sì fatto male; perchè
convicn certamente giudica re, che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro
non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa
apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro
iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile
della bocca del Pi loro. Gli argomenti poi, che reca Diocle per far pruova
della ſua opinione quanto deboli fieno, e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica;
concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò, che da cibi, chefreddi egli
appella,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino
lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol
reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione. Chi poi ben riguarda alla
fabbrica, call'ufi cio delle vene, le quali picciole nelle loro boccucce ſi van
tratto tratto allargando, perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più
agevolmenteil ſangue, s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la
ſentenza di Diocle,co tanto cómendara, e tenuta in pregio dal vulgo de medici,
SI 2 che le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare. Ma fievolej molto
certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli
ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate, perchè l'alimento al corpo in lor
non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare, che non diſtria
buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar
potrebbe, e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi
fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire; falſo adunque ſi è ciò
chè di loro va filoſofando Diocle; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più
ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima
al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini,
avvegna chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga. Mavi dovea altresì
por mente, e inveſtigar Diocle, onde avve gna, che'l cibo nello ſtomaco degli
ipocondriaci,indigeſto rimanendo,non n’eſca fuori nel tempo uſato; ma certamé
te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne avrebbe
di leggieri ritrovata per avventura la ca gione; e tanto più, che pur egli
avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica, e ſtitica acetoſità, la
quale non permettendo, che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa,e ſtrigne la bocca
del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto calari
cibi agl'intcftini. Ma laſcia do di ciò più favellare: non ineno e' ſi ſcorge
il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice: appo
Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala, noi
Prey Movad,sy 6x6õves, cioè: le cose, le quali a noi manifeſtamēte fi fă
vedere,additano le nafcofe: poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle
infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi; dal che certamente egli vuol
cavare Diocle, che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le
menzionate coſe, ficno entro al corpo elleno, o altro fimile, che colla febbre
parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di
Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le
quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges,na es' Del Sig.Lionardo
diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG.
και παρά το άγονον είναι το σπέρμα, ή καλα παράλυσιν των μορίον, κατα λοξότη
του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv
porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui,
contro quel, che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia,
d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole; al che cgli poi
aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa
quella ſia: arquatum morbum, ſono parole di Celſo, Hippocrates ait, fi poft
feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus
tantummodoprecordiis fübftantibus; Diocles ex toto, fi poft febrem oritur,etiam
pro defe, fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate
la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta. Coltivò egli poigrandemente
la notomia, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava, poco felicemente nel vero;
non però di meno cgli in ciò è da commendare;m2 séza fallo poi a ſommo onore
attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con
un libro partia colare al mondo le coſe, ch'egli avviſate avea nel far no tomia
degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe
deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to, c in pregio tenuto da
Galieno, il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina
eccellentiſſimo, e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle
coſe naturali. Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo
da quel, che di Diocle noi teltè fas; cemmo; poichè iinitando in ciò Diocle,
portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità
appellate dirivar tutte l'operazioni della natura; e con queſta credenza
camminando avanti, di neceilità dovette, da uno in altro crror tratto
inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli
ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai
ſempre in biltento il lettore. Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur
di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne
ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima, per la grandifinna incertezza
di quel la; onde imaeſtri più accorti, e malizioſi, per non farſi torre in
fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri
ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel
fimo eſemplo agli altri Razionali medici, che dopo lui furono, e
particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare
di render poſſibile l'impoſſi bile, cioè certa, l'incertezza della razional
medicina. Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno, ch'aven do egli in prima
detto, che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie, cerchi
nondimeno egli poi d'in ſegnare, e minutamente additando vada, come per opera
del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli, che nell'
arterie ſi naſcondono; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe
altrimenti Pralſago 11, come dice Galieno, ma ch'aveſse egliportato opinio che
allor, che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie, che ſangue, ma che
infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano; ne potea egli in verità
altrimenti di rc, s'egli pur non era affatto di ſenno fuori. Che ſia vero
quanto lo dico,apertamente ſi ſcorge in ciò, che il mede fimo Galieno di lui
riferiſce, cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma
errò certamente, e in iſconcia guiſa Praſsagora, in portando opinione l'arterie
cambiarli finalmente in nervi; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni
lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole
al lor Ariſtotele, il Cefalpino, il Reuſnero, e'l Marziano; ma di non poco
biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano, e
crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli
infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare, e dopo il vomito gli
li tragga il ſangue, emol to forte gli ſi premano collc mani, il ventre, e
gliinteſtini, cal nes e alla per fine poi col ferro ſi taglino; ond'ebbe a dire
ra gionevolmente Celio Aureliano: quo probatur magnificam mortem Praxagoram
magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal
medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi
d'Ippocrate: Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet,
ut Hippocrates. Item libris de caufis, atquepaſſio nibus,& curationibus
vinum dulce dari jubet, d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia
peccata. Macon qual eccellenza di dottrina, e con qual artificio pervenir
aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo
diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico, chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì
ſcarſe memo rie, che di lui ne ſon rimaſe? Io permeſolamente, e ap pena ne lo
quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi
afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato
avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi
jarra egli, ne fa apertamente vedere, quíto troppo grofa ſolanaméte foffe
căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra, che qualche
ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor,
chej porta opinione, che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi; il
che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui, che non avea contezza
niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta
natura, fe non vi concorre l'opera d'una pronta, c velociffima filoſofica
putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti, macom'egliin ciò
li portafle al cri.per meve'ldica. Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei
dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra
tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E
certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe, e gli poſſon ceder
ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il
Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio, cii cia
tutta fiorirono. E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e
tanto minutamente, che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni,
delle diftinzio ni,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume
ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo, e riveriya. Ma
il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon
picciol damnaggio; e quinci forſe avvenne, che molti, o sfidando d'intender
pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio, comevani, e
inutili arzigogoli avendole, ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la
ſua dottrina ritro vò inolti, e gravi ſeguaci, e fù aflai commendara; anzi
narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola
della dottrina d'Erofilo. Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che
gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo, nondimeno fembramifarfallon da
Ro. manzo quel del Falloppio: Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt
contradicere Evangelio.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo
niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli
ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe, a tutti gli antichi, non la perdonando ne
meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora. Fuegli molto prati co nella materia
demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo, come ſe nc debbano imedici
valere; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della
ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare, ch'e'non
merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute, niuna utilità del
mondo abbian potu to recarci. Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene
fartee;ma egli traſcurato, sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non
dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo, e l'uſo; ma di cotal negligenza è
fomigliantemente da accagionar Ga lieno, e tutti quegli altri notomiſti,
chedopolui anche ſe ne rimarono. Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu
quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal
pettorale, non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion fcionne il penſiero al
Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma
ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe
grandi, e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta; avvegnachè
tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli
huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna
d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio, e a far conoſcere al
niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del
le divine, e delle umane leggitraſandando, oltre palli law crudeltà d'ogni più
fiero tiranno; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre
Tertulliano: He rophilus ille medicus, aut lanius, quifeptingentos exſecuit, ut
naturam ſcrutaretur, qui homines odit, ut noſlet. Man prima di lui Cornelio
Cello, dopo aver detto,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi
gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta:
crudele vivorum hominum alvum, atque præcordia incidi, et falutishumanæ
præfidem artem, nonfolumpeftem alicui, fed hanc etiam atrociffimam inferre.
Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli
della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che
nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare; ma tanto, e tanto egli vi ebbe a
ſofiſtica re, che meritevolmente forſe perGalieno,e per altri ne venne più
d'una volta ripreſo, e proverbiato;mad'altra parte per altriſommamente
commendato, come ſi può ve. dere in Plinio. Arteriarü pulfus in cacumine maxime
merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates, fta bilis,
aut citatus, aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte. E
queſto accrebbe in modo la ſua fama, e buon nome, che nulla più; promettendoſi
cgli, e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli, com' ab biamo con
Galieno accennato, poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere;
come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc,
colle quali fa Tt cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati, e
de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia, e altrove
ne rimane. Mache / a'tempi noſtri in va rie.guiſe noipur veggiamo da qualche
medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e
laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare; perciocchè il mondo gode in tal
guila d'effer ſemprcmai uccellato; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande
ſtima, chevien fatta della Srologia, e della Gabbala, e d'altre arti vane, e ſu
perſtizioſe; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila
gloria d'Erofilo, che di baſſo, e rintuzza to intendimento', e come della ſua
dottrina incapaci venis van giudicati coloro, che ſi dipartivano dalla ſua
ſcuola; perchè diſſe Plinio di lui favellando: nimiam propter ſubti bitatem
defertus: e della ſua ſetta facendo parole: deſerta hac Secta eft, quoniam
neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo, come Galien
riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe; e dir ſolea, non haver così gra
ve, e pericoloſa malattia,che non ſi poteſſe coll’erbe curare; ma non però di
meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto, e alcune di loro gran
virtù avere ', le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano: inde plerofque, fono parole.
di Plinio, ita video exiſtimare, nihil non herbarum vi effici poffe, fed
plurimarum vires effeincognitas, quorum innume 70 fuitHerophilus claras
medicina, à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea
far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro; il quale, come altrove
vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo
Capitano; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe,foffe poi il
primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat; concitatis enim
intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca, o
niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine, le quali ſenza
recar moleftia, e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe, e feroci ma
lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo, per lo quale la fciandogli intera
la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elleboro la velenofa; ſenzachè
non è miga vero ciò ch'e. gli trancaméteafferma, che l'Elleboro fia il primo ad
uſci re; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco, e dall altre viſcere
allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima
quanto di cattivo, e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in
medicina il valor d'Erofilo così grande, quale il ci narra millantan do la fama,
Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il
quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico
uſo di Apollo, e d'Eſculapio, facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio
venne da me tralaſciato, per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia
affaticato, niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui,
ch'egli ſcriſſe, per quel,che ne narri Galieno, un libro de'medicamenti, de
quali egli molti da ſe ſteſſo trovò, Fu egli Meneçrate così ſuperbo, ambizioſo,
e vano, che non volle egli giammai denajo, o altro premio dagſinfer mi di mal
caduco, che guarivano per le ſue mani; folo ri. chicdea, che eglino ſuoi ſervi
fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare, e come
Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro, traveſtiti,
chi da Ercole, chi da Apollo, chi da Eſcula pio, chi da altro Dio minore, a
guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta, colla veſte di porpora, e collo
ſcettro in mano farſi in pubblico vedere, 1.a qual si ſciocca traco tanza
imitar volle Ottaviano Ceſare, quando, come rac conra Suetonio, con gli abiti
d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij, e Dec, e'feder yolle in
un ſono tuofo convito; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum, $exque Deus
vidit Mallia, exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum
cænat adultera: Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos
luppiter ipfe thronos, Tt 2 1 Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea
Menecran te con Filippo Rè diMacedonia, comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè
di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς
εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli
riſpoſe: dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα
στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ. Vna volta
anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da
parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in
altra tavolas allegramente ciurmavanſi, e facevan gozzoviglia. Mene crate nel principio
fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè, come å un Dio; ma poichè gli
ſopravenne la fame, e gli fè vedere, ch'egli era huono, comegli altri, fi parcì
dolendofi, e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè. Mi ſi fan
davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino, i quali comechè ſommamente
cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno, è da dir nondimeno, che no
troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina, c che molto poco altresì
valeſſero in notomia; ficome da qualche lor ſentimento rapportato dalmedeſimo
Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc. Maintra le ſette più chiare,
e più famoſe, che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della razional
medicina (ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni,
oper girar di luftri) che nelle Città, e nelle Provincie più nobili s ove la
greca fapienza era in pregio, glorioſamente fiorirono: o le pur fi mira
all'onore, alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna
certamente, s'Io pur non vado errato egliſembra, che agguagliar fi poffa, non
che antiporre a quella, che da Crilippo in prima ritrovata, indi per opera di
Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato
ſommamente accreſciuta ne vennc, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente
conghietturare ché te, e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento,
law ſperienza, e l'induſtria d'Erafiltrato, che di Criſippo,d'A riſtogene, e di
Medio nulla v’abbiam che dire; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da
quelle pochiſſiine coſes comechè tronche, e ſmozzicate, Che fan col duro tempo
afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere, e più che in altre, in quelle de
ſuoi einuli tuttavia ſi leggono; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto, e
quanto oltre condotto fi foffe per le più dure, c ſpinoſe malagevolezze
dell'arte; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta
della medicina; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni
valent'huominicreduto, ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro
nonch’altri, Apollo, Eſculapio,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano
Aleſsandrino,venne appellato meetóvuje @u,c Galieno parimé: e con orreuoli, e
riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate;
chiamando egli l'uno, e l'altro: iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure
alcuna fiara moſſo, o dal zelo della verità, o dall'invidia, o dall'emulazione,
o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui,
ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni; nientedimeno in
tanto pregio, e in sì gran, yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro,
ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere: e di lui favella
più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole; e mi ricorda, ch'una
volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali
il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella: Si compiac cia di grazia
Eraſiſtrato, che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui,
e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate, ela
doctrina di quello. Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco,
ch'egli, comenarra Galieno, ſi foſſe ſtato il primo autore, e introduttore
della vera arte ginnaſtica, e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in
piede ſi ri metteſſe; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per
infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea. Ma
1 opere, colla ! Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le
cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe, e quai foſſero i ſuoi
ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili, malagevole molto egli è
ad avviſare; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente, ch’Eraſiſtraço era affai
libero nel filoſofare, e oltremodo ſchiyo, anzi nimico di far pompa appo il
vulgo di mentito, e apparente ſapere; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla
franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta, e praticata, delle facoltà, e d'altre
fimili vanillime novelle, e ciance, le quali non altro in verità, che Nomije
fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli, e inviluppate tenzoni della
filoſofia, e della medicina; nella qualcoſa,comechè ne doveſſe Era fiftrato con
ogni ragione, s'Io pur diritto eſtimo, ſomma lode ritrarre, malignamente troppo
in verità, e a gran for to funne ripreſo, e vituperato da Galieno; il quale
oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo, e a biafi marlo, perchè
ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re, duro, e implacabile avverſario
dell'opinioni d'Ariſtote le, nulla curando, che ſuo avolo ſtato e' fi foſse;
col qua le, e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar
coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto, e poſto in opera..
Ma non rammentò Galieno, che Ariſtotele, ed Erafi Atrato convengono bene
inſieme anche nel dire, che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna; ma
della milza. prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na tura
dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα, πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal
opinione da Rufo da Efeſo, il quale dif ſe,che la milza foſse anánt, ni
avevéeyn,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato, come que’, che diſsero, che la
milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue, tör το σπλάγχνον
περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar, Ma
benchè Erafiltrato sì grande, e sì valent'huomo ſi foſſe, e che tanto dalla
natura foſſe favo. reggiato, e di rari doni, ç maraviglioſi arricchito, c per
ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natura, e che
colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la
dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale: e coll'e
ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua
razional medicina ſommamente perfecto, e compiuto; nientedimeno più d'una fiata
dal diritto ſentier della verità inolto, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di
lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato
talora e' ne vegna da Galieno', e in alcun con aſſai fievoli, evane ragioni
riprovato; il che ravviſa no talvolta, e ſono coſtretti a confeſſare i
medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien
da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che
nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue, ma ſolo ſpirito
vitale, ſecondo lui:e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro; coſa',
della qua le, così evidentemente ne appare il contrario, che forte mimaraviglio,
comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio, e di ciance aveſse potuto darſi
briga di compilare un libro intero per impugnarlo. Ma, o Quanto è'l poter d'una
preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi
inavveduramente traſcorre. I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo,
neper evidenza de'ſenſi, che loro apertamente additaffe il contrario,
abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non
altrime ti, che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno
ſolevan eglino ammirare', e venerare; avendo per vero, e ſaldo, e indubitato
ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia; egli è da creder, che
dall'o pinion, che reſtè abbiā noi rapportata, prendeſse cagione d'inſegnar poi
Eraſiſtrato, altro non eſser la febbre, che un movimento inuſitato del ſangue,
che dalle vene, dove naturalmente riſiede, all'arterie tragittiſi: e cheſicome
al lor, che non ſoffiano i venti, pofa abbonacciato, E nelſuo letto il
marfenz'onda giace; ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia, ed
eſce fuori impetuoſo, e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda, ed allaga le
piagge tuttc, c le campagne vici ne; così anche, fe non v'ha coſa, che l'agiti,
o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza
gonfio, o per altra cagione ſoſpinto, e agita to mai venga, sboccando ſubito
dalle vene, ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito, che in eſso
dimora ſia altrove riſpinto, vada a fermarſi, e ſtagni in quelle cic che ſtrade,
dove terminano l'arterie; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà
l'infiainmagione; e la feb. bre; ecco le ſue parole rapportate da
Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο
απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης, αν μηδέν αυτήν κινη ήρες
μί, ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν, τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω
σώματι, όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων,
πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα. Αrtifciofotis trovato nel vero, ma che
appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far, cheda ſe ſteſso non
crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina. alcuno,
ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato, e
chemal'inteſi, e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più, che come
Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole
obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni; e che perlo ſpirito egli abbia?
intender voluto un ſangue ſottiliſſiino,e di quelle particel le, onde ſi forman
l'etere, e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto, certamente
ſi deecgli credere, ch? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così
inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma
contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso:
imperocchè ravviso, e conob be, che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le
ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue; il che diede poſcia ca gione a
Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene. Qui
riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, comechè la ſua gran virtù molto
bene il valeſſe, merce che non già alla Grecia, ina alla noſtra Italia era la
glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue. Oltre a ciò ſi pare,che
ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10, perchè al ſuo grande avvedimento, e
induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi
nando, che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi, ſe è vero ciò che ne
narra Galieno. Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir
non ne ſeppe l'uſo; s'accorſe egli anche, ed è egli non picciolo ſuo vanto,
che'l reſpirare non diedes già a noi natura, comeimmaginò con Ippocrate,
Diocle, e Ariſtotele, Perchè'l caldo delcor temprato fia. Ma non potè penetrar
egli nientedimenoil vero,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni
animali fieno ſtati formati sì, che debbano reſpirare; imperocchè contendes
Erafiltraco, che la reſpirazione ad altro non vaglia, fe non fe a poterempier
d'aere Parterie; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana,cheimutilmente
colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato
aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer
cópofto, pur contenga molte, e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto
agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere, e della refpi razione
neglianimali; imperocchè avviene, che nel ſepa rarli dalſangue la parte più
ſottile, e per così dire, ſpirito ſa, ſi faccia anche neceſſariamente
ſeparazione di varie al tre parti groſſe;come nella formentazione del moſto, e
d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi; queſte groffe porzioni, forza
è, che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no, o nell'acre, o in altro corpo
ſimile, il quale contenga pori acconci a riceverle, e che ricevutele, ſia
valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto, che al ráno
s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van
via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo, quancunque aſſai
menomo, non fao V u ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol
mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi
formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare
il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são
gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti, tra le quali
viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti, come quelle non
incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni; e ſe vi ſi aggiugnerà
qualche altra circonſtanza, onde, e l'uno, e l'altro movimento, e di
formentazione, e dicalore rieſca grande, e notabilmée te impetuoſo, allora cgli
grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione: per lo che non baſtando.
dilatare, il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che
inceſſantemente negli animali per li pori trapela, abbiſo gna, che altra aria
mediante la reſpirazione fi beva; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe
Eraſiſtrato, che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione,
maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante
non ſarà molto grande, ne verrà da notabile, calore accompagnato, allor
l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno, e baſteragliquello, che, o colla
ſola traſpi sazione, o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione
ſuccerà;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè
nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja, vi ſono
impertanto parecchi, e parecchj aliti, i quali cosìdalla terra, come altronde
gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci,
adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che, o
nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la
formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a
ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito,
rimangono i peſci poco ftanto privi di vita. Nell'uovo poi, e nell'utero
eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi, e maſſimamente fra queſti
il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise li; e pieghevoli, e poroſi
i ſuoi vali, può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe
mai dal freddo, o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria,
ceſſa nell'uovo, e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore
l'animale; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto
formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo,ilpicciolo,e rimeſso eſteriore
caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace, o dal fime gli vié comum nicato; e
come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o
del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti, anzi duri, e fi accreſca nc'liquori
la formen tazione. Aggiugneſi, che mal ſi può render volante quel la
nobiliſſima ſoſtanza, la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale
dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi
quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione. Ma laſciando queſto
ſtare al preſente, forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco; e altra
peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato, la quale a dir il vero vien
portata in sì fatta maniera da Galieno, che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe
inteſa, o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare quellaltre
opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione,per la quale ſe ne muojan gli ani
mali nelle mofete. Vuole Eraſiſtrato, per quel che ne nar ri Galieno, che ſe ne
muojan gli animali nelle mofete, e nelle ſtanze chiuſe, einfette o dagli
alitidella calce, o dal fummo de carboni, per ritrovarli in sì fatti luoghi
l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto, chene fi riceva dall'arterie,
ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima facilità fe n'eſca
fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja neceſſariamente
l'animales. Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno, e dice, che do vea dire
più toſto Eraſiſtrato,che ficome nel pane, ne’logu mi, e in altre ſomiglianti
vivande fi ritrova una qualità as noi contraria, così ancora una sì fatta
diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna, e amica agli ſpiriti, e un'altra maligna, es
nimica. Vu 2 M2 1 !. Ma nondimeno
conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento; onde vien
coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi può
vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione; ma che che ſia di Galieno, lo
ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato, e'l ſuo modo non
guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua
opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale, quale la s'im
magina, o la fi dipigne Galieno; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo
in ciòse materiale,anzi che no, facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui
medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del
fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto
fermiſlina opinione,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre,
come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe
egliin tendervoluto, che picciolo, o poco: imperocchè la p.2 rola asfilos,
della quale e' li valſe, ſecondochè dice Galie no ſteſſo, non ſolamente ſuol
eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo
foteile, e che da' Jatini ſi dice tenuis;ma ancora per dinotare,come ſi può ve
derein Ariſtotele, e in qualch'altro autore di que' tempi, quel, che i latini
chiamano, cxiguus, e noi picciolo, o po co diciamo. Or chidomine non fa, che la
dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi
ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate;
imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal
veramente, qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato, ch'egli ſia, cioè troppo
ſottile:con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles
art erie; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte, qu anto più ſottili
ſono, tanto più convenga, che compo he, e formate licno di minutiffime
penetrevoli particelle; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in
dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip
offa volentieri alle arterie; ma entrarvi poi allo incontro malagevolmente vi
potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe, e
groſſe fo ſtanze accompagnato. Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato
infra tante ciuffole, e anfanie Erafiltrato, ro con diligenza degna d'un sì
grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete; perchè
agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione, per liza quale in
quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza
più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non
guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me
deſima appunto,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf
nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme, e congiunti, che que'
dell'acqua nelle fon tane fi facciano; e non altrimenti che l'acqua incontrando
declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta. Errò pari mente Eraſı trato
la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue
rappigliatose raſſodato, da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c
mi nute fibre; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime
glandolette, che ſparſe perentro, e ſeminate vifo no; c quantunque la carne del
fegato, e della milza paja, nella prima viſta una mafſa di ſangue, pur
nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia,
che ſe ne ſepari quel ſangue, che vi ftà meſcolato; che allora manifeſtamente
delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro, che in
Erafiſtrato lo ho ritro vato; egli mi ſembra, che ſi foſſe in qualche ſembian
za di verità incontrato in diviſando delle febbri, in quella guiſa, che s'è da
noiaccennata; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre, ſe non
ſe in un tal certo movimento non ordinario, e non naturale del ſangue; ma non
prende egli a ſpiegar mai poſcia, anzine men cura, per quelche fappiamo per
bocca di Galieno, d'andar inveſti gando, come a razionalmedico fa meſtieri, le
cagioni,on de ciò poſſa avvenire; il che avrebbe potuto fareegli age
volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia; ne
gli mancò, al mio credere, ingegno, ne animo ad una tanc'impreſa acconcio; ma
gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta
ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo, non potè celarſi all'acutezza
del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal
calore; ma inveſtigar nondimeno, e rinvenis non ſeppe egli mai que'
ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide, e li rompe in
minutiſſime parti nello ſto maco; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il
ſangue non eſſer da ſecaldo, non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde, e
come il ſangue caldo diveniffe, e fi conſer vaſſe negli animali. Maper far
qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere: egli maneggiò l'arte
Eraſiſtrato così magnificamente, che niun'altro tanto mai più,ne pri ma, ne
poi, per quello, che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non
ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere, colla gran fua diligenza, e
induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al
maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo, avendo egli dalla vicina morte
ſottratto, e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia
del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa,
vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico
gentil, che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio,
che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna. E
non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato, e in vece dell'oro, delle
dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale, ch'e'guadagnonne,
obbrobrio, e vituperio eterno riportarne? Ma in ciò imitar lo volle anzi
emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco
verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino; c
comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato rato il medeſimo Erafiftrato, ſe pur
tale appunto andò law biſogna, qual egli la narra, non però di meno per eſſere
fata colei viliſſimadonnicciuola, non ne riportò Galieno, ſe non quella gloria,
ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce, in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente. Ma
per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da
Erafiltrato,fi pare,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece, ne troppo ſi
valſe delle purgagioni: delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri; e dar
ſolamente le ſolea in altre malattie, che'lrichiedeario; ſi portava egli sì
fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno
recare, e ſenza porgerne loro cagione, fol con iſtrettamente cibargli,
felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli
attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe
già adoperato, ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee,
inerme la greca me dicina; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po
co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti; per chè ſi vede chente,
e quale e' fi foſſe il valore, e quanto grande l'animo di Criſippo, e
d'Eraliſtrato, i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte
all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta
uſanza nella medicina. Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò
perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato:
la quale ſiè, che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè
per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di
tempo l'infermo; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro, il qual
dice, che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente, ma all'imminente male anco
ra; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia
l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo
a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo
dee portar la famc gran tempo, non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne, che
per sì fatta maniera adoperan doni doſi nel medicare Crilippo, n'acquiitaſſe
lode, e gloria immortale. Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato, Io
no'l ſaprei diterminare; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a
Galieno; cercando egli, come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci,
a diritto, e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria, e la
famad'Erafi ſtrato; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia
(trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da
Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato; ma da Galieno
me. delino per avventura fognate. Maegli ſi dee fermamen te credere, che non
poteano mai, ne Criſippo, ne Erafi. ſtrato, ne Medio, ne Ariftogene bandire,
introdurre, mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era
comunemente in uſo, ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili
ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità, e
non da vaghezza alcuna; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri
avvenimenti delle malattie; e forſe Criſippo, o pure Erafiltrato qualche libro
particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice
chiaramente una volta, che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi,
e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza. Ma quando primieramente cominciato
foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro, o col morſo di
velenoſi vermini le vene, e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a'
preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la
vita, egli è coſa malagevolen aſſai nel certo,anzi per avventura impoſſibile a
diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare,che'l crar
ſaugue,nemolto nepoco, ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci
in uſo niuno noirera; ne Ome ro, il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più
menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza,
e magnificenza convenevole all'eroico poeta, livi de giammai far mézione alcuna
del ſegnare nella cura del le ferite di Marte, diMenelao, d'Euripilo, e di
Macaone; perchè, per tacer d'Achille, e di Patroclo, ne Podalirio ne Macaone,
eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio
Rodigino, ne Chironę lor maeſtro, ne Eſculapio lor padre, ne Apollo lor avolo,
ne Peone medico di Giove conobbero, e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi
fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero, o pur da altri popoli
l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap
parare, i quali per teſtimonianza di Socrate,da noi altro ve apportata,non ſi
valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro,
come avviſa Dio doro, altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo, fuoriſo
Jamente, che criſtei, digiuni, purgative medicinc,e vomi tive. E ſi pare, che
dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i
fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza
all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide
mai, comedicemmonoi già, trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han
ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti
in quell' eſtremo tratto della terra, che bagnata viene dall'Oceano orientale;
e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali, che ne i Saraceni, allora
quando i Tartari occupa rono quell' imperio, neinoſtrive l'han mai potuti intro
durre.? Ma che che ſia di queſto, chi poſe in uſo primiero il trar ſangue, Io
immagino, che fi movcffe, e ſpinto vi. foffe, non già come immaginò Plinio (ſeguito
in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume;
non eſſendo miga vero ciò, che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico
avvisò; ma dallo ſcor gere forſe, che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan
gue,o dalle narici, o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc
e sì crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia, checonvenne, che Ippocrate,
c.prima gli altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo, sfidando
per It' ! d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del
noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni, colle quali po
trebbeſijs’Io pur non vado errato, sì fatta opinione difen dere. La vita degli
animali (dico ora vita, largamente parlando x quello, ſenza cui al corpo,
comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi,
o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra, che in altro ve ramente non confifta,
che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente, che in
alcuni animali in vece di quello (i mira. Coſa, la quale non può punto dottarſi
da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche
manifeſtamente la vita; perchè ſe non per forte diſtretta, e neceſſità quello
non li convience vuotar negli animali. Ma delle due maniere, colle quali il
ſangue menomac puoſli, ciòſono, ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi, che'l
contengono, o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo; il trarlo certamente
è quello, il qual reca nocimento, e danno maggiore, e più gli animam li
affraliſce; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue, con quello inſiemene
ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali, e del chilo
s'ingenera il ſangue, cin, priina de'cibi s'ingenera il chilo; ne può il ſangue
mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro; il
che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare,
non fa luogo, ch'Io ne faccia parole. Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa
il medeſimo Ga lieno, che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente
coldigiuno menomare il ſangue, non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo
fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia;imperocchè quelle nobiliflime
foſtāze,che detro abbiamo effer nelſangue, ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar
vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano
affai al mantenimento di quel li, cafar laro ricoverar la ſalute; perchè quanto
più gra voſe, e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamente è il erar
fangue, e men fi eonviene. Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi
Galieno intorno al dovere fcemareil fangue, onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci
di continuo aggirarli infra vane, e inutili contefe: certa coſa è, che'l ſangue
può eſſer nocevo le agli animali, o per ſoverchio di rigoglio, e d'abbondan za,
per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia, o perchè egli è
sì, e talmente piggiorato in tutto, in parte, che traligni dalla ſua natura, e
non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio, e
ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti, etre queſti caſi certiſſima coſa è,
che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue,
chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli
non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che
meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere. E apertamente avviſafi,
che coloro, che fom mamente in ſangue abbondano, ſon più d'aleri forci, e be
atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze, comechè buona coſa
quanto a ſe, pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di
gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue, avvegna
chè buona, e laudevole fia,può talora nuocere, ſeconda mente che per noi ſopra
il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató. Orrel
foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare, che ragionevolmente ne
debba temere il medico, poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar
col fa Jaffo: potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente
fornire. E ſe'l male è già fufficientemente appiccato, ne di quello il ſangue
punto più s'inframerre; che monterà egli attutar la canapa, acciocchè la
girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la
ſpada, perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a
tener mano al male, oglirecas qualche impedimento alla cura di quello, può bene
il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1: { so
laſſo, con imporre all'infermo, che più o meno fi riman ga da' cibi: o più,
o'meno, ſicomcli conviene, menomar lo. Nein ciò è da riguardare a ciò che in
contrario ſi dice Galieno, cioè, ch'alcuni corpi v’abbia, i quali non così
agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in
compleſſione,e come e' dice, collerici; '. concioſliecofachè, per tacere, che
ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e
buo no, qual G ſuppone: e che la collcra non s'inframetta pun. to nelle vene,
nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo
effo Galieno dalla col lera avvengono, nelle vene ſi trova: e che in sì fatti
corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento, che
continuo di quello falli: può bene il medico co medicine, che attutino la
collera, e con beveraggi, che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue,
acconciamente a ciò dar riparo; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do
abbondan di collera,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate, e Avicenna,ſon
pericoloſi iſalasſi; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene,
impoſibil certamente egli ſarebbe, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco: nel
qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan. guc agli infermi, per
qualunque gran male cglino aver ſero, Ma ſe'lſangue è malvagio, o cgli è per ſe
ſteſſo tale, o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien
comunicata, non che giovi mai il falaſſo, anzi egli è ſommamente nocevole;
imperciocchè, non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne
monterà egli maggiormente, c più fiero, e rigoglioſo diverranne, ufcé do
inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze, che di cemmo: le quali poſſono,
e nel ſangue, e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne
l'impero:e ſcio gliendo, e aminendandocacciar via dal corpo per cieche, o per
ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue. Echi
voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene, farebbe come colui che con
trarre acqua da un lago, in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora
della terra,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire. Ma ſe'l ſangue per
ſe ſteſſo è cattivo, con trarne parte, non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto,
o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al
quáti maſtelli; ſenzachè l'infermo, perdendo anchequel le menzionate fpiritualı
ſoſtanze, le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare, il nuovo
ſangue, cheper quelle s'ingenera, e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori. E
quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare, quando
il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme, e viziofo ritrovali. Ma per farci
più addentro nella preſente quiſtione: l'al terazione, o'l cambiamento del
ſangue, o egli è in tut to effo, o pure in qualche una, o più delle ſue parti,
ość. fibili, o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova; oveche ſi covi il difetto,certaméte
inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo; concioffiecoſachè il l'angue in
guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione, e confuſo ne
vali ſi ritrova,, che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora
col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile, e infiebolita rimaſa, meno
certamente potrà rin tuzzare, e ammendare l'avanzo della cattiva. Ma potrebbe
per avventura alcun dire, incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia
tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva, o dentro a’ vaſi
in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti
ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono, renda
quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare; ne
per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora, o affatto li ſpegno no per
uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona. Io certamente,
ſe ciò foſſe vero, a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi: e non
che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici, anzi a ciò ſommamente confortar gli
devrei; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la
vizioſa foſtáza s'ingeneri, o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il
ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue,e per quel della formentazio
ne, convien, che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con
quello, che è buono, che ſe di tutti, e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi,
certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me
in tutt'altri vuotamenti avviene, anche in quelli, chej per più larga bocca ſi
fanno, certana coſa è, che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più
agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2
gio; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la
cattiva ſoſtanza, che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi
ſpiccar ſi potrebbe. Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue, e per lo
cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova: certamente il caſo ſolo
operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena, trattadalla foga
del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe. Ma certamente
il co trario tutto di avvenir veggiamo, maſſimamente nel velen della vipera: il
qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre
giammai, ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte; perciocchè
allora non penetrato ancor molto addentro il veleno, inſieme col fan gue fe
n'elce fuora. Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co' ſuoi
argomenti in ogni coſa la natura; concioſ fiecorachè non può egli ſapere comc,
quando, e perchè quella opcri. Avvien talora, che s’alleggj, o affatto ſpe
gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo
incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea coſa che
fare col sāgue, come altrove è detto, ſi è tolta via. Talora la cagion del
malce nel ſangue: ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto, o poco
avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello mandata;
e talora, perchè nel 4 1 1 3 1Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita:
e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre, e
inſieme col fangue n'eſce fuora. Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar
sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè
egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle, impoſſibile altresì ſi
rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie.
Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo, ſi pone inmano della
fortuna:e'l nocimen to, e'l danno è ſicuro, e'l giovamento molto incerto, che
ne poffa all'infermo ſeguire; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che lo
hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo coloro,
che da quelle pochiſ. fiine volte, che felicemente per opera della natura ciò
av. vcnire ſcorgono gvoglion, che parimente dall'arte ſempre mai ſeguir debbawo
Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il movimento in giro, o
quel della formentazione, allora ccrcamente, non che rieſca giovevole, ma
dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo; imperciocchè per quello fcemandoli
quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti, diverranno eglino ſenza
fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti, comechè fembri, che per ſegnare
debban ceflare, fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la perſona, onde effi' movimenti
procedono: non però di meno rimanendo in piede la cagione non naturale, per cui
il' moviméto in giro, e quel della formentazione nelſangue accreſciuto ſi era,
nonſolamentevano ſarà il falaſſo, ma altresì ſommamente nocevole; perciocchè
con quello fi vé gono a tor via dal fangue le ſoſtanze ſpirituali, le quali ſo
le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non naturale,per cui que’movimenti
oltre al dovere, sformatamente accre fciuti ſi erano; ſenzachè in que'movimenti
sì factamente avanzati, ſi fà grandiſſima perdita di Sangue: e poco, o nulla fi
dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a quello col ſalaſſo ancora torre il
ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo pericolo della vita. Ma ſe'l ſangue
li ferma in qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni
avvenire, allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli: ma sì ſi dee prender
guar dia, che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu
coſtretto se ciò non ſolamente, perchè il ſangue allor dalla febbre, che
s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi, e perchè poco, o nulla
ſidee l'infer mo cibare: ma ancora, perchè quantunque ſe ne traggu
daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più,quáto ſarà
facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della
gola, e della pleureli avvenire; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina,
o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne, che con quantun que ſangue
trarre, non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione: evi ſi ripara
ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò
che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa, ne viene av
montaremaggiormente il male. Neha luogo niuno certa mente quì, o la derivazione,
o la rivulſione, che chia mano i medici, percui eglino tutto dì ſono a zuffc,
eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate, e di Galieno: i
quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il ſangue in
giro, da qualunque par te egli ſi tragga, ſempre ne liegue il medeſiino: c
niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè vuo. tandoſi
l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo ſangue
dall'altra vi diſcorre: ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per varj
ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano: E mentr’ei
vien,se, che ritorna, affronta, E comechè i moderni per no li dipartire in
medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier pruove; no
però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per maniera,che
un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare alla ſola
ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze tutte
recate dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè
ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che
da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e
andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto; e queſta fi fu una
delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse.; el
principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il
Riolano, il Primero fio, il Pariſano,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo:
ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti
affetteimpellatur. Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte
dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento,chegiunſea
conoſcer ja vanità della revulſionc,,.e della dirivizionc,allor che iit facendo
paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus,
&artificialibus: que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena
cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem: do hecconſequutive èvena azygos
cruorem extrahat; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem
æqualiter in venas reftitui: adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari (quodnunquam
) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum. Vnde
manifeſtum fit vanas efle revulfionis, deri vationis nanias: quippe quibus
conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi, Perchè ad
alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza, riguardando per
avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia, i quali prima d'Ippocrate
fiorirono, ma in quel tempo, che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto,
furono così ritroſi, e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle
febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede
nc’libride'luoghi dell' huomo, e in altre ſue opere, fegnò giammai nelle febbri,
ſe non folamente in quelle, che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in
alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te, che da ſegnar ſia con tal convegna,
che non vi ſia feb bre; e avviſa egli oltre a ciò una fiata, che dopo lungo
uſci Y y nicht mento di ſangue dalla matrice d'una donna, le ſopraven ne la
febbre: coſa,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire. Ne è punto vero
ciò che dice Galicno, che Ippocrate porti opinione, che in tutte acute, egrandi
malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato,
in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi, egli nel vero non di
tutti mali acuti vuol che s'intenda, ma di que'ſolamente, de'quali egli quivi
ragio na, sì veramente, che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che
i Latini dicono fed, o pure verùm, e noi diciamo ma: della qual particella
Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna, e artaramente la tace per
poter quello recare a ſuo concio; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l
tacciano, dicendo, ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate. Ne è da tacere
quanto Galien ſi maravigli, perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da
Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto, che ne'mali
grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi
viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco:
che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue, non fola mente in quelle,
ch'egli chiama finoche, ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon
cagionate. E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve
renda autorità del lor maeſtro, e ſtar guardinghi, e ritroſi di cavar ſangue in
tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana, e nella terzana
ſemplice di ſegnar ſi guar dano,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero
affatto i ſa laſli, o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più
aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro; concioliecolachè nelle febbri
maſſimamente acute, e più in quelle, che ſino che chiama Galieno, per la
ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato
egli liſce ma, e s'affraliſce, e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo
alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo
ancora, e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli,
e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma avvegnapure, che con ſegnare
rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe
non fe di rado, eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo
vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore; non però,dimeno aſſai
ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar
graveme te la perſona, e manifeſtamente porla a riſchio dimorte;
perciocchèſovepti volteincontra, che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la
febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor
ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al
pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione,onde
nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto, laſciando
in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare? Ma
ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate, e Galieno, perchè
eglino diſideravan, che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo
nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali
della gola, e della punta? perciocchè in quelli, fico me il inedeſimo Galieno
inſegna, ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual
ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire, eziandio nel di.chino del male,
non avendo in lor virtù, perla fiebolezza, da poter il puzzo già cotto, e
digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li
prima del quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano, non
per altro certamente, ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione, che
continuo coloro fanno: perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri, malli
anamente sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil
vacuazione, che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella
de'fanciulli? Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare.,
comeſi fanno a credere i ſuoi Galieriſti; e forſe più per oggia, e diſpecto,
ch'egli aveva nella nimica ſerta di Y y a d'Eraliftrato, cotanto egli commendò
i ſalali, che per ra. gion, che veramente ve'l traeſſe; perchè con tante leggi,
' e convegne, e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo, che certa mente delle
diecivolte, che i noſtri Galieniſti ſegnano, ſe bé li mir231on ne ſaran due per
avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate; e
rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono, che ſegnar ſi dovreb be ſecondo
il lor Galicno; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie, con porre
ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre
a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni
malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo
maeſtro. E comechè Galieno, come teſtè diciavano, n'aveſſe una volta inſegnato,
che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più
minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le
maniere di toglier via le febbri, quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto
niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll
treſcenza d'umori; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube
ne favella, tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto, e la paura di non
offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro
rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi
ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo,
ficome e' dicu, quàmin particulari exequatur. Ma non che Galieno die fcendendo
al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi
conformi; anzi cotanto fciocco, ebalordo egli è nelle ſue regole, come già
diviſa to abbiamo, che in preſcrivendole in univerfale, fache ſo vente l'una
all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano. Così nel libro del modo
di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice: lo
dimos ftrerò in queſto libro, che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo,
anziche ne men coloro, ch'abbondan oltre fiodo ia langue, fian da ſegnare, ſe
prima manifeſtamente non fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del
lor fan gue: e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo, e la
ſtagione, e la complesſion dell'aria ſia: e chenti, e quali fegniabbia egli
patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali
convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare, che molti ſenza
graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano. Ecco le ſue parole: Εγω επιδείξω
κατατον εξής λόγον, και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας, αλ' εδέ τες
πληθωρικές αυτούς, εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG-, οποίον πτην φύσιν εα
διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte, xai megy, noi xwegen wij,
satíscos, @osc te thonyera, sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ
τούτωνεπιδείξω πολ. λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν. Ωltre acio avendo
Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato, e altrove inſegnato, che del ſoverchio
ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento; nel quarto libro poi
del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo
verchio ſangue indizio del ſalaffo; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in
ſangue abbonda, non è egli si toſto da ſegrare: ma sì fi dee con purgagioni, e
con menomargli il cibo, c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì
anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo, che nella febbre ſinoca no
debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre: acciocchè il debito
alimento alles parti rimanga, ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le
ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare; non però di meno egli
medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato.
Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte
Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia;
conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di
febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto, o'l decimo giorno, o altro
giorno critico: e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno.
Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne, che ſe peravventura da altri
medici, o dagli asli ſtenti, o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato, allor
tu: debbj imporgli beveraggi d'acquafredda,e agghiacciata potendoli ciò
ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure
ſicuramente adoperarnon ſi puote, allor comanda,che il medico ſi debba ad altri
ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto
manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la
febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda:
la qual ſe.condo lui ſmaga la perſona, affieboliſce le membra, e ren de crudi
gli umori, e ſveglia tremori, e dibattimenti nel corpo, e cagiona
nonpocamalagevolezza nel reſpirare. E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro
primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici; i qualicosì
ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in. fermi vino,o acqua, o altro
rinfreſcamento della loro ſete; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani
a’ſoldati comā dino, o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta
mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno, ſc avelle
creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico
conligliato,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo
medeſimo, di quello ſi rimaneſſe; maſe più a capital ſenza fallo auuto
l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato
ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura
dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma
lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi
quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi?
maſſimamétein quelli bro, quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato, e
riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole, neceſſario a'malari il ſegnare;allora
nel maggior caldo del la pugna, quali ſchivando la propoſta, che cotanto in pri
ma avea preſa per la punta, li rivolge contro coloro,i qua li giovani, e mal
pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo; e
sì cutta la colpa riverſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento
del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo
gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto,
che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa,e più
toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano. Mamol to aftuto, e malizioſo
ch'egli è, ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito,
n'accagiona la tracotanza, e la befraggine de'giovani e mal praticime dici:
come ciò colpa foſſe dell'età di coforo, e non più to fto del medeſimo
medicamento; perciocchè egli dice', e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai
eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono, che, di
coloro, a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli
conchiude, che gran danno, e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che
giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che
ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente
ammaeſtrar ne puote: e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle
malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai
ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono
ſenza argomento alcunori ſtate; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar
poſſo no di riparar veramente alle malattie, e cacciarle fuora dalla perſona
per lor virtù, e giovamento; ficome nelle terzana, e nella quartana avviſar
puoſli: le quali non cede do a’ſalalli; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del
Perù só vinte, e fignoreggiate; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio
loro,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono,che
giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne
lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal
Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola
difangue nella perſona,pur. dura, e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai, ne
rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita. Anno 1641 Noven bris diſſectum
fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard. Toletani, qui
89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum. Etenim fublatis
cordes bepate, cu pulmone, adeoque difettis venis,arteriis, vix cochlear
cruoris in cavuum thoracis confiuxit; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor
verò inſtar crumena flaccidum: biduo enim ante mortem plus ediffet,fi ipfi
conceffum fuiffet, Fuit enim per venæ feitiones, purgationes, hirudineſque ità
exhauftus, ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove
punto ciò, che ſi porta per Galieno, ſe pur cgliè vero, di quelmalato difebbre
ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì; concioffiecoſachè
veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza
verſargoccia di ſangue; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro,come
teſtimonia il medeſimo Galieno, i qua li fino allo sfinimento ſegnati G
morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero:
e coloro, i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno,co loro
grandiſſimo riſchio,dopo ſegnati fino allo sfinimento, affieboliti, e
raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze,
comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare;
con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino,
e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona, che
per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la
cagione della lor malattia: e sì rimangono liberi, e lani di preſente co non
poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira, o per timore, o
per altra grave, e ſubitana paffione le gotte, e le quartane, e altre dure, e
pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi
comprende, ſciocchi oltremo do, e ſcimuniti eſſer coloro, i quali per picciol
ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò, chè Galieno con largamen te trar ſangue
fino allo sfinimento aggiugner fi crede va; perciocchè coſtoro per non porſi a
riſchio d'ammazzare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli
torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta; ma si
mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento
le parti falde', e di fcorrenti del corpo, onde taloramaraviglioſamente,come
chê con non poco riſchio della perſona, ſi riftanno le ma. lartie; perchè
da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può, che certisſimo danno, e
nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati. E fenza fallo gran
ſenno fanno coloro, che ne più, ne meno ſegnano, pereſſer i ſa lasfi ne'malati,
o gravemente dannofi, e di riſchio, o affat to inutili. E a ciò riguardando i
più pratici, e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo, e guardinghi
ſo 110 nel fegnare: ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-, ma lor
vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai; ſe non molto di rado, e
con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici,
comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati, e ricreduti, pure per non
metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi, e si laſciare anche
in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno, così ſcarſamente, e a biſtento
ſegnano, ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre,
coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in
nome, e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue, quando in verità non
ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato, egli fem bra, per quel che
nemoftriGalieno, che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben
conoſciuto; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato: perciocchè pellegrinando
egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco,
ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte
erano;eGalien pari mente di luiracconta, che trovandoſi cgli medeſimo un giorno
infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne
potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo
del Rovo; c ſoggiugne Galieno, chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010
re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione, e Menodoto,
dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile, non avendolomiglianza niuna
tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza, la qual
egli avea della facoltà de'ſemplici; per la cui' mea deſima ſcorta,ad
emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento, che'l
fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te
voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato
attribuita Galieno, ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto
mai eglino rinvenire. Ma ne Eraſiſtrato, ne Galieno ſeppero mai', che nel ſugo
del Rovo, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di
quelle materie, onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi
già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle
acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni. E quinci ſi ſcorge
apertamente, chevada errata in ciò la medicina razionale antica, la qual ſi
crede, uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in
fiammagioni, porre in opera coſe, che di ripercuotere, o di riſtrignere
ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito: bé potea anche effer
agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina,
Serapione, e Menodoto, che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l
Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare; e in
verità tra'l Rovo, e la Galla,per tacer del vitriolo, onde vien formato il
paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato, ma huom di mezzano intendimento
di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza. Maquanto sì fatta ſo
miglianza poſſa ingannare, non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere;
e ſe, come pare a Galicno, Eraſiſtra to avea una general contezza
de’medicamenti per quella acquiſtata, certamente egli l'avea per iſperienza, o
da fe, o da altri fatra, la quale agevolmente può eſſer fallace: 0 pure per via
di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'errori, e d'inganno.; perchè in
un punto cosi principale manchevole, difettoſo, e incerto il fiftemadella
razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri: Io non
ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe, opur razionale quel famoſo medicante
Petronas, il quale dopo Ippocrate, maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un
iſtrano, e non più veduto, o intero modo di medicar le febbri. Solea coprir
egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo
il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare,
ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua, il ſudore aſpettandone;
il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava
ch'eglino vomitaſſero; riſtata poi la febbre, gli cibava di carne di porco
arroſta, econcedea loro liberamente il vino; maſe la febbre non ſi partiva,
facea bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in
queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non
dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare; e
comechè in alcune fortidi febbri, e in qualche huomo gagliardo, e ben atante
della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in
tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza
non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con
altro che.colle purgagioni, e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion
dimalattic rilanare. E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del
medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara; i quali nel cominciamento di
quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al
vino ippocra tico, e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte
lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto
fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio; che in tal guiſa
egli credette, che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente
anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po potrebbel'ammalato guarire: fæpe
igitur, egli ſcrive, et aquafrigida, cui oleam foc adječium, corpus ejus
pertractan-, dumeft; quoniam interdum fic evenit, ut horror oriatur, ds. fiat
initium quoddam novi motus, exque eo, quum magis corpus incaluit,fequatur etiam
remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui
deſcritta accadere, ed agli ammalati alcun pro avvenire; pur non dimeno ſenza
manifeſto riſchio non va la biſogna; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà,
n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta
ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver
fi gloriava la febbre finoca Galieno, confar uſcire il ſangue dalle vene per
via del falaſſo, fino allo sfi nimento dello infermo; da chefacendoſi gran
movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo, e'l
vomito anche talora, come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire; per li quali, e
per le quali o ſperano, che debba mancare affatto,oin parte la febbre. Ma in
vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che
non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere
il numero, che la quantità de’la laffi; cioè più cofto in più volte il ſangue,
che tutto inſie metrarlo fuori, Ma per più d'una pruova avviſando il
grand'Atenco, fra quante traverſe, fra quanti viluppi, fra quante incertezze
vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie, e tra effo loro
diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina
nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di
medici na; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe
in opera; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti
valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute, e approvate; e per
tutto quel tempo, che le lettere fiorirono nella Grecia, e nel Romano impe. rio,
celebre fi manterne la ſua Setta, e in buon nome, las qua le ſpirituale venne
chiamata; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava; la
qual per tutti i 1 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non
meno il grande, che'l picciol mondo regger doveſſe; é dove ella non foſſe
primjeramente offeſa,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento, male alcuno
ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir
gilio in prima dicendo. Principio cælum, duterram,campofque liquentes,
Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit:totamque infufa
per artus Mens agitat molem, et magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo
Ele menzogue antiche Di chifiloſofando, e menie, e Spirto Dieda queſta mondana,
ed ampia mole? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira; Com'a lor parve, e'l
Cielo, e l'ima terra, E laſpera delſollucente, e vaga, E’l globo de la Luna, e
l'auree ſtelle, E de l'aria, e del mare i larghi campi Nutre, e miſto al gran
corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra? Ebbe la ſetta fpirituale
oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi, e alMagno, ad Agatino, ad Erodoto,
altri, e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute
a grado,ſommamente la nobilitarono, e l'illuſtra rono; e fra gli altri
Archigene:il quale, tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece, e per li
tanti doctiſ ſimilibri, ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa, ne grande,
ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina, non ha
che cedere a niuno, ch'abbia o prima, o dopo lui ſcritto, e medicato
infra'Greci; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica, onde a gran
ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no: e per valerſieglino
della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien
conti, difettoſo, e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio
nale. Oltre re, Oltre a queſto e'miſembra, che riprovino eglino me deſimi il
loro ſiſtema; imperocchè in medicando le malat tie, poco, anzinulla a sì fatto
Spirito badar fogliono; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro
ſpirito, ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la
lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi
eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare, chente,equal li fia
la ſua nas tura, cioè qual figura qual, grandezza, equal movimento abbiano le
particelle, che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo
umano, e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna; e in qual guiſa
dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo.. Poco men che crucciato ſi
maraviglia Plinio, in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e
maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade;huomo com'e'dice, quan to al
naſcimento, di condizionemolto vile, e di maſtro di ritorica ch'egli era in
prima, perciocchè aſſai poco gli fruttava, in un tratto medico divenuto. E sì,
e tanto egli adoperò, che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo
alla medicina, a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte, e
poco men, che affatto op preſe, e abbattute; ed egli folo vincitore,e
trionfante de gli altri medici, a guiſa di perpetuo dittatore nella Città
donna,e capo del mondo, ne ordinò a ſuo talento, e ne diſpoſe le leggi:
ſupremo, e aſſoluto arbitro, della vi ta, e della morte diquelpopolo, nelle cui
mani ſtava la morte, cla vita d'ogn’uno ripoſta. Ma fermamente egli fi dee
credere, che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de, non tanto com’alcuno
immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe, quanto che colſenno, e
col valor no punto ordinario viſi portaffe, comechè la fortuna anch'el la vi
concorreſſe con qualche gran fatto; quale appunto di fu quello, che vien
narrato dallo ſteſſo Plinio; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in
un miſerello, che per morto era portato alla ſepoltura, facendolo egli a caſa
rie tornare, con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe. Eben 1 túrós,
E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo', e la ſingolar fua
prudenza: allor, che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate,
generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori
offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte. Malale tezza del ſuo acutifſimo
intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante, e tante ſue
opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe; nelle quali ſi vede apertainéa
te, che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima
buccia delle coſe, s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più
ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade, che non già per
caſo, ma di neceſſità, e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna
nell'Vniverſo: e che fa natura altro ve ramente non ſia, che'l corpo medeſino,
o'l ſuo moto: per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i
qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli,
veloci, e ratti, e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi, e con
vicendevoli percoffe, l'un coll'al tro cozzando, e forte battendoſi, fi vengano
a ſminuzza rc, e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge; le quali con
diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra, e inſiemeaccoppiandoſi, e
congiugnendoſi, prive d'ogni qualità, col moro, col numero, colla grandezza,
collow figura, e coll'ordine le coſe, e l'apparenze tutte ſenſibili
producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne,che ſien privi diqualità
i corpicciuoli; concioſliecoſachè altro dal tutto, altro dalle parti ne ſegua;
l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura; il corno ènegro, mala ſua
polvere è bianca; ma dovetre dir egli ancora, che le qualità altro non fieno, o
per me'dire altro non le faccia apparire, che'l concorrimento, la figura, e’l
fito, e la grandezza, e l'or dine, e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che
concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli, o ſperali, o piramida li, e con
dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no, a formar ne vengono quel
ſentimento, che dicalore ſi chiaina. Dice oltre a ciò
Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle, o ſchegge
ſuddette nel formar le membra degli animali, vi laſciano molti, e molti ſpazj
vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi, varj di grandezza, e di figura;
i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano,
callo incon tro, ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli,a far li vê gono
ſecondo la varietà delle parti, e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie; ma
non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade, avvengono per la dimora
de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente, come la freneſia, il lecargo, le
puinte, e lefebbri grandi; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento: e
s'ingenerano per la curbazione de ſughi, e degli ſpiriti, per la quale
ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina, e nella
fover, chia magrezza ſi vede: 0 nuovi ſpazj a viva forza in non, convenevoli
luoghi ſi aprono, come nell'Idropiſia acca de, Vuole oltre a ciò Aſclepiade,
che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte; ma nel
vero al tro quelle non eſſerç, ſe non ſe le cagioni antecedenti. Si ride egli
di quel grande ſchiamazzio, che fanno i medici in. torno a'giorni critici;
portando opinione, che d'ogni tem po, com'egli avea avviſato, poſſano creſcere,
e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie. Ma per accénar qualche coſa intorno
all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer
mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men, ch'c'potea; avendo
ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role, che vengon per Cornelio Cello
rapportate: tutè,citò, jucundè;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti,
che così ſovente, e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici
adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re, care qualche giovamento
agl'infermi; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo, e pronto il danno,
ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi, medita zion
della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huomo, e di sì fatte coſe
aſſai intendente, quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della
medicina, e dalla fiebo lezza de'ſemplici, o compoſti medicamenti, che in que'
tempi erano in uſo, nel ſapere ben regolar la vita col ci bo, coll'eſercitar le
mébra,e altresì fatte piacevoli cole, poco men che tutto il sómo del ben
medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli, come huom crede, da neceſſità
alcuno ſtretto,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi
fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto,
che ſicoine Galien dice, egregiamente cgli ne ſcriſſe: e molti, e molti
medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò, e poſe primiera mente in uſo, e ne
compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai
tacciati, anzida’ine deſimi ſuoi emuli, e avverſarj commendatioltremodo, e
fovente adoperatifurono; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre
impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre
giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto
ſecolo in trodotto di medicar le ferite. Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le
purgagioni; ma fivalſe de criſtei. Danrò ancora, come racconta Plutarco,
ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri
ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo:
quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe
affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito;
del quale, com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di
Samotracia. Ne ſi dee qui tacere, che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe
ad aver contezza dell'elatere dell'aria, come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti
parole di Plutarco, avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa
de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και
τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν, αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι
λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν, τε και φέρεσθαι παχυμε.
ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370
Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι, μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω
θώρακι λελομερές dei begyiQ (šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw
umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε
και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων
πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει. ·
Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo
Iddio, come riferite vengono; e per la più parte da chi punto non l'intendea; e
talor anche da al cuni per vggia, e mal talento a ſtudio guaſte, e travolte. Il
che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina; pur
lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento. E primjeramente
parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando
egli opinione con Ariſtotele, ed Eraſiſtrato, che le reni non abbiano al cuna
operazione: echeciò, che ſi bee, ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove
poſcia li ftipi in orina; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno;
comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato, perchè c' non fi vaglia
della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo, perchè egli non ſi metta
a filoſofare con ciance, e anfanie. Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno
sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade, dicendo, che contro
l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe,le qualiognun vede,
che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte,veramente vi
vadano;che certamente non potea egli sì milenſo, e ſciocco eſſere un tanto
huomo, Negò ben'egli la facoltà attrattiva, e co'buoni filoſofan ti ſtimò
eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai, ne
facoltà, ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro
corpo ſenza toccarlo, o per ſe ſteſſo, o per altro corpo da ſe parimente tocco,
e moſſo; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino, o
fune, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma non poſſo lo laſciar di
forte non ridire, quantunque volte rammento quella ragione, colla quale Galieno
con tro Aſclepiade,ed Eraſiſtrato, e altri buoni filoſofantiſen za vederne
altro,fermanente credette, ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata;
dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta
pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte
dipeſo;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima, ſe'l grano non
aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per
tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna, che in
ciò punto l'appagaſſe. Quinci ſi pare,che meritevolinen te il Veſſalio avendo
anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile,
prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga
licno:profeito ſiGaleni libri de demöftratione, cjufmodi crebris Scatent
demonſtrationibus,que ipfi et fimodo aufim proloqui) non infrequens, ac
poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt, non eſt ut eos libros
tantopere expecte mus. Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa
vellare, certamente venner conoſciute molte, e molte coſe di notomia per
Aſclepiade, che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro, e ragguardevole
oltremodo il ſuo ſite ma: comechè paruto fo fe, ch'egli aveſſe portata opinio
ne, che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino, che
co'nunemente per ciaſcun ſi credea; impertanto immaginò egli, di ſottiliſſimo
vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo; ma non diſse
perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in
quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle
l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene, e dalle arterie
miſeraiche tratto veniſse. Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito, Ariſtotele,
ed Eralitrato aveſser detto, che in guiſa della ruggiada il chilo, e l'alimento
per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe, nelle
quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è
ben 1 cerco, che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla
ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere, chenti, equali, e dove
veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la
figurą, e'l fito, e l'ordine, e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o
affatto, o in parte turandogli, o più del convenevole dilatandogli, o altri
nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i
mali negli huomini; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli,
onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte; e ciò non
ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc, alcun
ſicuro, e certo rimedio per ragion ritrovare. Dove poicgli dice farſi la
freneſia, il letargo, la punta, ele febbri da'corpicelli, chenegli ſpazj
inframelli dimora no, perchè egli non ſoggiugne (o forſe no'l ſappiam noi
s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano
compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi? e avvegna pure,ch'egli
accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz
de'piccioli, e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente
raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta; anzi pajon'elle molto leggieri: e
ſono queſte, che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano; e più
agevolméte gli ſgõbrino,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così
andaſſe.com'e'diviſando ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale
non baſterebbe al ſuo intendi. mento fornire; ma di ſaper anche il movimento,
la figura, el ſito di quelli farebbe a lui meſtieri, ficome poco 'addie tro noi
dicevamo; e ſe impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da
poterſi per intelletto umano co durre a capo, yana ſenza dubbio ricſce ogni
induſtria, ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno, che di
ſtabilir ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade,
come detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a
modo che, comeperGalieno ſi narra, egli ſolo, e Dioſcoride d'ogni ſorta
dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta,de' ſughi, de'
liquori, e d'altre, e altre coſc fof ſero pienamente informati: nientedimeno,
ſe le pruover che intorno alla loro natura, e al loro operare egli nellas ſua
opera recò, ancora di leggeſſero, ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato,
ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni;e meſtier certamente farebbe
ad Aſcle piade, alla fola ſperienza, non men che altro più vile Em. pirico
ricorrere. Ma ben ciò conobbe egli, ne'l diffimulò punto, e confeſsò
apertamente, altro la medicina non ef fere, ch'una cotal ſemplice conghiettura;
onde ebbe a dire Plinio, ch'egli: medicinam ad caufas reuocando conjectur.i
fecit: o come legge Giacopo Dalecampj: conjecturalem fecit. Nel curar le febbri
terzane,e quartane egli ſembra,che non molco bene (comechè'l contrario dica
Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo
medico, ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare
aglinfermi il vino, e bagnar loro con acqua calda la teſta; ove in inolte altre
coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare. Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi
tragga mai ſangue, fuor ſolamente ne'dolori; e ciò perchè facendof queſti da’
grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti, ſe condo il ſuo
ſentimento, gli pare, che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del
ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo
ciſſimicorpicelli,che formano il fuoco, cagionar ſoglio no il dolore: come
anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina;
il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina, i
corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti
ſalde conſiſtono: e le liquide, benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi, non ne
ſono cagioni vere, e preſenti, ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar
fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò,
egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 }
che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale
tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e
ſolo ardì a ſpiar tutto, e a ſcriver tutto, ciaſcun maeſtro più valoroſo
", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai
meſtieri dire, che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla
medicina, calla filoſofia ſeguito, Quinci ſi vede, che ſcarſemolto, per non dir
altro, ſem bran le lodi,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi
Prufienfi, condita nova feéta,fpretis legatis, doo pollicitationibus
Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine,
ofervato,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna, ne medicus crederetur fi
unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe, et victor fuprema in ſenecta lapſu
ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to,
e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il
ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno
immaginare, non che diviſare; e fe'l favore, e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè
farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge
baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri
eſſere, ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro, fifoffe fatto
di qualche nuova forte di metodica medicina inventore. Veggiam di lui ſolamente
alcune forme, o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari, e di molta
poca co ſiderazione, dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui
tenuta nel medicare Ottavio,tutta travolta da quella di Cimolio; perciocchè
Ottavio, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari
coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare
alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta; ma per avventura a ciò fare da
qualche apparente ra gione egli fu moſſo. Neciò è nuovo, che i razionali ſiva
gliano di tal regola; poichè il fece Ippocrate ancora; co mechè egli poi moſtri,
ch'aveſſe altro in animo, con inſegnare una fiata il contrario, la ove
diſſe,che chiunque ope ra con ragione, avvegnachè ſenza profitto, e infelicemen
te fi faccia, dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da:
návraisatakóyov meséori,xai pen'govojévwv * xara'dégor,designer swßaives, i
inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di
pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente, che a mal fine
rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo
volgono i loro intendimenti, con graviffimo dan no de' cattivelli. E mi ricorda
in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un
ſuo ſcolare, che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto, che'l ſegnare in
alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano,
conduceva a ficura morte gl'infermi: impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto
giovamento di quelli: egli replicogli una gran vit lania, chiainandolo ſciocco
empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo, non altrimenti, che ſe colui
aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor
naſſe al falaſſo di prima, nulla curando, che gl'intermi per ciò fare
certamente fe ne moriſfero; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina
d'Ippocrate; non avviſando,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate,
nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la
ragione, allor che non le riſponde l'uſcimento. E chi ſa poi tra le tante
incertezze dell'arte, qual ſia la vera, e legittima ragione? ma come
ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia, ne opera d'huom di
poca dottrina il ciò poter ben avviſare. Egli li fu Antonio Muſa, per quel che
s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te; ne
per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ'
εκτάνετε ταν πάνσοφον, μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν. Maqual fi foſſe
veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può
da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio. Cuivenus ante alios Divi,
Divumqueforores Cuneta,nequeindigno Mufa dedere bona. Caneta quibus
gaudetPhabus,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se
in terrisloquitur jucundior uno, Clejo nam certè candida non loquitur. Sivalſe
Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco
giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali
maraviglioſamente con incredibil velocità, ſe'l ver dice Plinio, ne guariyano.
Io yo meco diviſando,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci
mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico,celebrato;dicui narra
Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo, cui in iſtrana guiſa dall of
Ia la pelle ſpiccavaſı, fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di
pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα, των σαρκών απόφασιν
λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν, ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη, και
βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons. Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi
ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda; e egli, e'l ſuo fratel do
Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il
quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata un'erbamedicinale,volle,che
colnome d'Euforbo foſſe chiamata. Mail Muſa folea ba gnare i ſuoi inferini
prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo, aprir loro in prima bene i pori,
acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare; quindi entroall' acque
fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica se così narra Orazio
nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla, ſe in Salerno, e in Velia foſſe così
fredda l'aria,che dimorandovi egli poteſſegli giovare a'ſuoi mali; percioc. chè
il ſuo medico Antonio muſa, freddiſſima gliele richies deva per dover prendervi
i bagni freddi. Aua Quæ fit hyems Velie,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum
regio, &qualis via.(nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen
illis Mefacit inviſum: gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia
relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni, vicus
gemit, invidus ægris: Quicaput, et ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis,
Gabiosquepetunt, et frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa, che
dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio, guariſi d'una gra villima
inalattia; comechè dica Plinio, che ciò foſſe avve nuto per opera delle
lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio; perchè fu
queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora; indi cominciarono i Romani ad
uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe, che per averle anche fuor di teinpo,
riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì rilevato ſtato
montonne, e in cotanto credito, cheoltre alle ricchezze, agli onori, e
a'privilegi, che per ſe non ſolo, ma per tutti altresì i medici ottenne,
l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio, come ne
da teſtimonianza Suèronio: Medico Antonio Mufa, cujus opera ex ancipiti morbo
convaluerunt, ſtatuam, çre collaro juxta fignum Eſculapii ftatuerunt. E fe'l
mio avviſo non m'inganna, d'oro gliele avrebbe certa mente rizzata, ſe più
coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora ſtabilita ancora la
tirannide, n'avreb be per avventura la libertà egli ricupcrata; e veramente ſe
la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani, non ſa. rebbe riſtato per
lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto, ne Caffio, ne Seſto Pompeo, ne
Marc'Antonio con tanta oſte per mare, e per terra non avean potuto adoperare. E
bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare del Muſa, quando da
lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio, ſe ne morì Marcello;
perchè di preſente e'per denne !, gloria, che guadagnata s’avea; non ſi dee
imper 1.2. P; CXLV2Livi, come o telo 378 Ragionamento Quinto poteva nel Dione
dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello
ſtudio morire; anzi morilli Mar. cello in Baja, come teſtimonia Properzio, il
quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in
veftro fpiritusille lacu. Neſembramiveriſimile ciò, che ne va conghietturando
quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro
Giuſeppe della Scala, facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente
la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia, e fargliene ſervigio; 'perciocchè
allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit, ſono
ſue parole, gratificari ei, que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę.
Ein vero non ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le
acque di Baja Marcello,che in quelle di Stabia, la dove alriferir di Servio
egli moriſli; e ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne
nell'acque acetoſe di quella fonte, che a tempo di Plinio chiamavali di Medio.
Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde
di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe, e che alla
fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita; ne dal narrainento di
Properzio argomentar fi puote: Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije:
coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di
Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo
egli si tiſicuzzo, e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli
qualche interno tumore, il ſoffogallero: o di ſover chio creſcendo il moviméto
del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la
vita negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale
eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in
que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe
dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto;
e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato. Ma paſſiam oltre a dir di Clinia
da Marſiglia. Fu la guiſa del coſtui medica. re nel vero ſtranamolco,e
ſuperſtizioſa: imperocchè infi gnevaſi egli di non darmaia malato niuno,o cibo,
o medi cina, fuor ſolamente, che in certi puntiaſtrologici di fito, o
dicongiunzioni della luna, o d'altri corpi celefti: e bert gli approdarono sì
fatte malizie; poichè montò in sì buon nome, e fama appo i Romani,che
oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne;delle quali ricchezze, parte cgli
co funionne largamente per cinger di novelle mura la propia patria, e parte
alla medeſima ne fe dono, acciocchèpoter Le riſtorar quelle, quando huopo ciò
lor foſſe. Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua
medicina, non avendene niuna certa, e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far
paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior
d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata,
ch'un ſottile, e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance, e promeſſe le
troppo credule perſone. Ma forſe, come i Romani ſi ſervirono degliauguri
ſecondochè la neceſſità il richiedea: ne folean giámai darcominciamé to
all'impreſe, ne trar fuora gli cſerciti, ne far giornate, nc alcuna coſa di
confiderazione, o civile, o militare ado perare, ne mai ſarebbon andati a
gucreggiare, ſe prima non perſuadevano a l'ofte, che gli augurj avean promeſſo
loro la vittoria, affinchè i Coldati maggiormente incorag. giati prédeſſero
ſperanza divincere: dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria:
così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede
alle medicine loro preſcritte; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare,
quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina, la quale da lui non
convenevole al male foſſe ftata ſtimata;ma dalla minuta gente giovevole, e
neceſſaria giudicata; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa, che
coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal
coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per
loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo, Bbb 2 che
cono. 1 che foſſe non meno fciocco,che ſtrano, come quello, che poſti in non
cale, e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle più
rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide
fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per
venire allamedicina di Galieno, vana per avvé tura, eſoverchia giudicherà
alcuno la mia fatica in abbu rattarla; imperciocchè chiunque avvedutamente
v'affiſe rà lo ſguardo, ben toſto ſcorgerà i mancamenti, e i difetti di quella:
i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina, quanto dal ſiniſtro
modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono;. il quale avvedutiſſimo in
fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina,
ch'e'medefimoconfeſſa, e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie: a bello
ſtudio par, che riltando in s l'ali, o dando lunghe, e inutili aggiratc, a
quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di
meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove
parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano. Così con le medeſime
ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i
ſuoi nimici;e dicendo, ch'egli inneſta in ſu'lſecco, or dinando falſamente il
ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina, niegano
conſtantemente gli eleincnti', e gli minori, e l'altre coſe cutre '; ove egli
coil poco ſode, ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed
appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando, renderommi lecito di brevemente
accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero, e fiſio
comodo come naſcano, o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità,ma ſolamente
le ponga già nate; ne men, quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor
eſser conſi ita; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro
operare, ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda, ne pur gli effetti che per lc,
o per accidente da lor fortiſcono. Ma come egli maile natura delle qualità
ſpiegar potea, ſe la > natura della materia, dalla quale quelle dirivano ed
in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli
non cura; il che quanto monti, agevolmente da ciò potrà comprenderli, che
traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali, ne la natura
delle malattie, ne le cagioni diquelle, ne i medicamenti mede fimi non ſi
potranno in modo veruno comprendere. Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi
in qualità di ſover chio rigoglioſe, o manchevoli di ciò cheal corpo richieg
gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza
ammendandole riporle; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi
potrà, in che conſiſta la árminatío, o nimiſti, che tra loro eſser fi dice;
perchè anche ne fiegue, che non ſi ſappiano, ne convenevolméte ſi poſſano
perGalicno ľaltre qualità ſpie gare, che ſeconde chiamanli,e che egli
pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar
rano, giudica, che cheno non pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli
poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè freddo, o caldo, o temperato,
pur nelle ferite meſ lo, dolore, e infiammagione apporti;e che non altrimenti,
che dal caldo, dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri; e ſe Pamaro fembra a lui
effetto del caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno
aveſſe bene avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra
quelle il fiſtema della medicinapiantato; concioſſie coſachè ben egli compreſo
avrebbe non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò, che nella naturä vedeſi.
Perchèi più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle
coſe della natura, fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza, o pur alla
forina eſsenziale, all'amiſtà, o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza
tra le coſc, e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni,
delle qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote. Quindi: per racer del
Fernelio, e del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di
Galieno, colſe ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse
runt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis, nec
de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea, qua inexplicatam tādem
relinquüt quæſtionem. Talia verofuntelementa Galenicorum: ex quibus non potes
demonſtrare rationem facti offis, carnis, fuccini,magnetis, et cetera ſecundum
formam eſsentialem. E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi
diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones, et qualitates infunt, per commune
quoddams principum infint neceſse eſt;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram,
calida propter ignem. At colores,odores, Sapores efse progosov, fimilia alia,
mineralibus, metallis, gema mis, lapidibus,plantis, animalibus infunt. Ergo per
com mune aliquod principium, et ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt
elementa: nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam. Ergo
alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene
avviſando molti degli antichi, e poco men, che tutti imo derni Galieniſti, ſe
maicoſa alcuna malagevole, ed oſcura intorno all'economia degli animali a
ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura,e la cagione di qualche ſtra
na, c non conoſciuta malattia, allora abbandonato affac to il lor maeſtro
Galjeno, e poſta in non cale ogni ſua dot trina, ed ogni diviſamento della ſua
razionale, e vana mie dicina, a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto
s’appi gliano, E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno; e rimirando alla
manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più, e più fiate
diſegnato, le facoltà non có fiftere in altro, che nel temperamento, o
meſchianza delle quattro primnequalità, avviſando alla perfine mal poterli con
quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare, così ſcagionandoſi
apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice,
la chiama facoltà, o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da
ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di
palpitare; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza
d'adoperar quelle coſe, chcin eſse ſi fanno. Con cheGalicno apertamente
confeſſa cgli me defimo, le facoltà, che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa
pere; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono
con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono, quelle fiate, che per Galien
ſi ricorre ad una cagione, la qual eglimedeſimo, non ardiſce, o corporca, o
incorporea determinare; e che egli ignorando, che coſa ſia veramente, inſieme
col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla. E ridevole veramente ſi è la
maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar,come le partide gli
animalifacciano le loro operazioni;dice egli, che ſico me al comandamento di
Vulcano, ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più, o
neno il fiato; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano; cosinel corpo degli
animali niuna coſa eſſer immobile, ed ozioſa; imperocchè dal ſupremo facitore
alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli, sì che le vene
non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono: ma l'attraggono, e lo preparano
al fegato; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo, gli da l'ultima
perfezione di ſangue: müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι
δημιουργήμα, και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων,
εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας: τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά
τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα
μηδέν αρ. γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας
αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας
μόνον την τξοφήν εκ της γασφος, ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι
τον ομοιόταν εκείνων τόπον, ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας, και την
πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva. Ed è anche manchevole la medicina di Ga
lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti
del corpo; perchè malamente l'economia degli animali, ed ondenaſcan le malattie,
ei luoghi, e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente
ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella,
non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te, j 384 ' Ragionamento Quinto
baſtantemente la coſtruttura, e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che
d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe, o nelle vene
lattee, o in alą tre, cd altre infinite coie da’moderni deſcritte. Ne ſeppe
cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore, e dei fingue: ritrovato, del
quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, et utilius
in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe
ſole di tanto pregio, e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo
filoſofante Pietro Gaſſendo, che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli
della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen
te, craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva, quindi fperando, che'la
medicina, quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro
degli huomini; malli. mamente in quella parte, in cui dall'economia degli ani
maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità; almen finattanto, che
novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta
ſi briga in diſaminar le qualità, ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto
niun non facea: Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio,
e tempo in un'intero volume, laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente
in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira. · La maggiore, c
principal parte, e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina
neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè, che alla materia de'cibi, e
de'medicamenti s'appar: tiene; or queſta nella medicina di Galieno è certamente
tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli
errori, e falli ſottopoſta, che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto, e sì
factamente negli Impiri ci dannano, erimordono. Ed è ciò dicanta conſiderazio
ne, e rilievo, che in utili a baſtanza, c infruttuofe, e vane le contezze cutte
della medicina, ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote: le
qualitutte ad altro non fono indirizzate, che a diviſare, et proporre agli
ammalati i cibi, siinçlicamen:1, 3? fu conced.fipreselierelli 13,45's ra,
medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo
umano, della cagione, e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte
a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la
razional medicinapotrà ritrarſi? certamente per quel che Io micreda, niuno, ſe
non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci, e ben certe ragioni, come,e qual
ſorte di me dicamenti, e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai
vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno, e
faggio conoſcimento dellana, tura, e della propietà di quelli avere? Ma queſto
per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica
certamente, e incerta farà da dire la lor medicina; per tal modo, che non ne
potrà ſe non-ſelargamente il no. bile, e laudeyol titolo dell'Arte meritare. Ed
interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per
una menoma particella, che nella definizione, o nel partimento, o nel
fillogiſmo dubbiofa fia, ed incerta, toſto dubbioſo, e incerto il tutto anche
diviene; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia. Senzachè la medicina
in tanto è arte, e conſeguenteinente certa, in quanto ella ha ficuri, e
certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo
bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini. Adunque non eſſendo
queſti certi, ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor
medicina. Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti, e più
dorti eglino ſono, tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare; ne
dalla lor doctrina, e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin
quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va; imperocchè manifeftiffima coſa è,
che Galieno mede ſimo, non che altri, con iſchiettezza veramenteda filoſo fo, e
degna di lui, molte, e molte fiate apertamente il co felli; ed una infra
l'altre mordendo, e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi, che troppo
arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la
natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo: non laſciaremoin Сcc. tanto,
380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di
coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore, e dall'odore, e dal fa pore, e
dalpeſo, e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù
diſpiar s'argométano. Quindi appreſſo ſoggiugne, che tutta la ragione
d'eſaminare, e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter
debbia, avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in
avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj. Ed a ciò
anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la
fine prorompe. Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad
inveniendum, rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus; fed ex modo,
quo nos afficiunt ſolum; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat, fed
tota fit empirica. Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da'
fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro, e ſpezialmente
ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre
sbracciate arditamete millantato: Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit,fed
perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata. Ma certamente s'egli
riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar
più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui
vanterebbe: nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum: quoniam hic author
nihil, quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum, quod
pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della
verità: poichè, per tacer d'altro, non ſi ritien per quella di rimproverare a
Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato, il non ſaper punto di Loica; e più
ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia, ove
infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice, che quelli non
ſiano ſtati mai, ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali (ſon ſue
parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E
ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele,
ſpezialmente intorno alla materia prima, dice. manifeſtamente, e confeſſa, che
quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al
preſente, dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione; anche il
mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa
non altro, che vaneggiamenti, cd inutili ciar le; poichè avendo egli ſognato,
che ſarebbon guariti due infermi, ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della
inan deſtra copioſo il ſangue, ei prontamente gliele craſſe, e tutt'altri ſuoi
ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo, fe guì l'indirizzamento d'un
vanillimo ſogno;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede,
ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe; ed Io il ridirovvi colle parole di lui;
πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον, ήκον επι την εν τω
μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα
ερείν, άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα, κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη
μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα
το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο
συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου
πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης
και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di
riferir poi ad uno ad uno, come fanno il Veſſalio,ed altri,ed altri
notomiſti,tan ti, e tanti errori, che nel deſcriver le parti del corpo uma no
preſi furono per Galicno: per non recarvi consì lungo racconto più di noja, che
per avventura non ſi conviene. Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò,che a
ciaſcuno è manifeſto, che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di
vane ciance, che di coſe ripiene; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe, a
più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle. Ne meno ho curato accennar
come coſa a tutti nota, chc la dottrina inſegnata da Ga lieno, per la più parte
ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa, c peggio
ſpiegata. Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione, di narrar come Ga
lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 di
Placone, e d'Ariſtotele, e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga
i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la
filoſofia epicurea ap parata; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni
d'Eralia Itrato, d’Aſclepiade, e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti,
che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri
di quelle addoctrinato. Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo
del filofo fare, che mai fempreGalieno adopera, non iſccndendo mai alle
particolarità delle coſe; e ſe talor e'fi pare, che viſcenda, il fà per
modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale. E nelvero chi è, che
non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi, a'
temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali
coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova, ſe non ſe con ſole
parole la lor eliſtenza? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli
dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come
follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo, e del ſangue, della natura, e
degli uficj, delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti? Chi è
per Dio, che non iſcorga, com'egli facendofimenare per la barba dagli
ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici, e com'e. gli oltremodo vancggj
in facendo parole della materia del la natura, delle cagioni, e deglicfetti
delle febbri, e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia,e
dell'Epilcilia. dicendo egli, amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione
de’ventricoli del cervello fatta da freddo, groſo, e tenace umore; recandone
per ragione, che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano; o eſſendogli
caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata,più al vero
conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di
botto riſtando; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea, e ſottile; ſenzachè
ſe ver folle, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo
l'Apoplefia, e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi, converrebbe chemai
ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel ra, poplellia: e che queſta in
quella mai ſempre terminalſe; il che non ſi avviſa, ſe non ſe di rado; ma ciò
fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina, che non
curoffi mai di aprir cadaveri; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati
i ventricoli del cervello, il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o
d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali, ſenza tenere ne' ventricoli
del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene
quelcelebre detto d'Ariſtotele:87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το
συμβησόμενον εκ τείκότων, και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον
ούτως. Or non fi coglie da ciò che è detto, che Galieno della coſtruttura delle
parti del cervello, e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche
chiaramenre ad inten dere, allor, ch'ci fa parole degli altri mali della teſta;
ed ora mi ſovviene,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla
triſtizia de'malinconici, in così dicendo: ficome le tenebre eſteriori
apportano ſpavento a quegli huomini, cheaudaci, o fapienti non ſono, così la
malinconia col fuo colore offuſcando, ed ottenebrando la ſedia dell'anima, le
reca timore; ne' qualiderti è certamente da ammirare, che ſié più errori che
parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura
dell'anima, edi quella delle qualità intcſo:eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la
luce, che coſa foſſe il colore, ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc, o'l
diſcorſo in noi fi facciano; perchè ragione volmente nel vero, comechè non a
baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato, e deriſo. Or come per Dio huom,
che ſuperficialmente filoſofu della natura, e delle cagioni delle malattie, mai
può in medicando della ragione valerſi?.e certamente, per ta cer d'altro, a
Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione
operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare; imperocchèquantunquegli ſi con
ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana, cioè, che ſi cagioni la terzana
dalla collera, la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa
provata,e vera la ſua rego la, che la,
che curar ſi debba per li contrarj; le Galien non fa la natura della collera,
come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca, e che imputridir la faccia,e come
per la putreſce za vi s'accenda, e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde
egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia
contrario? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo, e
ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co; ma s'ei non fa qual ſia la natura
del calore, e della ſic cità, e del fuoco,certamente nulla ei non ſaprà della
colle ra, ne comprender mai potrà, come ella, e per chi s'im putridiſca, e come
ella cagioni la febbre, e comea ciò ſi poffa dar compenſo. Certamente meglio
partito egli avrebbe preſo, ſe della ſola impirica valuto li foſſe;la qua le,
ſecondo quel, ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa
razionale, Ne meno lo dirò, ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto
Dioſcoride,diſagio di buoni, ed efficaci medica menti: c che egli la più gran
parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che
adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj, ricercă dogli eziandio
infra altri ſetteggianti, e cra’volgari impiri ci; perchè diſperato egli anco
di ciò, fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine, e nella dieta, e
ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole,
che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo, aveſſe
avuto Gi rolamo Cardano riguardo, certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici
più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera, nc mai ſi ſarebbe
laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus
metho dis, pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben
qual ſi foſſe Galieno, il riconobbe, e l'ad ditò il Veffalio, che più del
Cardano ne fudi gran lungu informato. De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne
mai colui, che per iſpiegarne la cagione, alla facoltà ricorſe, ne punto ſeppe
de’movimenti del ſangue? Ma nella loica, quanto egli poco valce, il dica Aver
roc, i 1 tropo ſtudio. roc, il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in
doſſo. Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere, il della loica: e fe Galien
conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò, s'egli non
ſapea,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare? e
tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato; e dicoloro,
che dopo lui vennero, paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè
novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina. Furono di così poco taléto
que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro, che le
coſe mede fime dagli antichi già dette, malamente per lor compreſe, e peggio
rapportate, compilare; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni
diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori, ſolaméte alla
ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio, che di
tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere
il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di
fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio. Ma dovea
purGiulia no, ſe filoſofante era, qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui,
avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma, che dello ſciocco
berlingatore d'Oribafio; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da
quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro
dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli
errori de'ſecoli traſandati, edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che
addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre, anzi alle ciance, e alle
lunghe dicerie, che alle fal de operazioni avean l'animotutto, e'l penſiero
rivolto. E sì, e tanto queſta ſconcia, e biaſimevol coſtuma crebbe, e
diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici, ancora,laſciando da
parte le loro pruove, e le ſperienze, tutti nelle ciuffole, e ne'ben compoſti
cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata
fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta, ch'avef fe voluto
logorar la ſua induſtria, e'l tempo in contraſtare ! ic le ſette razionali;
perchè in iſperimentare, e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto
certamente confe guito n'avrebbe. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo
impirico, ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato: il
quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta
dietro alle cagioni, alla natura, a’ſegni, e a’rimedj della ſua malattia per un
ciarlatore razionale, così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è, che tu più
coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui, che alle tante, e tante
pruove fatte permefin'ora; dal che moſſo lo infermo, diede di botto comıniato
al van ſofiſta, e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi. Ma
certamente cotanto ciarlare, e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti
greci dal ſoverchio ſtudio della loica;avvegnachè per quella intorno
alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e
vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no. E forſe in
ciò potrebbon ritrovar pietà, non che per dono, ſe già l'oſtinazione, e la
fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale, che per fermo eglino
ebbero, e per coſtante, così veramente andar le biſogne della natų. ra, come
eglino le îi davano ad intendere, Ritroſi ancora ſi parvero, e negligenti affai
i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti, come faldede gli
animali; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e, conomnia, e
l'ingenerazioni, e gliavanzamenti delle ma lattie; ma ſour'ogn'altra coſa ſi
vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti, la quale così dubbia,
incer ta, e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato
foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche, e novelle ſi
troyano colla verità in quella me ſcolare, e confuſe, E ben ſi ſcorge ciò dalla
raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride,
il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe
vere, o falſe elle fi foſſero, di tut te pienamente fece faſtello; e tali
vengono poi per Galic no, per Oribalio, per Paplo, per Aczio, per Simon Seti
trat tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe
non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe
affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo,o.umis
do, oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima
parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato, certamente il fanno dove e *
no'l merita; ficoinc allo.incontro il commendano, dove no'l vale. Ne lo ciò
dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride, ch'egliè anzi permio
avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci
alle noſtre mani ne lian pervenute: ma perchè eglino vi ſia cauri, guardinghi,
e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian
intera credenza. E quinciancor manifeftamente s'avviſa, che non che nulle
giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti,
anziella di vantaggio loro oltremodo nocque; perciocchè più veritieri aflai
trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi,
digiuni di lettere, che nelle limite, e ben culte ſtorie loro. Io tralaſcio di
far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare,
quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne
vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare, e comporre infieme
imedicamenti femplicida colui, che di quellinon fia pienamente informato. E ben
s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci,.e più ſtimari della. poco lieta
uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a
riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio, e ben regolato vivere, l'arte
tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero; e sì, e tanto-in.ciò furono ritenuti, e
rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano, cad altri la fo la
mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici;
perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle
malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire
icadaveri; avvegnachè una tal Did diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo
malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova,
più toſto ſia effetto,che cagion delmale; pur nondimeno alcuna fiata
potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re. Ma quelche più rilieva, ne
meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali, ſe però non le ci ha tolte la
lunghezza del tempo; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate,
elleno ſon cosi rozze, ed imperfette, che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le
crede. Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni, che ſi ſono
attentati di ſcriverle, comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera, o
perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie, ſicome fece Amato
nelle ſue ſtorie:0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati',
vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano; ſe pur non ſon elli imalizio fi,
che le coſe ſempre aroveſcio, e travolte ne vogliono da re a divedere; ſicome
alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe, per difender le loro
opinioni tutto di van recando. Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza
brigāti, eriot tofi che, tal ſovente videli, nonche ad altri,ma a ſe me d'elimi
far contraſto; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i
viluppi, e le malagevolezze di quell'arte, che eglino cotanto con biftentis e
vigilie, e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare, emaggiormente offuſcaro no; perchè
non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope
Maeſtro di Galieno, il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera;
incontraſtabil cagione. E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta
la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo,
il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne
fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da
maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate
diſami nate, e riprovate. Finalmente ſi conoſce, che non hanno gran coſa i
Greci in medicina adoperato; imperocchè les aveſfer qualche coſa di pro eglino
mai rinvenuto, certame te qualche veſtigio appo gli autori, chealle noſtre mani
so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella
fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata, e premuta,che par che d'altra
eſaminazione non le faccia più meſtiere. E ciò maggiormente, che dagli Arabi fu
maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del
cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato. Ma egli è in iſtato più
miſerevole la loro ſcuola, che dove alcunas volta Ippocrate, e Galieno non
dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono, ella ſconciamente gli abbandona. Nel
rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar
nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava
lor ſolamente aver letto, o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe,
che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca
favella, l'un ſemplice, e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in
iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe, emolte non inteſero; ma
gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura, fe di vantaggio qualche lor
ſogno non ci aveſſer frāmeſſo. Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi
ritrovati ve ne abbia forſe saluno, che a que' de Greci prevaglia., niente
dimeno nulla,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno,
ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero, per
cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape, le Mulſe, gli Offimeli ſem
plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con
graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi; con cioliecoſachè ſotto il doice del
zucchero,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua
morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo; ed egli oltre a ciò ab bonda il
zucchero d'una cotal tenacità oppilante, e perciò alle viſcere nocevole
oltremodo, e nimici; della quale il miele è affatto privo, mercè, che le apiil
rendon volatile, Ddd 2 é fottile, e penetrante e, quaſi ad una celeſtial
quinteffens za il riducono; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora,
poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne, che men acuto anche, e
mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta. Maſenza più diftendermi in queſto,
ayendovifaſtiditi pur troppo, lo fo quì fine al mio ragio mare. vele Icome al partir della fredda ſtagione,
dal grave peſo delle neviſgombra la terra, tutta lieta:, e feſteggiante
ringiovaniſce, e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e
ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte; e fiabe
belliſce: cosìparimente;o Signori,le ſcienze, e le più no bili artiscellati
ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano,
cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a
farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag
guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella,d'o, gni ſcienza
antichemadri, riſurte fiorivano; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben
parlare erano in ſu'l far frutto; ne l'Archițettura più, 12.Muſica,o la Pittura,
o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia
nel comun ſollevamento, in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe,
efgombinate dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque
finalme. te a colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi
levala 3 1 Ievaffer fuſo
alquantianimigrandi, e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom
mai immaginarſi, ch, avallar doveſſerola ſignoria di coloro, e la medicina, e
la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti
veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà; i quali
ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune; e ad op
porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti. Maggior gloria
certamente fu di coſtoro, i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua
impreſa, e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno:
che di coloro, i quali in prima ſetteggiando a lor talento, nel confuſo
rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor
libera a’lor ſentimenti; c. s'eglino, i quali riduſſero la medicina a qualche
più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione, ed i primi ri trovatori
di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono: che farà da dir
di coſtoro, i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto,e d'ogni
erbaccia purga to: anzi cotanto duro, e mafagevole, e ſpiuoſo il ritrova rono,
che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e
da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello
riporre. Ne ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna
coſtuma infra le rozze genti: quanto egli è du To, e quaſi impoſſibile, allor
che quelle già auſare viſono, e tutto che indurate,a far loro cambiar uſanza,
ericre derle, e ſgannarle de loro errori; perchè è da dire, ches molto maggior
vanto foſſe deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe
medeſimi in prima, e poi gli altri al diritto ſentiero: che non fu di coloro, i
quali non incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata, cpre ſcritta uſanza
da ſuperare. Ma ciò al preſente laſciando, trapaſſeremo a narrar
de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo il noſtro diviſamento; e diremo chente, e
quali ſiano le loro opinioni intorno alle coſe più ragguardevoli della me
dicina. Egli fembracertamente, che prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico, e
filoſofante Bafilio Valentino, monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi
nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli
Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi, e
in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e
manchevoliol tremodo d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a
riporre tutta loro ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola
natura: comcchè co ' falalli,e colle purgagioni, e con altriſconcj, e violenti
rimedi render la ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio
lenza del male. Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti
profittevoli a malati ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la
conpleſſione. E con ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe, e molto in
folver icorpi maſſimamente minerali affaticafléfi, diede egli cominciamento a
quel ſuo famoſiſſimo ſiſtema di medicina, chepoicompiuto,e perfezionato venne
da Teo fraſto Paracelſo. Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua
medicina que’tre principi, de'quali anche ſer veli il Paracelſo: çiò ſono zolfo,
ſale, e mercurio; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò,
che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi. Nel qualſuo
ſentimento certamente egli non poco falla, laſciandoli ſcioccamente menare alla
piena del folle vulgo in ſupporregli elementi; perciocchè ben doveva egli avvi
ſare, quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele, e di Galieno: e che
tutti loro argomenti, malimamente quel lo, che ſembra aver qualche ſembianza di
vero, cioè, che icorpi tutti in iſciogliendoſi, a quelli come aloro primi
componenti ritornino, ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo
ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui uſa. to qualche tempo nelle ſcuole in ciò
pur dovette abbaci narlo. Adunque egli giudica, che tutte coſe abbian lor
materia, e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione: e che
queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli elementi formata, e da’tre
principj ſolfo, fale, e mer curio prodotta, e perfezionata; ma pur.dice egli
una fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe; que, ſon fue parole,
exficcatione ignis, et aëris in terram formata eft. Oltre a ciò egli afferma,
in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi, i quali G
nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti
ſpiritila vir tù, e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta; ma come chè
queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada
ſcrivendo, pur ſi potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente, e con
ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in:
ciò, comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo, e
vano nel ſuo filoſofare. Perchè o colpa foſſe de'tempi, o altro, che il ſi
faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia, e che
con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe, avviſando ſottilmente i più
naſcoſi ſegreti della natura; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben
ſervire, che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e
gliefferci de vegetabi li, degli animali, e de'minerali procedono. Mapure egli,
come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati, e di
ſottiliffimi divifamenti la me dicina, e che ſaggiamente giudichi infra l'altre
coſe, che dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne
lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli
manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la, ne conſiglia, econforta a
riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento, e
dall'utile, che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có
figlio, ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla, quanto al fatto del
medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua
tunque belli, e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro, mercè la chimica
conoſciuti; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi
giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie
1 Ma poco, gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli
s'ingenerino, el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal
Paracelſo, ſe non compiutamente fornita, a grande ſtato condotta; av vegnachè
il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in quando
qualche profittevole ammae ſtramento; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto
cal lo, e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo, ſolo le fifle me dicine
approdar poſſano, ficome quelle, che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non
fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando, le quali toſto
diſcorrendo per le Atrade, non penetrano per fonghe, o per foſſati fin nelles
viſcere della terra. Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo, che Come d'affe
ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare; allegandonc
l'eſem plo del veleno, il quale non altrimenti che la calamita ſi faccia il
ferro, tragge, ed aſſorbiſce l'altro veleno; ed in veggendo egli, che l'acqua
arzente guariſce la Riſipola, immaginò, che il caldo di quella l'interior
calore di queſta attraeſe. Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno far con,
ghiettura, ch'egli entrato ne’valti regni della natura, qui vi poi li ſmarriſfe,
ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe; imperocchè s'egli ſi foſſe
dirittamente appoſto, avreb be detto, che ingenerandoſi la Riſipola
dall'acetoſità, gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino; il che
ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali volanti
ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente
rinvenire, e compornc tanti be veraggi, che vulnerarj ſon detri. Maciò, ch'è di
maggior conſiderazione, cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare (il che
forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura, e tutt'altre
proprietà di quelle particelle, onde i tre principj ſono formati, eco me, ed
onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto
felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere, come il ſuo Vulcano fia
conoſcitore, egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole, ficome
e'di Eec CC CON ce con quelle parole,
che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum
Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur, ignis ignem excitat,
commotione vehementi, et - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis
occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti, eper aërem accenditur, ita ut
verè, et efficaciter ardeat; fali maner: in cinere, &mercurius inde fe
proripit una cum ſulphure ardente. Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na
contezzadella naturadel fuoco,di cuipoteva informar ſi dalle continue
operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo,egli in
sifatramaniera none avreb be ragionato.. E ſe in cocal guiſa foſſe andato
confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi, NTOI farebbe
ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in
aceto. Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo, e poco
ſtabile;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento, ch'eglieb be del
noſtro corto intendimento, e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente
in filoſofando. Il perchè preſe ad eſclamare una fiata. Bone Deus !'natura à
nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus
conftitueris adeobreve, et cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in
creaturis; que non ſcientiæ, fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai
di venire a Teofraſto Paracelſo; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto,
dal Cortino, dal Riolano padre, e da altri famoſi Galieniſti calcata; i quali a
biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero, porgendo
giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam
intellectus; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle
s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni, che già più fortunatamente avea il
Paracelſo contro illoro Ariſtotele, e'llor Galicno adoperate: intorno a' quali
ſoleva il Para celſo dire, che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte
dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra; ma rimarrò ſolamente
pago di toccar pochiſſime coſe di mio talento, e ſpezialmente quelle, ſopra le
quali il di ftema tutto di lui vien piantato.. Lamedicina del Paracelſo,
quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto
più veriſimile dell'altre razionali fi paja, e che tanto ne' pro fondi miſteri
della natura innoltrata, e profondata lilia, cheminutamente ragguardar poſſa a
quelle minuzie, per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor
fano: ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni
menomillunaparticella diſtintamente Itacciare: coſa, la quale già tanto da
Galieno fu nella medicina fofpirata; e quantunque nel diviſarle cagioni,e la
natura delle målar tie, e diciù, ch'a quelle, ed all'economia degli animali
s'appartenga, valentiſſimo egli fia: edil ſuo autore abbia trovati, e
poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali
giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi; e quantınque alcuno dir
giuſtamen te vaglia, aver lui aſſai più di lume, e di vantaggio, e d'ui tile
recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro, che co® loro infiniti, e
voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori, così Greci, come Latini
inſieme s'ayefſer mai fac to; non però di meno chiunque con occhio filoſofico,
e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la
dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole, ed intralciata, e le ſue
saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella. E tutto ciò
certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere
ad intendiméto uma no, come di ſopra baſtantemente è detto; ed ancora per chè
il Paracelſo a tante, e sì diverſe, e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella
natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato, Che dal troppo
veder men'alto intende, tutto vinto, e tremolante più oltre non osò guatare:
ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto
inuoltrar fi dovea; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il montanaro, e
rimirando ammuta, Quando rozzo, e ſalvatico s'inurba. Perchènon men, cheGalieno
già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura
della corpo rea ſoſtanza, e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee
qualità: ene men inveſtigando onde avvenir poſfa, ch'elleno sì poco valevoli
ſiano nel corpo umano ad opera re, e cheniuna parte abbiano nelle gravi
inalattie; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac
cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno
a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò
alla natura, o alla proprietà, o a’modi del loro operare;ſenza le quali
contezze non può certamente, ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di
razional medicina in piè rizzarſi. Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente
ſcorger ſi poſſa, convien la coſaw più minutamente diſaminare. Queſta
grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare, che da Teofraſto Paracelſo venga in
due globi partita: uno al to, che due elementiin ſe contiene, ciò ſono il fuoco,
Paria: e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua, e
la terra. I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui
vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono
da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo
rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli,
chela luce, e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe
furono, allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe
le ſembianze, e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono,
varie, e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del
Paracelſo argomentare: i principi primi delle coſe fon di due inaniere;
perciocchè, o ſono principj propiamente tali, o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente
diconſi. Gli elementi ſono due, uno è fecco, il qual terra dannata, e cenere,
carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido, il qual flemmafi dice. La
terra dannata non ha virtù alcuna, ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come
dicono; e la flemma parimente al tro non adopera, che ammollare, e inumidire;
perchè ſon dette principi paſſivi. Ma non ſolamente la ficcità, e l'umidore,
giudica il Pa racelſo, che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma
quell'altre dire qualità ancora,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono,
dice egli ad altro non ſervire, fuor folamente, che a riſcaldare,o a
raffreddare; perchè da lui, tutte, e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire
ſeioperd te, e ozioſe; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale.
Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol,
che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo
affatto dal calore elementare. Perchè è da dire, che fecondamente chè giudica
il Paracelſo, le quattro volgari qualità altro non adoperino, che cccitare, e
riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente
tali, che attivi egli chiama; ſono anchetre, fecondo lui; ciò ſono il Sale, il
Solfo, e'l Mercurio. Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda, ſavorofa, la, qual
disfaſli, e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca, e li
raſſoda: e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo,
agevole ad accender fi. E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe: e per lo ſolfo
gli odori in quelle fpirano. Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo,
echiariſſimo, il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando,
agevolmente ſi diſperde, ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti
del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre, egenerare cia fcuna
coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza
de'corpi; e non potendoſi il fale meſcola re, s'egli in primanon li ſolve in
minutiſſime particelle, fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare. Ma la flemma
non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo; il
qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo: ſi age 406 Ragionamento
Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la
qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto, fonde il ſolfo, e maggiormente
disfallo, acciocchè poſla diſcorrere, e meſcolarſi acconciamente a formarle
coſe del mondo. Vien poiil mercurio, il quale a guiſa d'anima nel corpo, per
cutto penetra, e diſcorre; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi
fermo, e ben faldo cor po, ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia,
es’at trae la ſoverchia acqua, chesformatamentel'ammolla: per la qual terra
finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de
corpidivengono. Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che
diſtruggendofi qualunque corpo, in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva: e
contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in
altro giammai cambiarli, o folverſi: egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento, e
abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele, e di Galicno intorno a’loro priini
quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura
de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze, e non altre dice il Paracelſo eſſeri
veri principi delle core. Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal
di viſo del Paracelſo, non vo'ora opporgli, che y’abbia alcu ni corpi, i quali,
come affermal'Elmonte, e altri valoroſi maeſtri in Chimica, non ſi poſſano
maidisfare, o fciorre nelle loktanze da lui avviſate; ficome certamente è l'oro,
e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver
bene cotali corpi ſoluti; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero
artificio adoperare. Ne meno dirò, che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo
allor che disfannoſi i corpi: e che prima in quelli in niun modo alliguavano;
perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo
macerato nell'acqua, le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno
manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi
pare, era in priina nellegno: e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo
maccramento il ſale; anzi dirà il Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza
artificio alcuno, e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi,
ſicome nelle ſugne, e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non
ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge; per ciocchè in quello ſommamente
abbondano; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica, o ben
fati colo favorio di diligentemaeſtro; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi
tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente
ingenerato. Nepuò il fuoco, per direvole, e gagliardo, ch'egli fiaſi ciò
adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo,ne mer.
curio, ne fale non alligna, non ſi potrà per opera difuo co, orlalaro chimico
ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte, che
dall'arena; dalla ſelce, non maiſolfo, o mercurio ſi può trarre; per ciocchè
riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe,
e poche, che nel volerle diſa minare ſi difperdono. Ne recherò, che per far
pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo
ſale l'arene, e le pietre: le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla
del loro primjero peſo; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo,
edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi
pud per huomo avviſare; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi,
quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze, che ne
ſvaporano. Ne dirò pur coll'Elmonte, ſcambiarſi infra loid vicen devolmente
corali principj; conciofoſſecofa, che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato
aveſſe il ſale in olio, e l'o lio poi tramutato in acqua; perciocchè non così
agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede, fe pri ma con gli
occhj propj non l'aveſſe veduto. E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo
a quell'altra novella dell'Elmonte, ove egli vantaſi da ſedici once di gromma
di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua, due once, e mezza di
ſale, e dodici d'olio, perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo, che
l'olio ſi ſia nuovamente dal Cale acetoſo della gromma ingenerato;
conciofoſſecofa, che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe,ſarebbe
et a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e
molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo, e i ſuoi principj:
ficome quelli, a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe. Sola mente dirò, che
quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle
coſe; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò,ch
' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza
dellavorio, ſi rende quaſi egli impoſſibile; ſen zachè nello ſcioglimento delle
coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative
fa mestier, che ſvaporino, e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te; c
altre comechè pur virimangano, nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan
comprendere, non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra
qualunque altro argomento, che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello
ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar
certamente po tea, come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te, e
quelle, ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino,eco me operino, ſe pure il fanno;
ne è maraviglia, che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto: da che egli
non ſa qual ſia la lor natura; ne certamente ſaperla, anzine meno inveſtigarla
egli giammai poteva, non ſappiendo la natura della ſoſtanza,onde quelle
produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare, che la medicina del Paracelſo
manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe
ſtato in iſcienza, qual veramente giudicavaſi, dovea ben'egli in avviſando, che
co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe, prender
quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di
quellc, e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli; perciocchè ſe a ciò aveſſe
porav ventura egli indugiato; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie, e diverſe
figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi principj cagione; perchè
agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero: eche
non eglino, ma il corpo medeſimo in varie, e diverſe brice fgrecolatose
partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna
operazione di quelle prendeſſera dice, e cominciamento. Ma intorno alla maniera
dei medicare del Paracelſo, ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri, che ſotto
ſuo nome vanno, èda dire, chemolto vaga, e in coſtante ella ſi foſ fe, e di
pochiſſima fermezza. Il che altronde certamente non nacque, ſe non fe
dall'avvederſi, ch'egli fe in medicão do, dell'incertezza grande dell'arte; non
però di meno egli pur convien confeffare, niuno,per quel che ſi ſappia, aver
avuto corante, e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più
pertinaci, e diſperate malattie, quanto il Paracelſo; e sì ſaggiamente ſeppele
egli a tempo adope rare, che non fu certamente infra gli antichi medico co
tanto valoroſo, e avveduto, ch'a molto ſpazio, così nell' uno, come nell'altro
non gliandaſic dietro. Perchè in tā to pregio, e rinomèa montonne egli preſſo
le genti, che non huomo mortale tanto, o quanto della medicina cono ſciuto,ma
non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente
giudicavanlo. Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di,
ancorachè alcuni di loro per uggia, e mal talento con biechi occhj il
guardaſſero. Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della
Germania folea chia marlo, così di luifcrive: creditur habuiſse præftantiffimum
illud vellus aureum, quod Iafon apud Colchos conquifivit: (Intelligunt me qui
Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit; ande magietiam opinionem apud
quofdam cele bres viros, quod magis miror, eft confequutus. E prima dello
Spondano, Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno, e di lui per invidia
inimico, pur dalla verità ſtret to ebbe a dire: audio multos paffim ab eo in
morbis deſpera tis curatos: et ulcera maligna ab eo feliciter ſanata. E al
trove egli n'avea detto: Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR (nondubito.quin hoc nomen magis
fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis
qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus, perva. gatus magnam
Orbispartem: chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus
omnium, ita utper eam metalla immutaret. E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo
Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus
introivit, metallorum, ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii
acumine exploravit,acper vidit, ad morbos defperatosi, et hominum opinione
infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque.
videatur. Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in
medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta, e la dottiſſima Accademia
di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove
ragguardevol molto, e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone
il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice: Apud Germanos:
nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert:doctioremme
legiſememor non ſum.. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum
ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum: din univerſa philofophia tàm
ardur, tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem: lepra, podagra,
hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: "idie
per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma
diligentia, magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină,quam non ex
Hippocrate, fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego
de Theopbralo pre clarèfentio: admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel
ligat, et quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo
famigliare, per veduta anche di lui racco ta: pari induſtria novi ipſum
leprofos, bydropicos, e pilepti cos, podagricos, morbo venereo infectos,
aliofque innume ros infirmos gratis fanare. Id quod Galenici Doctores non fine
notabili dedecore non potuerunt imitari; unde in magnum apud
quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera
appunto, ove fraſtorna to dagli emuli dilui, e fommoſſoanch'egli in truppa, a
rabbioſa monte mälmenarlo, infra le tante, e tantc menzogne, e cacce, che per
isfregiarlo farnesicando ſi fogna (del che gravemente poi pencilſı, ſicomene
narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare, che apertamente talvolta
non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico, aver prontamentetra
le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem,
felicitatem, Quindi di luinarrando foggiugne, che in curandis vulne ribus,
etiam deploratiffimis miracula edidit, nulla victus præfcripta, aut obſervata
ratione. E de'ſuoi mirabili, e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo,
dice, ita gloriabatur, ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis
vivas reddere pole; idque aliquoties, dum apud ipfum fui, ipfe declaravir.
Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza, che fe del le maraviglioſe cure
del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo
altamente anorato in vita, e faccigli in morte famofiflimi eſcqui: volle, che
nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto;
Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa
vulnera Lepram,podagram,Hydropem, aliaque infanabilia corporis.contagia,
mirifica arte fubftulis, ac bona fua in pauperesdiftribuenda, callosandaque
curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina
del Paracelſo, comeche delle men nobiliel la li fia, alla contezza noſtra
pervenuta; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere
nelle ſue opere. Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan
Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo, ebbe a dio re eller quelle così rare, e
prezioſe, che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne
avelle egli riportato. Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2
racclſo in medicina, qual noiraccontato abbiamo; non però di meno non ſempre ſi
veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire: e ciò maggiormente teſtimonia
la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita, cioè a
dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento
niuno fchermire: comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura
ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea
detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur. Che ſe'l maggior
medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato, e adoperarsì
co'ſuoi valevoli, co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi
ri ſerbaſſe, che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na, attenendoci a
rimedjdeboli, eſpoſſati, per falvainen to delle noſtre vite? Ma egli
ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte, che pur troppo avveduto
ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in
baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto; perciocchè da
quellola vita, e la morte noſtra de pende; quod autem, dice egli, parlando
dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine, tum his atentes perfæpè à fa
talibusgravius vexentur, &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura
adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet, ut inde diſcamus nimis
obftixatam de hac fragili vita fiduciam,ac fpem deponere. Etfi enim nocentia
fimul omnia, &medicinarum fimulomnium virtutes, morbo rum genuinascaufas;
ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen
hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè, ftatum formum omnem
deftruit; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus, ſed fatali bus
caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum
mortalesfaciani, noftraque molimina infrin, gant, et providentiam noftram, ac
confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne
poſſiamo, che comechè egli valentiſſimo medico, e filorow fante ftato foſſe,
pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono; cotanto piatto,
e imbacuccato tant. egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti,ch'a ben rugumargli malage
voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono. Eoche foſſe ſtata invidia
aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci, o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe,dique'ſuoi
maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi, pochi egli ne
volle inſe gnare:. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe, che ben ne
laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia;
de'quali egli medeſimo favellanda, dice: in quibus afsequendis paucisfimi
fcopum contingent., Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono,
togliendo in cambiouna coſa per altra, e sì con quelli pig giorando gl'infermi
delle loro malattie, e ſovente anche uccidendogli. Vuole egli, che ciaſcuna
malattia, toltenc quelle, che richiedono la mano del medico per dover curarſi,
e quelle ancora, che dalle ſole qualità relolacce avvengono, le quali ſenza
argomento alcuno d'arte ſi guariſcono, dalle impurità ſemplici del ſale, o del
mercurio, o del ſolfo, o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe
s'ingeneri no. Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe
noi non ſappiamo, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro, ne
anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano,
accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo. Le
medicine, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale, ch'è da curare;
perciocchè quantunque ognun fappia, che le malattie fian contrarie alla ſanità
delle gen ti, e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor
natura; non però di meno le medicine, le quali G convengono alle malattie eſſer
debbono pure della mede fima lor generazione; perciocchè altrimenti mala
pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità. Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo
aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie, così dica: caveat itaque
medicus ne arbores duas in unams curam inferat:fed teneat regulas,morbis
mercurialibus dan dum ejſe mercurium: morbis falinis,falem:morbisfulphureis,
ſulphur; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit. Ma in
buona fe, che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie?
Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo: igroravit bonus
ille vir, quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita. Ne
ciò è ſempre vero, che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti
penetrare, cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet
fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum; perciocchè avviſiamo noi
tutto giorno in molte, e molte coſe il contrario avvenire. Ele pur talvolta
incontra, che s'accozzino, certamente per al tracagione egli
s'adoperajāzicotáto ciò è falſo,che per co trario alcuno dir potrebbe più p
diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi
ſono, i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono;nei corpi ſpea rali, o
ritondi, comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo
convenirſi: avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo
seno il Paracel fo:Scorpio ſcorpionem curat, realgar ſuŭ realgar, mercurius
fuummercurium, meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente
cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello, che egli va diviſando;
perciocchè, per ta cer dell'altre coſe, nello ſcorpione i pori auſati per lungo
tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno, e acconcj anche a riceverlo, più
agevolmente il ricevono dalla ferita, ch'egli fa nella carne d'alcuno, che non
poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella; perchè movendo per la
forme tazione le particelle delveleno nella fcrita, volentiericol loro
diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi
ritornano. E queſte ſono le con tezze,che deve avere il medico avveduto per
doverpren. der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le
ſomiglianze, o altre fraſche, le quali agevolmente poſ fono ingannarlo, e
mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a'
mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma, e colla terra dannata, e
altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la
ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato
ſalutevole del primiero vigore riporgli? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola
del Pa. racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da
ſeguire in medicando; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte
di ſale, o di mercurio, o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali
l'infermo, feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi, ch'a
ciò il conduffero. Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle
particelle, che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali
l'amaritudine nel ſal della coloquintida, ſc ragionevolmente egli proceder vuo
Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale, come è
coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio, non facea
meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe, ne'curar di vene łatice, o
di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo, o della circulazion del ſangueso dal
tri, e d'altrimoderniritrovati: comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver
parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate. E cócioſliecofachè l'univerfal
medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione, o ad altra coſa del mondo,
igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a
si fåtte fraſche foſſelli: attenuto, ſe egli diquella erisì ben fornito;
perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò
valevole a invi gorirlo, e ajutario sì fattamente, ch'egline ſolva, vinci, e
diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte
prendon dirivo. Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale
ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta, e participan te della natura
celeſtiale: onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile; adunque corale
eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj,
acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa. Ma certamente non che il
Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai, anzie egli 416 Ragionamento
Seſto egli fola il creder, che quella ci ſia, o pofla mai eſſere:av: vegna pure,
chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte, e
diverſe generazioni di graviſ fime malattie. Ma egli tante,e tante ſortidi
medicine ado però nelle ſue cure, e argomentoffi dicomporre, e lavora te con
ſuo gran biſtento, e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non
s'avrebbe dovuto, ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe;
ſenzachèegli, ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe, e menovili, ſarebbe
fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo
anzi tempo morilli, e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua
vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato, no
avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore, e della vir tù della
ſua univerſal medicina. Ne meno egli certamente detto avrebbe, che l'huomo per
la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie,
cche i caratteri, e le immagini ſcolpite nelle piaſtre, e porta te adoſſo
poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle; ne
farebbeli follemente ſognato, che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli,
ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini, e ſi fonda: onde poi mettan fuora varie,
e diver fe forte di malattie: e che'l ſale, e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi
diſtillino, fi ſublimino, e ficalcinino cagionando le malattie: è che'l
mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione
delle ſubitane morti, e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo
all'univer fo, e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte: e che i tre
principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano, quante ci ha coſe
create: e tante, e tant'altre ciuffo le, e aggiramenti, che ſe tutti fil filo
gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo. E tutto ciò a lui
avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto
ſciocco, qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle
da' ſuoi malevoli per uggia, c per diſpetto cosìdiſguiſate, e travolte furo no
con torne alcune ſentenze per entro, e altrs, o ſciocche, o fanciulleſche, o
empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un
tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue, licome
il medeſimo Oporino, che così fellonoſamente rubbellogli ſi, manifeſtamente
rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle
d'accoccaglierla, c dir glicne male; ſenzachè manifeſta coſa è, che quelle, che
ragionevolmente ſon da credere opere ſue, vennero perla più parte ſolamente
dalai diſegnate, ne più poi per innan zi rivedute; perciocchè egli dal ſuo
focoſo, e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar
le coſe, e quali dal profondo della natura cavarle, con in tendimento poi di
più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare,.e diſaminare, per poter
metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che
im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto, s'a ciò tempo
aveſſe avuto; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i
ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli; perchè rotto a mezzo
della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco, e diviſato rimaſe, qualnoi veggiamo. Ed
è anche opinione d'alcuni, che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti
de'ſuoi ſcolari; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi
ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi; e quelli poi gli cópilavano in
iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio,e molte non ben copreſe
travolgendo a lor talen to in tutt'altro, cheegli li voleva dire. E ciò tanto
più ne ſi fa manifeſto, quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue
coſe ſon ripetite, ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte; anzi dal
loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da
perſone diciò poco, o nulla intendenti, così confuſe, c inviluppate di vennero,
che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne, iveri ſentiméti dell'Autore; col
qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza, ch'egli a bello ſtudio argomentolli
frapporvi, certamente oſcuriſſimi, e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono;
conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piatto, e imbaccuccato
ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della
natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente, e con lunga fatica agli
huomini dotti, e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla
minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli
animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli
altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice: ne Eleufina ſacra.profanè
Viiverſi pro fituerent: gnarus, id factiraſse Egyptias, et Pythago ne affeclas
ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno
alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali
ſe vier mai quella priva, poco men, che come corpo morto ſenza vita rimane: non
può certamente eſſere ne filoſofo, nemedico valoroſo colui che non ſappia
appieno ciò,che dellecoſe della natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato..
Fra Tomaſſo Campanella, comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero
filoſofante e' ſi foſſe, pur sì fattamente tratto tratto favella delle cofe
naturali, cheben ne da.aw divedere quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar
quegli errori', ove gli altri incorli ſono, che il ritrovar la verità.
Nocquegli più che altro ſommaméte in ben filoſofare nel
lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle opinionidel Teleſio
ſuo maeſtro, per tacer della ſtrologia, e d'altre vane ciurmerie,c.indovinelli,
ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi; e l'averfi dato follemente a credere,
che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente immagi nati abbian parte
nelle cofe della natura; perchè non è da maravigliare ſe'l ſiſtema della
medicina, dalui fabbri cato, manchevole oltremodo, e difettuoſo riuſciffe. Al
la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui eſercitato gianmai cotal
meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo; perciocchè aflai per avventura
ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova ſperimentato aveſſero i lor
diviſamenti. Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to
conoſciuto di nocomia; perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e
aggiramenti, dicendo il fegato efferfonte, c origine del ſangue e la milza del
fiele: e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli, cor Jan
guinis jecur,fplen fellis, et alia aliorum; omnia autemiſta cerebrocauſsam
habent;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur, ubi et ftipitem
amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia, d originis.
Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi
me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno:
Quid horum eft, quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis
etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep
pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo
appararc, che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza; la quale ſpirito
appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo, e col movimento all'altre
membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente
favelli..: Ma che direm nai del fiſtema di lui, della nuova arte di
medicare,ch'egli ne compone? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente,
e'/freddo effer primi principj di tutte co fe, i quali egli chiamaagenti: e
l'umidità, e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia, ceffetti
di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da: e ſi
rondafecca, ingroffata dal freddo. Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor
folamente che col caldo: nè'l ſecco con altro, che col freddo; perciocchè
ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo: 04 fecco col caldo, dice eghi, che
ſarebbon da quelli toſto diſtrutti. Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione
dell'umido.: e'l freddo del ſecco; perciocchè il caldo ſolve le coſe, e le
allarga, e l'aſſorti glia: e'l freddo per contrario le indura, le ſtrigne, e le
co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze, o for me eſſenziali,
de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo, c la Terra; perchè anche
due, e non quattro vuo Ggg 2 fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme
dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente,
non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è,chc
dice egli eſſer: altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto
delle colc; daʼqualivuol egli, che prenda dirivo ciaſcunas operazione la
qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce. E
queſti principj incorporei, o primalità, ch'egli chiama, vuol egli, cheſiano
lapotenza, la ſapienza, e l'amore; onde ciaſcuna coſa voglia, poffaw, e
conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione.
Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura,non fa
meſtier, ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non
ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura, ma altre, e altre coſe diver
filime da quelle; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo, e
del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi, non che
dichiarare, fe quelli vera mente operino, e come; imperciocchè ſovente
egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare; poichè egli
medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro; perchè
manifeſtamente s'avviſa, che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la
ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele: e grandiſſimo
tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe; perchè
poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più; prendendo egli
in cambio della mido il diſcorrente, che è ſuo genere, e non iſpiegando la
natura di quello, ne del ſecco, o del dolce,, o dell'amaro, o di tuce'altre
ſenſibili qualitadi. Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni
de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun, che riguardiall'acqua, che per lo
freddo congelata fi rarifica, agevolmente ſi può avviſare, che non feiapre il
freddo condenſi le coſe. Mache è ciò ch'egli di ce, che le coſe inanimate
abbian ſenſo certamente a ciò credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne
egli,ne il Tea lefio, ne l'Elmente,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono.
Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità, c'huom finte da lui
non le creda, e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore;
perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen
fibili dell'univerſo,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni, che da lor
procedere tutto dinoi veggiamo. Ma per darci ad intendere, che le coſe tutte
abbian ſenſo, do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni,
i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella,che l'huomo ſi
componga del fal do, dell'umido, dello ſpirito, e dell'anima; e che la ſal
dezza dalla denſità naſca, e queſta dallo ſpeſſo, e fulto ac eozzamento delle
parti ſi componga; perchè dice egli, che le coſe condenſe, e falde, sì
attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al
toccamento,e fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio
di parti;e per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute, dice eglieffer
la ſpiritualità: la qual non che reſiſta al toccamento, anziella dileguiſ
immantinente,e fugge da ognjintoppo. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti
operar faldamé te per l'unione non già corporale, ma ſicomeeglichiama,
affettiva:dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene,
riſcuotonſi quelli, e combattendo diſcacciano ciò, cheloro è d'impedimento.
Soggiugne il Campanella, ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per
dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe, e per non dover ſeccarſi,
erõperſi:e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo, o di ri
cetto, che loro dia luogo,e le ſoſtenga. Ma agli ſpiriti,di ec egli, far luogo
le parti umide,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino: e le falde
ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino, e non ſi portin via; e per con
trario l'umore abbiſognare dello ſpirito, acciocchè quello premendo il cibo, e
traendone il fucco, il formi: e ſomi gliante, acciocchè per quello ſi riſcaldi,
e diſcorra; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito, acciocchè per quello ſo
ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che
l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito, acciocchè per opera di quello
itu dioſamente muova il corpo, e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda;
perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo
dello Ipirito: dalle cui paflioni ella vien rattenuta, o reſa prontaalle ſue
ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in
quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle
ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel
reggimen to delcorpo. Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia
l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte, maggior capital facendo
degli agj propj di ſe, e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque
dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti; che
le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan
fuora: le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma
quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema, e rintuzzare
il diviſamento del Campanella? Egli non ha dubbio veruno, che nella maggior
parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani, e trafandi,che ſenza
ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma
s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina, conveniva in prima
molto bene la natura del corpo inveſtigare, e di ciò che a quello avvenir poffa:
ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in
quella piſtola,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual
coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti,
emolci errori di Galieno, e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe: pure per
manchezza non poco danno gliene ſeguì; perciocchè egli così poco acconciamente
della natura del le malattie, e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel
le imprende a ragionare, che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato, e carminato da
tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa:
ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow
febbre: ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El, monte da lui tolia
l'aveſſe; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo; ma ad amcnduc n'avez
dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io
la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la: Febris, dice egli, eft
fpontanea.extraordinaria fpiritas agitatio, inflammatioque ad pugnam contra
irritantem mora bificam cauſam: quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red
ditque expulfioniapsan, vel extinétioni', velmeliorationi. Macomechè la febbre
tutto ciò faceffe, nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è
ella cert2; mente da dir malattia; ſenzachè Io non ſolo, come lo ſpi rito poſſa
aver ſentimenti: e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe, quando gli metra
bene, riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta, e gli
reca in toppoalle ſue operazioni. Cofia, la quale delcervellodel Campanella
fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti,
eglivuole,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente
talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga; e alcuna fiata gli uni,ė gli
altri meſcolando compor fi convenga, acciocchè il foa migliante appiccandoſi
alfomiglianteaſe l'attragga;quin. di il contrario combatrendolo il difçacci.
Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta, che ne vuol far Calandrinis
dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone: fiquidem,
dice, Sapone ex oleo, cinere, da calces confefto maculas olei ex panno
extrabimus: oleo invitantej oleum, et alliciente: cinere, calce fimul
expellentibus, Quare, ſoggiugne poi, maculas vini ex calce, di vino fa. pone
confecto educes; fihanc nofti magiam. Ma doveva av viſar pure il Campanella,
non già per la fomiglianza, che pulla opera, l'olio con l'olio fi meſcola, el
vino col vino; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura, e per la
diſpoſizione delle loro particel le; e doveva egli pure inveftigar la cagione,
per la quale la cenere, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco. come
egli dice, dall´altro olio, quello ne portin via; per-. ciocchè ſe a ciò egli
badato avrebbe, ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere,
che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli, i qualiſe mai loro ven
gono colti, la calcina, ne la cenere, ne anche il ſapone, che di lor fi lavora,
non ſaranno d'efficacia alcuna; ſenza. chè fe per fomiglianza è, che l'olio del
ſapone attragga l'olio dalle veſti, e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli, e dia
vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de'
panni lini, che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza
avrà egli il bucato con quelle: 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer
tamente non altra, che quella,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa, o
l'erpice, elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol
preſcrive re purgativa medicina, ineſcolar ſi debbano talora i ſimili
co’contrarj, appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili
ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino. E
quinci, dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della
vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga, e dagli aromati
poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio, chi non ſa, o chinon ha per pruova
avviſato,che la carne della vipera non ſia veleno? Perchè falſo, e vano eſſendo
affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come, e
quando de ſomiglianti,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle
malattie ſervir nc convengu: a'conſigli di lui certamente in niun modo attener
nedob biamo, fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire.
Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti, che per tacer
d'altri falli in ciò da lui preſi,dif ſe egli, che le coſe fredde non ſi
convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti; e pure il
caltoreo, il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel
folto, che cagiona il letargo, avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora, che
l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia. Mapiù ſconciamente egli
trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in
quella ricetta, in cui colui dice, che ſi tragga il mercurio dell'argento, e
che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover
lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi
è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa
degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit,
cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia
fimulnaturarum. Ma comechè in molte, e molte coſe, ficome accennato abbiamo
falli il ſiſtema del Campanella, e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato;
impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina; perciocchè
può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare; eſſendo nel
vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi, che la noſtra Italia,
e'l noſtro ſecolo ab. bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della
debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla,
e mandarla al ſuolo; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate
ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele, e di Galieno, e
diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti
ad accattar contezze di buona medicina; ma non gli venne cotanto fatto, chenon
deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori, giudicando follemente in
prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti; quindi in tanti, e sì
grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad
unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il
Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves: cioè a dire, che il mondo picciolo
ritenga in fer tutte le parti, e tutte l'apparenze, che nel mondo grande ſi
veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbolando
s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo
ſiſtema di medicina propio di ſe, filoſofandoora col Paracelſo, e ora con Ga
lieno, avviluppa il tutto, e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal
note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina
diGiovan Battiſta Elmonte; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne
paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui
edifici,che in fondare, e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e
molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria
d'arricchir la medicina. Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili
dell'univerſo, appo l'Elmonte,è l'ac qua, non intervenendo nella compoſizione
de'corpi miſti altramente l'aria, ne il fuoco, come quello, che non è ſo ftanża,
ne accidente, ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione,
con dire, che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale
căbiar fi; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua
d'altrettanto peſo ridurſi. Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer
ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio, e'l
ſolfo,i quali da quel la per natura', e per arte ſeparare giammai non ſi
ponno;ne ſono veramente ſale, folfo, e mercurio, come tali da eſſo appellati,
per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc
egli però, che l'acqua di ſolfo, di fale, e di mercurio coinpoſta venga. Ma che
che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente, che l'Elmonte non manifeftis pūto,
come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi; ne fpiega di
qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion, che da principio diede A le coſe
create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc
cata, conforta, e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica:
così di quella dicendo, Quis unquam mortalium novit quid fit aqua? qua tamen
creatorum eft maximè obvia, aperta,viſibilis,atranslucida? tantum enim de ea
fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt
per obſervationem fenfuum: quod fit.corpusgrave, liquidum, humidum,digitocedens,
fluidum, amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum,attenuabia le in
vaporem:nemo tamē novit internam aquaquidditatem, vel quare liquida
fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente
dell'acqua; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei
quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile, e laudevol titolo di
filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe; im
perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto,e
meſcolato d'atto, e di potenza, ei freddo, e umido, ne ſpiegundo poi qual ſia
l'atto, per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe, che acqua
non ſono, e in che conſiſta la potenza, e come ſi maturi nell'atto, e venga a
perfezione, sì che acqua, se non altra coſa più coſto quella divenga: ne
diviſando, che coſa las freddezza fia, ed onde avvegna il diſcorrimento, ne per
qualcagione alcuni de'corpi liquidi, e corſoj, umoroſi an. cor ſiano, ed altri
no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua, ne più di ciò
che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia. Ma fe l’Elmonte
aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi
mnaraviglioſi avanzi del le divine opere, ch'ancor fi riſerbano di Democrito, o
al diviſar degli altribuoni filoſofanti: o pur s'egli, ficome conveniva, dagli
effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle
ſottilmente ſtudiato ſifoffe: o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto
mente: Io ſon ben certo, che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non
avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella,la
cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato
avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento, a
queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la
natura di quella. E certamente in ciò, che ſi apro Hhh 2 no, e ſi fendono
agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in
ogni tempo ſon pene trabili: e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer
liberamente per tutto: e dal riempiere gli ſpazj, e adattarſi agevolme te alla
figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor
ſolamente quella, che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli
lafciano, vien preſcritta: e dall'avviſare, che ogni particella loro
participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia:
ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di
menome particelle, i1f ſenſibili, e tra eſſo loro in atto partite, e fpiccate
per un.. cotal movimento continuo, che non mai le laſcia appicca re, e
congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva
di poter la natura dell'acqua apparare, e si riparare all'ignoranza, ch'egli di
se medeſi mo ne confeffa; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo
diſcorrente, egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome, e inſenſibili
particelle, le quali sì fattamente fixo no accozzate,eammaſſate inſieme, che
ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa: avvegnachè in atto elle ſiano fe
parate, e partite,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano, ne meno per
alcuno de’loro lati: e ſeguentemente continuo ſi muovano. E ſcorto egli avrebbe
altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo; concioffiecofa chè
l'acque, comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di
meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già
ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l
movimento, checosì l'acqua ſciolta ritiene, abbia le par cicelle ſue, o da ſe
medeſimo, o altronde che dal caldo a: quelle comunicate;: perciocchè l'acqua,
almeno perquel che noi avviſiamo, cede cheta al toccamento, e da luo go a ’
ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere: e di lataſi a'raggi della luce:
e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la
ſomiglianza, che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati: avve
gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del
guſto, convengano eſſer diverſamente foggiati; i quali corpi penetrando per mezzo
effe particel le, ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure
ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano,
intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle
faline allogare. E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti,
e or dinari ſono, che agevolmente per entro, e ſenza niun rite gno diſcorrer vi
poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua,
avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti,
ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano, i quali tanto, o quanto fier poroſi: e
che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro, c talotta anche
in parte, o in tutto gli ſolvano; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer
umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo, e molo le; non
però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè
dipoco momento elia fia:non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e
talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli
comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti
cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali
coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar
gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle, ficome ferono già ne’primi
tempi Pittagora, Timco, Platone, altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0
pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha
cilindrica, e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le: 0 ficome
l'incomparabil filoſofante Gio: Alfonſo Bor relli, il qual.cosi'ne favella:
lanugo quedam tenuis, &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum, ſcilicet
concipide bet interna, et individua qualibet aquæparticula, ſolidad's &dura:
cujus figura octaedra. E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle
dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro, o almeno poco diſſomiglianci; la
qual forma loro, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto
malagevole, che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare; ne fino
a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto, ne mai, per quanto Io poſſa
comprendere, certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi
tramuti. E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che
non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque
ingiu ria ella ſi eſponga., o di caldo, o di freddo,o di altra imma ginabile
qualità; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella, che ella in agghiacciando
riceve, o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta, e all'Elmonte
ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua, ma il ſito
ſolamente, e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole, l'acqua
racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente, come ſi dice, ſuggellata das
Criſtofano Clavio, la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della
Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale
mutata; e altre acque ancora per più,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon
mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo; perchè ſen za fallo è da
dire eſſer quelle di tempera dura, emalage vole aſſai a ſolverſi,
dall'onnipotente facitore da prima fabbricate: Adunqueragionevolmente può dirſi
dell’El. monte, che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino
alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare, il medeſimo
all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito
era: che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder
conveniva,quivi tralandındo,più, ch'altrove ſerrati gli aveſſe; ed avvegnachè
di ſottiliſimo intendimento, emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato
al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come
ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce, quando il caldo ha roſe Le
temperanze de'vapori Speli: c firta e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de
curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente,ch'alta vena preme foverchiando il
letto, ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe. E quinci
certamente viene, che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata
ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno,cheGalieno fi aveſſe fatto; ne di ciò
pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del
ſuo cervello:altri ne toglic in preſto dal Paracel fo, come gli Archei, i Blas',
i Magnali;e quelFormento, il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole, eft ens
creatum form male, quod neque fubftantia, neque accidensfed, neutrum » per
motum lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue
monarchia, ut femina preparet;exiſtat, a precedat; con che', e con altre molte
fue fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico, da apertamente a
divedere l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro, di cui tutto di nuove, c
nuove maraviglie egli ſcopriva,main un mon do da lui immaginato filoſofava.
Tanto, e tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le, ch'egli traſcurò
la morta, ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto; perchè
alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i
qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili, e manifeſte
alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ', che forſe non abbia tutto il torto a
morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio, quando così di lui diſſe; hic auctor,
utu eunque acerrimi ingenii,in eo fuitminus felix, quod.veteri placitis
rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis,
demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla
maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina,
certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia
addietro. Per ciocchè oltre alla contezza delle buone, e valevoli medi cine,,
ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli vanraggioſli negli
ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu, ch'avviſando i graviflimi
danni, che per li ſalaſſi, e per.le purgagionipoſſono intervenire: e'l veleno,
che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu, e così ritroſo
d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario, comechè Galieniſta ', baud
paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit. Ne laſcioſſi in ciò menare
alla piena del ſecolo,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo, che non aveffe
egli ſolamente intefo quelle medicine, operare, le quali ſenza recar moleftia,
o noja alcuna allo in. fermo, fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per
chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi,
e pericoloſe malattie, che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne
ſommamente commendato, e quaſia miracolo tenuto. Così infra gli altri Andrea
Cellario in facendo parole di lui, e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo
Atlante celeſte, Chymicarum, dice, operationum adjumento admiranda hatte nus
præftiterunt, ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana
penetrantibus arêtius, altius fe infinuantibus, et remediis à natura productis
cedere ne Sciis, primas terent, &vulgaria medicamina longe ſuperăta E per
tacer di Daniello Orftio, Nicolò Franchimorc famo fillimo maeſtro
infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata
all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis,
ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non
exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici
d'orrevolmente commendarnelo, ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per
tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio, che nó ſi veg
gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo. Ma cotantielo gj pur nulla fono in
riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro
ſecolo, ciò ſono il Gallen do, elBoile, ed altrimolci di non poco pregio. Ma
doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello, che niuna delle ſue
nobili, e prezioſe incdicinema 1 wifeſtar ci abbia voluto, e quancunque
ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo; non do vea
pure egli, che sì corteſe, umano, e compallionevole dell'altrui miſerie
unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa, che di tanto pro era al mondo
rutro,dovea diftos lui, lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura
parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così
parimente avrebbon fatto delle ſues medicine. Ma ſe egli più lungamente
l'Elmonte viſſuto foſſe, con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera,
ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe, avrebbes forſe di sì fátti
medicamenti alquanto più apertamente fas vellato, Ma affai più tardi certamente
di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a
dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional
medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire
in oroi più vili metalli conſu. mò lungo tempo, ed appreſſo trapaſsò ben ſei
luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa, ſenza alcun fruta to
mai ritrarne; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo
medicina, chevalevole a domarfolie le malattie; e quantunque egli dì, e norte
ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu
daveri aperti d'huomini, e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti, e le
materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de'
putridi umori, ne in parte veruna di ſano, o d'inferm'huomo, o la collera, o la
flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per
partito, di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo
metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando; e poi i ſuoitrovati al
giudicio de'fa vj, e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do:
Si rationes mea, cu experientia non optimę videan tur, trutinentur,
&ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere
videanturrejiciantur omnino, Celia minentur prorſus à fcholis: quod fi vero
probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni.
amplexabuntur,tutabuntur. Primieramente avviſa il Fabbrila materia, onde fon le
Senſibilicoſeformate efferpalpabile, viſibile, e falda na giddiſtinguerſi dalla
forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ, virtùnella
materia,laquale poits chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei,come dalla ſua cagio
nel'effetto. Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si
fatca guiſa piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon
terminepervenu po: ma egli appenamefſoli in camino, ſmarrì il diritto fen:
tiero.. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale
dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga: e
credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della
priina mate ria cosiofcuramente favella. Vuoldivantaggio egli, chę tutte le
coſe, omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto
oleremodo, e diſcorrente, di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte
l'operazioni della vita, e tutte quelle coſe avvengano, che ſi oſſervano
nellemalattie. Queſto ſpirito, dic' egli, che nel fegato e alquantogre /fo: ma
più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello; naſcere:ad un parto colfeme,
e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce, la quale ſecondo lui
èlau farma eſſenzialc, non ſolo dello ſpirito, ma di tutt'altres coſe del mondo...
Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce',
e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e
ſecondo più, o meno, che lo spirito participidella luce, tanto più, o me,
noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga, Immaginaancora
ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito, e che lo ſpirito
poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver,
reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di
contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere, che
ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi
coſto della lorvanica. E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri
yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici:
marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder
tāto del lor valore, che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate. Or
quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe
il Fabbris imperocchè tralaſcian, doda parte tutt'altre mal fatte fue cure:
nella peripneu. monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi
ſangueallo infermo, c poi collc viole; e collo fpiri to del vitriolos o con
altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo, che collo ſpirito
della vita di foverchio nc'polmoni ribolla: ed il feguente giorno
coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito, acciocchè con tal move mento
venga ad aprirli alcunapoftema, ove vi ſia. Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate
colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe
più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè
altrove confeſſa, che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga
del Toro,e'lſangue dell'Irco. E certamente dagli acetoſi medicamenti, che altro
maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro, che di pe ripneumonia
patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera; e
oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto
fpof fáto, e fievole per l'antecedente falaſſo, qualpro ſe nepos trebbe per lui
fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo
giammai attendere? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri, allorche dall'Elmonte ay
viſato,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes:
MirorParifienfium medicorumpertinacitatem, curationem febrium, et ferèmorborum
omnium in fanguinismisſione lar. ga, ocopiofa collocantium: cum fepe fæpius
caulja moru. borum, et potisfimumfebrium tam continuarum, intermite sentium non
refedeat in fanguine, imovirtus s proprietas: lii curana curandi morborum omniü
in fanguine collocetur,cum arcbeūs visalis fanitatis economus, et morborum
amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata,dlarga manu effufo effundan, tur
etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur, di diffunduntur,
&perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit, do curatio
etiam morborum omniū, que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius
fubfc quaturmors; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro
bere gol fi foſſe,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri, e quanto malagevole; c
dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza
concette, e per vere al. cun tempoi fermamente credute; il che nella ſtoria
della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge;nella quale fto ria, e nel
divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper
avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi; maciò traſändando,
quanto al ſuo liſte maſo replicherò, licome poco addietro accennava, che troppo
vacillante, e caduco e'fia,eche il Fabbri poco, o niente non badando ad
inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a rimanerſene
fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione. - Ma la SignoraD.
Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro, l'ordine de'tempi (erbando,
far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori
de’mueſtri, e delle dottrine già da loro imbevute: pur tanto non potè ella
dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta
entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora
incorrere; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri
razionali, è manchevole, e difertuofa; edan co tale ventura certamente le
avvenne, per non aver ellow avuta cortezza della chimica.Ma nocquenon poco
a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel, che fi dovea,preſtata... credenza
alle parole di Platone; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada
della vera filofofia. Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta
pianta, le cui radici fian nel cervello, onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n
vada il tronco, i rami, è tutto il ri manence a mutrire, tal ſugo bianco vuol
che ſia freddo, umido; mache nel fegato facendoſi roſſo: caldo, e umido
altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue, in caldo, e
fecco fi muri. Il calor del cuore crede ela la, che ſerva all'huomo, come it
caldo del ſole alle pian te; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro
elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le
dilicate pellicelle, o membrane, che vogliam dire, delle vene:mapoiin roſſo, e
ſanguigno umor convertitos per altre vie, cioè per le vene, e per le arterie
ritornare. Or queſto fugo ove ſia malignato,fuor delle proprie vie sboce cando
per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando, contro il
provveduto ordinamento della natura. Tutto adunque il Florido,e vigoroſo ſtato
di queſtº arbore, vuolella, chedalle radici, cioè a dire dal cerebro avvenga:
la dove fc quella, che pia madre fi appella, la dura madre toccando, ftiano
ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare,
allorvederſiverdeggiante, e fiorita tutta la pianta: ma ſe mai divengan vizze,
o alqua to s'abbaffino, fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia
madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più
vita. Con queſto trovato, o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore, vaella tutti
i con. venenti della vita, e della morte, e della generazione, u della
corruttura dell'huomo, e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando.
Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva; i quali
comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali, che
non poffeno. fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi;
edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa
Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala:ut tamlaudabilis heroina ratio
habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem: Ma crapaſsado al
ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio; egli ſipare, ch'in fula foglia
appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli
Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle cos fe, ficome troppo
groſſa, e ſciocca: e quella di Democri to, e d'Epicuro, ficomefoverchiamente
ſottile, e da’ſenli lontana: alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci
tutto s'appoggia, e vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio
).di ſale, di ſolfo, d'acqua, e di terra formata ſia; perciocchè in quelli
ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi riſolva. E con quelto cinque ſoſtanze, in ciò,
che elleno ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne, ſi ſtudiacgli, e
s'affatica di dar ragione dell'apparen ze cutre della natura, e ſpezialmente
diquelle,ch'alla mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli
cotali ſoſtanze non eſſer ſemplici, ma comporte, e me ſcolate; pur tutto il ſuo
diviſamento quì egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte
priacipj fora fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte;
anzi egli dice, che non avendoviragionc, o ſtrada al cuna da potergli avviſare,
ſciocchezza ſia l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe
ne dica eller più coſto un grazioſo diviſamento, e voler giudicarc allas
ventura, ea riſchio delle.cofe del mondo, che conſaldez za di buona filoſofia
ragionarne. Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine
s'argomenti, imper: tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli
s'accagiona; perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare,
avvegnachè egli contro i buoni filoſofi fa vellando, dica procudere,autfomniare
philofophiam me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è, ch'un
andare alla cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna. Ma ciò laſcia do ſtare, o
non s'avvede egli, o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una
coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal
ſostanza s'av valli, e fi deprima, c come poi ſi cſalti, e come con gli al tri
principj ſi meſcoli: c comc ammendi, e affreni i ftraboc chevoli diſordinamentidel
ſolfo', e del ſale: é comequela to tante, e tant'altre operazioni faccia, le
quali egligliat tribuiſce. Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te
particelle quelle: fiano, ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva; e
colcoccare, che colmuovere ora in uno, oras ialtro modofogliono negli altri
corpioperare. Eben'e gli dovera (ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual
fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la
natura delle loro cagioniinveſtigare: cav vifare, chenon puòlo ſpirito effer
diſcorrevole, ſe di pre fente nonceda atutti corpi ſaldi, che perentrovi
paſlino je perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in molte, e moltes particelle
diviſo: le quali continuo movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano;ne lo
ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto perretrare, ſe le ſue
particelle picciolitime non fono, esì fåttamente foggiate, che molti gomiti 20
angoli, non abbiano. Neper darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer
quello, licomc egli dice, di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi
quella dello ſpirito; e che da quello nafca il calore, cla varietà de'cofori, e
degli odori alle co fe, e l'a lor bruttezza, e bellezza: c per la più parte la
di verſità de' ſapori; perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe,cheegli
ſenza niuna pruova farne grazioſamente, afferma, ben
potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo, argomentar, che le
particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome
quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite, e ſdrucciolantii, calia quanto'
famoſc. E què è danocare, come il Villiſio vada divifando dellacomplellion del
fuoco; egli dopoaver ava vifato effer quello ſomigliantiſſimo alla materia
prima de Peripatetici, in ciò che in tutto partire in niuna dice quel, lb
allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis exfuina tura nullibi
exiſtentiam, ac certum durationis modum obtin net. Quindifoggiugne: formaignir
omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto quopiam agglomeratis.y - cona
fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit aliud, quam ejuſmodiparticularum
impetuofius concitarum motus, deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle
particelledel fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras
non così acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri, e
fpeffi, ficome far veggiamo al fuoco: il qual perciò dice Democrico aver gli
atomi ſuoi ritondi: non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato. Ma
Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla
giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte,
mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco, e
in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette, acciocchè agevolmente muovere,
e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando, ricreduto,
igannato inutaiparere. Convien dunque dire, chele pare ticelle componenti il
folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante
doveva egli delle particelle de'fali filoſofare, e ſpiar le vere cagioni dell'o
perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,&
fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E
certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na
túra, e la propietà de'componenti di quelli. E doveva bé egli quanto più ciò
era malagevole a fornire, cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada
diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima
mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile, edal. tri valorofiffimi
filoſofanci fornirpoteva; ma egli per cele far farica non volle di cotante
biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata, e ſconcia la ſua filoſofia ne
divenne. Eles non da altro, almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da
vanti agli occhi avevasben egli in ciò, che quelli folvonli nell'acqua, e a
temperato fuoco ſeccanfi, ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura
delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora
in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi, e da fiffi di nuovo volar ti. E
Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che convengano le
particelleinfra loro, le qualicotante gener razionidifali compongono; e in ciò
ancora, che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano, divenendo da
aſpri, e amari, e acetofi: dolci, e foavis e per contrario da dolci,e
ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò, che i ſali di qualúque
ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e
ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano;perciocchè
da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle
acconce a cambiar figura: 0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma,
madivarie, e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya',
iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc
particelle compoſti: e l'altre generazioni de' fali cſfer più, o meno di
quelleforniti, ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche
dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare,
ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante. E comechè negat
non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto, o
quanto probabili folamente, e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità;
non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di
conghietture,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò, cheper noi non ſappiamo: checosì
ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne, laſciarlo vergognoſamente in non calere
pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo
devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue, alle orine,alle
febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può, che non
è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto
ſenza fondamento alcuno; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa,
ch'egli afferma, ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti
rim beccato. Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo
meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventurato ne’luoi emoli; perciocchè
de’ſuoi tempi abbatteſt in tal, che nulla ſappiédo delle coſe della natura,
volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo; per chè non durò
molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce', non tanto d'inframmetterſi
della difeſa di lui, quanto per ricredere, e rintuzzare la tracotata beffaggine
dello ſciocco Galieniſta; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe
egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima
detto. Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che
non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del
cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo,
che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata,ora maggiorméteper fuadere:
cioè a dire che vano, e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale: ne
medico poter giainmai in quella tane to, o quanto
vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima, e inolto ſcorta
diſaminazione, ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello, non altro
certamente ora ne ſap piamo,chequello, che in prima fapevamo:: cioè a dire
nulla di certo. Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco,,
e infelice aſſai; perciocchè dopo aver appreſa, ed eſercitata la medicina a
quella guiſa, che in Inghilterra comunemente coſtumavali:volendo egli
filoſofare ſopra quella, ſi perſuaſe, che le continue ſperienze, così.dover fi
medicare additato aveſſero; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali
rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri
argomenti da raccato tarne la ſanità, ricoprendo con sì fattoavviſola ſua
beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'.
Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina, che non che valevole argomento egli
mai ritrovato aveſſe: anzi in qualche biſognatalvolta, ove i volgarimedici bene
ado peravano, egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola
della maniera del ſuo medicare, egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole
ciò che 1 1 d egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice,
per eſſenza ſempremaiſia: e che la pleureſi, la peri pneumonia, l'infiammagion
della gola, e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre;
conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza:
avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi, e ſcemarla febbre, ſicome Icema,
o creſce l'enfiagione; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore, c
l'enfiagione appa fiſcono: e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu
fa'a formentare, e a comunicarſi al ſangue, e far ſaccajan comincia altresì la
febbre. Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite, e allor che qualche
ſcheggia, o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca;perciocchè
ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane,
e talor anche pertutto il corpoſi fpande; e leav vien, che le fibre alcuna
fiata enfino, ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento;
perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già
effetto, ſicome immagina il Villilio; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi
in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue, e dal ſuo uficio rifturfi; perchè
poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio,
confeſsado egli medeſimo quefta verità: Ab ejuſmodi tumore,dice egli
dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű. tur: fanguis in
motu ſuo magis perturbatur: adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men
vano, e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir
mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare:ma
perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza, e per non dilungarmitroppo
me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila
biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere; nella qual certame te cotanto egli è più
de'Galieniſti medeſimi tracotato, che ovei più avvedutifra loro nella terzana
intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba,
accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi, e
mcnos'accenda, e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incendimento diſcorrer
poſſa, e riandar perla perſona.Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane
intermittenti divenir talora per li falalli contine, certamente cgli non
avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla
bruzzagliai de’volgari medicanti, più negli effetti de’mali, che nelles cagioni
di quelli s'indugia. E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti,
ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace, e
punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo: mala maggior parte di
quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta: come potrafli
ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue, che riman nella perſona, anch '
egli mordace, e pungente vi rimane? certainente egli ancora, ſe non ſi addolcia,
farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo, e ingenerar la
febbre; anzi tanto mag giormente, quanto per lo ſuo fcemo, più debole, e
fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in
lui quella nobiliſſima ſoſtanza,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento
ritornarlo; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera, diverrà ſenza fallo
pig. giore: e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a
ingenerarſi cattivo: e manterrannc quel calo re, checol ſalaſſo iinmagina di
ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana;
perciocchè tra per lo cibo, che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e
per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo
avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda, e cotanto mal cagioni: ſicome a
quel giovinetto nobile intervenne, di cui narra il medeſimo Villiſio,che no
oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente,
chequali ne fu per debolezzamorto, gliene ſeguirono fieriſſimivomiti,e ſpalime,
c rivolgime ci d'inceſtini: ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de
clinamento del male. Vuole ancora il Villiſio, che trarſi debba fangue nello
febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida, ac ciocchè perlo
falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato: e le particelle calde di quello per
affoltata non ſi accendano; ſi. coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali
rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere
rinfreſcamento. Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio, che liquorsche
continuo muova, e diſcorra, ficome il ſangue, abbia quelle particelle,
ch'egliſcioccamente chiama calde, le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af
faſtcllate, ficome ficno in palco, maſſimainente, che pic cioliflime, e ritonde
quelle fono, e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore; perchè
malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce
non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire, che fconcio, e ridevole
oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato,in cui lo
ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione, e'l riſcaldamento.
Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato, ſe non già con falalli, ma con
rimcdj acconcja ciò fare, ſicomealtrove per noi è detto, ſi foſſe argomentato
di ſventolare il ſangue, edirinfreſcarlo. Ma egli più oltre traſandando vuol
che da ſegnar fiano anche i fanciulli: quandoil medeſimo Ga lieno, che de
ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer
quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli, e da fuggire. E avvegnadiochè egli
molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo
guariti; non però di meno, ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne
poſe per la ma la via; ne è da credere, che coloro che ne camparono,fof fcro da
falaſiajutati: anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta
celsò loro la febbre: e fuma raviglia, che infermo, chenon potè reſiſtere alla
febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe
veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere
ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo: ele ſcoppiate delle bombarde
alcuna volta non colpire, perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè
talvolta non ammazzino, non effer mali? Ma ben disi travolto diviſamento
portonne egli la pena il Villiſio; per ciocchè co'ſuoicari
ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe. Ma gľ Inghilefi, huominicotanto pertraffichi, e
per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo, Io non
sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici, e non
più toſto rimirino alle varie, ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano, che
ſenza laper mai di lanciuole, o dimignatte, e ſenza 'logorar goccia di ſangue
ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano, altri argomenti coſtumano a
raccattar la ſanità, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando
detl’Indie, e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono
avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità
Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno, e colle unzioni, e co
' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio
niegli ſi fu il Vihiſio; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al
tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con
graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia
grande, d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo
e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio, manifeſtamente egli medeſimo il ci
da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il
medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi, e le purganti medicine
adoperare, maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe, e maligne: alla per fine
avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della
medicina razionale, non altrimenti, che ſe volgare impi rico e' fi foffe,
conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza
guidare. In his cafibus, ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum
judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat; cã enim hæ febres
primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia: diex eorum fuccesſibus una
collatis facilè edifcitur, qua li demum methodo innitendum erit, donec ultimo
crebro ten tamine, feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia, « Lata ád
bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus,
monitiſquemunita, Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli
affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no, e
nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio
cotanto certo, di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli
nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio, per eſſes e' ſtato
certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento, rendendo
giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe, di fabbricar un
ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro, ch'ei
compoſe della Farmaceutica razionale; ove egli s'ingegna di dar ragione
dell'operazio ni tutte, che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già
egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet
operationis pharmaceutice Ætiologiam, prius fere intactam, fi nunc temere
agreflus, non dignefatis abfoluero, veniam utcunque merebor, quia terram non
modo: incognitam,fed, GvaldeSalebrofam,&quafi labyrintheam peragrare.
incumbebat, fù’l priino aqueſta opera; poichè il Paracelſo, e l'Elmonte, ſopra
i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio, ne
trattarono, tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne
a queſti, nc al Villiſio, per non aver eglino conſide rata innanzi tratto, e
riandata con diligenza la natura del la coſa, cioè que’principi primi,
ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una
sì commendevoleimpreſa, con quellafelicità, che le avca no eglino dato
principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel
di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio,
licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele, e di Galieno
involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine, la Chi mica di
que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure
dell'incomparabile Giovan Batrifta El monte, di cui ſopra è detto, a quella
apparare con tutto il ſuo intendimento, e con non ordinaria fatica ſi rivolſe;
e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine, per non
dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì, e
tanto innoltroffi, cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte, e
laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli
campi della medicina. Ma ſicome ardito,e poco cſper co Nocchiere, avvegnachè di
ſarte, di - gomene, di ve le, di boffolo, e di tutto ciò, ch'a ben corredata
nave fac cia meſtiere, ſufficientemente ſia fornito: impertanto per nuovi, e
nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare,
miſerevolmente inghiottito vi muore; così il Silvio, comechè dibuona
filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice: e di non ordinaria medicina fornito,
non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi, e
quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena
ſciogliendo, fortunolamen te annego. Ma potrebbe alcun recare in dubbio, ſe
ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato, co me
eglinevuoi dare a divedere; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle
fue opere, egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe, comechè una fiata
dalla ra dezza, che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di
quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer
profittato nella buona filoſofia, co mechè,i per quel, ch'e'nedica, trentatrè
anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati, proteſtando le ſue
dappocaggini, manifeſtamente dice: optabile foret naturalium rerum principia
vera, eorundemque numerum certum, qualitates legitimas via,methodoq;
mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé
toſo, volle il ſuo ſiſtema diviſarne, dicendo tre umori prin cipali eſſer
ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera, e la flemma; i
quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor
poicompongano, che da lui è detto triumvirale; che il ſucco pancreatico di
ſangue, edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini
per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra; chela collera ſi formi di ſangue
dentro alla ve ſcica del fiele; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro,
e volante, e comee'dice, liffiviale, da poča acqua foo Luto: in cui alquanto
d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della
ſaliva, la qualdegli ſpiriti animali, e della più ſalda, e tenace parte del
ſangue com pofta, dalle glandole delle maſcelle per le docce, che falia vali
diconft, alla bocca trapeli, e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco
diſcenda: e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi;
quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più
gran par te dimori. Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo,
e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta; perchèin quella
una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli
ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo: ne
dalla flemmadiffomigliante, ſe non ſe più alqua to ſottile; che ſi tragittiegli
perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino, la dovenel meſcolarſi ch'egli
fa colla collera, perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella,
edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to, per lo quale la
parte più groſſa, e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini
s'avvalli: e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna; e la
flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor
rente, e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco
pancreatico traſcorrano parimente al cuore: ove la fermezza, e’lcompimento
deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili, e
alle fecces! meſcolandoſi, quelle maggiormente colorate, e tenaci ré. dere,
Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua
medicina il Silvio, dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol, che tutte le
febbri dirivino; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne
il pancrea oppilaco, quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſaço dimorando,
maggiormente acetoſo divenga, e mor: dace; perchè egli poi faccia
negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato: e
naſcerne la febbre, qualdicono intermittente. E ſe quella parte della collora,
della flemma, c del ſucco pancreatico, la quale al cuor ſi tragetta, non ſia
ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo
ribolliméto riſ veglj, e le contine febbri cagioni. Ma troppo lungo fa rebbe il
voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti, e tre queſtiumori vuole
il Silvio, che ciafcuna maa, lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo
di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe, eriotte abbia riſvegliate
infra' medici un cosi ftrano ſiſtema, così vivendo il Silvio, come anche dopo
ſua morte; ma lo diciò non curando al preſente, folamente per quanto a mio
propoſito s'appartiene, dico eſſer vera mente ingegnoſo, claudevoleil
diviſamento del Silvio, e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya; ma
perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue
ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada
con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va
lorofo filoſofante;machi ſpia più addentro, non veggen do comepoffano effer
tali quei tre umori, quali e' glide fcrive, ecome poffano aver poſlanza di
cagionare i bolli menti, e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti,
poco certamente a capitale il ciene. Anzi radillime volte nella flemma, e nel
ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non
ſi è giammai per al cuno acetofità, ne poca, nemolta avvifara: e pure dovreb be
ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe, e s'accoglieffe
veramenteil fucco acetofo; perchè ra de volte ancora quel bollimento, ch'egli
immagina,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli; anzi è egli imposſibi le,
che per l'acetoſità il bollimento avvegna: ficome per pruova veggiamo, che il
liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale, o con altro acetoſo
umore meſcolato ri bolla: che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio, da cui
peravventura ciò apparò il Silvio: il qual contendendo co tro la manifeſta
ſperienza, ne vuol dare adivedere, chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco,
cheabboudi in collera,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga
s'aggi, 1.3 il Silvio a dir, che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi; per
ciocchè, fe ciò foffe, inervicontinudrattratti, e in malei Itato ne ſarebbono:
ſappicndo ben ciaſcuno, che l'acctori tà, ſicomc (triguente, e lazza, e
pugnereccia, a’nerviol tremodo contraria, e nimica fia. Ma chela ſaliva allo
ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia, comechè ella pur gli ſia
diqualche gio vamento, chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non
abbia poſtomente, potrà folamente crederlo. E ſopra tutto è da maravigliare di
ciò ch'e dice delle febbri intermittenti; perciocchè ſe quelle dall'acetofità
fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono, e terzane,
e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea, ficome
anche il medeſimo Silvio confefla, oltremodo acetoſo s'avviſa. Ma riſerbando a
più agiato tempo sifatte conſiderazio ni: ciò che toglie maggiormente l'eſſere
razionalmedico al Silvio, e'l fiſtemadilui manda a terra, fiè, che egli trasa
dando le fondamenta, a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime
ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella
ſua filoſofia, il modo certamente del ſuo medicare, comechèpovero, e manchevole
degli arcani dell'Elmonte, e del Paracelſo, non poco dee effer commendato;
perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine, e masſimamente l'alloppiate
connon ordinaria fe licità,, e pregiodel ſuo nome; fe non ſe quanto egli preſtò
alle purgagioni troppa credenza: ele pole talora in opera, ove in tutto, e
pertutto diſconvenivano: avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato
ne foſſe. E come chè cgli dicoloro, che così volonteroſi ſono a ſegnare, só
mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' folo
può contrariare almale. Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune, andò a
bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove
egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli, che faccia
luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente
radificato non rompa i vaſi,o fac cia qualche altro gran male; non avviſando,
che con altri ficuriargomenti, quandociòpur s'aveſſea temere, dar vi fi può
compenſo, ſenza tor via, col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel
fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè
per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi, o fenfibile, o inſen
fibile vacủazione, fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie, il
che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio,mi ſi fa davanti Lazaro
Meffonieri, il qua le troppo libero, coltre alconvenevole ardito, imprende a
determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con
lungo ſtudio ifilolofanti. Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle
coſe il mercurio, il fales, e'l folfo, e dice quefti, licome in cotante arche,
o matrici contenerſi negli elementi; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon
quattro:cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe, in cui niun
principio egli v'alloga; l'aere, in cui ri fiede il mercurio;l'acqua, ove
ſtanzia il fale; e la terra in cui dimora il ſolfo. Il fuoco ond'ogni altro
elemental mo to deriva, vien dal folto ajutato, ed eccitato dal mercu rio; e
ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio, il riſplendere, il riſcaldare,
l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua; l'aria
colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco; il mercurio è un certo ſpirito aeree,
il qual coagula l'acqua, e'l fal volante rappiglia, e che afo fai bene col fuo
ſal fiſſo s’uniſce,ed al ſolfo cótraſta.Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle
vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima
ami, ſtà col ſale, e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo. La terra
opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica
del fale. Indi deltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare, così ne
divifa: il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente
dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:(Delle qualità, che gli
elementi compongono, due ne ſono attive, e due paſſive: attive ſono il calore,
e la freddezza, paflive l'umidità, e la ſiccità. Tre coſe vihan nell'univerſo
manifeſtamente calde, il ſole nelmondo celeſte, il fuoco nel mondo ele, mentale,
e lo ſpirito vitale nelmondo animale, e tre allo incontro manifeſtamente fredde,
la Luna, il mercurio, lo ſpirito animale. Alcune ſtelle divantaggio vi han
nelmo do celeſte,dilornatura calde, e altre freddo, ma occulta mente; e altresì
nel mondo elementale altre coſe calde fredde, macelatamente, o accidentalmente
ſi trovano: umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio; ſecchiſ fime
la terra, e'l fale. Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi, allor che conalcuna
delle già dette coſe 's accop piano. Le ſeconde qualità daglielementi, e da
principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano. I 12 pori
ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo, lam durezza dalla terra, e
dal fale: la mollezza, e tenerezza, dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi
diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta
diridur re in un corpo folo, membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non poffono
a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli molto
ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de filoſofan
ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce, e falſe
opinioni, che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ', come
faggiamente,il Verulamio avviſa: Elementorum commentum, quod avide à medicis
acceptum, quatuor complexionum, quatuor humorum, qua juor primarum qualitatum
conjugationes poft fe traxit, tan quam malignum aliquod, infauftum fidus
infinitam, et medicine,nec non compluribus mechanicis rebusfterilitatem
attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il Meſfonieri, in tut curto,e
pertutto inverigmile fembri; ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima,
emobiliffimafortazaſi ſia;e che ſte colà ne paeſi al polo vicinijed
alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire, per non
logorare fuor di propoſito il tempo. Mada tanti, e sì varj,e sìftra ni ſuoi
arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a dar
ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan
vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del
noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale,
dic'egli,è della natura del mercurio, aereos freddiffimo, e dalcervello
perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento, ed ogn'altra azione
animales; fi nutriſce della ſalſa, e acquola parte del ſangue; lo ſpiri to
vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere, e a far impeto
nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé, il quale da per ſeimmobile,e privo
di ſentimento farebo be; tragittaſi dal cuore perle vene, e per le arterie
infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue
queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo
coptrário,la morte. Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa
il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale
freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da
lui ſognato, e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del
ſangue; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di
fuoco, e dar lui il moto, e'l vigore allo ſpirito ani male. Ma formentandoſi
continuo il ſangue nel corpo dell'huomo, e comunicando egli ſempremai più, ome
no calore a cucce le parti delcorpo, come, e dove por trà mai l'animale ípirito
olcremodo freddo, e inmo bile ingenerarſi? Coavien parimcnte poi, che'l Mcf
ſonieri ci additi il modo, col quale s’uniſcano fralo ro, el diſuniſcano si
farciſpiriti; e altresì, che ſaper egli cifaccia, onde avvenga,che'l caldo
eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale; ccoine
al lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi, ed
eſtingua lo ſpirito vitale. Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri
nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano, vada ſovente errato; e
quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune
falſe opinioni di Galieno; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va
diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo, che qualor l'azione
dell' animale, o del vitale ſpirito ſia impedita, gli huominiven gano
damaloritravagliati; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte
negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti
delcorpo; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere, ſalvo che in
tor via quelle cofe, che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder, che
tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa.
Ma a queſti, cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo
parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per
moſtrargli fall. Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za
nel vero, e materiale effer ſi vede. Ma poichè da uno in un altro ſiſtema
paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea.
ra celebre medicante nell'Ibernia. Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima:
ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo
le vane ciance di Galieno, impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional
medicina; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di
Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto, che pittor
farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne
di varj, augelli e dipigner voleſſe. Forte egli rimproccia tutti coloro che
ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole. Et miror profecto qua
fronte quiſquam experien tia Scientia omnis, et cognitionis inventrici)
repugnare prefumat, nifi pro ratione fufficiat, multos pudere, cos pige me
quiequam denovo admittere, quod confirmat& eorum upinioni adverfetur, à quo
ne látum quidem unguem recedere Suftinent, ne prius non recte fapuille
videantur: multos taria ta cum fatuitate, ne dicam Idololatria, Hippocratem,
Ari ftotelem; aGalenum venerari videas,utquicquid ab illis non dictum, non
dicendum, quicquid abillis incognitum, no cognofcendum putent; e molto appreffo
fi briga in moſtrar, che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente
però, che non debba a crederſi, che ſian primi; imperocchèegli vuole, che della
materia,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino, c'di
queſti facciali il ſale, il ſolfo, e'l mercurio, che ſon terzi principi; i
quali finalmél te col vario accozzamento loro, quanto v'hanell'univerſo
coinpongano, Ed ecco, ſecondo lui, onde formanſi le parti ſalde, e di.
ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno;
ne’quali, allor, che il ſale, il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati,
che non vengano fra ello lo ro a tetizone, n'avviene la ſanità, e per contrario
lemalat tie. Diviſa egli, ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali;
dicendo, che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata, come è il fal comune,
e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa, e in cerca fpecie di malinconia
parimente acç. tofa, come è il ſale armoniaco; e così ancora diſcorre ra
gionando degli altri ſali, che ſono negli altri umori. Vna sì fatta dottrina fu
introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del
Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare,che celtaſſero le perſecuzioni chelor
faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno; anzi, come in tute
gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi,
eglino divennero d'ambedue le par ti nimici; e come alga, o ondamarina, che
da'contrarjvé. ti ſia, or quinci, orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro
furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate. Il per chè anche noi ſenza quì
intertenerci immaginamo, che da quel, che di Galieno, e di Paracelſo addietro
abbiam di: viſato, rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato;
imperocchè, ſe ne con gli elementi, ne co’principi chimici poſſono i varj
avvenimenti del corpo umano fpię garfi: di ſeguente è da dir, che ove ancor
vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci
daglielementi ſi formino, ne men coſa, che monti una frullo Gi farebbe mai a
pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non
eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via, il ci fa mani feftaméte
vedere Frāceſco Gliſſonio;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito,
e nella notomia, e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato
fi foſ: fe; impertanto non ſeppe egli sì, e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni
nella gioventù appreſe, che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben
ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina, allor che
veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe
naturali,vuol, che il mercurio, o ſia lo ſpirito, e l'olio, c'l ſale, ela
flemma, e'l capo morto, o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali
le coſe o per ingen gno, o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia
avendo lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente, che lo
di vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele
menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere, e
quello dell'aria all'olio, e quel dell'acquz alla flemma, a quel della terra
alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe,Signori,chi non avviſa, che'l
fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia,
e che le particelle, che'l compongono lian, piccioliffime', nonſono però elle
tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla
ao. E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere, la
qual peravventura immagina il Glif fonio; perciocchè l'aria, comechè
diſcorrevole, c vagas oltremodo ſia, non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru,
ciare acconcia, Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte
conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs,
quali ſono il Mmm file, slaai Cáte jela terra dannata, porre d'accorto, e far
ch'una coſt fola, e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro
qualche attegnenza, nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro, e
non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe; perchè ſcompigliata', e
ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle: la qual folle mente
il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare. Ma ſufficienti
non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura,
egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde
fiicópongono quelli, al Paracello, e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge,
e togliendo da foro ciò, cheeſli degli Archei mil lantando dicono: e giugnédovi
di vantaggio molte altres fraſche del ſuo, ſcioccamente con si fatti ripari di
riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta: dandone apertamente a divedere
con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di
que'valent huomini','tralandando d? altra parte coranti buoni, e pregiatiſſimi
diviſamemi, chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver
curar gl'infermi han laſciati Almondo, che giacea pien d'alto errore.".
Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore, il qual
negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale, e attuale riſvegli: e muova,
e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali: e altri ſoſtegna: e ciaſcuna
natural parte dal corrompimento difenda: tenendola buona fperā. zagli fpiriti,
iquali egli in feſta, e lietamente fa vivere. Quindi il Gliffonio le varie
generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando, ein prima quella
dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice, che habbia lo fpirito
ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi; e oltre a ciò
contenga ancora, ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale, e animale, e che fia
ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes,
appetente, e movente chiama, da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte, c
terminate. La facoltà percipiente, dicu, egli, che l'Idea dell'uovo, e quella
ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda;
imperciocchè l'Archeodi quelli, non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti, i
quali egli può produrre, conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta
ravviſa; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora, e l'ordineditutta ſua
formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La
diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura rappreſentata
per l'idea,e una cotal brama di quella limitata, sìche ſoſpeſa reſti laſua
potenza infino al sempo opportuno. E ultimamente, la diſpoſizione della faç
coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta operazione
valevole, e acconcia, maches'indugi all'opportunità dell'attualeformentazione.
Oltre a ciò vuole egli, che l'Archeo nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello
uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga; perciocchè le ſenza il
conſiglio della chioccią, o d'altro ſomigliante ajuto la formentazion dello
animale rentaſſc, ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb be. Quindi egli
alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va ſpiegando,
facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento ſpiegato per gli
avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo
già formato è di tre maniere: naturale, vita le, e animale; il primo in due
ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato nell'uovo: l'una fiè, che
egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare: e poi nel corpo for mato,
in atto già opera; e l'altra ſi è, che al preſente egli in un caſamento già
fabbricato abita, e dimora: al quale in, acto egli fignoreggia. Ha cgli due
miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e l'Archeo animale; e oltre a
coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli è fornito, quali ſono ſenza
dubbio gli Archei del fegato, de’polmoni, del ven tricolo, della matrice, e
d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate.
L'Archeo vi tale, licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin
çipal cagione, così eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 fluiſce,
comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo animale agli
ſpiriti animali tutti è ſopraftante, i quali nel ſucco nutritivo abitano, e
dimorano. E dalla perturbazione, e rimeſcolamento di coteſti Archei vuole egli,
chele malattie tutte ne avvengano. Ma egli ſarebbe un logorar vanamente le
parole, ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio
intorno agli Archei. Dirò ſolamente apparer manifeſto, ch'egli in luogo di
ſpiegar, ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che traſandato a
ſtudio venne dall’Elmon te, vie più oſcura, e inviluppata la rende. E doveva
pure cgli avviſare, che di quelle cofe, che nonci ſono, ne eſſer poſſono,
quantomaggiormente ſe ne favella, tanto men ſe i nedice;ne ſi può ſenza
maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta, qualſenza
fallo ſi è il Glif ſonio, eſſendoſi ſottilmente argomentato d'inveſtigar con
fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate, foffe poi sì
vocolo, e traſcurato in ciò, che folle mente ammannare aveſſe potuto cotante
ciuffole,e giunte rie, non meno a' ſentimenti, che alla ragion lontane. Ma non
tanto del Gliffonio, quanto di tutti quali i va Ient huominiun tal fallo ſi è
ſtato; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe operazioni della
naturaavviſa tc, diffidando per for manchezza d'inveſtirne le cagioni
corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero,fi rifuggirono a sì
fatte fraîche, e ne compoſero cagioni fia tc, e favoloſe, onde natura.
Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da
biaſimare il fallo del Gliffonio; il qual manifeſtamente affermando, fe cfſer
pago, e contento a ' principj chimici, e a que primicorpi, che coloro chiamano
componenti, avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento
procedere traſcor: se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei, e sicon
fondere, e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani, e ridevoli
di quelli de'folleggianti peripatetici Ma che è ciò, ch'egli dice de’pori di
noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai? c pur dice egli, che perquel
la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino. La qual coſa
nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono,
leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo. Ma chi non iſmaſcel
berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti, co' quali ſi ſtudia, e
s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti? Tralaſcio a bello
ſtudio, comeche aſſai vi ſarebbe da di re, ciò che egliintorno alle maniere di
ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di
que’ſcioglimenti diviſa, i quali, ficome egli dice, avvengo no per
congregationem, vel attractionem magneticam, fi ve fimilarem. E in prima va
egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante
goduzquint di egli loggiugne, che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di
quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle
coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat
tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene: e
fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra.
Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat, quod per attractionem fimilarem,
five magneticam intelligam.nempe alle &tationem, five incitamentum, quo
cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più
ſciocca, e ridevole può per travolto, e ſcempiatocervello immaginarfi
giammaisquí to queſta del Gliffonio, il quale a cutte inſenſate foſtanze il
conofcimento, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce? certamente fe di
baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare,che le cofe, che
ſtanchete, e fenzów movimento, ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao
no, infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non
partano.Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò, che naturalmente filoſofando
ragionan que' valent' huomini, de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an
dar del ferro alla calamita, doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera
inveſtigare, onde ciò ayviene. Ma direbbő per avventura coloro iquali
follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre
coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe, il
qual dicon magnetico, del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime, e
ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche
travoltę infra loro, inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime
para ticelle fpiritali, che efcon fuora della calamita, faccian, l'uficio della
formentazione riſvegliando in quelle il movi mento; le quali poi movendo verſo
il polo magnetico, dis rizzino, ci fianchidel ferro forte percuotano: e sì
quello co’loro colpi innanzi {pingano; ma nella calamita -ancora farſi un cotal
rimeſcolamento di particelle ſpiritali, le qua. li urtano in eſſa, e ancor la
ſpingono intanto, chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili
corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár
maraviglia, che la calamita ancorada ſua parte fi muoya, comeche più tarda, e
lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro, e la calamita ſi pongano,da qualche
legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti, intanto che ſopránocanti
poſſano andarea gall.2, ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita, e la
calamita d'altra parte verſo il ferro. E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al
Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare, dovrebbeegli in alera, e altra
maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli
ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio;
perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go
laiciali ſcioccamente traportare: ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi
in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util
grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe: e che ragionevol
mente damedici feguir debbafi, ficome loro molto pro fittevole, e acconcio a
dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti; eche Galien
d'altri diviſamengi degli umori infrămetterſi non volle, ficome poco utili alla
medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire
il ſucco nutricāte, il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario,no
che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo
Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è
vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per
avere cotal divi ſamento da primaritrovato; concioſliecoſachè poſto che loda
pur nedoveſſe all'inventor ſeguire, certiſſima cofa. ſia, che la dottrina
de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata
già foſſe nelle ſcuo le della medicina. Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di
que. gli uinori, che in varie, e varie parti del corpo fan dimora, non mica già
quattro, ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è
forſe ancora ſcoverto. Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti
quattro umori, ſi è moſtro già; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia
ftimedeſimil'han conoſciuto. Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro
agli umori, che non ſi da niuna cu. ra d'inveſtigar la natura delle coſe, non
ſolamente utile niuno, ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al
medicare, comechè ſcorto molto, eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in
conſiderando una fiata, che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi
allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì
biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra, ficome cgli afferma, introdotta.
Non propone egli medicamen to, che volgar non ſia; ne contento d'un ſol
medicamento, molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri
medicanti ſi facciano;e in ciò,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a
divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine. E ciò baſti
avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato; il qual per altro è
certamente non poco da commendare; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa
diligenza, e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma di troppo
lungo tempo abbilognerei, fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina
dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio, del Carlettone, delBartoli, e d'altri
ſcrittori. A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo
accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento, e ſcarſi di partito per
quanto facica vi duraſſero,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta
d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo
noi a ſufficienza conſiderate,e riandate; e altri di loro, fra'quali il
Tacchenio,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi, e
materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo,che ſe ne abbia a far menzione
alcuna particola re: Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che
ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta
induſtria, e diligenza, che da'fi lolofanti antichi, emoderni vi ſi fia
adoperata, e per qua te coſe per la morta, e per la vital notomia liaoſi nelle
ani. mali, nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte, e
per quantepruove, e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo
proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace, non ſe n'è potuto
giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera
ragione dottrina niuna. Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto, o quanto
alle ragioni pongas mente; per le quali, s’Io pur non vado errato,apercamen-,
te conoſceſi quanto ad huom’malagevole, anzi impoffibile affatto riefca lo
ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe
giudicar delli di quelle, che debbono avvenire, per tanti,e canti, che
infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento
ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra, e'l tempo, così
avverrà certamente a ciaſcun' altro, che tenterà una ſimile impreſa 3 ne
potrafli così nel filolofare in medicina, comenell'adoperarla prometter
ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri
corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia. Anzi, o infeliciflia condizione
di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, e rimeſcolamento dellamedicinaper
fatica, e di ligenza, che adoperata viſia, chi mai fin'ora avviſare ha potuto,
che coſa ſia un piccioliſſimo catarro, che ne mo-. leſti? e. venne queſta
veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da
Empedocle,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della
incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής
βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα, και πάση τοίς
τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν, ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην
αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta
verità, oltre a Seſto Empirico, da Cornelio Celſo:allorche diſſe della medicina
favellando: eft enim bęc ars conjecturalis,neq;ei refpondent,non folum có.
jecture ſed nec etiã experientię per; nulla diredel Cardi-: nal Cuſano, e
d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati
popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente
in Aten ne fioriva la filoſofia, e le buone letterc, traſcurarono la medicina,
no facendone niun capitale, come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν
ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet;.. Ούπ γας ο
μιθος ουδέν έσ', ούθ ' η τέχνη.. E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali
avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone
arti, e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono; anzi dice
Plinio: Populus Romanus neque 46-; cipiendis artibus lentus: medicinæ etiam
amicus: donec ex pertam damnavit; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco
l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito, e danna to; infra'quali il
Balſamone Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto,
ne manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces
© riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella
al ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū, ut confisú
fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum, conjecturarum eſtimationi
bus nutans; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost: clo Nnn niin 1 406
Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja:
Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos, ut mihi confu lant conſulo: incerta famper
ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, et fubftantiæ peccata
diſcernunt. Perchè 9. Chieſa, come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar
ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe: adunque, egli dice,
non è certamente ragionevole, che il Sacerdote, oʻI Diacono, o altro qualunque
Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw
s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo, e alfai fo vente fallace. E S.
Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi
ſerviſler: punto de' me dici; al che riguardando per avventura Franceſco
Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede
queſto ſalutevol conſiglio: Nulla eft rectior ad falute via,quă medico caruifje.
E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca,quel che
dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni, 2.4. La medicina como fue
erbe, e coſe diri Che fa? caccia carote a tutti mali..'.... Infin che l'huom
perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi; il
qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina, alla fine fece boto scomedarra
Giorgio Orni: Si Deus aliam prolem largiatur, nullo se ampliusmedico ufurum. E
per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più
rara, ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò,come narra
Daniele Einlio,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità; ptaceredi
quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè
montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna, che nelle ſue
infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti: defichepoſcia valevoliflime's
ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar
lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala, celebre lector di medicina
nella famofiffima ſcuola di Padová; il quale canto non potè tenerli, che alla
fine, un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del
Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva, inqueſta difinizione: Medicina ef
ars * illudendimundum, &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione
porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa, di
tralaſciarne l'eſercizio, e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe
quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata, La medicina deve
eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir
richiedendoteſtimonianze di colo ro, che a faccia ſcoverta abbia la medicina
guarata. Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea,
dico, ſovente dire a' ſuoi ſcolari: miferi, ed infer lici noi, félmondo
arrivale a faper maile,debolezze nofire, che ne meno ne poffiam promettere
colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene
cõverreh be apparar altro meſtiere? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto
intédiméto, e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere, e di nobil'animo
forniti,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi
antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe, ſavj interpetri della natura, ed
altri huomini inſigni dc'tempi noftri, lol faro menzione del no ſtro
Col’Antonio Stigliola, riſtoratore della Pitagorica filoſofia: e di Gio;
Alfonſo Borrelli chiaro, ed eccellente in ogni ſcienza. Anzi quinciè egli
avvenuto, che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più
diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina, l'abbjan, nel maggior
hyopo mcNain son çalere. Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più
venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male
infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi
cina, diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale; ed
eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza
fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare, comepotè il, inen male; alla
bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza
dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto: A voi Nnni non fa meſtieri la
mia opera, imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale (così
un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto
crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer
medicato; e ſareiben folle, ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la
cura di mia ſalute. E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo
più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda, e
sì crudelcanaglia; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na
coſa dicerto, abbiſogna loro, che alle giunterie, e alle frodi abbian ricorſo
peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie: ma
fino a'tempi di Galieno, per tacer de’più antichi, eran ſommamente in vi gore.E
cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da
Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia, acciocchè buon medico
divenga: in que. fta guiſa? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi
tazioni de' medici; perciocchè alcuniinfermi rade, e altri ſpeſſe volte
deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora
étrar facédo romore co'pie di, ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la
voce: acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli, che gli ſia rotto in
teſta il ſonno. Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi, e ſenza
ſenno, ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il
quale ef fendo da un infermo domandato,' ſe di ſua malattia morir doveffe,
rifpofe con quelle parole, ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato, e ad un altro
infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων.
Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico
affettatuzzo della per ſona, e grazioſo in entrando, e in ſedendoſi, acciocchè
nó gli ſiano fatte le ſcherne; ma non cotanto tronfio, e traco tato, ina
mezzanamente grave, ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo
alquanto modeſto, e umi le, o di ſoverchio altazzoſo. E ſomigliante dobbiam noi
dire de’veſtimenti del medico, i quali ancoramezzanamé te debbono eſſer
foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino: ne
cotanto ofcuri, eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli
ufaw; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero.
Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli
medica; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per
imitar la coſtuma dello Imperadore, fino alla cuticagnato, devafi; perchè Lucio
chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle
chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette, e ben forbice; e
fe per avventura putiffe loro il fiato, o le dicella, o tutta la perſona,a modo
di becco, fpiacevole odore gittaſſe, fi debbon eglino d'odoriferi unguenti,
od’acque nanfe for nire, prima che ad altri medicar fi preparino. Ma purvoleſſe
Iddio, che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio
ricorrono alle frodi, alle in vidie, alle maladizionije ed altre illecite
ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano, e maggiormentein pre gio,
e ſtima ſorinontare. Così vedeli, che un medicobia fima; e danna i medicamenti
dell'altro; tutto che que'me deſimi ſiano, ch'egli appunto diviſati n'avrebbe,
s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale, ed anche pega gior misfatto
non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari, fe vogliam dar fede a
Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo. Primo etenim invidiosè jubet
fi qua ante ipſum medicus adhibuit, repudianda. At fi non adbibuerit,tuncprobanda,
tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur. Earrab,
biato ſeguace et Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi, allor,
cheſcriffe: Medicus aliorum remedia ne lave det,utſupra vulgaresfapere videatur;
e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri: rabies
quadă,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans. E d'un tal medico ne
narra il giuriſconſulto Alfeno: medicus libertus, quod pataret, fi libertiſui
medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum, poftulabat, ut
feques rentur fet; netie opus facereni, Ed'un altro medico narra Calliodoro,
che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe: inter
faburis magiftros folusbabea, ris eximius: et omnesjudicio quo cedant, qui fe
ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie,e04
rumquediſtingue confli& us, quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li
potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva
a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe
la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj; o comeſemonna
Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del
Sere. Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici, che per uggia ze
mal talento guaſtarono, e atterrarono diſpetroſamente; bagni di Pozzuoli; e di
que'ribaldi ancora, che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali
della valle d'Anfánto, di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino.
Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il
medico, chiamandolo talora: Invidie pelagus, derrationis organum, ambitionis
perforatam clepſydram;aliena veritatis contradictorem gar. rulum, propriæ
ignorantia conftantiffimum defenforem, et inexcufabilem ægrorü neglecturē:c
ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo
dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di
molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno
intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus, ut potentium gratia
uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ
notasinurere nihili faciunt. E Giulio Celules della Scala nella fua poetica,
de’medici parlando: turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo
ſe ipſam eo fenomine venditantem, invidam, maledicam; cbtrecta tricem; novam
ſpeciem cynicorum yavaram, temulentamus Supinam, ignavam fimul,asq; ignaram. E
GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio; e più che altri del meſtier della
"incdicina intcndcnte, vuol; che da eſa neceflarianente 5 avvegna,che
taliticnoquei, chefeſercitaiio: medicina ! facit, ſono le ſue parole,nonreruin
memoris, fed verborü:1 callidos y verſatiles ingenio;inuidos avaros; idolofos,
las boriofos, non ingeniofos, de minime graves s opus enim coni rúm, d
exercitatio minusquam liberalis eft: e altrove pa rimente de medici avea detto:
funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate, adeò ut nihil pejus excogitari
poffit. Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia
del Toro, e di Venere, onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad
ogni force d'impudicizitz e di diſonore: c la medicina curativa ſotto quella
diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire,
come ne diviſa il mentóvato Conciliatore; il qua-> le ſoggiúgne, chedalle
ſtelle medefime, onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga
anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um",
eccellente, e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo, e malvagio;
ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa
ftrologia: è nondimenodacredere, chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella
poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe, chetuttogiorno nel
meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai
ilmaltalento, e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come
ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano, efimalmenano. Egli è coſa pur
manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla
grazia del loro Rè it benigniffimo,e inge gnofifſimo Ticone della perduta
ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore, intanto, chegliene fư tolta l'Iſola, e la
Rocca d'Vraniburgo, di cui egli era Signore: e sité tanto mara vigliofe
operazioni', é ordignidella ſtronómia, ele nobi lißime chimiche fucine
rovinarono, che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria: E
l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir
nemichevolmente la patria, ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume, non pur
delSettentrione,madel mondo tutto, onde foſſe sõi moſſa a commetterla la
cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime
narrarlo, dicalo in mia vece Pier Gaſſendi: Erant in his medici quidam, qui
videntes non modo exDania, fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum
turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia, quę quibuslibet
gratis largiebatur expertifeliciter, ac morborumetiam valgo habitorum infa
nabilium levamen fentire, livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud
quoslibet,procereſquepotisſimum, quibus preftabant operam,ipfius nomen
traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei,
ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente
ucciſe il celebre medicante, e, pocta Lino, la qui inorte pianſero eziandio le
genti barbare; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente
com poſero, appellato in lor lingua Emaneco, ci Greci Lino, la chiamarono.
Ippocrate, comeſcrive Andrea antichiſe funo medico, inſidioſamente brụciò la
nobile, e ricchiffima Libreria diGnido; e quindi egli poi per tcina fuggiſli. A
Quinto, medico famofiffimo, dice Galicno, fu meſtieri gombcrar Roma di prelente,
per ceſſarele ribalderic d'al tri medici. E in Roina pure attoſſicato da’rivali
luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico, come narra Gin lieno, ilquale
anco di ſe narra, che egli fieramente perſe guitato yenne da parteggiantimedici
di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie, c machinazioni, e
delle trappole, e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna,
Avanzavarre, e Raſi: quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio,
ad Arnoldo da Villanova, a Pier d'Abbano, c ad altri molti letterati di vaglia,
perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj, le
prigionie; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità, delle
tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo, e travagliati ne
vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di
que tempi Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come
coſa dinon tanto rilie? vo, quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in
favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio: della Penna, (chea 'di ſuoi con aura
di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina, contro
Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo, che più d'un buonno ſcienziato, e
il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente, e peftifera invidia di Maeſtro Dino
dal Garbo medico Fiorentino. Ma quandº altri, e quanti nobili e illuſtri
medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide
ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia
ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe, che ſcola piti foſſero nella lapida
della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft, gratis,qui nil
dedis unquam, Mortuus, et gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o
quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura
degl'infermi, dallamaladizione, e dall'altezzola, e sfrenata tracotanza
delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio huomo,che
d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime födaméta
dell'ercſia nella Frácia? e da Michel Servetto, la cuiempietà era inteſa a
rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata, e di Marcello Ancirano: e
dall'empia, e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti, e di Franceſco
Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla
cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio, e quindi ſen? vennead
infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia
tutta della Tranſilvania. E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la
barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol
carnificina d'E raſiſtrato, e d'Erofilo,osò, come narra Paolo Giovio, far
notomia, non già d'un reo alla morte condennato, come i già detti due Greci
facevano, ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura
commeſſo. E per far omai paſſaggio a coſe più note, e men forſe moleſte: che
Ooo non oſarono, che non imprefero, che non machinarono a danni del Paracelſo i
Galieniſti medici della Germania? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi
lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere, e rintuzzare il lor rives
ritisſimo Ser Galieno: conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino
perſeguitarono, e malmenarono Lionardo Fuſio, Giovan Cratone, e Andrea Mattioli;
il quale con meche Italiano, e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e
altri', e altrimedici,purGalieniftige della formede, fima banda parzionali; e
fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a
Girolamo Fracaſto. ro, ea Matteo Curzio, comechè queſti tutti afpada tratta la
dottrina di Galieno difendeffero: e nel medeſimotempo eglino unitamente contro
Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono. Nedi coralrabbia innocenti ſi
ſer barono quegli altri pur Italianimedici,che ſtizzoſamente et 'avventarono
contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c
daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc, e deſtinguere quel
chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt, lio
Ceſare della Scala;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri
per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile,
e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga
poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie
d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto, il Baucineto,
l'Arveto, il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor
più addietro accennate. È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da
Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti
fanciulleſchi, fenza fermezza:niuna didimoſtramento? Matroppo lungo ne
verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie; e le noje;che nella
Lamagna,nella Dania, nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino,
Michel Tofſite, Bernardo Perotti, Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo
Crollio, ealtri infinitimedici doro tiffimi, e avveduti affai; i quali ſempre,
o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza
andar mendicando eſempli di fuora, laſciando das parte ftare le non meritare
perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli
orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra
Città contro il Ferrillo, e lo Schipani, e'l For tunato, e'l Ricci, per tacer
d'altri, e malmenato da rabbio. filime trafitture d'invidia il Macaone delle
noſtre contrade Marc Aurelio Severini (le cui doctiflime opere in molte, varie
lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così egliperaccuſad'invidiofi
rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua perſona, fu prima
incarcerz to, e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia cocantiſpacciati infermi
già la ſalute maraviglioſamente avea riportata, alla fine de' ſuoi beni
ſpogliato, Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe tralaſcerò lo, o quali ne
ridiro? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le ingiufte uccifioni, che
medici innocentiffimi há per altio d'altri medici miſcrevol mente patito: fra
le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella ſpietatiſlimaal celebre
Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó peraltra cagione, come ſcrive
Giz no Leoniceno, ſe non ſe, per dirlo colle parole di lui: ob con munem in
praxi novatam operam, &à Virſungio non teme re traduct am tăta in virum
honeſtisſimum flagravitinvidia. Ma in paragone di tutte queſte, lagrimevole
oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire, che ora beato gode nella
preſenza di Dio,Pantaleonc: a cui tanto, e si fatta -mente porè l'invidia
de’mcdici, che accuſacolo all' Impe cradore di Roma Maffimiano, non mai fi:
rimaſero, finchè " non videro per man del manigoldo dal buſto l'onorata te
Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma avvenga, che i medici fian così,comeabbiam
diviſato malvagi,polliam farne più chiaro argométo,perciocchè eglino no pur
nelle noſtre par ti, dove parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma
anche la dove gli huomini ſon grosſige materiali, anzi che Ooo 110, 1 2 no, ufano altresìi medici malizie; ed inganni
per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per tacer d'altre parti: nell'Ia die
Orientali, come riferiſce Francefco Silvio, Solent muka ti medici ad febrium
variarum curationem acus aureas lone gas, ac tenuisſimas in varias corporis
partesintrudere, atq; ita putant febres miraculofe curare; e nel Tapui danno a
di vedere a' cattivelli infermi, che la cagion di lor malattie fian certe
pietre, o animali, o ſterpi, o coſe fimili, le qua li e'dicon, che gliele
traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi; e in tal guifa fi fanno a
credere per grandiflimi bacalari; e in tanta reputazione ne montano, che anche
i Re loro invidiandofa, voglion effer diloro ſchiera. Nel ta muova Francia poi,
ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i medici danno ad intendere a que’popoli,
che tutti i medicamenti infallibilmente le infermità guariſcano: ed ove no’l
facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale, a cui ſovranatural rimediofaccia
meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più parte le vomitive medicine, e só
quei volpo. ni sì deſtri, checol vomito vi meſcolan di botto, ſenza che altri
lor tolga in fallo, o ciocchetta di capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile;
il qual ſenza durar molta fatica per fuadono altrui eſler la malefica fættura,
la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello, che
tengono infra le dita, o altrove naſcofo; e ſe poiavviens, che
piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo, che il mal d' un altro Demonio
fifaccia, il rimedio replicano; e quando finalmente lo infermo fe ne muoja, ſi
fan loro ſcuſe, con dir, ch'il Demonio,che l'uccide, è del lor più potente; c
in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da ridere a
quegli imboccano. Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi, e degli
ingamni abbiſogna, deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici que'popoli,
che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti;.poichè a loro è conceduto
privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro. Felicisſimi
furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia, e d'altre fimili
Regioni, in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide:
felicisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano, il cui fenno che pote da
debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua
Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo
de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado, che il lor conſiglio non
curando,della vita allus ga il dubbio corſo; onde dieron cagione ad Ercole
Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan, chiam'io,che quando
Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma
nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens
Diſalubre ſudor fovente molle: Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o
l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna, el
Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti, il ſervizial, la curi, Che tolgon
l'appetito, e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura: Che ſe dato è
diſopra,chetu mora, Non ti guarrà dieta,o lunga cura. E più avanti E narraci un
villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia, cheformaggio,mentre Ha febbre; emai
non hamedico-auuto. E nonvoglio (foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e
diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre
nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo
bicchiero. E forſe,che farà queſto qualchenovellar dipocca, o da orator
menſonieros Michel diMontagna filoſofante,un de più grandi', che peravventura
abbia avuto la Francia, o fommamente veridico,non cinarr'egli, che in un
villaggio, ove inai non vi bazzicavaalcun medico,conmiglior ſanità, ch'altrove
vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto
dìnell'Italia echiepper Dio di noiche, non ſappia ciò, che molt'anni avveniffe
in quella terra, chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil
Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale
co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati, non
che praticati, ſeppe sì ben pelarla, ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori:
ed avvedutiſene i vafſalli,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone,
e lo sforzarono ad mandarne via il medico. Manon ſo come caduto dalla. memoria
mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo,
huomio di fingolar giudicio, e di chiara fede: Animadversi, ſctive, in
dyfenteriæ popu • larimorbo, in vicis de pagis, qui medicina non utuntur,
mortuos, aut nullos,aut paucos: in quibufdamurbibus plu. rimos elatus à medicis
maximofumptu:e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri: ex iis; qui medicas
adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui
moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità
per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro
con re plicati ſalasſi uccidere; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri
ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, et pauperes
medicis deftituti. Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza
dell'arte, tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia; e
malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio, e avveduto governo il
non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina; e infra
tanti ſubugli di ſchiere, e fazioni non ſi yide mai faggio Principe, o ben,
ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le, e con fattinon
paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o
Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco, o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto
in pregio dal gran Pompeo, o Antonio Mofaonorato, e careggiato da Ottaviano
Ceſare, o Vezio valente adultero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio, o
l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone, Teffalo, far sì, che a medici di
contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e
in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche. Cosi fempremai
in Romàse in tutt'altre parti delmondo, nomeno i Razio nali, che i Metodici, e
gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano, ciaſcun di loro ugualmente
il privilegio della cittadinanza di Romagodendo. E dopo le rovines dell'Impero
Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri: ne a'feguaci
d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4
to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto
ſormontalfero, comeaddietro è narrato, non però di menonon poterono far sì, che
affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti;ned'al tra
parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con
ſátire, einvettive lungamen te piatifféro; nondiineno di nulla mai', o
reggimento, o maeſtrato, o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio,
oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero, non Sommo Pontefice,
o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della
Suezia,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch," Io ſappia, ſi
legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o
dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e
ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon
tefa infra i medici Chimici', e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne
foſſedalla ſcuola di Parigi, volle mai inan dare avanti i decreti diquella,
nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa (il qual ſe tanto nella
filoſofia,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato,quan to nella
Loica di lui s'avantaggiò, certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga
impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare;e ad
ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici, tư di 480
Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu
ſeppe Quercetano medico, e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva,
ne fu da lui ſommamente onorato; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre
chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro:
pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del
Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco, anzi l'ancimonio per
ciaſcun medico liberamente adoperavaſi,comechè nelle cure delle medeſime
perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi
Redelle Spagne, così ne'paeſi balli, come in tuce'altres Provincie della loro
Monarchia ſempre hapermeſſo,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare
a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte, e del Silvione del Villifio, fen-) za
ritegno alcuno; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti
de Galieniſti. Che ſe mai Prins cipe, o Maestrato inframmetter tałora s'ha
voluto, e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola,
comechè menoma a certa, e determinata legge ligare, bea fiè veduto perpruova,
che ogni loro ſtatuto, a ſconcio, e non laudevolefine ſempremai è riuſcito;
come ſi vide av venire, oltre a quel, che è detto, allor, che perconſiglio de
Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata,
qual dicono, come velenoſo vietato; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573.
con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno, e del Fraſſino, che
poco prima era ſtata ſeveramente proibita. E no poffo no arroſsare in leggere
que'rimproveri fatti dal Clufio, e dalMattioli, il quale in cotalguiſa favella:
Er. rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno
proibire ſotto graviſſime pene, che non ſi debba ven. der la manna, che riſuda
dalla ſcorza del frasſino, e dell'ora 10, la qual chiamanomanna sforzata,
immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna, imperocchè queſta, oltre che pur
ga ſenzamoleftia alcuna, e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo
della gravidezza, è fantiffima, ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie,
e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487:
Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi; però
laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano
lamanna dalfrasſino, e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento
non conoſciuto da loro, febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede
altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a'
ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente
rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione,
che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i
bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate,
del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer
non guari diffimili alle leggi umane, dice: ftandum eft libris Hippocratis
tanquam ad théticis: giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover
eſſere d'ogni eredità incapaci; nel quale errore laſciaronſi traportare
l'Alciato, e'l Cujacio, e altri au tori di lieva in legge. Perchè il noſtro
Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione; ove in modo giudicoſlinel
noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici, che dal Caranza
dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole: venit improbandum
judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis, et aliorum quos Affli
Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat: eorumque ductu
Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem
declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam, d predictorum judicium impugna
verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium
illud Confiliis philofophorum, medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo
quiſquam non malit diſce dere, quam à veritate. Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da
quel,che narra quell'av veduto,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua
no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere,
e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere
tenner conſiglio ppp i dair 1 3 di dar
compenſo agli abuli della famoſa accademia di Pa. rigi, e che infra l'altre
leggi, e ſtatuti diviſarono delle bi. fogne della medicina: ordinando, che i
medici di quella ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate, e ogni ſua
opinione puntualmente ſeguire:medicos ſono, parole del, to ſtatuto, rapportate
dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas tee neant, divinum Hippocratem diligenter
legant, præcepta ejus religiosèfervent. Empiricam caveant, neque ea ullo modo
utantur. Ma cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera; e in vero,
ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata, e riandata cotal
biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette, e delle opinioni, e
all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco
fuora. E tanto più, che que' inedici, che con figliarono una cal legge, ne
prima, ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono; e in iſpezialità nel
purgare, e nel ſegnare,come nel ſecondo ragionamento avviſam mo; ſenzachè il
non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento del medeſimo
Ippocrate; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a yalerſi delle
impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore; perchè gli
ſteſſi riformatori convenne certamen te, che alcuna fiato, per non dir altro,
veniſſero con em piriche medicine curati, ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo,
o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali. E già parmi o Signori, ſe'l mio
avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui ragionato foſſe de
tantidi vieri della medicina, che ſaldinon nai ſono fungo tempo durati: delle
diverle, e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare, e dalle si varic, e
tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili
a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo, ed
inviluppato meſtiere, il quale non ha in ſe dottrina, o principj, ſui quali
huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento: e dal maltalento
demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi malagevo
lezze, acui s'avvengono tutti coloro,che d'ordinar lebis ſogne della medicinafi
danno alcuna cura. E perciò lag. gio ſembrami lavviſo di quella Città, o di
que'Regni, ch' avendo forſe a pruova legià dette verità conoſciute, non
vogliono in alcun modo prenderfene briga, ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma
dell'accorto poeta, il quale, coine Orazio faggiamente avviſa, que Deſperat
tractata nitefcere poffe, relinquit. Talfu il fano conſiglio del Signor Duca
diMedinaceliVi cerè nella Cicilia; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di
coſtoro, anzi prendendole a gabbo, ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi
Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola; il quale a diritto, ed a
roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè
pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a
durare la maggior fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie
in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che fra medico, e maliſcalco altro
di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome. Ma lo finalmente non lo fe
altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui
pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc dicina; e ſpezialmente quelle
che fatte ſono a richieſta, o a conſiglio de'inedici, quanto Trajano Boccalini:
allor che narra, aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a
conſiglio alquantimedici,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini
ch'avvenivano nel medicare: ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure
no iſcemaro no in alcun patto, ma vie più moltiplicarono le malattie; e le
morti giunſero a tale, ch'egli rimaſe forte maravigliato: (ſon parole del
Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto
fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente
da Ippocrate chia mandoſi offeſo, eſchernito, che ſotto zelo d'apparente carità
verſo il benpubblico, con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada
all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza, con indignazionegrande
disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo
diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento".
Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte
cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RASr 220
Bbiam finora fufficientemente diviſato, o Signori; delle dubbietà,.e incortezze
del la medicina,malagevoliaffaiperhuomo, anzi impoſſibili a ſuperare:'infra le
quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai; non altrimenti, che picciola, e
malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare da'fortunoſi ventije dalflottar
dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa; o mal pratico viandante il
qualecoleo da oſcura'norte,in folta, non conoſciuta ſelva;per travolti-bronchi,
e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a
dritto ſentiero, ch'a falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così
intralciato meftiere via, o modo al cunoavviſare, convienr'certamente, che'l
tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto, e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que
avendo ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la
vita, e la ſanitàdi ciaſcuno,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte
ingegnarſi di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui, al mio gliormodo
cheſi poſſa; çfecondochè la condizione d'un tal meſtiere comporta. E (come a
coloro, cherompon per tempeſta in mare, i qualiad ogni picciol cravicello, o
pan chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince: uob; maroſi
della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti, che gli li fanno
avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia,che con quelli sì degna im preſa
poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita. E quinci ſi è, che
quantunque poco,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che
per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific
loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla
medicina perrigenti eſerbene ſcorto, e cono ſciuto, chiunque voglia con qualche
profitto, e laudevol mente cſercitarla; perchè fa meſtiere, che lo attenendo le
promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente
chente, e quali coſe a fare un buon medico, e perfetto,in quanto ſi poſſa
umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia
no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err
ato Ippocra te, o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do
dice, ch'a coloro, che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia
meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές,
tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi,
e luogo allo ſtudiarconvenevole, e buon alleva mentoinfin da fanciullezza,
einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio, ſecondo lui; conciolo
fiecofachè mancando talvolta, vano affatto, e inutile ogni ftudio, e ogni
diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia
vuolch’abbiſogni quella na, turale inclinazione, dache alla medicina apparare,
e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla; vero fem premai ciò che
dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde
aſe, cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova; Eſe'l mondo la giù
ponce mente Al fondamento,che Natura pone, Seguen. Del Sig.Lionardodi Capoa.
487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu
natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è
fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento
richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora
improvviſo, ſenza aver potuto in prima dello infermo, o della natura di lui
molto diſtinta contezza, o eſperimento, convenga diviſar me dicamentijanzi che
dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze; eďove ancor queſte ſiano
all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e
ardire a novelle cure lollevare lo intendimento. Alla qual coſa fare, chi non
avviſa, che fano giudicio, e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni,
c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori
diguerra. E mi ricorda a tal propoſito, che il Signor di Molluch chiariſſimo
capitano dir Tolea, ch ' ove il general della battaglia, iit veggendo rotte le
ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito,egli, o da vergognago da timore oppreſſo,
il ſenno, e l'ardir non perdeſſe ad'un ora, ſempremai buo na ſperanza gli
rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati, e
incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa. Ma potrebbealcun
dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per
appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di
noi egualmente l'abbia; impc rocchè, direbb’cgli, quantunque lo ſappia molti, e
molti eſſer coloro, che per naturaľripugnanza di genio, o d'ate titudine in
altre arti, appena aſſaggiatele, dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi
ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto, non ne fia medico poſciano
e'n buono ſtato divenuto. Eforſe ciò avviene, perchè eſ fendo la medicina al
mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie', il
ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per
apparar lized eſſerne da tanto; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli
dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto
intender noftro, come temerariamente altri pur s'attenta di fare: ma ſe a
qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo
pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma
di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più
rare. Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico
intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda
tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala
co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi. Ne lo ſtenderommi
al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della
Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca,e dcHa Tedeſca egli è allai
chia ro,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle
medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta
opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche
con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio, chedal non pienamen té
intenderle ne può ſeguire; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da
Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar
medicina, con queſte parole: Notitia nominum prodeft ad doctrinam. Et nulla
profeéto ars, curiofius, cautius vigilantius homini diſcenda, traétanda,
meditanda eft, quammedicina, qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea
verſetur falushominum, vi ta; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel
medico; il troppo ſtudio della quale nuoce, non ch'altro, a chiun que veramente
approfittar ſi voglia nella filoſofia, eſpe zialmente nella medicina,poichè
eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte, non fa poſcia dipartirſene
allor, che delle vere, e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare; onde
faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli
artefici degli ſtrumenti muſia cali, i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno
poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma la norma ſicura
de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge: e
malamente al ſi curo fornito loico, e conſeguentemente buon medico ſarà colui,
a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono. E certamente
avea la ragione, l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello
confortare, e fpignere allo ſtudio della Geometria, e dell'Arilmetica: poichè
la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole, dice
egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a et ti tò év inagixí
óvño Jou răvő mi yeusercioè,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento,
acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della
medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad
un medico faper Geometria, affermando ancora lommamen te giovevole, e
neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa, e l'altre biſogno nella
medicina. Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto: ſe
oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento
de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla
notizia dell'ordina mento del corpo umano utili, e neceſſarie. Ma fe (come più
avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico, chifiloſofo in priina non
fia: c per apparar filoſofia, la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è pur
manifeſto,che il medico debba efter Geometra. Ne può punto dubitara ſi il
convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle
ſtorie, che gli antichi filoſofanti, tan to biſognevole ſtimaſſero la Geometria
nelle loro ſcuole, che no volcan,cheniuno in quelle entraſſe,ſe prima inGeo
metria ſtudiato pienamente non aveſſe. E'l gran Galileo de’ Galilei,
grandiſſimo maeſtro di coloro, ch’alla vera, e dalda filoſofix attendono, diſſe;
In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta: e quello eſserne
ſempreinnanzi agli occhi aperto, cioè a dir l'univerfo; ma non mai poterviſe
leggere, fc in prima la lingua, e i caratteri, co' quali egliè Scritto,
perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto, dics in lingua matematica, e i
caratteri ſono triangoli, cerchi, - Q29 altre 1 >
altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der
umanamenteparola: ſenza queſti, è un'aggirarſi vana. měte per un'ofcuro
laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo
Cardano, il qual mi ricorda, ch'avrebbe voluto, che niuno in medicina non ſi
foſſe mai convertato, il quale, mathematicas perfecte no calleret, per dirlo
colle ſue parole; del che recandone la ragione, ſoggiugne: Nam his folum, nec
fallere, nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit,non eſt
veriſimile in propria arte velle ſuperioribus, &fuis, ac fibi ipſi impo
were. Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia, la Mu fica, e altri
nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede; e della Muſica
favellando Tomaſſo Cá panella dice:medicusnon ignoret, qui foni, quos motus in (piritu,adquas
bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo
Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano; e con molte, e ben
compoſte pa role l'utilità, che da quelli ſi trae, va egli ne'ſuoi ſcrit ti
diviſando, e quanto egli avanzato ſe ne foſſe; ſenzachè, dic'egli, ſe il medico,
non è di ſtronomia intendente, gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti
d'Ippocrate, il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co
ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte, le quali ſenza ſaper di ſtro nomia, impoflibil
certamente fie, che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai
comprendere, come ben ſi poſſa medicare, ſenza ſapere, il naſcimento, e loco
caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le, neceſſarie
al meſtier della medicina, le quali tutte la ftronomia ne inſegna.
Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio, come vano, e inutile
a'medici biaſimano, punge, e proverbia il buon Franceſco Vallefio, dicen do,
che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile,
non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo
ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe. Perchè il non mai abaſtanza
lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo
della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela
ſcienza delle ſtelle a quella della medicina, principio, eguida ſia. Ma fe la
Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il
ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al
ſaper di quelle, i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze, e d'altre
aſſai malattie, manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni
de’malije i rimedj, ch'a quel li talvolta hanno approdato, e ciò, che per
pruova ha noc.ciuto, e giovato agli huomini: e aſſai pienamente ſi com prende
quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto, e altri
aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di
lui della fie ra, e lunga peſtilenza del Peloponneſo, traportato poi co tanta
eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi. Ma ſopra tutto ſenza
dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede; imperciocchè, fe perfettamente
egli ſaper dee la natura, è l'economia tutta del corpo uma no, le cagioni, così
d'entro, come di fuora delle malat tie, le qualità, e le coinpleſſioni
dell'aria, delle acque,de' vegetali, degli animali,e de’minerali turti:
conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio,
e diſcorrendo: ma in quella con ogni intendimen to, e ſtudio involgerſi, e
riconcentrarſi, e in apprenderla, pienamente con ogni sforzo, e con ogni opera
affaticarſi. Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon
damento della medicina; e Ariſtotele n'impone, che il me dico cominciar debba,
ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico
dal filoſofo non dif feriſca, ſalvo che nell'operare: e che la medicina altro
no fia, ch'una operatrice filoſofia. Folle adunque, e danne vole oltremodo è da
giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna: che il medico ſenza più avanti
ricercare, appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali;
Raq 2 ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità;
concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta
giammai, come ſcioccamente s'avviſa Avicenna, anzi allor maggiormente vi
s'interna, e profonda, e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo, che a
ciò riguardando eſfo Avicenna, avviſaffe pienamente il biaſimo grande, che di
tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue
to il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare, e contemplar le coſe
della natura. Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno, il qual ſopra ciò
ben’un libro inte. ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per
* chè e' medeſimo dille altrove, il medicare una piaga non, effer impreſa da
tutte braccia, ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno
davanti agli occhi. Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate: il qual giudicò
fi loſofia, e medicina eſſer compagne ſtrette, e ſorelle,giua te, ed
avviticchiate; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma, amendue coſtoro d'un
medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo: Primomedendifcientia pars fapientia
habe batur; ut &morborum curatio, dow rerum nature contempla tio fub iiſdem
auctoribus nata fit;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè
requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione, nocturnaque
vigilia mi nuerant. Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus
fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto,quan to Pittagora, Empedocle, e
Democrito, e Platonc, e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco
nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della
Grecia ancor s'avanzaſſero; ſenzachè i fonda tori, e i Principi di ciaſcuna
ſcuola di medicina, eziandio della Metodica, e della Impirica, eilor più
rinomati ſe guaci, tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia
s'eſercitarono. Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi
noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós
gap Quómo, iostec, cioè a dire: il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio. E 1
1 quantunque,come ſopra abbiamodimoſtro, aſſai poco al baſſo, e loſco intender
noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto; nondimeno queſto ſteſſo ci
da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia, acciò egli
pof fa agevolmente accorgerſi, non aver la medicina certezza alcuna; e a queſto
avendo certamente riguardo, diceva Cornelio Celfo: natura rerum contemplativ,
quamvis non faciat medicum aptiorem, tamen medicine reddit perfectum. Oltre
alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene; concioſGecofaché,
ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate, di buoni, e laudevoli
coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già, come a tal pre gio mai
aggiugner poteſſe colui, che coile natural filoſofia la moraleancora non
accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella, cha per oggetto Panino
dell'huomo, e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di
quelli,e darvi baſtante compenſo, ed efficace ajuto. Orcome po trà il medico
adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del
corpo, ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie? cioè a dire, ſe non
fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo, come da prima, e
principalcagione, da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono, la
qual certamente ne cono fcerc, ne rimuover potrà il medico giãmai, fe dalla
moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim,dice Sinforiano Cãpegio, per tacer
altri, eſt animi, &corporis neceffitudo, ut ſua om nia bona, ac mala,
velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole
cantò il Guarino. Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor
foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora,
ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale
appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro: e ſe pure dopo ſi è co
minciato a feparare l’un meſtier dall'altro, non èmara viglia, dice Malfmo
Tirio: perciocchè la medeſima artu di curare il corpo, così in fc ftella diviſa,
e lacera ſi vede,: chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar
ſolamente gli occhi, altri law veſcica, e altri altra parte del corpo. Ma con
quanto di fcadimento, c danno dell'arte, e de’maeſtri di quella, per nulla dir
de’poveri infermi, ciò avveniffe,che partite, e ſceverate queſte due
profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo, ſenza badar
punto alle malattie dentro, lo dicano tante, c tante malvagità, e ribalderie
operate daʼmedici, come di ſopra dicemmo; concieſlico fachè non ſon per altra
cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che
dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli
alţri tute si della verità, della giuſtizia, e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori.
Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo, il medico filoſofo ſomigliante a
un Dio, fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte
cotan 10 eziandio giovevole, e neceſſaria alla medicina. Per chè guardando a
tutto ciò Galieno, cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento,
e di riunir di nuovo, e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde
compoſe quel libro, ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi
guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare, e del medicare
dell'anime le malattie. Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna
altrui e' me defimo profittaſle; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli
narra, era egli avvezzo a ſoffrire, e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo
grande, e immobile, ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita
di beni, o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di
gloria, o burbanza divana ambizione, o qualunqne altra coſa maggiormente al
mondo ſi pregia.. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea
provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno, che ſopra tutto
egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato, e di
quelle coſeancora, che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente
ceſfarle. Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano
intendimento conceduto, per venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo
uma no, gli conviene in prima il ſito, la figura, l'ordinamento, e la grandezza,e
l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare: alla qual coſa
manifeſto è, che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa: perchè
della me dicina folea dir faggiamente Cello: incidere mortuorum corpora
difcentibus neceffarium. La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici
conſiderando, come pienamente nete ſtimonia Galieno, a ufare i noromici
ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano. E oltre a ciò egli
dee bene inveſtigare, e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la
propietà, o la natura dell'Erera,dell'aria, dell'acqua, della terra, della Luna,
del Sole, e di tutt'al tri Pianeti del Cielo; da'quali corpi tutti continuo
fotti liffime, e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro, e qua li a
dannodell'umane vite. Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le
naſcoſe virtù de'minerali, de've gerali, e degli animali tutti, oide il cibo, e
imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono. Cola,la quale cotanto al medico è
neceſſaria, che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino
Inventum medicina meum eſt: opifexque per orbem Dicor: &herbarum fubješta
potentia nobis. E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico
riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano
Poeta E già l'antico Erotimo, chenacque In riva al Pò, s'adopra in ſuaſalute:
Il qual de l'erbe, e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo, ogni virtute.
Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio, che fenza un tal conoſcimento
non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς
ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più
luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo
potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere: e ame baſterà al preſente per raccorciar
la lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo, over'dice: chiunque
nel medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser
molto bene ſcorto, e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in
ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di
medicamenti, e infra quelle, le più eſquiſite ſceglier ſappia;
concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato, ſe mai oferà
un talme Aiere imprendere, ſappiendo, ſolamente in ciarle la nor na del
medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico, Quinci ſi pare quanto
errino i medici, comequelli, che pongono queſta parte, cotanto alla medicina
necella ria,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il
doctiſſimo Fabio Colonna: in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat
pharmacopolis carentibus, artem exerce re? an ne verbis? c più avanti trapaſſa
l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali, che di cotal traſcuraggine
agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus, dice egli, neſcit quod agro
præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum: Rufficus herbarius,
qui fæpèlegere ne fcit, &à nemine doceripoteft, cafu colligit fimplicia:
&hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem, fepiffimemortem afferunt,
ignorantiæ finem; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e
faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante, e tante
malagevolezzo, che noi diviſate gli abbiamo, ſenza altra fatica durare ſia per
venire a capo. Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti
viaggi nuovi altri pachi lontani troppo, e non conoſciutia piè volgare: oye fra
bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi, e avviluppati ſenticri con gran ſudore, e
biftento giugner ſi dee. Egli è il vero, che giunto poi quivi, trova ben cento,
e mille vaghezze allettaprici, luſinghiere. Già parę di udirvi dire
concordemente, che lo voglia favellar della Chimica, nella qual ſi comprende
tutto il bello, tutto il vago, tutto il maravi glioſo, che può mai operar la
natura,o l'ingegno umano. Ne 10, zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe
cento bocche,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena, e ferrea voce, alcuna
menoma parte de' pregj di sì iluſtre, e glorioſo me ftiere potrei
narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o
nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe, giovevoli, e neceſſarie
al gencre umano arti dell'agricoltura, del fabbricare, del navigare, della mili
della ſcultura, della pittura, della filoſofia, della me dicina: voi facendo
teſtimonianza della grandezza, e dellº eccellenza della Chimica,narrate pure,
come da effa -i vo ftri natali, il voſtro accreſcimento, ilvoſtro ſplendor trac
fte: dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia, age volò l'opera:
Netacete pure, o ultime pruove' dell'uma na induſtria, gloriofiffime memorie
dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra
deOmero, che co’ſentimenti inſieme i dolori, e gli affan ni de’greci Campioni
potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento,e cento altre
Egizie maraviglie, che tolte a noi dal teinpo, appena chi vi preſti fede ritro
vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi, voi effigiati
obeliſchi di Tebe,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo invidalima,
fare pur chiara l'eccellenza della Chimica; e ne'metalli, e nelle gemme, cnegli
artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie
eternaméte innalzate. Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la
chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj
per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra
colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va
reixnucios χρυσού, και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG
έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης,
μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv. Ma quanto
la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può ravviſare,
che ſenza quella non può Rrr valevolinente operare, ne è da dir arte
ſicuramente la mes dicina; perciocchè, fe come abbiamo di ſopra lunga
mentedivifaro, in cicchi, e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina,
nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna, o più
ſicura guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe, che
la vera, echimicąſperienza. Enel vero, che giove rebbe mai al medico il ſapere
ad una ad'una le partitutte annoverare, e ſcernere del corpo umano, ſe.poi
della nas tura, e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo, che nulla;
licome nulla ancor monterebbe, che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti,
eivegetali, e gli aniinali, ei minerali, ſenza ſapere lui la propietà', e
l'efficacia di quelli. Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti
del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti, fenza la
traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro: e ciò,
tra perchè iſegui,į le conghietture, onde di prenderle immaginarono, poco men
che ſempre fallaci, evane fi erano: e ancora perchè parecchj di coloro, il
tutto a quelle,, che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi
per loro più to fto altre, edaltre qualità ſpiarc,dalle quali molto più,che
dalle prime, le operazionidelcorpo umano, come è detto, dipendono. Matroppo
malagevoli alcune di quelle fono, e ad intendimento umano moltonaſcoſe; così
ayviluppatou fono, e infra lor intralciate le particelle cutte, onde s'in
generano:: 0 per la troppa debilezza de'lor movimenti, o per la picciolezza;,.e
cenuità di quelle, o per altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri
ſentiméti celandoſi,non ne laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque
pulueris interdum ſentimusadhæfum Corpore, nec membris incuffam fidere cretam,
Nec nebulam noctu, neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes.
Così ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la
natura, e la propietà dell'aere, dell'ac que, della terra, delle piante, degli
animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali, in non pochi
errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti
Ippocrate, Teofra 1to,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti, sfidan
doſi di poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire, ſenza più
addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono., quel
ſolamente ſcrivendo ne, che per lungapruova già ſperimentato:n'avevano. H che
diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia, edell'eloquenza Romana:
mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera, qua radicum ad
morſus beſtiarum, ad oculorum morbus, ad vulnera; quorun uim, aique naturam
ratio nuſquam explicavit: utilitate, con ars eft, &inuentor probatues,
&indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone et radix ad purgandum,quod ariſtolochia
ad morfus ferpentum poffit, videmus, quod fatis eft; cur posſit,nefcimus. E comeche
altri filoſofanti, emedicidi grido, dallapore, dall'odore, e daaltre
ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero, come, o caldi, o freddi, o
ſecchiidetti ſemplici foſſero, onde poila virtù di radificare, o di ſtrignere,
o di riſtorare, o d'altro argomentar poteſſero: inutilenondime no,e vano ſempre
da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu dicato; e'l medeſimo Galicno, non
che altri dice, queſta eſſere una ſtrada, oltre ad ogni creder dubbievole., c
falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo, dal freddo, dall'u ! mido, o dal
ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro, e l'acetofo, ed altre fomiglianti
qualità, che ſeconde chia mano. Oltre a ciò, v'ha parecchi de'ſemplici,chène
odo re alcuno, ne ſaporc, ne altra manifeſta qualità avendo, só poi di
grandiſfime virtù, eziandio belzoardiche, e veleno ſe dotati. E chi mai colla
ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar, che l'acqua ftigia, che in niuna
ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge, cosi peſtilenzioſa,
en mortal poi ſia? Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi
veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali
porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a
roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15
2 mano, fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu tarco: e.de'cavalli
avea detto Pauſania,, Trogo, e Curzio; ed Eliano delle Corna degli aſini della
Scitia; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas tătùmmularum repertas, ne que
aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis agudo E Vitruvio: conſervare
antë eam, &continere nihil aliud po teſt nifi mulina ungula. Machi potrebbe
mai credere, cheſotto la dolcezza del miele, e dei zucchero cotanto piacevoli
alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti pungenti, e roditori non molto
dall'acqua forte, e dall'acqua.regia diſſomiglianei? delle quali gli acutiſſimi
ſpiriti net vitriolo, nel nitro, nell' allu me, e nel ſal comune s'appiattano;
e che nel ſolfo diqua, lunque ſapore ignudo, c digiuno dimori un ſale oltremo
do acecolo, c roditore; e che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino, uno
acutiſſimo, c aſſai valovole a rodere, e l'altro ſoprammodo piacevole, e ſoave;
e che l'acqua pu ra, e ſchietta, che continuo ſi beve, e ſembra al guſto co
tanto inſipida, ritengi un fale sì fattamenteacuto, e pene trevole, che ben
balta egliſolo in minutiſſime particelle a fminuzzare, e ſtricolare quel
duriſſimo metallo, ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede; echenelle viole,
nel ke lattughe, nelle roſe, ne'papaveri,, e in altre ſimiglianti ierbe, e
fiori, giudicati anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc
ſpirito-affocato, ed ardente mícoſo li ftia, dallo ſpirito del vino non punto
diſſomigliante. Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono, ch’a ravviſar le
qualità de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero: e per giugnere alyero
conoſcimento delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré-. diamo ad avviarci Per
ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando, e minutamente partendo
ciaſcun corpo per opera della vitaf notomia, la quale Sempre a vincer ſe beffa
oprando intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta. E quanto sì
nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo,
ben conobbelo il curiofiſla mo Ga. for mo Galieno, allor che con ogni sforzo la
natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi,
così ebbe a dire: In queſta coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade, e
tenterò di far ogni pruova, acciocchè poftafi qualchearte, oqualche
ingegnoritrovare, col qua le ſeparar ſi poſſano le parti contrarie nell'aceto,
ſicomeſuol farſi nel latte. Macertomala pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo
a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te agevolisſimamente s'adopera.
Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno,c quáto da inenoora li ftime
rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun
giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in
due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il che grandisſimo vantaggio reputave
Galieno, main altre, ed altre molte quello agevolmente freverare: le quali
ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa minamento de filaſofi, con dar
probabile,e verifimile con tezza delle lor varie; e diverſe propietà, le tante,
e tanto maraviglioſe operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare. Oltre a
ciò lo immagino altresì, che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno
qualchemenomacontezza del la Chimica, comeche rozza; e imperfetta aver potut?,
11011 đì -ſarebbe certainéte maieglimaravigliato, come ſotto una sì grande
virtù di riſtrignere, quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr
poteffc.- Imperocchè egli con far di quello notomia agevolmente,el’una, e
l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal
dare inſieme, e di riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa.
Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in
- fra le contrariope rar mai poteſſe, ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e
rap prendendo d'altra parte alcuni liquidi, e fortili, e.volanti troppo, ch'a
qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole, e
imperfetto il ſuo filoſofar..conoſciuto avrebbe. Or di queſta nobilisſima arte
non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove
F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove, tra per le
tenebre folte disì antica età, e maggiormente per la non poca cura, che ebbero
ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o
punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno, e riguardo, accennandola
con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin. mi, e con oſcure allegorie, e
favoloſi racconti inviluppan dola:malagevolemolto,e confuſo per certo, e poco
mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo incominciamento rapportare;
cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte
ſi vede. Ma che che di ciò Gia,.che di sì nobil ritrovato deali la gloria
all'antica Paleſtina, o pure alla Fenicia,o all'Egitto, o alla China, o a qualū
quealtra parce forſe più ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e
ben da ſe medeſima appare eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi
eller ritrovata nel mondo, avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao
muelBocciardi dica: novum effe inventum della Chimica favellando, nec illius
quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum; il che pienamente teſtimoniano
Euſebio,e Zoſimo; e Suida, c ſpezialmente il Firmico, il quale tutto che fio
tilſe a'répi di Coſtantino, pure traſſe le ſueſcritture, come ei medelimo ne
narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè
menzionato Euſebio, che aveffe la Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu
Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν
λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών
εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και φιλοσόφους, εν οίς ήν και Μαρία της
εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί χρυσού, αργύρα, και λίθων, και
περφύρgς λοξώς'. ομοίως δε και Μαρία εσ ηγέθε σαν παρ' ο'τανε, ως πολσίς και
σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην. Μa che Democrito ſapeſſe la chimica, ſi
può apertamente ve dere in quel che dice di luiSencca in una ſua piſtola: exce
dit porro vobiseundem Democritum invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in
fmaragdum converteretur, qua hodieque coétura inventi lapides coctiles
colorantur; le quali parole di Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe
della Sca For conto Scala; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti
Euſebio, che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato,ma
aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto, untal Pandoro monaco; e
comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in
Egitto, e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito;
impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche
operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel
nome, da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della
chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura,
las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora:: e'l modo di
coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino, e l'artificio
veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri, e diformar le gemme, e'l meſtier
del la milizia, e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco, e neceſſarie al
genere umano; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente
ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar
qualche veſti gio appreſſo Teofraſto, ed altri antichi ſcrittori: e da qualche
medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova
cotal arte, e da’moderni inge gni ritrovata. Mache che ſia di ciò: egliè
certamente l'uo. ficio, o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici,
e di congiugnere inſieme i diviſi.. E quantunque ella ſia uns fpezial arte, che
da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte, di
cui dipender debba; non però di meno per li molti, é diverſi fini, in cui gli
ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio. no, ella infra
varie altre arti ſovente s'acconta;, ma in tre ſpezie principalınente è partita.
La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a
quellaper fezione (come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta
vien chiamata da’Greci aepurunanida, La ſeconda ſi è la filoſofia,per la quale
sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico di conoſcere, e ravviſare la
natura, e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte. La terza- ſi è la medica,
che il mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la
patura de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie, e dell'arie,
e dell'acque, e demedicamć ti, e di tutt'altre coſe schad huomo faccian
meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi
rendano, e di maggior efficacia,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino: e ſi poſſa
ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque
però ſi dica no, o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi
ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina,
quanto delle matematiche, o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette;
ſe non ſe per avventura dobbiam dire,che maggiore, e più manifeſta utilità
recau alla medicinata Chimica, che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati
unitiinſieme, e rannodati ſi facciano. Perchè come medico Chimico
-ſuolchiamarſi dal volgo colui, che del la Chinica tanto quanto per lamedicina
ſi ſerve, così ſo migliantemente o ſtronomico, o geometra, o muſioo chia mar
colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre, di sì fatti
ſtudi picnamente fi conoſce. Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo
ſeguendo, chimnico medico, o chimico filoſofante-colui chiameremo, che del la
chinica arte, o per medicare, o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir
Si fuole. Madall'uficio, edal fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi
comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle
ſecrete coſe della natura metter ne poſſa. E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi
crede, ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il varco: chi può
mai porre in dubbio, che lo ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l
più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde
compoſti, e formati i naturali corpi ſono: come appunto dallo ſciogli incnto
dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia. ti ingegni fi vengon
toſto a ravviſar le parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi
padri,e maeſtri del la natural filoſofia, Pittagora, Parmenide, Anaſimandro,
Democrito, e altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni, che
attentamente ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe, che daʼnoſtri
ſentimentiſi comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi
prin cipj inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono. Ne d'altro argo méto fervifli
Ippocrate a forınar l'opinione de'quattro pri mielementi, ſe non ſe di quello
della reſoluziou del corpo umano; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele
ſeguito: dicendo, nella carne,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi
contenerſi virtualmente il fuoco,e la terra, poichè aper tamente ſe ne
ſeparano; ma nel fuoco poi noneſſervi altri menti legno, ne carne, ne in atto,
ne in potenza; imper ciocchè le vi foffero, certamente ſe ne ſeparerebbono. E
tal ſentimento dalla torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato; a'quali
ſeinbra aver aſſai bene ſtabiliti i quattro pri mi clementi, con dire, in
bruciandoſi una pianta aver vi, oltre al fuoco la cenere, che è terra, e'l
fumino, che è aria: e la groinma, la qual riſudando n’addita non mancar vi
anche dell'acqua. Ma quanto ſpoſata, e fievole una sì fatta pruova fia,ben
pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto in chimnica, cui troppo ben ſi
manifeſta il macaméto, e i difetti di cota le ſcioglimento; concioſliecofachè
in ardendoſi sì fatti corpi,molte, e varic favoleſche, oltre a quelle, che per
la picciolezza in conto verun çavviſar non ſi poſſono, aperta mente per l'aria
ſparpagliar-ne veggiamo: ne è da dire la cenere, il fummo, la fiamma, e
l'umidore eller corpi ſem plici, e non compoſti, che queſti ancora ove più minu
tainente fi folvano, e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano,
ravviſanfi compoſti di particelle di natura, en d'operazione diverſi, come
quelle, che contengono un'ac qua ſemplice, ed infipida, ſenza altra virtù,
falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e
penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che le che la virtù tutta del legno: le ceneri
altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a
fonderſi nel fuoco, ed a ſcioglierſi nell'umido, ed una ter ra priva di ſapore,
e di efficacia. E corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi
corpi ſi può dimo ſtrare, ma col conſiglio della chimica, poco men, che in
tutti corpinaturali adattar puoſli; oltre a ciò poi più addé troil chimico
facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle
contenuto, egli odori dal ſol, fo, e dal mercurio la penetrazione; e per tacer
d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà, che i ſemi del liquido, e
ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino; o che ſian quellia guiſa d'acutiſſime
piramidette, o dipiccioliſfimi globi: e che il ſolfo ſia d'uncinute particelle,
e aggavignate com poſto. E così pian piano ricercando la figura delle parti
celle del fale, è degli altri chimici principj trapaſſerà a {piegare con
probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così pariinéte dalle
chimiche oſſervazioni avviſato, po trà chiche ſia inveſtigare,come far ſi
poſſano le piovese i grā. dini: come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le ſaette:come
dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della ſpada,rie manédo
illeſa la guaina: come piovano foventi fiate pietre, ſangue, elatte, e come
alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle qualicole, e altre
molte, potemo ogo gi col giovamento della chimica, non ſolo aſſai veriſimile
mente conghietturare, ma coll'opere, e coll'eſercizio prat tico imitare;
imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica; che dagli
effetti oro fulminante appel laſi, la quale acceſa, fa non folo lo ſtrepito, e
lo ſtroſcia del tuono, ma anche ilcolpo, e la violenza della faeţea; il che fa
altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata, la qual tonante
chiamano. Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni dell'acque piovane
eſtives, un ſale, chemeſcolato con egaal porzione di ſalnitro,e có una
particella di ſolfo fa an coral meſcolamento, che ac celo li fonde in pietra.
Ma di troppo più tempo avrei bi fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre
maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per addietro, e inviluppare agli
intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi
rendono in qualche maniera pia ne, e manifeſte. Perchè non è forſe dadubitare,
che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci
filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto,
che prima in quella non foſſe alcun té po uſato, e ben lungo vantaggio tratto
n’aveſſe; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella, onde Platone, e se
nocrate volean, che nel filoſofare non foffero ammelli com loro, che della
Geometria digiuni foffero, come teſtimo: niano Laerzio, Suida, ed altri; perchè
nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite legge
váli oudéis ayemjétentos sioitw. Concioffiecofachè la chimica fola il più certo,
e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia; edella ſola porger
ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde,e diamantine porte differrar in
qualche modo ſi poffano, ove i più cari, e ricchi tefori deita natu ra fon
riſerbati: perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente il
famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio, e per eccellenza floſofi, e
ſapienti coloro, che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per
diſcendere al più particolar giovamento, che della Chimica raccor fucle la
medicina: Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e
ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia,la chimi ca
lommamente abbia luogo, e la ſua vital notomia; im perciocchè ſiafi pure
coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto, le quali gli
antichi ſapicaci ravviſar non poterono; e lungo tratto vi crrarono: e ſap piaſi
pure per quella il vero movimento del cuore, e del ſangue: e che il ſangue non
s'ingeneri nel fegato, o nelle vene, fecondochè con molti altri, così antichi,
comemo derni porta opinion Galieno: ne men nel cuore,ſicome im » magina
Aristotele: c ſappiaſi anche, che il chilo tragittiſi non per le vene
miſeraiche, ficome vollono gli antichi me Sss dici; 508 RagionamentoStrimo
dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue
trapaſſa al cuore: e ſappiaſi eziandio, che vi ha le vene acquofe: c come, e
per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli: ecento,
e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi, de
qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi
altresì volentieri (il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la
notomia già all'ultima mano ſia giunta; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia
quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire, o fa pere:non
per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella
perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede; anzidopo tante, e tante
fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del
corpo umano: utiliſſima certamente, anzi neceſſaria a do ver ſapere; ma non
baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare, e mandare avanti una
verifimile razionalme dicina: per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro,
ele probabili ragioni delle coſe, non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice
racconto di quelle. Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo
umano quel medico, il quale non potrà render ragione della natura della
generazione, del movimento delcuore, del ſangue, del chilo, degli umori
acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano, c della
propietà,e operazione di ciaſcuna di quel le; le quali coſe inveſtigare
impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere; per
virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa, e de' peli:
ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa, e di peli,
uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia:
perchè dic'egli, che l'oſſa più umide, c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben
filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co
argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente
ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili ſi
traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo, et unifor me licore, che chilo
appellaſı; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi
trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento, e'l ſuo calore, cioè
aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento, over disfacimé to
decorpiſolidi, in virtù di convenienti liquori; la gene razione della
bianchezza nel chilo, e del roſſore nel fan gue, alla trasformazionedel colore
nel latte vergine, e nell'eſſenza del fatirione, e altre ſimili coſe; la
continua produzione del calore nel cuore, e nel ſangue: al fervore, che per la
formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve. getabili. E cotanto montano
per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo
intor, no alle malattie, a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre
faccendo delcorpo umano, coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi,
fe minutamente les dette coſe, e molte, e molt'altre per virtù della Chimica in
prima diligentemente non s'inveftighino, le quali tutte lungo ſarebbe al
preſente volerle quìfil filo narrare. Ma non men utile, non men giovevole, e
neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le
egliponendo ad una rigoroſa, e ſottile eſaminazione l'aria, le terre, l'acqua,
le piante, e gli animali, eimine rali corpi, attentamente poine ſpia, e ne
conghiettura la natura di ciaſcuna coſa; e di qualunque lor menoma parti cella
le propietà, elevirtù, ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e
ſimili conghietture ravviſa. E nel vc ro queſto, che ciaſcun di noi, e
tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda, penctra, avviva, emantiene, valtiſ
fimo, e diſcorrente, e lieve, e ſereno, e ſottiliſſimo cor po dell' aria: la
quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate, e
minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem,
plice corpo, come il volgo follemente s'avviſa;ma di varie, e diverſe ſoſtanze
compoſto inſieme, emeſcolato. Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora,
edall'acque, che quella, irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da
altri corpi superiori vi piovono; per li qualil'aria, o più, o menoalla
reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè
nelle cimedegli altiſimi monti, ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua, e
della terra, gli animali fi foffogano; perchè poi in coloro in varie guiſe le
malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris
Corrupto cæli tractu, miſerandaque venit Arboribufque,fatiſque
lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme, e nell'aria coufuſe
aſſai malagevolmente per certo, aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono, ſe
non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti.
Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens
denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la
coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi
fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo,quelnobilif
ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui
nel mondotra noiſimuove, et fpira; che perciò egli vitale l'appellasper cui
l'aere non ſolamente agli animali,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria
eller li conoſce; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli,
allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re
Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena
vigare; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia, cioè folvå, e precipiti
giù quelle ſoſtanze nell'aere, che'l ren dono mai atco alla relpirazione. Ma
l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole,
quantunque chiariſſima, e traſpa rente, c pura a tutta poffa fi ſcelga, eli
proccuri; e che al fapore, all'odore, e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali
ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe
foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano, ſe ne cava ancora un tal ſaie sì
fattamente acuto, e pugnereccio, che JEI che di nulla ha che cedere in forza
aque'ſali,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie,
comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo, e
oftinatiſſimo mai ſempre contraſta; perchè è dacredere nó bene operar coloro,
che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo, e maffimamente di piomboagli
ſpeziali permet tono; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di
quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro, vengonoinſieme a
corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua, che
ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua, e a guiſa di latte
biancheggiare, quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice, e non
diſtillara acqua ſimefcola; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi
Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò, oltre al ſale, il ſolfo altresì,
e'l mercurio, e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo
medico, e chimico filoſofante Borricchio. E che diremonoi de ſemidi tantis e
tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria
d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano: il che diede per avventura
cagione agli Egizzjdi giudicarla primera, e univerfal materia ditutte
coſecreate, da'quali tolſe Ome ro a dire: Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα
τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι
τέτυκάι. Ωκεανών πεώτG», καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege
TyIwTHEY, E’I noſtro poeta, per tacer Virgilio, Catullo, ed altri, ſe. condo il
medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima
della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele
coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta: et vanti La reggia, ei figli
ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede,èfama antica
L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc
Mileſio, il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo
Milefius Thales, aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli,
come fasſi a credere Ariftotele, effer umido, così il ſeme, onde s'ingenera
l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica: e dal credere, come riferiſce
Plutarco, il ſole, e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare
ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca, ed in ella diffolvafi, comc racconta
Euſebio. Malo immagi. no, che Talete non già principio delle coſe abbia voluto
eſſer l'acqua, ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e,
forma quella materia, onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili
del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte
d'Efiodo, allor che dice, il caos d'Eliodo, altro non eſſere, che l'ac qua. Ma
non men dell'acqua, e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre, c con
attentisſima eſaminazione conſide rarle, ove certamente infra tante, e
tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe, e varie ſorti di minerali'
ritro varſidagli; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria,
o l'acqua, o le piante, o le frutca, nuove, edi verfe guiſe di malattie ſovente
cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda, quelle gravisſime
febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi
fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano, ſe non
ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro
corpo, e dall' aria, ed all'acqua, e da' cibi quivi racchiuſi, e ingozzati,
ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime
malattie; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu
gli alitį arſenicali, vitrio lati., nitrofi, e ſulfurei dalle occulte miniere
della terra, rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute; concioſ
fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ravvifarido,
come alcune ſoſtanze, le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun
nocumento per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno, come
nel ſolimato ſi vede, del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente
offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti
mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini, pofſa produrſi nel cor.
po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle
mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino. E
ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella, che ci dimoſtra, ivi avvenir
le malattie di cambiamenti d'aria, ove ravviſa fi maggior varietà diminerali,
ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente; ne da altro, che da aliti
velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre
febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi
tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi, e a’villaggi tutti,
fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade. Ed
abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti, e quanti da sì fatte
cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi
addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial
febbre, laſciò vuoto, e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio, ed altre terre,non
ſolo della Campagna Fe lice, ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro. Ed è
egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con
l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura, e la propietà de'cibi, e
de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano; conciosſiecofachè quantunquc vero
egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta;che i
ſapori, e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi, e ſicuri ſegnali
della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi
de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono,
che poſlan ſempremzi ben comprendergli, egli ne fw certamente meſtieri per
iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermetica notomia, la quale partendo i corpi, ed
eſaltandone le qualità (per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma
nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa. E quale avviſo
potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a
que'cibi,e a que'medicaméti: che pur ven'hà molti: edanche intorno a
que'veleni, che privi affatto,e ignudi d'odore,e di ſapore,e d'altre ſimigliá
ți qualità, di tanto vigore, e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper
pruova, qualia danno, c quali a prode gli huomini, chc nulla più? E quale
argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche.
rate in prima, come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato, e la
lingua, e poi tranguggiate, nello lo maco formentandoſi, le viſcere,
cgl'inteſtini crudelmeute, n'offendono? Coſa,la quale nel zucchero, e nel mele,
e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al
guſto, a la ſaluteè rea; perchè facendo le beffe a' volgari medici il
motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato
altrui diſtempre, E’n collera ſi volti; a cui l'amaro Danno coſtor, che fan
tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno, e raro Maſtro Simon ftudiandoil
Porcografo Scoperſe a Brun, che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o
Babualo, Edì, fe'l mele in cullera ſi volta, Segno è, che d'amarezza non è
caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele,
e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi; pure de’lor falli
agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con
darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo
naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte, e dello ſpirito del nitro
dicimile: Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino: nibilominusin
tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi, qui ubi exaltantur, et ad
extremitatem ducuntur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale.
tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq;faporismeile Corroſivă
peffimü, atq; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato, e
ſciocco, e giudica pur dalle qua lità, ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della
natura; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete, ch '
accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua
mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche
agl'Idropici più ane lanti la fete. E che direm poi del pepe, che così mordace;
e pungente, puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde? E che d'altre,
e d'altre pruove infinite, che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi
volumi, non che piccoli diſcorſi di ragionamenti? Sarà dunque da con. chiudere,
che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del
mondo ci adoperiamo, pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce
comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge, c riſolve, e diſtinta mente
elaminandone le parti, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita, e le
operazioni, e'l convenevol modo di farlo, certamente chiunque ciò follemente intende
Ne l'onde folca, é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il
Cardano,che col lim. bicco, e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non
poterono, o Ariſtotele, o Galieno; e ciò fu, che nó fappiendo coſtoro la
cagione, perchè cotanto noccia il vi no,maſſimamente generoſo, e pretto a
colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè
a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico (sõ ſue parole) nõ
cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus
id eveniat: neq;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo
tamen non convel tuntur. Caufsa ergo eft aqua ardens, quæ in illo continetur:
que quum latuerit Ariftotelem; et Galenum, meritò in Aris fotele admirationis
cauffam præbuit, in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior,
quo vinum craf Ttt. 2 pius eft. Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo
nelle faccende della chimica, aurebbe certamente una aſſai più veriſimile
cagione di ciò nel vino ſcorta, e avviſata: im perocchè oltre allo ſpirito
ardente, che giova anzi che no al mal caduco, evvi un ſal fiffo acetoſo
nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe, del qual aſſai più, che dello ſpirito
ardente egli è il vino groſſo abbondevole, e copioſo. Ma intorno alle fattezze,
così dentro, come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le
vir tù dc'ſemplici, non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo, ch’lo
tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal
Paracelſo, e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e
averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino, emol to
de’ſegreti della natura intédente Gio: Battiſta dalla por, ta. Maniuno
certamente ha, che con maggior diligenzas per quel che me ne paja, e più
felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo
Elvezio, E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo, non però
di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare.
Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto; imperciocchè
negliannidell'oro, e nella felice etade, quando i pomi, e le ghiande Eran del
corpo umanlodevolpaſto: nelle ſemplici piante la germogliante medicina
ſolamentes confifteva; e allora non men che le ſchiette vivande, i me dicamenti
ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo, e
comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per
avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre
per lor biſogne avvedutamente propoſe ro; quindi tra perchè non ſi fapeva, o
non ſi potea purlaw parte nociva, è inutile dalla buona ſeparare, e anche per
chè così diviſe, debile molto, e sforzata la parte medicinal He rimaneva,
qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giunſero valevole ariſtorare i
mancamenti, e i difetti del la prima, é a far sì, che quella nulla, o poco
nocer potef fe; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe, quindi la ſua virtù notabile mente
avanzar nedovefle. Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme,
e meſcolarſi i medica menti; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale
fta to la biſogna, ſe già tanti, e tanti indiſcreti, e ſmo dati medicinon
aveſſer quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la
medicina tota, con ac cozzare inſieme; e meſcolar cotanti medicamenti per ren
der la medicina, o più malagevole, o di maggiorpregio al mondo; e componendo
inſieme una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora
uirconfuſo, e inviluppatiſſimo guazzabuglio. Cofa, la quale ſommoſſe i più
faggi, e avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime
quercle,come d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole:
Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα, και βοτανικα, και
θηeμακα, και τα από γής, και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce
Citocécouvlas iv mitocrívy, og díxua, και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε.
ΜαEragrafo biamo ol tremodo l'indiſcrezione, e la curiofità di coloro, che i
minera Li infieme, e le piante, e gli animali, e ciò che mena laterra, o naſce
in marein unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb ber fatto, fe daparte
laſciate cotantecoje folamente co’farri, colle zucche, e coll'Idreleo aveſſer
l'arte della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante
Plinio.fraudes ho minum,&ingeniorum capture officinas invenere ifas, in
quibus ſua' cuique homini venalis promittitur vita. E chi non maraviglierebbeſi
di tante, e tante coſe, ch'a com por la Triaca, o'l Mitridate, concorrer
debbono, dan ftancare i ſpeziali,non che a raccorle,maſolamente in leg. gendone
le ricette/ Theriace, diſſe altrove il medeſimo Pli nio, vocatur excogitara
compofitio luxuriæ; fit ex rebus ex ternis, quum tot remedia dederit natura,
quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta
quatuor componitur, interin nullo pondere equali, et qua. rundam rerum
fexagefima denarii unjus imperata. Que Deorumperfidiam iftammonftrante? hominum
enim fubtilin tas tanta effe non potuit. E avvegnachè cotali medicamen ti fiao
poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da troppo
commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima, e nel
lavorargli non con avveduto, e ſano giudicio certamente adoperarono, ma a
riſchio, e a caſo alcune di quelle coſe togliendo (che pure alcune vi ſon
ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb. bono anche dell'altre, e forſe con
maggior ſenno, più ef ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero,e
nels la quantità di ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero, non guardando
minutamente comeſi richiedeva, al valor di quelle, ne punto efaminandole.
Impreſa per molti ca pi malagevol troppo, e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè
nel meſcolarſi,nel diſporſi, e nel formentarſi inſieme i sé plici,varj,
ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne foglio 110; iqualicertamente non è da
dire, ch'aveſſer mai que primi ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto.
Per chè comenell'incendio di Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie
celebrato nella fortunofa meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli,
così nõ meno il caſo an cora ha parimente portato, ch'il Mitridate, la Triaca,
o s'altra v'ha fomigliante compoſizione, giovevoli, ed effica ci rimedi per
molte, e graviſſime malattie fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò
ſia, manifeſta coſa è poterſi molto be De l'antico ufo rinovando, colle ſole
piante medicare; la qual forte di medicina, dirò con Adriano Turnebo,huom di
varia, ed eſquiſita letteratura: fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft,quam
illa confuforum miſcellanea compo fitis; magno mortalium, et difpendio, et damnointroducta.
£ noi per tacer de' bruti animali, che felicemente ad ogn ora l'adoperano il
veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha
guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco, con ufar medicando le
ſemplici piante, non ordinaria lodå guadagnoſli; e i popoli inge gnofillimi del
Braſile,iſicome riferilce Guglielmo Pifone, medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19
medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque derident, quia compofira; e degli
abitacori del Mellico, Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj, così dice: los
Indios fon grandesberbo-, larios, ycuran fempre con ellas, demanera, che cafi
non hay enfermedad para la qual no ſepan remedio, y le den:ya eſtacaufa viven
muyfanos, y cafi per maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe
conſuma: ed in quel va ito, e quaſi immenſo tratto dipaefe della China, comete
ſtimonia il Padre Matteo Riccio, fi è medicato permolti, e molti ſecoli, e ſi
medica tuttavia, ed aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe. E certamente
come la natura delle ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta,
Nam varieres Vt noceant homini credas, memor illius eſcę, Que fimplex vlim tibi
federit; at fimulaffis Miſcueris elixa, fimulconchylia turdis; Dulciafe in
bilem vertent,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita: vides ut pallidus omni
Cæna deſurgat dubia? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque
pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti, e
non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede; perchè Plinio: non fecit,
diffe, ceraia, malagmata, emplaftra, collyria, antidotaparens illa, ac di vina
rerum artifex: officinarum hæc, imo veriusavaritia commenta funt. Pure, poichè
la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo
avā zata, che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti
rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare: convenevol
cofa egli certamente, anzi neceffaria mi pare, dovere il medico degli unis e
degli altri piena, e ficura contezza avere; e oltre a ciò nelle ma niere del
lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato. E certamente, o
quanto farebbe egliil migliore, ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa, po
• neſſe in opera, e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del
danajo, e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata: 1 1 ratamente abborracciaffero; o almeno
lavoraffcro imedici qualche medicamento dimaggior conſiderazione, laſcian-, do
ſolamente in man degli ſpeziali i più volgari, e meno vili: come già
coſtumavano (ſecondo il narrar di Galieno ) Archigene, Andromaco, Apollonio,
Critone, Pacchio,e altri famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď.
ufar ſovente un così giovevole, e aobil meſtiere; an, zi lo ſteſſo Galieno
vantaſi oltremodo d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè
di que’tein pi, come e'medeſimo ne fa teſtimonianza, e molto addie-: tro ancora,
il meſtier delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come
avvifa infra gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li
davan cura niuna dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole,medie cine
ſolebat:ene'répia noi più vicini ebberoi medici ancora le
lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati molto ſi foffero, e in quelle
alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro: come dal Decameron
delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente ſi può cópren dere;
a cui Bruno dicea: e ſappiate, che quelle camere ſono nonmenoodorifere che
fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra, quando voi fate peftare il
comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato pure di comporno
alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin mamente coloro, che
imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano. Ne dovrebbe ilmedico
certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice Primeroſio, remedia
abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis; præftantior igitur
medico erit remediorum natura: quare ea præparare, &componere medicum non
dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero egli è queſo un meſtier sì
nobile, e lodevole, che non che i filoſofi di mag gior lieva, e ſpezialmente
Ariſtotele l'abborriſſero, e l'a veſſero in diſpregio, anzi i Principi d'alto
affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a
pro de'ſuoi infermi lavorar dee ser deeimedicamenti,e ſconvenevol coſa non è a
ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi; come potrà giammai, quan tunque faggio,
e avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj,
ſenza avere in prima bene, uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere, e gli
artifi cj, co’quali ſi compongono? iinperciocchè l'efficacia, e'l valor di
quelli dal niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai
pienamente diviſar de'ſempli ci, de'inodi, co'quali tra loro quelli accozzar ſi
debbono, e tramcſtare? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari
vuol, che chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi
voglia,debba alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato,
ebazzi cato con gli ſpeziali nelle botteghe loro; et quidem exifti mo, dice
anche Pier Caſtelli, oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe
expertiſſimum: alioquin fore, utfere fem. per in præfcribendis medicamentis
compofitis erret. Mari tornando, onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia
biſo gnola Chimica, quanto al fatto delle compoſte medicine, egli non è da
porre in forſe; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le
chimichemedicine; perchè ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde
pertinenti a coral ar re, come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia, o
colle fue propic manicomporle, o adoperarle, o conoſcere al meno, c riparare
aldanno, che quelle aveſſero per avven tura cagionato; o ſe forſe da altri
medici diviſati foffero, raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo
egligiudi chcrà, che ſi convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come
potrà mai adoperar medicinenti un medico, ſe non ſe intendentistimo della
natura, e delle propietà delle parti, chic’lcompongono, e degli effetti ancora,
e del mo do del loro operare? E come potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad
argomento d'una, o d'altra malattia; e divi. farle ſtagioni, e itempi, in che
fan da dire, c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente
adattaro gli? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne
la quantità: 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz Ragionamento Settimo
tuzzarne, e attutarne la troppa violenza, o contro quella agli ammalati di
qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere; o toglier lenoje, ei fastidi,
che ſovente ingenerar ſo gliono? Non è certamente cosìagevole, ſecondo i ſenti
menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui, cui
conoſciuta in priina, e manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la
forza per la quale gli effetti n ' avvengono. Or che di grazia avrebbe detto
Galieno, re: qualche contezza pur delle chimiche medicine, comechè
leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta? Certamente conſiderando egli le
ſtrane maniere, e malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato
ſtudio, cavvedia mento maggiore; e non che piane,e facili, e ſenza trop po
riguardo giudicate l'avrebbe, ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare, e da troppo
più, ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di
cromba marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova
de'chimici medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte
s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite
follie sépremai riuſcire;im, perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o
d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci, che della chimica medici na
nulla certamente s'inteſero, comprender mai potranno coſa alcuna intorno
a'chimici medicamenti; ne dalle rego le, che già coloro ne laſciarono fi può
trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé
timedefimi della lor comunal medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè,
ficome è detto, in quelli ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa
meſtieri.Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di Damaſco, Giovanni fi
gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga lieno, maſſimamente
intorno alle purgagioni eſercitato, n' avrebbe mai conſigliato, cſfer ſempre da
leggere, e ſtudiar ne’libri de'fapienti (cosìchiama egli per eccellenza i chi
mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c
dc ſuoi ſeguaci apparare:netanti, etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi
il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. qual legge ſeguito c, con
molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon
ſarebbono. E licomc ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi
baſtevolmére eſercitato, ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella,e ſorprender
Città:dimine, d'archibugj, di bombe, d'artiglierie, e d'altri nuovi, emoderni
ſtru menti, ed ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o
ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro, e
intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando, o per
offefa, periſcherno da adoperar ſiano: così nulla ancora a'medici approda il
ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’: antica, e volgare fcuola diGalieno
apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono; ma
egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli
abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia
apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte, e ſconſigliato ſi vorrà ad
impreſa çotanto matta, e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il
ſuo orgoglio; e rimettendo il medicamento al Izventura, e alla cieca andando, a
manifeſto, e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento
dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà. Così quella famoſa ſci mitarra
diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota, la cúi memoria ancor teme, e trema
l'infedel popolo ſaracino, diceſi, che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue
glo rioliflime pruove laſciate aveſſe: ita plerique medicine, dice a noltro
concio Teodoro Chercringio, chymice præſertim, aut mortue,aut (quod deplorandum
magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no
verit eas tempore, &loco adminiſtrare. Così anche dopo l'infelici pruove
per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come
l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano, lo dico,ritornato in Damaſco
fu qui vilungamente ſcherno delle femmine, e de'fanciulli. Ma tanto più da
piangercè, comechèdirifi ancor degna ia,la Vull liioc ſciòcca tracotanza
dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine, quantunquc
ſicure, e piacevoli quelle ſieno, pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati.
Così il dotto Galieniſta per altro, e avveduto molto To waffo Eraſto collo
ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no
aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura, e l'uſo di cotal medicamento
apparato; che ſe egli dal Severino, dal Penoto, dal Dor neo, o da altro
profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe, e
pienamente conoſciuto come, o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia,
certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe, che nel
medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha
guari un credu to, e molto ſtimato Galienifta, il qual collo ſpirito fimi
gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente
eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori, fi era riſerrato il perto,
infelicemente ſtrago Jandolo licciſe? E piaceſſe pure al Cielo, che per l'abuſo
di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte, e
molte perſone morire. Egli è coſa troppo mani fefta, ſe pur merita fede la
ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo
dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc, e roſe ritrovaronfi. Ne
giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo
con ritegno, e riguardo, e ſcarſamente uſar lo, teinperandolo anche talvolta
con acqua, o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più, e più volte
co minciapianamente ad operare, ea poco a poco rodendo, infin le tuniche del
ventricolo, ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora. Così talvolta al
continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et
leviter quamvis quod crebro tunditur ietu, Vincitur in longo ſpacio tandem,
atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia
cevole ſi ſperimenta, che ben felicemente a'fanciulli anco:. ra da Del Sig.LionardodiCapoa
525 1 ra dacolui, che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli.? E ſe'l
vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in
medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato,ben da colui ancora il ſuo ſpirito
vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs et lapidem
angularem in officinis pharmacopoeorum; avve gnachè cotefto ſpirito, che
comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa, non fia
veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più
groffo, e di minor virtù, e giovamento di fuello.: ! is Ma per ritornare a'
grofliffimi errori, ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè
faggj, e av veduti, talvolta ſmucciare, egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto
fcioccamente, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di
Galieno, Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando
la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta, e cotanto nella lottrina del
fuo maeſtro eſercitato, Aleſſandro Maffaria? vvegnachè più toſto da pianger
fiat, che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti, e
funeſti, che ne fuguono. Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne
cosìinfelicemente favellato, venendone all' lifo del darlo, e diviſando in che
quantità da dar fia,in und fua cotal ſciocca ricetta,cosi ragiona: Recipe
antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne
potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori, o del gruogo, o del
vetro, o d'altre, e d'altre molte medicine, che foglion farſi dell'antiinonio,
abbia intender voluto? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar
dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar
dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più.
Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del
fale del vitriolo vomitivo, cheda piacevoliſſimo chequel, loè, facendolo
fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato, ed al vetro
dell'antimonio, lo riftrigne, eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo. ſparmia a
nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella
digrano. Ecco d'altra parte il più illuſtre, e famoſo medico de'ſuoi tempi
Guglielmo Rondelezji doftar forte, e temere, non la raſchiatura del dente del
Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo
certamente egli involto non fareb be, ſe nella maniera del filoſofar de chimici
in medicina baftevolmente avanzato fi foffe; concioffiecoſachè cota li rimedi
per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo; il qualpenetrando, e
trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene, e nella punta s'accoglie,
eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così
aper ta, come occulta,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora
la inateria tutta inſaccata. E ſe cotal via di filoſofare quell'altro
famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe,certamente, che ne anche eglicosì
ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma
latiil.corno del cervio. Ma come, o in qual guiſa a sì no bilmente
filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai
indirizzarſi i tondi, c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane, e più
manifeſte di quellow, anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico
alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive? Egli non può narrarſi
certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo
conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo
fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio, c'l tuono dell'oro fulminante per
opera de ' Diavoli avvenire: e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti,
che il Macſtro Simon fi faceſſe, quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante
inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava. Nuper aurum fulminansracconta
il Chippe ro, cujus fi granum unum, aut duo carbone defuper lentè ac cendas,
bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie
Freitagii focordia;&contradicendi ftu dium; dum tale quid fieripofle
naturaliter denegat, ctſi oma ninò effectus evidentia cuvincatur, ad Dæmones
hujus cauſam refert: dignum certè hac patella operculum, et hoc philos fopho
hæcphilofophia., Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente
neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti,
e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi, e che per opera
diquella, e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono; e maggiormente in
quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto,
così pericoloſi ſono,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie
maniere del loro opera re. E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non
iſcorti alla lingua, e alle nare, e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi,
che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente
comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli,
alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me
dicamenti, detti ſpecifici, i quali convien fenza fallo, ch'a chiuſi occhi, e
ſcioccamente lavori, e maneggi chiunque del meſtiere, c del modo del filoſofar
de Chimici non è bé dottrinato, e intendente affui; perciocchè sì fatte
ricettev: nella pratica della medicina, così brevis ce ſecche, ecalor confule,
e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano, che per im broccarnela quantità, o'l
tempo, o la maniera d'uſarle, o le malattie, nelle quali da adoperar ſono,
malagevole cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi
miciragionevolmente, e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc, e ſervirſenic
calora, dove lor faccia meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando
nella lor natura ben penetra ti; e per quel che permeſſo ad huom ſia, con aver
le loro qualità baſtevolmente compreſc. Cofa, la quale quanto monti a dover
ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono, pur
troppo è a ciaſcun manife fta. Ne è già punto maraviglia, ſe gli arditi, e poco
avve duti Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno:
ſe come è detto, anche nell'adoperare i. Jor medeſimi medicamenci van carponi,
e brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo; e in quelli maſſimamente,
a’quali dan nomedi virtù occulta, cioè a dire di ragion no conoſciuta, e non
punto da lor compreſa, credendo così la lor groffezza, e laloro ſciocca
pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi
quá to per huon ſi puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai
veriſimilmére la natura dc'mali, e le cagioni, onde avvengono, ſicome con
avveduto, e probabile divi famento fortilmente ragionar ne ſanno, così con loro
no bili, ed efficaci argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere
uinano, degni d'immortal gloria, ed'eter na fama ſirendono..., mily Magià
baſtevolmente dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia
meſtier: la Chimica: a divilar de' chimici medicamenti, e quanto ſovente ne
lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns
giovamento m'ingegnj, e ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo,
pur dubito, non alcuni dannā- ) do,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per
avventura me ne fappiano. Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte
dipeſtilenza all'uman genere mancava? e non baſta va forſe a impoverir di gente
le provincie, e i Regni, il vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la
noſtra vita, per, ogni menomacagion le vene; e co'duri cauterj, e con crui deli
veſcicanti, e altriricroyati di barbare, e ſtrane nazioni martoriar
miſerabilmente le genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il
debito nutrimento, e la virtù di ravvivarlo, e di riſtorarlo alle liquide: uſar
le ſcamonces, gli elaterj, le colloquintide, ilatirj, i pepli, gli Elleborin,
iTurbitti, iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule, e tante, e
tant'altre forţi di nocevolislimi veleoi più ches, di riſtorativi argomenti
dell'antica volgar medicina, ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno
i potentiffi mi precipitati, i mercurj divita, 0 Alcarotti, come altri gli
chiama, i verri, i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti
dell'antimonio,del vitriolo, del mercurio, o d'al tro qualunque più
peſtilenzioſo minerale? Deh piaceſſo pure al grande Iddio, che, o non mai uel
mondo foſſeliin he trodotta la medicina; o almen, che non inai ella ſtata ſi
for ſe colla ſpagirica arte accoppiata, e delle nuove, e ſtrane
fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta: che mé malcerto ne
farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā
de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e
ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te; e
gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino, e ſudina a gara per imprédere
un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici
ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente
correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco
Teofraſto, non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato,
ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte,buo
giudice in sì fata te coſe,da’medeſimi minerali; che continuamente e' manego
giava; dal cui nocevole, e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe
eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto. Così anche a
' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli
ſpiriti del nitro, e del vitriolo, e da altri minerali do po continuo tremore,
ch'e' n'apprefe, e dopo lunghe, e gravi malattie miſerabilmente alla fine
morirſi. Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui, che quaſi cibi inno
centivolentier gliſi tracanna, fe cotanto nocevole, e dan noſo è l'avergli
ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo
i medicamenti delle parti inutili, e nocevoli ſpogliare, e di rendergli benigni
aſſai, ed efficaci; ma per tacere, che alcuni di quelli (e'l confeflano comechè
mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli, e ſpotſati, e di niun momento
dal ſuo maneggiar diventano, parecchi, e parecchj (coſa la quale certamé te è
peggio aſſai, e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in
prima erano, o pur tali ſi dimoſtra vano, rendegli la chimica col preparargli
non altrimenti, che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali.
Dica pur queſta nobiliflima Città: quanti, e quanti nel tempo della paſſata
peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel
velenofiffimo ariento vivo precipitato, ch'angelica polvere allora chiamavano,
pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e
co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura
dubitonne alcuno, ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet
medicamento, o per la medeſima peſtilenza mancaliero. Edo quanti, e quanti alla
giornata veggonfi privi di vi ta, o cagionevoli reſi della perſona per opera di
chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i
quali dalla noſtra natura affatto rimosſi,altro mai, che dolori, noje, malattie,
e morti recarnon poſſono. Odafi per Dio ciò, che di coteſti Chimici, e della
loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto, l'eloquentisſimo Cortino, il ſot
tilisſimo Riolano il padre, e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come
con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi, e mandi giù l'acutisſimo
peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio; e ſopratutto ſi riguardi
a ciò, che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti
tutt'or querelando ſi dica, e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi
ſcagliano. Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole, c dannoſo me
ftiere, e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli
ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel
vero, e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo
dell'Alcarot to vietarono; e ſe ſono, e con ogniragione, da' noſtri fta tuti
proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili, e d'altre ſomiglianti
arme,come nocevoli algenere umano, quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore,
e della perſona pur buone fiano; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie
re, emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante, allor
più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano. Sono o Signori, sì fatte
querele, e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la
Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente
adoperari; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e
troppo cre dula gēte, fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri
ammazzar fogliano, e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole,
da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa
lamente volmente gli biaſima; e con torti, evani giudizj ſovra i chimici, i
misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E
parla più di quel, che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a
tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te
degl'infermi: non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo
dilui, o no v'era, o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de
Greci,colla medicina la Chimica. Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar
la violenza del inale, ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della
noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina
tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè
dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano,
ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi
riverſa; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò, che per argomento
umano imposſibile ad operare. Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici
da prudente huomo, e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati
masſimamente da altri medici per malavoglienza, o per nimiſtà, ficome di ſopra
baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo
vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri,ut alius in alium
culpam refe rat. Ne già è mio intendimento, che di cocal quereia al cun
de'noltri medici al preſente fi punga, come a ſe pro piamente inveſtita;
perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni
medici; cben ſo, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene, c onorati
affai, e di qualunque gran loda dignisſimi: avregnachè talvolta pur alcun di
loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL. già per altio, e permalayoglienza,
maper troppa ſua dab benaggine vi falli. Pur male a noſtr’huopo comincia tal
volta leggeriſſimavoce, non ſo donde, o falſa, o vera, ch' ella fiali, che
roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla
bafla plebe, e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che
vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia, anzi tal volta ſenza
ſaper come, o quando, c da chi cominciata ſia, volentier la s'inghiottono: et fepè
etiam quod falſo creditu eft, veri vicem obtinuit. Perchè poiveggiamo della mor
te di taluno accagionarſene medico, che non che viſitato giammai l'aveſſe; anzi
ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure
comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra
tutt'altripar ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque
certamente maggiori, e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata
avvenir veggiamo, che da’Chimici; e pure quelli ſovente alla gravezza incon
traftabile del male, non alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono:
dove di queſtinel contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione,
folamente i chimici medi camenti s'infamano; maſtimamente per coloro, i quali
nul la fappiendone, come di nuove, e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre
ne temono; follemento mai ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella
séréza di Cornelio Ta cito:fuper omnibus negotiis melius,atq;rectius olim
provisü:et quæ cuvertuntur in deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò
quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti
s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe, intanto che ne men
poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e comunali medicamenti
talor fer virſi; che pur diquelli il vulgo ignorante teme; dove d'al tra parte
fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine, comechè violenti, e
pericoloſe loro fien porte ', tantoſto alla cieca, e ſenza tema alcuna le fi
tracannano, volendo pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi
medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti, cui ne men per
nomequelli conoſciutiſono: non che ne ſapeſſer mai le qualità, e glieffetti,
che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono. Non niego però, che tal
malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti, eglino medeſimi
talvolta la ſi procaccino, quando o per ſoverchio dicompasſione, che han
de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati
da'Galieniſti, ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion
quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le
ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando
forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia
attutare, con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè
Principiisobſta: ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras.
Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio, e alla cieca gli
ammalati, malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il
Chimico,e i fuoi rimedi bia fimati. E a tal fegno pure giugner veggiamo la
iniquitoſa malizia d'alcun medico, che di quel medeſimo infermo, cl egli
ſpacciato in prima, e già laſciato aveva, attribuiſce poi difpertoſamente
altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così
non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc, che colgruogo di Marte un co
tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio, e corrorto, e com'egli
medefimo narra, già moribon do, e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio,che non
foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei, che già
reputādofia vergogna il falvaméto,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir
puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna
briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti
dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte
delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di
quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano: Ha buon ز occhio, buon vifo;
buon parlare, Bella lingua, buon / puto, e buon toffire; Queſti fon ſegni, che
non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro
onore, S'egli ufciffe lor vivodalle mani, Avendo detto, egli è Spacciato, e
more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare
infermidiniuna ſperanza, danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi
Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p
altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e
quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a
prender cura di malagevoli, sfidate malattie, ſe non vogliamo pure guadagnar
titolo di cattivi medici; e anche avviſa Cello, prudentis hominis eft, eum, qui
fervari nonpoteſt, non attingere: nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi,
quem forsipfius peremit. E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne
conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro
niuna ſorte dimedicaméto, per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea
torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati
di minor riſchio giove voli ſono. E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet
ti: prudentis medici, dice, ef,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare;ne
hominem occidiſſe, quifua forte interitu rus erat, exiſtimetur. E che direm noi
di que'chimici medicamenti, che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano,
che dichimica, ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre
ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente, anzi abborrare i rimedjchimici,
cheda'Ciurmadori, e da Cerretani, edas viliflime femminelle uſar pubblicamente
ſi veggono, e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te
li ſpacciano, e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali, e da’medici per
diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor
s'imprendono, e teme ruri. rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli
ordinare, e lavorare alla cieca. Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager
Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant
fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri
tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne, e di cotanto riſchio:
certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono, e veggonfiatcriſtar le caſe, e le
famiglie, non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono, ma color ſola
doperano; non altrimenti, che ſe ſpada, o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia,
non n'è lo ſtrumento da accagionas. re, ma la follia ſolamente dello ſcherano.
Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare, e ſpezialmente con argomenti
chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa
luogo; che le malamente s'adoperano, maſſimamente le purganti medicine, ove il
medico non abbia in dandole riguardo al tempo, lità del male, all'età dello
infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal
ne capiterà: Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto
tempore vina nocent; Quin etiam accendas vitia, irriseſque vetando,
Temporibusfinon aggrediareſuis. E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne
veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in
corpo per traſeutaggine, e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante
volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne, le
roſe, le caſ. fie, e anche l'aloé, di cui non ſi trova al comun parere mę.
dicamento più innocente, e benigno? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire
ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento,
e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne,
qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte, ſe coluimalamé te adoperandola
l'ammalato n'uccideffc? Certamente niu. najper. alla qua: 51 na;perciocchè come
Ippocrate medeſimo, e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora
ſon peſtilen zioſe, e da non uſarſi; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc
chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio,
che il guadagnar tempo con iſchermi readagio, e tenere a bada la foga del male,
ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine,
masſimamente gagliarde; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si
oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli
n'andrebbe cof peggio:neq;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello, ir
malis magnis eft,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat, porrigaturque
in id tempus, quod curationi locum pre Stet:così parlavano que'buoniantichi,
che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le
cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno
co'rimedj valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in
ogni tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo, ſenza ſtarſe
neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo, che non è dalla natura
forſe per venir giammai. Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto
abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato, e quaſi abbattuto il Bor
go Sant'Antonio,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le
purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique'
poveri infermi, che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti
ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé.
za rimedj la lor vita ſerbaronſi. E per cacer d'altri, il me deſimo anche
eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta
all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo, e di
riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi, e non debitamente maturati, certamé te
il medico ne farebbe da biaſimare, non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti
d'Ippocrate, e di Galieno s'inframmet. teſſe di purgare ammalato, in cui fian
crudi gli umori ſex 2:2 en za enfiamento alcuno: in morbis quoquenihil eft
magis peri culofum, quam immatura medicina,comechè non medican-. te, avviso Seneca;
perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo
Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come
nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a
conoſcere il danno, che dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne
fiegue,qua do più gravoſo, e di maggior riſchio fiè il male; concior fiecofachè
nelle lievi malattie, che molto non piggiorano dal ſuo naturale ſtato
l'inferino, poco nocimento ricever, certo egli ne foglia; perciocchè o ſe
n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì poco cagionevol
della perſona coluinerimane, che nulla il medico quan tunque accorto, ed
eſercitato Gali, comprender mai ne puote. A torto anche vien biaſimata la
Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a baſtanza contro la
ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine dicamenti ella
ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna, o s'altra al mondo è più
vaſta, e più folta ſelva,tã ti alberi, tante belve, quanto ricca, e abbondante
è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a loro uſo, non
ſolamente i minerali dalla terra,madagli animali anco ra, e dalle piante
abbondantemente i rimedi ſi formano; perchè troppo ſcarſa, e mendica pur
ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza; perciocchè quanto cuopre il Cies: lo,
abbraccia l'aerc, nutrica la terra, e'lmarchiude, tutto alla Chimica
giuridizion ſoggiace: e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali;
concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi
vitrioli, i fer ri, i rami, e gli argenti, c gli ori, e le gemme, comcchè di
queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi, non già i
inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra, c tronchi, e frondi, e ſughi
di cento, e mille infra lo ro diverſiffime piante, e anche tutte parti ſalde, e
diſcor renti di tanti, e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica
538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie, e tante guife ordina, e lavora.:
Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi,e s'affarichi, è
per huom da tacciarne: anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico;
concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti, comealcun di loro follemente
ſognoſli, veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi
all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai
manifeſto egli fi è, anche antichi, che liberamente, e fenza niun
ſoſpettomettevan gli in opera, e così fchietti, comecon altre coſe meſcolati
l'uſavano; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei:
maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama
del rame fovente fi ſerviſle; e Dioſcoride no conſiglia, e conforta a dar per
bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il
mercurio: e ancora a' dì noftri nella colica, e ne'vermi, e in altri
ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime,
ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno;e ſe fra’minerali v'han di que', che velenofi
fo no, ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili. Maſe
egli avvien mai pure, che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano
fpoffati, e debili, egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma
de’poco av veduti artefici, e de’medici, i quali intendenti non ſono delle
chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun
preparamento fiano da porre in ope ra, e quali gli richicggano. E ſe
divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre
ſalucevoliſ fimi antidoti, ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun
di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere, e frane. E ſe'l
precipitato, e'l ſolimato, che potentiſſimi veleni ſono, cavanfi dalmercurio, e
da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare, ne i chimici medeſimi,
che gli compongono; concioffiecofachè anche l'oppio, e altres molte comunali
medicine, avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539
noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto
quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino: e ne balti ſolo al preſente fapere,
che ciò non, lia ſpezial biaſimo della Chimica; e ſe da quella i pre cipitati,
ci ſolimati fabbricaronſi al mondo, no fu già,per chè s'aveſſer quelli ad
operar mai ad uſo alcuno dimedici na, ma per altre, e altre biſogne; ne perſona
ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò;perchè
ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli
giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato, il
qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo
veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti
à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, et fimilia
effe Empiricorii fecreta, quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro
mulgant. Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra: nci, e rimoſi, dovrà
ciò darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo, dovrebbervi
eſſer a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime
defimila pietra lazula,e l'oro, el’ematite, ci giacimi, e'l bolarmcnico, e le
pietre giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano. Ma
lo per non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā.chio
là dove d'un cotal balordo, che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così
cgli al ſuo Oiſtio ſcrive: oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata,
ideo quia non iis alamurfed; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque
pleraque. Quænos alunt impura ſuntimnia, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt,fed
quotidie agunt in balſamum na turæ, cum corrumpendo in fenium; labefactatis
viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus; fed fixio illa in
fixa; mineralia figuntſpiritus, purificant, et exaltant. E prima di lui Avdrea
de'Mattioli, così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe: ibi tum alibi, tã in
chronicis morbis eſt ani: madvertendum, ubi tota malafanguinea in univerſo vena
rum ambitu corrupta eft, et referta multorum morborum fe Yуу 2 minariis, tunc
ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi
faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che
di chi mica pienamente non ſi conoſca; il che noi baſtantemente altrove dicemmo.
At qui, dice egli, ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi
aggrediuntur, ii ple rumque re infecta cummagno dedecore, et fui, &artis me
dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio
Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec
reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis. Et fanè certum eft plurimos
Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt, metallicis fæpè, &malè
præparatis, et malèadhibitis uti; verum ut jamfupra dixi mus, eadem eft materia,
et fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm Chimici, quàm vulgaris;
neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non
guari appreffo foggiugne. Nonne maximè probanda eft ars illa, qua fi quandoiis
utitur, variè, &eleganter pre parata,non integra exhibet? Ne meno è da
dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino
tali i minerali; percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il
falnitro, e'l vitriolo, elfal comune alla giornata ufarli, e'l fal comune
maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente, come
que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni fono. Pure non è coſa cotanto
utile, e gio vevole al genere umano, che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren
Nilprodeft, quod non læderepoffit idem. Igne quid
utilius? fi quis tamen urere tecta Cæperit, audaces inftruit igne manus. Eripit
interdum, modo dat medicina falutem. Le ragioni poi, e le teſtimonianze
dell'Eraſto, del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han canto dello ſceno,che
da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano; e comechè per mani feſta, coftinata
malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica, e ſozzainente
lacerarla, e quaſi metterla 1 in fon Del Sig.Lionardodi Capoa 541 1 in fondo;
pure non han potuto far sì, che ſtretti talvolta dalla propia coſciēza, o dalle
nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto
medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della
chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè
no commendarla;e la ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome
raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe,
pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto, ſerviſſzavvegnachè talora p
loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero. Ma côtro a’piacitori, e
a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della
chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto, e
l'Arueto, e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad
infiniti altri il famoſo, e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia trionfante,di
cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit
Libavius contra fcholă Parifiensë,ut nihil amplius addi polje videatur; ma
ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il ſottiliſſimo Borricchio, non men
celebre, che dotto let tor di quella, nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il
qual sì fattamente rimbeccale ciance del Corringio, che nulla più. Ma quanto
poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto,
apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui vennetenuto il loro divieto; poichè
non men,che prima in Melano, e altrove le genti tutte l'adope rarono; e oltre
alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto
medicamento, il quale altro * non è, che il mercurio di vita;comechè p naſcõder
sì caro fegreto il nieghino gli eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi
maraviglio, che alQuercetano, sì bene ſcorto nelle chimiche operazioni, e che
tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto ciò ravviſare. Ed è egli
pregiato l’Alca. rotto, eziandio daʼmedici volgari, e Galieniſti, e per buo na,
e giovevol medicina per tutto ſtimato; ma pur ſi vuos le in ufarlo aver
riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati; ne fi dee prendere ſenza
conſiglio di medici faggi in chimica, e conoſciuti affai; perciocchè ſe da
perſone dappocomallavorato folle, o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo,
certamente nuocer potrebbe, e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre;
ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare, il qual per conſiglio
d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to ſoverchiamente,
con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente, certamente nemoriva. Ma di
ciò ſenza dubbio, non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la follia più coſto
del medico, cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell' ammalato, che alla
cieca, e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima. E ben ſarebbe il migliore, ſe
laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti medicamenti,non s'inframmettel
ſero púto di ciò, che non ſanno; e come cantò colui Velperfectèartem diſcant,
vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi
fit perfecta, eft plenapericli, Et fævit,tanquam occulta, aique domeſtica
peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte conteſe, trapaſſereino intanto a far
qualche parola dell'antimonio, come di quello, ch'al noftro parlamento diede in
prima cagione, L'ancimonio, che da alcunicertamente non fuor d'ogni ragione
chiamato viene colonna, e baſe della medicina,egli sébra nel vero una corale
ſtrana; e nuova ſorte di minerale di variege fra loro diverſe parti copoſta, e
si lazza,e acerba, che ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf
ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo meſcolanza, che in ſe ritiene, e per
l'inegual proporzione delle parti,che'l co pongono, non eſſendo potuto alla
debita maturità, e per fezion di inccallo pervenire, così trameltato, e inal
com poſto ſe ne giace. La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità
malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè
quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui notomia, in tante, e sì fatte
guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del
Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti, e
ſperien ze, ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono.
Ma perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano, due forri di
zolfo par che abbia nellº Antimonio: l’una fiffa, e pura oltremodo, in cui le
ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè
daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato
l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa;
perciocchè no filla, mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè
potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara.
Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto, il qual corto più, che
ſe mercurio vivo non foſſe, della natura del piombo alquanto ritiene;e as
queſta parte, che certamente è la maggiore nell'ancimonio, alori la violenza
attribuiſcono, e'l poter, ch'egli ha nell'o perare; anche havvi alcune parti
arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi
ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra,
la qual della ſua matrice ſommamente participando, con quella inſieme,e con ſue
particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c
delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato, che pur ven’ha:
a cuila malvagità tutta, e'l veleno altri aſſegnò, che tanto all'uſo, e
all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito,
ne tanco, o quanto a colui, che'l prenda offender ſuole; perchè ne Galieno
medeſimo, ne Dioſcoride, ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară
mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi
Diofcoride medeſimo ne conſiglia, e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva
dell'Elacerio, con meſcolarvi deutro dell’Antimonio,e così temperandolo
ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno, che del me
dicamento, ſe violento, e rigoglioſo il ſenciamo, che se vorrai purgare, ſono
le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio, meſcolavi altrettanto
di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri,laſciandoall'altrui
diſcrezione il divri Jarne la doſe: seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ
xabagors. ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν, διπλάσιον αλών, μίξας, και
είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai,
comechè leggiermente, ſoſpettato, non forte velenoſo, enocevole l'antimonio.
Nicolò Mirelio poi, it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri
cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù
famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto,ch'egli
del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra, ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio
ingraſſavanſi i porci: e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra
abbiamo, che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al
peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone; e in molte
contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in
quantità d'unanocciuola, ſenza danno, o noci mento niuno, e'l chiamano
volgarmente allegra cuo ré; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie
uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati;
e nella Francia, e anche altrove, l'Antimonio crudo, ſicome per M. de la Febure
di ciò pie namente inteſo ſi racconta, fe donne tout les jours tout crud par la
bouche fansaucun accident, emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on
le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre
la verolle, &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour
ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da
quegli intoppi, c da'legami, chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le
nocevoli particelle dell'antimonio, o ſaligne, o ſulfuree, o mercuriali, o arſe
nicali, ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni, ei contefe intorno a
ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere
quantenoje, e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano,con fondere, e
diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde ancora del
corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo,finattanto,che
colvigor talvol ta lo ſpirito, e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi
dee, che ritrovali talora in qualche miniera, Anti monio, cheſenza niuna
preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare; ſenzáchè'talora nello ſtomaco
di colui, che'l prende, può eſſer coſa, che ſciolga da’legami lalparte ve
Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera, parimente può ciò fare; e quel'è la
cagione, che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà
dell'antimonio crudo: Ma che che ſia di ciò, ſe per opera, e argomento d'avve
dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno
neſia, certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni
peſtilenzioſo ma lore, ove a tempo, e acconciamente, e con riguardo per huom ſi
dea; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi, cvuoti dentro, ma ſovente
ancora diſſolva, e miglio ri, e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno, e
cattivo così nelle falde, come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il
che certamente a niuna altra forte di medicamé to, o purganre, o vomitivo,
ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat, dice il Zuelfero, ex
vegetabilibus unicũ emeticum, grad nainore cum periculoexhiberi pifit, quàm
aniimonium dextere, ac debitè præparatum; nunquam enim tormina ventris,
convulhones, hypercatharſin, fluxumque nimium colliquativumcauffabit, etiam fi
frigida ſuperbiba tur. E egli però quelta malagevoliſſima impreſa,e difficil
molto, p mio avviſo, anzi impoſſibile affatto ad artificio umano; perciocchè la
parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella, che muovelo ſtomaco a recere, e
ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può
in modo alcuno accutare, che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non
abbia gravemente a nuocere. Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or
in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante, o vomitivo fa vellar
ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare, e ftraboc chevol riſchio, che
agevolmente vi ſi corre. E quel ſapientiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e
nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea
dire: Antimonium,quandiu vomitum, aut fedes movet, mercurius revivificaripoteft,
venena funt: non boni virirea media. Soglioſi dell'antimonio ſublimare i
fiori;e ſi fôde egli an che in vetro, e in regolo; e'l mercurio di vita, e'l
gruogo ancor ſe ne forma: purganti inſieme, e vomitive me dicine. E per
cominciar dal vetro, il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario
vetro differente; pure comunicar ſuole minutiſſime, e però inſenſibili, e
cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore, in cui per
qualche ſpazio di tempo ſia dimorato. Egli è il vetro dell'Antimonio commendato
aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio, Strolago infie
me, e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta; e dalGeri neri ſomigliantemente,
e dall'Andernachi, e dal Langio, e dal Mattioli è ſommamente lodato. Ma Pietro
Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica, e in medici na, forte il
biaſima, e danna; dicendo, che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato
ſia, non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi
ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri, ed altri famoſi medici, e chimici con
apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti. Vitrum antimonii, dice
Giuſeppe Quercetani, quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur,
perniciofum eft medicamentum; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri
tandoexpultricem, perſuperiora, einferiora magna cum perturbatione ducat,
evacuetque; quod ego probare nullo mom do poffum. Dal che moſſo Duncano Borrero
anch'egli ri fiutandolo, affatto dalla medicina il bandiſce, dicendo: Vitrum
hic antimonii fciens omitto, tanquam pernicioſum medicamentum; e'l dortisſimo
medico, e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice,
che comechè alcun guarito pur ne ſia, non eft tanti ifta for. tuita quorundam
fanitas, ut propterea, vel unius hominis vita exponendafit periculo. Vidienim
quum ager tantùm femiun. DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes
infafionis, eum poft ingenies vomitus, et fupercatharticasvacuationes,fubito
efflare animă. Ata binc ille lachryma, hinc clamoresifti contra Chymicos inſur
gunt; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia
temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos; modo unus; alterve
fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės, emungantque
rufticis pecuniam. Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera, ecorrezione
del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza
riſchio alcuno in ado perarlı; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova
quella; che dal Ranzovio, e dal Mattioli, e da altri uſa vali, così verrà un
tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo, dannerà, e riproverà anche la
ſua. Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente
che dirmene; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio,
ove c'dice: quane do coctio inſtituitur, favellando del vetro dell'antimonio
col vino bollico, fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur;" E foglion
certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno
manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali
ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio, e non dall'arſenico, ficome il
Rolfincios avviſa. Ma che che di ciò ſia, in biſogna dicotanta confi derazione,
lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no, e
a ſeguire il conſiglio del Rolfincio, e a dubitare non forſe così foſſe, come
cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata, e da altri cotanto commendati,così
il teſtèmentovato Quercetano favella: Antimonii vitrum idem ferociterpræfat,quod
ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album, et arſenicalem ipfi infitum quě nec
à floribusego exulare exiſtimem; quippe quos adeo afro citer corpus concutere,
ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus, ut res non caréat periculo.
E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori
dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi. Z z z Mai Regolo anche dagli
antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione Dioſcoride,e
Plinio (av, vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello altro non
foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato per
medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio. E ciò anche a'
Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto; infra’quali il Priineroſio,così
dan nandolo nefavella; omnem retinet antimonii malignitatem, qua antea fub
terreo excremento sopita latebat: edindi ap preſſo: fed quum omnes pravas, e
horrendas antimonii vi res adhuc posfideat, poculum indè confeftum
perniciofiffi mum effe neceffe eft; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico
amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo,
così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona: Calix chymicus toties in
obſervationibus no Bris nominatus, communiterque adeo omnibus confectus non eft,
ut nonnulli arbitrabantur, et arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris.
Exregulo quidem eft:fed tertii gradus, qui longè differt àvulgari; quamvis
etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium. Ma il gruogo de metalli,
col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in
tanto ono re, e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no, perchè
ſecondochè egli ne dica, dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano, e
fpezialmente l'oro, l'argento, e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni
ſcrittori il mens violento, e men pericoloſo infra le vomitive medicine an
rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben? anche tutta la parte
velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata:la qual
certaméteè quella cheare. cer muove, ben li può di eſſo dire, che comechè per
ope ra d'eccellente, e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato
fi foffe, pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi, ma non s'eftinfo perchè
ſoſpettar fempre dee l'accorto, e prudentemedia co, non ne ll'adoperarfi,alcun
ſiniſtro avvenimento ne ſe gua; perci occhè pure, comechè di rado fortir ne
fogliono, Ed havvi un'altra malagevolezza nel gruogo, imposſibil quafi a
ſuperare; perocchè quantunque con la medeſimas proporzione del nitro, e
dell'antiinonio diſpoſto fia, c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze
lavorato į pure, talvolta più;o men vigoroſo ſortir ſuole, e sì da ſe mede fimo
differente, che in dubbio ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne
tiene, ne per accorto, e ſperimentato che l'Artefice fia, potrà maicome, o
perchè ciò avvegna baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar
fogliono talora uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli, perchè fi rompa
qualche apoſtema dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del
corpo: o che tra per la violenza del vomito, e quella del medicamento alcun
altro ſe n'apra, e ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle
viſcere, e dibucciandofi la mucilag gine, la quale infra gli altri ſuoi ufi, a
guiſa di veſte copré dole, difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti, e pugnerec
cj, o d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento
s'offendano: e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli
de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi, pure
così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto
n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande. E comechè
di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città; purs
baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno
Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role: Huc referamus hiſtoriam, quam
mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam, quæ à fumptu pharm
macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft
obitum vocatusaperuerat. Nulla com paruit vena, fivèrupta, five exefa; cæterùm
in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit; fiquidem multò
maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis
copia promanaret, dorfo.cultri inte riorem tunicam, ut penitiusreminfpiceret
deterfit: boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo
pare Ragionamento Settimo parebant; ipfa quoque funica quaficutis derafa:
cuticules 1. E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi, e viſcoſi, ch'uſcir
fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i
Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje, e
ſvenimentirecar foglio no, e talora anche con toglier agl'infermi
miſerabilmente la vita; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo.
lamente, madalle manne ancora, e dalle roſe avvenir fo gliano, ed eziandio da
altremedicine, che per comun conſentimento più ſicure, e piacevoli, e innocenti
tenu te fono: memini non defuiffe, dice il Libavio, qui Caffia fumpta omnia
pateretur, que illi,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia;
perciocchèil medeſimo veleno, che è nell'antimonio, è anche nella Callia, non
che nella manna, e nelle roſe, e in altre ſomiglianti media cine; perchèſoverchiamente
preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi
dell' anti monio. Neq;enim,dice il medeſimoLibavio,in favellando pur della
Caſſià,parum acrem inde elicimus liquorem: tur batorem nimirumillum alui. E
finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio,
non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li
perſuada eſſer quello operadel mercurio, non dell'antimonio. Ma egli è ſenza
dubbio men temperato, emen gaſtigato del gruogo; e fe guentemente maggiorinoje,
e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte maligna, e velenofa, che in
eſſo preva le; perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole; che non ſi
dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere, e
ammendare, e più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per
quanto diligentemente per huomo lavorato ſia, temer fempre, e fofpettarne
dobbiamo; ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio
vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole, o nulla, o
ſoverchiamente operando. Ma non perchè dannoſi talora, e pericoloſi ad uſare co
tali medicamenti ſiano, ſi vuol perciò dalla medicina l'uſo dell'antimonio
affatto sbandire; conciofliecoſachè ben an che fabbricar ſe ne potranno
nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno anche a’vecehj e
a'bā. bini, e alle donne groſſe, ficome agevolmente compren der ſi può
dall'opere del Valentini, delParacelfo, e dell? Elinonte. E comechè non ſia
impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti, ma innocenti però, e
piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno sér za
troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque mezzanamente uſato
ſia nella Chimica, que'po chi inedicamenti, che vanno attorno; come il
belzoardico minerale, l'antimonio diaforetico, e altre ſomigliantime dicine,
nelle quali comechè attutato affatto,e ſpento il ves Jen ſia, pur sifattamente
ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa: non ſogliono, anzi non
poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime particelle offender
giammai, ne ad huomonocimento alcuno apportare; non altrimenti, che innocenti
anche in alcuni legni, e nellolio, e nella pietra focaja que
piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano,de'quali il concorſo, il movimento, la
figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco. Eben diſs’Io non effer anche
nell'antimonio dia foretico eſtinta, e fmorzata affatto la ferocia;
concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco
ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza, i quali il vigor del
veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua
primiera,e natia fierezza. Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio,
il qual vuole, che l'antimonio diaforetico, altro non ſia, ch'unw ſemplice
terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar
luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e
che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto
fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico, certamente
in altra maniera n'aurebbe favellato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia
veduto nellofte: maco d'alcuno non men,che la polvere di Sicilia, detta del
Chiaramonte, e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti
talora impietrarſi; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi
puote. Maciò laſciando di parte ſtare: e'manifeſtamente fi comprende eſſer
nell'anti monio la parte velenola fiſſa; e forſe arſenicale,e non come altri
vanamenté s'avviſa, volante, e vaga. Ma ſe ciò è ve ro, potrebbono per
avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti, che colla
loro efficacia vale. voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole
violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli
alcali, e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua
uſata peſtilenza: e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori, e
ſtracciamenti di viſcere, che recar ſuol l’antimonio, non altrimenti che ad uſo
de'fiori, o di vetro lavorato ſia. Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto,
ed innoccnte mercurio, meſcolato dentro dall'huomo,coll'acetoſo ſale, che vi
ritrova, gua ftali agevolmente, es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre
cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera; e ciò
manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa,e da’fumi, e
dalle unzioni, e da al tre ſoinigliantimedicine. Ma poſto che lavorato per ogni
verſo l'antimonio sépre nocevole, e velepoſo all'uman genere rieſca, non ſono
però da biaſimare cento,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e
falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi
della Chimica medi cina, maggiori nondimeno, e più peſtilenzioſi aſſai ne ha
ſempre la volgar de Galieniſti, ſecondo il ſentimento cos mune di loro
medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici
dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam,validisfimis. uti medicamentis,
quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent, autſaltem melius pre parata. Nec verum
eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari; fapillimè mitiffimus
calor adhibetur. Sed præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai
acrimoniam, mordacitatem omnem deponere. Etcertum eft, egli poi
ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta, et fero ciſſima medicamenta edomari, et plurima
alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca. Perchè an che
ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile, e valoroſo Galie niſta, e d'altri
affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le colloquintide, gli
elaterj, le ſcamionee, e al tri non pochi violentiſſimi medicamêti diſegnatine
dall'an tica gróffal medicina, i quali già ella più forſe ad offende reinteſa,
che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có trade a carisſimo
prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della Chimica raddolcito il
natio amarore, e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios præbent fuccosoblita
nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della natura cotan te volte
da noi, coniechè non mai a baſtanza commendato Gio: Battiſta Elmonte: aft ego
volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum vim, intelligo rerum vires
pri ftinas manere debere, infui radicem introverti, vel fub ſui fimplicitate
transformari in dotes illas latitantes
clanculum fub cuftode veneno: vel de novo partas ratione additaperfectionis.
Quopacto colocynthislaxativam,atque deletericam qualitatem introvertit;
emergitque ex imo vis. reſolutiva, morborů chronicorum curatrix egregia. Id
enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit; filuit tamen,
vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium, &vegetabilium venenis
per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia
prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio, di
cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe: Generata naturalia inferiora
loco durioris compaginis conflata, et alta magnifactione, propter duritiem
nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio.
Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere, utilisſime molto, e
neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche
medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli
operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon,
te, e'l Paracelſo, ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine? Eglino
certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo
de'inaggiori medici del mon do: e per queſto ſentiero in tanta altezza di
pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no
medimonarca della medicina. Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi
de'ſempli, ci, e della lor natura: e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne
la parte inutile, e nocevole, e ſerbar folamente pus ra, e intera la
medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di, e le qualità del fuoco, e gli
ſtrumenti tutti, egli ordi gni acconci a lavorare, e'l tempo, e l'altre
circonſtanze a ciò confacenti oſſervano. Quindi dal loro faggio, e avve
durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti: e fanno dal vino,
e di altri vegetabili, e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri,
e olj,e tiņture, e fali, ed eſſenze, e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo, e
ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare, eadar dipreſente ripa ro alla
mancante vita; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli
sfinimenti, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori; in cui convien
di preſente con prelto, c valevole argomento ſoccorrere. Nea ciò fare al tro
che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole, cbi ftāte; perciocchè a’ınali
gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari,
e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno
poſlono aggiugnere. Inde illa, gridaforte ſtupidito il principe degli
ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis
malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia,
auripotabi. lis, fi ſcuſi nel Mercati, ignorante dell'arte, la follia del
preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca
de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne, così ſoggiugnendo, Chymica
enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555: ratur miſtis
tenuitas, quæ duplieiter malis peritioribus profi cit, quia cedit ad imum,
radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco
penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret, &devincat. E
quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità, e in ragion civile Martin
del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa, creda col Mercati,
econ altri mal pratici del meſtiere; che ſia vera mente oro potabile quel
liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale: ſommamentela Chimica loda, e
innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della
Chimica, qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur, ut phyſiologie
fatum præftantifimum, in ventricem auri porabilis, reinonminusutilis adſanandum,
quàm ad alendum, ac quoad fieripoteſvitam prorogardam. Ma che cerco lo co
raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col
poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi?
trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti
lavorare, e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico, che
chiunquc lavorar chimici medica menti intenda, e meſtier di tuo riſchio, è di
tanta confi derazione imprender voglia, egli della chimica filofofia, è della
medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno, e comprender
lanatura, e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè
quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun
medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo, e avvedutiflimo
guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina, mal fenza dubbio i ſuoi
medicamenti faprà fabbricare. E ciò bene avviſando il Valentini, e’l Para celſo,
e l'Elmõtese'l Quercetano, e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini, e'l Crollio,
etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe
allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine; anzi que' due gran lumi
della Chimica medicina, il Paracelſo, e l'Elmonce foven te d'alcuni lor
famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre', e difpenfarc i
Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno, e
riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica. Ne per altro in vero
in tanta infainia,e ſcherno cadde cotal meſtiere, e tuttavia ſi biafima, e fi
vitupera dalle genti, quanto, che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora
di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente
idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo
conſigliare,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui
cura, e talento i ragguardevoli lor medicamenti; dicendo alcuni di eſſo loro,
coluiſolamente effer vero medico, che a ſue propie mani le ſue medicine ſi
lavori. Quo circa illum demum cum Crollio, dice Criſtoforo Glucradt, verè genui
num elle medicum cenfemus, qui medicamenta debitè cogni ta, non ratione, ut
rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare, et à veneno, et feculentiis
ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere didicit; eaque
imperito non committere coguo; e prima di lui n'avea recata la cagione il
Penoto, facilius eſt, R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare agrotum,
quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus, cineribuſque ſordidum ingredi,&
pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi
antidoti licome, avviſa Galieno, propiamé tc al medico s'appartiene: perchè
narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il ſervigio de’baſſi
ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il commetteſſero:Io non lo
comead altrui, chc a medico il lavorar le Chiniche medicine impor ſi debba;
perciocchè molte, e molte di quelle di maggior vigore, ed efficacia fornite
ſono; perchè certamente maggiore avvedutezza, e intendiméto richieg gono, che
la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo antidoto, che gliantichi medici
componeffer inai; eres la lor compoſizione malne ſortiſce, aſſai più certamente
ne può di danno, e di nocimento avvenire; imperciocchè molti, e molti de
chimicimedicamenti ſon così dilicati, e pericoloſi in lavorarſi, cheper ogni
menomo fallo, o tra ſcutaggine, che vi ſi commetta, graviſſima certamente, e
mortal rovina ne può ſeguire. Perchè l'incomparabile Resnato delle Carte così
alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona: Caurè etiam fecit
celfitudo ſua, quod non luerit Chymicis remediis uti; nàm quantumvis longa expe
rientia illorum vires comprobatę fuerint, tamen, vel minima in eorum
preparatione, etiam quum optimè fieri creduntur, variatio, poteft illorum
qualitates ità immutare, ut non re media fint, fed venena; ſenzachè, ſe'l
medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine,
come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti avviſare, che alcune di
quelle, eziandio ottimamente compofte, e apparecchiate far fogliono? come
afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico? il qual
ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero, quocunque modo fe và cum folo
nitro, aut addito etiam tartaro præparatum fit, traétu temporis aëri expoſirum
pravam, da quaſ maligram induit naturam, fumptumqueintrà corpus, cordis
anguſtias, lipothymias, vomitufque, et fimilia prava ſymptomata pro creat. Come
potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo, comprenderla
vera, e giuſta quanti tà, ch’ad ammalato ſia da dare? la qual certamente non da
altro li miſura, e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che
in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta: e quella ſenza
dubbio comprender non fi può, fuor ſolamente per iſperienza, e per pruova, con
far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati, e con rite gno in prim?:
quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol
quantità giuſtamente ſi pervéga: oltre a queſto havviancora alcune virtù di
medi camenti, che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione,
e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano, pur
diverſame te o più, o men vigoroſe, e valevoli ſortir ſogliono; in torno alla
qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi
ſarebbe; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj
comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate?
co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli? Ma
558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten
gono, iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar
le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne: dico, chenon
haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare, ma que' ſolamente, che di
maggior conſiderazione, e di maggior riſchio agl'infermi fono; commettendo
ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e
fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco; eſſendovi
anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza, quando la biſogna
peravventura il richiedeſſe. Ma convienmiritor: nar addietro; imperocchè caduto
dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga
fapere, a coloro, che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente
non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi
mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano
a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti? E ' no è
peravvétura purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici, e
feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro
laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico,
e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes
Damafcenus in herbarum decoctio nibus; diſtillationibus, quamvis corruptê, di
impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem,nefciétibus evela
bereelementa à fimplicibus, tantum affumuns aquam endi: viæ primam,oprojiciunt
aërem, ignem; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia,
et fecres ta: à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa: hoc voluit in selligere
Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med. ad augendum coitum,
ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum,
&patentiffimum eft falem no poffe confici, nifi perdiſtillationem; ducum
prima aqua dif folvere cinerem, abluere primam aquam, terram albifi cando, ut
docent fapientes. Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo
maeſtro, c compatriota'nelle fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna.
Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in
tender gli Autori, con produrre in mezzo molti, emol ci altriluoghid'Avicenna
male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci, per non conoſcerli di chimica; e
centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare, ſe dal tempo ne
foſſe permeſſo. Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica
efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere, e ravviſare tante,
e sì fatte guiſe dime dicamenti, che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol
ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in
nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere, ſom vente a' rapporti de’medeſimi
componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto, e privi ritrovandoſi di
qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti, ne in
quali forti di malattie, in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da
uſar fieno, appieno compré der potráno:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte
appreſſo i buoni autori s'incontrino, i quali appena ſi pare,che l'ab. biano
ne'lor volumi groſſamente accennate, non che par. titamente ſpiegate, e
deſcritte, coprendo a bello ſtudio, e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più
profondi dellar te, per non logorargli yanamente infra le genti volgari,cu
dibaſſo intendimento. E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono
vapamente agli ammalati alcunisime dj, che chiaman prezioſi; facendoſi a
crederc, che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature, e
fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte
poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de'
medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per
ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico: Multos pratereamedici componere
fuccos Afuerunt; preciofa tamen quum veneris emptum. Falleris,fruftraque
immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro, che cotanto
alcuni ſopranmodo millantano: come potrà egli un buon medico diſpor 560
Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel
che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere? Oh ſep chimica
conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento,
certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali, perciocchè non è
egli, ne eſſer può giammai ſal d'argento; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi
ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me, e rappreſi dalle particelle di
quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi, onde già roſi, e ſgretolati
furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali,
e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far
fi ſuole; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai,
così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù, cheſipredia canodel
ſald'argento; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati
cervelli. Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è, quanto più del
vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e
ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli
inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche
mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente, o
la natura medeſima, o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir
ſarebbe dell'olio dell'oro, e dell'oro, che chiaman potabile, del qual
certamente niun mai ſervir dovrebbeſi, ſe non aveſſe egli in prima per più
d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri
ſembianti ritornare, e prender di nuovo forma di metallo,laſciato avēdo affatto
d'eſſer tale. La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con.
ſigliata ne fu allor, che diſſe: ne metallicum ullum arcanu intra corpus
accipiatis, nifi prius redditum fit volatile, din nullum metallum reduci
poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli, delle perle,del le
quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini,
cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc
eſſenze non ſono con cior sor ciosfecofachè a farle tali, egli convenga in
prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera,
e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe
altro veramente non ſono, ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che
Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche
sbracciate del Rc Artù, e lemillanterie di Lancillotto, di Triſtano, ed'altri
crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte. E ſepur vere coſe, e non
vanisſime dicerie elle fono, ficome al quanti guari autori han voluto pur
credere, cgli però ſo 110 sì inviluppate; e cieche, e rimoſſe dal noſtro
intendi mento, chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire;
così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica
Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo, l’Elmonte, e altri, l'han ſapute
co' loro riboboli, ed cninmisì bene avvolgere, e intralciare, che impoſſibile
omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto, che comunemente far pe
veggiamo, altro certa mente non è, ch'un minuto ſtrirolamento, o ſceveraniento
delle parti, fatto, come è detto,da’ſaliacuti elaltati,e per ciò ſoinmamente
velenoſi, i quali meſcolativi per entro, e forte appiccativi non ſe ne
potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli
dell'oro, o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati,
e a que’ſali appiccati, ceſano, e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali;
intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono
valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto,
e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte; ficoinenel tartaro vitriolato far
ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi
rimancſſcro, ma per opera d'ec cellente, e ſaggio maeſtro già tutti interamente
ne goin beraſſero, certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati
non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze, ma
tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per
gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio; come gli
intendenti del meſtier fa vellano. E di ciò ben fi può far manifeſta
pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro; concioffiecofachè bcn allor
di preſente fi vegga l'argento, e l'oro, e le gem me calar giù, e far
toſtofondaccio: comechè alcuni cotali paltonieri, e giuntatori de’noftriſecoli
pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario: circumfuranei fallaces,come dice
il grand'Elmonte,qui aurum, et argentum furripientes aliud in borum locum
fuppofuere; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare. Ma
de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte, huomo per
univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato.
Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum, qui foliatum aurum, gē
maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam
ignorantiamfinondolum; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium.
Subtilior, ideoque magis condolendus efterror eorum, quiaurum, argentum,coralia,
perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere
videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri, verè ſuasproprietates
nobiſcum communicatura.Nefciät enim, ah neſciunt acidum venis hoſtile; ideoque
peregrina diſſolventiúfuperata, et tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla,&
lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit
redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed
Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai, e ferino, e veritiero
ſcritto Te: omnes illi, ſclama, qui talibus portentofis promifis, quo rum ne
minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta,
&impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus, intendendo egli di coloro
appunto, de' quali noi ra gionato abbiamo: ſciocchi,e ignoranti della Chimica,
qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur, tanquam profundi ar. canorum naturæ
fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine
oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di
ciò avea egli detto: meritò fufpeéti habentur, qui primam dari materia philofophorum
tùm ad quorumcunque morborum curationem, tùmadmetallorum tranfmutationem,
multis, jiſque ad oſtë tationem, et fraudem comparanis rationibus probare conan
tur. Qui ex auro, quod necfummaignis violentia, autul lo corroſivo cogi poteft,
ut vim fuam metallicam exuat, se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura
conficere poffe jactitant. Qui non folùm colorem, innatam tin &tu ram ex
omnibus metallis, lapidibus presiofos, fed etiam fpi ritus, olea, et ſales non
minus, ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui ex.talco, corpore
illu metallico, et incombuſtibili, balſamicum, &temperatumliquorem ad per
petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram tincturam coraliurum ejufdem
cumipfis coraliis coloris, faporis, &tem peramenti, majoris tamen virtutis
ad Epilepſie, et Melan cholie curationem vendunt; du ex ipfis margaritis talē
quin tamellentiam,quæ humidum radicale confumptum meliusquá ullumaliud fimplex,aut
compofitumreftituat. E quancunque gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al
quanto, o per me'dir mitigarhi accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli
demetalliſciolti, che le lor fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come
nel vitriolodel ferro agevolmé te fi può vedere; non,però di meno il più delle
volte il con trario n'avviene; perciocchè le punte delle particelle, che
compongono i fali, accozzandoſi talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli,
vengon si fartamente a ſchierarſi, e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime
ricciaje, od’aſpri riccj fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no
le viſcere ', e con mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono; ficomealla
giornata nel ſoliinato, e nel precipitato, e achenell'oro ſciolto p l'acqua
regia avvenir veggiamo. Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio, dicoral
oro favellando, dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice, illo nocentius
toxicum. Ed io porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti, ſe non
ſi deſſero tanto miſuratamente, e a ſpiluzzico, non nien gravi, e manifeſti
danni ſeguirebbono, che dal ſolimato, e dal precipitato avvenir ſogliono;
perchè non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi,
e ignoranti, ſe nella chimica eſercitati foffero, cotali medicamenti,
anzinocevoliſſimiveleni, a'loro ammalati per cagion veruna imporre; e
comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere
agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare, inaggiormente gliele abbattono.
E ſappiano pure, che ſecondochè nes dicano i più veritieri Chimici, più agevole
aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro, che'l già fatto diſtruggere. Ne è
dacredere, che quell'olio d'oro tanto celebre, e famoſo in Portogallo, curi, e
ſaldi le ferite con altro, ches co'ſali roditori, ed acuti dell'acqua regia,
che if diffolve; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi
del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare; perchè gli
ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro, o ſia egli oro
potabile, è certamente da attri buire; che per altro, ficome diceva colui,
l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato, e di niun momento ſenza il fal
roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco
d'utile, che rade volte ricever fe ne ſuo le, ſe paragonafial riſchio, in cui
la vita del malato mani feftamente incorre. Ne altrimenti è da credere degli ap
parecchiamentidelle perle, de’coralli, e dellc gemme; perocchè, come di ſopra
detto è, sì fattamente nel loro Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano,
che per quindi torgli vano affatto, e inutile ogniſtudio riuſcirebbc.' Emi
ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero
di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali, onde compoſto era, putiva; e
quelvalent'huomoall? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe, che di
preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali
apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi; e'l Gluctradio medeſimo
ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino, forte gli biaſima, e danna.
Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine ragionevolméte da
ſeguitar non fia; non però di meno in ciò, chcnarra delle perle, egli ſenza
dubbio ſembra dir vero. Acetum radi catum, ſon ſue parolefua, acrimonia, et vi
corroſiva, atq; cauſtica non modo margaritas, verum alia etiam diſolvere;
&in cinerem quafi redigere, atque quemadmodum Chymiſte loquuntur, calcinare
polje nemini dubium eft. Huc autem no eft fpiritum margaritarum elicere, fed
totam earumfubftan. tiam corrumpere. D.Vaoylelius ſenior mihi narravit Epiſco
pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum, magiſterium hocper larumperſuaſum à
fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife, atque eo demortuo tunicas
ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem eventu ufam effe Marchionis
Iohannis conjugem, in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt erofa. E ciò
certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di quellavorjo
qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e dall'averſi
egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre modo acuto,
e roditore. E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle
perle, e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali, o liquori
vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato, pure in
molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano;per chè in luogo d'abbeverarſi di
quel ſale acetoſo, che nelle noſtre viſcere calor ritrovano, accreſcendolo
maggiormen te, le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi baſtevole
ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric, che in sì fatte materie
tutto giorno com metter fi fogliono? Ed è egli recente ancor la memoria in
queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro
per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano, ilquale con ſue ciarle, e
giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli huomini, e dando a
diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone, vendendo, e di fpenſando la tintura
del verderame per quella degli ſme raldi, c'l biſmuto calcinato con acqua forte,
e ſciolto, co me dicono, per deliquio, in luogo di veraciſſimo latte di perle;
e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire di propierà per balſamo di
Criſto, e la cintura del Chermes per quella de'coralli. Così bé ſapea
falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire il noſtro Dante la giu
nella: decima bolgia dello Inferno: Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio,
Che falfaili metalli con Alchimia: E ten deiricordar ſeben, t'adocchio,
Com'Iofui dinatura buona foimia. E non ha guari di tempo; cheda qualche
malvagio fpe? ziale comunemente vendevali (edimedici pur l'imponeva no a'loro
infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima, ineſcolatovi
dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva nell'eſtratto del
Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace, e vigoroſo, con quel dá no, e
nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo; e gli ſcimuniti, e
balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine
reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre, e più vigoroſa negli eſtratti
l'efficacia dellemedicine dover riuſcire. E ſomigliantemente dall'ignoranza
della chimica anco ra avviene, che i baccelloni, e ſemplici medici credendo di
foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie, e diverſe
moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al
mondo, o folamente ne’libri di poco pregio, o dalle bocche, o dalle penne di
chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri
infermi, chi potràmairaccontare:Dirò lo fola mente, ch'un celebre Galieniſta
de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino, o altro
ſomiglia te libro di Chimica, ftimandofi egli già gran maeſtro in quella, preſe
ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto;
e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa
il con traſtafle, pur colei preſolo, dopo acerbilliini dolori nabif fando, e
rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche, e irra gionevoli ricette ben ne potrei
Io un lungo catalogo qui diviſare, ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio;
temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno, come di fallo per avventura da ſe
maffimamente commeflo; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo
ordine intel R 1 iuto, ne, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà
intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga. E dall'ignoranza della
Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar
ſi co ftumi; il che certamente non avverrebbe, fe ſapeſſefi qua to
eglioltremodo malagevol fia il comporlo; e che gli ſpe ziali in vece del ſale
del vitriolo, dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco, o pure il vitriolo
riprodotto dal capo: morto, ſicome dicono; il quale talvolta aſſai più del
vetro medeſiino, e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando
acerbillimi dolori nelle viſcere, e talora anche manifeftamcnte uccidendo. Così
non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel
nuovomiſerabil mente rabbiando Gio:Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido.
Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un
benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c
micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare. E ſon' anchei medicinegli
ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati;
perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo
danno di colui, che prender gli dec; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi
formentati, gravida di quel ſale acetoſo, che non mai partir ſe ne può, trae
ſoven te qualche nocevol particella della campana, e con la ſua mordacità tanto
quanto la rode, e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in
prima avvedere,[con volge, e morde le viſcere, e diſtempera il corpo, cagione
vole oltremodo, e difettoſa l'economia di quello renden do. Ma veggo Signori
che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i
medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il
mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e
ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio, fe pienamente
non ne fan riuſcire, dico di nuovo, che laſcjno da parte ſtare le
pericoloſisſime medicine della Chimica, e ſolo alle lor menovili, ccomunali
attendano: Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila,
diſcive, trochive quieſcit, Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò
lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante
d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re, che non ne fieguono le ſcherne di lui,
ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni
maeſtriScimmionide'ſuoi tempi, i quali, com'egli dice, quum rerum Chymicarum
planè ignari fint,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur,
chymica medicame ta, quorum vires, et præparationis modum ignorant, fatis
periculosè ufurpant. Or che direbbe egli, s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza
del noſtro ſecolo, e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città, in queſto Regno
non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere, non eſſer cerrerano,non doniccico:
1a, che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico, che non gli ordini,
appena che ne ſappia il noine, o bene, o malc, in tutte ſortidimalattie? Anzi,
che direb be egli pure, ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar
tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente, e
con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti, e non punto intendenti di
quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono?
E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino; pur nulla
conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla
groſ ſa il tutto, con danno, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto
de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo
noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius
eamfpreverant, excoli; ejuſquefcientiam à pluri bus, qui ipfam nunquam
coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur. Vndè faftum quodplures
Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis, atque in
uſum verſa; et fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſicis, tùm medicis
adopsate. E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la chimica, a
che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica nella
Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra, e in altri molti famoſisſimiluoghi
d'Europa? A che tanti valentisſimi medici (de'quali alquanti più famoſi Ga
dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante fatiche,
ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla, per appararla? E
per racer d'Avicenna, di Rali, di Meſue, d'Abulcafi, e d'altri famoſi medici
Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli, d’Arnaldo da Vil lanova, e d'altri
di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero Giovanni da
Bagnuolo,Gio:Battiſta Món tano: Giacomo Silvio grandiffimo parteggiano
diGalieno, Giovan Fernelio, Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero, Andrea
de'Mattioli,Gio: Giacomo Veccheri, Gabriel Fal loppio, Felice de' Platteri,
Martin Rollando, Anſelmo Boezio, Girolamo Cardano, Giulio Cefare della Scala,
Gregorio, e Daniello Orftio, Pietro Caſtelli, Marco Aure lio Severini, Daniel
Sennerti, Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan
Cratonc? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con ogni sforzo in
prima ſtudiato li foſſe di contraſtare, e abbatter la Chi mica, pure alla per
fine tratto dalla verità volle appararla, e ſeguirla; e introduſſe in Vienna,
com ' egli narra, nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli, e nobili medicamē.
ti; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita to, e biaſimato. Ed
egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica, fe pur egli non è
anche di tutt' altre cofe grandi, e magnifiche: poichè non s'arri fchia alcun
giammai a tacciar coſa, di che pienamente non ſappia, e non ne ſia in prima a
baſtanza informato:ma folo la Chimica fi biaſima, e s'accagiona da chi men
n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che
con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un meſtier,dicui appena fanno il
nome.: Machi baſterebbe giammai ad annoverar tutti coloro, Сccc chc 570
Ragionamento Settimo che le chimiche medicine adoperano? certamente non è
medico a'tempi noſtri, ch'abbia fior di ſenno, che per be ne ciò fare, con ogni
ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della
noſtra ctà, o della noftra fioritiffima Italia nella quale anche
a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za
avidiſſimamente fu ricevuta. E Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che
inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa, fciat,diſſe, in Germaniamedicină
exercere Chymiæ igna rum non poffe, &vixin Gallia, et in Italia; e'l teſtè
men tovato Daniello Orſtio: encomia Chymie non opus eft, ut hic recenfeam: quia
verum eft, quod habet alicubi Heur nius: ceſpitat, jam profecto fine hacarte
medicina. E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli: medicum abſolutum effe
non poſſe; immo nec mediocrem quidem, qui in Chymica non fit exercitatus: nella
qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti, e in varj altri luoghi
l'accennato Caſtelli, tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra
ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi
diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere
umano: imperocchè l'acqueodori fere, gli olj, tanta varietà di liſcj, che
lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica,
qua fi emula della natura produconſi, la varietà de'colori, che formanſi per
uſo della pittura, le paſte da indorare, e lac que da partire i metalli, che
continuamente adoperanſi dagli Orafi, tutti ſono effetti, coperazionidella
Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i
metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere
Budeo, che nel terzo libro de Af se, ebbe a dire: hujus eft id artificium, ut
vi aqua medicata, quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem argento,
aut cuivis metallo illitam, aut confufam,nullo di Spendio abſtrabat, ita ut
inauraturis nibil jam depereat mă do, niſi quod ufu interteritur. Res omnino
fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere, etiã, quod magis
mireris manente vafculi forma quaſa interdum, a inani, veluti quadam idea à
materia abſtracta. E l’Alciato ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando
il teſto della legge Idem Pomponius, S. fed fi D. de rei vind. nella quale ſi
dice, che'l rame miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver
luogo la vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani
têpore obſer vari, hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry
ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis
pauci ſintartifices, vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio
fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum. Ma cotali
brighe a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do:poichè la chimica eſſer così
giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto,
trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade, perle quali aggiugner ſi poſſa alla
contezza di sì nobil meſtiere. Primieramente colui che nel faticoſo meſtier
della Chimica eſercitar ſi voglia, conviene, che non ſolo, comc Teobaldo
avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato: ma d'altri, e d'altri ancora
egli abbia conoſcimento:concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i
volumi ſiano ſcritti, e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come altrovc
dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per iſpiegargli: Ea
fuit om nium hactenus invidia, dice di lor querelandoli Geremia Bartio, idque
præpofterum occultandi ftudium, ac labor, ut non tantum à fe inventa artificia
ſpagyrica, tanquam eleuf, na facra celarint: ſed veterum etiam arcana,
fimpliciori, apertiorique orationis genere propalata, impofioria perplexi tate,
do notarum hieroglyphicarum obſcuritate, in tenebras ipfis Cimmeriis, et Ægyptiis
denfiores conjecerint. E oltre a queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per
l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver diligentemente ſtudiato in fiſica, e
conſeguentemente in Geometria, e in tutte altre ſcienze ad imprender filica
ſommamente neceſſarie; ſenza le qua li mal certamente può egli il ſuo
intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit, e valoroſo aſſai: così quel
famolin C cc c 2 mo medico; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad
hancfcientiam vultpervenire, &non eſs philofophus, fa tuus eft; per tacere
il Morieno, e altri. Maconviene oltrº a ciò,che per internarſi nelle cupe, e
profonde ſpecula zioni della natura, ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra
pidiffimo ingegno traſcorra, e molto in eſli ſpii, molto co prenda, e avviſi
tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per
inveſtigare nuove coſe; cer cando per lande, e per valli, e per colli, e per
fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante, erbe diverſe, c oltr'a ciò
augelli, e peſci, e altri infiniti animali, e minic re, e gemme, e altre, e
altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda, come già
fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo.
Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della
natura, e delle qualità di tutti gli ordigni, e ſtrumenti del meſtiere, e
ſopratutto del fuoco; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé
premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne, o d'altre ſorte
di quelle coſe, che ſi lavorano; perchè poi vengono oltremodo a variarſene gli
effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio da
picciola barca, e troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento,fee tutto
ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi volesſi;
ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio credere a
cal meſtie re: ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila chimica ap parare,
è impreſa oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a colui,cheper la
filoſofia, e per la medicina ſervir ſe ne yuole. La qualcoſa, ſicome
dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a bello Audio
con enimmi,e viluppi intralciata; e ciò fanno per. non manifeſtare a tutta
gente i ſegreti più profondi dell'ar te; nella qual cofa adoperano certamente
gran ſenno, ſe guitando i conſigli degli antichisſimi padri dell'arte gli Ege.
Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè;, come cancò quel
giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe, e
care, Saporite, foavi, e delicate Scoverie in man non fi debbon portare, Perchè
da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti, e molti, che ſi ſono
affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi
ci maeſtri, ne rimangono certamente di gran lunga ingan nati, e ſovente ancora
ne' loro errori traggonnon volendo coloro, che creduli troppo preſtan lor fede;
masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione della medicina, come fon
quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel, che maggiorméte accreſce
la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate, quandofan ſembianza di parlar
manife ſtamente, e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di parole, al lor
maggiormente n’inviluppano. Omnium rerum, avvi fa il gran Claudio Salmaſio, quæ
ad hanc fcientiam perti nent vocabula, ab ufu, et confuetudine
communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum vindicarunt, fa
lis myſtis tanti arcani intelle &tam. Fornaculam fortem, ve caminum, in quo
argentum,& aurum fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora
conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea
adjicio, quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no
ex obſcuro corum ambiguo, et ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt,modo
percipere; ipfis. confilium non effe, st intelligantur,nifi à filiis artis
(utvocant, nec vel ab iis quidemfine difficultate, et incerti
ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur,
quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr: ubi palàm la quuti fumus, ibi
nihil diximus. E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars
enim ipſa tam eft abdi ta, ut in ejus cognitione adipiſcenda oleum, et operam
miſe rè perdant pleriquemortalium. Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc
gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana
obtegunt;ut videant, ideo folü fcripfiffe ut nõ intelligerent? E peraddurre di
ciò un ſolo efemplo, chi non crederebbe interamente al Beguino, ea tant'altri
moderni autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo,
quelmedeſimoappunto, che gli antichi Chimiciin, molte malattie di darper bocca
uſavano? Epur la biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra,e
più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino, non
ſolamentenon giova, anzi n'offende notabil mente le viſcere; perchè molti della
lor perſona mal capi tati ne ſono, per avere i medici ſoverchiamente al Beguino
preſtato credenza; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma: ecento, e
mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono. E quinci avvien poi, che non ſi
veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure, che ſi leggono già per iná degli
antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti
ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati, e alla groſſa diſegnati, che
inal certamente per huom ſi poſſono adoperare. E a ciò ben dovea riguarda re
Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato, il libro de mendaciis Chymicorum,
con ſua poca loda compoſe. Or veggali di grazia chente, e quali fian le malage
volezze; le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano, e come ſe ne
poffa in ſoli due meſi huom mai ſuis luppare, ficome non meno ſciocco, che
malizioſo fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio; quando egli ſotto gli
ann maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe, tanto
tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa, che
ſpecu lativa fia: egli è di meſtieri all'avveduto Chimico,anzi coll' uſo, e
colla ſperienza, che col rivolger de’libri appararla; perchè poco
ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya, dicendo Vos exemplaria Gebri
Nocturna verſate manu, verfate diurna; perciocchè quantunque in ſui libri
diGebro, e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno
ſe non ſi pruova col fuoco: econ altri chimici ſtrumenti,ciò, che Del Sig.
Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen
te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir,
che più co'carboni, e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia; ne per altro
certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò. E comechè dura oltremo,
do, e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo
ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto, ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν
έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω, Και τζηχυς το πρώτον:επήν
δ' εις άκρονίκητα, Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα. Innanzi a la virtù
poſto i ſudori Hannoglieterni, et immortali Dü: Aleiper lungo, ed erto calle
vaſſi, Che duro inprima appar, ma quando alfommo Si giugne, agevol èquel,
ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere, ch'Io
avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui, che
pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella; ne in
meſtier di tanta conſide. razione, quant'è la ſalute, e la vita degli huomini
haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro, ne ar roffarfi di
ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di
qualche pro-alla inedicina; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio:
nullus adeò malus liber eft, ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit. E
Giuſeppe della Scala: ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum
librumeffeputo, ex quo non alia quem fruitum colligere poffim. Ne è perſona
cotanto ſcioca ca, e balorda, da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa,
eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε, che
per tacere altri, il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto,
così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto
a propoſito a la gente. Ma particolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal
pro, poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di
Lione: prudens le&tor, vel auditor, omnes libenter audit, omnia legit: non
fcripturam, non perfonam, non doctrinam Spernit:ab omnibus indifferenter, quod
fibi deeffe videtur querit, non quantum fciat,fed quantum igno ret, confiderat.
E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe
d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo, cui
no aveapotuto porre alcun compenſo, e vani erano riuſcitii molti, e varj
conſigli de' valentiſſimimedici. E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città,
egli è gran tempo, ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi
rimedi per li bozzoli della gola, e perle ſcrofole; e al mal della pun ta
guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite,aftenendo ſi da’ falafli, l'olio
del lino, l'olio dell'olive, il ſangue del becco, il ſalnitro, l'incenſo, la
pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale, i fiori del papavere roſli, la
calce, il gen giovo, e'l zafferano; nella colica la cenere d'alcuni legni,
nella riſipola il ſangue della lepre, il ranno, e l'acqua del vitriolo, e della
calce, e altrimolti medicamenti, che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il
perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo, il
qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar
nelle ſcuole, come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto
ciò, ch’alla medicina ri chiedefi; ma gli convenga anche girne dalle
vecchiarelle, dalle zingane,da'ciurmadori, e da’vecchj, e ſperimentati
contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più, ch’altrove per
avventura non farebbe; e quinci fi coglie, the'l medico, non menche del chimico
è detto, debba an dar ſe poſſibil fia,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando
da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora,
acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre, delle
minicre,dell’acque, degliani mali, dell'aria, delle ſtagioni, de'coſtumi,
de'cibi, delle bevande, delle medicine, delle malattie, e delle maniere di
ciaſchedun paeſe. Ma con tutto, che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il
medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo
grado della medicina pervenuto: concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che
l'Elmonte dice, che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi:imperocchè
queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi
vide, per tacer del Paracelſo, nell'Elmonte medeſimo, che forſe quell'uno ſi
era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di
queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente
filoſofaro avea. Ma laſciando ciò daparte ſtare, mi par tempo omai, che
veggiamo, quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al
conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla
medicina. E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto, infra l'altre coſe
al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare; conveniente coſa mi
parrebbe, acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero, d'un compiuto,
eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er
bolajo ritenere, il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare, con iſpiegar
loro la natura, i nomi, e gli effetti di quelle; acciocchè avveduramente poi
ciaſcuno uſar le do velle. E ciò tanto monta al comun deila medicina, che
ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe: ficutmedicus fim plicium ignarus non
eft bonus medicus, ita Academia, quæ horto fimplicium publico caret, non eft
perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti, e molti danni
annoverati, che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino
de'ſemplici, avvenirnefogliono. E certamente niun maiſaprebbe, comechè ſagace,
cavveduto molto ſi foffe, giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me
dicina appartenenti, ſenza aver huom, che d'efli affai pie namente informato
innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno
avviſata, allorche dilic, parlando de'ſemplici: Convien certamente, che non
Dddd nina, una, o due, o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te
offervando con qualche'maeſtro, il qualgliele additi,come bocca gliele inſegni.
E altrove: Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia
comprender la materia de medicamenti; eglino medeſimi non una, o due, e tre
fiates ma ſoventi volte ravviſandola; concioficofachè la vera co tezza delle
coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia. Ed
altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe
lordiſegnate non curano: diſſe:Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i
qualii ſe gnali tutti, e i marchi d'unoſchiavofuggitivo, comeche mai non
l'abbian veduto, a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò
eglino daaltrui, comecanzone il vă per tutto poirecitando; che ſe per avventura
intervenije, cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa
menteper tutto ciò no'lravviſerebbono. E ciò tanto mag giormente avviene,
quanto,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente
apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e
per le contele, ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e
moltinomi, che i ſemplici hanno, chia mandoſi diverſamente da ciafcuno. Coſa,
la qual cotanto fe ſudare, e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè, co mc
egli dice: in berbulæ cujufdam facie repreſentanda, no tas tam variè delineant,
utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur: aut cerie
eandem multi plici prorſus effigie: quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw
omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium, per vaftas ire
regionum multarum ſolitudines, invia montium juga peragrare, lacus inacceffos
Inftrare, abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum
corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare, ut inſpectu eriam, ne
dum cognitione res ipfas comprehenderem. E ciò certamente fu non poca fatica
d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno, ch'a sì fatro meſtiere in
tender preſuma.Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino, con apparar quì
in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! be da confarſi ad ulo di
medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio, e riſchio delle noſtre
perſone. Ag. giungafi a ciò, ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più
nelle noſtre ſcuole, ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia,
quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali
conoſcenze ne con vegna, e nel tempo,che germogliano, e nel tempo, che creſcono,
e nel tempo, che languiſcono le piante diligen temente confiderare: τον δε
βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs
gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς
μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές
επιγνώναι.. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna, di
Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda
nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra
tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo, e comendevole Orto di Padova find a
ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a
medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to; del qual mai ſempre han
tenuto cura huomini in tal meſtiere, e in tutt'altre parti di medicina
intendentiflimi: ficome certamente fu Luigi Mondelli, Luigi dell' Anguil Jara,
Melchior Guilandini, Giacomo Antonio Cortufio, Proſpero Alpino, Giovan Prevozi,
il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio, ed altri molti per le lor famoſe opere in
iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto
avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa, e tempo logorandovi, fe a
più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non
aveſſero; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove, in queſta noſtra Città, in
queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana
mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana, e
ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa; da poi che la paffata piſtolenza tutti
gliene tolſe. Intanto, che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli, che in ciò pochi
ebbe a ſc pari, infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1
-mofaa compor s’avea la Triaca, fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene.
Or che della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe,
che sì ebbe a ſcla mare? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli
ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut
diſeantjuniores medici, atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum, decus, fed
quod maximum, quod optă dum, ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot
nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur? quot agri
indè necantur? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più,e più altre con tezze
a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue, farebbe
meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza
quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel
li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne
ſiano; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo, o
della materia, o del la lingua intendenti, in non pochi errori ſono incorſi; e
per tacer d'altri, o quante, e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e
tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato
fede a coloro, che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E
certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che
Plinio, anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella, pur
malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti
avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato? Ma meſtier anche farebbe ri
ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia, ein man de'medici ri porla, come già
prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba; certiſtima coſa
eſſendo, che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no
Notomiſta avuto; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio, o perchè di fcco cotal
biſogna le riſpondeffe,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura
ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato, una faccenda di tanta conſiderazio
ne, e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata, che un di ligen Del Sig.
Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle, e facédofi
ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni
ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe; perciocchè
in sì fatta guiſa non ha dub bio, che a'giovani, perchè perfetti notomiſti
diveniſſero, agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino
inſieme unite le due cattedre della notomia, e della cirugia, e come di due
peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè
loderei, che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual
fatica ſi partiſsero, e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero.
E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli
fono al co mune, che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan
meſtieri, ma per l'arti della guerra ancora, c per la na vigazione, e per le
mercatanzic, e per tutto il civil con mercio. Ma oltre a tutte queſte ſcuole,
che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre; la quale per
quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto, così gio vevole, e neceffaria
è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono, et cccellente
maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote; e non ha il torto l'avvedutisſimo,
ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a
vituperare, e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica
introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa
meſtiere: avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia,
alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero
d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura
necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio, quãdo
diſſe: Medici hoc têpore (Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum
legerit?qui impunè homines occidit? ) cum mihil reliqui habeant medendis
corporibus, vel cum re ipfa. ignorent, quo morbigenere ægri fins affecti, ad
aquas Baja. nas eos rejiciunt, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi
tamen ftolidos noftræ ætatis homines, quificaci eò profici Scan ' 582
RagionamentoSettimo fcantur, jam ſe videre, caciores indè reverſicontendunt. E
certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe; perciocchè
non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate
l'abbia, come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo
Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia; dal quale ingan nato, follemente
credette eſſer non ſo quali miniere di fo le, e diluna in quelle acque. Ma per
accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina: Io richiederei, che i
Lettori di ella, oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate, e diGalieno ſpiegar
dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi, e moderni autori,ac ciocchè gli
ſcolari, ſicomeGalieno, c altri famoſi valend huominigià ferono, di tutto ciò
chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano; e ſe bene sì fatte
contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza
dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace, e che niuna ſetta di
quella abbia in ſe dottrina, che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento
porre, ne coſa di certo mai determinare; impertanto potranno agevolmente
ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte, e dell'opinioni,
e alle varie, e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare, che fra i medici
ditem ро in tempo ſono venyte in ſu, qual via nel meſtier del me 'dicare debban
genere, Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi
farebbe, ficome alcuni daquelle parole: li bros authenticos tam Hippocratis,
quamGaleni in fcholis da Geant: vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che
altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re;
cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno,i sé timenti di Galieno
medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di
Galieno colui, il quale non faccia, come Galieno adoperò, ſcegliendo datutti
libri il migliore, ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola. w inſtantemente
conforta. Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto, ſecondo le
fpoſizioni d'alcuni, che sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire,
einſegnare; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono
riſerbare, e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat,
tantummodo, folum, che i Dottori chiamano taſſative; ſenzachè, ſe colla mente
del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio, nevolmente è da fare,
certamente non che lo ſpiegare an, che altri nomen famoſi autori vietato ne fia,
anzi egli n'è apertamente conceſſo, o per medire impoſto; conciollie cofachè
l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge,, altro
certainente ſtato non ſia, ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe
di formare un, perfetto ge valentemedico; il quale, conte già abbiam di
moſtrato,cal divenir non potrebbe, s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina
è ſcritto piena contezza non abbia. E. certamente ſe l'Imperador
Federicoamici!limo, e bene in formato delle buone lettere', che fe lo ſtatuto,
e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo,
che ſcriſfelo, econrpilollo, aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e
dottrine de" novelli medici, e filoſofanti alcuna concezza avere, eglino
ſenza dubbio non pure permeſſo,ma commendato anche avrebbono,che nelle ſcuole a
pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora
noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel
barbaro, e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no
mandolfi mai di que’tempiad effetto;o pur ſe andò avā ti, fu preſo ſempre in
quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova,
e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo,
chepiù che d'Ippocrate,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena,c di
Meſueallor ſi coſtumavano; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da
parce i Greci maeſtri, con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle
febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus
almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno
interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca, famoſo
maeſtro in medicina di queſta noſtra Città. Ne altre doitrine in vero, o
diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do,
licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor
ſeglionfi; ſegnal certiſſimo, che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre
nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo
nimico di Galicno, e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente
mandar giù le loro doterine, aper tamente cozzandovi, ſe per legge ne foſſe
ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma, e la
ſperienza ſeguire. E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti
di Galieno traſandando, ove la verità il richiedeva apertamente il
contraſtarono? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono,
ſe contro i divieti imperiali altronde, che da Ippocrate, e da Galieno raccolta
l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi
fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto,comeche foſſer preſi a leggerfi
i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo
alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora
pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio
ſconce,e gua íte, e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere
d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi; de'quali la
doctrina allora per tutto trionfando fio riva; intanto, che Avicenna per comun
yoce era principe della medicina chiamaco. E tanto parmial preſente della
traccia, che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina
aver baſtantemente accennato. Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a
huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia,
comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar-, fi all'altrui autorità
nell'inſegnare; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole, Rai più
illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra
d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare: p mio avviſo laver ella
ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti, % 9 e
albergati pellegrini ingegni, e ſaggi, ſcorti, e liberi nello inveſtigare i
ripoſti, e profondimiſte rj della natura. E nel vero per non far parole de' più
anti chi tempi, chi è di voi, che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui
diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della
filoſofia, che quella avea no a vile, e duriſſimo fervaggio miſeramente
condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle
coſe? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi,
Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta
della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj
filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità
degli antichi mnaeſtri, della quale dubitar Еесс punto non che farle
alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza
recato? Vlti mamente, chi è divoi, che non ſappia, e che non abbia co’propi
occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata
accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli, ſol perchè era intendiméto di
lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale, alla ſcorta della
ſperienza ſolamente, e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le
cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti
i nobili fpi riti, che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero
rammentare? Ella ricoveroſſi, come voi ben ſapete, ſotto la protezion di D.
Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la
virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle
lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele,
un Daniello Spinola,un Frá ceſco, e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci,
un Luc' Antonio Porzio, un D.Michele Gentile, un To maffo Cornelio, e altri, e
altri curiofi, e ſagaci interpreti della natura, che collor fenno, e ftadio,e
gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo,
chegià ſtabilito, e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e
dallautorità che gli avea data il tempo, alvero, e alla ragione ſovraftar
avviſavanſi; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen
dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero
operá, ecominciamento; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente,
e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe
naturali, altro veramente noh fecero, ſaluo chc fecondare quef rego lamento,
per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze, e l'altre coſe tutte di
quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men
buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione
aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella
dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è dato agli huomini
acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge
delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento, e
corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito
già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo
fortemente ra: dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no
parimente le medeſime fatiche, ſe non maggiori, che durarono que'primi autori,
e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a
baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to
d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare, ſe
non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e
diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole
abbiſognino; ne a ciò fare veruna induſtria, veruno ſtudio, veruna fati ca
reputerò vana, e inutile: imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero, che
a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro, camefelice termine di queſte poche
fatiche, che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai
comincianento,dico, ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai, che s'aveſſe
a rinovellare l'antico, e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a
parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb
be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa,ri pigliare l'antichiſfima
traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare, Oye poi queſta non li voleſſe
ſeguire, certamente giudicherei il men male, che ſi faceſſer le chioſe in ſu'l
già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera grande ſcemo ne
verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni, in cui, e'l tempo,e'l
cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente gli ſcolari;
sì ve ramente, che poi i maeſtri a quella guila, e con quella li bertà l'opere
d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di Platone, e
d'altri antichi trattar ſolea. E co me a ſuo eſemplo fecero poi delle ſue
mcdefime Tcofraſto, Ermia, Filopono, caltri, e altri ſuoi più nobili ſeguacije
Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori, cioè a dir, ch'egli s'aveſſe
minutamente a cri vellare ogni fuo detto, diſaininar a fpiluzzico ogni ſua ra
gione, econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza, ch'egli
aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura; e ficomene'miſterjdalla Divina
eterna fapienza, che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già
rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare; così nelle dottrine in. fegnatene
da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in
ſu l'avviſo,ed aprir, come fuol dir fi, mille occhi, e mille, per veder ſe ciò,che
egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio, e immenſo volun
medell'Vniverfo. Ma perchè chiaro appaja, e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani
quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele,ne daremo
ora, comechè breve, qualche faggio; e primieramente in que ſentimenti, che da
criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno
Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini: ne di noi punto fi
brighi, ne con noi voglia, o poſſa uſare in alcunaguiſa, ne in ſonno, ne in
vegghia: e ch'egli non ſia colui, ond'ogni bene avvenga. Che la per
fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda, ſen za alcun godimento
nellaltra poterfi ſperare. Che la det ta beatitudine nella fola virtù non
confifta: ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna: dipartendoſi dal parcr
del ſuo Macſtro Platone (cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove
diſſe, cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che
buona ſia l'é pia legge di Minoffe,il quale volca, chelecito foffe il pec car
cótra a natura, acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero
de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza: burlandoſi di Simonide,
che detto avea effer Dio folamente il ſapiente; e ftizzandoſi contro Platone,
ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile, e bazzeſca. Che igio, vani debbano
fraftornarhi, comcincapaci, dalle morali dio fcipline. Che la modeſtia non fia
virtù: nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric, la
povertà, gli 1 efilj, la morte, o altri infortunj: le quali coſe, come em pie
la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò
Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio, Socrate la morte. Ma
che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante, e
tante volte da lui ridetto, e pro varo, facendo contro il vero arme i
ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio, il
qua le ſcioccamente egli chiama (wor, cioè a dire animale. E a lui di vantaggio
egli l'onnipotenza, ela providenza, elas libertà dell'operare empiamente toglie;
oltre a ciò non potendo talor la fuafolle, e pertinace miſcredenza celare,
apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le
genti, e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E
che diremo intor no alle pene, e premj, che dila ſi danno ſecondo l'operes che
di quà per noi fatte fono: E che direm’anche dello in ferno, il qual egli dice
effer certamente novella da vegliar de; morendocon noi l'anime ancora, ne altra
coſa di noi reſtando dopo morte, fe non ſe il freddo cadavero, ſenza,
fentimento niuno? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate
foſſim’anime di ferpi. Ma non verrei mai a fine, ſe tutte quì diſtintamente re
car lo voleſſi le fue empie, e peſtilenzioſe doctrine, dalle quali contaminato
il miſcredente Arabo chioſacore in's prima; e poi altristolſero l'occaſione di
comporre, e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci
apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano:
Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles: e prima di lui il grande Origene
nel libro, cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote
le piggiore aſſai d'Epicuro; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e
ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia; e'l beato
Serafino da Fermo, e S. Vincenzo Ferreri abboininando, e maladicendo la dottri
na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dareeffer
quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane, unde facte
furtamare, ficut abfynthium; per chè anche la venerabile ſua ordine avca
ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele. E ben ſi
paa re, cometeſtimoniano Laerzio Diogene, Ammonio, Cle mente d’Aleſſandria, e
altri, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per
ordinazione di quel Diavolo, che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya
le riſpo Ite in Delfo;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia,
che dottrine d'Ariſtotele: Arriana berefis argumentationum rivos, de
Ariſtotelæo forte mutuatur: fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum
Chri Si generationem putant ufufaculialligandam, relinquunt Apoftolum,
fequuntur Ariſtotelem, E S. Baſilio il magno ſchermendo, e vituperando
oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli
d'abbat tere, e diſtruggere Criſto; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice:
deh laſcia forſennato il malvagio, e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io
c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura
dell'anima: è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni.
Or ſe nelle coſe, che abbiam noi di certo, come loni quelle della noſtra ſanta
Fede, così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò; certamente dovremmo noi anche
nell'al tre tenerlo ſoſpetto, e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi
dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe, dalle
quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi
falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli
ap. poggia, o tutta, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè
l'eternità della materia, del movimento, del mon do, delle intelligenze: la
neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui: e altri, e altri
ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe
d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur
la Ipe 1 ricn DelSig. Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a
noile dimoſtra, che nulla più èda dubitarne? O forſe negando noi fede agli
occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti, e le dimo ſtranze, crederem
noi oſtinatamente ad Ariſtotele, e non ne prenderem pure faggio da altri più
avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere
fpe rimentato tutt'altro di ciò, cheAriſtotele nefcrive: Adun que perchè
credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere,
quando contro l'avviſo d'A: riftotele, Franceſco Pico della Mirandola, il
Campanella, il Gaſſendi, il Blancani, ed altri molti maggiore affai l'of
ſervarono? Anzi Io l'ho purriguardato, che non ſol mag giore, del mezzo cerchio
apparir foglia, ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto, e intero, dove il
Sol fia alto, e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco
celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole
aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia: anzi
le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da
Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe
pur più ſovente apparere, che non Polervòcolui in due fole volte per lo
lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem
po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo;
non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle, mentre la fua
donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava. Ma degli errori d'A
riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio, il Campanella,
ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e
convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata
bilancia in andar ſu le coſe leggiere, e giù le gravi? E la fciando per ora ad
Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men
che la gravezza me delima, qualità delle coſe: e come poi per ſua dappocag gine
lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente
della ſua fciocchilimatracotanza il non volere far pruova di ciò, che ſogna,
che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto, ch'un altra d'una
libra; potendo con durar poca fatica,ravviſare, che que due mobili, tutto che
tanto diſuguali di peſo, diſcendano però eguali in velocità. E chedirem noi
intorno aciò, che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe,
che poſte in acqua, o ſcendano giù, o galleggino? e come egli tratto dalla
ſuaſciocca maniera del filoſofare, vuol,che peropera della larghezza, o
ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi
aſſai dell'acqua medeſima, non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in
ciò con venir poſſano. Intorno alla qualcoſa così ſmentito, eri creduto ne fu
egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei, che nutta più ne ſarebbe il favellarne.
Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre. ſe il noſtro Ariſtotele
eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo,che di ſopra li ſieno?
Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color,che non veggon pur
l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati, e bambi ſi ſon
laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj, e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti,e
troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano,
ch'egli ſia infallibile verità: quum hoc, dice Giulio Ceſare dalla Scala, pro
comperto,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco
Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere, e di non ordinario avvedimento così
operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero, ritrovando alla
per fine il contrario, ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum, nec itineris
tantillum navis confi ceret, nullo Spirante vento experiri libuit, vafe
cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit, funi longiffimo alligato, quem
nautæ fcandalium vocant, et altero leviore funiculo operculo accommodato, ita
ut attractus illud aperire poſſet. Itaques manibus propriis utrumquefunem in
mare demifimus: vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum,
ſcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere, minorem funem traxi, operculum
referavi. Extraximus opertum mari ple. num, falfo, amaroque, baud
majorefalfedine, vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio
guftabamuscompa rando. Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza
il chiariſſimo Boile, il qual dice, che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi
han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella
diſopra; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata
nel fondo del mare pezzolinidiſale, e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le
vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel,
che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino; affermando
con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua
toſto che ſi riſtringano. Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol
balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame; la qual parimente
nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa
del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor
huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno
a’mari, i quali dice Ariſtotele eſſer molti, e molti, che non ſi congiungano inſieme,
trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe, p piccioliſſime
focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli, e follemente
giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei; e nel Parapamiffo l.2 lor
prima fő te avere il Battro, el Coaſpe, e l'Indo, e l’Araſle, cche da queſto
poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle, e
impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò
intendente, che'l Coal pe per la Perſia diſcorra, e di la dalla Perſia il
Battro allin Battriana Provincia dea nome, e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè
non è da credere, che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane,
e rimoſſe, in un modelimo luogo tutti, e da una medeſiına fonte ſorgano; c'l
Tanai ſa ben ciaſcuno, che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff
Ariſtotele, che nella Liguria un fiume grandiflimo; e non minor del Po
s'inghiotta tutto, e fi divori dalla terra, e quindi dinuovo poi rinaſcendo
diſcorra altrove. Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti,egli molto
ſcioc camente parlando dice, che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi
monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto, e condenſo,
e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne, e nelle picciole buche
della terra; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal
gravezza, la quale perrocce, e per burrati, eper lande, e pervalli faccendo
l'acqua diſcorrere, eca dere La fa inquieta, inftabile, e vagante. Nel qual
modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli, e
fonti, e poveri rivi, ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del
mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca, e da ridere, ben può comprenderlo
chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica. Eche direm
noi di quella così ſmiſu. sata, e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja,
ch'avanza inver quante novelle, Quante mai differ favole, ecarote Stando
alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice, che
fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate; che fatta ne la
ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo
Mazzoni, farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre
Italiane per linea perpendicolare; c quì non può non gridar eoli: papa in quos
aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici;
putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe
famam. La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare,
o tacciare il noſtro veritiero, e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte
Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico, cercando a biftento di menomar
cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue; qua
DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen, ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem
nimium exfuperat; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores
judicent, dice, num recte philofophus, cujus eſiree condita, &abditadocere,
excufetur,fedicatur eum popula. rem famamfequutum effe. Ma fe falla così
ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere, non meno errar ſuole
egli talora in rifiu. tar come mentite, e falſe quelle, che manifeftamente ſon
vere. Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle
contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo, in cui già
cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le
genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for
bituminofe, e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria,
egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato
peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve, (Benchefia gravepur,
qual ferro;of affo,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa
mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare, e ad affermare
a fuo talento tutto ciò, ch'e' vuole, fenza aver riguardo niuno alla verità. E
volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere, e negare contro l'avviſo di
molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che
direm Noi della Galaſſia, o vogliam dire cerchio di lat te, il quale fecondo
Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per
l'eſalazioni, che dal le baſſe valli, e dagli alci monti vi manda continuo la
cerra; errore così grande, che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero, e
apertamente ne'l ripigliarono; in torno alla qual coſa, ſon veramente degne da
notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2
quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo: il
Reo (dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell
attore; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la
Galaffia, ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone;
perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur, nifi
ftul si quidam:fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome
CeſareCremonini:mathematica,et rationis expertes;e Aver roe, il quale così a
capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele, che tranguggiar
volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi
ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire. Ma che direbbono
a’giorni noſtri il Cremonini, e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci, fe mercè del
Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce, ch’ammucchiare inſieme,
e riſtrette laſsù formano la Galaſſia, edi quà ne fembrano per la lor
picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza
conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito, allor che, come
Plu tarco, e Macrobio teſtimoniano,difſe eſfer la faſcia del latte non
altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non
vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza, non già perchè allumate non
fian dal ſole per lo tramezzamento della terra, come falſamyente ne vuol dar a
diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito, per avval lare il buon nome di
quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore. Ma chi non fa quanto egli
fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle
stelle comete, e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi; e già n'è prie troppo a
ciaſcun manifefta la verità, avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco (che
tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo
Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così
dimentito, e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno
all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo, intorno alla natura del ſole, e
dell'altre ſtelle? E che direm noi della favoloſa novella della sfera del
fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo
avendo Ariſtotele poſta ritonda, pure ſpagato, dice ne’ libri delle
meteore,ch'ella inverſo Settentrione, alquanto più rilevata, e alta filia. Nedi
ciò anche contento, ne’li bri medeſimi delle meteore, come ſe caduto gli foffe
della memoria, ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione
eſſer la terra, non già ritonda,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo,o di
cilindro, o dirottame di colom na: ftando ella, ſon ſue parole, non
altrimenti,che tamburo; perciocchètale è lafigura della terra: equantunque ſi
paja ch'eifavelli della terra abitabile, di queſta anche aveans favellato gli
antichi filoſofi, i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che
ſia di ciò, falfo pariméte ſi è, la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo;
ondeebbe a di re il Tallo, comechè peripatetico e' fi foffe: Tal che nonſembra
l'habitata terra Timpano più,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color,chefanno.
Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele,i que. li quafi in ogni carta
delle ſue opere s’incontrano, lun gofarebbe ora a dire; le quali così manifeſte,
e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono, chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle.
E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di
fcoprirgliele, tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne. Solamente non vo
lafciar di trarne a noſtro concio, cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar
volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo, che il luo maeſtro Platone,
e Socrate ſi aveſſer già fatto; e feco dochè più in concio gli rendevali
ſerviva delle opinioni al trui; e quelle, e queſte, or abbracciando, or
rifiutan do a ſuo talento, non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni
dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo. E certa mente lo direi co'l
dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora, che
dir ſi poſſono propia mente ſue, eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti
degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo
1 2 4. 4 capiti, e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere
manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de
multis, magnis infinitorum authorum; et operum vigiliis; recognita nufquam funt.
E piaceſſe pureal Cielo, ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati libri
di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe
creduta cotanta verità, E quinciſi pare, con quanta ragione detto aveſſe
l'iſtorico Timeo appo Suida, eſſer Ariſtotele ditardo, ed ottuſo in tendimero:
Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες,είναι αυτονευσχερή,θρα συν, πιοπιτή,αλ' ου
σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG, και στις
πασαν αυλήν, και σκηνήν έμπισηδηκόα. Timeo diſse contr’Ariftotele, efser lui impronto,
orgoglioſo, rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue
maladizionifi fe ftrada in tutte le corti, e per ogni ſcena pro verbiava; che
che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende
dice, in favellando di Timeo, falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro
epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture,
più balordo, e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco, ed Eliano
ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele;perciocchèegli ben
vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor, ch'e'vi logo
raffe,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più
minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto
ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele, e
malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo. E ritor: nando
ora a ciò, che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele
cerca talora di contraſtare, ed abbattere gli altrui veri ſentimenti:
maraviglioſo certa mente, e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli
dice del ragnolo: ed è,che avendo già detto in prima De mocrito, che le
ſottiliſſime fila, onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole
maraviglioſamente le fuc tele, egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo
fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere;levofli incótanente fuſo
Ariſtotele, e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe, che
Democrito in ciò manifeftamente fal lava, e che le fila forminſi dal ragnatelo
per tutte parti del ſuo corpo, a guiſa di corteccia, o di lanugine, chetut ta
gli vadano coprendo la buccia; o non altrimenti che s? avventino le penne
dell'Itrice: ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον, ευθύς γεννώμενον,
ουδ' έσωθεν, ως αν περιθωμα, καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον
φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges: cioè i ragnateli nati appena
mādan fuq ri le fila,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come
falfamente immagina Democrito, madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur
di quegli animali, che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì
non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine,e lentezza de’poco
curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto,confarne
pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do
daparte quello di Democrico;ilquale tutto il corſo del la ſua vita, che fu
affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato; e tanto più degni di biafimo
ſi rendono, quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno, e avvedimen to,
o fatica per venirne a capo: che ben ancora le feminel le delcontado, e
imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno, allor, che ne’lor piccioli
abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne
alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato
intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero, chi mai ſoſpettar avrebbe potuto,
eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco, e ardimentoſo nel ſuo lcrivere, che
manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in
prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova
co’propi occhj. la ſua ragio ne; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli
era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o
dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più
conoſciute belve; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia
veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud; filare;pchèvalſe
tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per
avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e
cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro
pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe
Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto: acceptomanu bacillo Araneum
quendam:dia ce il Blancani: ex iis, quicirculares telas, quas nonnulli, et quidem
aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt,fic adii, ut
Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet; dum ipſe interim
curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras ederet: cum
ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo demiſit, ita tamen
ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret: cum primum obferuo ipſum inverſum,
hoc eſt capice deorſum, ventre ſurſum pendere; ut autem acutius cerne rem eum
opacecuidam rei oppofui, ne pre nimia luce tenuiffi mum aranei filum aciem
oculorum effugeret; quo facto cla riſfimè videbam filum ſeceſſu Aranei prodire.
Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente ravviſato il ſa gaciſſimo
Plinio; mane a Plinio, ne al Blancani volle pre ítar credenza il Vosſio padre:
così poco acconcio egli eb be l'intendimento a diviſar delle cole della natura.
Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non tralaſcerò di conſi derare quanto
dietro al partorire di quegli il noſtro Ariſto tele vanamente anco s'aggiri,
dicendo partorire i ragnoli cotali vermicelli vivi, e non già le uova, come
alcuni im maginano; ma quanto ciò ſia dalvero lontano, dicalo in miz vece il
diligentisſimo Redi; il quale narra, che per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe,
non avea mai veder po tuto ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi
nalce. re i piccioli ragnolini; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo
d'Ariſtotele intorno al Canclo in dicendo efferli ingannati coloro, tra'quali
fu Erodoto, che diceano il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur
chiaramente ſcor geli, il Camelo, comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le
cotāto intorno a coinunali e ben conoſciuti aniinali ſcioc chinen camente
Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre
contrade, e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane, e incredibili
novelle, e più affai, che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da
Cero taldo? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune
nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole,
cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili, e poche quelle ſiano, che
par,che af fatto eglinon ne aveſſe; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil
fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia, non pure per Ateneo, che forte ne
’ ripiglia, ne ſi fa chiaro;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato
dal chiarif fimo Borricchio; il quale aperti due gran lioni in Afnias, reggia
di Danimarca,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di
midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un
Lione del Signor D.Tiberio Carrafa, Principe di Biſignano: il quale fu tro vato
parimente pieno di midolle; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano
accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo
Stazio,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe
famem, sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran
Lodovico Arioſto, quando fa egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma
d'Atlante, all'effeminato Ruggicri così dica: Dimidolle già d'Orſi, e di Lioni
Ti porſi.io dunque li primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i
Lioni; il che an che credendo ad Ariſtotele il Mazzoni, ricorre per difen der
l'Arioſto, giuſta il ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a
ſottigliezze così vane, e puerili, ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle
altrove ſofiſtiche, e cavillo fe: Ma non meno ſciocco è quell'altro crror
d'Ariſtotele, diccndo egli aver i Lioni così dure, e falde l'offa, che fre
gandoſi inſieme, agevolmente ſe ne tragga il fuoco; non altri oli 12 ull Do le
Gggg 602 Ragionamento Ottavo altrimenti, che avvenir loglia nella pictra focaja.
Ma ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia, i
quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro, non però di meno per
diligenza, chevi fi adoperaffe, non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla
di fuoco;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero,non ne dovea però cavare Aria ftotele
per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa; concioſliecofachè anco
in fregandoſi due tron molto dure, e pieghevoli canne d'India, o due molliflimc
ferole, o altri simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian
talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono
accender in niuna maniera il fuoco. Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla
del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte, e partite, ficome
tutt'altri animali le hanno, e poi per opera de’nodi con giunte; ma tutte
intere, e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte, che in niun modo ſi poffan
piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed
apertame. te lo convinſe di bugiardo, il Borricchio; dicendo, per ve duta fermamente
di que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, et articulis pulcherrimè diſtincta
erant. Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio, e
ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi, dice egli, che i cani fiutar fogliono
gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al
pedal dell'al bero, quando e' vuole ſtallare; c più appreffo ſoggiugne: e
lafcia il Lionegrave, e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi, ch'egli
divorar ſuole; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato, che il
Lione fpira; percioc che, come e narra, le interiora oltremodo putono al Lio ne.
Coſa, la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione
aperto, o teſtè occiſo,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle
d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che:
Ariſtotele fognò del Camclo; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo;non
avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella
eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia
formata da'peli; c ciò, che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte
ſangue, ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l
principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti
dietro al Coccodrillo alle Aqui le, e ad altri molti animali, che
manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono;e tuttavia
da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas
ventura del noſtro ſecolo; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli
affennati, e diligenti ſcrittori, i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli
intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono; ed
Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio
Cicerone, incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della
natura degli animali; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e
ſcimunito, ben è da credere, che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že
n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per
Ariſtotcle: c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali
animalida lui ben conoſciu ti; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche.
Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a
dire; con qual cura, ö diligenza, potè mai egligiugnere a fapere, che coſa fi
facciano i peſci nel ma re, come dormano, e qual ſia il lor vitto,o qual Proteo,
o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua. gliargliene. Come
gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche; ove mai
potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio; e dopo aver narrato queſte, e
cent'altre novelluzze da ridere, e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori,
dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali, riſtucco alla per fine di
più annoverarne, trala fcio 1o, dic'egli, di narrar molte coſe,e multe,nelle
quali ma nifeftamente lo fpeziale, cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente
delirato. Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali, Io porto fermislima
opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni, e che buccinavaſigià (ficome
riferiſce Gggg 2 Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè, ch'egli avuto aveſſe
Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro, per po refla più
acconciamente fornire ottocento talenti, che ſo condo la ragion del dottisſimo
Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e
che per una sì glorioſa, e mirabil opera gli foſſer deſtinati, co me narra
Plinio:aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere
juffa,omnium,quos venatus,piſcatuſque slebant,quibufque vivaria, armenta,
piſcine, aviaria in cura erant, ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea
quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto
parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto;
imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an
tichità, dice, che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro, ma da Filippo ad
Ariſtotele foſſe ſtata donata. Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare;
conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre, ch'e' fece in Grecia, e
perle grandi impreſe, ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia
Perſiana, gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e
ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj, in uccellami, in cacciagioni, o
ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi,priina d'incominciar la guerra contro Dario,
ad altro certamente dovette badar, ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri; fcozachè
non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta; manel tempo
della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli
ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele, che
per fargli onta, e diſpetto,mnādò Am baſciadori, e doni a Senocrate ſucceſſor
di Platone, e fie ro emulo d'Ariftotele. E dirò ancora, che ſe mai Ariſto tele
ebbe parte ne’teſorid Aleffudro, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico,
che in acquiſtar notizia, e contez za delle coſe della natura. Neglimancò agio
da farlozim perocchè egli era, come ne da teſtimonianza Tineo:760578
γαςείμαργον, έψαρτυτήν, επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito, e
divorator delle più ghiotte vivande, ne fi ritene va di gos va difvögliarſi di
qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore, per cuii giovani
male il loro avere ſpé, dendo, le più fiate miſeramente ne capitano; e tinto
s'in veſchiò nella pania, che per amor venne in furore, e matto; e come narra
Laerzio,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia, che a leicosì
immolò, come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi; e per tali
cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo,
gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni: poi tolſe a fare il foldato,ove ne
meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche
per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi
avea depoſto le ſozzure tutte del corpo; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di
dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità, con cui
difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio. Io adunque mi fo a cres dere,
ch'egli non nai vedefle notomie di morti, non ches di vivi animali; e che
folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò, che ne’libri degli antichi
fconciaméte forſe appre lo n'aveva, o immaginato. Perchèpoi così alla rimpazza
ta confonde, é meſcola il tutto, ragionando de' nervi, es delle vene, cheben'a
lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis
appingit,fluctibus apram. Così cgli follemente immagina naſcer i nervi,e le
venej tutte dalcuore; il qual dice ſolamente eſſer quello, onde il ſenſo, ei
movimenti negli animali fi facciano; ne ad al tro fervire il cervello, fuor
folamente, che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore. E
ſomiglianti altre balordaggini, e fcipitezze narra: anzi maggiori affaiz in
ſomma intorno alla fabbrica, diſpoſizione, ed ufici del le parti del corpo
umano tanti,e tanti falli commiſe,che ben potè dir Ateneo: coſe tali ſcriffe
Ariftotele, parlando della ſtoria degli animali, 'che come dice il Comico,
daglá ufcempiati,e pecoroni quaſi a fravaganza,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben
fi parc, che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente, anzi che
no, allor che diſſe po + 1 CO Ariſtotele conotcerti di notomia. E ben’a
noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva,
Ariſtotele intorno agli animali compoſe, ſolamen te que’pochi ſe ne leggono,
che il tempone laſciò; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi
favorevoli avrebbono; fi enim,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata
numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent, effent fortaſſis
innumerabilia. E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del
divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe, del tanto aju
to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte
notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare? Ma ſenza venir
tinto buccinato, fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò
Democrito, no dirò Eraſiſtrato,non dirò Erofilo,non dirò altri antichi, ma un
folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli, sì
chemeritevolmente, e ne ſtupiſce l'aman ſa pere, e l'amira il preſente ſecolo,
el celebrerà il futuro, Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura,
cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale? Eglicosì ſciocco, e gocciolonc
fu Ariſtotele, che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi
medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono. E per nulla dir de'
Greci; o d' Avicenna, d’Algazele, e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon
peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato,che talor da lui apertamente non
fi partiſſe? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto, lume della Criſtiana ſapienza,
e della venerabile Ordine de'Domenicani, avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate,
niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti
alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam,
fed juxta pofitiones peripateticorum; et ideo illos laudet, velre prehendat,
non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto
Pereira della Compagnia di Giesù, il quale in quel ſuo libro de rerum
naturaliums, principiis, dopoaver largamente conſiderati i poco fermi
argomenti, c fillogiſmi, con cui le coſe dubbic, e incertes. fievolinente egli
tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium, quam
nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles, fi quis velitbeneſentire, propriè loqui,
nous poteft dici abfolutè,din totum ſcientia; perciocchè riguar dando alle
fondamenta di quella, e ravviſandole,che falſe, e che dubbie, e malamente con
falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele
teſtimonia, dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche: ragionevolmente poi e':
ne tragge, e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa
pars, pars autem topica tantum probabilia.. contineat, non poteft dici
abfolutè, et in totum fcientia. Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa,
quanto inu tile, quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la
filofofia d'Ariſtotele, conviene innanzi tratto da più alto principio imprender
la cola. Dico adunque, che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che
agognavano alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire; una, ches
quantunque falli, è nondimeno agevole, e piana, echiun que per quella prende il
camino, non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe
naturali, ma sē. preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini, e de'
vocaboli, quali a ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta
fatica adattar ſi poſſono; e comechèſembri, che tutto dicano, che tutto
ſpianino:impertanto, altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime
ciance,fra le qua li non altrimenti che ſi faceffero un tempo, ſe'l ver dice l'
Arioſto, que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute
aggirar tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir
a capo d'alcuna ve rità; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e
ardua, altrettanto nel vero è più nobile, e più gloriofa. Queſtas calcar
generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc, ei ſavj
interpetridella natura; i quali diſcorrendo regolatamente, ed offervando con
diligenza, guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin
ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto
ſenticro, ed a tenere la falfa ſtrada;o che ſe'l faceſſero perdebolezza
d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di farſi capi più tolto
in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri nella vera, c legit
tima maniera di filoſofare. E fu tanta certamente loro ſchiera, e sì copioſa,
che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono filoſofare; di cui potrebbe
ben dirdi Pochi fon, perchè rara è vera gloria: i quali per quelche già da
quelle ſcarle memorie, che noi rabbiamo comprender fi poffa, furono
Anafſagora,Empe docle, Leucippo, cd altri pochi, Che colle dita annoverar fi
ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico: Rari philofophi:
numerus vix efttotidem,quod Thebarum porta, vel divitis oftia Nili. Ma ſopra
tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo vaftiliſimo ingegno
(ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem inter experimenta
con fumpfit; e con principj veramente naturali, cioè a dir ſenli bili,così
maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura appartener fi poffe,
che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto antiquorum omnium fubtilif
fimum,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a chiamar l'ebbe lingua della
natura; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e diffidandoſi di poterlo col
ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia, e per invidia volle rabbioſamente
dareallo fiamme tutte le divine opere di lui; poſe in non calere co tal vero, e
lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della natura, e con univerſali, c
apparenti ragioni avvilup pò il cutto. La qual maniera difiloſofare,
concioffiecofa chè agevol foffe, fu poi ſeguita,e abbracciata da ciaſcuno,
rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia; ſe non ſe dopo la morte
d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo avvedutiſſimo ingegno
ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia, e la fece di nuovo fiorir ne' ſuoi
doctiſſimi orti, ove rinaſcendo viffe, e morio. Perchè non ebbe il torto per
avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di quei tempi un
vano berlingare, e cinguettar di vegliardi ozioſi, e ſcioperati, a ' giovani
ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire, che gli antichi aveſſero
nelle coſe filoſofato,ei moderni ſolamente in pa role. Qualdunquefia maraviglia,
ſe così mal concia, malmenata la filoſofia, non potea vantaggiarli nella Grecia.
Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci
eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ', gépur di enlew
oux iso, certè ha bent, dice Franceſco Baccone, id quod puerorum eft, ut ad
garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta, e ſpenta la
buona filoſofia, poco a capi tal tenendoſi i libri diquella, nc punto per huom
riſerban doſi, o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo con
comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono; rimanendo ſolamente
que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto, e corrotto ſecolo erano in
pregio; ne? quali poteſe ben paſcerfi,e nutricar l'ambizioſa vanità de Greci.
Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari
nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri,
che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco
Bacconc, doctrina humana velut naufragium per. pefa eft; et philofophia
Ariftotelis, o Platonis tanquam, tabula ex materia leviori, minus ſolida per
fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come,
dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come
altra volta fu detto alle noſtre contrade; e queſta è quella filoſofia,che
infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita, e tuttavia nelle
Icuole comunemente s'inſegna: e a cui dicevam, che già poneſſe le prime
fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero, e diritto modo
difiloſofare: percioc chè difficil molto, e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo,
lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di
meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare; comeagevolmente egli
ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi, e malimamente in quello, ch'egli intitola
il Ti Hhhh.. meo, o della natura. Perchè ben ſi pare, ch'egli ſaggia mente
foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero, per cui già
Democrito, e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia
avviatiſi erano;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente
l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν,
fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς
πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης, αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα
και η άλων και των τοιούτων, ουδεν·έτι, ουδε. περι αλοιώσεως, ουδε περί
αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί
ουδενός ουδείς επίσησεν, έξω Δημα reíte;cioè Platone cöfiderò la fula generazione
e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli elemêtifolamēte; trabaſcia
doariguardare, come formifla carne, el'offa, e gli altrifo miglianti corpi; ne
demutamenti, o come s'accreſcano,o pig giorino cotai corpi feceparola alcuna.
Finalmëte nonfu niuno, fe non ſe alla rimpazzata,e lentaměte, che ragionaſſe
mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora.Ecomechè que Ito riprédiméto
fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un
manifeſto, e falfſſimo appo ſtamento, e maladizione dell'invidia dilui; pur non
ha tut to il corto Ariſtotele in così fattamente ragionare; imper ciocchè
quantūque Platone in molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato
aveſſe della generazion delle pictre, de'venti, delle gragnuole, de’nuvoli,del
criſtallo, della neve, della rugiada,delvino, dell'olio, e d'altri fi ghi: e
ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe, e
detto altresì de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle; e quantunque anche
ſpezial mé. zione aveſſe fatta della carne, e dell’oſsa, ecome quelles
s'ingenerino; pur no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato
aveſse diſtintamente, come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar
cotante coſe; perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero,
che ſi conveniva; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente. E
queſto è quel, che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal
Patrizio nella difeſa del ſuo Platone. Ma fu egli anche Platone traſcu rato a
ſpiegar comeſi doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi, pereffer
valevoli a produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori, e i ſapori, e
i colori delle coſe; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele, niun maeſtro
in filoſofia, fuor ſolamente Democrito, aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi
fondi i principj delle coſe. E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime
paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε
γίώ διατρήσας καθαρgν, και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ, και μετα τούτη
άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις
τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev
dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra
pura, é netta,meſcolalla, e inu midilla colle midolla;quindila poſe nel
fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e
cosìriponendola molte frate or nel fuoco, or nell'acqua, sì, e tanto fece, che
dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi. Or chi domine,
non direbbe con Ariſtotele, eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole
parole, ſenza veder più in là, che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la
terra, come vuol Platone, era pura, e ſchietta, non era, meſtier certamente di
sbriciarla; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata, così
ammaſſati, e riſtretti ſta vano, che ſegnale alcun di partiinento non avevano,
già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi; e ſeguen temcntc non era
dadir terra quella, ma una cotal maſſa, che tritata, e minuzzata così ſe ne
poteva formar terra, come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo,
ſecondo le particelle,in cui partir ſi poteva. Perchè me ftier certamente non
era d'accattare altronde fuoco, o ac qua per lavorar quaſi in fucina,
temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva. E ſe i cubi eran
partiti, e affacciati nella lor debita figura, che coſa mai potea cosi divili,
e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega; non
altra diſcorrente ſoſtanza, e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo
Jarmente figurata; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole
verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo. do; ne la terra pura farebbe, e da
niun'altra coſa non tra meſtata. O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto
tener diviſi? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda
ſceverato oltre molte altre inconvenienze, n'occor re queſta, che non già un
corpo ſaldo, ficomeè la terra: main diſcorrente verrebbero a comporre. E
lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo
Placone intorno alla generazion. della carne, e de' nervi;ch'egli narra nel
medeſimo Dialo go del Timeo; il qualccrtamente non è altro, che una va ga, e
ben compoſta diceria; che con vane parole allettan do i ſemplici, e poco
intendenti delle coſe naturali, fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante
Al vulgo ignaro, et a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele in
dir,che il ſuo mae ftro non trapalli più, che la prima buccia delle coſe in
filo fofando, e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della
natura. Di più, dice Ariftotele, e libera mente confeffa, che ſciogliere i
corpi fino alla lor ſuperfi cie, come fa Placone, ſia coſa affatto ſconvenevole;
per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità, altra cofa, ſe non
folamente corpi faldi; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto
dopo ſoggiugne: Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e
convenevol ragione la natura delle coſe. E comechè in parte ingannaſſefi
Ariſtotele in ciò dicendo; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo, come talora il
caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie: non però di meno ha egli per
al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun '
ch’abbia ſenno, ſoverchio alfai, e ſconvene vole quello ſcioglimento de
corpiinfino alla ſuperficie. E noi, le il tempo ce'l concedeffe, ne
ragioneremmo per av, ventura più alfai, e forſe altrove ne diremo; ma non è al
preſente da traſandar, che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente
ſtricolarli, e minuzzarſi in altre fi gure, come ſi pare,ch'egli in qualche
fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia; vano certamente, e foverchio è a dire,
che que'cotali corpicciuoli colle lor figure, e facce dean cominciamento alle
coſe tutte del mondo; e non più tolto un ſolo corpo, il qual poi in molti
corpicciuoli di moka te, e varie figure partito foſſe. Ma fe pur vogliams
contendere, che ne ftritolar, ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano,
lo.non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante, e tante diverſe coſe,
che noi ci veggiamo, baſtanti pur ſiano. Ne meno fo lo certa mente comprendere,
come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche
avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe,
portando opinione, che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio;
nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi
interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani, e
prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra
Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi
l'avvedutisſimo Platone, riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non
ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā. taggio ne'maraviglioſi ſegreti della
natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo
i più ſicuri lidi, non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del
filoſofare, e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle
coſe. Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli, non volendo ne ans che
affermare alcuna, comechè leggeriffima cofa, feces quaſi in iſcena comparir
perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto, delle coſe
del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m
ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia. Ma lo ſcal trito, e fagace
Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo, e con tutto lo ſtudio del
ſuo ingegno riyol gendoſi, cercò artificioſamente la coſa naſcondere: e tanto
operò, che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo
mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi
dimoſtrerò. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel
quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare: e ad eſemplo degli
antichi, or di Teologia, or di ſapienza, or diprima filoſofia altiera mente
chiamollo; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo
della Metafiſica cambiati. Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire;ma chi
pur n'è vago di qualche contezza, vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio, e
Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà,e di ligenza eſaminandolo, trovollo
alla fine non eſſer altro, che la medeſima loica d'Ariſtotele, con diverſe
parole, e nuovo ordine travolta: e una ſconcia, emalcompoſta me ſcolanza, e
guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da
Damaſco, il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto, o d'Ariſtotele
medeſimo fureputato, comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele, c Peripatetico
ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe; e
de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco. Ma che che di ciò ſia, immagi nò
Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere, ch'egli aveſſe
diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte, per non doverle poi
meſcolar colle fi fiche, come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda
lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi
peripatetici confeſſano. Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua
ſcalterita avvedutezza; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle
coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non
s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente, e ideale, ne
ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto
modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai, e ingegnoſoallas
ſembraglia de'giovani; i quali s'avviſavano concotali va ni, e folli
diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto, quando per avventura non
ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva, maravigliando ſommamente
di cotanti termini ſtratti, e fantaſtichi, comes nuovi, e non ancor comprehi
dagli ſcolari di baſſo inten dimento, e da dover richieder più profonda, e
ſottil dot trina, checoloro non aveano; Semper enimſtolidi magis admirantur,
amantq; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci
veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler
ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche
menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non
iſpiegando mai nulla di vero,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe,
di cui egli fa vella; ne come di nuovo naſcano, o yengan meno, ne co me
patiſcano, o operino nel mondo. Al che riguardando infra gli altri Plutarco,
comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto;
l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero
di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito
átepofto avea. Ne in ciò cota to teneri,.e parzionali d'Ariſtotele i moderni
filoſofanti fono, che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià
cari ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri
quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore, il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè
peripatetico di gran rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le
me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus (dice ) maximè pollebat ingenio
metaphyfico, edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones:
ubi adres phyſicas de venitur, quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii
vires nonacuit; ed in un altro luogo: Ariſtoteles magismetaphy ficis
obſervationibus affuetus, quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude:
fed fenties in rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ
attingere. Enelvero chi ſarà maicolui, che riſtucco forte, e faſtie dito delle
ſue vane dicerie no'l biaſimi, e rimproveri, rin venendo in lui più, e maggiori
tacce affai', che non vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad
imitazio ne d'O 616 Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è
l'autore di quel libro,che gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a
fabbri. car la grandiſſima maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta
metafiſica, e apparente, prele per principi delle coſe sé. fibili, e vere,
terminitutticonfuli, e generali, e da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che
forteegli è da accagionare; mallimamente, ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata,
do ver delle coſe ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj; e ciò cotanto
egli giudicò vero, che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti.
Egli ſono i principi, onde Ariſtocele vuole, che forma te le coſe tutte
ſenſibili ſi foſſero, così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente
ricoverare curci que'fiſici principi, che varic, e diverſe ſchiere
de'filoſofanti,così an tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono. E ciò
ben ne diedea conoſcere il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del
noſtro ſecolo, allor che con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati;
e provani peripa terici, fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale. Il qual arti
ficio dopo il Digbi, molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono. Ma laſciando
ciò al preſente ſtare, non iſpie gando mai Ariſtotele ciò, che in fiſica ſia
quello, a cuive ramente poſſa adattarſi quella generale, e confuſa ſua difi
zione della materia, e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene. E
nel vero, chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto
teatro del mondo ap pariſce, e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale,
po tendo eſservi? ed ecco la gran maraviglia, naſcoſa in prima a tutt'altri
antichi filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza,
chiamandola privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione,
e non principio delle coſe. Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli
principi delle coſe, cioè a dir materia, e forma, ſopra le quali fondamenta
egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando? Poveri filoſofanti
antichi; voi per iftudio, e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli;
Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel tenza, overo in potenza a divenir tali coſe, e
la forma alla per fineeſſer un cotal-atto, che dandoalla materia perfe zione,
la mandi avanti, e la faccia eſfer propiamente tale. E queſto è quel, che con
tanti riboboli, e aggiramenti, e lunghe dicerie eglide’principj delle coſe
ragiona. Ma per Dio, ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della mate
ria, cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta, o quell'altra coſa.,
come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma, e ciò che abbia afarſi,
acciocchè la materia imprender poffa o queſta, o quell'altra diterminata coro
per informarſi? e ſe queſte pur non ſi fanno, comepotrā. mai ſaperſi le qualità,
l'opere, e le paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni
ſortiſcano? Se a giovane, il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli,dopo
molte, e molte vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro: attendi figlio, e
nota ben tutte mie parole, ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il
maraviglioſo modo da compor gli oriuoli: egli primieramente convienu ſapere.,
che l'oriuolo fabbricaſ d'una cotal coſa, che non è mica già oriuolo; perchè ſe
oriuolo ella già foſse, non potrebbe divenir oriuolo;ma agevolmente ella può
venir oriuolo per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente,che
udédo cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato, Goaffe
direbbe, maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io,era qual coſa è
quel 12 cotal materia, che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir
tale; e quali ſono quelle coſe, per le qua lidivien tale; ma non ritraendone
alla fin riſpoſta, fe pri mieramente di faſso, o di legno,o di ferro,od'altro
l'oriuol fi debba comporre; e poi con quai mezzi, e lavorj ſi fac ciz,
ſchernito, ed ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura. Or così appunto
ſcherniſce, e beffil Ariſtotcle. i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari,
e più famoſi ſcolari d'Aristotele, ponendo in non cale l'autorità del maeſtro,
çome in altre coſe già fatto aveva, diſse la materia delle natura li coſe eſser
vero, c propiamente corpo; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da
quel famoſo, e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro
ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe, pur
non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe,
reſtò di farſi più avanti, e l'impreſa in ſu'l buono abbadono. Nemenopotè ſeguirſi
il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna; il qual diſſe doverſi aſſegnare
alla materia, comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non
potendoſi a niun partito ſcufare ciò, che dice Ariſtotele intorno alla materia
', ne men riparando in par te gli errori di lui, con iſtorcere, e piegar le fue
parole in altri, e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima, e'l
proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do: ſe la materia
d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è, ne: che, ne qualc, ne quanto, ſarà
certamente ella, come S.. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta: cioè a
dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele, che in sì fatta
maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di
natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili; e
pone egli i quattro volgari elemen ti, come ſecondi principj decorpidiquaggiù;
ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de
fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (come avea fatto in
prima Empedoclc, Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi
corpicciuoli) natu ralmente procedendo, la vera eſſenza diquelli; perchè gli va
diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità; maegli poi, come a natural
filoſofo conveniva fare, le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar
briga ſi vuole d'in veſtigarle; ed appenadeſcrive, rozzamente narrando al
cunipochi loro effetti aperti, e manifeſtiad ognuno; ed'in quegli anche talora
sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più; ficomeallor, che francamente
egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie
no; e pur dovea egli avviſare, che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento
all' acqua, chenon le facea calare a fondo, ſepara quelle coſe, che non
convengono nella gravità, e.che di diverſo genere ſono. Così parimente erra
Ariſtotele allor chedice, il caldo fceverar le coſe, che di diverſo genere
ſono,, da quelle, che convengono inſieme nel genere medeſiino; imperocchè
uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre,
cut te le coſe,, che ſiano di qualunque genere, comechè talo ra (il che
ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do, non vieri, che le coſe più
gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi. Manon meno fallar {i vede
Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido,
definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del
genere; dicendo: ma l'umido è quello, che dileggieri ricevendol'altrui termini,
non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè, tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or.
E no ha dubbio, che una coral definizione non avvegua al di fcorrente, di
cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica, ſe non
ſe quel.corpo, il quale diſcor re, s'inſinua, e penetra agevolmente, compreſo
cede's e non fa reſiſtenza; perchè non eſſendo da ſe terminato prende
dileggieril'altrui termine. Ma l'umido, oltre a queſto s'avviticchia in sì
fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile; laonde altro.nonè, ſe non
che una ſpecie di diſcorrente. E fe l'umido pure è tale, quale il ci.deſcrive
Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec,.co.il fuoco.con
Ariſtotele, maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio, ed Antonio Perſio
converrebbe chia marſi. Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo
Zabarella, l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco, no già per ſe, eſſendo
il fuoco ſecco per fe, ma per accidente: cioè ricevere agevolméte il fuoco il
termine altrui,non già per la ſiccità: non convenendo il ciò fare a tutti i
corpi fece chi: ma per la tenuità delle parti di quello; anzi contra ſtando la
ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe, avvien, ch'egli non
riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono, il termine altrui. Ma
ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò, che dice il Zabarella, adattandoſi
aſſai più dell'acqua, cdell'aere il Iiii fuoco a quel termine, che da altri
corpi preſcritto'gli vie ne: oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il
fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano
cfler aſſai più dell'acqua, e fominaméte umida l'aria, perchè ſe la ſomma
umidità conviene al fuoco, egli non aurà certamente parte niuna in quello la
ſiccità; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel
vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del
ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo, il ſecco eſſer quello, che
ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo, c malagevolmente prende l'altrui termine:
Engordà, no evóerson pèr cireiw opw, duodessor dè, egli non può con venire in
modo veruno al fuoco. Or come adunque il Za barella oſa affermare, che'l fuoco
fia per ſe ſecco? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue, ſarà anche per fe
umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele,è ſpecie dell'u mido,
e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue, ma nella tenuità l'aria, non che gli
altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la
dottrina d'Ariſtotele, per fe,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il
fuoco. Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella, e da Ar cangeloMercenario, che
volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde, e come potraſli giugnere mai
a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti? ma ond'è, che il folc, per
tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo,
comechè produca calore? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele
medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità; come nel ghiaccio, ne'metalli,
einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo, o pure i
più di eſſi,fi poſſono fondere in vetro, chi ardirà di dire, che'l fuoco non
ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe, o la maggior
parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro, non di rebbe ciaſcheduno,
che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro? oltre a ciò allora
quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina, vien dal fuoco cambiata in aria,
certamente quella maggior umidi à, per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo
di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco. Ma forſe ſarà ſecco il
fuoco, perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi
ſente da noi ſecco? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha
tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi
nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re; ma eſſendo
propio del calore, comc Ariſtotele dice, il rarificare, certamente da ciò umido
più coſto, che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri, Ariſtotele non
l'umido, ma il diſcorrente aver definito; e che fi legge umido nelle fue opere,
per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi
libri; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata
definizione, che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére,
or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel, che tra corpi diſcorrenti tien vigore
do umidire, e chehumidum, vien detto da’latini. Eglino non bene intendendo i
ſentimenti d'Ariſtotele, immaginaro no aver fui l'umido definito;perchè
foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza, e di co
traddizione; perchè d' talora dica,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora
affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida
dell'acqua. Ma quanto poco, anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò, che
fingono coſtoro, chiarainente ſi conofce; imperocchè Ariſtotele in coſa
appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli
ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua, il che appena
mi ſi laſcia credere, che aveſſe potuto avvenire, eſſendo ella così ric ca, e
copiofa divoci, non gli avrebbon mancati modi, e vie di chiaramente fpiegare
ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe
rocchè, per tacer d'altro, dice egli una volta, che la tera ra ſi trovi in
tutti i miſti, perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel
luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a
terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi, che
terminare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι
μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το
σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole
chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote. le definir voluto l'umido, o pure
il diſcorrente; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote, e non comunea
verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte
contro quel,ch'altre volte detto egli avea, viene a determinare l'acqua ſola,
eſcludendone l'aria, eller o umida, o diſcorrente, M,a nella ragione, che
Ariftotele di ciò indi a poco rapporta, ſi vale ſenzafallo della parola vypov a
denotar l'umido; e dice eſſer quello, il quale ha, forza dicontenere,
riſtrignere, e coaglutinare la terra,la quale ſenza l'acqua verrebbe a
diſſiparl.; perchè eſſer:cgli.conchiude, l'acqua parimente neceſſaria alla
compoſizio. ne de'miſti, con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη
δύναθα συμμένειν. άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το
υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la
definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare,
che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta;
ma di ciò ad altri laſciando il diviſare, es Jaſciando ad altri eziádio la
briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli
rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura
di ciò ch'egli dice freddo, e umido: caldo, e ſecco: e così poi far anco di
que', che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che
fa parole del tenue, in dicendo, che il tenue compoſto fia di picciolo
parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε.
pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa, che
detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue; il che dovea
certamente c'fare, anche dell'altre qualità. Ma vediamo ora come Ariſtotcle a
ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento, in cui non ha dub bio,
che conllte cutta la nzural filoſofia. Primieramente cyli cgligiúdica eſfer
ilmovimento un cotal genere,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento,
la diminuzione, la generazione, e’Imovimento, che chiaman locale. In di
diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica,
in cotal guila: rov Suv áués.Övr. ÉVTE. dexaci, ģTovorov, cioè endelechia di
quella coſa, la quale è inpotenza, in quanto ella è tale; ed altrove: aivos,
évtené.. geta toī XIVSTOU, xuvytor, cioè, il movimento egli ſi è endelechia
della coſa, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta
potenza. Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato, e uccellato da:
Ariſtotele?maſſimamente, che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione
più mani feſta, e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè
diceGiovanniMagiro, famoſo peripatetico, eſſere cotal definizione biafimevole',
e vizioſa: atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit. Ma.
Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa, e quaſi divina;
ſpiegandoli, emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la
natura del movimen to. MaCicerone, e Porfirio affermano ', effer quella voce
ŁYTENÉXAtjun vago, e artificioſo ritrovato d'Ariſforele, per uccellar le genti;
e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele, non ſolamente per
ifpiegare il moviinento, ma l'anima ancora, e quella ſua nuova mtura: anzi
ilmedeſimoIddio (coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee'
ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo: Entelechiæ fue
Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele
così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia; e reſti a
quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore, inveſti to in dore il
rcametutto della filoſofia; e che più? 'perdonili anche a lui ', che contro le
regole della dialettica con voci equivocoſe, e oſcure le definizioni formar fi
poſſano:'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto,non
già per perfezione acquiſtata, e compita, mache tuttavia fi vadi acquiſtando,
comepar che e' voglia: o per me”di re, per la ſtrada p la quale la perfezione
s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne;
perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa, comechè
imperfetto; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto, cioè a dir
alla forma, in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to
può ella effettualmente imprenderla. Or dove eglino ſono, dove conſiſtono
quelle tante, e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum
tanto feretbic promiffor hiatu? Parturient montes, naſcetur ridiculus mus.
Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa, l'eſemplo dei rame, il
quale comechè poffa divenire ſtatua, nondiincno quel movimento, col quale egli
poi vienead acquiſtar la perfezione, e la forma di {tatua, non appartic ne
punto al rame, in quanto, ch'egli è rame, ina folame te in quanto egli può
divenire, o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το
χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει et αυτον ω απλώς, και κατα τον λόγον,
ω αν και του χαλκού, και ganzes, ÉV TERÉNHO, xívyos, Mache montano alla
filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole, echiè per Dio, cheno ravviſi,e
non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco, la
ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi
ciò mai ardà a negare? Ma dell'atto, e della potenza, non ſolamente ſervir ſi
voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento; anzi in
molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che
ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire: Magnos mehercule
Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe, actus potentiave diſtinctioni gratias
debet;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat; il che
parimente venne avviſato da Antonio Perfio. E nel vero Ariſtotele ſpelle volte
ſi ſerve dell'atto, e della potenza per rattoppare, e rabberciar le ſue
Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma
lagevoli,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente
definir mai voleſs Ariſtotele quel movimento, che chiaman locale, certamente
egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu
gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale. La qual coſa:
ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire; comeeper raffermar la ſua
ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione, così
definendola: l'alterazione, è atto di quella coſa, la quale ſi può alterare, in
quanto ch'ella alterar fi puote: αλλοίωσης μεν γαρ, και του αυλοιωτού ή
αλοιωτών, εντελέχω. Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo
vimento del luogo la definizione: egli è il movimento del luogo, endelechia,
cioè atto della coſa, che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può
localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura
del movimento locale, dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele, che in
trattando del moto locale, a valer non ſe n'ebe be. Matacer non fi dee
certamente quì, che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa,
genere anche delle ſpecie di quella, perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le
ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo,
così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta,fed abfoluta exprimitur;
&ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet
motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni
d'Ariſtotele, rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives; il
quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo, impertanto ebbe a dire: Ari
Stoteles eſt in definiendo vafer, occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in
ejus philofophia incerta, da perplexa, parum etiam vera; dum magis curat quem
in modum reprehenfionem ex cludat, quàm ut afserat verum. E perciò funneanche
da Attico, eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato. Ma tanto e tanto Ariſtotele
dell'oſcurezzaſi compiacque, e così ſo vente in iſcrivendo uſolla, ch’ebbe a
dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi: Summa laus Ariſtotelis ob
fcuritas fuit. E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele, dicendo
Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza,
lo ſtudio, non per altro, ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere
dagliſtudi della filoſofia, e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo, e
baſſo intendimento; il che ſi pare, che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in
quel la lettera, fe pur fu ſua, e non da' ſuoi ſeguaci finta, ch'e gli ſcritta
l'aveſſe ad Aleſſandro, che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata
s'ngoja nixovs libros, quos edi tos quereris, non perinde, ut arcana
abfcondiros,neque editos ſcito effe, neque non editos; quoniam iis ſolis, qui
nos au diunt, cognobiles erunt; impertanto sì malamente venne fatto ad
Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente, che
fu ravviſata da ognuno in gui ſa, che non poſſon far dimeno i medeſimi
peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio,
diTemiſtio, e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo
averlo ſtrabocchevolmente commenda to, alla fine purdice in facendo parole
delle ſue oſcurez ze: Accedebatad hæc ingenium viri te&tum, et callidums,
&metuens reprehenfionis, quod inhibebat eum ne proferret interdum aperte,
quæ fentiret; inde tam multa per ejus ope ra obſcura, et ambigua. Ma laſciando
ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi ſcorge eſſer
Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto,ſei eſſere le
ſpezie del moto: cioè generazione, corruttura,al terazione,accreſcimento,diminuimiento,
e moto locale; ma a chiunque bene, e ſottilmente la coſa ragguarda, niuna altra
forte di movimento ſi fu avanti nella natura, ſe non ſe locale; e nel vero
tutte le ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono,ſalvo che movimenti
locali; e ſi pare,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli;
concioſliecoſachè dica egli una volta, che'l moto locale ſia il primo de’moti,
eche niuna delle p lui mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar "
inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi,
che il ſolo moto locale ſia quello, che dir ſidebba propriamente moto. Divide
Ari ſtotele primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama
egli quel movimento, il quale è ſempre mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il
moto semplice è di due maniere, retto,e circolare;cöcioffiecoſache di due mas
niere ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e circolari; la qual ragione,quáto
frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a conſiderare, Il moto çircolare, il quale
ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è perfetto, e regolare; vuole Ariſtotele eller
quello, che fi få intorno almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello, che
faffi in ſuſo, ed alla in giù, Mataçé do, che avviſar dovea Ariſtotele
que’movimenti, ch'egli immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer
altra mente circolari ', ma ellittici, follemente nel yero egli fi da ad
intendere avermoto ſemplice nell'univerſo, che retto non ſia; imperocchè
qualunque corpo, cheſi muove convien certamente, che ſe'n vada ad occupare il
luogo a ſe più vicino; perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to, e formerà
mai ſempre col muoverſi linee rette; laonde i moti obbliqui tutti,cácora
que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę
infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono
moltiſlime, e poco men, che infinite linee rette; laonde niun moto del mondo
farà circolare; imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo
maiſemi pre potrà dal centro ugualmente lontano; il che richiede Ariſtotels nel
inoto circolare. E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc, quanto dal ver ſi
diparta ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i
membri della diviſione, dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere: l'una di
quello, che ſi fa intorno al mezzo, o lia centro: l'altra diquello, che ſi fa
dal mezzo; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo; ma degna ſenza fallo è d'aſcol
tarſi con grandiſſime riſa la cagion,che di sì fatta diviſio ne cgli
reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti; concioſliecofachè
abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa, e vana del pari
la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele; enon aver moto veruno
nell'univerſo, che compoſto eſſendo del retto, e del circo Jare, miſto con
Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. Ma trapaſſando a quella diviſione del moto,
così cele bre ne’libri d'Ariſtotele, in naturale, e violento:veramen te in
iſpiegare i membri di quella oltremodo vario, ed in conſtante e ' li moſtra;
perciocchè una fiara dice, il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien
comunicato; il che ſe vero fofſe, vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè
ogni moto, giuſta Ariſtotele, altronde procede; e un'altra vole ta poi, no
badado a ciò che prima avea detto,egli afferming comechè da altri cagionato
effer poffa, trondimeno alcun movimento eſſer naturale. Vltimamente Ariſtotele
vuole, che quel moto djr ſi debba violento, il quale venga cagio nato da
eſterna cagione in un corpo, che il ripugni; maſe il moto altro veramente egli
non è, fe non cambiamento di luogo, e al corpo non meno è natural queſto, che
quell altro luogo: certamente al corpo niun moto ſarà mai vio lento; e ogni
qualunquemoto, che nell'univerſo ſi faccia, dovrà dirfi naturale. Ne la terra,
o altro corpo dique'che chiamanli gravi da ſe, comeinſieme col vulgo immagina
Ariſtotele gripugna il ſalir in alto, quantunque ſi paja a noi, che non
veggiamo que' corpi, che la ſpingono giù, e fan ch'ella ripugni il ſalire. Non
ſembra finalmente conforme a quel ſuo famofo detto, ch'ogni coſa, che ſi muove,
per alrri ſi muova, la diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to, in quel, che
vien fatto da fe, e propio chiamato, e in quel, che da altri faſli, e per
accidenteè detto. Ma una cotal diviſione mi fa ſovvenir, come ſconciamente
fallò Ariſtotele nel dire, che'l generante muova ancor quando è lontano; anzi
ancor quando più non è; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente; il che
ancora di colui che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli
è nel vero, quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere
celeſti dalui ſognate. Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera
dell'operare del Sovrano Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana, e differéte da
quella, che'l più acuto umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare;e
comeegli già traſſe dal nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà, colla
quale potè dar loro il moro anzi gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di
toccamento veru no; e che Iddio ancora fa, che gli Angioli parimentes. comeche
inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze;
e laſciando di riferire, che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo, e
altrimae Ari in divinità, iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a'
particolari: Io vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli
a ' corpi,in quella gui ſa per avventura, colla quale fuole l'anima
ragionevolea allor che muove il ſuo corpo; la quale certamente altro nā fa
allorche muove qualche membro, ſalvo che dar altra determinazione per opera
della volontà a que' rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli, che
continuo dal fangue vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser
vero ciò dall'oſservare, che ficome ſcema, o creſce in cotalicorpicciuoli il
movimento, così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié
per meſso; non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma, come è
l'anima del corpo, muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi
corpicciuoli,ch'en tro lor fono, o pure que' dell'aria, o dell'etere, che gli
penetra,e gli circonda; e'n quella guiſa, che'l vento soľ acqua muover logliono
le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto, e a quel
corpo; ed eſsen do il moto delle particelle, che l'etere compongono, rapi
diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a
un'altro,comechè lontaniffimos icorpi. Ma laſciando queſta curioſa digreſſione
a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando, lo dico,che no men, che
s'aveſse fatto del moto, ſcioccamente falla in di viſando del luogo: imperocchè
egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo, ove la coſa
allo gata ſia; la quale opinione, comechè egli la toglieſse di peſo comealcun
giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione
dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle, e da altri deriſa, pure egli sì
disfor mata la ci reca, che nel vero ſembra, che più toſto egli ab. + bia 630
Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo, il quale non fa
diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini;
e sì ſciocca, c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per
tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro; e nel yero
ſe'l luogo, comeragion perſuade, e Ariſtotele medelimo inſegna, appartiene a
qualſifia minima particella del corpo locato, dovrà ſenza fallo il luogo aver
parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da
quella ingombrare dimaniera; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il
luogo, ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual
minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo
nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo, la quale a cir condare, e ad
abbracciar viene il corpo locato, ed è affat to fuora di tutte le particelle di
eſſo corpo; perchène ſegui rebbe, chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut
te le parti di eſſo, per tacer d'altre; e d'altre ſconvenevo lezze
a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute. Ma per nulla dir di ciò, che dice
Ariſtotele del tempo, il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire,
e di numerar il movimento; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe: chen ti,per Dio
ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura, e alla propietà del corpo?
E laſciando ciò ad altri cô ſiderare, accennerò ſolo quanto egli vanamente
s'aggiri in yolendo filoſofar, oltre alle qualità menzionate, della ra rità, e
della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa
egli follemente a credere, mora ſo da leggeriſſime ragioni, poter un corpo
rarificandoſi in grandire, e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior
luogo, di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo
incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10, e ſenza entrar l'une delle ſue
particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di
quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera,
Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce, come
de' colori, come de? (1 pori, come degli odori, comedell'altre ſenſibili
qualità.: Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i
fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare,
certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non
aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle
lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di
propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo, dell'a. nima, e delle ſue
operazioni, dell' aere, de' venti, delle piove, de'fulmini, dellaneve, del
tremuoto, dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola
mento, della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non
iſpiegate certamente da lui naturalmente, fi come facea meſtieri: chenti, ſono
le diviſioni, chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice, che ne meno eb
be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in
Ariſtotele mi par da notare, ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua
loica d'avviluppar mai ſem pre la verità, e di crollare, e mandar a terra i
buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio
venn'egli chiamato:ftudiofus impugnāde veritatis;ç molto avātidi lui per le
medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica
d'Ariſtotele:artificē Aruendi, &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam
in co jecturis duram, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam
fibi ipfiomnia tractantem, ne quid omnino tractaverit. Ma non ſo come fuggito
mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento,
ch ' Ari ſtocele fa delmondo. Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto,
avendo egli larghezza, lunghezza, eſpel ſezza;dalle quali dimenſioni in fuora,
altra grandezzaw, non v'abbia, dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove
fiano due, allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre, allora
in prima diciam tutti; il che effer di sì fatta maniera, la natura il ci
inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali
ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli, non per altro,
ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui malamente
inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la cracotanza di
quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole: d'Averroe in dico,
il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer Ariſtotele la norma,
el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti iſecoli, e per
addicar ne l'ultimo sforzo, e l'intero compimento d'ogni umanaj perfezione: e
che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro ajuto; nelle
cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli error alcuno
ri trovare; e in fine ch'a miracolo Natura il fece, e poi ruppe la ſtampa; anzi
tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe, fe ad Ariftotele folo
voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del mondo; e ne meno
eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè, qualor difle aver Moisè dette molte
coſe, ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer d'altro, quell'altra
beſtemmia; che coloro, i quali affer mano Iddio ritrovarſi per tutto, ſian
fanciulli, e che di ſtruggano, e mandino a terra l'ordine tntto delle cagioni
naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo, e ballo intendimento: impertanto
valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che vennero a gara da tutti
abbracciare, e come verità infallibili credute furono le dottrine d'Ariſtotele;
laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i ſeguaci di Macometto,quella
dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima apparare; e introdurre nelle
ſcuole la filoſofia di Ariſtotele, o pure quella, che ſi contiene ne' libri,
che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè dietro a tal con venente gran
piari fieno infra gli ſcrittori. E veramente alcune di quelle non pajono
d'Ariſtotele, come p teſtimo niāze di Tullio,di Laerzio, di Suida, e d'altri
antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio, e di Frāceſco Patrizi, e d'altri mo
derni autori fi può affermare; nondimeno però nei, co une que me que', cheveggiamo
concordevolmente in tutte quell opere, che portano in fronte il nome
d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori, l'iſteſſo modo di filoſofare:
portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o pure da qualche ſuo ſcolare
ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro: Mala ſciando ciò ſtare al preſente,
chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede, non eſſere conſentimento comune
degli huomini in eleggere Ariftotele per primicro filoſofante; perciocchè nel
lungo travalicamento di cotanti anni, dopo le prime voci del ſuo nome, forte
vanamente infra gli Araa bi per dappocagine, e ſciempiezza del loro
intendimento, gli altri tutti corſero lor dietro Qualcapra all'altra
perſentiero alpeftro: non con fermo, e ragionevole avviſo, perchè non eſſendo
vi elezione d'animo faggio, e avveduto, è da dir con Bac cone, coitio, non
confenfus; e come dice il Ciampoli, copia comune, non già opinione comune. E
nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non badarono le ſcuole, ſe
non ſe a far copie continue di quelle ſconce; e mat fatte copie del lor
primiero maeſtro Ariſtotele: cd a ciò anche fare i ſemplici,e rozzi ſcolari
coſtrignendo;perchè non ſenza ca gione fu detto dc' peripatetici da Lorenzo
della Valle, il quale veramente fu ilprimo, che liberò la filoſofia da quel
cieco,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot topoſta:Pudet referre
apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos, &jurejurando adigendi,
nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos: genus hominum fuperftitiofum, atque vecors,
defe ipfo malè meritum; cum ſe facultate fraudent indagă då veritatis; quos fi
reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt, qua tandem
infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt;
ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera
de volgari filoſofi ſoli, avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla
qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe, che dalla copioſa ſembraglia
del popolo è da ſtimare; perciocchè, come teſtimonia il Romino Ora tore, la
filoſofia, dipochigiudicatori s'appaga, cabello L111 ftudio ſchifa la
moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta
judicibus, multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi, et fufpe ta, et invifa;
eragionevol mente in verità; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone:
nihil multis placet, nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium
rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando
la parte maggio re, ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre
{eguire. Ma ciò, che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato, deſli ſenza
fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire quel
valent'huomo, noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa dalla
ragione, che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu nel vero
la greca filoſofia di sì fatte ſconce, e inveriſi mili opinioni, che non ſenza
cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum, quod
nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta
piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando
degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti,
ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro, dicui Già lunga notte
involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo, infra' greci me.
dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone, e
d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina, nõ farà per avventura fuor
del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la
ſtoica, ed epicurea filoſofia. E per cominciar dalla ſtoi ca: grande certamente
ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro, e fondatore, il
quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i
greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re, volle nondimeno
più coſto gir dietro alla traccia di co loro, che apertamente avean da quella
traviato; e Com? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in
iſpiegar le coſe della natura, non però di meno egli ancora nelle maggiori
ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio, ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in
ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes
rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla. tone,e Ariſtotele;
della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico;
eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la
forma nõ cagione, ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo, che
coſa veramente la formalia, e in che conſi ſta la natura del corpo, e come
formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità,
mani feſtando, e dichiarando chente fia la lor natura, ecomes ingenerino: è da
dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in
prima detto abbiamo eſ. ſer Platone, e Ariſtotele vergognoſamente caduci. Ma
non ſembra vero ciò che Cicerone, e altri fcrittori riferiſcono di Zenone, che
egli aveſſe per efficiente cagio. ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli
coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce,
o tutte, olamaggior parte dell'operazioni natura. li, comech'egli in ciò poco
felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima, come certamente
conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le, che
ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere
allor ch'egli dice, eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia. Dice ben
egli Zenone, che ſon due i primi principi delle coſe: paſ ſivo l'uno, cioè la
materia, ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità: Paltro attivo, quale ingenera
ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol
Zenone, ch'altro non fia, ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione, e
di ſapienza, il quale per tutto diſcorra, il tutto abbraccj,il tutto penetri; e
che dalle varie, c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia
egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te
meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere. E Lill 2 nel vero ſe mai
Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar, comeché rozzamente la natura del
fuoco,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle, e pazza opi
nione; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e
ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca: ex illisfempiternis ignibus,quæſidera,
acflellas vocamus,, veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe,
atque alieno loco exiife. Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe
non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli, o sferici, o
piramidali,non pofſa ne ſentire, ne in tendere, ne far niun'altra operazione,
che l'anima far ſuo. le; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef
fer mortali, e quelle dappoco, e baffe, qualieſſere giudica l'animne degli
ſciocchi, e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme
attutarſi, emorire; e quelle de’dotti fo lamente che, fon più vigoroſe, dover
durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere, come fiaccole acceſe in tenacemate ria
fino all'ultimo ſcoſcio del mondo: fi ut fapientibus pla cet, dicea Tacito di
Zenone, e degli ſtoici, non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ; il qual
luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio: nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur,
et fatuæ pereunt,aut non diu manent. La quale opinione motteggiando
l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam
cornicibus: dia manſuros ajūt animos, ſemper negant. E quinci follemente
temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque; imperocchè ſtimava no, che
l'aniine, come quelle, ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque. Ma cotal
crcdenza ella mi ſembra, che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe;
imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe, d'Aſia ter rore, e'l
fagace Vliſe, e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il
morir affogati nell'acque: ingemit Æneas, dice Servio, non propter mortem, fed
pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio, quia
anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma
piacevole è nel vero a udire il di viſamento's ch'eglifa Zenone, intorno alla
generazion del mondo; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo
raccolto, il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0; e che indi poi la
materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle; e che
ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente
nell'ae: qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe; e che pri mieramente
ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi, cioè il fuoco, l'acqua,
l'aria, e la terra; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero. Il
fuoco ſecon do Zenone è caldo, e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra
è arida; ma l'ordine col quale, c lic ſtelle, e gli altri ragguardevolicorpi
dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa.
Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco, il quale per la
gran fua: ſottigliezza vien detto ctere; e che in lui pri micramente naſceſfero
le ſtelle fiſſe; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo
l'acqua; e ultimamente la terra, la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben
fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte, e altre sì fatte empiezze,
che ci vuol dare ad intendere Zenone. Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in
ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare
agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio;
perchè cantò Lucano, per tacer Se neca, Fileinone, e Manilio: Sive parensrerum,
quum primum informia regna, Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in
æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens, et fecula jufa
ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum. E prima di Lucano, quel greco
poeta, così traslatato da Cicerone: Quod fore paratum eft,id fummum exfuperat
lovem; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato; ne lui
medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde
ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o
qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa
ſuis currunt cauſſis. E a ciò ponendo mente Luciano, piacevolmente deriden
do,come è fua usāza, gli Stoici, fa,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di
Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove, e gli Dii
tutti, non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano
deſtinate; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che
così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del
mondogli Dii, per menoma,ch'ella ſi foſſe, che dalle Parche non foſſe in prima
ordinata, e lun gamente compoſta. Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri,
e ſergentidelle Parche, o per mc' dire ſtrumenti di quelle, come la ſcure, e'l
trivello. E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove; il quale
oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero.
Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile
Parchemedeſime, che Giove da pre gare, ſe lc Parche per prieghi pur ſi
moveſſero; poichè al le Parche, e non a Giove l'imperio tutto del mondo, c'1
primo reggimento de' fatiè da attribuire. Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando
anche l'aſtutiſlimo Macometto,per nulla dir di Lutero, e di Calvino, eſſer
corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti, preſela, ed inſegnolla nel ſuo
Alcorano, acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli, ponendo giù
ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente
s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo, pole in bocca al
valo roſo Rede'Turchi, Solimano, Giriſ pur Fortuna O buona, orea, com'è laſsù
preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a '
peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più, ne
meno falli colui, che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre, di
colui, che allor, che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le.
Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole, chenon altrimenti, che
ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando,no’l muova amore,non
ira,non odio, non timore, ne qualúque altra più violéta paſſione. Senti menti
in verità, per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco; ed Io
per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella,
ch'un huomopoffa viver nel mondo libero, e Sciolto da tutte qualitati umane.
Manon queſti ſolamente ſono,ma altri, e altri i falli che Zenone, e iſuoi
Stoici prendono, alla noſtra fede, ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non
pocomimaraviglio, come cotato preſſo alcuno ſiano commendate, e in pregio
tenute quelle memorie,chedi loro rimágono; e ſpezialmé te l'opere di Seneca;
imperciocchè non è punto, com 'egli follemente s'avviſano le genti, quell’
aſtuto Stoico, re ligioſo, e dabbene; concioffiecoſâche, ſe ben fifamente vi
fibadi, in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo
ogni coſtuma dipietà, e direligione; comechè faccia ſembiante nelle ſue
dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta, e poco men, che di perfettiſſimo Criſtia
no; e a prima faccia appaja, qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone,
Virtutis verd cuſtos, rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone, egliſi
parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle
coſe naturali; come quando egli per iſpiegar la maniera, nella quale faſli la
viſta, diſſe l'occhio valerſi della aria teſa, co med'un baſtoneper conoſcer le
coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle
Carte. Com nobbe ancora Zenone, comeche a durar non viaveffe mols ta fatica,,
effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti
non eſser altro il ſole, ſe non le fuoco; ma da quelli certamente avviſar non
ſi puote, come egli immagina', eſser quel fuoco, ond' è forma to il ſole,ſincero,
e puriſſimo. Ma non ha dubbio,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo. Zenone
s'ingannò grandemente, immaginando participar la luna aſsai più dell'altre
erranti ſtelle, della natura della terra: per eſserella più di eſso loro alla
terra vicina; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó
v'ha ragion alcuna, la quale perſuader ci poſsa, che la lu na differiſca púto
dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli
antichi filoſofi, i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di
piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati, le ſtelle
erranti, e fiſse, e la terra: afferma, che le ftelle, co me quelle,
ch'animaliſono, dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento; e venir il ſole
nutricato dal mare, la luña dall'acque dolci, e l'altre Atelle dalla terra; m2
perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu
egli oltremodo manchevole, checoltivò molto più di quel, che certamente a
natural filofofo fi conveniva, gli ftudi della Loica, onde conveme, che i
ſeguacidilui, for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili
fortigliez ze dialettiche intrigati, vennero ragionevolmente da Ga lieno
contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto
vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura; onde ebbe a dire il medeſimo
Galieno, che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati, ma rozzi poi
allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano. Malaſciando
Zenone, trapaſseremo a ragionar d'Epicuro.. Primieramente per mio avviſo mai fi
par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi, che, da
pallionati luoi ſeguaci, c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon
dire jufra l'altre millanterie, ch' Epicuro non huom mortale, ma Iddio ſi
foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza; e chc Epicuro
anche fi foſse Quel, che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a
terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè, per tralaſciar
ch’Epicuro altro in verità nõ faceffe, che traſcrivere le ſentenze di Democrito:
i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe: anzi ſe
mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti, incorſe in graviſfimi falli. E
gliporrò opinione Epicuro, che da una infinita, ed immenſa corporea ſoſtanza,
qual ſecondo lui altro non è, ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli
di varie, ¢ varie grandezze, e figure, e da uno ſpazio parimente im menfo,
qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede,fia copoſte l'univerfose che fenza
regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo, ed a ventura, dalmoto,
dall'accozzaméto,e dall'or dinamento, ſolo di que'corpicciuoline fian nati,non
ſola mente queſto, in cuinoiabitiamo, ma più, e più mondi, Aggiunſe egli al
diritto movimento de corpicciuoli (che apparò da Democrito) di ſuo altresi
quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello
poteſſero cotante coſe ingenerarſene: e cocal movimento torto, eglidiffe naſcer
dalla chinacura de' corpicciuoli, quali movendo per diritto, ed in altri
corpiceiuoli incop pando, neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize
non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le
noſtre anime, come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis.
Ma fe noi riguardiamo, non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo, ma
anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada, ma
all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata: non può in niun
modo da ciaſcun comprenderli, come a riſchio, per caſo, ſenza ſottiliffima
macaria di gran maeſtro debba effer formata; e per non trarre argomenti dalle
ſtelle, dad ſole, dall'huomo e da altre,e altre opere maggiori d'Iddio, mi
contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti, come ſono le
moíche, le zanzare, le formiche, l'Api, gli Acari, c altei afſai cotanto
menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio, tanto quanto, cavviſar li poſſono;
e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me
par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle, così ben compoſto, e formate, come
nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono.
Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella
teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e
tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene; e nel capo è
anche loro il cervello, le glandole, le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini;
da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e
comparte. E che dirò lo dello ſtomaco, delcuore, e d'altri fomiglianti me
bricelli? che dell'offa, e delle vene, e dell'arterie, e del facco latteo, e
de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle, chente, e quali a
ben fornito corpo ſi ri chieggiono? e che delle loro piccioliſſime anime, le
quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano, e ri fvegliano i
ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri
maraviglioſi effetti in quel lo adoperano?Ma ſopra tutto è da por menteal loro
indu ftrioro ingegno; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar
ſommamente dell'induſtre, e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca
alfreddo verno Ripon la ſtate, ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i
giorni algenti, Neghittofa non ceffa,e non s'allenta La negra turba,, anzi ſe
freſsa avvezza Ne le fatiche, e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen, che
l'ore,e'lgiorno, Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto. E avendo forſe
quella per pruova appreſo effer la ſementa, onde poſcia germoglian le piáte, no
altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte, e riſtrette, per
ceſſar l'aſprezza del verno: come apertamente col microſcopio noiveggiamo:
avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie
propie, incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca,
el bel tempo fereno Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i
grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è
certo. Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe, e poi la ſerba, e
parte Cuſtode, e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende
icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E
quelle più ſerene, e calde nutti Tolte al dolce ripoſo, al queto ſonno
Aggiugneal travagliar continuo, e lungo. Ne è da traſandare ciò che delle
formiche oervò Clea te. Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for
micajo il cadavero d'una formica, e portarlo a un'altro vi cin formicajo; e
quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche, e andar loro incontro, e
accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne; e indi a poco ritornarſene quelle
ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire,e ri trovar le
foreſtiere,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle
alle lor compagne; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi
ritornate a patteggiarne la riſcoſſa: e ciò due, o tre fiate facendo, alla fine
dopo cotante aggirare, quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla
buca, e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual
prendendoli quelle di fuora, e laſciando il patteggiato cadavere, n'andar via;
ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover
quello ſotterrare. Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto
ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica, la qual
ripoſtali in guato, non altrimenti, chei'ragnuoli ſi faccia no, preſe per lo
piede unamoſca, la qual forte dibatten dofi, e ſcooendoſi, indarno di fuggir
slargomentava; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc
ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo
un'altra formica partiffi.di preſente, e ricornò con alire formiche a condurli
a forza la prcda dentro dal lor formi cajo. Ma perchène G faccia maggiorméte
manifeſto,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E
picuro,e quanto fia grave l'ingiuria, che per quella vien fatta all'autore
dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura
abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque, che una ſoſtanza
fia quella, onde cotanti aſpetti, e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in
queſto gran Teatro dell'univerſo, eſle re egli ſtato parere, in cui non pur
Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (il qual più,.chalari fa ve duta
diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono. E tanto par che
coſtui voleſse dire colà: nell'ottavo libro della metafiſica: ove feriſse
eſsere una, medefima coſa l'ultima materia, e laforma; e fimilmente non eſser
differenci nelfubbietto la materiais e la privazio. ne(del chc.a torto altrove
egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le
diſtinguaje nel ſecondo della fiſica; ſcrivendo, che la forma non maipoſsa
dalla, materia fceverarfi, ſe non ſe in mente noftra,ficome a niū modo può
fepararſi la ſchiacciatura dal naſo;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano
eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa;ſicome non è
da elami. nare, fe la figura, che imprende la cera, fia da quella di itinaa. E
finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando,
la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser
perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella:ovegià
perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin
Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando
le forme (le quali ſe-veramente altro foſser, che ka materia, folla
creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i
peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza, di
cui ragioniamo,altro,non ſia che corpo inminutisme particelle di grandezza,
difigura; di fito, di moto, e d'ordine diverſe,sbriciolaco', e diviſo,
fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè
Democrico, più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse. Maqueſta
ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza, e
ſapienza valevole a dir ſporre, e ordinare in tante guiſe, e comunicare ivarſ
mo vimenti alla già dettämateria. E ciò ben conobbe da pri ma, per quel ch’lo
ſappia, il fapientiflimo Greco Filolo. fante Talete Milefio; e confeſsollo
manifeftamente, di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum:Derim
autem eam mentem, quæ ex aqua cuneta fingerei. E da lui l'appreſero poi Ippone,
e Ippia,.e cotant'altri antichi filo fofi, i quali tutti concordevolmente
giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo,e fceve
rando queſta maſsa comune, e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in
cotante guiſe, quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora,
che dalla materia lua ſimilare, comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del
mondo: comcchè a torto poinefoſse egliprover biato, e biaſimato oltremodo da
Ariſtotele, cola ove diſ ſe, ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse
voluto: ſcioccamente ſervire, per dar ragione dell'apparenze nas turali: non
altrimenti, che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre
i nodi più inviluppati del le favole; edelimedeſimo ſentimento di Talete
furonoan che Platone, o Timeo'; ed è da credere pure, che dal fon datore
dell'Italiana filoſofia, Pittagora, e damolt’altri fa * mofi,.e ſaggj
filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata. Ma però tutti i sì fatti
filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente
eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore, dicendo
eſser quella ſempremaiſtata ererna. E forſe non guari illoro errore fu avāzato
da quel d'Epicuro,o di De mocrito;i quali ciò checoloro alla mente operatrice
afcrifo ſero, attribuirono al caſo; imperocchè la divina, ed eter 1 li e ne be
12 2 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già
eliftéte materia varie machinazioni formar ne; e così attribuendole il poco:
ilmolto, anzi il tutto negaronle, com'è il poter criare dal niente; perchè
dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do, tutta la
materia nell'opera conſumaſſe; e quinci avve niſſe poi, che un ſolo e'ne
formafle. Ma ritornando ad Epicuro: non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì
ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe; imperoc chè egli
nonmeno ſciocco, che empio, immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano,
come quello, ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio
corpo altrimenti, ina quafi corpo: ne aver Iddio ſangue, maquaſiſangue: Dice
Epicuro,oltre a ciò, che gli Dii ſian vaghi, adorni, e riſplendenti, e che le
membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno; e che l'al bergo degli
Diilia in quello ſpazio, che vuoto rimane in fra que’tanti, e tantimondi per
luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia,e la
provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro
meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani
della volubile, ei cieca fortuna,con iſcioccaggine, e ſcempiezza eſtrema le
attribuiſce De la terra, e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più
diviſar di queſte, e d'altre fimili em piczze d'Epicuro, ad ogn’un conoſciute:
Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro
dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè, quantunqué
menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano, ben potranno dividerſi
da uno, o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli
fia no; ne fa punto luogo il dire, che non avendo nell'atomo vuoto alcuno,
110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo, ne dividerlo in
parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere, e partire ilvoglia,
con replicati colpi a poco a poco penetrarlo, e dividerlo, ma ſi può creder 1 1
1 1 impertanto, che ſia queſta una quiſtione vana, e che o no mai; o rariſſime
fiate avvenir poffa, che un'atomo per al tro ſi fenda, e ſi divida;
concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo,
che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli
altri atomi avviticchiato, e congiunto, ſicome a chiun quedirittamente
ragguarda la cofa, egli è manifeſto: gli riuſcirà aſſai più agevole in
ricevendo i colpi cedere, e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni, a fe
vicini, che'l romperhi.S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino,dal vedere,
che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano, i quali per qualunque forza, che
l'arte, o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che
altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li
tutti, che gli compongono nella figura, e'nella grandez Za non guari diſſimili
infra effo loro, e dal non venir que gli mai rotti, e in particelle diviſi. Ma
non mi par, che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod
Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa; co mechè valentiſſimi
filoſofi cerchino pure farla apparer vera; poichè per tacer altri imbratti,
concedendoſi ilva. cuo,converrebbe, cheli toccaſſero, e non fi toccaſſero l'u
nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto. Oltre
a queſto, fe infiniti gli atomiſono, ſe condo Epicuro: faran ſenza fallo
ripieni di corpi tutti gli fpazj;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo;
in cui, comechè iinmenfo egli il faccia: Io non veggio lo, come infiniti corpi,
e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro. Ma non in ciò ſolamente
fallar ſi vede Epicuro: maal tri, e altri errori ancor egli commettc;infra i
quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per
aver troppo creduto a’ſeñfi, come Cartefio crede, maperfuafo da troppo fievoli
argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto, o poco più, o poco meno
grande di quel, ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò,
che Epicuro immagina della figura della terra, del -0 vo 1 i 648 Ragionamento
Ottavo - del naſcimento, e aell'occaſo dellole, della luna, e dell'al tre
erranti, e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan,
ſecondo egli penſa, allorche noi veggia mo, e immaginiamo, le coſe;matroppo.tedioſo
diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire: maſſi
mamentequei, ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia;
perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele, e
di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole: ſe l'invenzione della veri sà,
come d'accordo ciaſcua vuole, è ilfine della filoſofia, Io non lo come coſtoro,
i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente
chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che
la greca filoſofia, a riſchio, e per ventura, come alcuni vogliono, ſuole
rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende
lievemente, e alla sfuggita,ſenza troppo minutamenteconſiderarla; e come altri
poicredo no, crae ella ſua origine dal Diavolo; edopo altri biafimi, conchiude
egli alla fine, efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro, i quali
appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano. Ma certamente troppo a
lungo, e più diquel,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon
traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie;ma non ſi dee impertanto pe rò
inutile, e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno
forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia, Ga
ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci
filoſofiaveſſero fco perto, e compreſo tutto ciò, chenel vaſtiſlimo reame del
la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano; ne per aloro
certa.nente, che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel
tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con
ragio ni le coſe naturali, fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano
ſtati iveri ſentimenci, o di queſto,o di quel to zuore; perchè dicea il Signor
di Montagna: car les opin mions des bommes font, recevesà la fuitte des
creances an ciennes, par authoritè, &à credit, commeſi c'eſtoit religion
Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu:on reçoit cette
veritè, avec tout for baſtiment, de ato telage d'arguments, odepreuves, comme
un corps ferme; ſolide, qu'on n'esbranle plus, qu'on ne juge plus. Au contraire, chacun à qui mieuxmieux, va plaſtrani, &con fortant cette
creance receuë, de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple,
contournable, et accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le
monde, feconfit enfadeze; den menfogne. Ce qui faict qu'on ne doubte de guere
des choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n '
en fondepoint lepied, où gitlafaute, älafois bleſſe: on ne debat, que ſur les
branches: onne demande pas fi cela eſt vray, mais s'il a eſte cinſin ou ainfin
entendu E quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da
Galieno, la quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi
parteggianti dal torto loro, e fal hace camino; e nel vero cotanto danno
apportar fogliono le falſe apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene
daci han ſcoverti, e ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora, che
fiyantaggin nella buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier
Ramo, ed in al tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le
ſconvenevolezze della filoſofia d'Ariſtotele, non poterono alla buona ſtrada
giammai pervenire: ne in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare
d'Ariſtotele;ę ciò perche, çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti
fuerant in juventute, quia ea fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc
cupatusfuit ipforum animus, ut ad verorum principiorumid Hotitiam pervenire non
potuerint. Anzi Ariſtotele medeſimo, leggendo i volumidegli an tichi filoſofi,
concepctie alcuno di que'ſentimenti onde, inavvedutamente poi traſcorſe in
cotanti crrori. Così logo gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc,perché
ca gioni in noi ſentimenti di dolcezza, tratto anch'egli dall' altrui errore,
!! c a ciò punto badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare,
giudicando la dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre
qualità veramente nelle coſe, e non ne’ſenti menti confiftere. Che fe
egliaveffe: avvilato, il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato,
dolce,e foa ve: a un'altro poi amaro, e diſpiacevole parere, come la
colloquintida amariſſima a noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire:
certamente egli non così improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e
avrebbepur dubitato, non forſe ne' cibi foſſer corali particelle, dital forma,
e così ordinate, e moſſe,, che in diverſi palati, or di dol cezza, or
d'amarezza faceſſer ſeinbiante. Enella medeli, ma maniera cento, e mille altre
ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì rapportare, le quali appreſe
egli da. gli antichi filoſofanti. Ne ciò è maraviglia; perciocchè p iſtudio, e
fatica, che vi ſi logori', non ſi poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei
già allignati ſentimenti,e ban deggiargli affatto che non ritornino talvolta,
quando men ſi temano. Cosi avvien appunto ad una botte, o altro va ſo guaſto
putente di vin ravvolto', o -inagrito, la quale av vegnachè forte fi’rada,
eſilavi: non però dimeno non ſi puòella cotanto per diligenza purgare', che non
ne prenda anche il nuovo vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la
volta, concioſliecoſachè quantunque bennetto, e forbito fipaja ilvalo', pur
ne'ſuoi pori minutiſſime particel te ancora ſi naſcondono, le quali ſpiccatene
da quelle del nuovo vino, o altro ſomigliante liquore, che vi ſi pone,
trameſtandofi loro, agevolmente vi nuotano per entro, per opera della
fermentazione poi creſcono",intanto, che infra brieve ſpazio di tempo
tutto il corrompono. Così avvenir ſuole nell'anima,la quale priva, e ſpogliata
affat to delle antiche notizic,da ſe medeliina in filoſofído nuo ve notizie
proccuri in luogo dell'antiche introdurre; eri porre; poichè le nuove
ſpezialmente, ſea ciò ſpinte ſono da quelmovimento, chenello ſpeculare
neceſſariamente ſi fa, eccitano, per qualche ſomiglianza, che è tra loro,
alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta, ma celata viftia; dalla quale poi
sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono. E comechè ciò baſtantemente,
per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto, pur d'avantaggio ne può eſſer
chiar ro per ciò, che nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro,
che all'arte,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente
intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica
niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai, e oltre a ciò ſiano in
qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare;
acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa
appiccata, dipreſente rinven gano; e le coſe già alla memoria preſenti,loro
facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa manifeſta pruovà
ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca, o di forziere,
che in noſtra caſa ſia, ne fov viene tolto di libro, o di veſtimento,o d'altra
coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre, ſubito ne ſi rap
preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab bricarono, o che un
tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa rimcmbrar d'altro
amico: e anche de nimici di ciaſcuno, io nominandolo ne ſovviene. Perchè al
noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca, il ſolomovimé. to dell'aura, dolcemente
faceva venire avanti madonna Laura, eltempo ch'e' da primamirandola ſe
n'innamoro: L'aura ferens, che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto
viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì dolci je profonde;
E'l bel viſo veder, ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma
veggio, e per avventura con qualchevoftra noja eſ. fermi troppo dilungato in
ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva lo già propoſto di fare;
non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti fine, mi convienu tirar la
coſa un poco più avanti. Dico adunque, che non giová punto,cheſieno ben inteſi
gli fcolariin filoſofia » in chimica, in medicina, e in tutte altre coſe, che
diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn: 2
no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino
qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie, e alle maniere, che vengon
tenute nel medicarle; e qual pro,e qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi;
ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante, che non ſi dovrebbe certamente
co ventar mai fcolare, il quale con fedi autentiche, e con te ſtimonj non
provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e diligenza adoperata.
Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per
limae ftri delle ſcuole, a ciò deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap
partenenti, e ſpezialmente nella chimica; la qual cotanto dicemmo effer a'
medici neceſſaria, e di tanto riſchio a co loro, chepienamente non la
poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore, ligati con facramenti, econ
pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello
fcolare converrebbe, che minutamente fi ricer caſſe, acciò per ogni capo
s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente
diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal
meſtiere comporta, i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne
riſtorerebbe; ne da altro cer tamente naſce, ſe non fe dal non uſarhi queſte
diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari, che così
fortemente vengano elleno talora biaſimate:approba jiones,dice il Primeroſio,
fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem, et neceffaria, fed
deberent diligentius obſervari. At jam omnia negliguntur, nam quibuslibet
guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam
Academiisredeant ductores parum da fti, nihil minus, quam apti ad medicinam,
aut docendam, aut faciendam. Ne perciò giudico lo convenevole, come alcuni
vogliono, che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono
conventati, fian di nuovo daeſami nare; imperciocchè baſtar dee
quell'eſaminazione, allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati,
accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi
liberamente medicare. Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno, ove per
legge comandò non poterſi il pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza
ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati; e l'Imperador Federi go pur
v'aggiunfo, chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer
teſtiinong, che colui, che aw medicare inprenda, da tanto ſia; perciocchè
parlando de gli Impirici, folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono;
ne vollono eſſere da eſaminar coloro, a’quali la cura d'efaninare altrui era
per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle
bollettes delle licenze: Doctor medicinæ practicabitfine literis, quia
fuitexaminatus, quando fuit doctoratus, &approbatus; for cut ibi diximus de
Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre
oſſervato, che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta, per
tutto il noſtro Regno, poſlan liberamente andarmedicando:ne altrimenti effer
mai avvenuto: eft fciendum,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore, in cujus
contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum, quod magiftri
medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere
literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege, vel vicerege medieandi in
Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti; e larebbe certamente
un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina;
cioè a dire, di dar licenza di liberamente me dicare; ſenzachè non ſapreiIo
certamente, quali medici farebbon da eſaminare; perciocchè egualmente i giovani,
ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne
richiedere a parlamento. Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine
giammai riu. fcire, fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli, i
Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche
eſaminazioniinſtituite. Sogliono re carſi per eſemplo coloro, che queſta
novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono, i legiſti; i quali da non mol
to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati:maben
dovrebbono avvertire, che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale
eſaminamento: eleggendo anzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione
aveſse a farsi da'supremi ministri, e in alfai orrevol maniera; e sol rimase, che
coloro ragionevolmente nel vero vi foggia ceffero, a'quali, o alcun governo, o
altro onore s’aggiu gneſſc. Ne men giudico lo ragionevole quel diviso di dover
eſa minarsi almeno i nostri medici in Chiinica; da che la Chimica cotanto necessaria
alla medicina eſfer narramıno; per ciocchè da cotali esaminazioni grandi ſconcj
certamen te al nostro comun ne feguirebbono, per molte, e mol te cagioni, le
quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto;
ſenzachè i vecchj anco ra, anzi con maggior ragione, che i giovani, farebbon da
eſaminare; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica, ed eſsendo
aſſai meglio i giovani, che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari
impirici farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè
per lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua; e comechè
intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto, pure fi dee por mente a ciò
ch'avviſa Galieno, allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè
leggeriſſimomale, d' altri non ſia, ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di
tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia
ſovente con altro male eſſer congiunto; e ſo glian talora, o per.cagion delle
medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere: cheda colui, ch'un ſol
medi camento ſappia, non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto, nel conoſcerſi
delle malattie, aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio
ſcioccamente una per al tra, e contrarj rimed, talora imponiendo; nella qual
mala ventura, comedicemmo, cadono talora, anche i più ſcie ziati medici per la
dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti
volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime
to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito,
e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova poter mc provagione,e licenza
de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo,
che all’onta di tut te le proibizioni eglino il capo alzaſſero; imperciocchè no
mai aſſolutaméte allo incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi
permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran male, ch'ei fanno di leggieri
ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici
racconta Giacomo Silvio: in montepeſſulano's clarifima, et antia quiſſima
medicinæ academia, fi quis borum nebulonum feme: dicummentiatur, mox raptus in
afinumftrigofum, fiin venitur fcabidum, ſublimistollitur, averfus, urbe tota
cir. cumducitur,Scommatisundique incefitur, conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis
generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima:poftremo expiata
urbe ejici tur, illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente
ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al
preſente de gli Speziali,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente
chimici; il quale fu il ſecondo capo, onde mofle il noſtro ragionamento.
Veggiam dunque brevemente, quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia
van taggiarſi in sìnobilmeſtiere. Immagina il volgo, che age volitima faccenda
fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere,
edipoca licva ado perar ſi rimira. Mio quanto di lungo certamente coſtoro
ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men, che tutte
altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della
medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza, che lo troppa
fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne
tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e
biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ', dovrebbe almen chi
deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c
lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba, almeno della latina,
c della greca lingua inteſo, per dover poi intendere i varj, e diverſi
ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri
vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta, e
apparecchiata la conoſcenza, non folamente di que’vegetabili,o minerali, o
animali, che maneggiar fo vente coſtuma, ma di quelli ancora, che nelle ſtrane,
enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico
venirimpofte. Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti
tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora, che alcu
ni di quelli han co’ſemplici, de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee. Ma
ſopra tutto convien, che la propietà, e la natura del fuoco egli perfettamente
ſappia; acciocchè poi comprender appieno,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni,
che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano; alla qual coſa certamente
aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica;
ſenza la quale Io non veggio, come bene, e lodevolmente per huố li poſſa un sì
malagevole meſticre adoperare; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento
all'uman genere farebbe, ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i
medicamenti li lavoraffero; perciocchè, quanto a me, lo non ſo a niyn modo
comprendere, comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa, il qual non abbia
in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente
conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali, oltre alle ſopradetre
coſe, avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina, ed in qualche ſpedale
co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato. E ſcorgendofi omai
in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti,
non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po
eſser della Chimiea baftevolmente inteſo, e ſperto, In quanto alle Chimiche
medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato, che
il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da
cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza, o non fanno, o non poſsono
invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici, rei, ch' a' ſoli speziali, e a tali,
quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura; ne altra privata
perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna; male compoſizioni de'più
pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi
dovrebbero, o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici. Ne è da dir con
alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa
minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano, come
dir ſi ſuole, le ſpezierie; concioffie coſachè vana ſenza dubbio, e inutile
cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai, per ſogno niuno, lorvir tù,
e lor forza baſtantemente avviſare. Echi mai ne' bof foli delle botteghe, la
bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico,
delbelzoardico minerale, e d'altri, e d'altri sì fatti medicamenti d'odore, e
di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be, e
l'eccellenza, e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato
preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici
medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande, che cziandio de'più me
nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome
que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere; imperocchè i fali
fiſi, per nulla dire del fa pore, che in tutti il medeſinio appare,ne alle
varie manie re, chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte,
ſoglion figurarſi: ne a' varj colori,de'quali veſtono il precipitato colcotare,
ne ad altro ſegnale può niuno macſtro, comęchè ſperto, e ſaggio in chimica,
certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta, di qual
animale ſieno; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo
loro,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura, e del color
medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare; ma onde ciò avvegna, non fa iuogo
ora, che lo imprenda ad inveſtigare, eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei
ragionamenti, che mi convien riſerbare, più d'una coſa al nostro proposito
appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità; la quale ſe miverrà mai,
come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro,
il quale lo ora ſto intero a comporre. DI CAPUA, Leonardo
Nacque a Bagnoli Irpino (prov. Avellino) il 10 ag. 1617, da famiglia
agiata. Nella sua Vita di Lionardo di Capoa, l'Amenta ci dice che il D. si
dedicò agli studi con passione, tanto da esibire all'età di undici anni una
appropriata conoscenza dei fondamenti della fede, un retto uso della retorica e
dello scrivere in latino. Seguì una sua sorella a Napoli, dove frequentò la
scuola dei padri della Compagnia di Gesù, studiando per sette anni filosofia e
teologia. A diciotto anni si dedicò agli studi giuridici e quindi alla
medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà critico precoce. A ventidue
anni, carico di libri e di progetti di ricerca, fece ritorno a Bagnoli, con
l'intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali e anatomiche. Negli
anni seguenti prende forma il suo pensiero critico intorno al giudizio dei
sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle apparenze e quindi alla
inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni di ritiro a Bagnoli non
abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci riferisce di una certa
attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile petrarchesco, composti
nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G. Della Porta, Il martirio
di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune commedie; una favola
boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti andati perduti a
causa di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per Napoli. Non
sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché, comunque, ciò non
accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può ragionevolmente
ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal ritorno di Tommaso
Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a Firenze, Bologna e
Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e un contatto col
Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e alla nuova
scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di matematica e poi di
medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca scientifica nella
linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era senz'altro a favore di
quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava introdurre all'interno
di una cultura legata al passato e organizzata politicamente. Ai primi degli
anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi da controversie e da uno
spirito polemicistico per nulla produttivo. Particolarmente ostile la medicina
ufficiale nei confronti dei "moderni", essa arriverà a far sopprimere
la divulgazione di un libro di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di
chimica e la difesa di essa quale scienza fondamentale per il rinnovamento
della medicina. È il periodo della lettura dei grandi filosofi
contemporanei di Europa, da Bacone a Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà
di emulare quei grandi e di fondare anche a Napoli la "nuova filosofia"
condusse il D., con il Cornelio, F. D'Andrea, P. Lizzardi, G. A. Borelli ed
altri, a dar vita all'Accademia degli Investiganti. Di ritorno nel 1649 da un
viaggio a Roma, il Cornelio aveva portato con sé a Napoli, anche per esplicita
richiesta del D., quanti più libri possibile sui nuovi orizzonti
filosofico-scientifici. L'Accademia veniva fondata l'anno successivo; fu poi
disciolta nel 1657 a causa della peste e poi ricostituita nel 1662 sotto la
protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena. Essa ebbe un ruolo specifico
nella vita intellettuale e civile napoletana, orientata negli anni Cinquanta ad
un risveglio culturale. Si tenevano rapporti letterari e scientifici con
sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società reale di Londra e con
l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti, alcuni dei quali
specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era frequentata in
particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da giovane, frequentò
la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli appartenenti al
partito capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680 intorno alla
natura dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti che contribuì
a caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima delle
controversie tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il Parere.
L'opera è del 1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia naturale
e razionale, il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana, quanto priva
d'ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p. 94). Questo è
il punto centrale della disamina critica del D., nonché il motivo primo delle
future polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua Autobiografia. Il
Parere manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di pensiero. Vi si
dichiara di condividere le idee dei "modemi nostri filosofanti",
quali Copernico e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio, Gassendi, Boyle,
nonché il "dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi, stimati per la
loro opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito e la ricerca
scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità" e a
"far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E queste
rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la cosa
più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce sulla
incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente
accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle
reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva,
ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo
sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare,
aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva,
invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del
potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In
breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo
stesso Parere non rimase esente. L'Amenta ci riferisce che la
pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla
corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere
apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il
Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante
il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina.
Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati
dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea. Il
De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei
Discordanti, seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate
nel 1694 con lo pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti durava
già da sei anni), tacciava di "libertini" e "ateisti" i
seguaci della nuova filosofia con i suoi due allettamenti: la
"novità" dell'opinione e la "libertà" dell'opinare
(Benedetto Aletino, Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e
della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco Spinelli
principe di Tarsia, Napoli). Egli presentava il D. e i suoi amici, quali il
D'Andrea e il Grimaldi, come giansenisti, sebbene quelli avversassero il
giansenismo ed ogni rigorismo morale, oltre al fatto che solo dopo la morte del
Vico il giansenismo fa la sua comparsa a Napoli, e più nella forma
dell'atteggiamento antigesuitico e regalista che come dottrina teologica.
Tuttavia questi erano i principali capi d'accusa rivolti al D. e ai capuisti, colpiti
indirettamente attraverso i loro allievi o simpatizzanti nel processo svoltosi
a Napoli tra il 1688 e il 1697 per volere della Curia di Roma. Già nel
1671 la congregazione dell'Inquisizione aveva scritto al cardinale I.
Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo in guardia dai pericoli
derivanti dalla propagazione delle idee di Cartesio. Veniva consigliato di
stroncare la diffusione di quelle idee e di comunicare alla congregazione il
loro apparire. Alla lettera del cardinale fece seguito a Napoli la dispersione
degli Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano aderire alle nuove idee.
Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di G. Burnet a Napoli, erano
rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che, a detta del Burnet, venivano
rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali erano "vus de mauvais oeil
par le clergé, qui les traite d'athées et de disciples de Pomponatius"
(cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnuola..., Napoli 1934, p. 202).
Il processo agli ateisti fu visto da molti come un processo alle stesse idee
propagatesi a Napoli in favore dell'atomismo, del gassendismo, del
cartesianesimo. In tal senso lo intese il Valletta, il quale vide nella
opposizione al pensiero aristotelico e in una nuova riappropriazione della
tradizione platonica, non esclusi Pitagora e Democrito, il mantenimento della
integrità della fede stessa. Il Valletta arriverà a sostenere che la filosofia
aristotelica è l'unica causa e origine di tutte le eresie, opinione che venne
sostenuta anche dal Vico nella sua Historia filosofica del 1714. Le
affermazioni del Valletta facevano invero da eco a quanto scriveva D. nel suo
Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di Aristotele, ma si esige
che essa sia convalidata e suffragata dall'esperienza. Sullo stesso piano
si manterrà la Risposta del D'Andrea alle Lettere del De Benedictis: essa,
infatti, difendendo il pensiero del D., si profila nell'orizzonte di una
polemica intesa in senso antiscolastico e non in senso antimetafisico. Il che
equivale a dire che il vero oggetto della controversia era il
"metodo" dell'indagine scientifica e non i fondamenti metafisici del
conoscere umano. In aperto conflitto erano non singole dottrine ma due modi di
vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la polemica sorta, immediatamente
dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che
la polemica, tra i fautori del naturalismo e i conciliatori del meccanicismo
con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento orientato nel senso di un
moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti del D., oltre le
confutazioni dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto riguarda il
processo agli ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente, sebbene
imputati, quali un Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver appreso
da lui le prime nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi del
processo intaccarono la memoria del D., morto ormai da due anni. Il D.
aveva superato già i quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane
Annamaria Orilia. Abitarono nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri
battesimali fu registrata nel 1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella
loro casa si discuteva anche di letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia,
confermando il giudizio dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.:
"L'eruditissinio C. aveva rimessa la buona favella toscana in prosa,
vestita tutta di grazia e di leggiadria" (p. 21). Invero, il D.
diede il suo contributo per il superamento delle forme parossistiche del
marinismo esasperato, che a Napoli aveva assunto la forma di un
"secentismo del secentismo". Il D. darà egli stesso il modello d'una
teoria letteraria con la sua biografia storica su Andrea Cantelmo, che ben
presto fu assunta come manifesto letterario dai capuisti: ritorno all'aureo
toscano del Trecento e del Cinquecento, quale necessità basilare d'un retto
formarsi in prosa della lingua e dello stile di uno scrittore. Il
processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche di certo non mitigate,
quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a mancare. Fu sepolto nella
chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu tenuto un "elogio
funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e cristiana, ma anche la
statura intellettuale di maestro e di guida. La prima e più complessa
opera è senz'altro il Parere di C. Divisato in otto ragionamenti, nei quali
partitamente narrandosi l'origine e il progresso della medicina, chiaramente
l'incertezza della medesima si manifesta, pubblicato a Napoli nel 1681; ristampato
nel 1689 a Napoli, dove vide una terza ristampa nel 1695. L'ultima edizione,
accresciuta delle Lezioni intorno alla natura delle mofete, in tre tomi, in 80,
fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso ebbe molta risonanza nella cultura del
tempo; contro di esso scrisse il già ricordato De Benedictis. Muovendo dalla
tesi secondo cui Aristotele ha ignorato la prova sperimentale, il D. intuisce
la necessità di orientarsi verso una nuova filosofia della "mente".
Invero, il D. pensa la mente come realtà connessa con il processo della natura,
non allontanandosi con ciò dai ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi
Progymnasmata physica del 1663 circa la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è
per il D. il discorso intorno agli aspetti chimici della materia e ad una
implicita metafisica, inerente alla originaria forza interna alla materia,
ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle mofete. Il punto di partenza è la
questione dell'"aria", sviluppata secondo la teoria dei corpi eterei.
Questa è pensata come condizione di possibili attività implicite in ogni punto
dell'universo così che la stessa cartesiana "res cogitans" conosce
solo in quanto sollecitata dalle "sensazioni" provocate dal movimento
materiale delle cose, necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna
dire che il D. non riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e
vitalistica del Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima
sede, alla "prova sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che
soprattutto gli impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è
profondamente radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno.
Consentaneamente al modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta
importanza alla chimica, alle scienze sperimentali e mette al primo posto la
matematica. Nel Parere egli asserisce che per essere medico bisogna prima
essere filosofo, ma per essere filosofo bisogna in primo luogo sapere di
"geometria" (Parere..., Bologna). Ilmedico, dunque, deve essere
ricercatore e teorico della scienza; a causa delle incertezze della medicina,
cui fa riscontro la "oscurità" della filosofia, il medico deve
prepararsi in tutte le scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise
in rilievo più la sua crudizione che una qualche originalità di pensiero)
rimanda alla sapienza degli antichi, i quali si accontentavano del "solo
probabile" nello spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il
Parere è teso a dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti
dell'esperienza e della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D.
trova le maggiori difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra
esperienza e ragione. Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno
alla naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della
storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689,
obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al
Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a
Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T.
Donzelli, a Napoli. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a Napoli.
L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti tra virtù
e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e
natura. Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia; G.
B. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari, Riccio, Cenno stor. delle
Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap.,
Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie, Bari,
Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Bari, Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano, Mastellone,
Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento,
Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima dandreiana: prima
ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto
Aletino, in Riv. stor. ital., Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli
ateisti, Roma, Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capova. Lionardo di
Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: filosofia romana, Aristotele, filosofia,
ragione debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare,
gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The
Swimming-Pool Library.
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