Grice e Ferrari:
implicatura conversazionale e ragione nella lingua universale – la scuola di
Modena – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Modena). Filosofo modenese. Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Modena, Emilia-Romagna. Insegna etica. Sotto lo pseudonimo
di Callicrate Aletiano, F. pubblica “Mono-glottica: considerazioni
storico-critiche e FILOSOFICHE intorno alla ricerca d’una lingua universale,”
Vincenzi, Modena, -- un contributo rilevante per la discussione intorno alla
lingua universale, con le proprie considerazioni in materia, dedicando il
saggio a un certo Aristodemo Euganeo. “Callicrate” ricalca il nome di un
architetto della Grecia antica; Aletiano riconduce alla parola greca per
'rivelazione', 'verità'. Allora F. si configura come l'architetto – cf. Grice,
engineer -- di un sistema linguistico che rispecchi la verità delle cose, che
si rifà direttamente alle idee. Aristodemo invece è una figura della mitologia
greca che sacrifica la propria figlia in nome della vittoria sulla città di
Sparta; Euganeo deve essere ricondotto alle origini del dedicatario. Il modus di
F. è del tutto simile a quello di SOAVE
(si veda). Dopo una disamina del tipo d’alfabeto
utilizzato dagl’italiani, F. dichiara che le tradizionali disformità della lingua
e della scrittura accumularono ostacoli d'ogni sorta alle scambievoli
comunicazioni delle genti, ed alla diffusione della generale socievolezza e
coltura, arrivando perfino ad essere causa di incomprensioni sì grandi da
condurre i popoli alla guerra, giacché: diversitas linguarum hominem alienat ab
homine (AGOSTINO, De Civitate Dei, Venezia, Albizziano). Conscio degli studi
dei suoi predecessori, tra cui nomina anche gl’italiani CESAROTTI (si veda),
CERUTI (si veda), e SOAVE (si veda), F. espone e passa in rassegna i progetti,
esprimendo elogi e rimproveri per
ciascun sistema. F. propone un indice dei sezioni che formano il nuovo saggio
di studi e di proposte riguardanti l'istituzione di una lingua universale --di
cui “Monoglottica” è un mero riassunto. In
nota, riporta: Premessi alcuni principi generali, seguiti da alquante
norme direttive, lo schema espone l'alfabeto universale, che, da poche
modificazioni in fuori, s'identifica con quello della favella aria italiana. Il
comune alfabeto vocale ipotizzato da F. comprende le V vocali a, e, i, o, u
poiché esse formano il sostrato primitivo ed essenziale de’varii sistemi FONETICI
– FONEMICI – cf. Grice, disctinctive features -- di tutti i popoli da lui
considerati. Per quanto riguarda le consonanti esse sono «b, c, d, f, g, h, j,
k, 1, m, n, q, r, s, tv, w, X, y, z» e a ciascuna di esse è associato un suono
e uno soltanto. Graficamente esso deve essere latino -- quel che l'autore
intende è che la lingua non può essere simile a una lingua romanza come
l’italiano --, poiché il meno appuntabile rispetto agl’altri, e corredato delle
note tipografiche. La lingua proposta è - moderatamente - flettente e
combinante, a stregua però di una calcolata ECONOMIA (cf. Grice, efficiency,
cooperative efficiency), nello svolgimento del VERBO. Valendosi rispetto al
NOME (e predicato – ‘shaggy’) --, a forma delle lingue analitiche, dell’ARTICOLO
DETERMINATIVO. Salvo il differenziare con minima flessione la desinenza plurale
dalla singolare – “irrelevant in logic” (Grice): “(Ex): “Some, at least one”.
Per questo è evitata quanto più la FLESSIONE, la derivazion, l’agglutinamento e
l'uso dell’accento non giustificato d’una reale esigenza. La lingua oxoniense in
discorso non è ideografica, siccome quella concepita da Delgarno e da Wilkins,
né semi-algebrica, come la caratteristica leibniziana, né tampoco tachigrafica
o stenografica a mo’della pasigrafia di Taylor. È puramente alfabetica, e
costituita con una base e un processo grammaticale, epperò con opportuno
corredo dell’ARTICOLO (“the,” “a”) e il pronome (“I am hearing a sound”), della
congiunzione (“and” – but cf. ‘or’ and ‘if’), la preposizione (cf. Grice on ‘to’ and ‘between’) ell’avverbo
(cf. ‘not’). Essa discerne due generi
nominali, l'uno maschile o concreto, l'altro femminile o astratto, lo che giova
non meno alla perspicuità che all'armonica varietà del favellare. Adotta sei
verbi di uso frequentissimo, come primi ed AUSILIARI (cf. Grice, “Actions and
Events” on ‘do’), semplificandone le forme e gli svolgimenti, e rilevandone le
funzioni rispetto agli altri verbi. Con somma parsimonia si vale
dell'applicazione di lettere vocali e delle consonanti a denotare maniere e
rapporti di senso nominale e verbale; tenendosi lungi anzichenò, dal sistema gallico
d’OCHANDO. Segue un procedimento metodico per l’evoluzione delle parole
primitive e radicali, allo scopo di ritrarre le molte parvenze e trapassi
nell'esplicazione delle idee fondamentali. Poscia sono stabilite le norme
relative alla SINTASSI, ed il regime sì diretto, che indiretto. Infine si
traccia il disegno costitutivo della lessicografia. L'autore cura soprammodo,
in tutte le parti dello schema, la semplicità, il collegamento e la regolarità,
che debbono esser le doti primarie e congenite della lingua universale, perchè
puo ella riescire perspicua, gradita, e
mirabile per esattezza ed energia. La lingua di F. deve anch'essa essere
esente di sinonimi, neologismi, solecismi, irregolarità, e deve piuttosto fare
ampio uso dell'analogia, che quindi deve essere assurta a regola; tanto che F. sostiene «l'analogia è un
giorno, quando che sia questo per ispuntare, l'oracolo e la salvaguardia della lingua
universale, deve essere attuato un procedimento di logo=genesi, per il quale il
suono ESPRIMENTE (SEGNANTE) un'idea o proposizione semplice deve in qualche
modo essere presente anche in qualunque suono che compone la parole da esso
derivate. La SINTASSI deve seguire quanto più l'ordine logico dei pensieri. Keywords:
lingua universale, Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari”,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gaetano
Ferrari. Ferrari.
Grice e Ferrari: la ragione
conversazionale e FILOSOFIA della RIVOLVZIONE – la scuola di Milano – filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
italiano. Grice: “Ferrari is important in at least two fronts: as a
philosopher, he promotes what has been called a ‘critical illuminism’ – and who
but an Italian philosopher can have as a claim to fame a treatise on ‘the
philosophy of revolution’? The second front is my proof of the latitudinal
unity of philosophy; for Ferrari counts as the best interpreters, with his ‘La
strana sorte di Vico,’ of Vico!” “My pupil at Oxford – my first one, actually –
Flew, once called Humpty Dumpty an anarchist – semantic anarchism, he called
it. – But he was wrong. Humpty Dumpty cannot mean that by uttering
‘Impenetrability’, Alice will know that he means that a change of topic is
required!” Essential Italian
philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni democratiche
e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature
e senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il padre era medico -- dopo
la morte dei suoi genitori poté godere di una rendita grazie alla quale visse
senza particolari problemi economici. Fece i suoi studî nel ginnasio S.
Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu
però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio di
Romagnosi. Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per la
cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta a
Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con “Sull’errore, ossia, De
religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la
filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica
a proposito dei giudizî. Un giudizio infatti non consente di giungere alla
verità oggettiva. Grice: “The
problem with Ferrari’s analysis is etymological. For the Romans, indeed the
Indo-Europeans – cf. German irren --, to err was to wander FROM THE TRUTH. It’s a metaphor, a figure of speech. Un giudizio è
indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un “errore”. F.
define un ‘errore’ come ‘un vero’ – un vero relativo, non assoluto.
Similarmente, il vero e un errore relativo – giudizio vero relativo al soggetto
– errore intersoggetivo. -una vero relativo. Speaking of relative/absolute allows you to avoid
‘objective’ and ‘subjective’, but we do want to use ‘subjective’ and
inter-subjective. An error can still be inter-subjective, for Ferrari, un ‘vero
relativo’ a S1-S2. Introdotto nei
circoli intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio
(due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin,
Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo
Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma per
le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia
del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma luterana,
fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso
dall'insegnamento, e, benché avesse ottenuto la cittazidanza francese e il
titolo di "professore di filosofia” che lo abilita ad insegnare non fu più reintegrato nell'insegnamento, poiché
la raccomandazione di Quinet per una sua nomina a professor al Collège de
France, benché accettata dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero
dell'Educazione. L'allontanamento di Strasburgo fu all'origine del suo rapporto
con Proudhon che, avendo appreso il "caso F." dalla stampa,
s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia. Ferrari fu
tra gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Schoelcher. Durante
il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il governo austriaco fu
accanto a Cattaneo ma, deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in
Francia, dove fece un altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin)
di ottenere una cattedra a Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne
il colpo di Stato che mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato
come repubblicano, si rifugia à Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per
partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello
stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel
collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in
secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a
Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei
legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele
ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere riassunto
nella formula: "irreligione e legge agraria", cioè lotta contro Roma
e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei latifondi, con la
distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri,
sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali dell’uguaglianza. Per quel
che concerne la forma dello stato italiano, F. domandava una costituzione federale,
con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la
più ampia de-centralizzazione amministrativa possibile. Dopo essersi
recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di
Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale
dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto
di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma
la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta
ufficiale. Nominato professore di filosofia a Milano, benché non ci fosse
a quel tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di
nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur
continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione sull'intitolazione
degli atti del governo, contro la denominazione di secondo, e non primo re
d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a più riprese contro uno stato
unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle
regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante riconoscesse
nell'articolo che l'unità italiana non esiste che nelle regioni della
filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo,
non si posse reclutare un esercito, non si può organizzare nessun governo.
Esprime l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse prima o poi realizzare.
L’Italia tutta deve domandare alla libertà. La liberta non ha leggi, né costumi
politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né una né confederata;
essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la
confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo permette.
Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. “Io non muto
d'avviso.” “Sono stato avversario dell'unità italiana.” “Credo l’unita tragica
nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi
disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e
gli olocausti alle religioni.” Si è pure pronunciato contro la cessione di
Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la
Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del
debito già pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo
il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti
d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da
Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla
proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria
del nuovo regno. E fatto senatore. Assolutamente
solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non
ebbe seguito. è una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non
che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare è stata così caratterizzata
e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali,
combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel
piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la
demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare
d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a
pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma
intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della
Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza
del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle
condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il
prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province
meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio
provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza
sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di
commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione
del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della
capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al
Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo
francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro
le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla
violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta
sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla
sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi.
Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta
sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I
fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del
plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro
la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto
del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento
dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in
Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente
di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di
Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore
di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di
studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore
della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze
e lettere di Milano.Membro ordinario della Società reale di Napoli. Membro
effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro
straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro
ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio
corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province
modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei
Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino
per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti
i socialisti italiani, Ferrari è fortemente influenzato dall'Illuminismo e da
Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del
principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce
come unico fondamento della proprietà il lavoro. Propone quindi un socialismo
che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito
individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la
nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora
presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione
borghese. Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario
all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una “federazione”
di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità delle singole
regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata,
aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici
risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse
una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario
l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei
diversi stati italiani. L'opinione pubblica dove essere preparata alla
rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di
cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e
socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella
istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito
da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali. Insieme a Pepe
elaborò il “neo-guelfismo” -- per sottolineare il carattere re-azionario di
restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica d’Italia. Critico
verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la
superiorità dello stato d’Italia rispetto alla Roma, corrispondente alla
superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto
Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in
Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Consta dai registri della
Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi
Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue
dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: “Romagnosi” (O. Campa, Milano); “Sulle
opinioni religiose di Campanella” (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio
è l'ERRORE più primitivo, più NATURALE del genere umano.” “La religione è la
pratica della servitù.” “Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione
sopra-naturale.” “Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo.” “Il
romano cè morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli
apostoli e la Chiesa”. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di
Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati,
Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati,
Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le più belle pagine di
Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. F., Milano, Garzanti, Altre
opere: “Romagnosi”; “Vico”; “La Federazione repubblicana”; “Filosofia della
rivoluzione”; “L'Italia dopo il colpo di Stato”; “Opuscoli politici e
letterari”; “La mente di Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso
sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, “Giannone”; Lettere
chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi
politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni
Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I
partiti politici italiani, Le più belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti
politici, Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma, “Scritti di filosofia” e di politica, M.
Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario
Peruta, "Contributo all'epistolario di F.", in: Franco Della Peruta,
I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta
(ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del
socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C.
Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna
storica del Risorgimento”; “Milano e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza
inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza
inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo
Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a F.",
Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un
carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la
filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Ghiringhelli e
F. Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di Gavirate-Luino",
in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano,
Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle
opere di F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo
stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli, "F. e Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno
Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, Francesco
Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari, Roma, Bruno
Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di filosofia
del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti, "Ferrari e
la Nuova antologia: il destino della Francia repubblicana", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Arturo
Colombo, "Il F. del Corso", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Compagna, "Ferrari
collaboratore della "Revue des deux mondes", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Corona,
"Il filosofo "rivoluzionario" visto da Asproni", in:
Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Carmelo D'Amato, Ideologia e politica in Giuseppe
Ferrari", Studi storici, Amato, "La formazione di Giuseppe Ferrari e
la cultura italiana della prima metà dell'Ottocento", Studi storici, Peruta,
"Il socialismo risorgimentale di F., Pisacane e Montanelli", Movimento
operaio, Franco Della Peruta, Un capitolo di storia del socialismo
risorgimentale: Proudhon e Ferrari", Studi storici, Franco della Peruta,
"F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe
Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Aldo Ferrari, F., Saggio critico,
Genova, Ferri, "Cenno su F. e le sue dottrine", in: Ferrari, La mente
di G. D. Romagnosi, Milano. Gian Biagio Furiozzi, "Olivetti e F.",
in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Gastaldi,
"Nella galassia dell'Estrema", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura
di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Robertino
Ghiringhelli, Robertino Ghiringhelli, "Romagnosi e F.", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano,
Milano, Carlo G. Lacaita, "Il problema della storia in F.", in:
Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Eugenio Guccione, "Il laicismo politico di Ferrari",
in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Grosso,
"Il Medioevo in F.", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, Lovett, "Europa e Cina nell'opera di F.",
Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio Martirano, “Ferrari, interprete di
Vico”. Maurizio Martirano, Filosofia, storia, rivoluzione. Saggio su F.,
Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto, Angelo Mazzoleni, Ferrari. Il
pensatore, lo storico, lo scrittore politico, Roma, Angelo Mazzoleni, F.. I
suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti, "La posizione di Ferrari
nel primo Parlamento italiano", Critica politica, Giulio Panizza,
L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza, "La teoria della
fatalità nell'Histoire de la Raison d'Etat", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Giacomo
Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari", Rivista
internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari e Frapolli:
un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento Italiano",
in: Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Nello
Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari", Il Ponte, Silvia Rota
Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi, "Ferrari e la Teoria fatalista
dei periodi politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli,
Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luciano
Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti socialisti dopo una rivoluzione
fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il
nuovo stato italiano, Milano, M. Schiattone, Alle origini del federalismo italiano,
Ferrari, Nicola Tranfaglia, "Ferrari e la storia d'Italia", Belfagor,
Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, Luigi Zanzi, "un filosofo"militante",
in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Stefano Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico",
BAUM, Venezia. Gian Domenico Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano
Lodovico Frapolli Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane
Federalismo. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.F.,
su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Opere di
Giuseppe F., su Liber Liber. Il primo radicalsocialista italiano, dal sito del
Movimento RadicalSocialista. Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto,
la filosofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno della
scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'intento dei primi filosofi,
questo è l'intento della rivouzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori:
ma traditi dalla metafisica, sentivansi solitari, impotenti, inviluppati
da ostacoli infiniti; e invocando i demoni, le favole, un artifizio
estrinseco, un felice inganno, cadevano sotto il felicissimo inganno
della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto la protezione di
Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo prigioniero delia teologia, ne
divulgò la parola, la trasmise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità
sulla terra colla forza della scienza e con quella del diritto. Da
mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia alla rivoluzione
trasportando il problema della scienza nelle antinomie dell'essere, e il
problema dell'eguaglianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che
abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla verità, il regno
della libertà falla astrazione dai dogmi, il regno dell'eguaglianza falla
astrazione dal riparlo, il regno dell'industria fatta astrazione dal
capitale: e s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'umanità; si
pensava perfino a fondare un impero meno l'impero, un papato meno il
papato, quasi fosse proposito deliberalo di predicare la rivoluzione meno
la rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'impossibile. I
miseri cavilli della metafisica sarebbero morti nel vuoto delle scuole,
se leggi equivoche a disegno non li avessero tratti in piazza per
stabilire una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Ma
la tregua non regge; ad ogni momento vediamo avvicinarsi il giorno della
guerra, e se ad alcuni può parere lontano, e se altri possono consigliare
di dare tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede che
quando la scienza scopre un errore per quanto sia teorica, lo lascia
smascherato per sempre, e chi lo difende più non regna, e se sì ostina
cade sconfitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede negli
avvenimenti imprevisti non è cieca e viene autorizzala dalla forza del vero che
oggi tradito si vendica domani col corso naturale degli affari,
delle guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni verità è un
valore, chi la scorge se ne impossessa e la sconta, e tiranno o tribuno
giova a lutti sotto le forme più inaspettate. Si ricordino che non vi fu
mai progresso che non toccasse alla proprietà o alla religione che non
venisse dalla scienza e dall'eguaglianza e che non si dovesse irnaginare
con ardimento scandaloso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da
ultimo che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt ferve in
ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già dairso al 93 quattro
soli anni bastavano per passare dalla teoria alla pratica e per
sostituire una generazione di tribuni, di generali, di insorgenti, di
dittatori, di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filosofi
mandati alla bastiglia e qualche volta perfino protetti tanto sembravano
lontani dalla realtà. Quanto a noi figli del passato, discepoli degli
stessi maestri da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma
la metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili tormenti
dal campo della rivelazione naturale, visto che rinchiusi nel fatto,
legali alla terra ogni giorno, ci sottrae alla rivelazione sopranaturale
comunque si gradui il progresso e possa prendere delle forme mostruose e
talora nemiche, dal momento che sentimmo compiersi nella nostra mente la
filosofia della rivoluzione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta
fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni
il F. tacque : non pia studi pubblicati sulle riviste francesi per far conoscere
al mondo T Italia del passato e del preseme, non più opuscoli politici
per tracciare piani d'azione pamphlets violenti contro i suoi avversari: gli
amici lo avrebbero potuto creder morto. EpIHjre la sua operosità si
svolgeva occulta sotterranea silenziosa, tanto più assidua quanto meno
era visibile: abbandonato il campo del giornalismo dove le tracce del lavoro
sono ben presto cancellate dall'incalzare di sempre nuovi problemi e
dalle richieste di gusti sempre mutati, lasciato il tumulto della vita
politica, U Ferrari si era dedicato totalmente alla pura scienza. Il presente
Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato ; l'Italia pareva ricaduta
nella schiavitù e nell'abiezione, ed egli la volle studiare libera e
regina, quando marciando a capo di tutte le nazioni trasmetteva l'urto
delle sue continue rivoluzioni al mondo. Il Medio Evo
italiano, il campo chiuso della sua attività storica, era sempre stato il
suo lavoro e il suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più
piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad ogni interpretazione
razionale e organica, come se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge
che governava le continue rivoluzioni di cento stati differenti gli uni da^i
altri come posti agli antipodi fosse il caso, il capriccio della fornina,
l'arbitrio dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano uno
svolgimento storico organico, una forma politica costante che le
contradistingueva in ogni epoca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di
Napoleone III la Francia era sempre stata la nazione della monarchia unitaria;
la Germania era ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilterra
dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Ottone I e di Guglielmo il
Conquistatore. Ma l'Italia Qon poteva ridursi sotto nessuna
categoria politica; uè al principio della monarchia né a quello ddla
repubblica, né all'Impero né al Papato : ftemmeno ad un sistema federale
che raccogliesse in organismo la varietà tumultuosa ed eslege dei ^uoi
stati. Rivoluzioni d'Italia. Da molti anni queste considerazioni si
svolgevano lentamente nel mio spirito, per rendermi enigmatiche e
impenetrabili le vicessitudini di Milano di Firenze di Roma di Genova di
Venezia, di tante città unite dal suolo e separate da irreduttibili
diiTerenze. Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran pur
sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza causa, rivoluzioni senza idee,
guerre senza soluzione. Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum
mi apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti, medaglie
sparse di un museo che una vandalica ignoranza avesse devastato. Tutte le
serie, tutte le simmetrie essendo dissestate da una mano sconosciuta; potevasi
dire che TAriosto solo colla noncurante sua ironia avesse il diritto di
sognare liberamente in mezzo a questi cenci pomposi. Ma se la fecondità lussureggiante
degli avvenimenti si rivoltava contro ogni unità imperiale o pontificia; se
essa facevasi gioco delle repubbliche, delle signorìe, del candore dei
cronisti e degli artifizi della retorica; se essa compiacevasi di sconcertare
tutti i sentimenti e tutte le analogie: io vedevo tanta grandezza
dell'insieme e una tal forza nel minimo frammento, da non potermi
arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e della Divina Commedia ingannasse
l'aspettativa destata dal sentimento del bello, .per non essere se non un
cumulo di accidenti eslegi. n Ferrari volle scoprire il spreto di
una cosi misteriosa apparenza, la legge vitale di un organismo così
complesso, lo scopo di una coA abbagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia
medievale fino agli occhi : senza fermarsi alle compilazioni volle risalire
alle fonti originali, meditò su tutte le pagine degli Scrìptores rerum
Italicarum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere erudita coi
vescovi e coi consoli coi settari e coi signori del buon tempo antico: e
cosi mentre la turba degli gnomi, non comprendendo la sua solitaria
libertà superiore alle borie del nazionalismo miope e pettegolo, lo
accusava di vilipendere la sua lingua e la sua patria, egli preparava in
silenzio airitalia uno tra i più bei monumenti di gloria che potessero
inalzarle i suoi figli. Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate
la prima volta a Parigi in francese nel 1858, ripubblicate in italiano tradotte
dell'autore: in questa seconda edizione, nonostante gli studi
posteriori in seguito ai quali credette di avere scoperto la filosofia
della storia e la legge periodica del movimento storico, guidato da un istinto
fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò guastarla per farla
servire alla sua teoria; quindi noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedizione
italiana, da cui son tolte le citazioni e a cui si riferiscono i
rimandi. Per quel che già conosciamo della costinizione
intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giudicarlo 11 tipo dello storico
perfetto, perchè egli riunisce l'intelligenza artistica alla
comprensione filosofica e al criterio di un sistema formato. Tutti ì
grandi storici sono artisti: artisti neil'interpretare gli uomini e i fatti,
artisti nel rappresentarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che
sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filosofi, in quanto hanno una
WeUanschaung da cui traggono i criteri della interpretazione e del giudizio;
ma di solito il loro sistema non è che implicito e irrìflesso come quello di
qualsiasi individuo che non si dedichi di proposito alla filosofia; qualche più
rara volta c'è, ma preso a prestito, non rielaborato né rivissuto
individualmente, rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza
unica del F., la sua caratteristica qualità, consiste nell'avere a fondamento
della sua interpretazione un vero formato originale sistema
filosofico. Non solo. Questo suo sistema, che anche oggi è in gran parte
vivo perchè rientra nel corso delle grandi concezioni, è il più adatto a
dare una base filosofica all'interpretazione storica; perchè considera la reahà
come movimento, ed è tutto pervaso dalla persuasione della razionalità
che governa la realtà e la storia. Cosicché per quanto il Ferrari come
politico sia un uomo di partito militante e quanti altri mai fermo nelle
sue idee, amante delle posizioni nette, insofferente degli
equivoci; come storico noi possiamo essere sicuri che guarderà la storia
dall'alto, saprà giudicare libero totalmente dalle preoccupazioni politiche del
momento, saprà rispettare la veneranda grandezza del passato senza querimonie
per gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non farà ddla narrazione
dd passato un pamphlet <x)niro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola
sarà imparzude. Questo è il suo significato ragioaevole di una simile
rìciiiesta dd senso comune, il quale esige non che lo storico non abbia
un punto di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che abbia un punto di
vista elevato, donde sì giustifichi, non si faccia il processo alla
storia. Riepiloghiamo brevemente il sistema del Ferrari, integrando
la sua concezione più propriamente filosofica, cioè di valore assoluto, con le
determinazioni empiriche onde egli cerca di dare una formula generale al
movimento storico. Il mondo è alterazione svolgimento rivoluzione; la
storia è la narrazione di questo movimento intemo ed estemo, prodotto
dall'antitesi delle contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lotta
delle contradizioni positive reali che si condliano in una specie di equilibrio
dinamico. In ogni momento nel mare enorme ddl'umanità l'individuo che ne fa
parte come tm'onda o meglio ancora come una goccia ha suoi interessi
particolari su cui nasce una sua rivdazione morale <1); messo di
fronte a nitti gli altri innumerevoli suoi simili, mossi pure da forze
utilitaristiche e morali varie e a volte contrastanti, lotta per eondUare
le contradizioni in tm dstema politico, che Non è se non la
proclamazione del determinismo econo^ micCj che egli applica poi nel
coreo della ina storia. si attua sopramtto d^tro i confini dello
stato. Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^ nutre
dentro di sé un sistema opposto destinato a succedergli (1). La stocianoa
è altro se non la narrazione del succedersi di questi sistemi nati
da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili dell&'masse»
divise tra loro> da una specie di lotta di cla|^e^<:te.r}esce^a.
propagare sempre più la democrazia e a conquistare una più larga eguaglianza.
Come si attua questo progresso dentro Io star to? Lo stato è
duali^ato in due paniti contra*) stanti che polarizzano gli interessi
delle moltitur dini, il pardto rivoluzionario e il partito conservatore.
La rivoluzione assale la forma tradizionale dello stato a nome di un nuovo
principio, di una più larga democrazia^ con la forma politica
opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ federale negli stati unitari,
cattolica contro i protestanti,, erviceyersa. Vince perchè il progresso è
necessità fatale della storia; ma appena il prin^ cipio da essa
propugnato è stato accettato essa viene vinta dal partito conservatore,
che trasporta il nuovo principio sulla base politica tradizionale onde lo stato
si difende dallo stranilo. Perchè lo jstaio non è solo sulla terra;
ai suoi confini un altro organismo nemico vive con intere^, cQnidoe, con
tendee^o opposte. L'umanità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni
che si prendono vicendevolmente a rovescio, un (i) Cfr<
la notfi teorìa di Marx. enorme meccanismo di ruote dentate
ingranate runa nell'altra che girano in senso contrario, un sistema
di forze disposte cosi che il partito oppositore intemo di uno stato i sempre
d'accordo col partito dominante dello stato vicino e rivale. Ogni stato è
quindi straziato da una guerra interna e nello stesso tempo combattuto da una
guerra estema : la lotta sociale domina e regge la lotta politica. Poiché
appena dentro uno stato trionfa un nuovo sistema sociale, vien creata
una nuova forma che allarga sempre più la democrazia e Teguaglianza ; il
movimento si diffonde a tutte le altre nazioni come il cerchio sollevato
da una pietra gettata nel lago: e il nuovo sistema sociale vien
trasmesso dal lavoro delle minoranze oppositrici a tutti gli stati. Guai
se uno stato attarda troppo nella strada della rivoluzione sociale! Esso vien
conquistato da altri stati di civiltà superiore. Guai se non adotta la
forma opposta dd contrasto I Viene assorbito dal vicino più
potente. Gli stati le nazioni le razze possono quindi decadere e magari
spegnersi, ma l'umanità non decade e su una linea di progresso continuo
passa per una scala ascendente di sistemi sempre superiori. Nemmeno nei
periodi più oscuri di barbarie e più nefandi di cormzione si ha
decadenza: Anche un popolo vive esso è in progresso, progresso che può
essere arrestato solo dal fatto fisico della sua totale disparizione per un
cataclisma naturale o per un eccidio universale. Riceverà l'impulso politico
che una volta egli dava alle altre nazioni^ accettando le nuove
progressive forme politiche dall'esterno invece di crearle per sua
spontanea originale vitalità; perderà magari Tindipendenza, ma la
compenserà con un miglioramento sociale per cui accetta il vincitore;
vedrà succedere al fiorire delle arti alla ricchezza industriale e
commerciale sterilità intellettuale e miseria, ma avrà sempre un progresso
sociale che lo compenserà di questa sua decadenza. Poiché fra popoli
in lotta, come fra più individui, è naturale che il più forte vinca. Ed è anche
razionale. La forza dei grandi aggruppamenti storici non è la forza fisica, non
è il peso bruto del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pugno del facchino
che tappa la bocca al tribuno; ma è ordine, disciplina, saldezza
economica, coscienza nazionale, è in una parola forza spirituale. Non è la pura
forza fisica brutale che vince nel gran campo di battaglia della storia,
ma è la superiorità intellettuale e morale: la vittoria corona sempre il
più degno, fatalmente destinata come la sconfitta; chi ha perduto se lo
merita; chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente conquistare per
godere di una civiltà superiore che colle sue forze non poteva
raggiungere, o si è dimostrato nel paragone delle forze inferiore
al suo vincitore che in compenso della libertà perduta gli dà i vantaggi
di un miglior sistema sociale. Certo gli uomini e gli stati agiscono
spesso sotto l'impulso di bisogni materiali e di egoismi personali, ma la
storia li adopera a tm fine che li trascende; quella che VICO (vedasi)
chiama provvidenrza ed Hegel ASTUZIA DELLA RAGIONE trae dalle azioni egoistiche
il bene dell'umanità, usa dei malvar gi per un'opera buona, della
cupidigia delle conquiste si serve per spandere la civiltà sulle regioni
selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la gran democratizzazione
dell'Impero romano, di Fernando Cortez per conquistare l'America a una
civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^ ste come non esiste in
natura : esso non è che in quanto ha in sé il bene, un granello di bene
che solo gli permette di esistere; non è che un concetto dialettico senza
realtà (!)• ^ storia è dunque razionale. Non stiamo a spargere lacrime sugli
eroi sconfitti e sui popoli caduti; la storia li ha sacrificati con
diritto a cause superiori : tatto quello che è avvenuto è avvenuto
razionalmente. La storia dà dunque la vittoria al merito, progredendo con
la legge del minnno sforzo. Date tali forze in contrasto, la soluzione
del sistema in un fatto sarà rigorosamente quale doveva per il
valore delle forze; a quella maniera che in un sistema di forze flsiohe
il loro rapporto è determinato dalla loro potenza. La storia è dunque ne»
cessarla : la serie degli avvenimenti che dai tempi antichissimi arriva Ano a
noi non poteva esse^ re diversa da quella che fu per arrivare a
questo punto. Questa è una necessità a posteriori: non una
necessità metafisica o teologica che Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e
false storte. Napoli, Giannini. Questioni storiografiche^ Napoli,
Giannini. obblighi uomini e cose a seguire le linee di un piano traéciaro
in antecedenza» ma una neces^ sita interna che nasce dal gioco delle
forze umane. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze fossero state
diverse; e cambiato uno degli anelli, la catena sarebbe certamente
cambiata arrivando fino a noi : non si sarebbe giunti allora a
questa mèta, ma ad un’altra imprevedibile, non meno necessaria
secondo il valore di quelle forze. Cosi dalla storia vien cancellata la
parola ca^o, che una volta si usava a indicare la ragione ignota co^ me
dai geografi ìò spazio bianco a indicare una regione sconosciuta ; cosi
vien cancellata là parola Ubero arbitrio inteso come un misterioso potere
deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua volontà potrebbe
alterare il corso degli avvenimenti determinato dalle forze di volontà dell’umanità
intera. Per quanto un individuo voglia andar contro corrente, egli è sempre
Aglio del suo tempo; per lottare contro esso deve accettarne la
base comune di credenze ^e perflho le parole della discussione e le armi della
battaglia; per quan^to sia isolato non può mai impedire che la società lo
insegua e lo tocchi per combatterlo o per acclamarlo. Non
lasciamoci impressionare da certe parole e frasi, che potrebbero far
credere a una costruzione astratta a priori della storia : era nel
carattere del Ferrari di calcare la mano troppo violentemente sopra certe
affermazioni, di' mettere troppo in rilievo i caratteri comuni delle
cose, di dare la forma assiomatica d'una verità assoluta a certe generalizzazioni
di cui egli stesso riconosceva la relatività. Cosi quella storia ideale,
che secondo certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa che
rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e superiore, assoluta sopra essi
contingenti, come se nel blocco unico della storia si potesse tagliar fuori
il necessario dall'accidentale; ha qui perduto quasi totalmente il
significato primitivo e non è altro se non una generalizzazione e
semplificazione dei fatd storici fatta a posteriori, per poter
raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente didascalico onde non
dover tornare ogni momento a ripetersi. Del resto il F. stesso afferma
che questa sua storia ideale ricade d'appiombo a coincidere colla
positiva; ma una prova ben più decisiva ce Toffre la sua storia stessa,
la quale è tutt'altro che una storia astratta a priori. Così F. si
compiace spesso, sforzando al solito l'espressione, di chiamare
geometrici, meccanici certi movimenti, di dare come perfettamente equivalenti
certe rivoluzioni avvenute in forza di uno stesso principio viceversa poi
nella narrazione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso principio,
si svolgono con forme individuali. Spesso pure e volentieri tira fuori la
fatalità : ma questa non è affatto l'opposto di libertà individuale che
leghi con un misterioso potere proveniente dalla natura o da Dio ; non è altro
se non la forza storica dell'ambiente, forza umana e immanente
dell'umanità, della massa, che soverchia naturalmente il conato d'un
individuo. Premessi questi chiarimenti, diremo che il suo sistema
storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non è di valore assoluto, non si
attua quindi in tutti i casi colla stessa necessità e precisione con
cui si attua un sistema fllosoflco : nonostante le sue esagerazioni
verbali il Ferrari stesso ne era persuaso, lo dimostra la sua opera. Ma perchè
vorremmo noi interdirci la generalizzazione, che è un processo necessario
del pensiero? Che non si prendano le generalizzazioni, queste entità
astratte, per realtà metafisiche; che non si costringa nel loro letto di
Procuste l'individuo d'accordo. Ma perchè rifiutarle come strumento di ricerca
e mezzo di spiegazione e di esposizione? E' generalizzazione
evidentemente la divisione in periodi storici (sistemi o principi): la storia è
un corso continuo di avvenimenti simile a un fiume ; ma come il
corso del fiume si può dividere in superiore e inferiore, così si può
dividere, cosi si è sempre divisa la storia. E' generalizzazione il
raccogliere gli innumerevoli partiti di uno stato in regnante e opponente, ma
essa semplifica e spiega la realtà. La legge di opposizione, che organizza
gli stati vicini in senso inverso gli uni degli altri,è pure una
generalizzazione e guai se uno volesse applicarla rigorosamente I Pure
la forma politica de^i stati è una generalizzazione, perchè questa
forma un tempo non era cosi e insensibilmente va sempre mutandosi. Lo
stesso movimento dei prìncipi considerati come qualchecosa d'assoluto, di
perfettamente identico per tutti gli stati che li traducono nelle loro forme
politiche diverse, è una sempHBcazione generalizzata ; perchè qui
contenuto o principio e forma sono ruu'uno, non si possono scindere né
l'uno dall'altro, ni dagli uomini che li rappresentano, come fossero
delle entità metafisiche. Di fronte a tanta ricchezza di pensiero
non facciamo dunque i sofistici pesatori di parole, non afferriamoci alla
lettera cruda che uccide lo spirito, sdegniamo un procedimento che
distrugge colla pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi grand'uomo;
e abbandoniamoci con simpatia al nostro autore cercando di
intenderlo. Vediamo ora come questi prìncipi vengono applicati
airinterpretazione della storìa d'Italia. L'enorme devastazione unitarìa
di Roma aver va sottomesso tutti i popoli del mondo antico al
dispotismo imperìale, per eguagliarli in una democrazia vittoriosa di mtte le
aristocrazie nazionali, per trasmettere loro la civiltà del pensiero .
greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i ebbero conquistati i benefìci della
civiltà e della democrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli Iberì e gli
Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-, gliatrice legge imperiale^
allora l'interesse e il sentimento di patria li rivoltarono contro il
fiscalismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle onde del grati
mare barbarìco minacciante ai confini, era costretto per le necessita della
difesa a caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare Je
invasioni cacciandole l'una con l'altra e un pròcesto di dissolvimento federale
decompose la ciclopica unità romana. Una invasione barbarica stabile
venne accettata dai popoli per sfuggire al flagello delle invasioni
perpetuamente rinnovantisi che moltiplicavano le devastazioni; e la caduta
dell'Impero romano d'Occidente è salutata come una liberazione economica
e politica, che conservava intatto nitto il progresso sociale di Roma. Odoacre
venne dunque accettato dall'Italia come liberatore; Teodorico, spedito contro
di lui per un bieco disegno di reazione dall'Imperatore d'Oriente,
una volta signore della terra doveva assumere la posizione e continuare
la missione della sua vittima. (Fondazione del regno). Senonchè lo
spirito uhiàno nei suoi desideri non si ferma mai sotto la spinta di
sempre nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente quel regno
che li aveva liberati dal fiscalismo imperiale, gli Italiani vollero
conquistare una maggior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa
cattolica repubblicana e federale per assalire il regno ariano e unitario
dei barbari. Comincia la Lotta contro il regno barbaro estemo. Fulminati
dalla potenza invisibile della Chiesd^ erede di Roma cadono gli eroici
Goti; Narsete, che vuole sfruttare la vittoria romano-bizantina per rialzare
una specie di regno bastardo, Cfr. C. Balbo: Della storia if
Italia. Bari, Laterza: Bisogna dire che parerle una benedizione qnell'
invasione stanziata dopo tante momentanee più cmdeli e più
sovvertitrici. non può rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv.
d'it.) : Ecco i Longobardi che giungono In apparenza marciano casualmente;
formano una moltitudine densa sozza vorace, che scende lentamente dai
passi delle Alpi, si spande squallida compatta ardente come la lava,
sepellisce sotto di sé le città che invade, le petriflca colFalito suo;
nella sua brutalità non infrange nemmeno gli ostacoli ma li circonda
oltrepassandoli ed invade metà della penisola fermandosi subitamente senza
ragione alcuna. La scena è muta e desolata : si direbbe che tutto cede a
leggi esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi obbediscono al peso
della loro propria materia. Senonchè questa massa in apparenza
bruta di Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei Goti : non
errano come soldati, ma si stabiliscono come un popolo di conquistatori
nell'Italia del Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vittorie del
Mezzogiorno; fondano una rete strategica di fortezze che sorvegliano e
imprigionano le grandi città romane sempre rivoluzionarie; trattano i
vinti da conquistatori, sottomettendoli alla legge della spada e
derubandoli del frutto del loro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica rimane
libera, sotto l'egida ufRciale della protezione di Bisanzio ; e S. Gregorio
Magno papa (590604) divenuto capo della federazione romana e
rappresentante anche dei vinti del Regno, volta contro la barbarie
longobarda tutti i miracoli della religione e la potenza spirituale del
pontefice, a cui una nuova teologia dà il potere di condannare o
assolvere i morti prima del Giudizio universale. Le due forze
antagoniste rimangono dunque di fronte a influire Tuna sull'altra
vicendevolmente : ma se i Longobardi eccitano col loro esempio r
Italia romana a conquistarsi Tindipendenza politica da Bisanzio, sperando cosi
di ingoiarsela dopo; non possono sottrarsi all'influsso della Chiesa, che con
una rete sotterranea di silenziose cospirazioni mina il sottosuolo dell'Italia
regia per mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il regno opponendo al
re ariano di Pavia, la capitale longobarda, il re cattolico di Milano, la capitale
romana ; e infine trionfa coll'avvento del cattolico Liutprando. I Goti avevano
commesso l'errore di accettare il principio imperiale, i Longobardi commisero
quello di accettare il principio cattolico : e paralizzati dalla
inimicizia intema dei cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato
della rivoluzione romana e della eroica devozione franca. Per quanto più
tunani dei mostruosi re franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini,
già seminazionalizzati da un processo di fusione coi vinti del
regno; non furono mai accettati dall'Italia romana, che organizzata
antiteticamente li combattè con la rivoluzione col Papa coi
Franchi. L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno Cfr. Volpe.
Pisa e i Longobardi in Studi storici, Pisa, Non il re franco fu il vero
vincitore, ma l’Italia e Roma, che avevan rotto la natia compagine
delle genti d'Alboino, già predisposte a ciò dall' antica
costituzione del popolo e dai modi della eonquista. l>arbaro che
avrebbe imbrìgliato la rivoluzione sodale, legato i gran centri romani nella
rete delle città militari in arretrato, sepellito sotto un'alluvione
barbarica le reliquie della civiltà romana conservate dal
cattolicismo. E per impedire che potesse mai formarsi un regno su
questa terra sacra alle rivoluzioni, destinata a spandere il fuoco della
libertà su tutta l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in Occidente. Come
rappresentanti del nuovo patto sociale che doveva essere la base del diritto
pubblico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e l'Imperatore si
divisero la penisola destinata ad essere la custode del loro duplice
potere europeo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Papa Ravenna il
centro occidentale e tutta l'Italia meridionale con le isole da
conquistarsi ancora 3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in
Ocddente). L'Italia perde quindi l'indipendenza nazionale, ma acquistava
la libertà: e per tutti i domini del Papa e dell'Imperatore il progresso
sociale migliorava le condizioni dei Romani, non più sottomessi alla
legge della spada barbarica, ma alla giurisdizione dei loro vescovi;
rialzava la sorte delle città dell'industria e del commercio a
danno (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde della coltura
romana ad attivarne nuove scintille .Solo le terre ancora escluse dal patto
papaie-imperiale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Sicilia, scontavano
amaramente la loro indipendenza politica con una inferiorità sociale,
prodotta dalla confusione bizantina dd potere temporale e del potere
spirituale, la quale impediva la gran libertà del pensiero.
Intanto Tunità dell'Impero d'Occidente andava decomponendosi sotto
gli inetti successori di Carlo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa delle
nazioni insegnando loro a conquistarsi una libertà federale. Ma poiché da
questa risorge lo spettro micidiale d'un regno barbaro interno, la rivoluzione
papale e imperiale sempre regnante approfittando delle rivalità tra i
feudatari rende impossibile il regno d'Italia, lo condanna a non essere
che una lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a due
rivali e rialzando sempre il vinto contro il vincitore (Lotta contro il
regno barbaro interno) finché invocato dalle rivoluzioni italiane giunge Ottone
I a rinnovare il patto papaieimperiale. Egli distrugge per sempre il regno, disorganizza
le marche dei discendenti dei barbari, esalta il clero romano, protegge i
comuni italiani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte le nazioni
europee e modifica al suo esempio anche la Chiesa. {Riv. d'Italia) :
L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di «no scacchiere,
gli uni bianchi gli altri neri, gli um unitari gli altri federali; presso gli
uni la religione prevale sulla legge, presso gli altri la legge primeggia
sulla religione; i primi progrediscono con l'eguaglianza, i secondi con
la libertà. La necessità della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi
al rovescio gli uni degli altri ; la stessa necessità della guerra li obbliga
pure ad accettare coll'una o coiraltra delle due forme la rivoluzione
italiana che si propaga. Cigni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica
sé stesso che non prende la sua base d'operazione in opposizione ai
suoi vicini, si trova debole impotente in contradizione con se stesso e
soggiogato. Se si cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda
diretta» uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se invece si segue
nell'urto delle azioni e delle reazioni che si estendono opposte le une
alle altre.... si vede dappertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta
con esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlovingio o pagano
sparisce per cedere il posto ad un nuovo stato libero colle diete o
popolare col re. Liberata cosi per sempre dalla tirannia unitaria di un
re l'Italia può abbandonarsi alla carrìera magica delle sue rivoluzioni, che
sembrano frantumare in moti individuali variati disordinati la sua
ideale unità di nazione, e a prima vista ci appaiono refrattarie a
qualsiasi principio organico di interpretazione (Riv. d'Italia):
Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto all'azione dei principi; e
la storia d'Italia si svolgeva una e logica, dominando i più svariati
avvenimenti con una specie di continuità drammatica un tempo vasta come il
mondo. Odoacre abbraccia l'intera nazione col fatto unico del regno
proclamato contro gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi
a Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Unni e Roma ai Vandali. I
Goti continuavano l'opera di Odoacre, fissando l'invasione unica del re
in tutta l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano pure quali capitani
dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so Ravenna; e tutte le città,
scacciando i Goti, si rianimavano con un risorgimento quasi repubblicano.
Più tardi i due principi opposti dell'unità imperiale e dell'invasione
regia si spartivano materialmente la penisola; e la terra, metà romana,
metà longobarda, rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mezzodì
contro la dominazione ariana di Pavia; ancora una nel doppio slancio che
estolleva le repubbliche cattoliche e il regno longobardo; sempre una
nell'infallibile trionfo della religione delle repubbliche, che
consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Impero d'Occidente. L'unità
sopravviveva nel patto di Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia
dipendente da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei
Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti egualmente nemici
del Papato e dell'Impero; l'unità si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni
posteriori contro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re
italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di quattordici
rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra ordinata nelle sue lotte, uniforme nel
suo ultimo trionfo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della
Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t due principi della
rivoluzione cattolica e del regno nazionale, s'intendeva facilmente il
senso di tutte le lotte; dal momento che una guerra scoppiava doveva
essere la guerra dei due principi : ci bastava il seguire le due correnti, il
nostro lavoro era eccezionale senza esser diffìcile, l'unità delle idee
suppliva all'unità materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di
sottomettere ad una unità eccezionale il moto eccezionale del Papato e
dell'Impero; Napoli, Venezia, Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si
scostavano da se stesse per lasciare il posto alla geografìa
pontifìcia imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio
della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzionaria, la sola che importava
di seguire. M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena; il moto
generale scioglie ^uestltalia che già sconcertava la critica: o^i città ha il
suo eroe, le sue rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I
comuni non sembrano punto associati; nesstma federazione, nessuna
lega, nessun' unione generale e apparente: Milano è straniera ad Ancona
qtianto Arles Treverì o Cambra!. I popoli si combattono, gli
avvenimenti si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono innumerevoli.
Alcune città fondano delle colonie, altre si estendono colle conquiste,
giungono i Normanni, la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'inoltriamo,
tanto più le forze della guerra e della libertà sembrano scatenarsi a caso. Lo
spirito si turba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi storici
non abbracciano più l'insieme della penisola: Giordanes, Paolo Diacono,
Vamefrìdo e Liutprando non hanno successori; più non si scoprono se
non dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più tardi ogni
città ci presenta la sua biblioteca dì scrittori, i suoi poeti della barbarie
municipale, il suo Cimerò che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di
cento storie distinte diverse contradittorie, senza legame palese: noi lo
domandiamo, dove sarà la storia d'Italia? Le nostre proprie idee ci
danno il filo che ci guida attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impadroniscono
del suolo per interpretare la vittoria da essi riportata col Papato e
coli 'Impero; essi proseguono la loro guerra contro il regno, combattendo
ogni rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge, la forza,
l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei re; questo è lo scopo
loro; essi marciano contro il Papa e l'Imperatore per distruggere
nell'uno e nell'altro ogni principio che conserva le tracce dei Goti, dei
Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Europa. La storia dei comuni non è
dunque altro che la storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale,
e sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a combattere il vecchio
Papa e il vecchio Imperatore della barbarie, per creare un Papato, un
Impero ideale, donde spariscano in modo cosmopolita tutte le traceie
della dominazione delFuomo sull'uomo. Un grand 'errore ingombra la storia
d'Italia, ne sconvolge i prìncipi il moto le epoche il progresso, e
snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed è l'errore che la considera
come il racconto di una guerra continua contro il Papa e l'Imperatore
per conquistare l'indipendenza politica del governo o, come si dice in
oggi, per respingere l'invasione dello straniero. Sotto questo aspetto
l'Italia non sarebbe mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia
riuscirebbe a questa assurdità inammissibile: che dopo cinque secoli dì guerra
non avrebbe né raggiunto, né voluto lo scopo stesso della guerra. No! nacque
l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti, contro i Longobardi, contro i re
italiani provenzali e burgundi; nacque creando e interpretando il
gran patto della Chiesa coli 'Impero; dominò le stesse conquiste
carlovinge cogli incanti della religione e colla magia della
consacrazione imperiale: fino dai tempi di Teodorico la Chiesa e l'Impero
sono stati i simboli della sua libertà, della sua redenzione, di ogni sua
idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e nel possibile; e con
la costituzione dei due poteri essa ha organizzato una rivoluzione
permanente, universale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avvenire. Il
primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico è l'Imperatore, il più
debole il piii legale il piti federale dei re; il secondo suo capo è il Papa,
cioè il più inerme tra i principi, il meno conquistatore dei
sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suolo italiano, ed al contrario
il regno che era conquistatore venne schiantato con una guerra così
violenta che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi. Pertanto non
vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indipendenza; Il Pontefice e l'Imperatore
non avranno se non pochissimi soldati, sempre costretti a
fondarsi sulla forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti, si è
perchè sono oltrepassati dagli Italiani che vogliono riformare il patto» che
chiedono sempre un miglior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'essere
rifatto: nò punto reclamano una vuota indipendenza; ma sostengono una guerra
costituzionale intima organica per trasformare le idee le istituzioni la
religione, una guerra dove il principio di respingere gli stranieri è sempre
posposto al principio di distruggere ogni istituzione regia o feudale. E
se il Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se non come
conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle reazioni inteme che la
libertà provoca e sormonta, imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino
agli ultimi giorni del risorgimento italiano. La storia dei comuni, considerata
in tutta la sua durata, non è dunque la storia di una guerra contro lo
straniero, fatto unico materiale mille volte impotente; ma è la storia di
un fatto ideale organico sempre crescente: e poiché là dove le idee
regnano il caso non può regnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire
- e qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzione è la stessa
in tutte le città : da per tutto essa ha lo stesso punto di partenza la
caduta del regno, lo stesso punto d'arrivo il risorgimento italiano;
da per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla medesima
logica; lenta o rapida, squallida o splendida, vittoriosa o vinta, le sue fasi
sono determinate anticipatamente dall'inflessìbile destino che sforza i
principi a generare le loro conseguenze. Che i mille accidenti della guerra
turbino adunque l'Italia, essi saranno tutti travolti da una sola corrente; e
vi sarà sempre una storia ideale e uniforme, comune a tutte le
città da Ottone I alla flne del risorgimento. La storia ideale
della città italiana si ripete a un patto di Carlo Magno, che essa
interpreta e che trasforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore
noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tardo, se ne dichiarano
apertamente conservatori; la loro opera è sempre una restaurazione
imperiale e pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella storia? Noi
non ne conosciamo: gli antichi poteri che diconsi ristabiliti si trovano
sempre trasformati, e non trionfano se non accettando Topera del tempo,
e non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di
rappresentare i principi che la fatale ignoranza del governo tradizionale
lasciava ai loro nemici. Stessamente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro
restaurazioni così dette eterne, seguendo passo passo la storia delle
città italiane di cui amnistiano le ribellioni e accolgono le innovazioni. Egli
è giusto che resistano; se non resistessero la rivoluzione non avrebbe
nessuna ragione per manifestarsi e nel medesimo tempo la storia ideale si
fermerebbe. Ma egli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si ristabiliscano,
accettando il progresso che si è fatto strada e che passa allo stato di fatto
compiuto o di fato ineluttabile; ed è così che tutte le epoche della
storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Magno colla Chiesa. Una volta
nel patto, esse si ripetono in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse
il Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Occidente? bisogna
dunque che propaghino da per tutto le idee da essi rappresentate: d'altronde
tutti gli stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni
contro gli altri? devono quindi accettare ogni progresso, non foss'altro per
combatterlo. Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tutte le
rivoluzioni italiane; la legge che ne governa la varietà a prima vista
irreducibile di forme, e le costringe ad essere incasellate entro il
quadro di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il periodo
storico che il Ferrari ha studiato con più amore e trattato con più
larghezza i la storia an- t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è rispetdvamente
conaiderata come imrochizione e come epilogo alla epopea di quel che egli
chiama risorgimento italiano. Allontanato per sempre il perìcolo
d'una tirai^ nide regia colla rinnovazione del patto papaloimperìale e
col trasporto dell'Impero in Germania, r Italia che fln qui era stata l'alleata
dd Papa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma non per distruggerli,
bensì per riformarli, trascinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartiere
contro ogni rimembranza del regno. La rivoluzione dtì Vescovi apre
la serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd re^ gno ecco si
trovano di fronte due poteri : il conte goto longobardo o franco di
discendenza, che vorrebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia ddle mura
cittadine la tinmnide regia, che governa cdla legge ddla spada il popolo
di discendenza romana; e il vescovo romano di razza e di tradizione che
protegge i deboli contro la prepotenza regia del conte barbaro, aprendo
loro le porte del suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone
impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B. popolo si serra attorno
al suo vescovo, vuol essere giudicato dalla sua giustizia superiore a quella
del conte come la ragione alla spada, si appassiona per tutte le sup»*stizioni
dd cattolicismo voltandde come armi ideali contro le alabarde degli
sgherri comitali^ finché un giorno scoppia improwisame&ie una sollevazione
annata. Il conte si trova espulso, e nella città si comincia a sbozzare
colla formazione dd primo popolo raccolto dalla corte del conte e da
quella del vescovo Torganismo comunale italiano, che non è una derivazione
germanica o romana ma nasoe adesso oomh battendo contro le memorie del
regno. La rivoluzione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto>
ne delle città penetra nei feudi, ove sostituisce famiglie pie di tradizione
romana e avversa al regtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discendenti
dagli invasori ; conquista il Mezzogiorno pa^ ralizzato dalla confusione
bizantina dei due poteri, al seguito delie schiere avventurose dei Normasni; e
in RomB trionfa coHa libera elezione popolare e clericale di Gregorio VI
nemico dei conti e dei patrizi. Ma i centi espulsi daUe città
da un esercito d! straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'autorità
legale del loro supremo tutore, l'Imperatore, che vede oltraggiata la sua
legge; e Corrado II di GebeHno comincia la reazione contro i vescovi.
Invano : sconfitto da Eriberto di Milano, che oppone alla cavalleria
feudale le picche dei popolani raccolti attorno al carroccio novdlamente
creato, vede la sua reazione abortire nelle città e nei feudi deiritaUa
imperiale e in Roma, e deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano ddritalia
meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai seguito al ^an patto
carolingio: a lui quindi spetta di guidare la necessaria reazione contro i
Normanni rappresentanti meridionali del principio vescovile, i quali dopo
averto vinto sforzano S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione.
E cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e legalizzata la
rivoluzione italiana, come poteri europei la diffondono in tutta l'Europa; e
perfino ndla Chiesa, la quale si appassiona per la verginità mistica in
odio dei preti ammogliati, che profanano la sua repubblica immacolata con una
specie di feudalità clericale. Appena ottenuta la legalizzazione della
cacciata del conte, la rivoluzione entra in una seconda fase, continuando
contro i vescovi nominati dall'Imperatore che li incarica di sostenere la parte
dei conti, per strappare la libera elezione dei vescovi stessi e una volta
vittoriosa vuole la libera elezione del più grande dei vescovi, del Papa,
che l'Imperatore si arrogava il diritto di imporre. Il monaco Ildebrando
riunisce tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma ai papi
tedeschi, prima con l'elezione di Nicola II, poi con quella di Alessandro
II contro l'antipapa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul trono pontificio
assale per la prima volta la supremazia imperiale, e trasporta nella Chiesa la
rivoluzione vescovile compita predicando la crociata. Senonchè
l'utopia di Gregorio VII conteneva il germe d'una reazione pontificia
contro la libera elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto trasportare
dalle mani dell'Imperatore a quelle del Papa: cosicché al suo avvento gli
uomini della rivoluzione passano nel campo nemico; dichiarano che il Papa
non è il padrone della Chiesa ma, sottoposto al Vangelo alla tradizione
ai concili, è il servitore dei servitori, e può essere deposto se
manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra delle investiture che è la
reazione papaie-imperiale contro la libera elezione dei vescovi : i due
capi sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi interpretando con
mente retograda l'antica tradizione; ma i popoli al seguito dei loro
vescovi, come avevano atterrato il vecchio Impero sotto 1 colpi di
Gregorio VII, atterrano il nuovo Papato sotto quelli del nuovo Cesare
rigenerato. Le città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono imperiali
quando il Papa trionfa e pontificie quando l'Imperatore prepondera, e finiscono
col seguire l'alleanza imperiale sulle terre della donazione e quella papale
sulle terre dell'Imperatore. Roma determina l'azione di Gregorio VII
sulla Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV a resistere e
gli danno la vittoria nonostante la sua sciocca sottomissione di Canossa,
ma quando la sua vittoria diventa minacciosa disertano il suo campo e
rialzano il Papa; e continuano in questo gioco a rimbalzello Anche
riescono ad ottenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa e
l'Imperatore diffondono al solito dopo concessa a tutta l'Europa.
Anche la prima crociata cade sotto la legge della rivoluzione vescovile:
costituita coi quattro elementi della città italiana, la moltitudine il popolo
i consoli e i vescovi, altro non è se non Te spetrìazioae volontaria
della feudalità che lascia libera la terra alla giuriadizion^ dei
vescovi. Abbiamo dato un sunto diffuso di questo periodo per
offrire un esempio più chiaro del metodo interpretativo del Ferrari : ora
potremo procedere più rapidamente. Qi stati dell'Europa non avevano
ancora compita la prima metà della rivoluzione dei vescovi che nelle
città italiane dov'era nam essa era assalila da una nuova rivoluzione, nei
principi oscura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalosa c^ tuid i vescovi
della cristiania ne erano scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei
Couso^ 2ipassava anch'essa per due tesi: prima sostituiva il
governo vescovUe ed governo consolare; poi scatenava le une contro le
i|kre città consolari, divise in due campi per conquistarsi con la guerra
una più larga libertà dentro il patto papaie-imperiale. Nella città
vescovile il vescovo essere religiosa e u-asmondano si trovava a capo
della moltitudine, agitata da tend^ize industriali e commerciali completamenie
mondane ch'egli non poteva soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione
nasce rifisurrezione : la città si muove prima conservando le apparenze
dell'obbedienza, poi rinnova le sue istituzioni e crea un nuovo popolo
più allargato e democratico chiamato a legiferare nd parlamenti che, col
tradizionale intervertimento di aUeanze nemico del Papa negli stati della
Chiesa e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, assale il diritto
del regno a nome nel risorto diritto romano. La. immancabile
reazione pontificia e imperiale procedeva questa volta unita : Innocenzo
II e il suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cattolica tedesca
allora vittoriosa nellimpero, secondo la formula generale di tutte le reazioni
opponevano il passato sempre vivo in essi al presente da cui erano assaliti ; e
combattevano i consoli fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed altra volta
si ardentemente invocati dai popoli, ma non riuscivano che ad ottenere la
fatale sconfitta. Ed ecco che appena vittoriosi della duplice reazione
i consoli spingono le città le une contro le altre in quella guerra
municipale, che fa la maraviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con
le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fratemo. E' questo uno dei
misteri più profondi della storia ditalia: la guerra municipale non si
spiega né colla volontà del Papa e dell imperatore, nò colla lotta fra i due
capi della cristianità, nò colla duidità geografica di Roma e di
Pavia, nò colle vertenze fra i diversi distretti, né colla HbeDione
dei castelli. (Riv. d'Italia): Guardiamo alla terra dove sorgono le
città libere : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da una
rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vescovi ha disorganizzato il regno,
ne ha paralizzata la capitale, lìia isolata, ha degradato le città
militari che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro funzioni
strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri secondari che erano padroni delle
vie dei fiumi del commercio di tutto. Le città romane sono state rialzate,
opposte alle città militari; restituite all'importanza naturale che loro davano
il conmiercio, la ricchezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizioni
diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero della civiltà. Ne nasce che la
terra è dualizzata in ogni parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate
tutte le città le une contro le altre: ogni centro militare si
trova in presenza di un centro romano a lui ostile; Tuno declina, l'altro
s'inalza; l'uno immiserisce, l'altro prospera; l'uno langue, l'altro risorge.
Nell'era dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora
apparente, la legge imperiale e pontificia regna ancora, la guerra si
dissimula; e se i conti sono congedati, la metà della gerarchia sussiste ancora
col vescovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e non vedonsi
che lotte momentanee. Eriberto di Milano non combatte le città dei dintorni se
non per ordine dell'Imperatore. Ma nel momento dei consoli la
disorganizzazione vescovile del regno si fa laica, la dualizzazione delle città
diventa economica: più non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizioni
ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchezza, i fiumi, le strade, i
transiti trasformati in istrumenti di prosperità o di miseria; il mercante, il
fabbricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessuna gerarchia, nessuna
diplomazia superiore che raffreni le rivalità; non i giudici per decidere
sulle vertenze, le città devono giudicarsi da sé. Esse sono in contatto
immediato; il contatto diventa lotta, la rivoluzione dei consoli diventa
guerra si potrebbe forse evitarla? Guardiamo sempre la terra. La rivoluzione dei
consoli si sviluppa sul fondo stesso della prima rivoluzione dei vescovi,
per raddoppiare la disorganizzazione del regno e la degradazione delle città
militari. Questa degradazione è fatta dal commercio, dall'industria; diventa la
miseria dei centri regi, la prosperità dei centri commerciali : i
primi son condannati a difendersi sotto pena di morire, i secondi combattono
anche prima di dichiarare guerra perchè basta loro il vivere il
progredire per spegnere le città dell'antico regno; esse assorbono
t frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse rifanno tutte le
strade tutte le comunicazioni al rovescio del sistema militare, esse
sostituiscono alla strategia regia quella del commercio che procede lenta
sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci. Come
resistere loro se non colle armi? Ecco l'ostilità dichiarata: ogni città
militare lotta colle armi, coll'astuzia, con tutti i mezzi della
politica; tutti soa buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la
patria. Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della libertà e della
civiltà contro le città più libere, più civili; si spingeranno alla
ribellione i comuni intermediari promettendo loro l'indipendenza; si
tenterà di smembrare le città romane, di attorniarle con borghi insorti,
di disorganizzare questo centro di disorganizzazione e ne nascerà l'aff
razionamento dell'aff razionamento, la guerra della guerra. Fin qui
abbiamo considerata solo la natura del suolo: e l'abbiamo trovato friabile,
inconsistente, disposto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in
tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sotto la pressione del Papato e
dell'Impero. Prendiamo ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che
la guerra deve raddoppiare d'intensità. Qual'è la circoscrizione della
terra ove sorgono i consoli? La città vescovile si ferma ai corpi santi ;
pivi oltre tutto è occupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è cosa loro,
l'irradiazione popolare della prima rivoluzione ha dovuto soffermarsi nei
limiti determinati dall'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono
forse rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuovo popolo, del
doppio più potente coll'avvenimento ddrinéttstrìa e del commercio, due
volte più ricco grazie alla sua attività che moltiplicandosi
trabocca oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinnovano i
bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del conume, le fortezze, i cimiteri;
la città s*adoma, s'ingrandisce e più non può capire nel proprio territorio, e
segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i suoi sbocchi: dei pedaggi
altre volte insignificanti intralciano il corso delle merci, dei villaggi
un tempo inosservati le tagliano le comunicazioni; la città smania di
estendersi, di svincolarsi dalle sue pastoie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e
Genova, die si trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fondano
delle colonie consolari; ma per le città delFintemo non hannovi terre vacue, la
campagna appartiene alla feudalità, tutte le giurisdizioni son armate, i
confini sono spietati e le città si gettano sull'unico spazio che sia vuoto,
sullo spazio della rivoluzione consolare. Ogni città che si governa
coi consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura stessa del
consolato, e si presenta come la preda naturale del nemico che l'osserva; essa
è res nuUius: 9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed
ogni città, ogni borgo aspira a diventare una capitale; la guerra deve durare
fino alla liquidazione generale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere
rifatta per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore animati da
sentimenti patemi e da benefiche intenzioni; supponeteli sempre pronti a
intervenire per predicare la pace l'unione la concordia; supponeteli abbastanza
forti per ottenere innumerevoli conciliazioni,per riparare mille torti, per
render giustizia agli oppressi; supponeteli protettori, conservatori
come devono essere secondo il dato primo del Papato e dell'Impero:
le città riporteranno vittorie che non saranno vittorie; le-sconfitte non
saranno sconfitte; nessuna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto ottenuto
un vantaggio bisognerà rialzare le torri spianate, ricostruire le mura
smantellate, riedificare le città incendiate, restituire il territorio
conquistato; e alla partenza del Papa deirimperatore e dei loro delegati, le
cause della guerra sussistendo ricondurranno le città al combattimento; si
rimarrà per secoli a battagliare in una casamatta, ai piedi di un bastione,
sull'orlo di un fosso - per riportare mille vittorie inutili, per subire mille
sconfitte sempre riparate. La guerra municipale che rimane dentro i
confini della regione viene quindi ridotta al dualismo delle città
militari e delle città romane costrutte le une a controsenso delle altre
: di Milano e di Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Verona la
prediletta di Teodorico, di Bologna e di Ravenna la capitale di Odoacre,
di Firenze e di Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle città latine
: anche il regno di Napoli si toglie all'analogia degli altri regni per seguire
la legge delle città italiane, funzionando come una gran città
cambattente con Palermo contro i rimasugli federali dei piccoli stati
greco-longobardi. Questa guerra che oggi si considera come un
disordine odioso era nel secolo XII un progresso, una rivoluzione, il
primo passo delle città per determinare i loro confini a nome della propria
libertà insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdizioni.
Intanto Fed. Barbarossa,capo della rivoluzione vescovile in Germania, si
propone di combattere in Italia la seconda fase della rivoluzione consolare,
sopprimendo la libertà della guerra municipale che insulta alla sovranità
dell'Impero: e A. PrrraRI Giuseppa F. la sua reazione subisce
vicende diverse secondo che si muove sulla terra delPantìco regno o
su quella del Papa o del regno normanno. Nell'Alta Italia diventa
capitano municipale delle città romane, manovrante da bandito con
l'uniforme d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra la
conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle città che lo secondavano
nelle prime discese, vinto dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e
dalla fondazione d'Alessandria, accorda il diritto alla guerra sanzionando nel
trattato di Costanza le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia di
Legnano non è dunque una lotta repubblicana e nazionale dei liberi comuni
contro l'Imperatore tedesco (1); ma una lotta fra le città romane guidate
da Milano è le città militari guidate da Pavia, per ottenere dentro la gran
giurisdizione dell'Impero la libertà della guerra. La nuova
rivoluzione, appena legalizzata dalla duplice repubblica europea del Papa
e ddl' Imperatore, si diffonde dappertutto dando ad ogni nazione dei
governi con missioni consolari : perfino nella Chiesa, che assalita da ogni
parte prende al rovescio i suoi nemici colle creazioni consolari dei cardinali,
dei concili, dei nuovi ordini francescani; e sostituisce la conquista
vicina dell' Inquisizione alla conquista oltremarina della Crociata, e la
scolastica di S. Tomaso e S. Bonaventura all'indisciplina dei Francesi e dei
cappuccini. Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,
Macmillan, Non si dichiaraTano prìncipi repubblicani, né si faceva appello alla
nazionalità italiana. La terza grande rivoluzione italica prende nome dai
Cittadini e Concittadini e pa9sa per le fasi della guerra ai castelli e della
guerra cittadina che provoca la creazione del podesta. La città
consolare, la quale non è altro se non un'oasi in mezzo alla foresta
feudale del regno che copre ancora tutta la campagna inceppando il
libero espandersi del commercio, una volta ottenuta la libertà della guerra
riflette che le città rivali sono troppo radicate alla terra, mentre i nobili
della campagna si presentano come vittime facili; e volta contro di loro
l'impeto irresistibile della sua espansione economica e politica. Le
città romane specialmente combattono con furore contro la moltitudine dei
feudatari che le accerchiano impedendo loro il respiro; e questa ultima
rivoluzione che estende la libertà alle campagne si presenta come la
conclusione della gran guerra contro il regno, distrutto nelle sue sopravvivenze
campagnole dei castelli. Nella Bassa Italia, che funziona come un gran
municipio, la guerra ai castelli si confonde con la continuata guerra
municipale di Palermo contro gli antichi centri, ultimi nidi di feudatari di
sangue longobardo sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.
La soluzione della prima fase, vittoriosa della reazione, apre una
nuova lotta. I castellani, naturalizzati e deportati per forza nel cuore
della città che loro impone l'odiosa legge dell'uguaglianza, si vendicano
costruendo delle fortezze inteme, armando i loro servi, conquistandosi coil'oro
la moltitudine che voltano contro il popolo e ricominciano un
combattimento che come quello fra città e città non può finire ; perchè il
denaro è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la finanza colla
finanza : i proprietari della terra (concittadini) sono almeno forti come i
possessori deifabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Imperatore si
presenta ai cittadini e ai concittadini per riassumere ed eternizzare il
loro combattimento: con la solita interversione d'alleanze i cittadini
dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli di Roma e delle Due Sicilie
invocano l'Imperatore; al contrario i concittadini dell'Alta Italia seguono
l'Imperatore, mentre quelli della Bassa Italia invocano il Papa contro
Palermo. I torbidi continui, le prese d'armi improvvise,
l'anarchia imperante, conducono alla creazione di un nuovo governo : i
consoli nella loro qualità di capi dei cittadini come parti in causa non
hanno quell'autorità imparziale che possa giudicare i due partiti,
e lasciano il posto ad un nuovo magistrato nel tempo stesso giudice e
capitano, ad una specie di dittatore annuale che si chiama podestà. Preso
all'estero e quindi superiore ai partiti egli stesso giudica e applica la
sua legge con potere discrezionarìo ma spirato il suo mandato è
sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è condannato a multe a prigonia e
talvolta alla morte. La reazione immancabile questa volta si semplifica.
Il Papa è il protettore delle città romane del Nord, T Imperatore è lui
stesso il gran podestà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non
opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero, mentre la reazione
pontificia non percuote che i popoli della Chiesa. Federico II assale
qua! console della Germania i podestà della Lombardia, diventa capo dei
concittadini delle città romane e dei cittadini delle città militari; ma
dentro al laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si trova
impegnato in un combattimento a cui l'equivalenza delle forze non permette
nessuna soluzione ed è costretto a riconoscere col fatta della guerra
interna la nuova rivoluzione. (Riv. d'ItaUa): Visto da lungi
nella confusione del XIIl secolo, Federico inganna gli storici col suo
doppio prestigio di console della Germania e di podestà delle Due Sicilie,
e vien considerato come un essere onnipoten-^ te che avrebbe potuto fare
Tltalia come voleva; e la poesia, che segue le grandi figure della storia
per trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le sue
utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende silenziosamente il dito
sul gran Federico, quasi abbia seco perduto non si sa qual misterioso
destino d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebelini,
condannati alla demenza delle reazioni impossibili : il fatto della sua
sconfitta non ammette né pentimenti né correzioni; egli resta qual'è nel suo
tempo nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mille geroglifici che la
stenografia della storia traccia con la rapidità del lampo per un'eterna
immobilità. Utile al Mezzodì, l'ultimo degli Hohenstauffen non poteva né essere
il podestà dell'alta Italia, né equilibrar runa coll'altra le due regioni
del Mezzodì e del Nord, né reggere tutta la penisola con un potere di screzionarìo
e profressivo; le nozioni stesse di compensi, di equità giudiziaria, di
discrezione politica o di despotismo beneflco erano anticipatamente eliminate
dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni delritalia, che si svolgevano
diverse variate affrazionate da cento stati contradittori, la cui suprema felicità
era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male fatto a Firenze non era
compensato dal bene fatto a Lucca, un'umiliazione di Milano non
toglievasi con alcuna indennità concessa a Pavia... (1) Un podestà unico
regnante a Palermo a Roma ed a Milano; un regno unitario improvvisato ed
esteso a tutta la penisola; una sola dominazione imposta d'un
tratto all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai marchesi, ai
cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede sarebbe stata come una
montagna sovrapposta a tutte le montagne, una devastazione inaudita di tutte
le libertà, una esagerazione iperbolica del regno dei Longobardi,
un cesariato neroniano che avrebbe d'un tratto fermata e inaridita la
civilizzazione dell'Occidente. E come mai l'uomo che non poteva evitare
la sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto riportare una simile
vittoria? Dove avrebbe preso le sue fòrze? I suoi stessi pensieri
partivano dal basso come la libertà generale... Al certo l'elevazione non
mancava a Federico; e fissando lo sguardo su lui, a traverso i delitti
della corona, lo spettacolo dell'Impero e la commedia estema delle pompe, si
scopre quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sempre m tutte le epoche
della storia ; nel momento delle grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello
spasimo Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di
Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* N*to in un secoio di disordini e di contradiùoDi
le quali spesso in Ini si pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare
regioni cba come hi G^mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero
richiesto una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura opposto,
più volte egli disfece con una roano ciò che aveva costruito con 1'
altra. del dolore dimenticavano un istante di essere tribuni re
imperatori, per chiedere alla natura e agli astri se può darsi un esito
ragionevole alle pazzie deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti
dell'Islamismo, per cercare delle verità che la sua religione gli vieta
di conquistare; li turba colle sue orgogliose interrogazioni su Dio,
sull'anima, sulla provvidenza, sulla vita futura. Qualche volta,
stomacato dalla furberia dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un
califato d'occidente, col quale la ragione gli renderebbe la metà del potere
ceduto da Carlo Magno alla Chiesa. La tradizione profana lo segue appassionatamente
e, guerreggiando con le calunnie cattoliche, gli attribuisce confusamente il
pensiero di voler regnare quale podestà delle tre religioni che si
contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Gesù Cristo e Maometto sono i
tre grandi impostori dell'umanità, che ingannano i mortali, che seminano
sulla terra il furore delle crociate, che bisogna domarli e dominarli; e che ci
dev'essere qualche cosa ad essi superiore, non fosse altro un etemo
sonno, per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli ebrei
dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo disprezzo per i commedianti
di Roma, nel suo amore per i Romani e per i castellani minacciati dal fuoco
della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli ad una rivoluzione
religiosa; nel mentre che numerosi insensati si attendevano a vedere
trasformato l'universo da un incanto che rovescerebbe la tirannia
imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero arbitrio del
pensiero, che si fa strada in mezzo alle più astratte possibilità, non
serve che a rivelare di rimbalzo tutta la forza della fatalità.
Sciagurati i Cesari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di
parere ancora più religiosi degli altri; devono imporre il silenzio
l'obbedienza la cecità, e farsi ipocriti impostori e persecutori di ogni
filosofia; perchè la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti
i suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli di
miracoli questo è il suo pasto; e non
sacrifica i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le promettono
con maggior energia di continuarne gli errori. Podestà occulto di tre
religioni, Federico IIgemeva sotto il peso occulto di una filosofia che
lo condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cattolico, ad
abbruciare gli eretici e a disprezzare l’umanità. Viceversa nel regno
delle Due Sicilie la reazione è guidata dal Papa, che come console dei concittadini
del Mezzodì assale con le armi della rivolta federale e della superstizione
cattolica il suo vassallo Federico 11 supremo podestà, ma è vinto
nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta Italia. E la sua sconfitta si
ripetè a Roma, che organizzata a forma repubblicana lo obbliga a cedere
di fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà bolognese. La libertà della
democrazia della sedizione e delle battaglie si svolge in tutta l'Italia
proclamando il grande interregno, e si diffonde per tutta l'Europa e
anche nella Chiesa dove i dottori combattono come cittadini e
concittadini prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa diventa il
giustiziere universale di tutte le dissidenze presenti passate e future come un
podestà mitriato. Vili. Ma nemmeno il podestà poteva
durare sulla Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa
posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208.
scena un tempo maggiore di quello concessogli dal fato della rivoluzione^
la quale entrava nella nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si
divide in periodo delle sette e dei tiranni, al momento in cui la guerra
civile straripava al disopra del governo pacificatore e i
combattenti disprezzavano gli ordini del podestà. Chi sono questi furibondi che
si scannano a vicenda proprio adesso che il grande interregno li
libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi di adorare il loro Papa,
ai Meridionali di venerare il loro Imperatore? Essi non derivano dal Papa
e dall'Imperatore non sono altro che le due sette dei cittadini e dei
concittadini che rinascono con duplicato furore, per darsi delle sempre nuove
battaglie al seguito della quale una metà degli abitanti deve prendere la via
dell'esilio. I cittadini delle città romane sono guelfi, all'opposto dei
cittadini delle città militari di Roma e del Regno delle Due Sicilie : i
concittadini delle città romane sono ghibellini, mentre quelli delle
città militari di Roma e del regno sono guelfi. Con una guerra tutta
sociale» figli di una stessa città, essi combattono per conquistarla non
per distruggerla; riconoscendo per la prima volta l'unità i Cfr. Volpe
: Pisa, Firenze e Impero in Studi storici. Pisa: I-e varie cagioni delle
lotte interne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di Papi e di Imperatori, e
indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di proprio quando si mescolano
nelle gare dei comuni: quelle preetistono a queste e sono le vere arbitre della
storia d' Italia del Medio Evo, a cui le due podestà servono pur
illudendosi di comandare. deale della nazione si stringono in
alleanza coi settari del loro stesso colore, onde tutta la penisola è
corsa come dalla rete di una circolazione di vene e di arterie moventisi
a controsenso. Pari è la forza degli interessi, pari la forza delle idee; la
lotta adunque nel complesso della nazione è eterna e senza soluzione come
una antinomia metafisica; ma prende possesso delle contradtzioni della
guerra municipale, secondo la legge che dopo una minore o maggiore
alternativa di espulsioni fa inclinare sempre la vittoria a favore dei
cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle città romane, dei Ghibellini
nelle città militari. Essa allarga ancora la libertà nazionale dentro il
patto di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo più numeroso
dilatando la democrazia, e mira a creare secondo il tipo ideale formatosi con
la generalizzazione delle sue due tendenze una nuova Chiesa democratica e un
nuovo Impero legale. Minacciato dalle due sette che fanno
traballare il suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se non
facendo un passo indietro per fermare la rivoluzione, chiamando Carlo d'Angiò
alla conquista della Sicilia affinchè domini come un podestà imparziale
sulle sette italiane. Ma Carlo diventa guelfo prima d'aver visto l'Italia
e la reazione papale è sconfitta. Questo orribile sconvolgimento è
rivoluzionario, cioè benefico e liberatore : dirocca innumerevoli
castelli sfuggiti alla guerra consolare, estende la libertà alle arti ai
mestieri alla plebe, compensa il decadimento delle città militari col
fiorire delle città romane arricchite dall'industria e dal commercio, rivela
attraverso il collegamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e dà
due linguaggi due poesie due nuove religioni all'Italia. Il francese,
lingua guelfa adottata dall'aristocrazia popolare delle città romane,
bilancia l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Federico II e di
Manfredi, artificiosamente scelto dai dialetti di tutte le città ; finché
viene a trionfare la nuova lingua guelfa della democrazia di
Firenze. Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso
nella seconda fase dei tiranni. Il tiranno è il capo di una delle due sette che
gli concedono un potere dispotico sacrificando la loro libertà quasi
feudale nell'interesse della vittoria: esso compensa la violazione di
tutli i diritti acquisiti coi favori prodigati alla moltitudine e colla
condotta vittoriosa della guerra estema, e per la prima volta rappresenta
la terra sotto una forma individuale. Ma, capo di un partito destinato
dall'equilibrio delle forze ad alternare te sconfitte con le vittorie, si avvia
anch'egli ad una catastrofe certissima. Le città che non entrano nell'era dei
tiranni si contorcono nelle angosce della guerra civile non ancora disciplinata
imbrigliata e mitigata, e in ritardo di una generazione nel corso della
civiltà sono sorpassate dalle rivali come Firenze che rifiuta un tiranno guelfo
in Gian della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni
stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul tiranno di Napoli.
Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione opponendo la guerra pura e
semplice all'ordine nasceme delle tirannie, per suscitare attraverso alla
penisola un ondulazione guelfa che distrugga le tirannie ghibelline ; e
ricorre a Carlo di Valois. Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in
tutte le città i Guelfi si trovano senza capi senza riputazione senza
potere e disonorati dall'invettiva immortale della Dmna Commedia. Invocato
da Ghibellini d'Italia arriva infine Arrigo VII, che in ritardo come la sua
patria di due rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibeliino; e
guida quindi una reazione opponendo ai furori delle tirannie la
pacificazione sorpassata del podestà. Ma appena messo il piede sul suolo
fatale ditalia, come i suoi predessori vien preso nell'ingranaggio
politico delle inimicizie, costretto a diventar ghibellino, e muore
sconfitto e si dice avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buonconvento,
dopo ruminazione di Roma e l'affronto di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei
tiranni penetra infine nel patto di Carlo Magno colle teorie antitetiche di S.
Tomaso e di Colonna, di Tolomeo da Lucca e d’ALIGHIERI (vedasi), che propongono
come stato modello gli uni la tirannia guelfa gli altri la tirannia
ghibellina. La Divina Commedia è la grande epopea della tirannia ghibellina
trasportata nell'universo soprannaturale, dove Dio sostiene la parte del
tiranno supremo; Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della rabbia,
dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^ prema di salvare il genere
umano ; che da per tutto immola sacrifica consacra i Guelfi del suo tempò ad
una eterna infamia, pur accettando tutta la democrazia guelfa del
passato. La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta l'Europa ;
si riproduce nella Chiesa grazie a Bonifacio Vili e ai suoi successori
d'Avignone; penetra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghibelline dei
domenicani tomisti e dei francescani scottisti, nelle scuole coi realisti
e nominalisti, e perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar
gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni dell'inferno. A un
certo momento il tiranno s'accorge che per regnare deve sfuggire alle
ondulazioni guelfe e ghibelline, stabilendo il regno
dell'imparzialità col disarmo colla corruzzione o con la
distruzione dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse dell'agricoltura
dell'industria e del commercio che vogliono ora la pace. Il reggimento
repubblicano già compromesso dai tiranni viene quindi abolito dai Signori che
regnano da despoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di traverso
al Papato e all'Impero senza prenderli mai di fronte; finiscono le guerre
ai castelli e le guerre municipali fin qui insolute, dando predominio
alle città progressive romane; si estendono colla forza della necessità,
migliorando la sorte delle città conquistate trattate coll'imparzialità usata
verso le due sette; e sempliflcando la geografia delle due Italie, utilizzano
ormai direttamente il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel Nord
quasi ghibellino (Avvento dei Signori). Traviati derisi traditi
dalla giurisprudenza che dimostrava in qual modo si poteva vivere
nello stesso tempo nei due campi o passare sapientemente da un campo
all'altro; i Guelfi e i Ghibellini non avevano altro mezzo che d'invocare
^ uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno dell'Impero,
per disfare con una reazione generale le nuove costruzioni delle signorie
imparziali. Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre
reazioni, una papale una imperiale e una combinata, penetra nel patto di
Carlomagno, mentre i giureconsulti proclamano per la prima volta la sovranità
popolare di ogni nazione astrazion fatta dalla Chiesa e
dall'Impero. Nella seconda fase della Prosperità dei Signori a
regno dei furfanti benefìci si propaga in tutte le città : le terre più timide,
i centri più disgraziati, i villaggi più infelici vogliono crearsi dei
capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni città prende definitivamente il
posto che le era stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione
del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulanza di Verona, l'inferiorità
della Toscana e del Mezzodì. La signoria di Milano era
frattanto giunta a tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la
reazione di una federazione repubblicana pontificia e imperiale, in cui le
città minacciate dalla voracità dd Biscione si alleavano coi poteri retrogradi
per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava a sé i suoi capi
retrogradi e la reazione finiva colla catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo
IV alTimperdonabile bassezza di farsi mercante di dijplomi; e col gran scisma
della Chiesa divisa fra Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savoia,
che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la ragione individuale dalle
catene della religione. La terza fase del periodo dei signori è
dominata dal dualismo fra Milano e Firenze. Un nuovo progresso inalza
Milano, dove per cancellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche
Galeazzo tradisce Barnabò suo zio. L'ambizione illumina i cronisti
milanesi e suggerisce al Mussi Tidea di sopprimere la dominazione
temporale della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica signoria dei
Visconti. Ma quest'idea trasforma la signoria milanese benefica e
rivoluzionaria lungo il suo raggio legittimo in un flagello per il
resto della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la liberta le
leggi le tradizioni e le federazioni dei popoli italiani. Da
quest'istante tutti i fenomeni della nazione si spiegano col contrasto
fra Milano e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuole dei
cronisti. Ma la vera Italia si trova superiore al contrasto, rappresentata dal
Petrarca da Bartolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo a
profitto dei moderni e impersonano l'empietà del nuovo scisma: l'uno
conciliando ogni contradizione col suo classicismo accademico feroce solo
contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando ' le nazioni dal gran
patto papaie-imperiale per mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le
imposture del Medio Evo sotto le risate della sua novella federale. E*
questo il momento in cui la bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei
vescovi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia Dimenticata fino dalla caduta
del regno, appena frammista qua e là alle battaglie lombarde e friulane
come una terra secondaria e affatto straniera, quasi sconosciuta al Papa e
all'Imperatore non meno che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta
d'un trattò ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di simboli,
simile ad una nave d'alta velatura che sarebbe entrata nel porto durante la
notte, di ritomo da un lungo viaggio nelle regioni favolose
d'Oriente. La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove
tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore riprendono il loro
atteggiamento naturale; e la Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica
fra i sostenitori dell'individuo e quelli del genere, per diventare
ciceroniana ed eclettica ad imitazione del Petrarca. Le conquiste
sociali e politiche della signorìa vengono adesso minacciate dalla Crisi
militare. I signori avevano composto i loro eserciti di mercenari per disarmare
i Guelfi e i Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizionalmente
antimilitari; ma poiché, affascinati dal demone della conquista vogliono
mantenere eserciti superiori alla loro potenzialità economica, finiscono per
fallire e per cadere in balia della plebe irritata e dei soldati insorti. La
crisi si compie in tre tempi : prima la plebe insorgendo contro il flagello
della miseria distrugge la signoria, risuscitando le forme politiche
sorpassate della repubblica o della tirannia ; poi vedendo che quella
libertà la ripiomba nelle demenze del passato accetta una nuova signoria,
che limiti le sue ambizioni conquistatrici al raggio legittimo consentitole dai
suoi mezzi finanziari. Il signore cosi ritemprato da una nuova
consacrazione plebea si trova adesso di fronte al condotdere capo
di una signoria volante di soldati su d'un territorio che non può
sostenerli tutti e due, bisogna che uno scompaia : ora è il condotdere
che diventa signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa che
toglie di mezzo il condottiero come Venezia fa del Carmagnola. La
garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora in mezzo alla derisione
universale di tutti i principi, conserva tutto il lavorio dei secoli precedenti
: la federazione italiana si semplifica colla vittorai dei gran centri romani
sulle città militari e le dualità invincibili; detronizzando diciassette
dinastie e distruggendo diciassette indipendenze inutili, uccise dai poveri e
dai plebei secondo la gran legge che da Carlomagno in poi sacrificava
l'orgoglio della nazionalità alle necessità della democrazia, perchè la fame è
superiore all'ambizione delle monarchie e delle repubbliche.
Indipendenti A. Ferrari Giuseppe Ferrari. nel fatto dal Papa
e dall* Imperatore le signorìe secolarizzate si uniscono nella cdebre lega del
1484, in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, dichiarando di
assoldare un condottiere a spese comuni, stabiliscono il principio di tutte le
federazioni : di formare uno stato solo contro al nemico benché ogni stato
resti distinto e sovrano nel proprio territorio. Le reazioni di questo
periodo sono appena accennate e non servono che a confermare la
rivoluzione flnanziaria. La quale si riflette nelle lettere, dove si ha
prima la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere delle opere originali con
Lorenzo col Poliziano e col Pulci, che malizioso come un signore liquida
il Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del Papato e
dell'Impero. E penetra inflne nella Chiesa la quale, assalita dalla ribellione
federale del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi tazione di tutti gli
stati mostrandovi le scintille d'un incendio universale di democrazia,
che presto avrebbe divorato tutti i re e i dottori protettori della libertà e
delle riforme; inventa la visione beatificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e
il purgatorio ; e fa adorare un Dio che vende le indulgenze per rendersi
visibile nei capolavori dell'arte. L'Italia aveva fin qui squassato la
face ideale della rivoluzione; marciando alla testa della civUtà essa
creava man mano le nuove forme politiche. che diffondeva per mezzo
del Papa e dell imperatore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che
durante il periodo della Decadenza dei Signori la civiltà trasporta i
nuovi centri incendiari in un'altra nazione; e la Francia chiamata da Ludovico
il Moro straripa improvvisamente con una espansione militare nellitalia,
la quale sorpresa da questo imprevedibile progresso è costretta a
difendersi restaurando il Papato e l'Impero che l'astuzia dei signori
aveva quasi esiliato, e resuscitando le forze indigene delle sette
guelfe e ghibelline che il tradimento dei signori aveva addormentato. Il
meccanismo politico cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che trasmetteva
all'Europa l'impulso delle sue sempre nuove forme politiche per mezzo dei
poteri europei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror pa che, mossa
da un'altra nazione, per mezzo del Papa e dell'Imperatore trasmette il
progresso allitalia. Succede un altro passo indietro quando l'Italia è
costretta a mettere il Papa e l'Imperatore sotto la Spagna per difendersi
dall'insurrezione germanica e federale di Lutero contro le sue rivoluzioni,
contro la sua civiltà passata attaccata nel Papa ; che rappresentava tutto il
suo lavorio religioso, la sua supremazia mondiale e che era pure uno dei due
membri della federazione europea da essa creata (Riv. d'ItaUa)
r Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia: Finiva V età del primato
(qualunque fosse) d* Italia; iocominciava quella dei primati occidentali di
Spagna, poi Francia, poi Inghilterra. L'eresia che aveva
serpeggiato nel Nord fra le due patrie di Huss e di Wicleif reclamava
anch'essa la sua espansione; le regioni che avevano respinto il
giogo della centralizzazione dell'antica Roma si levano con nuovi Arminii, per
respingere con le forze invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che
era sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i popoli la cui
antica barbarie aveva imposto le sue federazioni nomadi ai Cesari, opponevano
le nuove federazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di Roma e al
Cesare guelfo dell'Austria. II Nord dell'Europa sorgeva dunque alla voce di
Lutero; ed 0gni individuo, diventato libero nel fòro intemo della propria
coscienza, formulava cento gravami contro la monarchia del . Pontefice e
contro le rivoluzioni d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque
contro la prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia aveva
divinizzato i preti i vescovi e il loro capo ; contro il prestigio magico che
essi avevano messo negli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e delle
reliquie a confusione dei barbari; contro la santificazione dell'antica
capitale con una gerarchia misteriosa che aveva umiliate tutte le città regie;
e contro la superstizione incendiaria che aveva dato all'ordalia,
all'altare e all'acqua benedetta il potere di sottrarre i delinquenti ai
tribunali ed i popoli ai re. Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni
di Carlo Magno : né la separazione dei due poteri ; né la donazione che
faceva della Chiesa una potenza politica; né la penitenza che metteva i suoi
giudici al di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra
di tutte le sentenze; né la liturgia che propagava il culto col fascino
dei canti, delle pitture, delle sculture sconosciute alla Chiesa primitiva; né
il purgatorio che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'inferno, per far
luogo agli incanti delle preghiere clericali; né in una parola il pontefice che
arrivava all'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi della
giustizia divina e proconsole di tutti i proconsoli istituiti sotto il nome di
primati. La devastazione luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni
posteriori : e proscrìveva dell'era dei vescovi il celibato dei
preti e tutte le riforme che fornivano armi spirituali temporali ali*
unità pontifìcia; dell* e> ra dei consoli gli ordini mendicanti, le
feste imponenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnante e rimplacabile
inquisizione; delfera delle due sette i tomisti e gli scottasti, le
ecceità, i flatus vocis, le dotte puerilità che profanavano Dìo
trasformandolo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo dei
signori il culto nell'atto stesso capriccioso, materiale, e abbandonato al
despotismo della frase ai periodi ciceroniani e al pennello di artisti
sostituiti alrinsegnamento degli apostoli; del tempo della crisi
fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti i delitti e che
consisteva nel vendere le preghiere le assoluzioni le indulgenze le
dispense tutto, per far denaro con una religione già materiale, e per
moltiplicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli di Crìsto
quelli delle nove Muse. Non si voleva più ascoltare l'oracolo di Roma, le
coscienze si rivoltavano contro la sua religione, le intelligenze contro
i suoi dogmi, il pudore contro la sua morale. L'ira generale
denunciava il sacerdote giudice confessore inquisitore funzionario e
papista come un nemico del genere umano. Si chiedeva di vivere in una chiesa
dove, ogni uomo diventato il proprio pontefice, la religione incatenata
al senso letterale della Bibbia, tutto l'andamento divino ridotto alla stessa
legalità di questo documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivoluzioni
italiane sarebbe definitivamente abolita come una epidemia satanica, e
tutta la signoria di Roma maledetta come un sacrilegio commesso contro la libertà
del Vangelo. L'Italia non era mai stata più violentemente oltraggiata : i
Longobardi avevano rispettato la civiltà romana, i Goti di Teodorico l'avevano
protetta Lutero la fulminava; e se prima di lui si era declamato contro
la nuova Babilonia, le si attribuivano adesso come delitti non solo i
suoi vizi e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magnificenza.
Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1* Imperatore che rappresentano
le loro rivoluzioni legalizzate, e questi si mettono sotto la protezione della
Spagna per resistere al federalismo protestante dei luterani; mentre i signori
rinunziano alla lega del 1484 che aveva congedato silenziosamente il Papa
e l'Imperatore, e la nazione rinnova per un'ultima volta il patto di
Carlo Magno colla Chiesa. La restaurazione di Cario V non era una
reazione: delle rivoluzioni italiane rispettava nitto il lavorio geografico e
sociale, ben differente dalle reazioni anteriori che pretendevano farlo
ren*ogradare; essa venne quindi accettata. Leone X riassume e sviluppa la
grandezza dei suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tempo si
burlano della Chiesa e dell'Impero. L'arte e la scienza trasportano nel campo
ideale la rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette
l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tempo deride ed ammira il Medio
Evo, dove sono ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della
politica e della religione ^uabnente ridicoli e venerabili, tutto il fantastico
pagano e orientale non meno rispettabile delle favole della Chiesa e
la sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole italiana è imitata da
tutta la letteratura. Il Machiavelli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo
insegnare le norme della politica rimane vuoto e asirattOy mentre fonda la
teorìa che determina le leggi secondo cui si svolgono tutte le
rivoluzioni possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido senza
importanza, ma la sua fama si estende lentamente colle rivoluzioni ulteriori
contro il patto di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'umanità si
svincola dalle credenze soprannaturali e si basa sul
razionale. La nuova era politica della Rivoluzione protestante propagata
dalla Germania consiste in un movimento che estende la fraternità umana
oln*e assai la benedizione del Papa e la memoria di Roma e, conservando
la distinzione dei due poteri che aveva inaugurato il regno del
pensiero puro, la affida ad ogni individuo divenuto papa di se stesso una volta
in regola colle leggi del suo stato. Essa si attua in forma opposta negli
stati germanici e negli stati latini: nei primi individuale legale
federale distrugge il potere di Roma confermando quello dei prìncipi; nei
secondi riforma le antiche dottrine della teocrazia romana, opponendo alla
rìvoluzione protestante la fraternità e la democrazia, le concentrazioni
ispaniche e le centralizzazioni francesi. In Italia produce il trìonfo
degli stati ghibellini (Milano Genova Firenze Napoli) sui loro opponenti guelfi
e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei Ghibellini nella minoranza
degli stati dove i Guelfi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La rivolizione
rinnova la letteratura col Tasso, il poeta della tenerezza che celebra la
grande impresa cattolica della prima crociata; fonda la musica; e
ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie della fraternità in
opposizione alla libertà protestante. La riforma appena vittoriosa è
assalita da una reazione : cattolica e unitaria nei paesi
protestanti, protestante e federale nei paesi cattolici, essa non
fa che confermarla; sacrificando in Germania Wallenstein e in Francia gli
Ugonotti; negli stati ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i Guisa i Vacchero,
e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli d'alleanza come i 500
cospiratori annegati da Venezia. La letteratura nazionale sta per soccombere
airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ragion di stato liquida senza
parere la religione e spegne il senso morale cogli scritti di mille mediocrità
misteriose; e la filosofia dà Bruno e T. Campanella : Tuno il martire del
panteismo che afferma Punita della materia e la pluralità dei
mondi; Taltro il rappresentante più grande deiTutopia politica dei popoli
latini esagerante alTinfihito la fraternità l'unità e il despotismo, contro
l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero colla forza della libertà
delle federazioni delle leggi. Il nuovo periodo storico che va dal 1648
al 1789 e che si potrebbe definire del Despotisma illuminato è
guidato dalla Francia; la quale insegna a tutte le nazioni d'Europa
l'indifferenza religiosa che secolarizza lo stato, la semplificazione del
governo colla distruzione dell'indipendenza quasi feudale d'una nobiltà
costretta a modernizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di stato
nell'interesse delle moltitudini. Esso si attua in senso inverso negli stati
monarchici e negli stati federali colla centralizzazione o colla legalità. In
Italia la democratizzazione dell'aristocrazia viene diffusa negli stati
ghibellini dall'Impero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della
Francia. I politici della ragion di stato sospendono le loro cicalate, i poeti
dei dialetti cessano dalle loro divagazioni, e le pompe dell'opera traducono il
secolo di Luigi XIV nella lingua universale della musica diffusa dall'Italia a
tutta l'Europa (Riv. d'Italia) : La nazione mantiene ormai la 3ua
supremazia coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affrettano mai
: gli eroi si precipitano al combattimento colla misura dell'andante, il
nemico fugge senza potersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomeliì,
le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i cui accenti riempiono le
più vaste sale, si danno le pugnalate in battuta, le vittime cadono colle
vibrazioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta perchè rartista
coll'arco alla mano ha abolite tutte le leggi delle
verosimiglianze. Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbiamo
l'immancabile reazione guidata dal cardinale Alberoni, che cupido di
riconquistare alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni stato i
vecchi partiti per distruggere il nuovo progresso. Ma il suo bieco disegno è
distrutto in Francia dagli uomini della reggenza e dai filosofi
delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Europa le idee del despotismo
illuminato, mentre la Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia
l'Austria prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Napoli diventa
indipendente, il Piemonte si ricostituisce e si estende ; mentre le repubbliche
rimangono indietro attardate dalla loro retrograda aristocrazia. La nazione
rivela la sua grandezza nella filosofia con Vico, il quale colle idee del
despotismo illuminato mette a livello tutte le società e tutte le
religioni; nella poesia con Metastasio il più tenero nemico degli dei, e
con Alfieri il tragico poeta della guerra che vuole tutte le idee alla
altezza dei nuovi tempi {Riv. d'ItaliaDeliziosamente illusa da queste cantilene
rimate [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i teatri
d'Europa, la folla italiana fu un giorno sorpresa e si direbbe intimorita da un
nuovo spettacolo che portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orchestra.
Senza musica, senza cori, senza strofe, senza rime, Alfieri fece salire i
suoi attori su d'una scena squallida triste e nuda; e là quattro
personaggi dalle figure astratte, impegnati in una azione unica
stincata rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquattr'ore
coli'orologio alla mano con un cadavere in terra e colla nuova moralità
del vizio vittorioso e della virtù sacrificata questi miserabili mezzi
a controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un drappello
dì Spartani che fennassero Tannata di Serse. Il melodramma ne ricevette uno
smacco irreparabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati, i
loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun poeta succedette a
Metastasio; i maestri rimasero soli con taluni poeti pagati, con libretti
insignificanti, con parole vuote di senso che si chiamano ancora in
oggi le parole e la poesia lasciò per sempre le rime effeminate, le pugnalate
fantastiche, le virtiì ridicolmente languide e i cantanti castrati delle cappelle
principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vibrare la corda della guerra,
sconosciuta a tutti i drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti
cesarei. Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, egli inventava
dei personaggi poetici per formarne dei veri; nuovo Orfeo voleva destare
la libertà nazionale, che nella sua immobilità secolare non sapevasi ornai come
intendere. I cicisbei impallidirono, lo spasimante il patito il cavalier
servente ed anche il signor marito si sentirono ridicoli, le civette si
morsero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dalle code impdverate
si guardarono intomo, e i capitani capirono che si poteva morire alla guerra.
Il fuoco sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al cospetto del
governo, la tragedia penetrava nei gabinetti, qualche volta esiliata dalle
scene investiva il lettore a casa sua e i suoi spettri inattesi gli intimavano
di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi, di pensare. L'ultimo perìodo
storìco, non ancor chiuso quando il Ferrari scriveva, è quello della
Rivoluzione francese. Il suo principio consiste nella divulgazione dei misteri
del despotisir.o illuminato per modo che il razionalismo libero pensatore
trionfi presso tutti i popoli, neiristimzione del codice che uguaglia
politicamente tutti i cittadini, nell'avvento della proprietà borghese figlia
dell'industria e del commercio. La rivoluzione francese ricorre alla forma
repubblicana antipatica alla nazione come a strumento di distruzione,
finché Napoleone trasporta nella forma tradizionale dell'assolutismo il
contenuto nuovo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le armi a nitta l'Europa
dove l'esordio è quindi assolutistico e la conclusione libera. Cosi la Germania
dal despotismo della conquista napoleonica necessaria per trasmetterle la
rivoluzione torna alla sua federazione quasi repubblicana, alle speculazioni
astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Austria ritorna alla patema democrazia
e alla burocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra aveva già avuto nel suo
territorio la esplosione che creava gH Stati Uniti anticipando le idee
della rivoluzione francese ; ma la Russia copia il progresso francese
direttamente coli' assolutismo degli Czar. L*ltalia si volge alla Francia
per distruggere Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo progresso ;
e ad una prima tenue succede una seconda più radicale trasformazione
all'unitaria, Anche conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio
lento alla sua tradizionale federazione. Al solito la rivoluzione francese è
assalita da una reazione, che impone alla Francia la libertà
costituzionale della dinastia borbonica, e viceversa air Europa il despotismo;
ma essa si avviticchia alle forme stesse della reazione per combatterla e
sconfiggerla, in Francia colla repubblica che conduce al governo assoluto
di Napoleone III, presso i suoi avversari col ristabilimento delle libertà
costituzionali. In Italia abbiamo pure assolutismo al rovescio della
Francia; ma assolutismo che è costretto a diffondere il contenuto
della rivoluzione, a far riforme amministrative, ad appellarsi alla moltitudine
che tenta di voltare contro i liberali. Però la nazione volle scuotere
questo odioso giogo dell'assolutismo e alla rivoluzione di febbraio corrispose
l'esplosione unitaria del Piemonte accettata per riformare il Papa e
l'Imperatore; finché la religione e la politica federalista si volsero contro
Carlo Alberto, che trasformava la guerra di libertà in guerra di conquista
interna non legittimata nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villafranca
a Novara si distrusse un regno immaginario a profitto della federazione
italiana. Ma il progresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle
riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Papato compromesso politicamente
dalla doppia occupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi cedono ai
principi deir89 per il rumore confuso delle nuove idee che attaccano la
proprietà. E dalla lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e i
tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli uni o gli altri, essendo
detronizzati, trovansi nella necessità di proporre una più vasta
democrazia per risalire al potere. Il sunto a bella posta diffuso
che noi abbiamo steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'autore
basterà a dare un'idea adeguata della importanza unica di quest'opera, in cui
il Ferrarì dispiega netta la sua incomparabile grandezza di storico. Per
averne la misura paragonate la sua storia d'Italia, non dirò con uno di
quei manuali in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno
dietro all'altro come una corona di nocciole, ma anche coi libri di
coloro che vanno per la maggiore fra i moderni : con la voluminosa storia politica
d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la storia del Villari, che passa per il
migliore dei nostri storici viventi, in corso di pubblicazione adesso presso
Hoepli). Anche per una persona di quelle cosidette colte che frequentano
le società di lettura e fondano le università popolari la storia, secondo
l'idea che ne ha portato dal liceo, è come una fantasmagoria
irragionevole, che sarebbe comica se non stillasse il sangue di innumerevoli
vittime. II capriccio la pazzia il caso sembrano movere questi innumerevoli
fantocci di un dramma senza processo e senza scioglimento; dove si vedono
degli individui che si scannano senza ragione, delle nazioni che si combattono
senza sapere il perchè, delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e
sopratutto una incessante lotta intema dei popoli Lf' /mvfsi'oni barba
rù'hf, Milano, Hoepli; L' Ita^ Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id.,
contro i governi che pare non proporsi mai uno scopo, fatta per para
cattiveria. Pur troppo molti manuali di storia sembrano scritti da gente
che la pensa cosi! Ma anche molti degli storici più elevati, più
scientifici diciamo, mancano del metodo interpretativo in una maniera
impressionante. La loro storia, costretta a rimanere attaccata ai
personaggi ufficiali per avere almeno una unità apparente, è un seguito di
biografie e di raccontini legati gli uni agli altri dalla meccanica
successione cronologica o da metafore vuote. A quel modo che i letterati
seguaci del cosi detto metodo storico che è per eccellenza il
metodo antistorico credevano che la critica avesse esaurito il suo
compito, una volta dimostrato che la tal canzone del Petrarca era stata
scritta nella tale occasione per quel tal personaggio; cosi molti storici
credono ancora che il lavoro della storia si limiti a mettere in sodo se un tal
fatto più o meno particolare è accaduto in quel dato modo, se quella data
istituzione politica era costituita così e non altrimenti. Ma come di fronte
a quei pseudo-letterati la critica afferma la necessità di completare e
integrare il loro lavoro da puri manuali della letteratura con la
ricostruzione con l'interpretazione col giudizio; cosi contro questa
specie di positivismo storico non sarà mai abbastanza forte affermato che la
storia non deve limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li
deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in una lìnea di
sviluppo per cui si veda sotto alle apparenti fermate o alle parziali
decadenze lo sviluppo continuo e progressivo della civiltil umana. Sta
bene la ricerca del documento nuovo: noi non proclamiamo affatto inutile
questo lavoro che è anzi la base necessaria su cui si deve svolgere il
lavoro veramente storico, ma affermiamo che il documento di per sé è
inutile se non è usato, che è muto se non vien fatto parlare, che deve
essere bruciato per rischiarare la storia; la quale non è soltanto, la
Dio grazia, scovamento e pubblicazione della nota della lavandaia di
Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del comune di Simifonti, ma è
narrazione dello sviluppo civile dell'umanità. Non basta raccontare un
fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al di sotto della sua superficie
squallida o brillante per ritrovarne l'intima ragione (1); bisogna i fatti
singoli sgranati collegarli colKunità d'un principio che è il loro motore e la
loro spiegazione; bisogna il succedersi dei diversi principi, dei diversi
sistemi sociali dimostrarlo dominato da una legge di continuo sviluppo,
di progresso continuo. Or bene l'opera del Ferrari è un modello incomparabile
di storia interpretativa, di storia cioè vera. Di più, il
Ferrari è uno storico completo. Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous WriiififTi Longmans, Green
and Co.. London: Nella invenzione sono dati
i principi per tro%'are i fatti, nella storia sono dati i fatti per
trovare ì principi; e lo scrittore che non sa spiegare i fenomeni ueualmente
bene come li narra compie solo una metà del suo ufficio. I fatti sono semplicecernente
la scoria della storia. È dall' astratta verità che li penetra e sta latente
fra essi come 1oro nel minerale che la massa deriva tutto il suo valore. Storia
vera è la narrazione e interpretazione di tutta l'attività umana, quindi
non semplicemente della politica ma anche della artistica e della filosofica;
perchè l'uomo è uno in nitte le sue manifestazioni. Lo storico completo deve
dunque dimostrare come tutta l'attività umana di uno stesso periodo abbia unità
di caratteri, come arte e filosofia e politica siano tutte dominate da uno
stesso principio storico; questo, come abbiam visto, il Ferrari fa;
giudicando inoltre senza pregiudizi di aorta l'arte dal puro punto di
vista estetico, il pensiero dal puro punto di vista filosofico.
Ma la sua dote migliore è quella di essere totalmente libero dai
pregiudizi della morale miope dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero
ridurre la storia a qualche cosa come un dramma a fine morale, con
l'obbligo del n*ionfo per personaggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e
teologali. Nulla di più noioso che gli scritti di certi signori,
perpetuamente scandalizzati di fronte alla vitalità umana potente nei vizi come
nelle virtù, perpetuamente predicanti contro le orge di Nerone o le
crudeltà della Rivoluzione francese, ridotti alla disperazione di dover
ricercare a forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro moralità
di scomunicare il 90% della storia. (La Chine) : Non c'è niente di
meno storico che Io scopo morale perseguito sì ostinatamente da certi
storici, i quali trasformano la storia in una specie di catechismo. Essa
al contrario ammette tutti gli scioglimenti : A. F, Giuseppa F.ora
tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele, non si incarica di
punire di ricompensare alcun eroe; e domanda senza fine dei tiranni dei
condottieri dei martiri degli stolti delle vittime. Perchè si vorrebbe
qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente, là che s'irritasse
contro un malvagio, e che si sostituisse a Dio per ricompensare gli uomini
secondo il loro merito; che fosse in una parola edificante per le
madri di famiglia e per i bambini poppanti! Che l'arte debba essere
giudicata da! puro punto di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si
è finalmente cominciato a capire : pare che non si sia invece
capito ancora che, per intendere e giudicare la storia, bisogna mettersi
da un punto di vista superiore a quello della propria moralità
individuale e contingente. La storia è un tessuto di azioni
pratiche, che io posso quindi giudicare sia dal punto di vista economico
che dal punto di vista morale ; posso cioè determinare se l'azione di
quel dato individuo fu prodotta puramente da fini individuali, da
Ani universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene che la moralità è
formale, che è morale quello che l'uomo crede e sente morale; devo quindi
rinunziare alla mia rivelazione morale come direbbe F. per rimettermi nei panni dell'individuo che
pretendo sottomettere al mio tribunale; e non portare le idee del secolo XX
nel secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valentino coi criteri con
cui si giudica un onesto impiegato municipale padre di numerosa prole.
Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in sodo seVisconti tradì
lo zio Barnabò per pura libidine di regno o per beneflcare i suoi popoli,
liberandoli dall'ultimo vestigio della tirannia a nome di una più
completa imparzialità ; anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fazione
sia determinata dal solo interesse individuale, lo storico vero deve saperci
discernere il bene, quel bene che l'individuo non cerca e non cura
ma che il destino gli impone di compiere, e che solo permette alla sua
azione di essere e le dà un senso. Cosi si viene veramente a dimostrare
che la storia è il trionfo della moralità, che non è quella degli
storici pudibondi; della moralità che non esiste senza il vizio perchè
appunto è lotta contro il vizio; della moralità che si vale per i
suoi fini di tutti gli istinti, di tutte le passioni, di tutte le colpe
dell'uomo, condannato dal destino ad essere sempre e dovunque angelo e
bruto. E veniamo ora a giudicare il valore della interpretazione
concreta. Pensate che ai tempi del Ferrari la piti importante storia
d'Italia era il Sommario di C. Balbo (1), il quale in fondo non è molto
superiore ad un manuale scolastico, come del resto riconosceva l'autore
stesso: Finché non avremo un grande e vero corpo dì storia nazionale, da
cui si faccia poi con più facilità Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier,
iS^n, ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar per le
mani di tutti, o come si dice un manuale; k> non so se mi ingannino le
mie speranze di scrittore, ma tal mi pare possa esser questo e dove lo
sguardo dello storico è velato dal pregiudizio deirindipendenza. Con le
Révolutions d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non ha
altro serio punto di contatto che l'identità del titolo, del resto ormai
classico (3). Se qualche vaga somiglianza di concezione ci si trova
(l'Italia spiega l'Europa la sua lotta è per la libertà non per
l'indipendenza Venezia è estranea alla vera Italia) si tratta di osservazioni
ormai comuni fra gli storici, o già anticipate dal Ferrari stesso nei
suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848 (4). Non parliamo degli storici
anteriori di cui il Ferrari stesso mette in luce nella prefazione all'opera
sua la deficenza interpretativa, per cui alcuni volevano spiegare l'Italia col
principio dell'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello della Chiesa
(Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ridurla sotto la forma politica dei
principati (Guicciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Sigjmondi).
Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo vistq con tanta
giustezza e profondità, giudicato da tanta altezza, narrato con tanta ala
di poesia e forza di rappresentazione la storia d'Italia? (i)
e. Balbo : Della storia tf Italia, Bari, Laterza, Paris, Dagnerre Cfr. Le
Rri*oluziom d" Italia di C. Denina Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino,
Pomba 1864, pag. 88. Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fatta del
ststema politico italiano impiantato sulla gran repubblica
papato-imperiale che ha fatto dell' Italia una nazione senza confini, perchè
possa diventare U centro d'Europa che irraggia le sue continuamente
nuove creazioni politiche a tutti gli stati? Solo questa idea può
dominare e spiegare coU'unità d'una legge la esuberante varietà delle
forme politiche che prende lo spirito italiano, scisso nelle due eteme antitesi
dei Guelfi e dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concetto che gli
Italiani lottano non per l'indipendenza che sottragga la nazione al patto
papaie-imperiale, ma per la libertà e per il progresso sociale, non per
distruggere ma per riformare la repubblica dualizzata che è la loro
franchigia ; diventano intelligibili le innumerevoli battaglie che ebbero
il loro campo fra le Alpi e il mare. Non contro il Papa e l'Imperatore
che proteggono la sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno alla
nazione la gloria di essere il centro politico di tutta l'Europa,
combattono i suoi Guelfi e i suoi Ghibellini per conquistare il lustro
vano di una gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma per
riformare il Papa e l'Imperatore e costringerli ad ammettere grado a grado nel
loro patto il progresso sociale delle nuove forme politiche create
dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^ polo italiano è il gran
protagonista che adopera i Papi e gli Imperatori, imponendo loro le
parti che devono recitare sulla scena mobile ddla storia; che distrugge o
chiama gii stranieri, sfrutta tutte le invasioni, maneggia Francesi e
Tedeschi come strumenti per conquistare una sempre più larga
democrazia. Tutta la gran guerra delle rivoluzioni italiane si riduce, come per
Vico la guerra intema della repubblica romana, a un contrasto sociale del
popolo con l'aristocrazia; che diventa anche contrasto di razza perchè il
popolo è italico e romano, l'aristocrazia è formata dai Goti dai
Longobardi dai Franchi da tutti gli invasori e dai loro discendenti. Ltt
gran guerra contro il regno barbaro estemo dei Goti e Longobardi e contro
il regno barbaro intemo dei Berengarì e degli Arduini, la rivoluzione dei
vescovi contro i conti sono nello stesso tempo lotte di classe e di
razza; da una parte il popolo romano, dall'altra i conquistatori barbari.
E poiché i barbari hanno piantato piò profonde radici nelle città militari da
essi colonizzate; la lotta fra le città romane e le militari si
classifica pure sotto questa doppia antitesi; come la lotta ddle città contro i
CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini, dei GQdfi contro i GUbdliiii.
Se non che man mano che si procede nella fusione barbarica, la
lotta attenua il suo carattere di razza per accentuare quello di classe; già
ncUt guorra cqmm 1 castelli i feudatari combtttoti daDe città
altari barbare di tendenza si romanizzano facendo amicizia colle città
romane; cosicché nell'era seguente noi vediamo la lotta incrociata in modo
che nelle città romane i Cittadini sono romani e i Concittadini barbari,
mentre nelle città militari è viceversa ; e nel periodo ancora successivo il
popolo è guelfo nelle città romane e ghibellino nelle militari. E siccome
la vittoria è data all'elemento romano e all'elemento popolare insieme uniti :
noi vediamo trionfare le grandi città dell'industria e del commercio; e
il progresso della democrazia va di pari passo col risorgere dei grandi
focolari della civiltà romana; finché colla costituzione della lega
federale il processo indigeno è compiuto e i nuovi progressi della democrazia
vengono dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dall'Impero per mezzo dei
Guelfi e dei Ghibellini. Chi ha mai saputo disegnare con tanta
chiarezza i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi nei
suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il sistema papaie-imperiale e la lotta
non nazionale ma democratica per riformarlo non per distruggerlo,
rimangono sempre le due idee che ci danno la chiave della storia nostra.
Ma non meno giusta è l'interpretazione che F. ci dà dei particolari
periodi storici. Alcuni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi e
concittadini, dei tiranni sono da lui addirittura scoperti; ma anche quegli
altri che erano già conoscenza acquisita di qual luce non vengono
da lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni che hanno il
difetto di abbracciare troppo tempo e di sottomettere la nostra storia a
un principio straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu
sempre combattuto dall'espansione originaria nostra; per es. l'enorme periodo
del feudalismo che va da Carlo Magno ai Comuni è da lui decompoSto nei
due perìodi della lotta contro il regno barbaro intemo e dei vescovi. Chi
meglio di lui ha saputo spiegare la gran catastrofe dell’impero romano,
che percuote di spavento come un miracolo dimostrando che fu rovesciato dai
popoli irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piuttosto una invasione
stabile che il continuamente rìnnovantesi disastro delle invasioni
maneggiate dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lotta delle
investiture, condotta non dal Papa e dall'Imperatore, ma dai popoli
italiani che si giovavano dell'uno contro l'altro per modificarli a
vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd patto di Carlo Magno la gran
rivoluzione della libera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha
saputo ritrovare il filo del progresso logico in mezzo allo sconvolgimento
vertiginoso della crisi militare ; chi ha meglio di lui definito il periodo della
decadenza dei signori come restaurazione papaie-imperiale non conquista, perchè
liberamente invocata e accettata dai popoli che non si difendodono
nemmeno con una battaglia? Nella storia moderna F. è un po' meno preciso
e la interpretazione in qualche punto è ancora soggetta a completamento e
a correzione come egli stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla Francia
all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'irradiazione politica deir
Europa, e anticipa il periodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aquisgrana.
L'opera del di F. è in conclusione la messa in valore degli Scrìptores
rerum Italicarum del Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo;
che anche oggi è comunemente considerato dalla gente cosi detta di
cultura, la quale giudica coU'occhio velato dal pregiudizio classicistico del
Rinascimento, come un periodo di decadenza di barbarie di traviamento mistico.
I romantici specialmente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel
loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendicare il Medio Evo, però più dal
punto di vista del sentimento che della ragione, finendo col considerarlo
come un territorio di sogno dove la fantasia urtata dalle volgarità del
presente potesse ricoverarsi, in mezzo allo splendore magico di una
società fantastica in cui un cavaliere poteva col suo valore conquistarsi
un regno. Poi vennero i cattolici che lo celebrarono come la loro età deiToro
; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età in cui tutta la terra,
popolata di gente che passava come pellegrina cogli occhi fissi al cielo,
era sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva imporre agli
imperatori l'umiliazione di Canossa. Questa è per es. la concezione di
Gioberti che, combinando col sentimento cattolico l'orgoglio nazionale,
celebrò il Papato come la ragjone della grandezza medievale d'Italia,
dominante il mondo colla religione come una volta coll'armi. Del primato civile
e moraU degli Italiani BniaelUs. Adesso per converso, dove lui vedeva la
luce e appunto per la stessa ragione la folla delle persone colte vede le
tenebre; e il Medio Evo è ancora per loro come un enorme deserto di
schiavitù di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono non
si sa come le oasi dei liberi comuni a un certo punto distrutte dal simoun
delle signmie. Nessuno ha saputo riabilitare con così alta giustizia il
Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata l'assurda leggenda della decadenza,
dimostrando come anche nei secoli più bui il progresso sociale
continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non sia mai stato schiavo
ma abbia, o accettato liberamente le invasioni perchè gli portavano un progresso
sociale, o lottato contro i conquistatori così terrìbilmente da distruggerli;
come egli solo protagonista oscuro e possente abbia creato e atterrato
Papi e Imperatori, invocandoli per distruggere il regno o combattendoli per
riformarli. Non si tenti dunque di far passare per un popolo di
puri mistici questo che, anche nelle epoche più teocratiche volto alla
terra, si giovava della religione come di un'arma spirituale più terribile delle
spade gotiche e delle aste longobarde, per raffrenare e dominare colla magia di
tma superstizione terribile gli enormi bestioni vellosi e truculenti dei
barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio dei Romani; che poi al tempo
dei consoli, rigettando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si voltava con una
energia meravigliosa alle opere dell'industria e del commercio e diventava il
banchiere dei re dell'Europa,ritenendo la religione come una tradizione da cui
gli artisti potessero evocare un popolo di capolavori che passò nove
secoli in mezzo alle passioni forse più forti della vita, quelle della
politica, colla spada alla manp. La decadenza poUtica comincia proprio
nel perìodo del Rinascimento, quando la civiltà trasporta altrove i suoi
centri incendiari e V impulso viene dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile
non c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero romano, come non c'è
all'avvento delle signorie sopra il comune: il gran processo sociale
della democrazia aliargantesi continua, anche se non originario proviene
dall'Europa più avanti ormai nella scala storica ; questo progresso sociale
della democrazia si traduce in un continuo aumento di potenza dei centri
romani, delle città industriali e commerciali. Non c'è salto come non c'è
decadenza, non si può quindi accettare l'interpretazione del Rinascimento
come di un movimento che prenda a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la continuità
ideale; anche qui F. è confermato dai resultati ultimi
dell'investigazione particolare dei nostri storici: Si vede
dunque come le radici dell 'Umanesimo siano profondamente penetrate e
ramiflcate nel terreno dell'Italia comunale; come esso sia intimamente moderno
e nuovo, sia uno, come statua liberata dal blocco di marmo. Volpe :
Bizantinismo e Rinascenza in Critica, Bari, Laterza. Ma F.
non è solo un interpretatore ih nico, è anche un artista di primissimo
ordine, che il buon Cantoni non si peritava di paragonare per la
sua potenza drammatica di rappresentazione a Shakespeare. D’uno sguardo
psicologico acuto e profondo, d'una mirabile facoltà di ridar vita movimento e
colore agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò le
qualità più difficili che fanno i grandi drammatici, e avrebbe potuto
forse divenire il più grande dei nostri se un*altra tendenza più forte non lo
avesse spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in lui
ad ascendere ai principi assoluti, ai principi supremi ed etemi che regolano la
vita degli individui e delle nazioni (!) Le abbondanti e frequenti
citazioni bastano a dare una idea della forza artistica con cui sa caratterizzare
uomini e cose, descrivere città, rappresentare movimenti politici. Un periodo
ampio; una vivezza calda e mossa di rappresentazione; un sottile
humour tenue come il sorriso d’un uomo superiore che compatisce alle debolezze
umane, e nei tempo stesso un'accensione lirica una foga d'entusiasmo che
gii fa mettere in luce la grandezza epica della storia in ogni
minimo fatto; la forza dell'immagini che, atteggiando come esseri viventi
città e stati, vi si piantano nel cervello senza abbandonarvi più;
formano le Cantons: (/. F., doti di questo scrittore che avrebbe
potuto anche nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immortale. Con una
fecondità versatilità profondità veramente shakespeariana egli ha saputo creare
una folla di personaggi e rappresentare una serie innumerevole di
rivolgimenti senza mai ripetersi, perchè sa colpire nella sua
caratteristica la realtà che mai si ripete. Per avere un'idea della sua
forza drammatica leggete per esempio la narrazione della lotta di Milano contro
il vescovo papista Grossolano {Riv. d'Italia) e delle imprese di
Ezelìno da Romano; per dare ancora un esempio della sua vivezza
rappresentativa eccovi la descrizione di Genova che pare d'oggi: Genova
è un magnifico anfiteatro gettato fra il mare e la montagna, e tale che ì
suoi abitanti non possono fare un passo senza salire sulle rupi o
senza ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che
riuniscono tutti gli estremi della miseria e della munificenza. Nei loro
viottoli stretti neri fangosi inaccessibili alle carrozze si rizzano immensi
palazzi, che disegnano le linee della loro abbagliante architettura
sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni lato; le due
riviere ci versano i loro marchesi, che vi si incontrano alla ventura
colia moltitudine cenciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città ondeggia
dall'aristocrazia alla democrazia come una goletta di smisurata alberatura; e i
suoi cronisti non possono dissimulare l'ondulazione dei consoli,
specie di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino a
insabbiare il potere del vescovo. Superiore in questo al De Saiictis
in cui D'Anunzio poteva notare tante manchevolezze artistiche e stilistiche da
presagire a torto la sua dimenticanza, F. anche dovesse la sua interpretazione essere
dimostrata falsa da una critica superiore rimarrebbe ancora immortale in
questo capolavoro, che continuerebbe ad essere letto come uno dei più bei
romanzi storici d’Italia. Eppure con tanto valore artistico e storico questa
sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima edizione francese fatta per T
Europa, né nella seconda edizione italiana. Quello che è il suo pregio
caratteristico fu appunto la causa del suo insuccesso, la concezione filosofica
cosi profonda che era a base del suo lavoro di interpretazione rese
quest'opera inintelligibile in un periodo di barbarie, in cui il
positivismo dominante ottundeva tutte le menti : la sua altezza cosi serena
di giudizio Io fece trascurare da quegli uomini ancor tutti accesi delle
passioni politiche dal cui cozzo usciva r Italia. Tipica a questo proposito è
la recensione larghissima di Rosa; essa univa a qualcuna delle solite
immancabili osservazioni di dettaglio la critica di uno che, irretito
ancora nei pregiudizi comuni della nazionalità e del liberalismo
astratto, pare spaventato che si possa refutare l'apologia dei Longobardi o
giustificare l'azione dei Gesuiti; sebbene abbia una certa confusa sensazione
che in ciò consiste la grandezza di F. Per questa altezza nuova, per
Tindipendenza dalle idee vecchie, per la vastità del concetto
specialmente noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se
non possiamo accettare tutte le di lui argomentazioni, se anche tutte le di lui
teorie non reggeranno alla prova della scienza storica progrediente; egli
avrà prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà educato a
sollevarsi dalle angustie delle idee storiche, dalle tradizioni
tiranniche dei partiti nazionali e scolastici. Per lui i giovani apprenderanno
a contemplare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quella della civiltà,
dove non giungono le ire delle passioni, dove il male parziale appare
coordinato a più vasto bene. Gli accade in piccolo e in breve come a
quel Vico ch'egli venerava col nome di maestro: troppo alto per il suo
tempo non venne compreso. Anche coloro fra i moderni che citano questa
sua opera, come per es. Romano o Gianani, paiono non comprenderne affatto
la terribile profondità il metodo l'interpretazione e somigliano un po' a
fanciulli che giochino colla clava di Ercole. Solo uno straniero, che amò e studiò
ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella Renaissance in Italy non meno
importante del piiji noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta
percezione dell'importanza di questo libro. Infatti come nella prefazione
del I voi. (L'era dei tiranni) ricor- Archivio storico italiano, Firenze.Le
Invasioni barbariche. Milano, Vallardi. I Comuni, Milano, Vallardi. dava
espressamente, nel cap. II {La storia italiana) ne ripete con parole diverse e
con qualche ampliamento o dilucidazione tutte le grandi idee» però
da un punto di vista un pò* meno alto e non del tutto superiore ai
pregiudizi del senso comune, e nel seguito del volume non ne tiene molto
conto. Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne sono
diversi molto meritevoli per ricerche particolari, è riuscito a sollevarsi
all'altezza del Ferrari che rimane ancora unico solitario gigante, per
darci un'interpretazione completa della storia d'Italia. O meglio
ci fu uno che tentò sebbene con forze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo
a una folla di positivisti che abbassavano arte e storia alla portata dei loro
intelletti piccini, Oriani ben comprese e l'aveva appreso in gran parte
da F. come la storia sia interpretazione, spiegazione, visione dall'alto,
resurrezione secondo la parola di Michelet. Non c'è bisogno di abbassare
l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la condotta poco delicata di quello
verso quest'ultimo, rammentato con citazioni che nascondono più che
rivelare la derivazione, non deve indurci a negare il valore storico
all'autore della Lotta pò-Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei
tiranni (vcrs. it,). Torino, Roux e Viarciigo: Debbo anche
manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del quale ho fatto miei
non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia italiana scrìtto per la
seconda edizione di questo volume, Oriani: Fino a Dogali, - Bologna,
Gherardi litica. Esso fu il solo degno continuatore di Ferrari;
continuatore in quanto non propriamente storico del Medio Evo i libri I e
II della Lotta politica come è stato dimostrato non sono altro se non un
riassunto spesso colle stesse parole dal suo gran predecessore ma storico
del Risorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto sia runico che possa
tentare la prova del paragone, Oriani soccombe; come storico per l'ineguaglianza
deirinterpretazione ora indovinata ora superficiale, come artista per la non
rada enfatica esagerazione romagnola inferiore alla potente precisione
lombarda. Oriani si trova inoltre in una posizione sentimentale un po'
meno adatta che non quella del Ferrari. In questo il senso del sublime
storico e l'entusiasmo di fronte alla grandezza va accompagnato a una calma
serena, a una specie di fine bonario umorismo che sa trovare l'uomo
magari contro il suo volere benefico anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani
ha della storia solo il senso tragico; brontola un po' troppo;
troppo spesso va in collera col passato; non sa mantenersi cabno davanti
agli errori dei suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia
che qualche volta egli vorrebbe correggere. Questi difetti sono più sensibili
nei due primi libri per mancanza di quella conoscenza diretta che è
necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio, ma anche qui c'è da
notare un po' di semplicismo e astrattismo, più nelle forme che nel con
ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella Voce,
Prrrari Oimeppe F., cetto. Per es. egli
dà come ragione dello scacco delta rivoluzione del 48 la sua forma
federale, mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'equivoco del
popolo e il tradimento dei prìncipi. Ragionando a questa maniera vedrebbe
più giusto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto. Certo qualche po'
delle lodi che danno all'Òrìani storico i crìdci moderni, il Croce (1) e
il Borgfte- se, spetta di diritto a F., di cui sono tre fra le immagini
che quello cita per dare un esempio della forza rappresentativa del suo
autore (Venezia I Condottieri Pellico). Concludiamo. Sare6be
un'impossibile pretesa l'affermare che l'opera del Ferrari sia
definitiva, perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vita né la
filosofia né l'interpretazione storica. Ma come una filosofia è viva
finché non è sorpassata e inverata, così una storia. Orbene prima di buttare il saggio di F, fra le
anticaglie bisogna averlo sorpassato, e finora nessuno non solo non Tha
superato ma non si è nemmeno sollevato al suo livello. Noi consigliamo quindi a
studiarlo: primo per imparare il metodo di Inter* pretare la storia ;
secondo per meditare la sua interpretazione concreta, anche oggi tanto vera
che 1 moderni studi particolari la confermano invece di
distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta l'Europa il Ferrari
merita un posto a parte superiore ai più famosi : a Macaulay – citato da Grice
-- a Mommsen a Taine, per la stessa ragione che rende il De La Critica^
genn. i<)og. La vita e il libro. Torino, Bocca. Sanctis
superiore a tutti i critici della letteratura^ per il senso filosofico
che gli diresse la potenza interpretativa a risultati così grandi. Per
racchiudere in una frase il resultato di queste mie osservazioni, Ferrari è il
De Sanctis della storia politica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esitiamo
a considerarlo come il più gran rappresentante della storiografia romantica
(1), sorpassato nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor
degno come storico concreto di essere il gran maestro della nostra
generazione. Grice: “I use
revolution occasionally – minor ones! --. Grice: “Mussolini kept saying that
Ferrari was talking of ‘rivoluzione fascista’ – Garibaldi hardly used
‘rivoluzione’! Grice: “Nothing pleased Mussolini more than the collocation
‘rivoluzione fascista’ – almost as much as Washington did ‘American
revolution’, and Cromwell, ‘The Glorious Revolution’!” -- Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco
Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on ‘storia
d’Italia’ – i rivoluzionarii italiani – Vico, Romagnosi. L’uso del termine
‘rivoluzione’ nella storia italiana – la rivoluzione dell’unificazione, la
rivoluzione fascista – il risorgimento dell’unita hardly qualifies as a
revolution. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Ferrari: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale degl’anarchici di Mussolini – scuola della Spezia – scuola
d’Arcola – filosofia speziana – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Arcola). Filosofo arcolese. Filosofo
speziano. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Arcola, La Spezia, Liguria. Grice: “I like Ferrari; he
was a philosopher AND a poet – a combo we don’t find too often at Oxford!” -Ferrari
(alias Novatore) Renzo Novatore. Oggi
cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per quell'ora darei tutti i miei
sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita.» Refrattario a ogni
disciplina fin da giovanissimo, frequenta la scuola soltanto per alcuni mesi
prima di abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal padre a lavorare
nei campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad una notevole forza
di volontà, lo spinse però ad un personalissimo studio da autodidatta che lo
portò a leggere Stirner, Nietzsche, Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire.
Non rinunciò comunque ad elaborare una visione autonoma, che costruì giorno
dopo giorno, come ricorda il suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante
attività meditativa. Si sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli,
uno dei quali morto in tenera età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono
sulle orme paterne una personalissima riflessione esistenzialista che
svilupparono nell'ambito della produzione artistica e letteraria. Questo
nonostante fosse contrario alla famiglia tradizionale e alla visione
idealizzata della donna: «O ciniche prostitute, o espropriatrici audaci,
ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto
la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi siete il sole più
bello che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra razza. E l'anima
vostra è un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate il mondo o libere
prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò per voi. Il resto è fango!”
(Le mie sentenze) L'anarchico disertore La prima volta in cui le cronache
s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un incendio distrusse la chiesa
della Madonna degli Angeli nella notte: le indagini dei regi carabinieri
portarono infatti a identificare i responsabili del gesto in un gruppo di
giovani anarchici del posto, tra i quali anche Ferrari. Contrario alla
guerra, venne richiamato sotto le armi ma si rese irreperibile. Venne dunque
imputato di diserzione e condannato in contumacia alla pena di morte. Sarà poi
arrestato e scarcerato in seguito ad amnistia. “E le rane partirono...
Partirono verso il regno della suprema viltà umana. Partirono verso il fango di
tutte le trincee. Partirono.... E la morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò
macabramente sul mondo. Danzò con piedi di folgore... Danzò e rise... Rise e
danzò... Per cinque lunghi anni. Ah, Come è volgare la morte che danza senza
avere sul dorso le ali di un'idea... Che cosa idiota morire senza sapere il
perché.” (Dal poema Verso il nulla creatore) Anarchico individualista, assunto
lo pseudonimo di Renzo Novatore, è protagonista con i suoi compagni Dante
Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di alcuni dei più importanti episodi della
lotta operaia del biennio rosso nella Provincia della Spezia: episodi la cui
importanza non si comprende se non tenendo conto che allora La Spezia era una
delle più importanti roccaforti militari italiane, circondata da una serie di
forti e polveriere che ne dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza
di un arsenale militare e di alcune delle più importanti industrie belliche. In
quel periodo molti lavoratori anelavano a "fare come in Russia",
tanto che era in molti anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la
rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata
decisa. L'antifascismo e la morte Coerente fino alla fine nella prima
lotta al nascente fascismo, entrò nel mirino delle camicie nere, coadiuvate
dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per garantirsi l'incolumità; per
sopravvivere si unì al bandito piemontese Sante Pollastri che era noto anche
per proteggere e finanziare gli anarchici con la sua banda di rapinatori, data
la simpatia politica che aveva per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche
tempo dopo la banda di Pollastri rapinò un importante cassiere di una banca,
che portava una borsa piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier Achille
Casalegno venne colpito da un proiettile e morì; sebbene probabilmente fu
Pollastri, che aveva già diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle spalle,
ad esplodere il colpo, al processo costui avrebbe accusato il defunto
Novatore. Le forze dell'ordine, su incarico del governo Mussolini,
intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno, il maresciallo
Lupano e i carabinieri Corbella e Marchetti entrarono in abiti civili
nell'Osteria della Salute di Teglia, nel genovese, perché avevano individuato
Pollastro ed intendevano arrestarlo. Novatore era seduto accanto al celebre bandito
e ad un altro componente del gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a
sparare sui carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi. Nello scontro
a fuoco rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui
corpo crivellato di colpi si rivelò essere quello dell'anarchico Ricieri
Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per attività sovversiva e
antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare.
Novatore, al momento della morte, aveva con sé una pistola Browning, due
caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con spazio nascosto
contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse caduto vivo nelle
mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il nome di Giovanni Governato.
Si define anarchico individualista. Lotta per la libertà e per i diritti delle
masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento delle insurrezioni del 1919, che
non si potesse fare affidamento sul popolo: «Le masse che sembrano
adoratrici di Errico Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e la borghesia
lo sanno e sogghignano.» «Io so, noi sappiamo, che cento uominidegni di
questo nomepotrebbero fare quello che cinquecentomila "organizzati"
incoscienti non sono e non saranno mai capaci di fare.» Il suo pensiero
nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta si caratterizzava
soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo fine a sé
stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento anarchico
di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione anarco-comunista).
«L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e lo intendo, non ha per fine
né il Socialismo, né il Comunismo, né l'Umanità. L'individualismo ha per fine
sé stesso.» (Dallo scritto Il mio individualismo iconoclasta in
Iconoclasta!) «L'anarchia è per me un mezzo per giungere alla realizzazione
dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la realizzazione di quella. Se
così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se i deboli sognano l'anarchia
per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia come un mezzo
d'individuazione.» «Nella vita io cerco la gioia dello spirito e la
lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se queste abbiano le
loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi abissi del
male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo e nessuna anarchia
valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho
considerato me stesso come meta suprema.» Rimaneva salda nel suo pensiero
la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità irrinunciabile tanto
che di lui si disse che scriveva come un angelo, combatteva come un
demonio. Su di lui restò sempre fortissima l'ispirazione di Max Stirner e
di Nietzsche. Opere scritte Le opere e il ricordo del Novatore sono
state in gran parte distrutte dal regime fascista e sostanzialmente a lungo
dimenticate anche da alcune parti del movimento anarchico. Le sue firme
compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre al già citato "Renzo
Novatore", anche "Mario Ferrento", "Andrea Del Ferro",
"Sibilla Vane", "Brunetta l'Incendiaria") su svariate
pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La
Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario
(Pontremoli), Pagine Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico,
Vertice (La Spezia), Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia
(Parigi). Da ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma:
"Verso il nulla creatore" e "Al di sopra dell'arco".
Libri ed opuscoli Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna,
Verso il nulla creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore,
prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro,
illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa, "Figli
dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e Il figlio
dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo Novatore, prefazione di
Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo
Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario Senigallesi, Polemica, Firenze,
Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni di Totò Di Mauro, Tito Eschini e
Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Firenze,
Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola,
appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco,
Torino, Reprint Assandri, “Verso il nulla creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto
Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti scelti e note biografiche, Pisa, BFS
Edizioni, Renzo Novatore, Toward the Creative Nothing, Portland, Venomous
Butterfly Publications, Renzo Novatore, introduzione di Alfredo M. Bonanno,
Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni Anarchismo. Renzo Novatore,
Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose, dove sono le rose?, Gratis
Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona, Textos Subterraneos. Novatore:
una biografia Archiviato iRenzo NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal
personaggio di Sybil Vane, presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di
Wilde Maurizio Antonioli (diretto da),
Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo
Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti,
citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Ricerca
Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo è definito
come la filosofia politicaapplicata o il metodo di lotta alla base dei
movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento
dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia
indesiderabile, non necessario e dannoso o in alternativa come la filosofia
politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello
svolgimento delle relazioni umane. La A cerchiata, il più celebre simbolo
anarchico I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società
senza Stato basate sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine
inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques
Pierre Brissot nel 1793, definendo negativamente la corrente politica degli
enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma
d'autorità. Nel 1840 con Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos'è la
proprietà? (Qu'est-ce que la propriété ?) i termini anarchia e anarchismo
assumeranno una connotazione positiva. Ci sono alcune tradizioni di
anarchismo e sulla base della storia del movimento transitata attraverso il
dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di
pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale,
spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo. Le tipologie di
anarchismo sono state suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e
anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate
comunque su classificazioni dualiste simili. L'anarchismo in quanto movimento
sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza
centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è avuta
con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre
l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario, che tuttavia
ha avuto un impatto sulle correnti più grandi. La maggior parte degli anarchici
sostiene l'autodifesa o la nonviolenza(anarco-pacifismo) mentre alcuni
anarchici hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la
rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società anarchica. Chomsky
descrive l'anarchismo, insieme al marxismo libertario, come "l'ala
libertaria del socialismo". Come padre fondatore del pensiero anarchico in
senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che,
con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura
giacobina, precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX
secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail
Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai
quattro principali teorici di questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda
Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo
praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese
come The Ego and Its Own e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e
totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto,
ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai
movimenti più o meno di massa dell'epoca. Quanto a Proudhon, che può essere
considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo
pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni
casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte
asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda
Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario,
almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il
suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte. In
realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera
di Pëtr Kropotkinche non esita su punti importanti a modificare, precisare,
allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo
libertario. Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere
considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del
pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o
superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di
tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati
utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul
resto della popolazione. Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si
ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli
errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto
all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale;
eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro
il capitalismo e per l'abolizione del salariato. A questa visione è
contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di
proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo Stato
non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di
ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come
una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di
scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter
formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire
una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di
realizzare la propria volontà ma senza mai cercare di imporla agli altri
(principio di non aggressione). Il comunismo, allora, può diventare una delle
opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire
in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in quanto con
un'imposizione non si avrebbe più un'anarchia. Etimologia Modifica I
termini anarchia e anarchismo derivano dal greco αναρχία, ovvero senza archè
(principio regolatore). La parola anarchia per come è utilizzata dalla maggior
parte degli anarchici non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia e
rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed
effettuate intenzionalmente. Origini dell'anarchismo Modifica
Storicamente, il movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento
operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della
protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso
può essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del
XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla
netta divisione in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee
anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo
(che sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le
basi inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste,
in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo
rivoluzionario. Specificità della dottrina anarchica Modifica L'obiettivo
della teoria anarchica è la nascita di una società di uomini e donne liberi e
uguali dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono
i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari.
Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre
infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e
perseguono l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei
mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti
che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo
di mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere
indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli individui,
irraggiungibile. In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il
possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto
libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale significato in
quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere
"concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e
reciproco della libertà di tutti. Mentre il pensiero borghese liberale
aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la tua", per gli
anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libertà dell'individuo
non è limitata ma confermata dalla libertà altrui. "Sono partigiano
convinto dell'eguaglianza economica e sociale – scrive Bakunin – perché so che
al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana,
la moralità e il benessere degli individui così come la prosperità delle
nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libertà,
questa condizione primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba
stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà
collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate
nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato".
Per realizzare una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile
combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di
dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i
governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e
legittimità, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento
di una parte della società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un
parassita della società che la libera organizzazione dei produttori e dei
consumatori deve e può rendere inutile. Su questo punto le concezioni
anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello
Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile. Per la critica
anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al
deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani)
ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita
sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua
caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i
privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la proprietà
capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx
"La libertà senza eguaglianza è una malsana finzione. L'eguaglianza, senza
libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere
per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata:
la burocrazia". Al modo di organizzazione della vita sociale governativo
e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione federalista
che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa
burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli stessi
interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano
precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra
della società. Il federalismo, in quanto modo di organizzazione,
costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e
il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così
inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di
federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non
si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di
organizzazione sociale a sé stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti
della vita di una collettività umana. Organizzazione anarchicaModifica Il
pensiero anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza
dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di
organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le
altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni
individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile
la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato,
l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni
permette la sostituzione dello Stato. Essa intende presentarsi come il
complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore
garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il
contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma
effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei
produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di
iniziativa di tutti i componenti della società. Così definito, il
contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di
ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di
regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi
o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa
l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista
di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare"
dell'individualismo liberale. Secondo gli anarchici tuttavia una tale
organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi
potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella società
federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le
questioni sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso
ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli
anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista
verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente
repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per
aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice). Azione
anarchica Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine
perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il
fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura
del possibile, essere in accordo con il fine perseguito. Lo scopo
dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista"
del potere o la gestione dell'esistente. Il Congresso di Saint-Imier, in
Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria
dell'Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi
marxiste. In quella sede si affermò che il primo dovere del proletariato non è
la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione.
L'approccio dei libertari è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni
politiche dimostrandosi con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte,
storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo
l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le
condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e
parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione
diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di
potere. I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione
diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace
mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione
collettiva e autonoma dei lavoratori. Gli anarchici non sono e non
aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché
ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio
dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori
prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la "loro capacità
politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una società e solo
da essi può venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha
sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia
tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle
condizioni di vita e del progresso sociale. Numerosi libertari hanno
visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli
interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione
sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non può essere
realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da una parte,
questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi
hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un
punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo
funzionamento come nei suoi principi: cercare di mantenere la sua
autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero
controllarla e nei riguardi dello Stato; praticare il federalismo e una vera
democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di
burocratizzazione; darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la
soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i
lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo
punto è assai importante poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione
sindacale non sono e non possono essere considerati come una finalità in sé. La
sua autonomia non deve significare "neutralità" nei riguardi del
potere o dei partiti perché ciò significherebbe perdere una gran parte delle
sue potenzialità di cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il
sindacato, se non vuol cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di
trasformazione sociale e di una pratica conseguente. L'azione sindacale
non è tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che
possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di
resistenza che paiono loro utili e opportune. Dottrine di carattere
libero-mercatista. Le teorie anarchiche di impronta individualistaamericane,
come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da
quella all'epoca egemone si definiva socialista[31], convergono sulla necessità
di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle
risorse basata su un mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli
impulsi egoistici[33], convergono con il concetto marxista della teoria del
valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a
giustificare la proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine
liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato
alle estreme conseguenze, cioè alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di
queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due
dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra
loro. «Cos'è la proprietà? La proprietà è un furto» (Pierre-Joseph
Proudhon) Proudhon, noto per questa famosa espressione, era fautore del libero
scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella
"Teoria della proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è
libertà". L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon
intendeva come furto non la proprietà individuale, ma quella proprietà che
seppur utilizzata da altri individui è fonte di profitto o rendita per il
proprietario mentre come libertà quella proprietà, chiamata
"proprietà-possesso", frutto del proprio lavoro, che viene
direttamente utilizzata dal proprietario senza determinare sfruttamento del
lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel mutualismo ed escludono il
profitto, inteso nel senso economico di utile, come scopo. Anarchismo di
ieri e di oggi. Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del
XX secolo il movimento libertario ha esercitato sul movimento operaio è stata
notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a sé stante del movimento
sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i
movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del
1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936.
L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto manifestata in maniera
significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia,
l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in
Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia.
Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT),
che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di
aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un milione di
aderenti. L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e
'30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una
nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in
opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista.
In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco.
Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso
deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale
anche negli altri Paesi. Il mito della rivoluzione bolscevica e
l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente
marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le
organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi
nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri paesi
governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al silenzio, e
i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio. In generale
si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre più isolati,
anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni
settori socialisti e comunisti dissidenti. La rivoluzione di Spagna del
luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere
al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli
avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni
anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica più
importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento
anarchico nella Spagna di quel periodo. All'inizio della guerra civile
infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista,
la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo
Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la
Federazione Anarchica Iberica e la Federazione Iberica delle Gioventù
Libertarie(FIJL). Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi
imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto
le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra
lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha
marginalizzato sempre più le correnti anarchiche. Dopo il Sessantotto,
tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le
idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del
movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come
"autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre
aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione
contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista"
(in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia,
anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio
dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno
coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando
non addirittura al marxismo-leninismo. Oggi il movimento anarchico è
ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del
nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui
nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle
nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e
dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche,
nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche
il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto
protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in
seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel
maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca.
L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado
di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del
nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli
armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie,
inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza
istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del
lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali
ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e
libertà. L'anarchia è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai,
così come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo è il
metodo di vita e di lotta e deve essere dagli anarchici praticato oggi e
sempre, nei limiti delle possibilità, variabili secondo i tempi e le
circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchia, Umanità
Nova, Roma, 1922. Siri Agrell, Working for The Man, in The Globe and Mail,
2007. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale il
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«Anarchism is the view that a society without the state, or government, is both
possible and desirable.» ^ ( EN ) Paul Mclaughlin, Anarchism and
Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 59, Johnston, The Dictionary of Human
Geography, Cambridge, Blackwell Publishers, Slevin, Carl.
"Anarchism." The Concise Oxford Dictionary of Politics. Ed. Iain
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University Press, 2003 ^ a b «L'Internazionale delle Federazioni Anarchiche
lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorità, sia essa economica,
politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale». Vedi: ( EN ) I principi
dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall'
url originale il 3 aprile 2012). ^ «Anarchism, then, really stands for the liberation
of the human mind from the dominion of religion; the liberation of the human
body from the dominion of property; liberation from the shackles and restraint
of government. Anarchism stands for a social order based on the free grouping
of individuals for the purpose of producing real social wealth; an order that
will guarantee to every human being free access to the earth and full enjoyment
of the necessities of life, according to individual desires, tastes, and
inclinations.» Emma Goldman, "What it Really Stands for Anarchy" in
Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista Benjamin Tucker ha
definito l'anarchismo come opposizione all'autorità nel seguente modo: «They
found that they must turn either to the right or to the left, follow either the
path of Authority or the path of Liberty. Marx went one way; Warren and
Proudhon the other. Thus were born State Socialism and Anarchism...Authority,
takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies divide themselves into
three classes: first, those who abhor her both as a means and as an end of
progress, opposing her openly, avowedly, sincerely, consistently, universally;
second, those who profess to believe in her as a means of progress, but who
accept her only so far as they think she will subserve their own selfish
interests, denying her and her blessings to the rest of the world; third, those
who distrust her as a means of progress, believing in her only as an end to be
obtained by first trampling upon, violating, and outraging her. These three
phases of opposition to Liberty are met in almost every sphere of thought and
human activity. Good representatives of the first are seen in the Catholic
Church and the Russian autocracy; of the second, in the Protestant Church and
the Manchester school of politics and political economy; of the third, in the
atheism of Gambetta and the socialism of the socialism off Karl Marg». Benjamin Tucker, Individual Liberty, su
theanarchistlibrary.org. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url
originale il 3 maggio 2012). ^ Colin Ward, Anarchism as a Theory of Organization,
su panarchy.org, 1966. URL consultato il
14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce
dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle
forme di autorità statali e non statali nel seguente modo: «All anarchists deny
authority; many of them fight against it» ... «Bakunin did not convert the League's central
committee to his full program, but he did persuade them to accept a remarkably
radical recommendation to the Berne Congress of September 1868, demanding
economic equality and implicitly attacking authority in both Church and State»
^ città Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy of Existential
Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of Individualism:
Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books Ltd. Publishing,
2002, p. 106. ^ «ANARCHISM, a social philosophy that rejects authoritarian
government and maintains that voluntary institutions are best suited to express
man's natural social tendencies», George Woodcock, "Anarchism" in The
Encyclopedia of Philosophy ^ «In a society developed on these lines, the
voluntary associations which already now begin to cover all the fields of human
activity would take a still greater extension so as to substitute themselves
for the state in all its functions». Pëtr Alekseevič Kropotkin,
"Anarchism" in Encyclopædia Britannica ^ «That is why Anarchy, when
it works to destroy authority in all its aspects, when it demands the
abrogation of laws and the abolition of the mechanism that serves to impose
them, when it refuses all hierarchical organization and preaches free agreement
— at the same time strives to maintain and enlarge the precious kernel of
social customs without which no human or animal society can exist». Pëtr
Alekseevič Kropotkin, Anarchism: its philosophy and ideal, su
theanarchistlibrary.. ^ «anarchists are opposed to irrational (e.g.,
illegitimate) authority, in other words, hierarchy — hierarchy being the
institutionalisation of authority within a society». B.1 Why are anarchists
against authority and hierarchy?, in An Anarchist FAQ. Ostergaard, Anarchism,
in The Blackwell Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p.
14. ^ Peter Kropotkin, Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings,
Courier Dover Publications, Fowler, The Anarchist Tradition of Political
Thought, in Western Political Quarterly, Skirda, Facing the Enemy: A History of
Anarchist Organization from Proudhon to May 1968, AK Press, Lo storico catalano
Xavier Diez riporta che la stampa anarco-individualista spagnola fu ampiamente
letta da membri di gruppi anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato
anarchico CNT. Ci furono anche casi di
anarco-individualisti di spicco come Federico Urales e Miguel Gimenez Igualada
che furono membri del CNT e come J. Elizalde che fu un membro fondatore e primo
segretario della Federazione Anarchica Iberica. Vedi Xavier Diez, El anarquismo individualista en
España: Resisting the Nation State, the pacifist and anarchist tradition"
by Geoffrey Ostergaard, su ppu. Woodcock, Anarchism: A History of Libertarian
Ideas and Movements, 1962. ^ R. B Fowler, The Anarchist Tradition of Political
Thought, in The Western Political Quarterly, Chomsky, On anarchism, Woodcock,
L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli Editore,
1966. Max Stirner, trad. Steven Tracy Byington, The Ego and Its Own, 1st engl
ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione della
prima edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L. Reclaire L'Unique et sa
propriété, P.V. Stock, Éditeur, 1899, ma riedito l'anno successivo, Max
Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa propriété, Éditions de La Revue
Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902: Max Stirner, trad.
Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito completo per i tipi della
Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History
of Anarchism, PM Press, Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org.
^ Brown. Susan Love. 1997.
The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The
Free Market in Western Culture. p. 107. Berg
Publishers. Voci correlate: Anarchia Economia anarchica Anarcopunk
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anarchismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
anarchismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Anarchismo,
su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Anarchismo, su
Enciclopedia Britannica. Opere riguardanti Anarchismo, su Open Library,
Internet Archive. Portale Anarchia Portale Filosofia Portale
Politica. Socialismo libertario Anarchismo sociale forma di socialismo
anti-statalista e libertaria, che vede la libertà individuale interconnessa
all'aiuto reciproco e la cooperazione Scuole di pensiero anarchico
correnti di pensiero riguardo l'anarchismo. BIBLIOTECA Luparini ANARCHICI
DI MUSSOLINI rali vere SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta”
Pisetemenzar via Garibaldi A | assonimion i Ami 13]
CRITNTEINTA] Ù o f= Niue] | Senesi Aia MILANO - Dc t9rs. |
"iSToNIO su oi RIA | ore 2 Spina ‘sovdrela jattonza, spogli.
d'agnt fiomposità retorien, agli anici ed agli nvvornarl not ci
presentiamo. > ‘iper ur Drrepprinsibile dinoziio det ‘ilmo
nostro di affermare ut; colla — Nancics nel campo amrehve vi 20 rie site 1
commi. dl pectore i dia in questa vigilia d'armi, quello che y pi sai Mi
iaia alli domantpquando vibrabte squillerà Ia diana + «ho gl
chiamerà al elmonto, riaffermeremo ‘ Quatt nurca La cdl. fuetlo nelle,
trincee o sulle barricate, 50° = Medea re pico © per no vogljamo
formulare da queste colorin nt gle 1 Ì ti romina. ché ancora
non perufptione iocolieri della politica i probleini
Nindaedi e) hibertari. ni per l'unità d'Itata € oggi dia — sarei
Mali netta rivolta "È dicaro ciod'ad alta voce il nostro
diritto << ian cittadinanza. nel ‘campo amerehico — ici iocna ol
Gemona € li ls oovre por ‘sui deliicammo, benché anbor giovani, “per }
popoli di Francis, suscità nei eni di nni le nostre migliori energie ed
Hl | ili. commenti ferogi e cati c = ‘batta: vriilrà È cho4 teotoght dell'a;
1 dì ©mimi del wiorno (scoprirono ì ni ‘nome di non sappiamo pipì € ita]
core, È pattini ddantonto ef vogliono negs-'! si: manifistsra in talta dr
se devanazione; len. 3 dite bed | ed incitare. all'azione: ta ‘entitoto
le oc DALLA SINISTRA AL FASCISMO TRA RIVOLUZIONE E
REVISIONISMO M.IL.R. EDIZIONI. Fenomeno spesso rimosso, quando non del
tutto ignorato, in sede d'indagine storiografica, l'interventismo
di matrice anarchica costituì un filone, minoritario ma non trascurabile,
del variegato movimento interventista rivoluzionario ed ha una
significativa appendice nel dopoguerra, allorché numerosi anarchici
interventisti confluirono nei Fasci di combattimento fondati da MUSSOLINI.
Tra questi, Gioda, Malusardi e Rocca rivestirono un ruolo di primo piano
nel fascismo delle origini. Pur nella sostanziale diversità delle
esperienze e degli approdi politici (dal sindacalismo integrale e di
sinistra del repubblicano Malusardi al revisionismo conservatore e
filo-liberale di Rocca), la loro azione all'interno del fascismo è caratterizzata
da uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla comune
formazione anarcoindividualista: una residua eredità “libertaria”
inevitabilmente destinata ad esaurirsi con il consolidarsi al Pptes
della “rivoluzione” fascista. Questo libro ne
ripercorre la. "comlilisa Niiindi politica, dall'anarchismo al
fascismo, ‘attraverso i decisivi passaggi dell'interventismo e della
guerra, sullo sfondo di uno dei periodi più intensi‘ e più
drammatici della storia d'Italia. Mita. Luparini è nato a Firenze. Si è
laurea in Scienze Politiche presso la Facoltà “Cesare. Alfieri” dell'Università
di Firenze e consegue il dottorato di Ricerca presso il Dipartimento di
Scienze della Politica dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su
tività O didattica e di ricerca. di Lineta. M.I.R. EDIZIONI. Via
Montelupo, Montespertoli (Fi) Italy Finito di stampare dalla
Litotipografia SAMBO s.n.c. e Luparini ANARCHICI DI
MUSSOLINI Dalla sinistra al fascismo, tra rivoluzione e
revisionismo M.I.R. EDIZIONI. Quanto a quello che succederà domani,
caro Berneri, non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per
il passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi sinora, che
si possono muovere rimproveri in anticipo o intentare processi alle
intenzioni. Plechanov, teorico bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico,
si pronunciarono in Russia per la guerra; altrettanto fecero il
socialista MUSSOLINI e gli anarchici e sindacalisti Rocca e Corridoni in
Italia, E” consigliabile dunque che nelle discussioni relative al
domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso coefficiente di male
e di bene, di deviazioni possibili e di fedeltà irriducibili. Gli uomini
passano, le idee e anche i movimenti restano (Rosselli, Discussione
sul federalismo e l’autonomia, «Giustizia e Libertà»). Così, in una
garbata polemica a distanza con l’anarchico Berneri (che aveva avanzato
dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e Libertà), Rosselli
poneva l’accento su un principio spesso ignorato: l’inopportunità in
politica (nonché - potremmo aggiungere - nelle vicende umane in
generale), specie in epoche di grande travaglio, di porre ipoteche sul
futuro, semplicemente sulla base di memorie e di tradizioni più o meno
consolidate, di preconcetti ideologici o di appartenenza. L’interventismo
di matrice anarchica, richiamato dallo stesso Rosselli quale esempio
di variabile imprevista, rappresentò senz'altro, considerato nel quadro
storico del movimento libertario italiano, una “deviazione”, ma fu, per
l’appunto, una deviazione “possibile”. Non già, dunque, un’astrusità
incomprensibile, prodotto di frange corrotte e malvissute, a stento
collocabili nella famiglia anarchica, ma un evento - sia pur
anomalo e, al cospetto dell’ortodossia libertaria, scabroso -
riconducibile all’anarchismo e, come tale, appartenente di diritto alla
sua storia. Allo stesso modo, per restare in ambito interventista, la
“conversione” di MUSSOLINI, tenuto conto dell’anima volontaristica e
sostanzialmente antidogmatica, non solo del socialismo mussoliniano, ma
anche di larga parte del socialismo italiano tout court, non costituì poi
una così grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso, una certa sua
coerenza. Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”,
l’anarcointerventismo è stato a lungo trascurato, quando non del tutto
rimosso, in sede d’indagine storica, e solo in anni recenti un ottimo
studio di Antonioli ha restituito visibilità e, per così dire, dignità
storiografica, ad un fenomeno che, se non fu certo tale da smuovere
grandi masse (ma tutto l’interventismo rivoluzionario fu, a conti fatti,
espressione di una minoranza), ebbe tuttavia, oltre che una sua
specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla vicenda
interna dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò,
quello di ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente
anarcointerventista (sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto
schieramento dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo
momento, provare a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in
relazione all’avvento e all’ascesa del fascismo. Molti anarchici
interventisti, infatti, confluirono nei Fasci di combattimento fondati da
MUSSOLINI (altro motivo per cui l’anarcointerventismo è stato il più
delle volte espunto dai trattati di storia dell’anarchismo), e alcuni di
loro, come Rocca, Malusardi e Gioda, vi ebbero un ruolo tutt’altro che
marginale. Questi tre nomi, pur ricorrendo sovente (soprattutto il primo)
negli studi sul fascismo iniziale, restano tuttavia, a. nostro avviso,
ancora avvolti in una coltre d’indeterminatezza. In queste pagine si
cercherà pertanto di ripercorrere la complessa vicenda postbellica di
Rocca, Gioda e Malusardi — dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia
del delitto Matteotti -, senza mai perdere di vista i loro trascorsi
anarchici; un’eredità forte, conseguenza di un altrettanto forte senso
d’identità, che - ci sembra di poter dire - sopravvisse almeno in parte
alle radicali trasformazioni indotte dalla guerra, finendo per
condizionare, ancorché in misura e su piani diversi, il grado di adesione
al fascismo di questi uomini. Per questa ragione, ad esempio, ci è parso
che il caso di un altro anarchico interventista passato al fascismo,
Arpinati, il cui nome è senza dubbio più noto dei tre sopra citati, non
potesse a pieno titolo rientrare nelle finalità e nella ratio di questo
volume. In altri termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun
peso reale nel movimento) acquisì una compiuta coscienza politica — sia
pur in qualche maniera caratterizzata in senso
anarcoindividualista - con il fascismo e grazie al fascismo; Rocca, Gioda
e Malusardi approdarono al fascismo al culmine di un’effettiva e sentita
militanza libertaria (anche se, nel caso di Rocca, vissuta in modo
decisamente eterodosso), sì che nel fascismo essi portarono una precisa
connotazione ideologica, quantunque, e non avrebbe potuto essere
diversamente, filtrata e rivissuta alla luce delle cruciali esperienze
dell’interventismo e della trincea. . In definitiva, quindi,
un’opera su più livelli, che — così almeno speriamo dovrebbe consentire di far
luce su una componente poco conosciuta dell’interventismo rivoluzionario
prima, del fascismo poi, sullo sfondo di uno dei periodi più intensi e
più drammatici della storia d’Italia. INTERVENTISMO Eretici tra gli
eretici: gli anarchici interventisti fra apostasia e presa di
coscienza Pe Lo scoppio della guerra europea sorprese il movimento
anarchico italiano in un momento di grande sforzo organizzativo. Il
tentativo, avviato già all'indomani dell’impresa libica, di collegare i
diversi gruppi anarchici della penisola intorno ad un programma comune,
allo scopo di frenare le spinte centrifughe interne al movimento e di non
perdere i contatti con le masse (proprio mentre lo spostamento a sinistra
del Partito Socialista e la nascita dell’Unione Sindacale Italiana
rischiavano di ridurre ulteriormente lo spazio di manovra degli
anarchici), fu vanificato dal precipitare della situazione
internazionale. Il progettato congresso nazionale anarchico di Firenze,
che doveva sancire questo nuovo orientamento, non ebbe mai luogo, e
il successivo convegno di Pisa, riunitosi poco tempo dopo l’entrata in
guerra dell’Italia, avrebbe lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per
far argine all’incalzare degli eventi bellici". Sul piano esterno,
sul piano, cioè, dei rapporti con gli altri partiti dell’estrema
sinistra, che dopo la settimana rossa avevano lasciato intravedere la
possibilità di un’intesa d’azione con le forze più autenticamente
rivoluzionarie (soprattutto repubblicani e sindacalisti), la guerra
rappresentò, anche per gli anarchici, la caduta delle illusioni.
Ancora il primo agosto, in un articolo pubblicato da «L’Iniziativa»,
organo nazionale del PRI, il giovane anarchico Mario Gioda aveva
sostenuto la necessità del “blocco rosso”, ovvero l’unione di tutti i
partiti sovversivi”. Nato a Torino il 7 luglio 1883, operaio tipografo’,
Gioda era un autodidatta Su questi punti v. soprattutto ANTONIOLI, //
movimento anarchico italiano, in «Storia e Politica», Sulle vicende dell’anarchismo
italiano nei mesi precedenti alla settimana rossa v. GINO CERRITO,
Dall'insurrezionalismo alla settimana rossa. Per una storia
dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, GIODA, La necessità della repubblica.
Io difendo il blocco rosso, «L’Iniziativa», Cfr. ARCHIVIO CENTRALE DELLO
STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi ACS, CPC], Busta
[Gioda]. con la passione per le belle lettere e le scienze filosofiche (un
«pensatore... proletario», come sarebbe stato efficacemente definito
molti anni dopo) ‘, poco incline, in verità, all’attività politica-di
propaganda. Negli anni prima della guerra aveva scritto per numerose
riviste, non solo di orientamento libertario, cimentandosi nei campi più
disparati, dalla filosofia alla critica letteraria e di costume, e
guadagnandosi una discreta popolarità. Di temperamento schivo e
riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona vena polemica, Gioda era in
buona sostanza un intellettuale, non riconducibile ad alcuna specifica
corrente del pensiero anarchico, sincreticamente aperto anche ad altre
suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo strettamente
politico, una spiccata e mai celata propensione al repubblicanesimo. In
ogni caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa ammissione - un
“quasi-repubblicano”‘, convinto quanto meno che la rivoluzione dovesse prima
di tutto avvenire sul «terreno istituzionale»”, è altrettanto vero che,
specie dopo 4 Così scriveva Ferrara, introducendo la prefazione di Gioda —
allora segretario del Fascio di combattimento torinese - al volume di
Enrico Portino Quattro anni di passione (Torino, Valentino), un'antologia
di scritti e di vignette dai giornali satirici fascisti «Il Pettine» e
«Il Sonaglio». * Poeta dilettante, il giovane anarchico esprimeva nei
suoi versi sentimentali una sensibilità quasi crepuscolare. Ancora in età
matura, ormai affermato dirigente fascista, Gioda coltivava l’ambizione
di veder pubblicate le sue poesie. Non visse abbastanza a lungo, ma alcune sue
rime giovanili apparvero postume in Vita di Mario Gioda narrata da Croce, a
cura del Gruppo rionale fascista “Mario Gioda”, Torino, Stabilimento
grafico Impronta. Gioda era in rapporti d’amicizia con importanti esponenti del
repubblicanesimo italiano, fra i quali il vecchio garibaldino Ergisto
Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune lettere di Bezzi a Gioda si
trovano in BEZZI, /rredentismo e interventismo nelle lettere agli amici,
Trento, Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà,
1963. Per comprendere in cosa consistesse il repubblicanesimo di Gioda se
ne vedano gli articoli Del XXIX luglio e per un cencio di repubblica, e
Il mio repubblicanesimo, apparsi sulla rivista repubblicana torinese «La
Ragione della domenica». Nel primo di essi, scritto subito dopo
l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il «conformismo
monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a commuoversi per la
sorte del re, e aveva affermato l'imperativo morale, per i «rivoluzionari
d’ogni scuola o tendenza», di essere «settariamente repubblicani». Nel
secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della propria fede
repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto anarchico, ma di ritenere
la repubblica — la repubblica sociale — un passaggio necessario sulla via
della rivoluzione, il solo mezzo per giungere a trasformazioni più
radicali e definitive, «senza il pericolo di sfasciare la rivoluzione in
braccio alle evoluzioni riformistiche della democrazia sociale». Le
opinioni espresse dall’anarchico torinese su «La Ragione della domenica»
avevano incontrato la disapprovazione di molti suoi compagni. Ancora a
distanza di tempo, il ferrarese Poledrelli aveva definito «tisico e spurio»
l’anarchismo di Gioda, e bollato come una «balordaggine politica» l’idea
di un fronte unico anarchico/repubblicano (POLEDRELLI, In ritardo?
Anarchici e repubblicani, «L’Agitatore», 18 febbraio 1912). Qualche anno
dopo Poledrelli avrebbe partecipato alla campagna interventista a
fianco proprio dei repubblicani e dello “scomunicato” Mario Gioda.
la settimana rossa, molti anarchici, non escluso Errico Malatesta, LA con
favore crescente all’elemento giovanile e proletario del PRI, e i .
apprezzavano e condividevano l’intransigentismo Lila emi diffusione
dell’appello della DE pel 3 repubblicana per la mobilitazione contro gli
Imperi i ppi far quale riaffiorava prepotentemente l’anima mazziniana de
Lira sog riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni dell niet seg
n fatto la fine delle aspettative rivoluzionarie . Ad esso sarebi ero
segu sa conferenza milanese di Alceste De Ambris, punto d nuvia di sa +
i decisiva che avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e all’adesione di
larg; _/parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi
dell’intervento (tanto Te i ; ; li È che Felice faceva
risalire proprio al discorso di De Ambris la d’inizio dell’interventismo
rivoluzionario) ‘, e una serie di altri i sà non meno traumatici, fino
alla clamorosa “conversione” di Benito Mussolini.
isleri i ’Iniziativa» del 15 agosto e * Il manifesto, redatto da Arcangelo
Ghisleri, fu pubblicato da PL pa Hb ripreso nei giorni seguenti da tutta
la stampa repubblicana. irc: a on si a anarchici a questo riguardo si
veda l’articolo di ri vie [af Aaa % i Volontà», 29 agosto, nel q r
i repubblicano e la guerra (« 3 Z reti cc A icani di i lla causa della
rivoluzione, per egli repubblicani di aver abdicato al : izione rp
iti bbri replicò il repubblic: i sperava definitivamente tramontate. A
Fal i ibblicano © Me Larini del PRI anconetano, a sua volta accusando gli
anarchici di siente si Lac i politica (cfr. Anarchici e socialisti, «Il
tig 6 Sene ati ; sai pei pipi inelli i i più ivi trema sinistr:,
que @ due dei nomi più rappresentativi del es ù £ peri ohba Halo ad
Ancona, città simbolo della settimana LA san 5 ) .i giorni gli ambienti
sovversivi. a del clima di forte tensione agitante in quei gi i : cine
par iù n quanto inattesa, ripropi a ‘odotta dalla guerra, tanto più
dolorosa i I |‘ i divisioni del srt che la comune battaglia sa coord pa
via utili panta ui is, segretario della Camera agosto Alceste De
Ambris, segi della (T n an Sirigenti del sindacalismo rivoluzionario
italiano, intervenendo ad peri pe ema “I sindacalisti e la guerra”,
presso la sede milanese dell USI, sostenne coi fn della erra
rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il consigl e sn AA
dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di AO ERA A i Cat io
alla tesi interventista di De E : Carrara, nettamente contrario al i
A Di Borghi, principale esponente della corrente ni A su merita re
i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il fratello ; otti, ”USI, in luogo di
Tullio Masotti. De b i a ne) Em " Coni, Rossi, Bianchi, Rossoni) pe
prio Di pia de «L’Internazionale», organo dell’Unione. Dalla successiva
LS cppora n opera della frazione interventista, l'Unione Italiana del
artt iaia eri sn di i i ioni si li repubblicane., rimas seguito
anche le organizzazioni sindacali ì : i ufficiale prese a pubblicare «La
Guerra di com a sta o se Di > rd ? i is è ri to in « i; k
conferenza di De Ambris è riprodoti vin internazio: ; sto | . n sn
commento di parte repubblicana, significativo in vista o ge So
dell’interventismo rivoluzionario, si veda l’articolo Una voce sindacalista,
«L’Inizia ; agosto 1914. Li H x) rs sian Belgio € n
Francia ad opera dei tedeschi determinò la 1 posizione a favore
dell’Intes i i Sr a da parte di alcuni degli ini più
rappresentativi dell’anarchi “qualiv iS chismo, non ‘solo fi i i Pi
Db? 9 10, rancese, tra i quali Piotr Fnac Jezn n James Guillaume e
l’italiano Amilcare ppi il rio “colonnello” della Com ichi o) e 1
une. Le loro dich ioni Poni a Cc € ichiarazioni, che a i la
naturale e antica simpatia dei rivoluzionari europei verso di E ella
Grande Révolution e che, a distanza di un anno e mezzo, ag ubi
espressione definitiva nel cosiddetto “Manifesto dei » suscitarono
polemiche e divisioni i dici” ni anche tra gli anarchici italiani
primo intervento eterodosso di ico i dia i 1 segno anarchico in materia
di i neutralità fu opera proprio di io Gi Reit i io di Mario Gioda.
Ad ui i i ì fu o c i na settimana dal on \ suo articolo BIO
Gioda, scrivendo per «Volontà» (il principale periodico go ita iano),
rilevò il fallimento improvviso e devastante He age D sostenne la
necessità che, in caso d’invasione austriaca, anche gli anarchici impu i i
i } >, pugnassero le armi per difendere il È ici i il
suolo azionale ‘. «La Folla», la rivista di Paolo Valera di cui Gioda era
da tempo Sì »8 assiduo collaboratore li offrì, a breve distanza,
I Opportunità di precisare In i pieni torinese interpretando lo
sbigottimento di molti — è ello e troppo forse si è sognato. La guerra è
il ri Wi Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i ILL pposizione
socialista e democratica ne’paesi I social esi dell FEFUIONIA imperiale
e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia
S : Ag its do FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale
Italiana. HI, in® Rec ana ngi ni Vac i due volumi di FELICE Mussolini
il nario,, Einaudi,, p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i rig nel
heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si, per il
valore della testimonianza, ARM o di (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v
[BORGHI, Mezzo secolo di anarchia dat Psa reo) be fog la luce il 28
febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di sti (cfr. Gli anarchici
intelligenti son “dichiarazione” storica, «L’Internazion: linate j
ale», 25 marzo 1915), fu i da parte del movimento anarchico itali i i
GATE ROMEA taliano (si veda, in particol: ’arti i nba } _In
particolare, l’articolo di ERRICO ; governo, «Le Réveil communiste- i
i N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915 si n arts rie sea Li n.
ee della grande guerra, ai pagina a 14. 9 re di Valera, aveva contribuito
alla ri; ita di e 1912, e vi scriveva regolarmente, iù so imi ai
12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i I torinese).
Fondamentali, per capire il raj *anzi sat rese). mentali, per pporto tra
l’anziano scrittore e agitato! iali Porlinia gli articoli di quest’ultimo
Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai Fa = inni i ll o 1911. Su
questo punto v. altresì Miano i LI, rchici italiani e la prima guerra
mondial 1 ici interventisti (1914-1915), in «Rivista Storica dell’
Anarchismo», 1995, TCA ig 14 di difendere domani la
nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrità di essa,
nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...],
reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralità" Gli
articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di
posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza
fra l’autore, il direttore dell’ «Avanti!» Benito Mussolini e Nella
Giacomelli, una delle voci più autorevoli di «Volontà»! In essa s’inserì
ben presto anche l’anarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e
amico di Gioda, recandovi nuove e più profonde inquietudini".
In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese
del compagno. GIODA, Mentre trionfa la guerra, «La Folla», 9
agosto 1914 U Sul numero di «Volontà» dell’8 agosto era apparso
anche un contributo di Petit Jardin (pseudonimo di Nella Giacomelli),
intitolato La più grande mistificazione: da Hervé a .. Mussolini. In
esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che
lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto,
aveva paragonato il dubbioso direttore dell’«Avanti!» a Gustave Hervé,
l’araldo dell’antipatriottismo estremo, arruolatosi volontario nell’esercito
francese subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla
Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera nella quale,
rifacendosi a sua volta all’articolo di Mario Gioda, rimarcava l’incoerenza
di «Volontà», che, nel mentre accusava lui di aver tradito le sue idee
internazionaliste, non aveva esitato a pubblicare una pagina di quel
tenore. La replica di Mussolini trovò spazio in un secondo articolo della
Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Hervé a Mussolini: da Mario Gioda
a Oberdan Gigli, «Volontà»), molto critico nei riguardi di Gioda e degli
altri sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto, il giornale ospitò una
lettera dello stesso Gioda, che, respingendo l’accusa di patriottismo,
affermava però il dovere degli anarchici, proprio in quanto tali, di
difendere la causa della libertà - rappresentata dalla Francia e dai
popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi
avvenimenti v.ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.
Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Giacomelli «Rivista
Storica dell’ Anarchismo». Il ragioniere Oberdan (in realtà Oberdank) Gigli era
nato a Gallarate nel 1883, ma si era formato a Genova, dove la famiglia
Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere mite e
la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano più il tipo
dell’intellettuale che dell’uomo d'azione, non gli avevano impedito di
farsi strada con sicurezza negli ambienti anarchici del capoluogo ligure,
con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo. La prefettura
genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: «Individualista,
professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca
influenza sui correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma
anche in provincia [sell instancabile nella propaganda delle teorie da
lui con calore professate, esplicando tale propaganda con buon profitto,
specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC, Busta [Gigli]. 15
I problemi dello spirito — affermava — sono tramontati per ora: forza e
della razza e della nazionalità ritornano a predominare coi ferocia. I
valori sociali hanno subito un'inversione. L’internazion spezzato [...].
Chi doveva non ha fatto il suo dovere; neppure noi'° i problemi
della n raccapricciante alismo operaio è Agli anarchici -
concludeva Gigli - restava da riscoprire la loro «comune anima umana»,
non escludendo l’opportunità di combattere gli invasori austriaci
(quantunque, come suggeriva, «in libere schiere non governative»), il
giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità territoriale italiana!”
i Ai primi di settembre «Volontà» pubblicò una nuova lettera di Gi li
Il concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il
crohn della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero
ancora ai rt le questioni della libertà e dell’indipendenza
nazionali. son L’anarchismo — sosteneva l’autore — non rinnega, ma
supera il concetto di patria: rinnega però il patriottismo, che è
concezione perfettamente borghese e sibi la rivoluzione liberatrice anche
contro i connazionali. Ma l’anarchismo curdo me, è una filiazione della
filosofia e delle istituzioni borghesi: perciò esso Fon presupporre una
società borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia ela
tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i
roblemi essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter
liberamente clara verso sistemi libertari. E fra tali problemi v
quello delle nazionali la risolvere libert: fr: I bi è Ilo dell pi
Il lità, da risol A Tar n 1 Un eventuale Vittoriosa
invasione delle armi austro-tedesche non solo cn lasciato
drammaticamente irrisolta la questione nazionale, ma, sotto . TEC . .
Z il profilo delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altresì
determinato un «Volontà», un Pot
in riferimento all'articolo di Mario Gioda dell’8 agosto, era inserita
insieme que ‘a di Mussolini nel citato articolo di Nella Giacomelli, /n
pieno patriottismo!!! dr parole di Gigli la redazione di «Volontà» (retta
allora da Cesare Agostinelli, trovandosi esu rilusi i fatti della
settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi Fabbri) fece seguire una
de i aperto disappunto. «A noi pare vi si leggeva — che la situazione di quelli
che, come io x e Gigli, si lasciano trasportare dal sentimento
patriottico sia la medesima di quegli E rici che, tempo addietro,
andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei cubani, dei
boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma
esso esula dal compito specifico degli anarchici divi ‘on questo
incoerente se si arriv: i anarchici, e può ‘entare c P qi Incoe; si
‘a regresso: l'avvento, anche in Italia, di un sistema «feudale e
militaristico» sul modello di quello degli Imperi Centrali. Impedire che
ciò avvenisse aveva di per sé un valore rivoluzionario; significava
combattere per la causa anarchica e, allo stesso tempo, salvare l’anarchismo
dall’isolamento, riportarlo a contatto con le masse, ravvivato «alla
fiamma dell’umanità dolorante»!?. La condanna fatta seguire dalla
redazione di «Volontà» alle parole di Gigli hiuse definitivamente la
polemica, almeno per quel che riguardava il giornale di Ancona.
Nondimeno, le “defezioni” di Gioda ed Oberdan Gigli, considerati fra i
migliori giovani ingegni dell’anarchismo italiano”, segnarono un
passaggio doloroso nella storia del movimento libertario. Rygier,
intanto, già paladina dell’antimilitarismo e, in assoluto, una delle
personalità più stimate del campo rivoluzionario”, aveva firmato un
sorprendente ‘articolo per «Il Libertario» di La Spezia”, nel quale,
richiamandosi alle «tradizioni garibaldine del Risorgimento», aveva
plaudito alla fine della Triplice Alleanza, il «patto infame» già
vincolante l’Italia agli Imperi Centrali, auspicando la guerra
liberatrice contro gli Asburgo, «i carnefici di Oberdan»? Rygier
era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era stata
sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i suoi
legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese
(con cui sembra fosse in rapporti già dall’anno precedente), legami
comunemente ritenuti la ragione principale della sua invero repentina
conversione |a stessa Giacomelli, nell’articolo del 22 agosto, li
aveva definiti «i nostri migliori uomini»; mentre Errico Malatesta, nella
suà prima affermazione ufficiale contro la guerra (l’articolo Anarchists
have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre della
rivista londinese «Freedom», poi ripreso dai principali giornali libertari
italiani), si rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero
dei «compagni che amiamo: € rispettiamo profondamente». Rygier, nata
a Firenze, aveva militato nelle fila del sindacalismo rivoluzionario. Nel
1907, con Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista «Rompete
le file!». La sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con
la campagna in favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale
agitatrice) le era valsa il carcere e numerosi processi, contribuendo ad
accrescerne la fama negli ambienti sovversivi. Nel 1909 era passata al
movimento anarchico. Cfr. ANDREUCCI, DETTI, // movimento operaio
italiano. Dizionario biografico, Vol. IV, Roma, Editori Riuniti,
ad nomen. Per una breve storia de «Il Libertario» v. BIANCO, COSTANTINI,
Per la storia dell'anarchismo. «Il Libertario» dalla fondazione
alla prima guerra mondiale, in «Movimento Operaio e Socialista in
Liguria», RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, «Il
Libertario», all’interventismo. «Nei mesi che intercorrono tra la
settimana rossa e il suo ritorno in Italia nelle vesti di propagandista
dell’intervento — ha scritto a questo proposito uno storico
dell’anarchismo — Maria Rygier trova la sua strada proprio con l’aiuto
dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente di Francia, che
l’accoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovrà assolvere
nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell’ Avanti!”»?, A sua
volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati al fenomeno
dell’anarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti la svolta
della Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha scritto
né più né meno di «tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato»”?. In
quest’ottica, anche in considerazione del ruolo che molti anarchici
interventisti ebbero nel fascismo, non è difficile capire il perché, a
posteriori, si sia finito semplicemente per negare loro il diritto di
cittadinanza nella storia dell’anarchismo italiano. Senza dubbio, al di
là delle durissime e CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo
ventennio del secolo, Pistoia, RL, 1968, p. 34. È Quello dei
finanziamenti, più o meno occulti, della massoneria al movimento interventista,
fu uno dei motivi dominanti della polemica che precedette l’entrata in
guerra dell’Italia (e basti pensare alla nota questione dei fondi de «Il
Popolo d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier, quel che è certo è che ella
era da tempo in stretto contatto con gli ambienti dell’emigrazione
italiana in Francia, specialmente con i gruppi socialisti e anarchici di
Marsiglia, città dove la questione dei rapporti tra le frange interventiste
di estrema sinistra e le logge massoniche era sentita in modo
particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico Raffaele
Nerucci, si costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista
italiano, accusato dagli avversari, fin dal suo apparire, di loschi
connubi con la massoneria. Un anonimo articolista dell’«Avarti!»,
commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un
numero unico a sostegno dell’intervento («La nostra guerra», 21 marzo
1915), rimproverò a Nerucci e agli altri interventisti rivoluzionari
marsigliesi d’essersi serviti del denaro dei massoni, nonché del sostegno
del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia,
«Avanti!). Personaggio ambiguo e contraddittorio, Nerucci era nato a
Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa). A Marsiglia,
dov’era emigrato nell’aprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci
aveva a lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un
carattere che l’ambasciata italiana aveva definito «audace e pronto», ma
anche della sua spregiudicatezza (pare, del resto, che egli fosse in
qualche modo legato alla malavita locale). Nerucci era stato corrispondente da
Marsiglia de «La Protesta Umana», de «Il Libertario» e de «L'Avvenire
Anarchico». Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio di combattimento
marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 «per indegnità morale e
politica». Condusse il resto della sua vita sotto l’attenta sorveglianza
delle autorità fasciste. ACS, CPC, Busta 3526 [Nerucci Raffaello]. MASINI,
Gli anarchici italiani fra interventismo e disfattismo rivoluzionario, in
«Rivista Storica del Socialismo», comprensibili polemiche del momento”, che
hanno spesso sisi anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni
successive, la scelta i campo c Maria Rygier, per quello che il suo nome
evocava nell immaginario simbolico dell’estrema sinistra italiana,
rappresentò un trauma n pe riassorbito, cui può essere paragonato (ma
solo in minima parte) quello a fece seguito alla professione di fede
interventista di un altro protagonis delle battaglie antimilitariste
d’inizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn Circa le ragioni ideali, se non
devono essere sottovalutati, ne i inire il mutato atteggiamento della
Rygier — che prima di aderire all anaro ismo e stata sindacalista
rivoluzionaria —, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga 46he ad ogni
modo costituivano un substrato culturale comune a molti rivoluzionari,
non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come emerge dalla
febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr precedenti e
immediatamente successivi all entrata in guerra o alia, appaiono i
riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan veste della
Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n lei medesima
finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni repubblicano, fino 2a n la
confluenza di tutte le [ *interventismo rivoluzionario ne È i
manifestazione ufficiale dell’interventismo della Rygier Li lettera di
adesione alle tesi di Ambris, che ella pn 20 agosto, all’indomani della
discussa conferenza milanese del dirige i i i i i in «Volontà» del
19 2° Basti, al riguardo, ciò che della Rygier preti slo sini
settembre 1914: «Io trovo in te solo un merito: que î i i al tuo
dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per
morbosità di i i; inti i spirito». NOILIA . sentimenti; per
intima debolezza di spiri G i RG 27 Il caso del giovane militare di leva
Antonio Moroni, nie su vela di pria i i impatie anarchiche,
eri San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma i imilitari
È inistra (battaglia che egli stesso avi battaglia antimilitarista
dell’estrema sinis ‘negre i ie di l carcere, regolarmente
pubblicat limentare con una lunga serie di lettere dal ere, )
d ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa
DRSAATE campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no
A vs ci de i del sovversivismo; il che pu era stato accolto
come un vero e proprio eroe de ) E i i vecchi compagni allorchè egli, al
Ì » della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E i i ì
tari garibaldini (a ti dove finì per arruolarsi fra i voloni I
prese la via della Francia, i i $ I IN Arti i *arti i l'i L’Avvenire
Anarchico», 8 g 6 lempio v. l’articolo Moroni l'ingrato, « i
Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol.
III, ad Oltre i Iniziati i ì ropria penna a 28 Oltre che all’organo
nazionale del PRI, «L Iniziativa», la Rygier 9 la pi sa pci molti altri
giornali repubblicani, tra cui principalmente «La Libertà» (Ravenna),
Repubblicano» (Roma) e «Il Lucifero» (Ancona). sindacalista
Ma la Rygier fu anche i ratrice del Manifesto yg spirat le ‘anife
degli anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di
lei 3 gli di ‘anifesto ne quale egli VI ‘orma di programma,
le manif riprende a, ordinandole in fi d prog! 8 Si 5) = 1
gia espresse nelle su ue lettere a «Vo lontà» ppello, steso 1 tesi già
espresse nell ed Vol ); L’a Il t 120 sette re e diffuso alla fine de
(ese, critto da alcuni noti e meno ne del mese, era sottosi
ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1 noti esponenti dell anarchismo
italiano Insieme a sindac. I 1 ns d t tal ; sinda alisti,
socialisti dissidenti e repubblicani, e non fu un caso ch Ve pressi
In e vedesse la luce essoché contemporanea a un manifesto
Intransigentemente neutralista diramato dalla e: s Quasi ad anticipare la
nascita (; C lavi Direzione del PSI d I anche in chiave anti nu
ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista’’. el
testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia
libertaria, SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti
apertamente democratici e mazziniani («noi riteniamo che |
Internazionalismo sarà possibile solo q o nazioni saranno libere, P' iché
là dove odio divide l’Irredento uando le na: i, po là di l’odio divid I
‘eden dall’o, ressore, ogni altro problema economico e politico no! può
trovare ppi p! P' liti n ti SO uzione»), romantiche visioni camicie
rosse («la ri Li I, è per mi isioni di camici («l I neutralità. 088
P' utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni lett
‘gO. ional p legazione tutti solamente ui bbie iazionale; essa è la
recisa neg dello inter nazionalismo mater iato di solidarietà e
sacrificio, che ci ha spinto sui campi della Francia, della Grecia, del
Messico, della Serbia») e roboanti ! p proclam di stampo
roto-mussoliniano («I Inerzia è vigliaccheria e la neutralità, che
ancora disconosce la volontà po olare, è trad mento. E? l’ora ) pop:, ti
1 I 29 ì n E, n kia pon fn «L’Internazionale», Edizione Nazionale
[d’ora innanzi Ed.Naz.], 12 4. La lettera si trova riprodotta anche in
MARIA R soglia t i i YG ia di Lana nostra patria, Roma, Libreria
Politica, 1915. pp. 19-24 drain questo scopo ella si era segretamente in
’ n Gigli più di cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una
volta. Cfr. ACS, pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit.,
p.25 e firme apposte al manifesto erano i: e igli i 1 ap al m
quelle di: Oberdan Gigli, Maria Rygi i pe que Paolinelli, Edoardo
Malusardi, Gino Tenerani, ta elit Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele
Carletti, Ugo Piermattei, Len } I ‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni
Provinciali, Ezi ? ini eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci,
Francesco Sarti. Aigle 63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo
(Dedicato agli anarchici caiser, Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi;
i 3 ii i sui intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia
AREA appello della Direzione socialista, opera prevalentemente di
Mussolini, fu pubblicato dall’«Avanti!» del 22 settembre 1914
i rivolazionario, ite pp, 250251, colato FELICE, Miasolini:1
L'invito finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi
per la “loro” Francia, la Francia «della libertà e della rivoluzione»**.
Gigli, in verità, avrebbe voluto inserire nel testo almeno un accenno
alle terre italiane Irredente, ma ne fu dissuaso dalla Rygier, convinta
che non fosse ancora il momento per un’esplicita dichiarazione in senso
nazionale”. In calce al manifesto degli anarchici interventisti
figurava anche la firma di Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i
casi di Gioda, di Gigli, di Rygier — e di altri che ne sarebbero seguiti
— destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca si
schierasse per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi,
come una logica cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in passato,
specie in relazione alla guerra di Libia. Un giudizio di Berneri del 1924
(mentre volgeva al termine la parabola di Rocca come dirigente fascista)
racchiude in poche parole il comune sentire degli anarchici italiani e si
può dire riassuma buona parte della successiva riflessione storiografica
sul personaggio. «Massimo Rocca — scriveva Berneri — non è mai stato
anarchico. Fu individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si
voglia vedere, è però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico
dell’anarchismo V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v.
RYGIER, Sulle soglie di un'epoca, cit., pp. 27-29. Il
manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a
stralci su «Il Resto del Carlino» del 21 settembre 1914 (Un manifesto di
anarchici e di rivoluzionari a favore della guerra), su «Il Corriere
della Sera» del 23 e su «L’Iniziativa» del 26. Eloquente il commento del
quotidiano liberale bolognese: «Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani
si levano in piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso
di tutti gli uomini di libertà, per dar mano alla Francia, per
schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio
della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella
dell’individuo e della nazione: la nostra!» Per le
ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli /
sovversivi guerrafondai, «Avanti!», 23 settembre 1914 (cui fece seguito
una risposta di Gigli a Mussolini, pubblicata dall’organo nazionale socialista
quattro giorni dopo), e // manifesto dei falliti, «Volontà», 3 ottobre
1914. Sull’intera vicenda v. altresì FEDELI. Note su! 19141915. Gli anarchici e
la guerra, in «Volontà», 1950, n. 10, pp. 622-628. 35 Cfr. RyGIER,
Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26 36 CAMILLO BERNERI, Uomini e
idee. Libero Tancredi, «La Rivoluzione Liberale», 18 marzo 1924.
Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una valutazione
di carattere personale, ma sinseriva in una lunga consuetudine di
pensiero. A proposito della campagna interventista intrapresa da Rocca,
«Volontà» del 5 settembre 1914 lo definiva «un anarchico che... non è mai
stato dei nostri»; e Luigi Molinari, uno dei padri dell’anarchismo italiano,
in suo intervento su «L’ Avvenire Anarchico» del 15 ottobre, gli
contestava fermamente il diritto a dirsi anarchico, almeno «nel senso
scientifico della parola». Su Massimo Rocca si veda anche la voce
corrispondente in ANDREUCCI, DETTI, gra n. che si formarono uomini come Massimo
Rocca e che questi Icolare si pone come una delle fi iù i x i igure
più controverse e a tutt’oggi cin definite della storia politica italiana
del Novecento. seal so n° ‘è fon il 26 ni 1884 da una famiglia di modeste
condizioni, operaio tipografo come il compagno Mario Gi i i ; io Gioda,
Rocca accostato all’anarchismo agli inizi del ‘ ù ole ‘ lel ‘900,
nel momento in cui, insi prime suggestioni nietzschiane e all’inqui
IRR € Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si TARA ni nel nostro paese
le idee di Johan C Schmidt mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil
ueglicicoa i ‘ax Stirner), il filosofo de n x Attratto dalle teorie degli
individualisti, che a quelle idee e a iaia i 5 apici Rocca si era
contraddistinto per un’intensa nferenziere, collaborando nel frattem i gi
i ttività d ere, collal po a numerosi giornali o
anarcoindividualista, fra i quali «Il Grido della Folla» di ip ; Pi 1906
al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato vita PR lata rino del
«Novatore», rivista improntata a un marcato alismo intellettualistico;
esperienza che gli d | istici e gli era valsa lunghe ed acri polemiche
con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’, Agli eccessi è Pics E ;
a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico e le sue proprietà, apparve nel P
i Torino, a cura del tipografo modenese Ettore Z. i, già i gruppi
anarchici degli Stati Uniti e l°o, i i ua FR pera di Max Stirner, una i i
i del Geni met 1a d ner, prima introduzione al pensiero Ì $ ; pali
divulgatori delle teorie individualiste i i libertario italiano furono -
con i i an eri Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e
Leda Sulle fortune ‘e le diverse correnti dell’indivi i ell’individualismo
anarchico nel nostri DA A ’ pu Pena piace alla settimana rossa. Per
una storia dell Di. Italia (1881-, Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO
M. i i ici vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i
Vf perg « rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico italia i
«Il ( fuvil narchico italiano di schietta int i HR ino acri ni sia del
1902 da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad i ovanni Gavilli, cessò le
pubblicazioni cinque anni più tardi i i 7 Vai toi PIER. . ardi. T
CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi frico » (Firenze,
5), «La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire 1907-1908), «Sciarpa Nera»
(Milano, 1910 veli Gil INIT A |, -) e «La Rivolta» (Milano, 1910
ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si i 9 i loro più assidui
collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi i loda. V a ale a i. nel ve
Anarchico individualista, stretto collaboratore oca, 1 protagonisti
dell’anarcointerventismo. Nel do) ì convinzione al fascismo e nel 1929,
anche in virtù ' fottla chi paria ; i ; rtù della stretta amici
Rossoni, fu radiato dall’elen i ivi Mir gira gs co dei sovversivi. Cfr.
ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi 40 : . 13 Ra SS anni (poi
semplicemente «Novatore») uscì in tre serie successive: la Lr n Pose A
psi ottobre 1906; la seconda — dopo che Rocca e Consalvi ‘alia per gli
Stati Uniti — a New York, dal 15 ottobri i i a i 7 i } e 1910 al 4
de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal 29
luglio al « Nel 1907 il giornale anarchico romano «La Gioventù
Libertaria» accusò MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR polemici,
che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano d’altra parte il
carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della
sua formazione di autodidatta. Lo scoppio della guerra libica lo
aveva visto a fianco di Arturo Labriola e degli altri sindacalisti
rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si sentiva affine per
vocazione ideale), su posizioni decisamente “tripoline”’'. Con la sua
propaganda a favore dell’avventura coloniale, il solco che già lo
Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nell’estate
del 1914, tuttavia, grazie anche all’interessamento di Mario Gioda, aveva
tentato di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche
speranza, di poter prender parte al progettato - e presto abortito -
congresso di Firenze®. Con ostinazione, cui non era stata estranea una
buona dose di autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari,
Rocca aveva continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a
considerarsi anarchico. Rocca e Consalvi d’essersi
appropriati dei fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la
rivista. BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, ad indicem.
dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista
rivoluzionaria. In pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice
Partenopea. Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del sindacalismo
rivoluzionario. Tra il 1909 e il 1911 suoi scritti erano comparsi su
«Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo Oliviero Olivetti e su «La Lupa»,
la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena d’incontro fra
sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra l’altro, scrisse la prefazione al
volume di Rocca La tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto
al nazionalismo, bisogna dire che Rocca ne aveva seguito con grande
interesse l’avventura politica, come anche testimoniato dall’articolo. //
neo nazionalismo, scritto per il «Novatore» di New York nel dicembre del
1910, all’apertura del congresso nazionalista di Firenze che decretò la
trasformazione del movimento in Associazione. «E’ notevole — aveva
scritto Rocca in quell’occasione — che nell'Italia democratica del presente,
tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini abbastanza
coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il
nazionalismo in Italia è un fenomeno nuovo, che sconvolge molte
teorie, ma che comincia ad imporsi e col quale bisognerà
confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come un’onda di
sincerità lia, e che non manca d’un lato che avvolge gli
ultimi residui virili deila borghesia d’Ital onorevole e
grandioso». #? Gioda (un intervento del quale — figurava nel
programma congressuale) av “Gli anarchici di fronte agli altri
partiti sovversivi” — eva accompagnato una nota di raccomandazione
alla lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso
fiorentino. In quella lettera - che «Volontà» rifiutò di pubblicare —
Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire «di spiegazione
fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva chiesto d’esservi
ammesso come relatore sul tema “Guerra e militarismo”, al riguardo
assicurando che la sua tesi era «meno eterodossa» di quanto potesse
sembrare € di essere in grado di spiegarsi «fraternamente su Tripoli».
Cfr. ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.
Lettere di anarchici interventisti Nelli 7 f 4 7 ell’introduzione a un
suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come La programmatico del
suo modo di interpretare l’anarchismo, aveva ritto: i Dal
momento ch’io persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza
curarmi dell’altrui divieto o permesso [...], credo e persisto a credere
che l’anarchismo quale energia. critica di pensiero e di temperamento
individuale, e le affermazione ribelle di valori etici nuovi, possa avere
una vasta ed îm Bi funzione da compiere, a lato dei movimenti pratici:
credo anzi che dell'anfchismo ve ne sia molto oggidì — fuori degli
anarchici ufficiali — nelle minoranze ch formano la parte più viva e
suscitatrice della vita pubblica odierna i A ; questa visione
concettuale, estetizzante e fortemente elitaria dell anarchismo,
inteso più come uno stato d’animo che come un corpo certo di dottrine e
di programmi, Rocca restò in definitiva sempre fedele, pur nel mutare
delle esperienze politiche e personali, e ad essa si sarebbe fiheli
richiamato, negli anni della sua adesione al fascismo, a motivare le
posizioni assunte all’inti del ito! interno del
partito". E È n 5 È RSA ott ; “regni; contro l'anarchia. Studio
critico-documentario, Pistoia, Il Punto focale della riflessione di Rocca
era la contrapposizione fra la rigidità formale dell anarchia, intesa
come dottrina politico-filosofica, e l’energia liberatoria dell’anarchism
Se l’anarchia rappresentava il mito elevato a dogma, «una concezione
trascendente [ n superiore e padrona anche di chi vi crede»; l’anarchismo
era invece più propriamente 104 disposizione dello spirito «l’eterna sete
di progresso, di libertà, di novità», incarnantesi nell: rivolta, «nel
senso più puro ed etico del termine», al punto che «tutte le rivolte passate
è future, tutti gl’ideali nel loro senso dinamico» potevano considerarsi
sue mai istazioni AI libro di Rocca era premessa una breve lettera di
Arturo Labriola (a riprova dei legami esistenti ia individualista
torinese e il mondo del sindacalismo rivoluzionario), che Gol da È ci Sia
ammirazione per l’autore, definendolo «uno degli scrittori politici più
Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi
articoli revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: «Tu, Gioda,
sei tra i pochi che mi furono compagni di spirito anche prima che il
fascismo sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che volevano esser tali
per disprezzo delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e
della nazione, ma che affermavano ereticamente la realtà della patria fra
le masse sovversive di allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni
quel mio libro L'anarchismo contro l'anarchia [..] ein quelle cinquecento
pagine, ho ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è oggi
il fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del
sentimento nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta
indispensabile al progres umano; l'immortalità dellò stato e del diritto,
pur attraverso le sue trasbordo fol organo necessario a consolidare e conservare
le conquiste operate dalla società su se ‘stess concretandone la
coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le Pisi
veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini dissolventi; il
diritto alla libertà Non mancherà di stupire chi conosce qual sia la
concezione politica per la quale io milito scriveva Rocca all’esordio della sua campagna
interventista - sebbene sia coerentissimo con ciò che penso da dieci anni
e che da tre anni sostengo apertamente, nella previsione dell’attuale
catastrofe». Fulero della nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la
rivendicazione, ribadita fra il settembre e l’ottobre in numerosi altri
interventi”, della natura sostanzialmente anarchica della lotta contro il
militarismo e l’espansionismo desco in difesa dei popoli latini,
dal momento che «Ia latinità aveva sempre rappresentato la libertà, il
progresso e la rivoluzione»*”. Alla maggioranza degli anarchici
rimproverava perciò di. aver tradito l’eredità e il messaggio ideale del
vero anarchismo, «quello che combatteva Mazzini per completarlo, più che
per negarlo»'*, e di essersi messi al giogo dell’opportunismo
ministerialista e del complice “teutonismo” dei socialisti
ufficiali”. interiore per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito
una legge, e la legittimità della coazione su chi non si eleva a tanto»
ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce, TANCREDI, // dovere della
guerra, «L’Iniziativa», 29 agosto 1914. Questo e altri scritti del
periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o
rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi
d'Italia, Milano, Il Rinascimento, Oltre agli articoli direttamente citati v.
anche L'accordo che commuove, «L’Iniziativa», Gli eterni vinti, «Il Resto del Carlino», 3
ottobre 1914, e Gli anarchici, i sindacalisti e la situazione
internazionale, «Il Lavoro», TANCREDI, // dovere della guerra, cit.
4" Ip., Gli anarchici del kaiser, «L’Iniziativa», L'organo del PRI
pubblicò la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La
controversia che ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato
da Rocca fra gli anarchici favorevoli alla guerra contro gli Imperi
Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni Canapa), per via
di due suoi interventi apparsi su «Il Libertario» del 27 agosto e del 10
settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva
effettivamente ammesso di trovare «realistiche e più positiviste»,
rispetto alle astratte prese di posizione dell'ortodossia anarchica, le
considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli a proposito
dell’eventualità della difesa in armi del territorio nazionale, respinse però
ogni addebito Interventista, dapprima con un nuovo articolo su «Il
Libertario» del 24 settembre (La guerra no!), poi con una lettera di poco
successiva a «Volontà». A parte il caso di Manni, bisogna dire che gli
esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granché probanti.
Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto
D’Ambra) era un nome noto dell’anarchismo italiano, altrettanto non si
poteva dire di Lato Latini. Il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della
provincia di Arezzo, esercita il mestiere di tipografo - aveva informato
la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non averne fino ad allora
segnalato il caso, perché «modestissimo gregario della setta anarchica».
ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato]. 4° Per un giudizio di Rocca sulla
politica del Partito Socialista si veda la sua prefazione al volume di
LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno,L’ardente propaganda di
Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del resto gli altri
anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del movimento
ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a esacerbare
gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le intemperanze, da
una parte e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria Rygier
s’incontrarono alla Società Operaia di Bologna per una conferenza sulla
“Morale della guerra”, ma la decisione non si rivelò molto felice, vuoi
per la sede prescelta — il pubblico essendo costituito per lo più da operai
anarchici e socialisti — vuoi per il momento poco propizio”, e
l’annunciata discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto
di lancio di sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate
guardie del corpo (fra cui il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero
inevitabilmente la peggio”. Si era tenuto a Bologna un comizio del
deputato belga Lorand — in Italia allo scopo di sensibilizzare l’opinione
pubblica alla causa del proprio paese — in occasione del quale gli
organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che
«i repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e intelligenti
erano per la guerra all'Austria». Il Fascio Libertario bolognese e il
gruppo del foglio antimilitarista «Rompete le file!» avevano reagito con
sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli anarchici
tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata
pubblicata dall’«Avanti!» il 3 ottobre). ®! Cfr. La
conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, «Il Secolo», 5
ottobre 1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di
anarchici, «Il Corriere della Sera», 6 ottobre 1914. Sul
periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra l’azione
politica di Arpinati durante il fascismo e le sue radici
anarcoindividualiste, v. WHITAKER, Arpinati anarcoindividualista,
fascista, fascista pentito, in «Italia Contemporanea». Per il resto, le poche
notizie sulla formazione politica di Leandro Arpinati sono mediate dal
vecchio volume di NANNI, Leandro Arpinati e il fascismo bolognese
(Bologna, Edizioni Autarchia7), un’opera agiografica, scritta nel pieno
delle fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con
molta cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la
pubblicazione (sembra per volontà dello stesso Arpinati) e mai più
ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di Arpinati, da
SUSMEL (Arpinati, in «La Domenica del Corriere», 1967, n. 36 pp. 16-20) a
IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato a
Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, Arpinati si era trasferito a
Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero d’albergo, poi come operaio
alla fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre
Sante era stato uno dei maggiori esponenti della sezione socialista di
Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato all’anarchismo intorno
al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e
divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a
questo periodo anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini,
all’epoca direttore de «La Lotta di Classe», chiamato a inaugurare il
nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa. Nell'occasione,
gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una
dura contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v'è
traccia di quest’episodio nelle pagine dell’organo socialista forlivese).
Da quel momento - secondo gli autori sopra PPANTPP 777 VIP
PRRPPIA Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non Fine
Rei effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar campo, né
gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n proselitismo, pur in
un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i dopo l’episodio di
Bologna — e un momento prima di lasciare sn ia o ; Francia alla volta
delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an > rapporti con
Mussolini e l’«Avanti!», ottenne anzi il suo per più yritido e
importante, firmando i celebri e controversi articoli su « ua Carlino»
che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i temp: del suo
strappo interventista"‘. citati Arpinati e Mussolini sarebbero
comunque rimasti in seria Fata sunt î E) ri . . A icizi è ipazione
di Arpinati alla vita politica amicizia. Quel che è certo è che la
partecipazi T a Fi i ico itali i ionale collaborazione con un giorn:
ino, anarchico italiano, fatta eccezione per un'occasi x DE dpr
arti i i Socialismo e anarchismo («L’ Alleanz ; che aveva fruttato
l’articolo in due parti 4 % nt gent i he rilevante, e che solo l’intervei),
era stata tutt'altro cl ] ) i re ) A ità di i notare. Secondo la figlia,
autrice anc! futuro gerarca l’opportunità di farsi noi rice | na
iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i iscutibile biografia,
l’anarchico romagno i ima 4 a Fira dopo quello famoso della Società Operaia,
in papea RE incidenti, al punto da assumere un nome falso - Vittorio Neri
-, da saga panda all'oscuro la madre delle sue disavventure» (Oo Cari
erinen ‘eigen i r ittari ttera a firma È io padre, Roma, Il
Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O ( Civitella che si proclama «al
fianco» di Mussolini «per la A i verso sa rr, i i Italia» del 25 novembre
. Impiegato, comparve in effetti su «Il Popolo d Ita i È | pi
aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di madre
vedova, rese parte alla guerra. i iris fi ida A I} GIà i 6 ottobre,
la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i gii
artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana bolognese Ure
SR ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr.
«L’Inizi: n ail il i izioni Librarie Italiane, 1954), Rocca S In
Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni Librarie » anni
cbr scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del 191 pra a pa dr
n del fi i À i lini direttore dell’«Avanti!», Rocc: i ì del futuro
“duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie zi ialista (firmandosi con gli
pseudonimi a collaborazione con l’organo social 1 i i juidi il
l’articolo 4/ rimorchio dei ciechi., «ve Guidi), conclusasi 1°8 agosto
1914 con colo i c Sligo soin isagli i P in Dieci anni di nazionalismo di
ui 2g ( avvisaglia — ricordava l’autore in n eta A is la censura di
Mussolini, allora fe; t d'interventismo», non aveva passato la cei h
IR M Si i articoli // direttore dell’«Avanti!» smascherato. 9 i Si
tratta degli articoli / » ‘ato. U xa aperta a Benito Mussolini, e La
polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed del socialismo contro
la guerra. Un uomo di bronzo, «Il Resto del Carlino», 7 e sd Ai abissi è.
nÎ,, o 9 ‘sì questa vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit,
p. 255 ss., € Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, I casi fin
qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del
famoso pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più noti ed
emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli
anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto
guerresco, suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi e
ripensamenti, che, se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di
sostegno all’intervento, fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o
non andando oltre un generico - e del resto largamente condiviso -
sentimento di simpatia per la causa dell’Intesa, testimoniavano di
un’incertezza diffusa e sotto molti aspetti inevitabile, considerata
l’asprezza della prova, capace di segnare in modo indelebile la coscienza
di molti. Così, via via che gli eventi bellici maturavano e si modificava
la situazione politica interna, numerosi altri anarchici (alcuni dei
quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro giovane
romagnolo, Edmondo Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa Angiò, nato
a Foggia, era stato redattore de «Il Libertario». La sua attività si era
dispiegata per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove aveva soggiornato
per quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a
due giornali da lui fondati e diretti («L’Operaio» e «Lux»), a rinsaldare
la già fertile comunità anarchica italo-egiziana; e a Montevideo, in Uruguay,
dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove aveva dato vita al foglio «La
Giustizia». A differenza di Rocca e degli altri esponenti di punta
dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un ruolo determinante nella
propaganda per l’intervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore
della guerra contro gli Imperi Centrali destarono egualmente sconcerto.
Nel dopoguerra - come vedremo -Angiò avrebbe rivendicato con pervicacia
la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di raccogliere i
superstiti dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto politico
autonomo. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla figura e
l’opera di Roberto D’Angiò v. altresì BETTINI, op. cit., ad indicem. Il
percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello di
Leandro Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano Edmondo
Mazzucato si era trasferito a Milano appena diciottenne, in cerca di
miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato dapprima lavoro
nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista «Il Tempo», poi, come
tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava
l’anarchico «Il Grido della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i
primi contatti di Mazzucato con l’anarchismo, testimoniati dalla sua
collaborazione ai fogli libertari milanesi, «La Protesta Umana» e
«L’Operaio». Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in
arresto per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della
“domenica di sangue” in Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era
stato condannato a un anno di reclusione per aver percosso un superiore e
internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del 1910
aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il
quale - come sembra - conobbe il conterraneo Mussolini. Nove anni dopo,
scrivendo per l’organo dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia,
Mazzucato avrebbe rievocato quell’episodio con queste parole: «Lo
ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel
1910, quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferzò tutto un
sistema di obbrobrio, di patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte
cosiddetta intellettuale del Partito Socialista. Fu una rivelazione»
MAZZUCATO, Governo di pigmei, «L’ Ardito», proprio nella lotta interventista)
si lasciarono attrarre dal fascino e dalle ragioni della guerra. Fra
questi dovevano emergere due uomini, diversi per indole e per esperienze
di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe riservato opposti destini), ma
uniti allora nella comune battaglia interventista, nella quale avrebbero
riversato tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli, di
Grottaferrata?”, e il lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del
manifesto del 20 settembre. Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che
all’epoca dei fatti aveva appena venticinque anni (era nato il 30 agosto
1889), era poco conosciuto negli ambienti anarchici nazionali. La sua
esperienza di maggior rilievo era stata la collaborazione con il foglio
bolognese «L’Agitatore», per il quale aveva curato una rubrica di
corrispondenze da Lodi, firmandosi con gli pseudonimi ‘Turbolente e Odroade,
e rivelando, già allora, una naturale propensione per la polemica
giornalistica”. Attivo nella propaganda spicciola, specie in ambito
sindacale, e noto alle autorità di Pubblica Sicurezza per l’irruenza dei
comportamenti, il contributo di Malusardi alla vita politica del movimento
libertario era stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo
tenessero in conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una
certa importanza risaliva ad un comizio “pro scioperanti di Piombino e
Isola D'Elba”, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale
aveva avuto il compito d’introdurre l’oratore principale, che
nell’occasione era stato Massimo Rocca”. ; i Benché influenzato
dalle teorie dei sindacalisti rivoluzionari, l’anarchismo di Malusardi
appariva intensamente venato d’individualismo. L’anarchia -). Allo scoppio
della guerra europea Mazzucato seguì dunque Mussolini nell'avventura
interventista e si arruolò volontario, combattendo negli arditi. Nel
opoguerra wi rese protagonista nelle file del fascismo. Cfr. ACS, CPC,
Busta [Mazzucato], e MAZZUCATO, Da
anarchico a sansepolcrista, MRO EEgIeTE 1934 (per quanto edulcorata
questa breve autobiografia di Mazzucato A si n; “i rappresentazione
significativa non solo ne av politico dell’autore, ma anche del cl
>) a il primo movimento fascista). È È Matino iaia db nel 1882.
Approdato all’anarchismo dopo travagliate esperienze personali (nel 1898
era stato condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per aver a la
matrigna), fu uno dei grandi protagonisti dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS,
CPC, Busi Paolinelli Attilio]. 7 liaison che Ho vita,
con qualche interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta stato uno dei
più importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto di
alcuni tra i nomi più rappresentativi dell’anarchismo, da Luigi Fabbri a
Domenico Li da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al
settimanale bolognese, Malusari i aveva occasionalmente collaborato a «Il
Grido della Folla», a «L’Avvenire Anarchico» e alla sindacalista
«L'Internazionale», sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana. Cfr,
ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. aveva scritto in polemica con
un foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua collaborazione a
«L’Agitatore» - «è un sublime Ideale di redenzione proletaria», avente
per seguaci «tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli nazioni» e per
compito quello «di combattere ogni tirannia”. Noi però — aveva
concluso Malusardi — non ci illudiamo, lo sappiamo che la realizzazione
di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci sulla
realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di
violenza diretti contro l’autorità, le alte personalità e l’ordine
costituito, poiché fintantoché voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e
fintantoché vi cardio diseguaglianze, esisteranno sempre individui
risoluti, i quali, facendo getto della propria vita, emergeranno dalle
moltitudini belanti per vendicare la propria classe”! La realtà
opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice e pedagogica,
la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle, l'individuo
eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella simbologia e nella
fraseologia dell’individualismo anarchico e già contenevano, in potenza,
il germe dell’anarcointerventismo. Nel caso specifico di Edoardo
Malusardi, si può affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo
profondamente. l’intero percorso politico. i Nella propaganda per
l’intervento Malusardi manifestò un’ancor più spiccata vis polemica e una
notevole intraprendenza organizzativa rendendosi sin dall’inizio
protagonista di un vivace dibattito, nientemeno che con Luigi Molinari®?.
La contesa sollevata dal giovane anarchico lombardo. che investiva
proprio la consistenza e la misura dell’adesione anarchica alle tesi
interventiste, finì per coinvolgere il direttore de «Il Libertario»,
Pasquale Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato alcuni articoli filo
intesisti apparsi sul giornale spezzino (uno dei più diffusi e autorevoli
dell’anarchismo italiano) come segno dell’orientamento tutt’altro che
univoco degli anarchici in merito alla guerra europea. Binazzi fu
costretto a replicare che «il condannare e disprezzare fatti odiosi
compiuti dagli aggressori austro- TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera
aperta al direttore del giornale «Il Cittadino» di sal «L’Agitatore», La
prima sortita interventista di Malusardi apparve su «L’Iniziativa» del 12
settembre 1914 (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre
sulle pagine dell’organo nazionale repubblicano, Malusardi si scagliò
contro Luigi Molinari, il quale, sull’ «Avanti!» del 25 settembre, aveva
definito «bugiarda ed interessata» l’opinione, diffusa soprattutto negli
ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo più
favorevoli all intervento. La polemica fra i due si trascinò per diversi
giomi. Molinari aveva conosciuto Malusardi tre anni prima, in occasione
di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta a Lodi il 26 ottobre
1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi]. tedeschi contro i serbi, i
belgi e i francesi»? era cosa assai diversa dal far attiva propaganda per
l’intervento, con ciò riaffermando l’indirizzo indiscutibilmente anarchico
del suo giornale. In verità, la condotta de «Il Libertario»,
improntata, rispetto a quella di «Volontà» e de «L'Avvenire Anarchico», a
una maggiore elasticità, costituiva di per sé la spia di un non
trascurabile disagio. Non si può negare, infatti, che il foglio di
Binazzi — che, come si è visto, aveva pubblicato il primo articolo
“revisionista” di Maria Rygier — concedesse ampio spazio ad enunciati e
proposte che, agli occhi dell’ortodossia anarchica, dovevano apparire
quanto meno discutibili. Negli scritti di Tanini, di Baldassarre e del
socialista-anarchico Francia (collaboratori di lunga data del giornale e
figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci, scritti ispirati ad un
radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto violento per
1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di «nuove orde di
Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civiltà
occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal «pangermanesimo
delirante, negatore violento delle razze e del genio latini»; di
Francesco Giuseppe e Guglielmo II come di due «semi umani [...]
avvinazzati, due bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio
militare»; e si evocava «il tragico lievito rosso» della guerra, da cui
sarebbe dovuta scaturire, sulle rovine delle antiche tirannie, la
palingenesi rivoluzionaria”. Il fatto che, col passare del tempo,
queste posizioni si andassero mitigando*° è che Binazzi (come anche ebbe
modo di chiarire nel dibattito a distanza con BINAZZI, Non equivochiamo,
«Il Libertario» Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività
politica e propagandistica € nonostante la giovane età (era del 1889),
godeva di molta considerazione. Costretto a riparare In Svizzera per
sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato
una rubrica per «Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia
della settimana rossa. Cfr. ACS, CPC, Busta 5023 [Tanini
Alighiero]. © le citazioni sono tratte, nell’ordine, da: TANINI, La
guerra dei titani, «Il Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice
alleanza è morta per il bene del mondo,BALDASSARRE, /mperialismo barbaro,
Ivi; FRANCIA, l.'apocalisse
storica, Ivi. ® Forse per non dar adito ad altre divisioni,
Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono che la loro manifesta
simpatia per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il
desiderio di vedere l’Italia in guerra a fianco delle Democrazie, e
riaffermarono in più di una eircostanza la loro fede internazionalista.
Tanini s’ingegnò anche a mostrare la via per una soluzione pacifica della
questione nazionale: fare di Trieste una città libera e del Trentino una
provincia indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli //
nostro pensiero pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale
pacifista, «Il Libertario; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo /
tocchi dell'agonia). Malusardi) fosse personalmente del tutto
contrario al coinvolgimento degli anarchici nel nascente movimento
interventista rivoluzionario, non toglie che il suo giornale, si
consideri o no un segno di «discutibile larghezza», rappresentò, almeno
sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria di confronto,
anche estremo, sui temi della guerra. Fondamenti ideologici e
riferimenti politici dell’interventismo anarchico Patrimonio di
tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come si è
già più volte accennato - l’eredità dell’individualismo. Poiché
l’individualismo fu fenomeno complesso e variegato, è indispensabile
cercare di definire i contorni di questa comune matrice
dell’interventismo anarchico e, più in generale, provare ad evidenziarne
i tratti caratterizzanti. A tale proposito, considerata la sua influenza,
è il caso di soffermarsi ancora una volta sul pensiero di Massimo Rocca,
per il quale, nonostante l’iniziale infatuazione per Stirner,
l’individualismo non s’identificava - e non si era mai del tutto
identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua accezione più
diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di Stirner e
alle sue conseguenti degenerazioni “metafisiche” (di cui egli imputava la
responsabilità a giornali come «Il Grido della Folla» e che non riteneva
meno dannose per l’anarchismo dell’utopia comunista kropotkiniana) Rocca
opponeva una valutazione storica e “sentimentale” dello stirnerismo, che
sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che costituirà il substrato
culturale dei suoi futuri approdi politici. AI contrario di Tanini e
Baldassarre, l'avvocato Francia (che era nato nel 1869 a Minervino Murge,
in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file
dell’estrema sinistra pugliese) non tornò affatto sui propri passi.
Smessa la collaborazione con «Il Libertario», si schierò senza esitazioni
per l’intervento e si arruolò volontario nei reparti garibaldini
impegnati sulle Argonne. Nel dopoguerra aderì al movimento fascista e
prese parte, in rappresentanza dei Fasci di combattimento pugliesi, al
primo congresso nazionale fascista (cfr. «Il Popolo d’Italia», 11 ottobre
1919). Rimasto fedele all’idea socialista- anarchica, si distaccò dal
fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata coloritura di destra.
Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al regime (anche
in virtù di un carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo
spingeva all’isolamento) Francia visse il resto della sua vita sotto la
stretta sorveglianza dell’autorità di Pubblica Sicurezza. Cfr. ACS, CPC,
Busta 2155 [Francia]. CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio
del secolo, cit., p.37. Sull’atteggiamento de «Il Libertario» riguardo
alla guerra europea v. anche COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la
prima guerra mondiale, in «Movimento operaio e socialista in
Liguria», Egli — aveva scritto di
Stirner ai tempi del «NOVATORE» — non predica il delitto pel delitto, la
forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perché nella Germania
profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua “potenza”, il
suo “sacrilegio”, il suo egoismo hanno un’intenzione, un significato, una
portata non Individuale, ma sociale [...]. L’individuo di Stirner non è
dunque lo scialbo calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei
quattro soldi per truffare. E’ l’uomo che si erge di fronte al sole e al
mondo, pieno di tutta l’umanità che il passato gli ha trasmesso, ma
innalzato a questa base di ereditarietà, comune a tutti i suoi simili,
dalla gigantesca statura della sua personalità individuale” Rocca
sottolineava pertanto la grandezza “passionale” della filosofia di
Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria
nell’esaltazione del sentimento e dell’istinto. Ammettere questo
significava riconoscere, accanto all’individuo, «ogni entità collettiva,
dalla famiglia, alla classe, alla nazione, cementate e fondate da una
comunanza sentimentale»; significava, in una parola, «negare l’astratto a
favore del reale». Muovendo da queste premesse, Rocca era approdato a
quello che definiva “liberismo rivoluzionario” o “novatorismo”, che era
poi «l’individualismo anarchico ampliato e confrontato con la
realtà». Noi — sono ancora sue parole — affermiamo altamente l’importanza
dell’individuo singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma
comprendiamo pure le folle che rovesciano impetuose un ostacolo al
progresso dietro la spinta di una minoranza rivoluzionaria; comprendiamo
la classe che si materia soggettivamente dell’avversità sorda verso la
classe opprimente; comprendiamo la nazione che si forma per lunga eredità
storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato suo Interno
che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le
rivolte; comprendiamo tutte le volontà di affermazione e di dominio e le
esaltiamo quando sono sorrette da una fede sincera d’entusiasmo che le innalza
al di sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti
che tiranneggiano in nome di un principio confessato e francamente
servito sono infinitamente più nobili e rivoluzionariamente più fecondi
dei Giolitti che inaugurano l’accordo delle classi corrompendole nella
generale mangiatoia” TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo
democratico, «Novatore», New York,
Ivi Ivi, "Ivi, A proposito
dell’individualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo
auto-apologetico, Una difesa postuma (agli ex amici della «Vir»), in
«Quand-meme» (un numero unico pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su
interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel quale Rocca difendeva
la propria interpretazione dello stirnerismo dall’accusa di «morbosità»
Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere
i presupposti teorici dell’interventismo di segno
anarchico-novatoriano (quanto meno nei suoi artefici più consapevoli,
come Gigli) e le ragioni profonde della successiva adesione al fascismo
di molti dei suoi protagonisti. Quantunque il “novatorismo”
fosse il tratto saliente dell’interventismo anarchico, pure quest’ultimo
non può non esser considerato nell’ambito di quella vera e propria
esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu l’interventismo
rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni risorgimentali e dell’utopia
garibaldina fece da ponte tra le forze dell’estrema sinistra sindacalista
e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i miti dell’azione e della
violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo, rimandavano a un
linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti quanto ai
discepoli di Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua carica
eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici
propugnatori della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana del
tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non
trascurabile nella campagna interventista”. mossagli dalla rivista
fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per l
individualismo, «Vir»). Fondamentali, per una testimonianza diretta
a questo riguardo (prescindendo dagli inevitabili accenti
propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora segretario del PRI
Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito Repubblicano e la guerra
d'Italia, Roma, Edizioni de «L’Iniziativa», 1916. ?° Circa i legami
fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel e, in
senso più ampio, l’ideologia e la prassi politica sindacalista — v.
FURIOZZI, Socialismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Rimini,
Maggioli, 1981. Sul nesso tra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario,
specie in relazione alla nascita e all’attività dell’USI, v. anche
l’introduzione di Maurizio Antonioli a LEHNING, L'anarcosindacalismo.
Scritti scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando
Borghi e gli anarchici italiani, Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll
ss. A partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina
«Lacerba», fondata l’anno precedente da Giovanni Papini, assunse un
contenuto esclusivamente politico, dando un appoggio incondizionato alla
propaganda per l’intervento. Nel quadro di un indirizzo sostanzialmente
nazionalista, le pagine di «Lacerba» non disdegnarono di accogliere
posizioni di segno rivoluzionario. Valga per tutti un articolo di Ardengo
Soffici del primo settembre, Per la guerra, nel quale l’artista sposava
la tesi della guerra rivoluzionaria e tesseva l’elogio di Hervé.
Sui rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto CIAMPI, Futuristi e
anarchici. Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale
e dintorni, Pistoia, Archivio famiglia Berneri, Le differenti
impostazioni ideologiche, cui però sottostava una molteplicità di
riferimenti culturali comuni, s’intrecciavano dunque nella complessa
trama dell’interventismo rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani
andarono a costituire uno degli elementi formanti. “Guerra e Germinal”
(ovvero guerra e rivoluzione sociale, guerra come mezzo per
l’abbattimento violento del militarismo e delle strutture politiche ed
economiche borghesi), la meta additata da Ottavio Dinale ai sovversivi
italiani in un’intervista a «Il Resto del Carlino», divenne il tema
dominante della campagna interventista dei partiti estremi”; e il “mito”
della guerra rivoluzionaria - come lo ha chiamato Renzo De Felice -
s'impadronì anche dell’interventismo anarchico. Massimo Rocca firmò il
famoso “appello ai lavoratori italiani”, lanciato a Milano, per la
costituzione di un Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista,
punto d’inizio di un movimento che, di lì a pochi mesi, avrebbe messo
radici in tutta l’Italia centro-settentrionale”?. Da quel L'intervista a
Dinale (Ottavio Dinale dice «guerra e germinal») si trova in «Il Resto
del Carlino. La biografia politica di Dinale offre un esempio
emblematico del clima culturale nel quale prese forma e maturò la
corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista,
organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era
stato tra i promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e
fondatore del primo giornale ufficialmente sindacalista, il settimanale
«La Lotta proletaria». Quattro anni più tardi aveva Iniziato la
pubblicazione prima a Nizza, poi a Milano del periodico «La Demolizione,
caratterizzato da un’impostazione marcatamente antilegalitaria e da frequenti
richiami sia all'individualismo stirneriano, sia al nascente movimento
futurista. Interventista, attivo collaboratore del mussoliniano «Il
Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore dell’impresa fiumana e
candidato repubblicano alle elezioni del 1921, Dinale si avvicinò infine
al fascismo, diventando amico intimo (e poi persino biografo) di
Mussolini. Nel 1928 fu nominato Prefetto del Regno. Cfr. ANDREUCCI,
DETTI, op. cit., Vol. II, ad nomen, € CIAMPI, op. cit., ad indicem.
"3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario (sottoscritto,
oltre che da Massimo Rocca, da Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo
Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Attilio Deffenu, Aurelio
Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio
Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da «La Folla» del 4 ottobre
1914, quindi, sei giorni dopo, dal primo numero della nuova serie di «Pagine
Libere» (la rivista quindicinale di Olivetti, che si stampava a Lugano),
contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta sulla guerra europea,
contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo Rocca e di Maria Rygier.
Sulla nascita, la diffusione e il significato politico dei Fasci
Rivoluzionari v. in particolare il classico VIGEZZI, L'Italia di fronte
alla prima guerra mondiale, Vol. 1, L'Italia neutrale, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit.,
p. 305 ss. Di quest’ultimo autore v. altresì il breve saggio L
'interventismo rivoluzionario, in Il trauma dell'intervento, Firenze
Vallecchi, Infine, per una riflessione sui primi giorni
dell’interventismo rivoluzionario v. SERENI: alle origini dell’interventismo
rivoluzionario, in «Ricerche Storiche», 1981, nn. 2-3, pp.
525-574. momento gli anarchici interventisti furono parte integrante dei
Fasci, collaborando attivamente ad essi e intensificando i rapporti con
le testate dell’interventismo rivoluzionario. Nondimeno, essi avrebbero
sempre conservato una loro specificità. Alla fine di ottobre Attilio
Paolinelli, con Rocca, la Rygier, Antonio Agresti” e Torquato Malagola””,
pubblicò «La Sfida», “giornale di polemica anarchica”, un numero unico
che, se testimoniava dell’organicità del manipolo anarcointerventista in
grembo al neonato movimento dei Fasci, voleva anche dar prova di una
peculiarità ideologica rivendicata con fierezza e destinata, più tardi, a
trovare eco nelle pagine de «La Guerra Sociale»”*. Poco dopo la nascita
de «Il Popolo d’Italia», Paolinelli (che peraltro auspicava per il nuovo
giornale di Mussolini il ruolo di portavoce ufficiale dell’interventismo
rivoluzionario) scrisse al direttore dell'organo milanese di sentirsene,
in un certo qual modo, addirittura un precursore Il fiorentino Agresti
(1864-1926), incisore, anarchico vicino al sindacalismo rivoluzionario,
collaboratore de «La Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei
pochissimi contributi di parte anarcointerventista sul conflitto
mondiale, il pamphlet Perché sono interventista. Risposta all’opuscolo
“La guerra europea e gli anarchici”, Roma, L’Agave, 1917 (l’opuscolo
citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri, pubblicato a Torino per la
Tipografica Editrice). Nel corso della campagna interventista, come altri suoi
compagni, a cominciare dalla Rygier, Agresti finì per accostarsi al
mazzinianesimo (esemplare, a questo proposito, una sua lettera pubblicata
da «La Libertà», organo del PRI ravennate). Nel dopoguerra, pur mostrando
simpatia per il fascismo, si ritirò sostanzialmente dalla vita politica.
«Da molti anni- annotava nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma,
proponendone la radiazione dal registro dei sovversivi — si è allontanato dai
compagni di fede e non professa più principi anarchici. E’ un valoroso
pubblicista, redattore de “La Tribuna”, uomo d'ordine». ACS, CPC, Busta
31 [Agresti Antonio]. 7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in
provincia di Ravenna, era nato nel 1876. Come Agresti, anch’egli nel
dopoguerra si allontanò dall’impegno politico, rompendo i ponti con
l’anarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato]. 7 «La Sfida»
si apriva con una dichiarazione programmatica — a .firma «gli anarchici
indipendenti d’Italia» - e si componeva di cinque articoli (PAOLINELLI,
Comunismo e individualismo. Ideologie metafisiche e realtà
anarchiche; TANCREDI, Dell’anarchismo; AGRESTI, Oggi e domani; RYGIER,
Per la civiltà contro la barbarie; MALAGOLA, Alle armi!), più alcuni
estratti da Lectres à un francais sur la crise actuelle, un testo di
Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale trasparivano le
simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”),
comunemente citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro
posizioni filo-intesiste. Per le reazioni in campo anarchico ufficiale
all’iniziativa di Paolinelli v. Accettando «La Sfida». Ritratto del
grafomane pseudo-anarchico Libero Tancredi, «L’ Avvenire Anarchico», 12
novembre 1914, e BERTONI, Agli “sfidatori”, «Volontà», 28 novembre 1914.
?° «Caro Mussolini — scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti
presento a traverso un foglio «La Sfida», del quale ti mando alcune copie
[...]. Il nostro numero unico di Roma, come vedi, precorre il tuo bel
quotidiano» («Il Popolo d’Italia», 19 novembre 1914). Inesorabilmente, più
gli schieramenti si andavano definendo e più l’accanimento col quale il
gruppo degli anarchici interventisti reclamava il diritto alla qualifica
anarchica doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La sera del primo
novembre, al Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe luogo un
comizio dei Fasci, cui presero parte i redattori de «La Sfida» ed altri
anarchici dissidenti. «A proposito di questi ultimi — commentava quasi
divertito un quotidiano liberale — occorre notare che essi sono invasati
dall’idea che la guerra si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e
stupore»®°. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero
attendere”, mentre già da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni
di principio e delle polemiche verbali, il movimento libertario si
trovava di fronte alla spinosa e assai più concreta questione dei
volontari. Anarchici o garibaldini? ]
Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del
Risorgimento la nobiltà dell’ispirazione e alla loro opera disinteressata
il merito di aver educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito
di sacrificio, non nutriva però gran simpatia per il garibaldinismo.
Nella definizione del celebre capo anarchico, che pure da giovane, come
quasi tutti i protagonisti del primo internazionalismo italiano, aveva
pagato il suo tributo di affetti al mazzinianesimo, lo spirito
garibaldino era la “malattia infantile” dell’estrema sinistra italiana,
retaggio di un’epoca ‘lontana, sentimento generoso ma sterile, tanto più
pernicioso in quanto distoglieva i partiti popolari da quello che avrebbe
dovuto essere il loro solo scopo, la rivoluzione sociale”.
Certo è che, come il patrimonio storico e ideale del pensiero
democratico risorgimentale continuò ad esercitare un forte ascendente
anche sui più 0° Un comizio al Testaccio in favore
della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati, «Il Giornale
d’Italia», 2 novembre 1914. Alla fine di novembre si costituì anche
a Roma un Fascio rivoluzionario d’azione Internazionalista, che ebbe
proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola due dei più attivi
propugnatori (cfr. «L’Internazionale», Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i
' Al riguardo v. Soprattutto TONIETTI, Alienazione mentale o
mistificazione, «L'Avvenire Anarchico», 5 novembre 1914, e la lettera di
protesta del gruppo libertario romano “Martiri di Chicago”, pubblicata
dall’ «Avanti!» del 7 novembre. "? Per l'opinione di Malatesta
su Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne veda la
prefazione a NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il
Risveglio, accesi internazionalisti, che non di rado su di esso si erano
formati, così il garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa
impresso dalla prima guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un
po’ ingenua, del sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per
i repubblicani, i quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta
alle questioni di politica sociale, non avevano mai abbandonato le
idealità mazziniane, non deve del pari sorprendere per quel che riguarda
il Partito Socialista, quanto meno in alcune sue correnti, quelle più
vicine al socialismo delle origini. Allo stesso modo, sebbene gli
anarchici indulgessero assai meno alle suggestioni della camicia rossa,
anche in seno al movimento libertario sopravviveva, qua e là, un residuo
di mentalità risorgimentale, in cui - com’è stato scritto - «libertà dei
singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si confondevano e in cui
la pianta dell’internazionalismo affondava le sue radici in un terreno
impregnato più del volontarismo mazziniano che del determinismo del
socialismo scientifico». L’esempio più noto e certamente più
suggestivo di questo modo di concepire l’anarchismo è senz'altro quello
di Cipriani; ma egli era, in fin dei conti, un uomo d’altri tempi, di
quell’epoca di mezzo che aveva visto germogliare l’idea internazionalista
dal tronco del mazzinianesimo, sotto il pungolo della predicazione di
Bakunin®'. Quel medesimo clima ideale che aveva generato uomini come il
romagnolo PCeccarelli, compagno di Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda
del ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.
Lettere di anarchici interventisti Su «L’Internazionale» del 5
dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia in guerra” -
inaugurata il 21 novembre — comparve un'intervista di Alceste De Ambris ad Amilcare
Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo
dell’interventismo rivoluzionario (fu ripresa anche da «Il Popolo
d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo- intesismo.
Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Boldrini
tracciò un acuto profilo del vecchio rivoluzionario. «Cipriani — scrisse
Boldrini — è l’uomo che sintetizza l’avvenire, ma con sistemi e con
emotività passate. Non siamo feticisti: Amilcare Cipriani è dominato da
quella psicologia da cui furono dominati tutti i grandi uomini del
risorgimento italiano; il suo socialismo d’oggi, come il suo anarchismo
del processo di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e la sua
rivoluzione sociale è la rivoluzione dell’indipendenza italiana, che, con
l’idealità umana di Mazzini, fu prima del °70 come oggi, per gli uomini
d’azione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà di
tutti i popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però
qualunque forma di stato» (BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De
Ambris a Cipriani, «L’ Avvenire Anarchico» ibdiaibbici. Matese (di
cui era stato l’ideologo militare), un anarchico che aveva vestito la
camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®. Ma
qui è più che altro importante ricordare come giovani volontari
anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non
avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e
all’anarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna,
sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale,
proprio com’era nel costume e nella tradizione del martirologio
repubblicano) ‘, e poi di nuovo, nnon ancora spentasi l’eco per le
agitazioni antimilitariste contro la guerra di Libia, a riprendere le
armi contro i turchi!” Sulla scelta di questi giovani, accanto alle
memorie risorgimentali, aveva pesato in modo determinante la concezione
(tipica, come si è visto, Sulla figura di Ceccarelli v. ANDREUCCI, DETTI,
0p. cit., Vol. II, ad nomen. In merito alla sua importanza quale teorico
militare dell’anarchismo v. PERUTA, Democrazia e socialismo nel
risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1973, ad indicem. “©
Cfr. «L’ Alleanza Libertaria», 27 luglio 1911. Per il rientro in
Italia delle spoglie di Filippo Troja, alla fine di agosto del 1912, i
gruppi libertari romani, riuniti in un apposito comitato, avevano
addirittura organizzato solenni onoranze funebri. Il funerale
dell’anarchico garibaldino era stato motivo di gravi incidenti fra gli
anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a favore della guerra
libica. Il racconto che di quell’episodio aveva dato «L’Agitatore» di
Bologna è sintòmatico del favore e del rispetto con i quali, anche in taluni
ambienti dell’estrema sinistra libertaria, si guardava al garibaldinismo.
«Cosa non può aspettarsi —aveva scritto l’anonimo articolista de
«L'Agitatore» - il buon pubblico italiano in questo quarto d’ora di solenne e
malefica sbornia di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche
l'impossibile. Infatti si piglia qualunque pretesto [...] per inscenare
della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca del
nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi dei resti mortali d’un
nostro eroico compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda,
insieme ai suoi commilitoni della leggendaria camicia rossa, per
l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla dominazione turca. Ma
il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una profanazione e
violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano,
cittadino del mondo, appartenevano al popolo, perché egli aveva
combattuto, si era volontariamente sacrificato, per la libertà e
l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista, un
propugnatore dell’idea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di
popoli oppressi, e cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto
del suo meglio per donare la tanto desiata libertà a quel popolo torturato
dalla barbarie turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma. l'ornando le
sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di
servirsi del ricordo terreno di chi per la libertà morìa, per dimostrare
alla Turchia, da loro oggi combattuta, che anche uno di quelli odiatori
di guerre e di qualsiasi forma di governo combatté contro di loro»
(SPARTACO, // caso Troja, «L’Agitatore»). N Le insegne rosso-nere
dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la guerra
d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario l’anarchico
napoletano Oreste Ferrara. Cfr. TAMBURINI, L'indipendenza di Cuba nella
coscienza dell'estrema sinistra italiana, in «Spagna Contemporanea»,
PROPONI PORNIA dell’anarchismo individualista) dell’azione anarchica
anzitutto come ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica
ed anzi intrisa di spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con
l’epica del garibaldinismo. Pochi giorni dopo l’inizio della
guerra, mentre prendevano corpo i primi confusi progetti di una
spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le infuocate polemiche
dell’autunno, sette giovani italiani, raccolto l’appello di Ricciotti
Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta
della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. «Erano
repubblicani? Erano anarchici? — commentò un foglio repubblicano qualche
tempo dopo — Non importa sapere: erano italiani e seguivano una
tradizione che è gloria d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro, tutti
militanti del PRI, si trovava in effetti anche l’anarchico Cesare
Colizza, di Marino Laziale, un veterano della camicia rossa (aveva preso
parte come ufficiale alla seconda spedizione garibaldina in Grecia, nel
1912, combattendo a Drisko). Cinque dei sette volontari, fra i quali lo
stesso Cesare Colizza, erano caduti nello scontro di Babina Glava, presso
Visegrad, il 20 agosto 1914”. «Era anarchico — scrisse di Colizza
l’organo romano del PRI — il suo ideale muoveva verso l’ universalità, ma
la sua anima ribelle sentiva la protesta contro ogni ingiustizia»”'.
Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci, che lo aveva avuto
compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo ideale che
merita di esser ricordato perché rivelatore del modo d’intendere
l’anarchismo cui si è più volte accennato. «Il suo dio — ricordava Spallicci
— era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva
fondato il suo credo. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in
pace e sul campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie
sociali come contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo
sfruttatore, come contro il L'appello di Ricciotti Garibaldi [si veda],
incitante «la gioventù italiana a prendere posizione di difesa e, in
caso, di offesa», fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino
Ravasini. Lo si veda in «Il Fascio Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la
vicenda v. MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel
solco della prima guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani
e reduci garibaldini, [s.d.]. MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue
italiano, «La Libertà», 12 settembre 1914. °° Gli altri
membri della spedizione erano Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola
Goretti, Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino Corvisieri e Francesco
Conforti. Nella sostanza, la loro fu un’iniziativa personale, priva di
referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi, infatti, dopo aver
inizialmente accarezzato l’idea di una spedizione di camicie rosse in
Serbia (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata serba
a Roma tramite Ravasini), già il 9 agosto aveva diffuso una nota,
pubblicata da «Il Fascio Repubblicano», con la quale sconsigliava apertamente
l’invio di volontari. °! Eroi italiani caduti in Serbia, «Il Fascio
Repubblicano», 6 settembre 1914. turco che aggrediva la Grecia e, come
nell’ultima sua trincea, contro l’austriaco che aggrediva la
Serbia»? La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli
interventisti rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il
14 settembre i garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla
Casa del Popolo di Roma, in via Capo d’Africa, su proposta della locale
sezione del Partito Repubblicano”. A quella celebrazione, che fu la prima
manifestazione di un certo rilievo dell’interventismo di sinistra
(anticipante, non solo sul piano simbolico e iconografico, ma anche su
quello più strettamente politico, le assemblee dei Fasci rivoluzionari),
avevano preso parte anche alcuni anarchici, fra i quali Rygier e
Paolinelli”. E’ indice ulteriore delle incertezze e delle ambiguità di
quel momento il fatto che la Rygier avesse il giorno innanzi presieduto a
una riunione indetta dai gruppi anarchici capitolini, conclusasi con la
votazione di un ordine del giorno nettamente contrario all’iniziativa
repubblicana”, e che, ciononostante, ella fosse convinta di poter avere
con sé la maggior parte del movimento. «I miei compagni — aveva detto
anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del Popolo — saranno ove
occorra, ‘ al fianco di quanti soffrono e gemono sotto le percosse di
secolari violenze». L’episodio aveva profondamente turbato
l’ambiente anarchico della capitale, suscitando in particolare la dura
reazione di Ceccarelli, personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e
la risposta non meno infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una
lettera a «Il Giornale d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier
lontanissima dai suoi trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli
aveva replicatà, in questo modo: n MANNUCCI " Cfr.
«Azione Socialista», e «Il Fascio Repubblicano. I due soli superstiti della
spedizione,Colizza e Reali, erano rientrati in Italia da ochi giorni.
Cfr. «Il Corriere della Sera», 5 settembre 1914 e «Il Lavoro», Il Giornale
d’Italia» del 15 settembre e «Il Fascio Repubblicano» del 20, nel riportare
la cronaca della commemorazione, sostenevano essere presenti anche
i gruppi anarchici “Arganti”, “Salucci” e “Martiri di
Chicago”. Cfr. «Volontà», L’Iniziativa Ceccarelli era il fondatore del
gruppo libertario “Martiri di Chicago”, operante nel rione Esquilino,
gruppo che alcuni giornali avevano indicato tra gli aderenti alla
commemorazione del 14 settembre " Polemiche fra
anarchici, «Il Giornale d’Italia», 17 settembre 1914. In quanto [...]
alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro
l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realtà della guerra,
si convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di
quelle che possono lanciare i papi veri. L’anarchismo non è disciplinato,
interpretato e letto da alcun dittatore, né il Ceccarelli può arrogarsi
il diritto di parlare a nome di tutti gli anarchici, come se egli fosse
l’unico depositario della verità e della coerenza?” Se la
spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato
clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più ne sollevò quella in
Francia, ben più consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto
del cigno della camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno
utilizzata), ultimo bagliore di utopie ottocentesche prima che la moderna
guerra tecnologica e le mutate condizioni della lotta politica facessero
piazza pulita d’ogni residuo romanticismo. Già ai primi
d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si ritrovavano a
Parigi per discutere sul da farsi, «diversi, fra anarchici, sindacalisti,
socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia, ad
agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari
con organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre, operanti in
molte località del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani,
erano cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia.
L'indirizzo all’impresa, tanto sul piano militare quanto su quello
politico vero e proprio, era dato dal Partito Repubblicano, il quale,
sopravvalutando l'appoggio inizialmente ricevuto dalle autorità francesi,
mirava ad organizzare una spedizione per la liberazione di Trento e
Trieste, nonché a strappare l’iniziativa dalle mani della diplomazia
sabauda, così accelerando la formazione di un vasto moto insurrezionale
all’interno del Paese e la caduta della monarchia'. All’intransigenza dei
dirigenti repubblicani (soprattutto di Eugenio Chiesa, il più risoluto
sostenitore della spedizione adriatica, mentre il segretario del partito
Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più possibilista) '°°, avrebbe
fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di Peppino Garibaldi, il
maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza perpiessità (legate
più che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio), in molti
riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino VIGEZZI, A
questo riguardo v. ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit. 12 Per
quanto attiene al ruolo e alla centralità del PRI nelle vicende descritte v.
anche CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra,
in Atti del XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma,
Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, 1965, p. 86
ss. Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese
alla costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per
accettare il semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione
Straniera. Era dunque nata la Legione Italiana, composta di tre
battaglioni, con sede a Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo
di Mailly all’inizio di novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di netto
orientamento repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e
forte di trecento uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre dietro una
precisa disposizione del Comitato Centrale del PRI". La maggior
parte dei suoi membri aveva fatto ritorno in Italia; altri, come Massimo
Rocca (che aveva raggiunto la compagnia il giorno stesso del suo
scioglimento) 104. si erano aggregati alla Legione Italiana di Peppino
Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi combattimenti delle
Argonne nel dicembre-gennaio. Oltre a Rocca (che, a quanto risulta
dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro che più si adoperarono perché la
Legione fosse inviata al fronte) !%, facevano parte di quel corpo di
volontari altri anarchici, fra i quali sono certi il veneto Gino Coletti,
autore fra l’altro di una breve storia della spedizione", i
romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Pezzi Su tutti questi punti v.
VIGEZZI La fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto
del progetto politico repubblicano, ma fu, in un certo senso, la.
dimostrazione dell’impossibilità, per l'interventismo rivoluzionario, di
costituire un movimento davvero autonomo, in grado d’influire in modo
determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento
all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali
molti sovversivi erano partiti volontari, quelli di loro che avevano
scelto di rientrare in Italia avevano agito correttamente (cfr. GioDA, A
proposito del battaglione Mazzini, «La Folla). 104 |a data del 14
ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche
da Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto
della comunicazione ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia.
Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS MAZZINIANA DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo
Zuccarini, FI e 3/18. 08 La Legione Italiana lasciò il campo di
Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo temporeggiamento, dovuto ai
molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino Garibaldi e
quest’ultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto
un accordo con gli uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero
Tancredi) «per partire al fonte da soli», qualora l’ordine di partenza
non fosse giunto per la fine dell’anno, V. ZUCCARINI, La missione a
Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo Zuccarini, FI e 1/3.
+ ì 10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina,
Bologna, Stabilimento Poligrafico Emiliano, 1915. Sulla
figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come
segretario dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci
permettiamo di rimandare a LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il
fascismo. Il caso di Gino Coletti in una lettera a Mussolini, in «Nuova
Storia Contemporanea», e Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti
a Parigi) » e un certo Perati, descritto proprio da Coletti come
anarchico romagnolo profugo della settimana rossa, che perde la vita nello
scontro delle Argonne. A tal episodio partecipò anche Rocca, che pare vi
rimanesse ferito. Di sicuro egli si trovava ricoverato in un ospedale
francese quando «La Folla» pubblica un suo articolo presentandolo quale
«eminente anarchico disilluso, andato in Francia coi garibaldini [...], ora in
un ospedale Cfr. «Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1914 (recante una
lettera di Masetti dalla Francia, nella quale l’anarchico romagnolo si
lamentava del trattamento al quale i volontari italiani erano sottoposti
dalle autorità militari francesi e, in particolare, del fatto che la
Legione Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Masetti
era nato a Ravenna. Tra i rappresentanti più in vista dell’anarchismo
ravennate d’inizio secolo, collaboratore assiduo de «L’Agitatore», amico
di Fabbri, di Zavattero e di Borghi, Masetti, già prima della guerra,
aveva avuto motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica.
All’epoca dell’aspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che
aveva a lungo insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri
lavoratori socialisti e lavoratori repubblicani (i “rossi” e i “gialli”,
secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur parteggiando per la
causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici
in quella lotta, temendo che ciò potesse significare la compromissione
dell’anarchismo con il riformismo socialista, che egli detestava. Il
dissenso con gli anarchici ravennati (alimentato dalle simpatie di
Masetti per certo repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a
indurre Masetti a dichiarare di non aver «più nulla in comune» con loro
(«L’Agitatore» 21 agosto 1910). In realtà, la separazione era stata di
breve durata e Masetti era rientrato a pieno titolo nel movimento.
Direttamente coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di
omicidio, Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero.
Terminata l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a
Ravenna, dove fu tra i promotori del locale Fascio rivoluzionario
d’azione internazionalista (cfr. «La Libertà», Ravenna). Richiamato alle
armi, cadde in battaglia. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti]. ‘°8
Cfr. «Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915. Panzavolta e Pezzi
militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale
godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza. Era
espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e dove, almeno
sino all’inizio del conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con
gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto costantemente sotto controllo
dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la guerra,
progressivamente abbandonato l’impegno politico — dietro sua esplicita istanza — fu cancellato
dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose, dimostrato
«buoni sentimenti patriottici». ACS, CPC, Busta
[Panzavolta]. Domenico Pezzi, al contrario del vecchio compagno,
non avrebbe mai rinnegato le proprie origini, segnalandosi anzi per
l’impegno antifascista, sia pur modesto. Dalle informazioni della polizia
doveva risultare iscritto alla loggia massonica “Italia” (nota come focolaio
di opposizione al regime), sostenitore della Concentrazione antifascista
nonché regolarmente abbonato a «Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta
[Pezzi Domenico]. Cfr. «L’Internazionale», 27 gennaio 1915.
!!° Cfr. «L’Iniziativa», gravemente ferito». Intorno a questa
vicenda si scatenarono in realtà le ipotese e le illazioni più svariate.
L’episodio aveva invero del misterioso, se le stesse autorità - come
sembra - non erano in grado di far piena luce sull'accaduto. Il 5
febbraio 1915, in una nota indirizzata alla Direzione Generale di
Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni, la Regia Ambasciata
d’Italia a Parigi segnalava Rocca tra i feriti nei combattimenti delle
Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo, che egli si trovava
ricoverato perché «ammalato di febbri»!!?. Il nuovo caso legato al nome
di Massimo Rocca trovò eco sulle pagine della stampa anarchica
italiana. Ancora a distanza di due mesi dall’episodio, scrivendo sotto
pseudonimo (Dyali) per la milanese «La Libertà», la nota scrittrice e
propagandista libertaria Leda Rafanelli negò che Rocca fosse stato ferito
in battaglia e affermò trovarsi egli in ospedale vittima di una angina
pectoris, non avendo preso parte ad alcuno scontro ed essendosi limitato
a prestare servizio nella Croce Rossa. «Libero Tancredi — ironizza Dyali
— fino a oggi ha portato alla Francia un aiuto un po” discutibile: ha
occupato un letto che poteva servire a un ferito di guerra; a un
francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima ancora del diretto interessato,
replicò Edoardo Malusardi sul foglio anarcointerventista «La Guerra
Sociale», sostenendo che, se effettivamente Rocca si trovava ricoverato
per l’acuirsi di una malattia respiratoria che da tempo lo tormentava,
pure egli aveva combattuto negli scontri, restando ferito a una mano. Fu lo
stesso Rocca, in una lettera da Parigi, a chiarire definitivamente la
questione. Egli — racconta - ammalato realmente di angina pectoris, cui
in Francia si era aggiunta una stupidissima bronchite, era stato
ricoverato per motivi di ll L'articolo, intitolato La rejetta,
un’accorata difesa di Maria Rygier, sortì come effetto di far nascere
nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Ceccarelli serisse
fra l'altro: «Costoro [gli individualisti] — hanno arrecato danno al
nostro movimento più di quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie
del mondo messe insieme» (CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, «La
Folla», 31 gennaio 1915). !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca
Massimo]. !!! «La Libertà», Milano. Il «La Guerra
Sociale. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno pseudonimo
(Emme). ] La polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un
prologo qualche tempo prima, rincora a proposito di Massimo Rocca e del
suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un intervento della Rafanelli
sul giornale milanese «Il Ribelle», nel quale l’autrice aveva
riconosciuto la «figura morale» di Rocca, «il babau dei pontificanti
dell’anarchismo», sostenendo però essersi egli, mercé il suo acceso
interventismo, del tutto isolato dal resto del movimento anarchico,
Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno — e quindi
a sé stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti — il diritto a dirsi
anarchico (cfr. EipoARDO MALUSARDI, Per la verità, «L’Iniziativa»).
MA A A Ai salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato
ferito sul campo, ma aveva nondimeno preso parte ai primi tre
combattimenti sulle Argonne ed era anzi stato proposto per il grado di
sergente'!. La lettera di Rocca precedette di poco il suo rientro in
Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9, Durante il soggiorno
nella clinica militare di Guyon, Rocca aveva inviato a «Il Resto del
Carlino» una lunga corrispondenza. In essa, prendendo a pretesto la
propria esperienza come volontario garibaldino, era giunto, in mezzo a
reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore “libico” (per le quali il
garibaldinismo era «l’espressione più genuina e più profonda del
rinascente imperialismo italiano» e quest’ultimo altro non era che
«l’esuberanza delle forze vitali») !!”, ad evocare una sorta di
sovversivismo nazionale permanente e, per così dire, istituzionalizzato,
di cui vedeva il modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto
costituire, perfetta combinazione tra libertà del singolo ed esigenze
nazionali, lo spirito di una nuova Italia. Il fenomeno
garibaldino — aveva scritto, in questo modo definendo le coordinate del
proprio “anarco-nazionalismo” è un egoismo intimo, perché lungi d’imporsi
collettivamente dalla nazione all’individuo, trova l’origine e la spinta
nell’individuo singolo che sente, da solo, tutta la propria
nazione!" E ancora: Io sogno ed io scorgo una
nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia garibaldina, ove
la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione, della
disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di forza
nella nazione interamente padrona de’suoi destini [...], nell’individuo
eternamente libero, pur nei limiti della compresa e voluta, perché
necessaria, disciplina Una rettifica di Tancredi, «La Guerra Sociale», Fatto
rientro a Milano, dove come si
affrettava a comunicare la Prefettura — era «convenientemente vigilato»,
Rocca riprese subito la sua propaganda interventista. Il 30 marzo era
alle scuole comunali di via Circo per una conferenza sul tema “Classe e
nazione”. ACS, CPC, Busta [Rocca]. TANCREDI, L'imperialismo
garibaldino, «Il Resto del Carlino. In questo stesso periodo la rinnovata
collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi fruttò a Rocca altri
tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra
Rocca e «Il'Resto del Carlino» si nutriva evidentemente di stima
reciproca. Poco tempo prima della pubblicazione di detti articoli,
l’autorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente recensito l’ultimo
libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per
Sono parole, quest'ultime, nelle quali si può ragionevolmente
cogliere un’anticipazione delle future battaglie revisioniste condotte
dal Rocca in seno al fascismo. Le vicende dei volontari
italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria, destando anche a
sinistra un’ondata di commozione (non si deve dimenticare che sulle
Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in grado di
risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Così, un foglio anarchico
di Senigallia che si definiva «giornale razionalista» indirizzava «ai
volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libertà, il saluto
di tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre il segretario della Camera del
Lavoro di Carrara Alberto Meschi, d’indiscusso credo neutralista, pur non
approvando «le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni», non si
sentiva per questo di ritenerli dei «rinnegati e dei venduti», e si
augurava comunque la sconfitta degli Imperi Centrali, «causa di tanti
mali e di tanto danno»!?!. Persino «Volontà», nel momento in cui ribadiva
la propria totale avversione alla guerra, non poté evitare di esprimere
simpatia e financo «ammirazione sincera» per quei sovversivi, pure
anarchici, andati a morire sui campi di Francia'”°. Sono esempi
importanti, che attestano di un malessere vero, a riprova che spesso,
anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni erano ben più
sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far
credere. La conquista di uno spazio politico Quando si esuli
dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti
interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse
di fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i
caratteri di originalità e di onestà intellettuale (cfr. VALORI, Un
volume di Libero Tancredi sulle due guerre della vigilia, «Il Resto del
Carlino). «Il Resto del Carlino» occupò un posto di primo piano tanto
nella “direzione” della campagna per l’intervento, quanto nel dibattito
politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in
senso nazionale dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal
“caso” Mussolini). A tale riguardo (in merito, soprattutto, al ruolo di
Naldi) v. MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere politico ed economico a
Bologn, Milano, Guanda. «Il Solco», 17 gennaio 1915. «Il Solco» era
diretto da Ottorino Manni. !:! MESCHI, Contro la guerra, «Il
Cavatore», «Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese. 12
Ancora dei volontari e la guerra, «Volontà» quella corrente politica, in genere
refrattaria a precise regole d’inquadramento e di organizzazione, è
difficilmente quantificabile. Un aiuto ci viene senz'altro dalle pagine
dei giornali"? e soprattutto dalla rubrica “Adesioni” de «Il Popolo
d’Italia», che ci offre uno spaccato significativo delle divisioni in
atto nel campo libertario. In appena dieci giorni il nuovo organo
socialista mussoliniano, che aveva iniziato le pubblicazioni il 10
novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici anarchici!”,
svelando una realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno scorcio
su alcune realtà locali particolarmente interessanti!”’. A titolo di
esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio
Lotti, di Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo
libertario di Santa Croce sull’ Arno (cfr. Ad un emerito girella, «L’
Avvenire Anarchico»), e Baronti, di Firenze. In una lettera a un foglio
liberale fiorentino, Baronti si dissociò peraltro dall’anarchismo,
dichiarandosi di «idee nazionaliste» (Una lettera significante, «L’ Alfiere»).
L’individualista Baronti, un violento con numerosi precedenti penali (e
senza alcuna influenza nel partito, secondo quanto scriveva di lui la Questura
fiorentina) si fa strada nel fascismo. S’iscrisse al Fascio di
combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla
fine della guerra, divenendo capo squadra della milizia. È addirittura chiamato
alla segreteria dei sindacati fascisti di Sinalunga e l’anno successivo,
descritto ormai nelle carte della Pubblica Sicurezza come «un puro
fascista», venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC, Busta [Baronti]. Nell’ordine: Pietro
Battaglino, «anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo
Pieraccini, «anarchico individualista» di Genova; Navacchio, «operaio
anarchico individualista» di Pisa; Farè e Franceschelli «anarchici
novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro
Clelotti, Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Monaci,
tutti piombinesi (25 novembre); Ferrari, «anarchico non fossilizzato»
milanese; Facchini, del «gruppo anarchico bresciano. Sfortunatamente, con
l’eccezione di Battaglino, la sommaria testimonianza de «Il Popolo
d’Italia» è tutto ciò che ci è stato tramandato di questi uomini.
Battaglino, nato a Novara, di professione venditore ambulante, aveva
collaborato a «La Protesta Umana». Operoso nel campo dell’organizzazione
sindacale aveva dato vita a una “lega di miglioramento fra venditori
ambulanti”, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e n’era stato
eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al
Fascio di combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel
1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 407 [Battaglino]. 125 E? il caso
di Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra
tra neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di anarcointerventisti
piombinesi citati da «Il Popolo d’Italia» il più conosciuto era
senz’altro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del Piano in provincia di
Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba dei
liberi” e si era guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa
partecipazione agli imponenti scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu
quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma venne allontanato
dal Fascio nel marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS,
CPC, Busta [Monaci]. Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle
controversie ad esso legate fossero niente affatto marginali (pur non
potendosi certo sostenere; come fece ad esempio l’organo del partito
Social Riformista con chiaro intento provocatore, che la maggior parte
degli anarchici italiani fosse per l’intervento) lo dimostrano anche il
rinfocolarsi delle polemiche e il fatto che i nomi più autorevoli
dell’anarchismo italiano sentissero la necessità d’intervenire personalmente
nel dibattito. In particolare, prima con una vibrante lettera pubblicata
su un numero unico dei sindacalisti parmensi!””, poi con una serie di
articoli su «Volontà», Luigi Fabbri dovette ribadire le motivazioni
ideali e politiche dell’opposizione anarchica al conflitto in corso,
contestando una ad una le affermazioni degli anarcointerventisti, ai
quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata
puntigliosità'?8. Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra
fautori e detrattori dell’intervento, l’accanimento della lotta, non di
rado alimentata da amarezze e da rancori personali, contribuivano del
resto a tener alta la tensione!”?. E’ in questo 10 «Egli [I
«Avanti!»] — scrisse «Azione
Socialista»- ci accusa di malafede perché abbiamo contato gli anarchici e
i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in campo il deliberato
dell’Unione Sindacale. La metà più uno! E” questa la norma valutatrice di
questi rivoluzionari dell’età della pietra! Noi invece, con buona pace
dell’organo milanese, crediamo di non commettere un falso annoverando tra
i nostri vicini in questo momento i sindacalisti e gli anarchici; quando
tali si vogliono considerare quasi tutti coloro che rappresentano un
pensiero e che a queste correnti d’idee danno importanza nella vita
nazionale». ; Ù 127 Si tratta di «Contro la guerra!», edito a Parma il 6
febbraio 1915 «a cura di un gruppo di sindacalisti», in aperta
contrapposizione alla linea politica di De Ambris. 28 Si veda in
particolare l’articolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra
(«Volontà»). Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con
l’uscita de «La Guerra Sociale», furono bersaglio di molte e appassionate
repliche da parte della redazione del nuovo giornale anarcointerventista
(nell’ordine: RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, «La Guerra
Sociale»; POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO Giona, Contro una
stupida speculazione; GIGLI, Anarchismo: concezione storica e concezione
razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita e nella teoria, Ibidem, 10
aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi; TANCREDI,
Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio
e c.,). ubi, Circa la posizione di Fabbri v. altresì ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Il diario di Fabbri, in
«Rivista Storica dell’ Anarchismo», Un ulteriore motivo di contrasto fra
le opposte tendenze scaturì dalla diffusione di un manifesto anarchico
contro la guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: «Che
ben vengano i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a
portarci questa civiltà, o sono più barbari e che vengano a
civilizzarsi». Mario Gioda lo definì un «documento clima e su questo
sfondo di passioni che dev’essere inquadrata la violenta aggressione
subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese, una frazione
di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove l’anarchico genovese
risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per avere tra
l’altro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro!” Il fatto,
condannato dalla redazione di «Volontà»!!, fu invece accolto con
soddisfazione sia da «Il Libertario», che anzi deplorava il “buon cuore”
del foglio anconetano", sia da «L'Avvenire Anarchico», che
laconicamente commentava: «Di fronte a tanto strazio di vite non ci
debbono essere rispetti umani», Nel frattempo il processo di
organizzazione dell’interventismo rivoluzionario e della sua frazione
anarchica non aveva subito rallentamenti. Si era riunito a Milano il
primo convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari d’azione
internazionalista, al ipa avevano preso parte, applauditi protagonisti,
la Rygier e Paolinelli. L'impegno penoso», esortando gli anarchici «più
consapevoli» - fra i quali annoverava lo stesso Luigi Fabbri, che infatti
non aveva esitato a manifestare le proprie perplessità al riguardo - a
non farsene complici con un «ancor più penosissimo silenzio» (GIODA, Ben
vengano?, «Il Popolo d’Italia». Per la cronaca degli avvenimenti v.
Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, «Il Popolo d’Italia», e Argomenti
neutralisti, «L’Internazionale». Il giornale di Mussolini pubblica una «lettera
aperta» di Gigli al deputato socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio
elettorale si era verificata l’aggressione. In tale missiva, scritta
all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori,
in maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. «In questa
folla feroce — scriveva — non vi è più, se mai v’è stata, l’anima
socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza socialista al
Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle
dimissioni (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza
intervenzionista, «Il Resto del Carlino). Cfr. «Volont Alla
riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da parte degli irruenti
neutralisti finalesi, «Volontà» aggiunse comunque un commento
significativo. «Oberdan Gigli — sostenne l’organo anconetano — che è persona di
cuore e ragionevole deve pure rendersi conto dei moventi più intimi del
fatto lamentato. Pensi egli all’impressione che deve fare nelle anime
primitive e nelle menti incolte questo fenomeno, di vedere proprio uno
che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei loro
interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima
libertà individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a
fare una propaganda che, se ascoltato, avrà per risultato l’abdicazione
d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la guerra e la
chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai». 12
L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, «Il Libertario», CHELOTTI, Giuste
argomentazioni, «L’ Avvenire Anarchico», A questo riguardo v. FELICE, Mussolini
il rivoluzionario, cit., pp. 305-306. Per il resoconto del
congresso si vedano principalmente «Il Popolo d’Italia» e «L’Internazionale» del 30 (ma anche
gli articoli di «Azione Socialista» e de «L’Idea degli anarchici nella
campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la definitiva
consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de «La Guerra
Sociale». Il primo numero del nuovo «settimanale anarchico interventista»
uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a «La Guerre
Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé, mentre il
motto, rubato a Giuseppe Garibaldi («E’ inutile sperar alustizia se non
dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della commistione,
in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei, tratti tanto
dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e
risorgimentale. Il compito nostro — recitava l’articolo di fondo
della redazione — è ben preciso: rivendicare cioè ad alta voce il nostro
diritto di cittadinanza nel campo anarchico che i teologhi dell’anarchismo, in
nome di non sappiamo quale “sacro comandamento” ci vogliono negare;
prepararci ad incitare all’azione la parte migliore degli anarchici
d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di femmineo
sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può
camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La
Guerra Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente
anarchica" In prima pagina, Gigli riassumeva a titolo programmatico
i fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche
dell’anarcointer- ventismo. Nazionale», organo ufficiale
dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi contemporaneamente
all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, si era
riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa. «Il Popolo
d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca di una riunione degli
anarchici interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo
repubblicano Cattaneo di via Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di
quell’incontro era stata decisa la pubblicazione di un giornale di segno
anarcointerventista, che, «oltre che propugnare le tesi dell’intervento
dal punto di vista anarchico», proponesse anche «di iniziare una sana ed
audace discussione d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dall’ondata di
ridicolo in cui l'avevano trascinato i pontificanti dell’anarchismo
ufficiale». NES Rui Hervé era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo
e dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del «La Guerre Sociale»,
aveva condotto una feroce battaglia contro le istituzioni militari. E”
singolare che gli anarcointerventisti italiani si richiamassero a quella
storica testata dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto
un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé,
passato alla causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a «La
Victoire», organo del nuovo Movimento Socialista Nazionale da lui
fondato. Sulla diffusione e la fortuna dell’herveismo nel nostro pnese v.
GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo
Bartalini e «La Pace», Milano, Angeli, La Guerra Sociale», SI Vi sono
guerre e rivoluzioni liberatrici — scriveva — e accettiamo la guerra per
evitare una oppressione. Noi vediamo l’anima anarchica in ogni rivolta
liberatrice. Noi siamo gli eterni rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo
cospirato con Mazzini per l’unità d’Italia e oggi, nell’India, saremmo
coi nazionalisti nella rivolta contro gli inglesi. Noi riteniamo che la
vittoria degli Imperi Centrali sarebbe un enorme male per la civiltà
nostra. Sarebbero prevalenti i focolai dell’autoritarismo cattolico più
inflessibile, dell’imperialismo più pazzesco, del militarismo più prepotente:
sarebbe rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel
riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali. Noi vogliamo al
contrario che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi
storiche della rivoluzione proletaria. Noi manteniamo integro e purissimo
il nostro ideale anarchico!» Più oltre, in una lettera indirizzata al
direttore Edoardo Malusardi, lettera che esprimeva il comune sentire di
tutti gli anarchici interventisti, Mario Poledrelli negava di sentirsi un
revisionista dell’anarchismo per il fatto d’essere favorevole alla
guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco della migliore
tradizione libertaria!”. «La Guerra Sociale», che uscì con
una discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la prima volta in
forma unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le
tematiche e le passioni proprie dell’interventismo anarchico. Molto
importante, sotto questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla quale
apparivano nitidamente, nelle varie coloriture, gli umori della “base”.
Così, fianco a fianco all’anziano «anarchico rivoluzionario» Alfeo
Davoli, già garibaldino, che da Milano esortava alla guerra
rivoluzionaria che abbattesse per sempre «qualunque sia forma di
governo»"‘', si schieravano il maestro elementare GIGLI,
Perché siamo interventisti, POLEDRELLI, Revisione?, Ivi. Poledrelli
si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si
era trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio
libertario. A Milano aveva anche progettato la pubblicazione di un
periodico, che avrebbe dovuto intitolarsi «L’ Adunata», ma era stato
fatto rimpatriare a Ferrara su ordine della Questura milanese, perché
disoccupato. Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno
1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053 [Poledrelli Mario]. 10
Nell’arco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui
dieci a Milano, e beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte
provenienti dal capoluogo lombardo, fra le quali due a nome di
Mussolini), per un totale di 251, 56 lire. Non erano grandi cifre — tanto
che il 10 aprile, in un trafiletto indirizzato «ai compagni», la
redazione invitava apertamente i lettori ad essere più generosi, pena la
sospensione delle pubblicazioni — ma in linea con la media degli altri
fogli anarchici editi nello stesso periodo (fatta ovviamente eccezione
per le tre grandi testate a diffusione nazionale La Guerra Sociale», Salvadori,
ammiratore delle teorie di Francisco Ferrer, che si dichiarava per
l’intervento, a dispetto dello «slombato anarchismo menefreghista»!!, e
l’anarchico individualista Costa, di Verona, il quale affermava di
desiderare la guerra semplicemente in virtù dei propri «convincimenti
catastrofici»; mentre il genovese Ciotto chiama a fondamento del proprio
interventismo entrambe le eredità del bakuninismo e del mazzinianesimo! Sulle
pagine de «La Guerra Sociale» si avvicendarono dunque i principali
portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da
Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza
resta però non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci è stato
possibile ricostruire la biografia politica. Dalle informazioni raccolte
emergono comunque alcune caratteristiche ricorrenti: l’origine
proletaria, la cultura approssimativa, la fede individualista, il
“ribellismo”, vissuto talvolta nelle sue manifestazioni più eccessive
(requisiti, questi, comuni del resto alla maggioranza dei semplici
militanti del movimento anarchico), ma anche il valore successivamente
dimostrato sui campi di battaglia. Quanto all’adesione al fascismo di
alcuni di tali uomini, essa fu conseguenza, non automatica né tanto meno
ineluttabile, di scelte personali, diverse caso per caso. Ciò a conferma
che la semplicistica equazione anarcointerventisti prima-fascisti
poi, non è motivo sufficiente - e d’altronde nemmeno Davoli era nato a
Reggio Emilia nel 1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630 Davoli
Alfeo]. 4° «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.
Alceste Salvadori, nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa,
nel 1884, insegnava a Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le
sue idee libertarie, antimilitariste e radicalmente anticlericali (era
membro di un’ “Associazione Razionalista”), e in virtù del suo ruolo di
educatore, era dalle autorità considerato «estremamente pericoloso in linea politica».
Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di
sottotenente) Salvadori vestì la camicia nera del fascismo. Nell’aprile
del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di Castelfiorentino (del quale, per
breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno più tardi,
alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta
4543 {Salvadori Alceste]. 4 «La Guerra Sociale», Cfr. /bidem,
10 marzo 1915. Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi
volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse persuaso che la divisa non
avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la
speranza di tornare, un giorno, a fianco dei «compagni in buona fede contro la
guerra» per combattere insieme «le future battaglie» (// saluto di un
anarchico interventista, «Il Popolo d'Italia», 5 luglio
1915). ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza all’anarchismo
degli interventisti di estrazione libertaria!” Scrissero per «La
Guerra Sociale»: Consalvi, Canapa (Ambra), Rivellini, Fraschini, M.Benedetti,
Effebo Scaramelli, Armando Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e
Raffaele De Rango. Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era
nato a Firenze. La sua partecipazione alla vita del movimento anarchico
era stata contrassegnata da numerose disavventure giudiziarie. La
Prefettura fiorentina lo aveva dipinto «tra i più entusiasti seguaci
delle dottrine libertarie a Firenze, assiduo a tutte le riunioni e
manifestazioni proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli
anarchici, «attesa la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In
realtà, Canapa aveva collaborato a numerosi fogli anarchici, specie
d’indirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto
D’Ambra. Nella campagna interventista l’anarchico fiorentino — che fu membro
del Fascio rivoluzionario del capoluogo toscano — dimostrò un particolare
accanimento, per lo più ricorrendo al consueto pseudonimo e solo
occasionalmente servendosi del suo vero nome (come nel caso del lungo
articolo polemico Anime di fango, «L’Iniziativa). Canapa si arruolò volontario
(cfr. «Il Popolo d’Italia») e cadde sul Carso. ACS, CPC, Busta 992
[Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne celebrò la figura di «eterodosso
dell’anarchismo, eretico impenitente, scomunicato del “Santo Sinodo”»
(ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, «L’Iniziativa); mentre
Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe richiamato
il nome nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo. Rivellini era
nato a Milano, da famiglia poverissima. Carattere «fra i più irrequieti e
impulsivi» - come scrive di lui la Prefettura milanese n -, Rivellini,
nonostante la giovanissima età, era assai noto negli ambienti libertari del
capoluogo lombardo e aveva subito già numerosi arresti per attività
sovversive. Allo scoppio della guerra fece da subito lega con gli
interventisti, ritenendo, com’ebbe a scrivere a Mussolini, di difendere
così «i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo» («Il Popolo
d’Italia). Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria,
lo stesso di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una
medaglia di bronzo e un encomio solenne. Si congedò con il grado di
tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte all’impresa di Fiume (e
come delegato fiumano presenziò al congresso nazionale fascista),
conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta politica. Risulta
iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo].
Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di
Cascina, provincia di Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e
propagandista anarchico Giovanni Gavilli, che spesso ebbe modo di
accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era non
vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a «Il Grido della Folla».
Nel dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico
di Pontedera. Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava
come un soldato «disciplinato, rispettoso e contento della vita
militare». Dismessa la divisa, lasciò l'impegno politico e muore. /bidem, Busta
4662 [Scaramelli Effebo]. Armando Senigallia era nato ad Ancona nel
1883. Ritenuto anarchico «molto pericoloso», Senigallia, pur senza mai
abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva collaborato
assiduamente a «Il Grido della Folla», a «La Protesta Umana» e al romano
Il Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa infuocata,
numerose condanne per «istigazione a delinquere». Attivo nel campo
dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva pPAT TEST PRIA
TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO
MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777 Grazie a «La Guerra Sociale», per
un periodo di tempo tanto breve quanto decisivo, gli anarchici
interventisti poterono dunque disporre di uno spazio autonomo ed ebbero
modo di precisare, una volta per sempre, il proprio particolare punto di
vista all’interno della multiforme realtà dell’interventismo
rivoluzionario. La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci
risultò comunque assai intensa, specie là dove il movimento era più
forte. A Parma gli anarchici collaborarono fattivamente al quindicinale
«Guerra alla guerra» (24 gennaio- I maggio 1915), edito a cura del Fascio
locale, roccaforte della politica deambrisiana e fra i principali centri
propulsivi dell’interventismo rivoluzionario. All’incirca nello stesso
periodo in cui vedeva la luce il giornale di Malusardi, era anche degno
di nota (vuoi per il rilievo dei protagonisti, vuoi perché Pisa era una
delle città italiane dove il movimento anarchico era maggiormente
radicato) il contributo degli anarchici Alberto Fontana e Ruffo Sarti
alla nascita e alla diffusione de «La Guerra del Popolo», organo del
Fascio rivoluzionario pisano!‘. preso parte al congresso
interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno
anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi
relativi alla struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre
forze operaie. Nel gennaio del 1914 la Prefettura di Ancona annotava sul
suo conto: «E’ sempre uno dei più ferventi anarchici di Ancona, prende
parte a tutte le riunioni del partito ed è iscritto al Circolo anarchico
“Studi Sociali”». Nell'agosto del 1916, «avendo fatta dichiarazione
scritta dalla quale si rilevava la mitezza delle sue idee politiche e la
completa adesione alla guerra», fu inviato al fronte con una squadra di
lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comportò
coraggiosamente, finché non cadde prigioniero degli austriaci. Aderì al
fascismo e, nel gennaio del 1935, divenne membro e fiduciario del
sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti. Ibidem, Busta
4746 [Senigallia Armando]. Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era
assai noto negli ambienti dell’estrema sinistra parmense, in quanto
segretario di un “Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario” intitolato
ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruolò
volontario, combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al
valore. Cfr. Ibidem, Busta [Colla]. Di Rango, nato a Rende in
provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco, se non che egli, dopo
la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra come
mezzo per far piazza pulita di tutti «i rivoluzionari di carta e da comizio»
(Liquidazione di rivoluzionari, «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915),
riallacciò i rapporti col movimento libertario. Nel dopoguerra, De Rango
emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago, poi a Oakland in California),
dove prese parte attiva alla vita della numerosa comunità anarchica
italiana, collaborando al foglio di San Francisco «L’Emancipazione». Da oltre
oceano l'anarchico calabrese mantenne regolari contatti con i compagni
italiani, non escluso Errico Malatesta, col quale era anzi in amichevole
corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [Rango]. 14% 1] primo
numero de «La Guerra del Popolo» uscì. L’iniziativa di Ruffo Sarti e
Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in
particolare D'altra parte, i Fasci compivano il massimo sforzo di
coordinamento. Pur nella diversità di vedute, la preoccupazione
principale di tutte le forze che componevano lo schieramento
interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare l’ingresso
dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di dover accantonare le
pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il 10 aprile
«L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con la quale il gruppo
dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua “rivoluzionaria” se la
monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di
quel documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24
aprile l’organo sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi)
Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile per
protestare contro l’uccisione del giovane operaio elettricista Innocente
Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia durante una
manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale avevano aderito
anche i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli oratori
principali), Rocca auspica che non si verificassero più simili
episodi, temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in «un
pretesto per una manifestazione neutralista, comunque un tentativo per
intimidire il Governo l’articolo in tre parti di OTONIETTI, Aberrazione
mentale collettiva, «L'Avvenire Anarchico», 1, 8 e 16 aprile 1915), che
tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale estraneità dei due
interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare
ai compagni passati all’interventismo ogni parentela, anche trascorsa,
con l’anarchismo era una delle scappatoie di cui gli anarchici si
avvalevano con più frequenza. Del pari, la storiografia ha
sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo definire “negazionista”.
Così, nel caso specifico di Sarti e Fontana, è stato scritto che i due
rappresentavano «poca cosa, politicamente e quantitativamente, nei
confronti del vasto movimento cittadino» SACCHETTI, Sovversivi in Toscana,
1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realtà, Sarti e Fontana
erano entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto
la Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza.
Fontana era stato redattore de «L’Avvenire Anarchico. Cfr. ACS, CPC,
Busta [Fontana]. Sarti era noto anche a
livello nazionale, avendo collaborato a «Il Libertario» e al milanese «Il
Grido della Folla» e potendo vantare, come sembra, stretti rapporti di
amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori. Nell'ottobre del
1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei
carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente
anarchico e che gli era costato lunghe disavventure giudiziarie e due
mesi di carcere. «Durante la detenzione annotava la Questura fu
largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono anche le
spese occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo]. Il
testo completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a FELICE,
Mussolini il rivoluzionario. Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le
dimostrazioni dell'altra sera, «Il Corriere della Sera», 13 aprile
1915. con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione di
decidere la guerra»; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a «tutto
subordinare» all’eventualità del conflitto!‘ Il periodo
bellico A poco più di un mese dalla proposta de «L’Internazionale»
per la tregua “rivoluzionaria”, la dichiarazione di guerra dell’Italia
all’ Austria realizzò gli auspici di tutti gli interventisti. La partenza
per il fronte dei principali esponenti dell’interventismo rivoluzionario
e la situazione di eccitazione e di generale incertezza determinata dagli
avvenimenti bellici, situazione non certo propizia al normale dispiegarsi
dell’attività politica, contribuirono peraltro a sfaldare
progressivamente il movimento dei Fasci. ua Anche Rocca, Gigli e
Malusardi, si arruolarono volontari". L'altro grande protagonista
dell’anarcointerven- tismo, Gioda, che a suo tempo era stato riformato,
partì per il fronte soltanto nell’estate del 1916". Prima di allora,
incalzato dalle accuse d’imboscamento, Gioda (che era membro del “Gruppo
di Azione Civile” di Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e
di svolgere propaganda a TANCREDI, A proposito di sciopero generale, «La
Guerra Sociale Rocca si arruolò volontario ai primi di luglio del 1915, prestò
giuramento in una caserma milanese il giorno 11 (cfr. / volontari del 7°
reggimento fanteria prestano giuramento, «Il Corriere della Sera) e fu
inviato al fronte alla fine del mese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca
Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di complemento nel 2°
reggimento artiglieria campale pesante di Modena, partì per la zona di
guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo
Malusardi si arruolò nel 68° reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr.
Ibidem, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. mia i o Mentre l’esperienza
di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero parte all
intero svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del diario di
guerra di Malusardi - un memoriale di un certo interesse, anche se, con
tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore - si trova in EDOARDO
MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma, Torino, Druetto,
Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato
al 7° reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. «Il Popolo d’Italia», e
«L’Iniziativa). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase
al fronte solo pochi mesi. favore della guerra) ‘°° si batté con
passione, che non c’è motivo di non ritenere sincera, per la revisione
dei riformati!”, Insieme ai nomi più celebri
dell’anarcointerventismo, partirono, volontariamente o perché richiamati
alle armi, la maggior parte degli altri anarchici interventisti. In
taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli quasi parossistici.
L’anarchico romagnolo Ghetti, ad esempio, riformato per evidenti
questioni di salute, passò gli anni di guerra nell’estenuante tentativo
di farsi arruolare. Cosa c'entra la visita — scrisse ad un
periodico fiorentino — l’abilità o
l’inabilità, quando uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei
difetti organici, tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che
oggi minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la
libertà di un popolo, dell’umanità, voglio dare il mio sangue, la mia
vita contro l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza
far sfoggio di coraggio, così è il mio sentimento di libertario Qualche
giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da bersagliere,
ottenendo soltanto di essere arrestato Il “Gruppo di Azione Civile” si era
costituito ad opera del tipografo mazziniano Grandi e di altri esponenti del
repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del 1917,
quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr.
«L’Iniziativa», 1 settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di
Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di Gioda narrata da Croce, cit.), i
due si conoscevano da tempo ed erano in ottimi rapporti. In una
lettera al giornale di Mussolini, Gioda respinse l’accusa d’essersi imboscato
e spiegò la propria intenzione d’impegnarsi affinché fosse al più presto
riconsiderata la posizione di tutti i riformati. «Io poi scrisse prima
categoria della classe 1883, sono stato riformato...per deficienza
toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, d’accordo con gli amici del
“Popolo d’Italia”, la revisione dei riformati» (Per /a revisione dei riformati,
«Il Popolo d’Italia). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato
l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò decisamente
sull’argomento. «E un’umiliazione — affermò — inflitta a tutti i
cittadini che sono stati scartati alla leva militare, è quasi un bollo,
che contrassegnerà, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e
discutibile. Noi avremmo capito la revisione dei riformati — da noi
ardentemente sollecitata e poscia magari se necessità assoluta l’avesse
richiesta — la tassa applicata ai veri riformati, a quelli cioè che non
potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero rassegnatamente
accolto l’imposta, onde contribuire in qualche modo per la salvezza
nazionale» GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La revisione doveva
avere la precedenza, Il Nuovo Giornale» Ghetti era nato a Dovadola, nel
forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato in Germania, poi in
Svizzera, cambiando più volte residenza, e stabilendosi infine a Berna.
In quella città Ghetti aveva svolto un’intensa propaganda anarchica,
facendosi anche promotore D'altra parte, anche al di fuori della corrente
anarcointerventista vera e propria, l’entrata in guerra dell’Italia provocò,
in seno al movimento libertario italiano, reazioni emotive contrastanti.
Ai primi di giugno del 1915, amplificata dal quotidiano romano «Il
Messaggero», si diffuse la notizia (parallelamente alla voce, subito
smentita, di contatti segreti tra anarchici ed emissari degli Imperi
Centrali a Villa Malta) che i gruppi libertari capitolini “Sante Caserio”
e “Francisco Ferrer” avrebbero invitato i propri aderenti ad arruolarsi
volontari nella Croce Rossa. In una cartolina riportata da «L’ Avvenire Anarchico»
del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non si corrompono), Ceccarelli condannò
senza mezzi termini quell’iniziativa, negando l’esistenza di un circolo
anarchico intitolato a Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24 giugno, il
foglio pisano pubblicò una dichiarazione degli anarchici Luigi Pallotta,
Ettore Piattini e Giuseppe Frate, a nome dei gruppi “Caserio” e “Ferrer”,
nella quale si affermava che «il comunicato apparso su “Il Messaggero”,
invitante gli anarchici a inscriversi nella Croce Rossa, doveva
interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al richiamo avrebbero
dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella della suddetta
istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista»; e dunque ch’era
«erroneo il commento dei compagni che avevano creduto sottolineare tale
invito come addirittura un reclutamento anarchico ced adesione di
anarchici alla Croce Rossa». Sebbene rimasto senza seguito,
quest’episodio è a nostro avviso indicativo dell’incertezza che colse
parte degli anarchici all'indomani. i Nonostante il clima di
eccezionalità seguito allo stato di guerra, la ténsione tra gli opposti
schieramenti della vigilia non diminuì che in minima parte (ed è
significativo che persino l’arruolamento di Rocca, il cui nome bastava
evidentemente ad evocare malumori e risentimenti, suscitasse una coda
di di un “Comitato di difesa sociale pro Masetti” (ma pare che i suoi
rapporti con la comunità anarchica italo-svizzera, e in particolare con
Luigi Bertoni, fossero tempestosi). Un suo articolo violentemente
antimilitarista (Cos'è /a caserma?, «L'Avvenire anarchico) gli era valso
un’incriminazione per istigazione a delinquere. Due mesi più tardi Ghetti
era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato arrestato perché trovato
in possesso di numerosi ordigni esplosivi. Condannato a dieci mesi di
carcere, beneficiò dell’amnistia concessa la momento dell’entrata in
guerra dell’Italia. Non si hanno notizie di un suo coinvolgimento nella
campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo arrestato
(questa volta a Torino) per aver causato gravi incidenti durante un
comizio di Rygier. Ghetti riuscì infine ad arruolarsi in fanteria. Cfr.
ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico]. è 156 dea SPERO da 9
polemiche) ‘°°. La verità è che la frattura tra neutralisti e interventisti non
si sarebbe mai più ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben
oltre la fine delle ostilità. La crisi dei Fasci, seguita
all’entrata in guerra dell’Italia, non valse affatto a rasserenare gli
animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il
movimento. L’involuzione subita dall’interventismo rivoluzionario,
d’altronde, prima ancora che la sua capacità di sopravvivenza politica,
in ogni caso compromessa (i Fasci, come tali, si sarebbero
compiutamente ricostituiti solo alla fine del 1915) '5”, investiva la sua
stessa ragion d’essere. Così, lungo tutto l’arco della guerra, si
assistette al tentativo (non sempre fruttuoso) da parte degli
interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie fila e,
soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli
avvenimenti, la propria specificità ideale. In questo senso, anche
la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo Corridoni, una
delle figure più carismatiche di tutto l’interventismo rivoluzionario,
acquistò un significato che trascendeva l’episodio in sé, per assumere
una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe-
simbolo dell’interventismo rivoluzionario, che al nome dell’”’arcangelo”
sindacalista si sarebbe più volte richiamato, nel prosieguo della guerra,
come a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di
ricordare le parole di Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23
ottobre, perché specchio di quella concezione volontaristica dell’azione
politica che ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di
“managgia” («Il Risveglio Comunista-Anarchico», Ginevra), nel quale il
giuramento di Massimo Rocca era fatto oggetto di commenti particolarmente
malevoli. Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato
d’animo è rappresentato da un saggio di Nerucci, pubblicato su
interessamento di Fontana e con prefazione di Malato (Da/ di là del Rubicone,
Pisa, Tipografia Mariotti). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi
abituali della propaganda anarcointerventista (la contrapposizione fra
anarchismo “reale” e anarchismo “ideale”, la necessità di difendere la
civiltà latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del
pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari.
L’apologia interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente
infarcita di citazioni latine, appariva ancor più incongrua in quanto
giungeva a quasi un anno dall’entrata in guerra dell’Italia. In ogni
caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di là del Rubicone, Nerucci
abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di
Marsiglia, annunziò di aver preso la tessera del Partito Repubblicano
(cfr. «L’Eco d’Italia). Nonostante la conclamata fede interventista,
Nerucci fece di tutto per evitare la trincea, ottenendo di essere
chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta 3526
[Nerucci Raffaello]. !57 Per un quadro complessivo delle traversie
dell’interventismo rivoluzionario negli anni della guerra, v. soprattutto
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al quale si
rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte. aveva animato
la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora della vigilia, e
che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella tragica
sorte di Corridoni. Egli è — scriv Gioda ricordando il compagno
scomparso - la nostra gioventù, tutta la nostra vagabonda, ardente
gioventù balzata fuori tra gli sterpi d’una bassa politica e il
dissolvimento de’partiti, tra l'impotenza de’dogmatici e la ribalderia
de’mercanti !5 AI combattimento che costò la vita a Corridoni
prese parte anche Edoardo Malusardi. Il racconto di quell’episodio che l’anarchico
lombardo inviò all’organo mussoliniano è interessante sia come esempio
di autorappresentazione politica (l’interventista rivoluzionario che,
ricolmo di fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del
pericolo), sia come prima elaborazione del mito “corridoniano” (Corridoni
che cade eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato
a crescere in breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il
sindacalismo fascista, Malusardi in testa. Mi trovo
degente in un ospedale da campo riferiva dunque Malusardi ferito in
quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono caduto in un assalto
alla baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero dagli austriaci
perché impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a peripezie
che hanno del romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti si
conta anche Filippo Corridoni, comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi,
è caduto vicino a me cantando l’inno d’Oberdan'° 158 «Il
Popolo d’Italia Sulla figura di Corridoni v. il contributo di MELOTTO, Corridoni
fra sindacalismo e interventismo, in «Storia in Lombardia», Gia pochi giorni
dopo la morte di Corridoni, «Il Popolo d’Italia» avviò una sottoscrizione
er l'erezione di un “ricordo marmoreo” dell’eroe. © «Il Popolo
d’Italia La battaglia detta della “trincea delle frasche è fatale anche ad un
anarchico interventista toscano di nome Contini. «Egli era - scrive di
lui Malusardi - un ANARCHICO NOVATORE. Un eretico su cui grava l’anatema
del “Sinedrio Anarchista.. Il suo anarchismo, come il mio, non è la
fronzuta elucubrazione di qualche sofista a spasso, ma bensi la teoria di tutte
le libertà e sintesi di ribellione fattiva contr’ogni oppressione. I suoi
precursori, come i nostri, erano due eroi: Troja, caduto per 1
indipendenza ellenica, e Colizza, la maschia figura di spartano, caduto
sotto gli spalti di Seraievo in difesa della Serbia aggredita L’Iniziativa.
RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG "N
Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative più
interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti -
di far confluire tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario nel
Partito Repubblicano. Rygier (che dallo scoppio della guerra era
andata sempre più accentuando la sua vicinanza al mazzinianesimo) '°,
reputando fondamentale — anche in vista delle sfide politiche del
dopoguerra — rinsaldare l’unità del fronte interventista rivoluzionario,
propose apertamente che gli interventisti rivoluzionari, di ogni scuola e
partito, s’iscrivessero al PRI!9. L’invito di Rygier fu raccolto da
Malusardi. In una lettera inviata a «L’Iniziativa» l’anarchico lodigiano
si disse persuaso della necessità di unificare tutti i partiti della
sinistra interventista e d’accordo con Rygier nel ritenere che ciò
potesse concretamente realizzarsi nel segno dell’ ’’ Edera”, a
condizione, però, che questo non significasse un appiattimento sui
programmi repubblicani. Gli unici che potrebbero trovarsi a
disagio — notava a questo proposito Malusardi saremmo noi anarchici novatori:
per quanto anche noi, non essendo degli impenitenti utopisti della
società paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto d’accordo. Noi
siamo degli esaltatori dell’individuo, non nel senso esageratamente
Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al falso ed
imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi
codardi capeggiatori. Mentre i repubblicani subordinano la volontà
individuale a quella collettiva, quella delle minoranze a quella delle
maggioranze, noi anarchici, Il definitivo approdo di Rygier al
mazzinianesimo era avvenuto con l’articolo L'ombra sua ritorna ch'era
dipartita («L’Internazionale», 1 gennaio 1915), una lunga e sentita
celebrazione di Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato consensi e
destato speranze negli ambienti repubblicani. «Si auspica che l’esempio della
Rygier — aveva scritto Alfredo Poggiali sull’organo del Partito
Mazziniano Italiano — ch’era partita, ne’suoi primordi, da premesse non
esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici» (Lettera
politica dalla Romagna, «La Terza Italia», 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio
della guerra, Maria Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste,
intensificò, se possibile, la collaborazione con la stampa repubblicana,
massime con «L’Iniziativa». L’infatuazione della Rygier per Mazzini e il
mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri interventisti
rivoluzionari (a cominciare da Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda, in
particolare, il quale - come si è visto - nutriva già una viva simpatia per le
idee e per i programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio,
l’articolo Mazzini e l'ora storica, «Il Popolo d’Italia», 11 marzo 1915,
in cui Gioda aveva tra l’altro sostenuto che tutti i sovversivi, «non
schiavi dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche
o intedescate», avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini),
rafforzò negli anni di guerra il proprio filo-repubblicanesimo. "
Cfr. RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future,
«L’Iniziativa», pur coadiuvando in tutte le contingenze l’azione
collettiva, non intendiamo che si È RA ERI F 16 debba tarpare le
ali alle iniziative individuali e le minoranze Il rispetto delle
minoranze e delle singole individualità era stato a fondamento
dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il PARTITO REPUBBLICANO avesse offerto le stesse garanzie politiche,
nulla - concludeva Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in
esso di tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario, anarchici
compresi'‘. Il progetto avanzato da Rygier rimase lettera morta, ma il
problema dell’unità tra le forze della sinistra interventista si sarebbe
ripresentato più volte, durante come dopo la guerra. In ogni caso, quale
che fu l’esito della sua proposta, il cammino personale di Maria Rygier
verso le “idealità nazionali” non subì inversioni di rotta. Ella è al
congresso nazionale repubblicano di Roma. Non ho ancora la tessera
— disse in mezzo agli applausi dei congressisti — ma voglio confermare
che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza
nuova, perché ha disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul
determinismo economico più gretto. E noi torneremo al vostro
Mazzini L’ex madrina dell’antipatriottismo “tornò” in effetti a
Mazzini, e quella tessera che ancora non poteva esibire al Congresso
romano l’ebbe in realtà pochissimo tempo dopo!. Il
prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilità, il malumore ognora
crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla
propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli
interventisti rivoluzionari. L’esigenza di opporsi alla presunta opera disgregatrice
del neutralismo “socialista-cattolico-giolittiano”, un'esigenza molto
spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu all’origine della
nascita e della diffusione, un po” in tutta Italia, di leghe e di comitati per
la “resistenza interna”. Nell’ambito di queste iniziative, tuttavia,
gli interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero
ritrovati il e su AI congresso giunsero anche i saluti di Gioda,
che diceva di seguire «con vivissima simpatia il lavoro dell’unico
partito che la guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano
sconvolto»; di Rocca, il quale auspica che l’assise repubblicana potesse porre
le basi «per un sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più
vasto d’idee e profondo di sentimento»; e di Lotti. più delle volte
in minoranza (tipico il caso del “Fronte Interno”, costituitosi a Roma ad
opera di forze prevalentemente democratiche, che finì assai presto per
essere egemonizzato dalle destre). L’interventismo di destra, infatti, e
in particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla
radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico,
prese senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa
azione delle sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti
scenari. La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella,
più o meno consapevolmente avvertita, di salvaguardare la “purezza” dei
propri ideali, dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari,
che si riunì a Milano. Pochi giorni prima dell’inizio di quel
congresso, Gioda si era fatto interprete dello stato d’animo di grande
perplessità che attanagliava l’interventismo rivoluzionario. Prendendo
spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e
Austria, agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a
esempio dell’insofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilità,
Gioda si era augurato che l’Italia rimanesse al di fuori dell’ondata di
malcontento che stava attraversando gli altri paesi belligeranti e s’era
detto convinto del buon senso e delle virtù patriottiche del popolo
italiano. Malgrado ciò, l’anarchico torinese aveva avvertito la necessità
di ribadire la ragionevolezza della guerra in atto. La guerra - aveva
affermato Gioda - era giusta perché «risolutiva» e perché avrebbe schiuso
la via «per maggiori conquiste, in un ambiente europeo non più
accidentato da agguati tedeschi e da barbarie prussiana. Per la cronaca
del convegno v. «Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì
Le dichiarazioni del Congresso dei Fasci, «L’Iniziativa», 27 maggio 1916,
e La grande adunata di Milano e la parola dei nostri compagni,
«L’Internazionale», GIODA, Perché questa guerra è giusta, «Il Popolo d’Italia»,
17 maggio 1916. Qualche giorno prima, in occasione della festa del
lavoro, Gioda aveva manifestato a chiare lettere quale fosse ormai il
proprio pensiero riguardo alle questioni economiche. «Mentre il mondo —
aveva scritto - si dibatte nella tragica convulsione d’una rivoluzione decisiva
per l’avvenire dei popoli, è per lo meno fatuo il voler cianciare ancora
di garofani rossi e di feste di primo maggio per quella ascensione
economica di classe che il proletariato non conquisterà se non a
condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni»
(GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio,
«L’Iniziativa», 1 maggio 1916). Del resto, in un articolo intitolato
Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da «Il Popolo d’Italia»
del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non
avrebbe mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi
fenomeni storici e che lo stesso socialismo, se avesse voluto mantenere
la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto risolversi, edonisticamente,
in una mera questione economica. La lotta di classe, perciò, non avrebbe
dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice mezzo, da
valutare secondo le circostanze. Nel caso contrario, «l’organizzazione di
classe sarebbe diventata fine AI convegno milanese presero parte Maria
Rygier, che vi svolse una relazione sul tema “Neutralismo e
neutralisti”!’°, eRocca, in licenza dal fronte!”. Proprio Rocca si fece
portavoce di una convinzione che, in forma più o meno velata, cominciava
a circolare anche tra gli interventisti di sinistra: la convinzione,
cioè, che il Governo dovesse adottare dei provvedimenti, i più severi
possibili, per eliminare il pericolo neutralista. L’azione contro i
neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi: «positiva» e
«negativa». Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero dovuto
intensificare l’opera di propaganda tra le masse, negativa, perché era
giunto il momento, nell’interesse del Paese, di rispondere con misure
energiche alle provocazioni dei “nemici di dentro”. Noi afferma Rocca dobbiamo
avere il coraggio di dire: contro i neutralisti abbiamo fatto tutto
quello che si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di domandare
che il Governo faccia un’opera che sia di repressione, che sia capace di
porre un freno. La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con
quanto da lui sostenuto alla vigilia della guerra in merito
all’opportunità di una condotta realmente unitaria della crisi bellica.
Non per niente, in risposta a quanti, in a se stessa, e nessun alito di
umanità e di generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso nelle sue
ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso
Gioda - non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini
«economici», ma un insieme complesso di individui, formanti una comunità
con più alte e profonde aspirazioni; ed era pertanto «inutile, sciocco e
disonesto il ripetere al popolo che solo la lotta di classe lo avrebbe
dovuto interessare», ogni altro problema essendo problema «borghese». Questi
î passaggi sono a nostro avviso di capitale importanza. E” infatti in
questa visione dei rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo
mazziniano quanto di elitarismo individualista, che deve rintracciarsi il
motivo dell’adesione di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle
ideologie del sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonché, per
successive corruzioni dell’impostazione originaria, la ragione del
passaggio di molti di loro dall’antisocialismo all’antioperaismo tout
court. In «Il Popolo d’Italia» sati !! «Il Popolo d’Italia»
riporta le adesioni al convegno di altri due anarcointerventisti: Fanelli
e Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo qui per la prima volta, può
esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci è
giunta notizia. Il panettiere Fanelli è nato a La Spezia. Anarchico
convinto, che prende parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito
(come lo descrive un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto),
Fanelli è gerente responsabile de «Il Libertario. Divenuto interventista,
fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di
La Spezia. Nel dopoguerra adere al fascismo, iscrivendosi al PNF.
ACS, CPC, Busta [Fanelli].«Il Popolo d’Italia sede di discussione,
avevano affermato l’opportunità di scindere nettamente l’operato dei
Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore realismo
politico) sostenne che l’interventismo rivoluzionario doveva assumersi
per intero le proprie responsabilità riguardo alla monarchia, con la
quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!”?. Nei
restanti due anni di guerra Rocca è, insieme alla Rygier, il più attivo
del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde egli venne
ricoverato all’ospedale militare di Milano per una grave forma
d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei mesi
(rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di
dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione
politica’. Vede altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica
predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come
attestato dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro
// Mare Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni
dei nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un
interesse passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a
segnare in modo drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata -
insieme ai temi di politica economica. - la nota predominante
dell’attività di Massimo Rocca nel biennio 1918-1920. Nel febbraio del
1918, del resto, Rocca entrò nella redazione del quotidiano milanese «La
Perseveranza», avviando, sulle pagine di quel giornale, una serrata
campagna a sostegno dell’italianità della Dalmazia, campagna che gli
attirò gli strali polemici di Salvemini. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362,
[Rocca]. L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un
attivismo capillare che non disdegnava la propaganda spicciola (lo troviamo,
ad esempio, oratore principale alla riunione indetta dal Fascio
interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in
procinto di partire per il fronte. Cfr. «Il Popolo d’Italia). Ancora la
Prefettura romana annota che Rocca, «pur conservando le sue idee
sovversive», continua a svolgere attiva propaganda a favore della guerra.
ACS, CPC, Busta [Rocca]. La posizione di Salvemini (espressa a chiare
lettere nel volume La questione dell'Adriatico, pubblicato all’inizio del
1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di nazionalità, e che gli
avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di Massimo
Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista
settimanale, «L’Unità», Salvemini accusò Rocca di essersi appiattito
sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal canto suo, non risparmiò le
critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per
l'onestà politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e
nazionalismo, «La Perseveranza). L’approdo di Rocca al giornale del
conte Giangaleazzo Arrivabene, un foglio di chiaro orientamento
conservatore, non deve sorprendere. Infatti, sebbene Rocca avesse già in
passato manifestato simpatie per la destra, fu in questo arco di tempo,
compreso tra il congedo dalle armi e la fine della guerra, che si consumò
la sua definitiva trasformazione politica; fu allora, per meglio dire,
che l’ex anarchico maturò un completo distacco, non tanto dal movimento
libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni residuo
sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale, passando
attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,
Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso posizioni
che — semplificando - potremmo definire di conservatorismo “illuminato”
sul piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni
produttiviste, sul piano economico. In entrambi i casi, però, i legami
con il fondo elitario del novatorismo restavano evidenti.
L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla . sua personale convinzione
di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla parte nobile - più meritevole
perché più capace - del popolo italiano (proprio in quegli anni, d’altra
parte, l’ex tipografo autodidatta compiva con successo il suo ciclo di
studi) '”, giunse in pratica al suo esito naturale. In questo passaggio
era già compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Rocca, dalla
riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dell’istituto monarchico,
dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza, fino alla
“trincea” revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di Rocca
non fu mai, nella sostanza, granché diverso dal suo liberalismo. Rocca aderì al
“Comitato d’azione per la resistenza interna”, sorto a Milano su
iniziativa di Dinale allo scopo di coordinare tutte le forze
interventiste e d’infondere nuovo vigore alla loro opera'??. In qualità
di delegato di quell’organizzazione, Rocca partecipò al secondo convegno
nazionale dei Fasci d’azione internazionalista, convocato a Roma
all’inizio di luglio, il quale si concluse con l’approvazione di una Rocca
conseguì la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi
quindi alla facoltà d’ingegneria del Regio Politecnico di
Milano. Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione
patriottica, bene lo illustrava un ordine del giorno votato a una
riunione del Comitato: «Reclamare dal. Governo provvedimenti immediati
contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che infestano il
nostro Paese» («Il Popolo d’Italia). Alla fine del mese il Comitato inviò
un memoriale al Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte
fosche l’azione destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava
un’azione draconiana contro tutti i “nemici di dentro”. Il memoriale,
pubblicato in parte anche da «Il Popolo d’Italia» del 27 maggio, si trova
in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. GUERRA EUROPEA, Fascicolo
[Movimento interventista]. sorta di documento programmatico
dell’interventismo rivoluzionario!”?. Nonostante il tentativo d’imprimere
all’azione dei Fasci un indirizzo certo, tanto sul piano politico quanto
su quello delle rivendicazioni sociali, le grandi questioni delineatesi
nel corso dei due anni precedenti, quella delle misure da opporre alla
ripresa del neutralismo, e quella (per così dire relativa all’indole
stessa del movimento) della salvaguardia della propria identità
rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle tensioni interne
al Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di Caporetto, con ciò che ne
seguì, a livello politico-militare come a livello emotivo, e la
conseguente demonizzazione dei cosiddetti disfattisti, avrebbe
contribuito non poco a mischiare le carte in tavola, spostando
decisamente a destra l’asse della politica interventista. Le divergenze
tra le diverse forze dell’interventismo finirono per appianarsi, a tutto
vantaggio della destra nazionalista, salvo poi riproporsi, ma in un
contesto nel frattempo profondamente mutato, alla fine della
guerra. V. «Il Popolo d’Italia e
l’articolo // Congresso Interventista di Roma in difesa degli operai e
della pace giusta, «L’Internazionale» (l’organo sindacalista parmense
riprese le pubblicazioni dopo una sospensione di quasi un anno). E°
molto difficile, per l’assoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli
anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma è
ragionevole credere che la loro opinione non differisse da quella degli
altri protagonisti dell’interventismo rivoluzionario, sempre più
orientati verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza
importante, anche per l’estremismo del linguaggio usato, è quella di Edoardo
Malusardi, il quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni
generali avanzata ai sindaci e agli ‘amministratori socialisti da Lazzari
(un gesto che, nell’opinione del segretario del Partito Socialista, si
sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe
potuto accelerare l’uscita dell’Italia dalla guerra), si appellava direttamente
al popolo italiano perché facesse alfine giustizia «di un così ributtante
fenomeno di perfidia e di vigliaccheria (EMME, Son
purl.). FASCISMO L’anarcointerventismo alla prova della nuova
Italia Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo nel caos del
dopoguerra non è impresa facile. Già nei mesi successivi all’armistizio,
il blocco dell’interventismo rivoluzionario cessò di esistere come un
tutt'uno, per disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli, mentre la
nascita di nuove formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra tutte
i Fasci di combattimento), aggiungeva imprevedibilità a un’atmosfera
politica di per sé già molto fluida. L’anarcointerventismo, che non aveva
mai posseduto, per sua stessa natura, una rigidità organizzativa e
ideologica, non sfuggì a questo processo dissolutivo. Nondimeno, se non
ha più molto senso, dopo Vittorio Veneto, parlare di interventismo
anarchico come corrente politica in sé, è tuttavia possibile — come si
accennava nell’introduzione -, attraverso la vicenda personale dei suoi
maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i segni nella politica
italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti, alcuni, come
Gigli e Rygier, finirono per isolarsi progressivamente dal gioco politico
e per non avere che una parte di secondo piano nella tormentata stagione
del prefascismo'; altri, come Attilio Paolinelli, riallacciarono, sebbene
a fatica, i legami con il movimento anarchico, rientrando a pieno titolo
nell’ “ortodossia”. Altri ancora, infine, Nel caso di Gigli, si può
affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto termine
la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la
politica, tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici
interventisti. Più complesso l’iter politico di Maria Rygier. Negli anni
successivi alla guerra la Rygier si ivvicinò all’Associazione
Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un atteggiamento
sostanzialmente ambiguo. È comunque costretta ad espatriare in Francia,
dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la
sua travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Muore a
Roma. (fr. FRANCO ANDREUCCI,
DETTI, Paolinelli è arrestato con l’accusa di aver preso parte al
complotto di Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a
repubblicani e arditi, tentò d'impadronirsi dell'omonimo forte militare.
Amnistiato, aderì poi - in rappresentanza degli anarchici individualisti
- a un comitato romano “di difesa proletaria” in funzione
antifascista. come Gioda, Malusardi e Rocca, si guadagnarono un
posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero,
quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda
all’interno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel
prosieguo di questo lavoro) può, a nostro giudizio, essere considerata in
relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se è arbitrario ricercare
in essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e coerentemente riconducibile
alla doppia e complessa eredità dell’individualismo anarchico ©
riconoscervi, pur | nell’eterogeneità delle esperienze e delle posizioni
ideali e politiche, non | e dell’anarcointerventismo, è però
possibile pochi punti di contatto con quel pensiero e con quella
tradizione. Nel valutare l’apporto della cultura anarcointerventista al
movimento mussoliniano (un contributo minoritario, ma non per questo
trascurabile), occorre poi tener presente che il fascismo
iniziale, lungi dal formare un | monolito impenetrabile, orbitante
attorno alla tetragona figura di Mussolini, si distingueva
piuttosto - come lucidamente nota Felice nell’introduzione al primo volume della sua
biografia mussoliniana - per essere una «serie di stratificazioni»ì, un
accumulo di passioni e d’idee diverse, non di rado in contrasto
tra loro. Di questo multiforme e | contraddittorio universo che fu il
primo fascismo, la vena. anarcointerventista, proprio in ragione della sua
disorganicità — evidente nei diversi orientamenti di Gioda, Rocca e
Malusardi -, costituisce inoltre, per così dire, un modello in scala
ridotta. La storia dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si
consideri o meno in ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia
d’individualità, anche se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi
all’armistizio, si verificarono, qua e là, sporadici tentativi di
raccogliere i superstiti della corrente anarcointerventista intorno a un
progetto politico ben definito, in grado di misurarsi autonomamente con
le forze nuove emerse dal rivolgimento bellico. A prescindere da
alcune iniziative isolate, come quella | partita da Domenico Ghetti‘,
l'esperimento di maggior sostanza in questa | È condannato a quattro anni
di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora attivo nelle fila del
movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli]. i
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. XXII. 4 Il 17 maggio
1919, sulle colonne de «Il Popolo d’Italia», apparve un appello di Ghetti agli
«anarchici interventisti milanesi» perché facessero giungere la loro adesione
alla nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un
mussoliniano convinto (nel giugno del 1919 la Prefettura di Milano, città
nella quale l’anarchico romagnolo si era trasferito alla fine del
conflitto, lo segnalava tra i più accesi propagandisti dei «principi
mussoliniani» in seno al «partito» anarchico). ACS, CPC, Busta 2355
[Ghetti]. direzione fu quello tentato da Roberto D’Angiò. Nella primavera
del 1919, gli ambienti anarchici liguri (D’Angiò si era trasferito a La
Spezia a guerra in corso) furono messi in subbuglio da una circolare,
firmata appunto dal noto propagandista, nella quale si dava per imminente
la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico d’ispirazione interventista.
Le concezioni di D’Angiò sull’anarchia — annota il 31 marzo il Prefetto
di Genova — non collimano con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e
gerente del periodico anarchico “Il Libertario” che si pubblica a La Spezia,
ed ha pertanto deciso di fare uscire prossimamente colà un nuovo giornale
anarchico intitolato «La Protesta», che vorrebbe pubblicato
quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione avrebbe come programma
l’illustrazione del principio anarchico adattato ai nuovi tempi sortiti
in seguito all’opera di rivoluzione fatta dalla guerra” Il
prestigio che ancora ispirava il nome di D’Angiò e il ricordo, sempre
vivo, delle dure polemiche d’anteguerra, indussero «Il Libertario» a
prendere nettamente le distanze da quell’iniziativa.
Parecchi compagni da varie località — ammoniva il foglio di Binazzi - ci
chiedono spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto D’Angiò,
colla quale si annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a
Spezia. Rispondiamo in blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo
non ha più nulla di comune cogli anarchici di Spezia e tanto meno con noi
del «Libertario»® Alla fine di maggio, «Il Popolo d’Italia» -
ormai organo ufficioso dei nuovi Fasci mussoliniani - ospitò un accorato
appello di D’Angiò a tutti i «libertari interventisti», affinché dessero
il loro contributo, anche economico, alla realizzazione de «La
Protesta». Ciò che io desidero — scriveva D’Angiò, precisando il
proprio punto di vista — è che tutti gli anarchici d’Italia, i quali si
dichiararono contro il militarismo prussiano, abbiano il coraggio civile
di affrontare la situazione da noi creata. Non è lecito star zitti quando
ci definiscono ex anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo
reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre
le nostre idee per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare
che noi, che ci opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo
e rimaniamo i veri anarchici” + Ibidem, Busta [Angiò]. Il
Libertario»,Il Popolo d’Italia» IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA
Il primo numero de «La Protesta» uscì. «Noi — si afferma nell’editoriale
— facciamo qui una pubblicazione anarchica, né più né meno». Come prima
della guerra, dunque, obiettivo principale degli anarchici interventisti
era quello di rivendicare la propria appartenenza alla famiglia
anarchica, nella convinzione, semmai, che i tempi fossero più che mai
propizi per una riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva
passare attraverso una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie.
Lo sconvolgimento europeo — sosteneva un anonimo articolista de «La
Protesta» - ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici, che a
costui predichiamo di emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel
passato, non seguire il sistema del socialismo ufficiale, per il quale il
numero, o meglio una somma di numeri, è tutto. Noi, nel rivolgerci alla massa,
dobbiamo parlare all’individuo Nonostante l’iniziale sostegno di Mussolini, e
nonostante i favori raccolti in ambito anarcointerventista'’, il giornale
di Roberto D’Angiò non sopravvisse al secondo numero, e il suo
fallimento convinse lo stessoAngiò a ritirarsi a vita privata. Lo sforzo,
tentato da Angiò con «La Protesta», di connettere gli anarchici
interventisti, come entità politica autonoma, alla più vasta corrente rinnovatrice
del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli . narchici
e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu fecondo
anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso diretto con |
l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare brevemente. E’ nota,
ad esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso biennio, gli
interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi Fasci di
combattimento - guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le divisioni
tra i due schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano tuttavia i
motivi d’incontro, particolarmente la comune ostilità nei
confronti dei socialisti “bolscevizzati” e del loro inconcludente
rivoluzionarismo, demagogico e “parolaio” (Malatesta manifesta a più
riprese le sue riserve nei confronti dell’esperimento leninista) '’. Sul
piano puramente strategico non 8 «La Protesta ? Le coscienze
volitive, Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale di D’Angiò raccolse
oltre 30 sottoscrizioni - per un totale di 240,45 lire - e 28
abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de «La Protesta» ritroviamo
alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo, da Gigli a Sarti, da
Fontana ad Senigallia. Cfr. /bidem. È Angiò muore a Milano. Cfr.
ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angiò Roberto]. © L’iniziale cautela con
cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia lasciò
gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del
comunismo era quindi irragionevole pensare, da entrambe le parti, ad
un’intesa d’azione in chiave rivoluzionaria; e basti qui ricordare la
vicenda del progettato tentativo insurrezionale che, auspice Alceste De
Ambris, avrebbe dovuto estendersi da Fiume, occupata dai legionari di
Gabriele D’ Annunzio, a tutta la Penisola. Il piano, che vide
direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in Italia nel dicembre 1919,
grazie all’interesse del segretario della Federazione dei lavoratori del
mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto favorevolmente dalla
stampa filo-fiumana), fallì, a quanto pare, solo per la ferma opposizione
dei socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto
all’impresa'‘. La presenza anarchica nel nebuloso quadro politico
del dopoguerra si manifestò anche per altre vie e in altri modi, che,
sebbene inconsueti, non devono però meravigliare più di tanto, quando si
tenga conto. della multiformità delle posizioni all’interno del mondo
anarchico. D’altra parte, il processo di ridefinizione degli spazi
politici si prestava a favorire la nascita di connubi apparentemente
improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de autoritario e
soprattutto della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la
posizione di Malatesta riguardo al bolscevismo è essenziale la lettura
dei molti articoli da lui dedicati all’argomento. Una scelta
significativa di questi scritti (originariamente apparsi su «Umanità
Nova» e «Pensiero e Volontà») si trova in MALATESTA, Individuo, società,
anarchia. La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma,
Edizioni e/o, 1998. ! Il 27 dicembre, «Il Popolo d’Italia», che
seguì con simpatia e partecipazione il rimpatrio di Malatesta, rilevò, a
proposito dei rapporti di questi con l’interventista Giulietti, ch’egli
era forse «meno intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli
apprezzamenti dell’organo mussoliniano, in verità, non piacquero a
Malatesta, consapevole del loro valore strumentale (al riguardo v.
BORGHI). Del resto, l’infatuazione del fascismo per il vecchio capo
anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il duro articolo
Una leggenda che si sfata, in «Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia,
l’antibolscevismo di Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato,
dai iornali fascisti, in aperta polemica con i “pussisti”. Su
questi fatti v. FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel
carteggio Ambris — Annunzio. Tra gli esempi più significativi di questa sorta
di diaspora anarchica dev’essere ricordato quello degli anarchici
triestini Andriani e Ukmar. Dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani
e Ukmar (che sono membri di riguardo del gruppo libertario “Germinal”, il
più importante di Trieste) entrano nel Fascio Nazionale, costituito dalle
forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione della città irredenta
alla madrepatria. «Dimentichi di ogni divergenza di programmi — recitava
il manifesto del Fascio Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci
italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo costituiti in Fascio
Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad un’unione con
la Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!,
«La Nazione). Su Andriani e Ukmar v. MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante
il dominio asburgico, Milano, Giuffrè La Testa di Ferro», l’organo dei
legionari fiumani diretto dall’ardito e futurista Mario Carli!’, che fu,
per circa un anno, luogo d’incontro e di confronto tra le frange estreme
del combattentismo e del futurismo politico e certo anarchismo
violentemente individualista, gravitante attorno a riviste dal titolo
emblematico, come «Nichilismo» e «L’Iconoclasta»!”. Attraverso la rubrica
“Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che iniziava le Carli,
nato in provincia di Foggia ma fiorentino d’adozione, è uno dei
protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della guerra, Carli,
con il gruppo del giornale «Roma Futurista» (Settimelli, Marinetti,
Rocca, Bottai, ecc.) è tra i fondatori del Partito Politico Futurista. Il
futurismo politico, al quale dettero un apporto considerevole gli
ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano degli arditi, si fece
promotore dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia), è decisamente orientato a
sinistra e costituì una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani,
contribuendo altresì ad influenzarne gli orientamenti. «Il programma dei Fasci
di Combattimento creati da Mussolini — commenta «Roma Futurista» -
è sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista.
Forse, le due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima
è uno. E” lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei combattenti. Sulla
figura e l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20,
Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonché
il contributo di SCARANTINO, L'Impero. Un quotidiano
reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12 ss.
Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista,
Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla
personalità e al ruolo di Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e
fascismo in Italia, Ravenna, Longo. Li «Nichilismo», diretta da Molaschi,
uscì a Milano; «L’Iconoclasta», fondata da Gozzoli, vide la luce a Pistoia.
Cfr. BETTINI, op. cit., ad indicem. Per capire di quale tipo
di idee fossero portavoce queste riviste, si veda l’articolo // mio
individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci), comparso su
«L’Iconoclasta» (ma se ne potrebbero citare molti altri). Quale differenza — vi
si legge corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il
patriotta che si fa uccidere pel suo paese, e il sovversivo che cade
evocando la redenzione collettiva? Nessuna! Nella stessa guisa han
perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma
irraggiungibile. Sono dei deboli. Essi non sentono la propria
individualità che vuole affermarsi, godere, vivere. E vorrebbero che io
li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico. Vorrebbero che mi
sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare. Io che voglio bere
il profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare
l’aere della Libertà sconfinata, per ricevere infine il bacio della
Morte. Io tanto superiore alla mediocrità. Io lotto per me, unicamente
per me. Sono al di la del Bene e del Male. In ogni caso, posizioni di
questo tenore suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli
(che - come recitava il sottotitolo - era «aperta a chiunque»). In un
articolo significativamente intitolato /ndividualismo o futurismo?,
Berneri definì «deliri letterari», «prose pazze e vuote», gli scritti di
Villafiore e compagni, e «pazzoidi» e «megalomani» i loro
autori, pubblicazioni, si aprì ai contributi di quegli anarchici
individualisti, per lo più molto giovani, che, suggestionati dalla
retorica “demolitrice” e anticonformista del futurismo, vi scorgevano
un’arma potente di rinnovamento della società e, allo stesso tempo, un
mezzo di realizzazione personale"8. In polemica con
«Umanità Nova» (il primo quotidiano del movimento anarchico italiano,
fondato da SUCKERT Malatesta), che guardava con naturale diffidenza alla
“rivoluzione” fiumana e alle velleità sovversive dei futuristi”, Carli
affermava recisamente il carattere proletario e progressista del
futurismo e definiva in questo modo il proprio rapporto con l’anarchismo.
Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista
del mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le
dinastie e i carceri, il papato e i tribunali, il parlamento e i
privilegi, l’archeologia e i corrieri della sera, E° per questo che, non
potendo più accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né avendo
fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino
alla concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un
tipo di uomo libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri
destini” A sua volta, Marinetti, rispondendo a un anarchico che,
pur plaudendo all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il
sostegno dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico”!,
invitava gli anarchici a lasciarsi dietro le spalle «il pessimismo vano»,
per aderire alla lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo
Marinetti - che, mentre gli anarchici erano «tutti più o meno dei
futuristi antipratici, platonici e pessimisti», i futuristi erano «degli
anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un campo determinato per le
Zoro demolizioni e bonifiche, cioè la patria. Tra gli anarchici collaboratori
de «La Testa di Ferro» si contava anche Ghetti, responsabile dell’ufficio
di corrispondenza del giornale a La Spezia. !9 Si veda, in modo
particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Damiani), in
«Umanità Nova» CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, «La Testa di Ferro Cfr.
BrUTNO. 22 Ivi. In quegli stessi giorni, Marinetti
pubblicava, per le edizioni de «La Testa di Ferro», l'opuscolo A/ di là
del comunismo, che può considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”.
In esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le
incarnazioni, vecchie e nuove, della sinistra, e definiva le coordinate
del suo individualismo futurista rivoluzionario. Vogliamo — afferma tra
l’altro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie
e dei carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la
maggior quantità possibile di individui liberissimi, forti, laboriosi,
novatori, veloci». K } Sisonialitga al quale facevano riferimento
Carli, Marinetti e u uristi de «La Testa di Ferro» era il medesimo
c in l’individualista Abele Ricieri F. ov. o ETTARI FRI 3
atore, descriveva come agilità volitiva, poesia i gli
altri he, in quello stesso meglio noto come Renzo violenza
creatrice [ dl . »_ x . O . uo: 4 ca di ei o minoritario, puramente
concettuale, pio Ismo nietzschiano, che niente a 6 $ d F Veva a che
veder il movimentismo malatesti ì sconti stiano, così pervaso di i
È i mala umanesimo, né con il comunismo libertario di «Umanità x
i ità Nova (col qual i, si i munism i i quale, anzi, si poneva in
netta antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo
storico I primi contatti col fascismo. Chiusa questa parentesi, è dunque
il momento di tornare alle vicende dei protagonisti dell’anarco-interventismo
in procinto di vestire la cami ta nese di seguirne il cammino
nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re di Rocca. i vandi. In
questo periodo - come si accennava - l’interesse di Rocca è per lo più
rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd
dibattiti, egli riversò tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilità
di propagandista, con il puntiglio e la caparbietà che gli erano propri
Sebb Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la
vera. Rocca non ne condivide le smodate mire imperialiste. Come si cilea
dai MANTRA TORE: Oltre ogni confine, «La Testa di Ferro. Bocea È,
pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori de «L’Iconoclasta».
sponenti della corrente anarco-individualist: i È Una raccolta dei suoi
scritti si trova i Vila ae eri; va in F. UN FIORE SELVAGGIO, Pi A
pr E; beds seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di
Cimmii o ui fr vm Testa di Ferro, un certo Atomon ribade che i
futuristi Ri nino ma sh individualisti, bollando come anti-anarchica
l'Unione Anarchica ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i
limi e À comuniste, si limita a fare della a, la vera anarchia non
dove dare al i fattore economico dell’esistenza, ma rici i FI nat) ;
ercare «la perfezione dell’individuo nella vi i sopra di ogni pregiudizio
o di ogni do, Ò ITA a opr ] gma». Al contempo, però, l’anonimo futuri
distinguere il gruppo di «Umanità Ni i pic ae a s ova» dal Partito
Socialista, mostrando di ire i primo al secondo, e define Malatesta, d i
quaglie do, lel I morale», un «agitatore e apostolo». - AE
Rocca è membro del “Fascio delle iazioni iotti 2€1 ro. dels associazioni
patriottiche” e del “Comitat i L'ing irredente” di Milano. Cfr. ACS, CPC,
Busta [Rocca] Faggi Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. suoi
numerosi articoli per «La Perseveranza», a cui continua a collaborare
fino a quando il mutamento della linea editoriale, sopravvenuto a un
cambio di proprietà, gli consiglia l’abbandono), la sua posizione non
anda oltre la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia, che egli non
dubitava essere geograficamente, culturalmente e politicamente italiane.
Una certa moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli impedì di
attaccare violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da
Leonida Bissolati, sia dopo l’intervista da questi rilasciata al «Morning
Post», sia dopo il suo celebre discorso alla Scala?”. Rocca prende
parte all’imponente comizio milanese “pro Fiume e Dalmazia italiana”, che
fu la risposta data dai “dalmatofili” all’iniziativa del Zeader
socialriformista, comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il
compito di sostituire Mussolini, che preferì non intervenire «per evitare
incidenti»”8. Ai primi di marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio
lungo la costa orientale italiana, da Venezia a Brindisi, giungendo
quindi a Spalato, sulla sponda opposta dell’ Adriatico. Dalla cittadina
dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece pervenire al suo giornale
un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la consueta e un po’
pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare l'italianità della
Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due nuove
manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino”; quindi, all’inizio di
aprile, partì per Parigi, inviato speciale de «La Perseveranza», a seguire
da vicino i lavori del congresso di pace”. Dopo il messaggio di Wilson
agli italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla capitale
francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti del
wilsonismo, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*”, abbandona 7 A
questo riguardo v. TANCREDI, // ministro della piccola Italia, «La
Perseveranza», e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491. Per la cronaca del
congresso v. «Il Popolo d’Italia», 18 gennaio 1919. 29 Cfr.
TANCREDI, La passione di Spalato, «La Perseveranza», Cfr. «Il Popolo d’Italia»,
e «La Perseveranza», ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p.
77. 32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur
vagheggiando una sorta di lega latina, fondata sull’alleanza
Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo “imperialismo”
anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del presidente
americano, dicendosi favorevole ad una partecipazione italiana alla
Società delle Nazioni. Essa sola — scrisse - avrebbe potuto garantire
«giustizia per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani
dell'Istria e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi
tedeschi» (LIBERO TANCREDI, L'Italia e la Società delle Nazioni, «La
Perseveranza). ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito
dell’annessione, ormai - a suo dire - «l’unica via percorribile». AI
congresso “per l'annessione di Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a
Milano, su iniziativa del “Fascio delle associazioni patriottiche”, Rocca
non lesina le accuse a Wilson, denunciando il torbido «retroscena
bancario internazionale che si nascondeva dietro la figura del presidente
filosofo». Da questo momento i toni della propaganda estera di Rocca
si fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo
torinese dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a
prefigurare «la necessità di un imperialismo senza confini», qualora la
crescente ostilità internazionale e «Ia fantastica corsa allo sciopero»
all’interno del paese, con i suoi effetti negativi sul livello di
produzione, avessero a tal punto danneggiato le esportazioni e fiaccato
la ricchezza nazionale da impedire di provvedere pacificamente
all’acquisto delle materie prime indispensabili”. Questi ultimi accenni
alla situazione interna dell’Italia ci consentono di soffermarci sugli
aspetti più propriamente economici del pensiero di Rocca. La sua visione
economica, infatti, che rimarrà pressoché inalterata negli anni a venire,
si veniva proprio allora configurando come una mistura di liberismo,
sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano. Così, a proposito
della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca esprimeva
l’esigenza che ad essa si accompagnasse «tutto un sistema otganico di
educazione ed istruzione professionale che accrescesse il rendimento
degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo economico
della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro accresciute
responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione tra capitale
e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione dei
lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. «l’estraniarsi dalla storia
e dal divenire sociale, dai problemi, dai doveri e dalla
responsabilità ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena
compartecipazione al ciclo produttivo, secondo il modello del
sindacalismo nazionale. Quanto alla borghesia industriale, suo compito
doveva essere, da un lato quello di comprendere il cambiamento introdotto
dalla guerra, ossia di prendere consapevolezza dell’ormai inscindibile
legame tra politica ed economia; dall’altro, quello di dimostrarsi
autentica classe dirigente, in grado sia di Audacia (appunti per l'On.
Orlando), Il Popolo d’Italia TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un
fenomeno d ‘impotenza, «La Riscossa Nazionale». Le otto ore
internazionali di lavoro, «La Perseveranza», ID., Assenteismo e collaborazione
di operai e di industriali, opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia
di provvedere all’integrazione e all’educazione del proletariato”.
«Occorre che la classe dirigente - scrive Rocca - od almeno i suoi
elementi migliori, comprendano che il loro ufficio non è solo di
“resistere” o di “concedere”, ma di persuadere e di guidare. Questo modo
di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale, nel
frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei combattenti
e dei produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento, una
formazione che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare
la “demagogia bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai
«Fasci di combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita”.
Questa affermazione, con tutta probabilità rispondente al vero, non è
però altrimenti accertabile; quel che è sicuro è che Rocca - almeno per
tutto il 1919 - non dimostrò, a differenza di molti suoi compagni, un
grande interesse per l’iniziativa di Mussolini. Di Il Popolo
d’Italia» lancia un invito per la costituzione di un nuovo movimento
politico d'avanguardia. Tra le molte adesioni pervenute al giornale prima
della data fatidica del 23 marzo, ritroviamo i nomi di alcuni anarchici
interventisti: il «vecchio anarchico» Vittorio Boattini (che si dice
«toto corde» con Mussolini, «per le sante bastonature interventiste ed
anti-bolsceviche») Rivellini e Ghetti. «Gli anarchici coscienti —
scriveva quest’ultimo al suo conterraneo Mussolini — non potranno che
aderire al vostro appello» “. i Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro
fu senz'altro presente Mario Gioda, che aveva da subito aderito
all’appello di Mussolini i Secondo Mario Giampaoli (che peraltro, pur
essendo stato testimone diretto dell’accaduto, fa riferimento alla
cronaca de «Il Popolo d’Italia»), vi avrebbe preso parte Cfr. Ip., Un po'
di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919.
sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. Cfr.
Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 31.
"i olo d’Italia», 9 marzo 1919. SIAT i è nato a Meldola, nei
pressi di Forlì. Manifesta idee anarchiche. Si trasfere a Milano, dove aveva a
Li collaborato a «Il Grido della Folla». la Prefettura milanese scrive che,
avendo egli, durante la guerra, militato nel campo interventista, si dimostra
un fervente nazionalista, in tal senso svolgendo attiva propaganda. Il
figlio di Boattini, pe è per qualche tempo segretario politico del PNF
per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta 679 [Boattini]. #2
Il Popolo d’Italia», anche Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi
stesso, in un telegramma di adesione a «Il Popolo d’Italia», si era detto
dispiaciuto, trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare
personalmente, limitandosi a garantire la sua presenza «in ispirito», per
«riaffermare recisamente il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il
fatto che, anni dopo, Malusardi rivendicasse la patente di “sansepolcrista”‘,
non è affatto probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della
prima ora, a retrodatare il più possibile il momento della loro “presa di
coscienza. GIAMPAOLI, Roma, Libreria del Littorio. In base alla ricostruzione
di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare «Il Popolo d’Italia),
Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di Milano e di
Bologna. Il Popolo d’Italia Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e
Commiato, in «Audacia», 28 maggio e Degli anarchici interventisti che sposarono
la causa fascista, uno fra i più intraprendenti è Arpinati. Il futuro gerarca,
peraltro, adere al Fascio di Bologna a più di sei mesi dalla sua costituzione.
Nel primo Fascio bolognese - nato nell’aprile ad opera del repubblicano
Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica - Arpinati
ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la
notorietà conquistata, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro
Gaffurio di Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed
egli, che faceva parte del servizio d’ordine, fu arrestato insieme ad
altri cinquanta “camerati” (cfr. «Il Popolo d’Italia»). È in parallelo
con l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del
Fascio bolognese (culminata con la fuoriuscita degli elementi democratici
e di sinistra), che Arpinati iniziò una spregiudicata ascesa politica.
L’11 aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli affidò
la responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso
fascista di Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo
direttivo del movimento (cfr. «Il Popolo d’Italia). Tra il settembre e
l’ottobre successivi, Arpinati, complice il subbuglio seguito
all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria
riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare,
guadagnandosi il sostegno, anche finanziario, degli ambienti più
conservatori. Il Fascio di Bologna, così ricostituito, accrebbe
enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di
primo piano, divenne una delle centrali dello squadrismo
emiliano-romagnolo, rendendosi protagonista di un’impressionante
escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le elezioni
amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a
Palazzo D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei
fascisti. Su tutti questi punti v. TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio
di combattimento: note sulle origini del fascismo a Bologna, in Bologna
Le origini del fascismo, a cura di Casali, Bologna, Cappelli, e ONOFRI, La strage
di Palazzo Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano,
Feltrinelli, Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e operaismo A
differenza di Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo gradualmente e
con un certo distacco‘, Gioda si gettò anima e corpo nella nuova
avventura. Due giorni dopo l’adunanza di Piazza San Sepolcro, Gioda, con
l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i promotori del
Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la segreteria‘. Gli
intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda - come avrebbe
ricordato molti anni dopo un testimone - appariva «un ometto dalle grosse
lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un inelegante abito
marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si direbbe - che quello
del tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente prese
sede nei locali della “Lega d’azione anti-tedesca”, un’associazione
patriottica di destra sorta ad opera del nazionalista Cian. Il fascismo
torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in misura notevole gli
ex combattenti (Gioda cercò in ogni modo di venire incontro alle esigenze
e alle richieste dei “trinceristi”, sforzandosi di far apparire il
fascismo come il legittimo rappresentante dei loro interessi) nacque
dunque con il concorso e sotto gli auspici della destra, distinguendosi
da Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca nell’accostarsi
al fascismo fu dovuta anche ai non ottimi rapporti tra quest’ultimo e
Mussolini, il quale non avrebbe avuto granché in simpatia «colui [Rocca]
che lo aveva violentemente attaccato, obbligandolo, nei confronti
dell’intervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe preferito
assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC, Palazzo Venezia.
Storia di un regime, Roma, Editrice La Rocca). Cfr. «Il Popolo
d’Italia. AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di Torino, «La
Stampa In seguito il Fascio si trasferì nei locali della “Pro Torino”, in
Galleria Nazionale, un'associazione patriottica di stampo sabaudo
presieduta dal CONTE BARBAVARA DI GRAVELLONA. Contemporaneamente al lavoro di
organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono un’opera di
penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del Fascio, il
29 marzo, l’anarchico “trincerista” Boario recò le adesioni dei gruppi
fascisti del Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle. Cfr.GIODA,
Il fervido lavoro dei fascisti a Torino, «Il Popolo d’Italia)
La coscienza combattentistica di Gioda, benché inevitabilmente ammantata
di retorica, appariva sincera. Già prima della nascita dei Fasci di combattimento,
l’anarchico torinese si era fatto promotore di una campagna per il pieno
riconoscimento dell’indennità di congedo agli smobilitati, rappresentanti
«l’Italia più vera e coraggiosa, quella in grigio verde» (ID., Sino
all'ultimo sussidio militare e l'indennità di congedo non viene, Ibidem, 16
marzo 1919). PORT PI CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI
O PRETE PAPPA PAPA subito per le forti venature non
solo antisocialiste”*, ma, spesso, antipopolari tout court. Ciò divenne
ancor più evidente dopo l’avvento di Vecchi, un tipico esponente della
borghesia conservatrice piemontese («cattolico militante e monarchico
senza riserve», secondo la definizione che egli da di se stesso) ‘, il
quale, entrato nel Fascio alla metà di aprile, ne divenne in breve, a
dispetto di Gioda, il vero deus ex machina. La convivenza tra i due
uomini forti del fascismo torinese, così diversi per indole, per
estrazione sociale e per esperienze politiche, si rivelò subito molto
difficile. Emblematico, a questo riguardo, il giudizio, sospeso tra
l’ironia e la commiserazione, che Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha
lasciato di Gioda: «un povero diavolo dalle molte vicende». Il
giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato dalla
simpatia e dalla complicità dei ceti più tradizionalisti. Se Torino -
come rimarcava l’organo del nazionalismo piemontese - era «stanca di
essere diffamata da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana»*,
allora il fascismo poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva
rivelarsi un elemento d’ordine, «più che mai indispensabile» a svolgere
una decisa azione «di vigilanza e di controbatteria»’”. Così, già alla
fine di aprile, il Fascio di combattimento poteva vantare l’adesione di
ben 31 associazioni liberali torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante
gli impedimenti inizialmente frapposti dall’autorità prefettizia”,
l’apporto delle destre valse a favorire la graduale espansione del
fascismo nel capoluogo piemontese. «Il lavoro — Sul piano della stretta
organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono molto
efficienti. In un telegramma del 22 maggio al Ministero degli Interni, il
Prefetto di Torino riferiva dell'avvenuta costituzione, in seno al
Fascio, di un «ufficio [...] con mandato di seguire e segnalare le
manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed anarchico», vale a
dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI
INTERNI, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora innanzi Dir. Gen.
PS), Affari generali e riservati (d’ora innanzi Affari gen.e ris.), 1921,
Busta 112 [Fascio di Torino]. Wp DE VECCHI, // quadrumviro scomodo, a
cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia, »p.I/. Sulla figura di
De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad
nomen. VECCHI, La Riscossa Nazionale Cf. «Il Popolo d’Italia», Al Fascio
aderì anche il comitato “madri dei combattenti”, presieduto dalla contessa
Eleonora Contini di Castelseprio. Nei primi mesi di vita del
Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in più di un’occasione, sulle pagine de
«Il Popolo d’Italia» (per il quale curava la cronaca di Torino), del
trattamento riservato ai fascisti torinesi dalle autorità cittadine,
nonché della presunta campagna diffamatoria della giolittiana «La Stampa»
nei confronti del Fascio di combattimento. scriveva Gioda a Bianchi a un
mese dall’entrata in funzione del Fascio - procede benissimo e tra molto
entusiasmo». «Il Fascio si è imposto — confermava di lì a poco a
Mussolini — e se noi non ci lasciamo sfuggire il momento opportuno,
otterremo risultati incalcolabili»®!. Ma qual era, in tutto questo,
il vero ruolo di Gioda? Se egli era senz'altro consapevole dei vantaggi
che potevano venire al Fascio di Torino dall’accordo con l’oligarchia
conservatrice piemontese, ci sembra però scorretto affermare - com’è
stato fatto - che egli ritenesse quella della reazione antipopolare
«l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio dell’ex tipografo
alla questione delle alleanze politiche, così come a quella, più
complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e sempre
sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur difendendo il
carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur desiderando che ad
esso accorressero tutte le forze «sane, giovani, italiane», senza
distinzione di parte o di colore politico (perché il fascismo doveva
essere — anarchicamente - l’”antipartito”), teneva comunque a distinguere
tra antibolscevismo e antioperaismo e ribadiva che i fascisti non
dovevano passare per «dei nemici del proletariato». Questa stessa
esigenza fu da lui espressa al primo convegno regionale dei Fasci
piemontesi, all’inizio del giugno 1919%, e a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE
FASCISTA (d’ora innanzi MRF), Carte del Partito Nazionale Fascista,
Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta, Lettera di Gioda a Bianchi,
Lettera di Gioda a Mussolini, MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino
fra liberalismo e fascismo, a cura di Nicola Tranfaglia e Ugo Levra,
Milano, Angeli, L'idea di antipartito era già da tempo al centro della
riflessione politica di Mario Gioda. L’avversione alle forme tradizionali
di organizzazione politica, già tipica dell’anarchismo individualista,
trovava del resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e
antiparlamentari del dopoguerra. «L’antipartito — aveva scritto Gioda — vuol essere il sunto della nausea che
in Italia nutrono combattenti e produttori verso i politicanti». Contro
il «feticcio partito», ormai incapace di conciliarsi «coll’elettamente dinamica
modernità civile» (la nuova società scaturita dalla guerra), occorreva
suscitare «l’idea sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa
«iconoclasta e squisitamente anarchica», in grado di restituire dignità e
centralità ai singoli individui (GIODA, L'antipartito, «Il Popolo
d’Italia). AI di là dei riferimenti ai temi del reducismo e del
produttivismo, tipici dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e
prossimo fascista Mario Gioda non poteva prescindere, la radice
libertaria e individualista di una simile impostazione di pensiero appare
comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik Ibsen uno dei
padri spirituali dell’antipartito). Sul concetto di antipartito nel
primo fascismo v. GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, GIODA,
Aspetti del fascismo torinese, «Il Fascio Cfr, «Il Popolo d’Italia riaffermata
poi in più di un frangente. Ad esempio, «Il Popolo d’Italia» riportava
un’intervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto, che l’autore
stesso definiva «un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel campo
dell’organizzazione e del socialismo italiano». L’intervista verteva
sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle
otto ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che
«l’approvazione, da parte del Governo, di concedere altre migliorie ai
ferrovieri» non poteva non destare «un senso di legittima soddisfazione»,
dal momento che vedeva tutelati «i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il
fatto che poi, in occasione dello “scioperissimo, il Fascio di Torino
assumesse, nei confronti degli scioperanti, una posizione di aperta
sfida‘, non muta i termini del problema, in quanto l’iniziativa dei
fascisti era ancora indirizzata contro la politica “irresponsabile” dei
bolscevichi (ed era pienamente condivisa da tutti i partiti della
sinistra interventista) e non contro la totalità dei lavoratori!”.
E’ però vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente
sbilanciato a sinistra‘î, Gioda - come ricorda Felice - espresse qualche
perplessità, soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta
pregiudiziale istituzionale. «Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio
Longoni —- è rimasto male poiché ha intravisto tra le riforme anche
quella definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini
sugli “i” e Un manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in
quell’occasione, faceva intendere senza mezzi termini che i fascisti,
qualora fosse stato necessario, sarebbero intervenuti a tutela
dell’ordine, onde salvare il paese dal «tragico caos bolscevico». Allo stesso
tempo, il manifesto ricordava ai lavoratori che «nessun partito
socialista ufficiale aveva scopi violentemente innovatori come i Fasci di
combattimento, e di immediata attuazione. Sullo “scioperissimo” a Torino, che
si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. «La Stampa». L’atteggiamento
dei fascisti nei confronti dello “scioperissimo” è ben rappresentato
dalle lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo
Mazzucato, che lavorava alla redazione de «L’Ardito», il giornale
dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, scrisse a Mussolini (che ne
definì la lettera «un gesto di fierezza e di dignità») di non aver alcuna
intenzione di «subire supinamente» le imposizioni della Federazione del libro,
il sindacato a cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul
posto di lavoro («Il Popolo d’Italia). Su «Il Giornale del mattino» del 30
luglio (organo ufficioso del Fascio bolognese, diretto da Pietro Nenni)
comparve una lettera non meno polemica del ferroviere Arpinati. Secondo
il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica proprio
in occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento di
Bologna, il 20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i
colleghi favorevoli all’astensione dal lavoro (cfr. NANNI programma,
elaborato da Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la
rappresentanza integrale, fu reso noto da «Il Popolo d’Italia», chiarire i
nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La preoccupazione di Gioda era
dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri
interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in
netta preminenza, e non è difficile leggere nel qualcuno della sua
lettera a Longoni un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come
avrebbero dimostrato le vicende successive alle elezioni politiche, non
aveva rinnegato il proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi
dettate da considerazioni di ordine strategico e in questo senso,
piuttosto che in quello di un suo personale mutamento di rotta, devono
essere interpretate le sue pur numerose concessioni alla destra.
La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto
con la sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI,
socialisti riformisti), si presentò con sempre maggior forza in
previsione delle elezioni politiche dell’autunno. Si trattava di un
problema che coinvolgeva tutto il movimento fascista (e basti pensare al
travaglio che colse il fascismo romano a ridosso del voto) ”, ma che, a
Torino, prendeva un significato particolare. Già il primo agosto 1919, in
una nuova lettera all’amico Longoni, Gioda definì l’eventualità che si
addivenisse a un blocco elettorale di tutto l’interventismo di sinistra —
la soluzione preferita da Mussolini - «una sterile palla di piombo»”!. E’
chiaro che Gioda pensava a salvaguardare l’unità del Fascio da lui
guidato, dove le forze di destra, che erano preponderanti, non avrebbero
mai condiviso una piattaforma programmatica che ponesse tra i propri
obiettivi quello della costituente. Non a caso il direttore de «La
Riscossa Nazionale» espresse il proprio rammarico per le ripetute
dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se anche i
fascisti torinesi intendessero seguire il loro “duce” in quella china”.
Gioda, consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De
Vecchi, intervenne a dissipare le perplessità dei “destri”. Mussolini —
sostenne - esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe
rimasta, almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale
fascista. Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere,
pregiudiziali di sorta. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. A Roma,
la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose
alla decisione, votata dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di
aderire alla “Alleanza Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai liberali
di destra e dai nazionalisti (cfr. Dichiarazioni futuriste sulla
situazione elettorale romana, «Roma Futurista», 2 novembre FELICE,
Mussolini il rivoluzionario RAVA, Posizione di battaglia, «La Riscossa
Nazionale», 3 agosto 1919. Se fuori dal Fascio — affermava Gioda - stimo
politicamente certi nazionalisti di indubbio valore e intelligenza, al
Fascio io non ne conosco nessuno. Così come ignoro repubblicani,
monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI Fascio,
che non può essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su
un dato programma di realizzazione immediata. Tra parentesi, sono stato
proprio io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo]
Cavalli, nazionalista, e Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del
Fascio” Ora, ciò che queste parole mettevano in evidenza non era soltanto
uno scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il
carattere antidogmatico dell’idea fascista; una presa di posizione tipica
della vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel
caso specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere (almeno in qualche
misura) anche il retaggio dell’anarcoindividualismo. Non è privo di
significato, d’altronde, che il fascista Gioda, consapevole della novità
rappresentata dal fascismo rispetto alle categorie politiche
d’anteguerra, richiamasse tuttavia la propria identità di anarchico, e
non già come semplice attitudine o abitudine mentale, ma come un dato di
fatto politico. In ogni caso, chiarito che il fascismo, quanto meno in
Piemonte, non nutriva propositi sovversivi, Gioda poté confermare che il
Fascio di Torino avrebbe davvero costituito «l’asse per una grande intesa
degli interventisti» in vista delle elezioni; ma che questa. sarebbe
appunto avvenuta «fascisticamente», fuori dagli schemi destra-sinistra,
ormai superati, astraendo dal «colore della tessera di partito».
La “marcia di Ronchi” e l’occupazione militare di Fiume da parte di
Gabriele. D’Annunzio parvero poter accelerare questo processo di
unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore
di in “comitato pro Fiume” (ne sorsero di analoghi un po’ in tutta
Italia), nel quale erano rappresentate tutte le forze “nazionali”, di
sinistra e di destra, dai repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava
di un entusiasmo passeggero, che avrebbe ben presto ceduto il passo a una
più grande incertezza.GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, tai Ip.,
Gli aspetti del fascismo torinese, cit. Nel corso di un’adunata del
Fascio torinese alla presenza del segretario politico generale del
movimento Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero
battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr.
«Il Popolo d’Italia Cfr. Il Fascio. Dal congresso fascista di Firenze non venne
affatto, contrariamente alle aspettative del segretario del Fascio
torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo defilato), un’indicazione univoca
in senso elettorale. Alla relazione di Bianchi, fautore di una linea
politica possibilista (la politica del “caso per caso”), fece da
contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in modo non esplicito,
lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire l’accordo con le
sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del giorno
compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli
Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra,
finì per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella
sola Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una
lista autonoma) 7”. I deliberati del congresso di Firenze,
nella loro elasticità, andavano sostanzialmente nella direzione auspicata
da Gioda, il quale, libero da condizionamenti di sorta, poté rivolgersi
alle forze politiche torinesi con l’invito ad abbandonare «le fazioni» e
a dar corpo ad «un potente fascio di energie», in funzione antibolscevica
e antigiolittiana”. Per questa via si addivenne infine alla costituzione
di un “Blocco della Vittoria”, peraltro chiaramente orientato a destra,
quanto meno nella sua composizione. Ne facevano parte, infatti, radicali,
liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali alcuni membri del
disciolto “Fascio Parlamentare” (Daneo, Sull’occupazione di Fiume e le sue
ripercussioni sul movimento fascista v. VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e
l'avvento del fascismo Dalla fine della guerra all'impresa di Fiume,
Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, LEDEEN, D'Annunzio a Fiume,
Bari, Laterza, PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, e
OSTENC, Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De Felice a ANNUNZIO, La
penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, Cfr. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in
via dei Cimatori, nei giorni (per la cronaca v. «Il Popolo d’Italia). Vecchi
entra a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza
dei Fasci piemontesi. Di tale lista faceva parte Edmondo
Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di combattimento di Milano al
momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori della
sede dell’ «Avanti!. «La sua candidatura scriveva «Il Popolo d’Italia» significa elevazione delle classi lavoratrici,
lo sforzo per formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di
azione. Nella lista dei Fasci egli rappresenta l’operaio onesto e che non
usurpa il nome di lavoratore». Mazzucato risultò 14°, su un novero di 19
candidati, con 56 voti di preferenza. GIODA, La piattaforma elettorale
piemontese, «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1919, e «Il Fascio», Bevione
e l’ex Presidente del Consiglio Boselli), mentre il Fascio vi era
rappresentato da quattro combattenti: De Vecchi, il generale Etna, già
comandante del corpo d’armata di Torino (deposto su ordine di Nitti nel
settembre), il maggiore degli alpini Garino e il capitano Revelli”. L’Unione
Socialista Italiana, che in un primo momento sembrò poter entrare nel
“Blocco”, se ne tirò fuori quasi subito, per far causa comune con i
repubblicani nella “Alleanza Elettorale”®°. A questo punto, Mario Gioda
parve rendersi conto di aver imboccato una strada a rischio. Si nota infatti,
nella sua attività politica prima delle elezioni, la preoccupazione
ricorrente di non far apparire la lista del “Blocco della Vittoria”
troppo sbilanciata a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo
illustrativo per «Il Popolo d’Italia» - era «la più organica», la più
rappresentativa anche delle esigenze popolari, e il suo programma aveva
un contenuto sociale «notevolissimo»? In particolare, egli rimarcava
ancora una volta che il fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non
i lavoratori nel loro insieme, ed operava altresì una netta distinzione
tra “pussisti” e socialisti rivoluzionari. Un accenno alla
lotta contro il bolscevismo — scriveva Gioda a commento di un passo della
piattaforma elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse, da
Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919. AI “Blocco della
vittoria” non aderì la sezione torinese dell’ Associazione Nazionale
Combattenti, che si pronunciò a favore dell’astensione. Nel corso di
un'assemblea del Fascio, Gioda critica duramente la scelta dei combattenti,
non tanto perché non ne condividesse le ragioni ideali (la volontà, cioè,
di non compromettersi nella lotta parlamentare), quanto, piuttosto,
perché la riteneva controproducente sul piano tattico. «I fascisti —
disse Gioda — hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare,
ovunque e comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei
socialisti ufficiali». Si noti che, nel testo originale autografo del
discorso di Gioda, la parola anche è sottolineata, a evidenziare il
carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale
fascista. ACS, MRF, Esposizione, Busta[Documenti]. Il Fascio —
commentava a questo riguardo Gioda — non ha potuto far blocco con
l’Unione Socialista Italiana, cioè con i bissolatiani, non tanto per
divergenze programmatiche, quanto per la diffidenza di questi ultimi
verso i nazionalisti ed anche perché la USI vorrebbe impostare la
campagna elettorale “prescindendo” dall’interventismo e dal neutralismo. GIODA,
/nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i fascisti, «Il
Popolo d’Italia). Il programma elettorale del Blocco della Vittoria.
Tra i postulati del programma elettorale del “Blocco della Vittoria”
figuravano: l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la
riforma scolastica, quella del sistema doganale (per abbattere
«parassitismi e monopoli») e della burocrazia, l’assicurazione
obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma
degli organi legislativi che garantisse «alla classe lavoratrice [...]
una diretta e specifica rappresentanza». nisticntiititnm parte dei
redattori del programma, “socialismo rivoluzionario” e “bolscevismo”.
Ora, i maggiori e migliori esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario
sono antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti italiani della prima
ora, da Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del
socialismo rivoluzionario. Le elezioni del 16 novembre videro, come noto,
la sonora sconfitta dei fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file
del “Blocco della Vittoria” i soli Bevione e Boselli; primo dei fascisti
in ordine di preferenze riuscì Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino. Rispetto
alla vera e propria débacle registrata dal fascismo in altre parti
d’Italia, non si trattava di un esito disastroso, ma occorre tener
presente che i fascisti in quanto tali non ottennero alcunché (Bevione e
Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo parlamentare
giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne, sottolineava il
rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di «brillante
risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di
una ben magra consolazione . su In verità, la sconfitta
bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento all’interno del Fascio
di Torino. Si riunì l'assemblea generale dei fascisti torinesi. Gli
operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo Ruggeri, spalleggiati da Gioda,
criticarono l’involuzione conservatrice del Fascio, sostenendo la
necessità di un più stretto rapporto con i lavoratori delle fabbriche??.
Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda dichiara Per l’esattezza, il “Blocco
della Vittoria” riporta 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti
unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dell’Aratro, i
10.093 del Partito Economico, i 6.547 dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642
del Partito Agrario. Per un quadro esauriente dei risultati elettorali
nel capoluogo piemontese v. «La Stampa». GIODA, / risultati elettorali ottenuti
dal Fascio di Torino, «Il Popolo d’Italia», 28 novembre 1919.
#5 Cfr. «Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi l Pilo Ruggeri, che aveva
militato nelle file della USI, era un tipico rappresentante dell ala operaista
del fascismo. Quali fossero le sue convinzioni è ben testimoniato da un suo
discorso al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo più
di socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare
l'essenza rivoluzionaria e proletaria del programma fascista,
evidenziandone le differenze ma anche le affinità con quello socialista,
in ciò rivelando il timore — comune anche a molti altri fascisti - che
una troppo accentuata politica antisocialista potesse condurre
all’isolamento del movimento fascista dalle masse. E’ significativo del
clima politico di quei giorni che, nonostante le aperture di Ruggeri agli
avversari, il comizio si fosse concluso con gravi incidenti tra
fascisti Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che oggidì
occorra molta, ma molta circospezione prima di avventurarsi ancora in
altri blocchi, se non vogliamo [...] negare sempre la nostra giovinezza
d’idee e la nostra combattività a beneficio dei vecchi partiti e dei
vecchi loro rappresentanti. Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio,
eletta subito dopo, entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri,
Cantinetto e Giraudo) L’allargamento della base del Fascio - come auspicava
Gioda (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe dovuto favorire
la ripresa, in vista di «nuovi cimenti» e di «più gagliarde lotte
politiche e sociali»**. Tuttavia, la decisione di recuperare spazio e
credibilità a sinistra restò senza seguito. L’assenza di una base reale
tra i lavoratori (a fronte di un movimento operaio forte e, a Torino più
che altrove, schierato su posizioni di avanguardia), le irrisolte
contraddizioni della politica fascista - rese ancor più stridenti dalla
nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le resistenze della
destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe più opportuno
parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella prima metà
del 1920 il fascismo torinese attraversò quindi una fase di ristagno, per
non dire di vera e propria crisi, che parve poterne compromettere le
sorti”, tanto che l’unico successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu
la costituzione, accanto al Fascio, di una “Avanguardia Studentesca”,
In occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti torinesi, nel
maggio, Gioda pronunziò un importante discorso, che, sebbene non si
discostasse granché da quanto egli professava fin dal 1915, lasciava
presagire un nuovo mutamento di prospettiva politica, nel senso di
un’attenuazione delle velleità operaiste. L’insuccesso della linea di
sinistra propugnata da Gioda e il prevalere, in seno al movimento
fascista nazionale, di un indirizzo e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO
DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio
di Torino]. 80 «Il Fascio», cit. n Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25
dicembre 1919. Di GiODA, Un appello ai fascisti torinesi, Ivi.
AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss. 2 bt “Avanguardia
Studentesca” torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta
dallo studente d’ingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, già membro
della nuova Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. «Il Fascio. Sul
fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra
fascismo e associazionismo giovanile, l’opera più circostanziata rimane
quella di NELLO, L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo,
Roma-Bari, Laterza marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di
manovra del fascismo torinese. Ancora nell’aprile, in risposta della
grande agitazione dei metallurgici (il cosiddetto “sciopero delle
lancette”), un manifestino del Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava
gli operai torinesi a rinnegare il bolscevismo - che aveva corrotto
«l’idea socialista di giustizia e di libertà» -, per stringersi fiduciosi
intorno ai fascisti, i quali «erano per le più ardite riforme e le più
audaci rivendicazioni dei lavoratori», purché queste non significassero
«la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione»?!. Nel discorso
del maggio l’accento si spostò (mazzinianamente, potremmo dire) dal piano
dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con un’accentuazione
dei temi più strettamente produttivistici. I fascisti — dice Gioda — sono
delle volontà e delle capacità che seguono direttive senza dogmi e senza
battesimi politici. Per questo sono, all’occorrenza, rivoluzionari e
conservatori. Vogliamo tutti i diritti rivendicati al popolo lavoratore, se
questo sa assolvere tutti i suoi doveri. Un proletariato educato solo al
culto del bel vivere è una bestia da soma che qualsiasi governo o classe
capitalistica o chiesa politica possono asservire. La questione del
proletariato, invece, è un altra cosa. E’ una questione innanzitutto di
capacità, all’infuori delle ciance rivoluzionarie e parlamentari. E” una
questione di volontà superiori maturate attraverso l’esperienza
produttiva di tutte le energie nazionali”? Gioda prese parte al
secondo congresso nazionale fascista, che si riunì a Milano, quello della
svolta a destra e della °! ACS, MRF, Esposizione, Busta
[Documenti]. Il Fascio, cit. Il dissidio tra la sua
concezione del fascismo, derivante in parte dal suo passato anarchico e
repubblicano, e le ragioni del compromesso (senza però tralasciare di considerare
che la disinvoltura programmatica era un aspetto non secondario del
cosiddetto problemismo fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda.
Durante l’adunata provinciale dei Fasci piemontesi, ch’ebbe luogo a
Torino il 27 febbraio 1921, Gioda, commentando la relazione di Umberto
Pasella sulla questione sindacale, difese il principio, in essa affermato,
della legittimità dello sciopero economico anche nei servizi pubblici,
essendo lo Stato, molte volte, «un cattivo padrone e un pessimo
amministratore». 1 Fasci di combattimento, per Gioda, non dovevano essere
«organizzazioni di guardie bianche o comitati di difesa civile» e avevano
il dovere di battersi per qualsivoglia riforma, «sia pur audace», quando
essa avesse arrecato beneficio ai lavoratori, nel rispetto degli
interessi generali. Riprendendo un concetto caro all’ala sindacalista del
fascismo, il segretario del Fascio torinese auspicò la trasformazione del
movimento politico e sindacale fascista in un unico “partito del lavoro”. ACS,
MRF, Esposizione, Busta [Documenti]. Sui presupposti ideologici del
“partito del lavoro”, €, più in generale, sugli orientamenti “laburisti”
all’interno del fascismo. GENTILE., e soprattutto NELLO, Dino Grandi: la
formazione di un leader fascista, Bologna, Il Mulino, conseguente
trasformazione del movimento”. D’altro canto, l’ingresso di Gioda nel
Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De Vecchi, rappresentò -
come ha sottolineato Felice - l’unico successo dell’ala sinistra del
fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul piano nazionale non corrispose
però il rafforzamento della sua leadership nell’ambito del fascismo
torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il rinnovo della
Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta affermazione della
destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere la Commissione, accrebbe
sensibilmente il proprio prestigio e la propria influenza, mentre i primi
sintomi di una grave malattia costringevano Gioda a forzati periodi di
assenza dalla scena politica cittadina. Da questo momento, insieme al
progressivo dilagare dello squadrismo, di cui Vecchi seppe essere un abile
manovratore, il Fascio di Torino riprese la sua espansione’. Gioda, dal
canto suo, recuperò il proprio ruolo soltanto a I nuovi “Postulati”
programmatici del movimento fascista, approvati a Milano, modificavano
radicalmente — in senso conservatore - il programma fascista. Cadevano,
tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e la richiesta
dell’assemblea costituente (l’anarchico Ghetti, rappresentante del Fascio
di La Spezia, fu tra i pochi a pronunciarsi per la repubblica). In
polemica con il nuovo corso del fascismo, Marinetti e il gruppo dei
futuristi abbandonano il movimento. Per il resoconto del congresso v. «Il
Popolo d’Italia», e «Il Fascio. Sull’intera vicenda v. FELICE, Mussolini il
rivoluzionario Cfr. «Il Fascio». Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro
favorito dalla nuova crisi che colse il fascismo torinese nella tarda
primavera del 1920. Il 12 giugno si era riunita un’assemblea
straordinaria del Fascio per decidere circa l’atteggiamento da assumere
di fronte alla crisi di governo. Caduto il secondo gabinetto Nitti, si
prospettava infatti l’eventualità di un esecutivo affidato a Giolitti: una
soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso
dell’assemblea, che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente
contrario a ogni intesa con i giolittiani, definendo «un’ingiuria alla
nazione vittoriosa» il rientro sulla scena nazionale dell’uomo politico
di Dronero, e minacciando addirittura di dimettersi qualora i fascisti di
Torino avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr.
Movimentata assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un
ordine del giorno contro Giolitti, «Il Fascio). Di fronte alle resistenze
incontrate all’interno del Fascio e, soprattutto, di froni. alla
risolutezza dei vertici del movimento, decisi a perseguire l’accordo con
Giolitti, Gioda si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità
di affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si
decise a convocare la nuova assemblea generale che avrebbe portato al
rinnovo della Commissione Esecutiva. Su questi avvenimenti v. MANA. Con
l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le
violenze fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del
settembre contribuirono a legare il fascismo torinese agli ambienti del
grande capitale (che si erano visti minacciare nei setter
cirrretricdatietnttittztt sac, allorché assunse la direzione del nuovo
settimanale del fascismo torinese: «Il Maglio. Rocca: il fascismo come nuova
élite AI congresso fascista di Milano assistette anche Massimo
Rocca. Le sue conclusioni non dovettero dispiacergli, se è vero - come ha
lasciato scritto - che egli non si era entusiasmato all’originario
programma sansepolcrista, giudicandolo troppo «impeciato di socialismo.
Ma Rocca, sia pur attento osservatore delle traversie del fascismo, era
ancora prevalentemente un giornalista. Inizia le pubblicazioni la
rivista settimanale «Il Risorgimento». L’intendimento della redazione,
guidata dal conte Arrivabene, ex direttore de «La Perseveranza», era
chiaro: occupare lo spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese
dopo la sua conversione al “nittismo”, fare un giornale che riflettesse
le idee e le aspirazioni della borghesia conservatrice. Poiché Rocca ne
divenne uno dei più continui e più stimati collaboratori, le credenziali
dell’ex novatore anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono
senz'altro irrobustite. Sulle pagine de «Il Risorgimento» Rocca riprese la
polemica adriatica. E’ indispensabile ritornare sull’argomento, perché fu
proprio su tale delicata questione che si venne realizzando l’incontro
definitivo tra Rocca e Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere
dalla sua intransigenza, scagliandosi contro la «Lissa diplomatica», cui,
a suo parere, la politica dei rinunciatari avrebbe condotto il Paese”.
Quasi nello stesso tempo, tuttavia, prese ad emergere, dai suoi scritti,
una posizione diversa, più conciliante e realistica. Di fronte alle mille
difficoltà frapposte dagli Alleati e dalla Jugoslavia alle rivendicazioni
italiane, Rocca si persuase che la sola via loro interessi e non si
sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul iano
dei finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. «Il Maglio», fondato
dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel
gennaio, evolvendo dal quotidiano «La Patria», un foglio interventista
vicino ai nazionalisti. Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la
direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la rubrica “Senza
guanti” (che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di
Vautrin), una finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo
vide impegnato in schermaglie a distanza con la stampa avversaria,
in particolare con «Ordine Nuovo», organo del PCdI torinese.
9 Massimo Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura TANCREDI, La
lingua nostra, «Il Risorgimento», Milano, d’uscita fosse quella
dell’applicazione integrale del patto di Londra del 1915. Consapevole che
ciò sarebbe equivalso a rinunciare a Fiume, Rocca (che pure aveva avuto
una breve esperienza come legionario dannunziano) !° si disse convinto
che la città, «confinante con un'Italia signora del Carso, delle Alpi
Giulie, dell’Istria e dell’ Adriatico», si sarebbe sentita «infinitamente
più forte», che se fosse stata abbandonata, senza continuità
territoriale, «ad una larva di sovranità italiana»'”. Dopo l’avvenuta
autoproclamazione di Fiume in stato indipendente, Rocca si rafforzò nella
convinzione che l’Italia non dovesse legare i propri destini a quelli
della città “martire”. In un articolo gli elogi di prammatica al coraggio e
alla “fede” della popolazione fiumana non bastavano a celare il disappunto
per il colpo' di mano d’Annunzio. Noi - scrive Rocca - rimaniamo convinti
e tenaci fautori dell’annessione di Fiume all’Italia. Ma non abbiamo mai
nascosto ai fiumani che, oggi, l’Italia non può contemporaneamente
annettere la città del Quarnaro e realizzare il Patto di Londra: anzi,
che nella nostra lotta diplomatica in difesa dell’ Adriatico e contro gli
Alleati, l’eroica passione di Fiume è più d’impaccio che d’aiuto. Il
giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla Carta del Carnaro
(contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui stesso auspicate
sul piano dell’ordinamento politico), non ne scalfiva l’opinione che
la reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle
aspirazioni internazionali dell’Italia. L’ambizioso esperimento fiumano era,
in ogni caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato 100
a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi Rocca, giunto a Fiume subito dopo la “marcia di
Ronchi”, vi era rimasto per circa tre mesi, durante i quali aveva
gestito l’ufficio di propaganda estera di D’Annunzio. A Fiume si erano
ritrovati anche altri anarchici interventisti, fra i quali Mazzucato e
Malusardi. !°! LiBeRO TANCREDI, La sfîda di Nitti, «Il
Risorgimento», 20 maggio 1920. !°2 Ip., L'Adriatico e l'Europa. In
particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana (redatta d’Ambris
e messa in bello stile d’Annunzio) fosse sancito il dovere di produrre,
quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A parte
questo, egli condivideva l’abolizione del Senato e l’istituzione di un
camera tecnica, espressione delle diverse corporazioni professionali. Le
corporazioni, secondo Rocca, erano «l'istituto fondamentale», il solo in
grado di «raccogliere e disciplinare» le masse e di dar loro «una norma e
un’idea». (ID., La costituzione di Fiume). Nondimeno, al di là delle
convergenze formali, il produttivismo meritocratico e sostanzialmente
conservatore di Massimo Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo
integrale deambrisiano. Sulla costituzione fiumana si veda La Carta del
Carnaro nei testi d’Ambris e d'Annunzio, a cura di Felice, Bologna, Il Mulino,
eli ita tra l’Italia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse
un duro colpo alle velleità indipendentiste del “comandante”. In due suoi
interventi su «Il Popolo d’Italia», scritti a ridosso dell’accordo
italo-jugoslavo, Mussolini mostrò di accettare sostanzialmente l’esito
dei negoziati!”. Si trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata,
frutto di un preciso calcolo politico (in questo modo il “duce” avrebbe
realizzato «il suo inserimento nel gioco politico-parlamentare a livello
nazionale») ', che disorientò la maggior parte dei fascisti ma trovò
consenziente Massimo Rocca. Il Comitato Centrale dei Fasci di
combattimento si riunì per discutere della questione. Rocca, presente
come semplice osservatore (e perciò senza diritto di voto), si schierò
apertamente dalla parte di Mussolini, imitato dal solo Rossi. Il Trattato
di Rapallo - dice Rocca - risolveva il problema adriatico dal lato di
terra, mentre lasciava insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e
meridionale. Riguardo a quest’ultimo punto, il suo parere era che i
fascisti dovessero far buon viso a cattiva sorte, senza perdersi in uno
sterile massimalismo e soprattutto senza assecondare improbabili disegni
di sedizione militare. Non si trattava - sostenne ancora Rocca
riecheggiando le tesi espresse negli articoli di Mussolini!” - solo di
una ragione di opportunità, in quanto «il problema marittimo per l’Italia
non si fermava all’ Adriatico», ed era quindi uno sbaglio ostinarsi a
considerare Fiume e la costa Dalmata come l’unico obiettivo. Occorreva
guardare oltre, avere una visione più ampia dei problemi di politica estera.
O noi — concluse Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i
padroni d’Italia e facciamo la politica interna ed esterna che ci piace,
oppure persuadiamoci che impiantare una politica estera armata accanto a
quella ufficiale, senza essere capaci di annullare quella ufficiale,
potrebbe forse essere un male gravissimo MuSSOLINI, L'accordo di
Rapallo, «Il Popolo d’Italia», 12 novembre 1920, e Ciò che rimane e ciò
che verrà, . Su questi fatti v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario.
Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato
e fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci
italiani di combattimento. Il Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia
Italiana, «Il Popolo d’Italia», Gli italiani — scrive Mussolini nel suo
fondo — non devono ipnotizzarsi
sull’Adriatico. C'è anche — se non ci inganniamo — un vasto mare di cui
l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le
possibilità vive dell’espansione italiana sono fortissime. La discussione
e il voto dei Fasci italiani di combattimento, cit. Dopo accese
discussioni, la riunione terminò con l’approvazione di un ordine del
giorno unitario, largamente compromissorio, che, se «snaturava
completamente la primitiva mozione di Mussolini»! apparendo come un
successo della corrente filo-dannunziana, in realtà non andava oltre una
generica dichiarazione di solidarietà a D'Annunzio e non comprometteva
affatto la strategia del duce, come gli avvenimenti delle settimane
successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del
“Natale di sangue”, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la
riunione del Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver
votato contro l’ordine del giorno (come aveva fatto Rossi) solo in quanto
non ne aveva «legalmente» diritto, riconfermando la propria solidarietà
al duce. Da quel giorno Rocca entra a pieno titolo nei ranghi del fascismo.
Non soltanto, infatti, riprese la collaborazione con «Il Popolo d’Italia»
(per il momento continuando ad occuparsi del problema adriatico,
sempre nell’ottica mussoliniana) !'?, ma iniziò l’ascesa politica che,
nel giro di pochi mesi, lo avrebbe portato ai vertici del movimento.
D'altronde, le idee di Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte nella
nuova fisionomia assunta dal fascismo all’indomani del congresso di
Milano. Col tempo, infatti, egli era andato sviluppando posizioni sempre
più conservatrici. Nella sua riflessione, le ragioni immediate del
difficile momento politico ed economico attraversato dall’Italia andavano
rintracciate, oltre che nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi
governanti, nell’irresponsabilità delle classi operaie. Queste, incapaci
di assolvere ai propri doveri e dedite allo sperpero, erano schiave di un
socialismo degenere, alfiere di un «gaudentismo sfarzoso e
gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca - il dilagare degli
scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre politiche che
mettevano a repentaglio l’integrità della produzione. A fronte di tutto
questo, una borghesia laboriosa, avente «il dovere di resistere e di
FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1 ’intesa italo-jugoslava - recita
l’ordine del giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro Marsich, De
Vecchi, ecc.) - era «insufficiente per Fiume», nonché «deficiente ed
inaccettabile per la Dalmazia». !!! «Il Popolo
d’Italia !2 gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo. Il
problema terrestre e quello marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati
dal giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre 1920. Questi e altri
scritti di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal
titolo // trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a
Milano nell’estate del 1921 per le edizioni de «Il Popolo
d’Italia». !!3 Massimo Rocca, La crisi maggiore, «Il Risorgimento Gli
articoli citati facevano parte delle rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca è
il principale curatore. vincere»"!, ma troppo spesso
paralizzata dalla bassezza dei ceti dirigenti, burocratici e parassitari,
assolutamente non in grado di comprendere «i fenomeni sociali ed
economici del regime capitalistico industriale»!!5. Il nodo ultimo della
crisi italiana risiedeva pertanto, a detta di Rocca, «nella perdurante e
anacronistica separazione netta fra la casta burocratica e la classe
borghese, e nella sopraffazione della prima sulla seconda, mentre
l’economia andava sempre più controllando la politica, fino ad imprimerle
le sue necessità e direttive» '!°. A questo stato di cose occorreva
rispondere con la «rivoluzione della competenza»: la rivoluzione della
classe borghese. La borghesia produttiva, la sola capace di gestire «con
criteri tecnico- produttivi» tanto il potere economico quanto il potere
politico, aveva l’obbligo morale di realizzare «un rivolgimento
aristocratico» della società italiana. Solo così, contro ogni utopia
egalitaria, le leve del comando effettivo sarebbero tornate in mano «ai
migliori, anziché ai molti, ai capaci e ai competenti». Alla borghesia,
finalmente consapevole della propria autorità, sarebbe spettato il
compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in questo processo la parte
migliore e più responsabile del proletariato”. In attesa che ciò avvenisse,
Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a suo modo di vedere,
avrebbero dovuto correggere le storture del sistema economico, a
cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. «Se si vuole che
si lavori — scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo dell’interesse
e del puntiglio individuale, alla precisione ed all’accrescimento delle
responsabilità singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano;
all’abolizione radicale dei privilegi di cui godono i funzionari pubblici»!!8,
Dopo l’occupazione delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree
misure “draconiane” contro gli eccessi del bolscevismo!"°. Il primo
obiettivo di un governo che avesse a cuore le sorti della nazione doveva
essere quello di reintegrare «il pieno dominio della legge», senza
indulgere a pietismi TANCREDI, Scioperi politici. L'articolo in
questione fu scritto da Rocca a seguito della vertenza dei metallurgici
torinesi. ROCCA, La crisi maggiore, ID., La disperazione dei servizi
pubblici, si In seguito, Rocca tornò più di una volta sulla convenienza
di restituire ai privati l’esercizio dei servizi essenziali (si veda, a
titolo di esempio, l’articolo / servizi che non servono il pubblico). La
privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini del programma economico
fascista, elaborato da Rocca con Corgini. Cfr, ID., La vertenza dei
metallurgici, democratici. Come si rileva da un articolo Rocca pensa a
una qualche forma di “dittatura”; a «un uomo nuovo», che avesse già
fornito prova di «volontà e di giustizia», il quale avrebbe potuto far
cessare l’orgia di tutti i disordini. Non è chiaro se egli si riferisse
direttamente a Mussolini, ma è molto probabile. E’ comunque significativo
- come si evince da quello stesso articolo - che Rocca ritene
l’assunzione dei pieni poteri una soluzione eccezionale, destinata a
rientrare una volta passata l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo egli
giustificava lo squadrismo, ma solo in quanto strumento temporaneo
dell’azione politica fascista, utile a frenare le prepotenze e le
intemperanze dei rossi, Quando la violenza fosse diventata la
consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe indugiato - come
fece - nello schierarsi anche contro l’estremismo squadristico, in difesa
della legalità. Non riteniamo esservi contraddizione nel diverso
atteggiamento - di legittimazione e di condanna - assunto da Rocca nei
confronti dello squadrismo prima e dopo la “marcia su Roma”. Certamente,
egli non seppe o non volle vedere la gratuità e la scelleratezza delle
violenze fasciste del periodo “eroico”, e, in senso più ampio, che quelle
violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta politica,
visione connaturata all’essenza stessa del fascismo, che nello squadrismo
(e prima ancora nella mentalità squadristica, esprimente non soltanto un
disegno rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale)
aveva il proprio stile politico qualificante‘; ma occorre tener presente
che Rocca si poneva, appunto, dall’angolo visuale del fascismo, vale a
dire da una prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo
definire sindrome da guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che
la violenza delle camicie nere fosse la risposta più che legittima alla
violenza antinazionale dei i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare),
Ibidem, 21 ottobre 1920. In un commento a margine dell’assalto a Palazzo
D’Accursio guidato dalla sua ex guardia del corpo Arpinati, Rocca
espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo squadrismo. «I
fascisti — scrisse — costituiscono oggi un comodo paravento per scusare
alle masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono anche un
pietoso alibi per giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al
codice penale non ancora abolito, una propaganda ed un’azione da veri
delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la violenza delle
masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno
atroce» (Ip., Bologna, Sulla violenza come aspetto caratterizzante della
cultura e dell’azione politica fascista v. il fascicolo n. 6, 1982, di
«Storia Contemporanea», per la maggior parte dedicato all’argomento,
particolarmente il saggio di NELLO, La violenza fascista ovvero dello
squadrismo nazionalrivoluzionario, Dello stesso autore v. anche le
riflessioni in merito contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini
del fascismo, cit., e Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di
Pisa, Pisa, Giardini, “pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa
al potere di Mussolini, reputando esser venute meno, con la sconfitta dei
socialcomunisti, le ragioni dello squadrismo, fosse in buona fede nel
denunciare il perdurare dell’illegalità fascista. Rocca consolida
la sua già rilevante posizione all’interno del movimento fascista. Un suo
articolo in difesa della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il
giornale di Mussolini, contribuì a rinfocolare il dibattito circa
l’orientamento istituzionale del fascismo. I fascisti - sostenne Rocca -
dovevano schierarsi a tutela dell’istituto monarchico, non solo per
motivi di opportunità strategica (una rivoluzione repubblicana avrebbe
infatti rimesso in gioco le forze del sovversivismo, a tutto danno degli
equilibri interni del Paese e del fascismo stesso), ma anche in ossequio
a più complesse valutazioni politiche (monarchico di ragionamento, si
autodefine Rocca molti anni dopo) 1a, che investivano l’intero assetto
della realtà nazionale. La società economica e politica che va sotto
l’appellativo convenzionale di borghese - scrive Rocca - si è capovolta
nel suo contenuto produttivo ed ideologico. Economicamente essa è
sindacalista e non più individualista: tanto che l’economia tende ad
assorbire la politica, compresa quella estera. Se una rivoluzione è
matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da
arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di
forza se divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed
operai, e gli organismi sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai
politicanti, ai demagoghi. La funzione dei Parlamenti è oggi totalmente
diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi erano le
rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove é/ites in cui
il popolo rispecchiava se stesso. Oggi il Parlamento [...] è diventato
pur esso una casta chiusa [...] non meno delle più diffamate monarchie. E
allora resta da chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della
Nazione convenga meglio aver di fronte una sola casta, quella
parlamentare, o non sia meglio averne due, cioè anche quella monarchica,
per usare dell’una qual mezzo di controllo e di pressione sull'altra. ROCCA,
La realtà italiana, «ABC. ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, «Il Popolo
d’Italia» (anche in ROCCA, /dee sul fascismo). L'articolo di Rocca,
scritto in forma di lettera a Mussolini, fa parte della rubrica
“Orientamenti e discussioni”, inaugurata da «Il Popolo d’Italia» in previsione
delle adunate regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato
Centrale del movimento nel gennaio, avrebbero dovuto fare il punto sullo
stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee orientative
dell’azione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su
cui era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre,
curate rispettivamente da Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e
Pasella, concernevano il problema agrario, i A prescindere dai cenni di
natura tecnico-politica, ciò che ancora una volta emergeva da queste
frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione di Rocca.
Non deve perciò stupire più di tanto il fatto che egli, dopo aver
rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,
riscoprisse il carattere “esclusivo” della tradizione monarchica (così come,
più tardi, avrebbe riscoperto l’importanza etica del cattolicesimo) Del
resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco d’implicazioni psicologiche
e di riferimenti autobiografici più o meno espliciti, Rocca espresse
il convincimento che «l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno
parziale, d’individui singoli o di piccoli gruppi», e che «l’ascesa e
l'emancipazione, come la istruzione, fossero sempre, e per nove decimi,
un’auto-ascesa, un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento. Era dunque
necessario - chiude Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo
inequivocabile la matrice individualista della sua cultura politica) -
“tornare agli individui” e farla finita una volta per sempre con il culto
demagogico della massa. Malusardi: il mito del fascismo libertario”
Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di Malusardi.
Conclusa una breve militanza nell’ Associazione Nazionale Combattenti!?”,
rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva
uno dei punti chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci
lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe luogo al Teatro Lirico di
Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei Fasci “ i
combattimento, «Il Popolo d’Italia. ROCCA, Una questione da non risolvere, «Il
Risorgimento. La questione menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca
riteneva non dovesse essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello
stesso papato, altrimenti destinato a smarrire il proprio carattere di
universalità. L’articolo conteneva un giudizio altamente positivo della
«funzione storica e persino politica» del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca
per la Chiesa e la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a
venire. E’ probabile che quest’interesse fosse da attribuirsi ad
un’autentica conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in
seguito, Rocca pare interessato al cattolicesimo più e altro come a un elemento
di autorità e di disciplina interiore. te ID., Quarto e quinto
stato. La seconda parte di questo lungo articolo comparve sul numero successivo
della rivista, il 3 marzo. In esso Rocca ribadiva l’idea che fosse
doveroso, oltre che utile, “educare” il proletariato, così da poterne
estrarre un nucleo scelto, un’é/ite responsabile in grado di cooperare
con la borghesia alla gestione della produzione. Spintovi dalla passione trincerista,
Malusardi adere entusiasticamente all’ ANC (per qualche tempo ricoprendo
la carica di redattore capo de «L'Eco della Vittoria», organo della
sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al
Congresso nazionale di Napoli perché contrario ai ventilati propositi di
trasformazione Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con
«Il Fascio» e (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale)
una altrettanto frammentaria attività di propagandista per conto del
Comitato Centrale fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove era
stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa
anche quell’esperienza Malusardi giunse a Verona, chiamatovi da Italo
Bresciani, segretario politico del locale Fascio di combattimento (nonché
ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare l’ala di estrema
sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e apprezzava le
doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di segretario
propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè
l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo
un maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come
prima cosa Malusardi dette vita a un giornale («Audacia»), che
doveva immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero,
contribuendo al graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera.
Egli, in particolare, vi affinò le proprie qualità giornalistiche,
rispolverando tra l’altro una rubrica dei tempi de «La Guerra Sociale»
(“Foglie d’ortica”), che divenne un punto di riferimento importante nella
dialettica politica cittadina. Come si è detto, Malusardi proveniva da
Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla fede repubblicana e
a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni libertarie,
retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la Carta del
Carnaro e il sindacalismo nazionale di Corridoni — il suo compagno di trincea -
e Alceste De Ambris. Nel Fascio veronese, dell’Associazione in partito. A
parte i suoi articoli per «L’Eco della Vittoria», per lo più improntati
al tema dell’apoliticità del movimento combattentistico, l’attività di
Malusardi in seno all’ ANC non è agevolmente documentabile. Anche sulle
date dell’arrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi è incertezza.
«Il Fascio» riporta un «avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e
delle Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere
con la Segreteria Politica», annunciando che Malusardi non ricopriva più
l’incarico di segretario propagandista del Comitato Centrale, in quanto,
già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella città “olocausta”
Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista «La Conquista», del quale non
ci è stato possibile reperire una collezione (lo stesso Felice, dal cui
Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De
Ambris-D'Annunzio traiamo questa informazione, cita da fonte
indiretta). n Bresciani, classe 1890, già convinto militante
anarchico, è fra i promotori del Fascio veronese di azione
internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta [Bresciani]. Cenni alla formazione
sindacalista di Malusardi si trovano in MALUSARDI, Elementi di storia del
sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico
Commerciale, PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE
PP decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò l’ambiente ideale
per portare avanti le proprie idee. Si riunì a Venezia l’adunata
regionale dei Fasci del Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del
segretario generale del movimento Umberto Pasella e del vecchio compagno
Massimo Rocca, Malusardi ebbe modo di esporre il proprio programma.
Riguardo alla controversia repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio
che i fascisti si facessero portavoce di un «fiero atteggiamento
antimonarchico». La monarchia sabauda affermò aveva tradito in più di
un’occasione: prima della guerra perché favorevole al “parecchio”
giolittiano, durante perché colpevolmente “latitante”, dopo perché
sostenitrice della politica rinunciataria di “Cagoja” Nitti, a Fiume
perché’ complice della repressione sanguinosa dell’insurrezione
dannunziana'”. Noi, che siamo repubblicani e libertari — concluse
Malusardi - in determinati momenti avremmo, quando il governo non agiva e
l’Italia sembrava essere gettata nel caos, accettata anche una dittatura monarchica
[...]. Ma quando una monarchia esiste solo di nome ed avalla tutte le
infamie che si commettono nel suo nome, non è per noi che un anacronismo
inutile e ingombrante! AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani
presentarono un ordine del giorno repubblicano, che raccolse però
soltanto nove voti (quanti erano i delegati del Fascio veronese), contro gli
oltre venti ottenuti da una mozione Pasella, rivendicante il carattere
«antidogmatico e antipregiudiziale del fascismo» in materia di regime. È
sulla questione sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che
Malusardi ottenne i maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema
dell’organizzazione sindacale era oggetto delle preoccupazioni della
dirigenza fascista. Nel novembre del 1920 era sorta infatti la
Confederazione Italiana dei Sindacati Economici” (CISE), che raccoglieva
i piccoli sindacati autonomi, d’ispirazione fascista più o meno
accentuata, operanti - come si usava dire - sul terreno nazionale!*. Il
nodo gordiano dell’intera vicenda, Per Ja cronaca v. La grande adunata
fascista di Venezia, «Audacia Si noti la determinazione con cui Malusardi
teneva a precisare l’essenza libertaria del proprio fascismo Pi n
toda re: 4 det H rado In occasione delle grandi agitazioni dei
postelegrafonici e dei ferrovieri, il fascismo aveva assunto un atteggiamento
decisamente anti-operaio. Poiché la UIL, il sindacato interventista,
aveva invece appoggiato gli scioperi, i fascisti ritennero giunto il che
avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del sindacalismo fascista, era
se l’azione sindacale dovesse avere natura politica oppure apolitica, vale
a dire se i Sindacati Economici dovessero agire in stretto accordo con i
Fasci di combattimento, seguendone i programmi e le direttive; 0, al
contrario, se dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo,
liberi, perciò, di agire nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la
più ampia autonomia. Nel suo intervento al convegno veneziano, Pasella
afferma che i fasci dovevano ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei
servizi pubblici. Malusardi - facendo così intendere quale fosse il
proprio pensiero riguardo ai Sindacati Economici - gli oppose che le
lotte del lavoro andavano valutate “caso per caso”. Infatti — rileva -,
se i fascisti avevano il dovere di contrastare gli scioperi
dichiaratamente politici, non dovevano però opporsi alle legittime
richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano «un più ampio diritto
alla vita, e quando le loro aspirazioni potevano essere armonizzate con
«gli interessi superiori della Nazione. Le preoccupazioni operaiste di
Malusardi si rivelarono ancor più manifestamente allorché egli dichiarò
che, «quando i lavoratori avessero saputo dimostrare una capacità tecnica
intellettuale ed una preparazione morale superiore agli attuali dirigenti
delle fabbriche e delle officine», i fascisti (che non dovevano essere
«la guardia bianca di una classe, ma i difensori della Nazione»)
avrebbero dovuto riconoscere loro «il diritto di gestire direttamente il
frutto del proprio lavoro»!°. L'ordine del giorno votato dall’adunata
accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte relativa agli scioperi
nel pubblico impiego, riguardo ai quali — recita - i fascisti, pur non
condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di prendere
posizione “volta per volta”, in base alle circostanze. Anche in materia di
politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze dalla linea
ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del “Natale di sangue”,
non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato D'Annunzio al
suo destino. Perciò, pur dichiarando -la propria stima a Mussolini,
Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma di momento di
misurarsi direttamente nel campo dell’organizzazione del lavoro. I nuclei
sindacali fascisti trovarono il loro modello in quelle formazioni indipendenti,
per lo più di modeste dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si
proclamavano apolitiche. Il primo sindacato autonomo di marca fascista,
il Sindacato Economico Ferrovieri, si formò a Roma il 16 febbraio, dalla
fusione dell’ Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine
a questi argomenti v. principalmente CORDOVA, Le origini dei sindacati
fascisti, Roma-Bari, Laterza, e ERFETTI, // sindacalismo fascista. Dalle
origini alla vigilia dello stato corporativo, Roma, Bonacci, La grande adunata
fascista di Venezia, feticismo» e non esitò a rimproverare al “duce” di aver
ingiustamente sacrificato Fiume sull’altare della ragion di stato”.
Le prese di posizione di Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero
severe critiche da parte sia di Pasella, sia di Freddi (il
segretario generale delle Avanguardie studentesche), che gli
rimproverarono di fare della demagogia. In un fondo per «Audacia»
Malusardi, quasi lusingato di aver suscitato tanta apprensione nei piani
alti del fascismo, replicò ai suoi detrattori con queste parole:
Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E’ un
aggettivo che non mi spaventa, quando penso poi che dai su citati è
prodigalmente distribuito a tutti coloro che si permettono di pensare con
la propria testa Riaffiora - come si può notare - lo spirito polemico che
aveva contraddistinto il giovane anarchico nei giorni
dell’interventismo; riaffiora, soprattutto, l’orgoglio individualista, la
presunzione di sentirsi | fuori dal “gregge”, senza curarsi (ma
anzi compiacendosi) di essere tacciato come “eretico”. Pochi giorni
dopo le sue dichiarazioni su «Audacia», Malusardi è comunque indotto a
dimettersi dalla carica di segretario propagandista del Fascio di Verona.
L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza, respinse
all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti veronesi apparivano compatti
intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato di dimostrarlo, già in
occasione dell’appuntamento elettorale. Queste affermazioni di Malusardi sul
“feticcio” Mussolini rimandano significativamente a quanto Rocca ebbe a
scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il fascismo. «Per
provare poi annota Rocca - che non tutti i primi fascisti erano
mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi
tutti, e che non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La
maggior parte si dedicò all’organizzazione operaia, come Malusardi ed
altri. Degli anarchici di cui mi ricordo nessuno è stato squadrista,
nessuno entrò nel partito dopo la marcia su Roma, parecchi anzi si
ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente
disposta a servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare un
uomo; la mentalità di questi anarchici era l’antitesi di quella dei
socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano
l’intransigenza settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale
solida e indipendente» (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura MALUSARDI, /n margine all’adunata, «Audacia», cit.
L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia
al nostro direttore. Dalle elezioni alla “marcia su Roma Le
consultazioni generali, mercé l’inclusione dei Fasci di combattimento nei
cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono l’ingresso del fascismo nel
cuore della vita politica e parlamentare italiana. Una riunione straordinaria
del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche Mario Gioda) ratificò la
decisione — che Mussolini aveva preso già da tempo - di dar corpo ad
un'intesa elettorale con le altre forze “nazionali. Il giorno successivo,
a un’assemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca difese la
legittimità di quella scelta. Non è colpa nostra dice se quei
perfetti reazionari che sono i socialisti e i comunisti malgrado il rosso
di cui s’incipriano, ci hanno imposto di scegliere fra l’Italia com’è,
con certe sue caste dirigenti e le incapacità e le brutture che ne
derivano, e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata
alla Russia. La nostra scelta è dunque doverosa, anche se non lieta:
salvare ad ogni costo, in qualunque modo l’Italia. Però sia ben chiaro
con questo che noi non rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro programma
conservatore e rinnovatore nello stesso tempo. Soprattutto non rinunciamo
alla nostra lotta contro la proprietà e il capitale improduttivo, quando
è tale veramente e non secondo le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo
giustizia a tutte le forze produttive della Nazione. Non rinunciamo alla
lotta contro la burocrazia parassitaria [...] né contro lo Stato a tipo
puramente parlamentare-burocratico, incapace di adempiere le funzioni di
cui s’incarica, mentre lega le mani alle energie private, individuali e
collettive, capaci di esercitarle con utilità e convenienza!‘ Del pari, a
Torino, Gioda acconsentì a sostenere la politica bloccarda, giustificando
l’intesa elettorale tra fascismo e liberalismo con l’esigenza di salvare
l’Italia dal pericolo bolscevico'‘”. Nondimeno, la formazione del Cfr. /
Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, «Il
Popolo d’Italia Su questi punti v. soprattutto FELICE, Mussolini il
fascista. La conquista del potere, Torino, Einaudi, 1! «n Popolo d’Italia»,
Rocca riprende questi concetti in un saggio per «Il Maglio», intitolato
Arrestare la dissoluzione. La decisione del Fascio milanese fu salutata
con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. Il programma dei fascisti e
l'adesione al Blocco, «Il Corriere della Sera. Cfr. Movimentata Assemblea del
Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, «Il Popolo d'Italia. Nel corso
dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda
faticò a imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle
perplessità della sinistra interna — che (Ai li A A ici
Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivelò tutt'altro che
agevole. I fascisti torinesi inaugurano la campagna elettorale con
un comizio di Rocca. Gioda annunciò l’avvenuto raggiungimento di un
accordo di massima - sulla base di alcune condizioni poste dai
fascisti!" - tra il Fascio di combattimento, l'Associazione
Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito Socialriformista, 1’
Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e l'Associazione
Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasciò trapelare la
possibilità che il Blocco comprendesse anche l'Associazione Liberale
Democratica, tenendo però a sottolineare come la fermezza antigiolittiana
dovesse rimanere il criterio orientativo dell’azione politica fascista.
Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell’ Associazione
Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare
dell’antigiolittismo, era un controsenso, tanto più a Torino, dove un
Blocco che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilità
di affermarsi ed era perciò nell’interesse dei fascisti non tirare troppo
la corda. Il 21 aprile, a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda
definì “penoso” e “difficile”, si giunse alla costituzione del Blocco,
con l’inclusione dell’ Associazione Liberale Democratica. Così,
non soltanto i fascisti accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma,
nonostante Gioda lamentasse l’ingerenza «immorale» da parte del Governo,
il Fascio accolse il veto imposto dal Presidente del Consiglio
alla candidatura dell’ex parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore
del responsabile dell’Ufficio i egli personalmente condivide — riguardo
all’opportunità di far blocco anche con gli odiati giolittiani, il
segretario oppose la necessità di far fronte all’avanzata delle forze
antinazionali i e, riprendendo un concetto proprio
dell’impostazione antidogmatica del fascismo, rivendicò il
carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere «né radicali, né
liberali, né anarchici», | ma solo fascisti, uniti nell’interesse
del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella lotta elettorale,
«Il Maglio» Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta elettorale a Torino, «Il Popolo
d’Italia«, 15 aprile 1921, e Un poderoso discorso di Libero Tancredi, «Il
Maglio», 16 aprile 1921. Rocca si dimostrò, come di consueto, un
instancabile propagandista. Il giorno dopo l’apparizione torinese fu
infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio inaugurale della
campagna elettorale fascista (cfr. Il primo comizio elettorale a Milano, «Il
Popolo d’Italia). Queste prevedevano: «schede elettorali con il Fascio
dei Littori; un programma che comprendesse la valorizzazione della guerra
e della vittoria, l’assistenza ai combattenti, la tutela dell’italianità
all’estero; il riconoscimento dell’opera di salvamento nazionale compiuta
dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la
difesa e la valorizzazione dell’impresa fiumana e dalmata; la lista bloccata»
GIODA, Un primo accordo fra i vari partiti a Torino. Sarà
possibile il “blocchissimo"? Trattative e moniti. Stampa presidenziale,
Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi unici candidati fascisti —
Vecchi e Rocca, che fa così il suo ingresso nella lotta elettorale. Dove
la linea bloccarda incontra fortissime resistenze fu a Verona. Il 10
aprile, nel corso della prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti
della provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi
non avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non si
sarebbero compromessi in un’alleanza elettorale con le forze della
borghesia moderata e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al
dialogo da parte dello schieramento governativo (l’organo del liberalismo
veronese, arrivò a definire l'eventuale accordo con i fascisti una
«necessità sacra») ‘’, il Fascio di Verona si attenne alla linea indicata
da Malusardi e disertò il Blocco. Così, unico caso in Italia, nel
collegio Verona/Vicenza i fascisti presentarono una lista autonoma!‘’. Va
detto che Mussolini non negò il proprio assenso all’operazione e che
anzi, in una lettera aperta ai fascisti di quel collegio, si congratulò
con loro per aver agito «fascisticamente», giacché, ove mancavano «certe
elementari condizioni di probità politica», occorreva «non bloccare ma
sbloccare. Cfr. Ibidem. pl so Giretti fu costretto a rinunziare al suo
posto in lista per non compromettere la formazione e Blocco (cfr. MARIO
GIODA, Una nobile rinuncia dell'On. Giretti). la candidatura di Rocca è
particolarmente spinta da Gioda. «Rocca — scrisse quest’ultimo,
presentando l’amico agli elettori torinesi è stato un novatore e un
divinatore. Ha veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel
buio. Per questo è Stato scomunicato quale eretico dai pontefici
rivoluzionari» (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I candidati fascisti).
“ Cfr. «Audacia A questo proposito v. anche / fascisti veronesi
lotteranno da soli, «Il Popolo d’Italia. I DTA 148 La costituzione del
Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico: fascisti a
voi!, «Arena», 24 aprile 1921. : i fo La composizione della lista
appariva comunque nettamente orientata a destra. Eccezion fatta per Italo
Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il
generale Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare
Piovene, l’ex parlamentare Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del
Fascio Parlamentare del 1917) e il professor Alberto De Stefani (che
risultò l’unico eletto). Cfr. «Audacia» i 150 «11 Popolo d’Italia»,
3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si trova anche
in MussoLINI, Opera omnia, a cura di SUSMEL (si veda) e SUSMEL (si veda) Susmel,
Firenze, La Fenice). Mussolini si
reca a Verona per la campagna elettorale e riconfermò l'apprezzamento per
la decisione dei fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle
urne. Cfr. «Il Popolo d’Italia. Rocca figura dunque candidato fascista a
Torino. La Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione
Milano/Pavia decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto
egli - come scrisse «Il Popolo d’Italia» - conferiva «un tono e un
colore patriottico e passionale alla listay. Rocca espone le linee del
suo programma elettorale a cavallo tra l’aprile e il maggio, in una serie
di articoli per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi (importante
soprattutto alla luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di Competenza)
Rocca riprendeva un’idea a lui cara: quella della riforma tecnocratica
della rappresentanza parlamentare. Una riforma seria e duratura scrive -
dovrebbe consistere nel riconoscere l’impossibilità della politica
astratta, l’immoralità parassitaria dei politicanti puri, e nel
sostituire loro i valori fondamentali che l’economia addita attraverso le
sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che
fanno e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie
elettorali l’incarico di eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di
più, per affidarlo alle collettività ed ai nuclei organizzati sulla base
di un’attività specifica a profitto della vita sociale, attività alla
quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile
allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero
parte alla Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui è
competente: e i Parlamenti tecnici così formati conoscerebbero meglio il
lavoro fecondo e pratico e meno le disquisizioni politiche mascheranti i
settarismi e i puntigli. A questo intervento ne seguirono altri, più specifici
(una sorta di vera e propria piattaforma elettorale in tre parti), nei
quali Rocca suggellava i princìpi fondanti del suo rinnovato credo
politico: libertà economica, decentramento, rispetto della legge.
L’economia liberista - argomentava Rocca nel primo di questi articoli
programmatici - veniva accusata di essere «caotica, anarchica,
antisociale ed egoista, ma ciò non rispondeva a verità, poiché il vero
liberismo non si risolveva nell’individualismo fine a se stesso. Esso,
infatti, trascende e comprende tanto l’individualismo quanto il
collettivismo; racchiudeva, cioè, tutti i sistemi di vita, tutte le forme
economiche (tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe
in atto dalla società umana. In altri termini, il liberismo era
«l'economia spontanea di per se stessa». Per questo motivo, tornare al
liberismo significava, né più né meno, tornare all'economia naturale
della vita Cir. / candidati per il Blocco, «Il Corriere della Sera». ne
«Il Popolo d’Italia» ROCCA, La riforma fondamentale, «Il Risorgimentosociale»,
al libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'”. Le affermazioni
di Rocca in materia economica, come del resto l’intero suo pensiero,
avevano ormai un evidente contenuto conservatore, e, in questo senso, non
v’è dubbio che la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti
moderati sulle buone intenzioni del fascismo. E’ però interessante vedere
quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja
definizione del liberismo come organizzazione spontanea della vita
economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco-
individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilità anarchica
verso lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva
emergere là dove Rocca, nella seconda parte del suo “manifesto”
elettorale, additava la necessità del decentramento amministrativo e
politico quale condizione essenziale per una maggiore libertà e una
miglior gestione delle risorse nazionali. Nel terzo ed ultimo articolo,
infine, Rocca affrontava la questione della legalità. La legalità —
scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto esercizio della
libertà, la quale, se svincolata da regole e da limiti preordinati, si
risolveva in «un non senso, una negazione di se medesima, attraverso
l’arbitrio individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi, non
sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la
disciplina, in tutti i settori della vita civile e politica: «disciplina di
governo, di vita pubblica, di nazione, di vita privata». Disciplina era
anche sinonimo di gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava
ripristinare «Ia gerarchia in ogni campo», affinché il «valore cosciente»
tornasse a primeggiare sul numero. L’articolo terminava con l’auspicio
che finalmente, in Italia, fosse ristabilita la legge «contro tutti !59,
i Simili affermazioni imponevano equanimità di giudizio; imponevano,
in altre parole, che quella stessa legge che egli pretendeva applicata
contro gli scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei confronti delle
camicie nere. In futuro - come si accenna - Rocca non avrebbe esitato a
prendere posizione contro la perdurante illegalità fascista; ma allora anch’egli
riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento più che legittimo di lotta
politica. Così, ad appena due giorni di distanza dal suo articolo su «Il
Risorgimento», commentando un gravissimo episodio di Ritorno all'economia)
y “Tornare al liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta
da Rocca il 6 maggio nei locali dell’Associazione Commercianti
Industriali Esercenti di Milano (cfr. «Il Popolo d'Italia» ROCCA, Ritorno
alla semplicità, «Il Risorgimento». Ritorno alla disciplina. a A mm
PPTIPONI violenza fascista a Torino (l’assalto e la devastazione
della Casa del Popolo), Rocca lo definì una sacrosanta «vendetta» contro
il dispotismo comunista, «dopo mesi e mesi di longanimità»!?. In
circostanze misteriose, l’operaio fascista Odone è assassinato da un militante
comunista. All’alba del giorno seguente, bande armate di fascisti prendeno
d’assalto la Casa del Popolo. Nel terribile conflitto che ne segue
restarono gravemente feriti tre comunisti e un studente fascista di
Reggio Emilia, Maramotti, che muore poco dopo in ospedale. La Casa del
Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti, sono prima completamente
devastati, poi incendiati. Gli squadristi - riporta «La Stampa» -
impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi alle fiamme e gli edifici
andarono quasi del tutto distrutti. I danni provocati dall’assalto
fascista sono stimati intorno ad un milione di lire!°. Nei giorni
successivi, l’autorità giudiziaria ordina il fermo di nove fascisti, tra i
quali il segretario della sezione torinese dell’Associazione Arditi,
Bruno Ricolfi, mentre gli stessi Gioda e Vecchi sono denunciati con
l’accusa d’istigazione e complicità morale (senza peraltro che la
denuncia sorte alcun effetto). Non è affatto chiaro se Gioda è coinvolto
nella decisione di assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto
rifere il Prefetto di Torino Taddei al Ministero – è organizzata
prontamente e nel massimo riserbo), ma appare evidente dal suo
comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse
prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la violenza un ll Che cosa è “già” il controllo
operaio a Torino, «Il Popolo d’Italia. Cfr. Operaio fascista e mutilato di
guerra ucciso da un comunista, “La Stampa Per le versioni di parte fascista e
comunista v. rispettivamente Giona, Un
fascista mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, «Il
Popolo d’Italia», 27 aprile 1921, e Tragico epilogo di una rappresaglia
fascista, «L'Ordine Nuovo Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, «La
Stampa» L'organo del PCdI torinese riferì che le guardie regie di presidio alla
Casa del Popolo (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non
avevano ostacolato gli assalitori, ma gli avevano persino assecondati
(cfr. Come è stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro di
Torino, «L'Ordine Nuovo). Il comportamento delle guardie regie fu
oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita
inchiesta, voluta dall’energico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i
militari avessero preso le parti degli squadristi, ma accertò altresì -
come lo stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la
«deplorevole negligenza» degli ufficiali preposti al servizio d’ordine,
dimostratisi incapaci di fronteggiare adeguatamente e con fermezza
d’animo l’offensiva fascista. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS,
Affari gen. e ris., Busta 112 [Fascio di Torino]. Cfr. «Il Popolo
d’Italia». !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari
gen. e ris., cit, aspetto importante ma tutto sommato transitorio
(quindi, in un certo senso, accessorio) del fascismo, mentre essa ne era
un elemento coessenziale imprescindibile, oltre che difficilmente
addomesticabile. Un esempio di questo ambivalente stato d’animo si trae
da un articolo di Gioda di poco precedente ai fatti narrati. In esso,
commentando l'aggressione subita da GRAMSCI (si veda) ad opera di alcuni
squadristi, il segretario del Fascio torinese define sacrosante le
ritorsioni fasciste contro le vili imboscate e la violenza liberticida
dei pussisti, ma, al contempo, vivamente deplora quell’episodio, del quale non
comprende la necessità. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla
Casa del Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne intesa
la reale portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro l’evidenza
dei fatti, che essa aveva avuto natura anticomunista ma non
antiproletaria tout couri n Fino a che punto Gioda fosse consapevole
della contraddittorietà della propria posizione non è dato sapere, ma è
certo che egli non aveva la forza sufficiente per opporsi ad uno stato di
cose che sfuggiva ormai al suo controllo, costringendolo ad improbabili
equilibrismi. All’indomani della prova elettorale (che vide il fascismo
conquistare 35 seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò una
lunga intervista a Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti
avrebbero o no preso parte alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura
alla presenza di re Vittorio Emanuele III, il duce risponde. IL FASCISMO
NON HA PREGIUDIZIALI MONARCHICHE O REPUBBLICANE -- ma è tendenzialmente
repubblicano. In ciò differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che
sono GRAMSCI (si veda) è aggredito all’uscita dalla sede di «one
Nuovo». Il leader comunista non sube in realtà alcuna violenza, mentre l’ardito
del polo Torrero, accorso in suo aiuto, resta gravemente ferito. Cfr.
Ibidem. GIODA, in tema di violenza, «Il Popolo d’Italia. E
Che Gioda non nutre molta simpatia per gl’eccessi degli squadristi è me
provato dall’impegno che egli mise nel cercare di frenarne le
intemperanze nel pesi c pipa Lo recrudescenza dello squadrismo torinese,
ossia nei mesi immediatamente precedenti i pe fo pacificazione.
Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i
fascis e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie
nere, rilevò ! urgenza li ata fine una buona volta» a quella fosca teoria
di violenze, destinata «ad attizzare MEA ‘odio olitico» (ID., Un monito
opportuno dopo una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921). to
Ip., Un rilievo opportuno dopo l'incendio vendicativo. Rocca non è eletto.
Soltanto 18° su 28 candidati a Milano, con 5.897 voti di preferenza (cfr.
«Il Corriere della Sera», 24 maggio 1921), ottenne un miglior risultato in
FERIRE 35,282 voti a Torino città e 88.670 nell’intera circoscrizione
(cfr. «La Stampa»). pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il
gruppo fascista si asterrà ufficialmente dal prendere parte alla seduta
reale!$ Le dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero
profondamente tutto l’ambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse
suscitato in molti Fasci, è stabilito di rimandare ogni decisione in
merito a una riunione congiunta dei deputati fascisti, dei membri del
Comitato Centrale e dei segretari delle Federazioni regionali, al Teatro
Lirico di Milano. Tra i Fasci dove la questione ha un'eco maggiore vi sono
quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di «Audacia» (poi
rivendicato da Malusardi) fa giungere a Mussolini il consenso dei
fascisti veronesi. L’originario programma fascista - vi si legge - quello
di piazza San Sepolcro, intransigentemente repubblicano, è stato
purtroppo messo in disparte, mentre è giunto il momento di rinverdire lo
spirito rivoluzionario del fascismo. Le dure apostrofi dell’organo
fascista destano viva apprensione negl’ambienti moderati di Verona, al
punto che, rispondendo all’articolo di «Audacia», il liberale Carli lascia
addirittura intendere che la borghesia veronese non esita a difendersi
con le armi da un’eventuale insurrezione repubblicana fascista. L’assemblea
generale del Fascio si chiude con l’unanime approvazione di un ordine del
giorno Malusardi. Il Fascio Veronese di Combattimento — recita il
documento - richiamandosi alle origini eterodosse del fascismo, qui nel
veronese mai smentite, dichiara la propria incondizionata solidarietà con
Mussolini nella tanto dibattuta questione della tendenzialità
repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti
facciano parte anche di altri partiti. Dopo che la riunione milanese del 2
giugno, protrattasi fino al giorno successivo, si fu risolta in un nuovo
compromesso (una «soluzione molto confusa e contraddittoria», secondo la
definizione di Felice Il Giornale d’Italia, L'intervista a Mussolini fu
riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia Sulle conseguenze dell’intervista di
Mussolini v. FELICE, Mussolini il ‘fascista, Cfr. NOI, Cose a posto, «Audacia»,
CARLI, Difendo il Re, «Arena, Audacia», FELICE, Mussolini il fascista, che
eludeva l’essenza del problema, Malusardi non nascose il proprio malumore
e manifestò la speranza che il prossimo congresso nazionale sciogliesse
definitivamente il nodo dell’indirizzo istituzionale del fascismo. «E?
ora di finirla scrisse tra l’altro di
vedere e liberaloni e nazionalisti e rancidi conservatori insinuarsi
nelle nostre file coll’unico scopo di rimorchiare al loro partito il
nostro movimento. Ed è ora di finirla anche con questi Fasci Agrari o
d’Ordine, che snaturano il nostro programma e mascherano gretti interessi
individuali o di classe»!”?. La vicenda ebbe conseguenze assai più
traumatiche a Torino, dove portò a un nuovo aspro scontro tra Gioda e De
Vecchi. Quest'ultimo, infatti, in un’intervista rilasciata a un
quotidiano locale, dichiarò che i deputati fascisti del Piemonte
avrebbero senz'altro presenziato alla seduta reale. Per testimoniare il proprio
dissenso da De Vecchi, Mario Gioda si dimise dalla carica di segretario
politico del Fascio di Torino e dalla direzione de «Il Maglio»'”. La
Commissione Esecutiva del Fascio, riunitasi il giorno seguente, ne rigettò
tuttavia le dimissioni, inviando altresì un voto «di piena, assoluta
solidarietà» al “duce”. In un articolo di commento alla vicenda, Gioda,
rinfrancato dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si lasciò
andare a valutazioni ottimistiche. Nessuno — scrisse - aveva il diritto
di meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da
Mussolini. Ben più strano, infatti, sarebbe stato se «il fascismo, il
giorno dopo le elezioni, fosse diventato tanto opportunista da velare, o
tacere, o sorvolare su una delle sue principali caratteristiche»; quella,
cioè, di essere un movimento tendenzialmente repubblicano. L'intervista
del “duce” - secondo Gioda - era giunta a proposito, così da smontare una
volta per sempre «la favola di un fascismo antiproletario e incatenato al
servizio della borghesia agraria e L’ordine del giorno approvava l’operato
di Mussolini e decretava la nascita del gruppo parlamentare fascista,
riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta
reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale. MALUSARDI,
Vogliamo il congresso nazionale!, «Audacia». Cfr. «La Gazzetta del popolo. Nel
corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in
guerra dell’Italia, il futuro quadrumviro riconferma quanto dichiarato il
giorno prima al quotidiano torinese (cfr. «Il Popolo d’Italia»). Nelle
sue memorie, De Vecchi si compiacerà di ricordare che Gioda,
nell’ascoltarne il discorso, era diventato sempre più pallido, finché,
esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. VECCHI). Cfr. «Il Popolo d’Italia»,
cit. In conseguenza dell’abbandono di Gioda «Il Maglio» sospese le
pubblicazioni per quasi un mese. Cfr. «Il Popolo d’Italia»,
industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana
e libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse in buona
fede. Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza
nella situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello
nazionale, ed erano, perciò, fatalmente destinate a soccombere.
Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo l’assemblea del
Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non edulcorata,
de «Il Popolo d’Italia» - si risolse in un duello personale tra Gioda e
De Vecchi. Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu licenziato un
ordine del giorno anodino (sottolineante il carattere unitario del
programma politico fascista) che, in definitiva, suonava come
un’attenuazione della linea intransigente sostenuta da Gioda'”. La
riunione al Teatro Lirico, nel corso del quale De Vecchi non mancò di
fare «una manifestazione di fede monarchica»!?8, confermò la vittoria
dell’indirizzo moderato. A distanza di pochi giorni De Vecchi prese
l’iniziativa - del tutto personale - di convocare un vertice dei
segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose all’invito e non si
recò all’incontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che riuscì a far
passare una mozione rivendicante il più assoluto agnosticismo in materia
di regime. L'assemblea conferì a De Vecchi l’incarico di designare il
nuovo direttore de «Il Maglio» e la scelta, com’era logico, cadde su un
uomo di sua fiducia, l’avv. Ruella'” Torna a riunirsi la
Commissione Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise per la seconda
volta, lasciando capire di non aver intenzione di recedere dalla propria
decisione'*°. Dieci giorni più tardi, un’ennesima assemblea
straordinaria dei soci del Fascio ‘| provvide all’insediamento di una
nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua volta, riunitasi il 4 luglio, designò
segretario politico un altro fedelissimo di De Vecchi, il capitano
Aurelio, di Novara, già comandante della legione dalmata a Fiume Gioda
appariva sconfitto su tutti fronti. Nel giro di un | la disciplina
fascista, All’assemblea del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca,
senza tuttavia intervenire nella discussione. LOI ‘imponente
convegno fascista a Milano. Cfr. «Il Maglio Cfr. «Il Popolo d’Italia La
segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal capitano
degli arditi Mario Gobbi. Cfr. «Il Maglio», e «Il Popolo
d’Italia, I membri della Commissione Esecutiva furono portati da
cinque a sei. Cfr. «Il Maglio», GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la
speculazione idiota degli avversari. Per mese, tuttavia, mercé i contrasti
suscitati dal patto di pacificazione nel frattempo stipulato con i
socialisti, la situazione mutò ancora una volta. Il 6 agosto, a riprova
della gravità della crisi, «Il Maglio» interruppe nuovamente le pubblicazioni
(le avrebbe riprese soltanto il 26 novembre). Trascorsa una settimana,
Gioda fu richiamato alla segreteria del Fascio, quindi, l’assemblea generale
fascisti torinesi votò la nomina di un’altra Commissione Esecutiva.
La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche Edoardo Malusardi.
Si svolge un’adunata provinciale straordinaria dei Fasci e dei Nuclei
fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta ancora, il tema
dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli,
contraria alla costituzione di detti sindacati, e a quella di Alessandro
Melchiori, favorevole alla formazione di organizzazioni sindacali ad
autonomia “ridotta”, si oppose l’idea di Malusardi, per il quale, mentre
la prima rivelava chiaramente la «qualità di agrario» del suo
suggeritore, la seconda era troppo generica e parimenti inaccettabile.
Secondo Malusardi, il fascismo doveva adottare il programma di
sindacalismo integrale contenuto nel “testamento politico” di Filippo
Corridoni". Ma la grande novità dell’adunata furono le dimissioni di
Malusardi dal suo doppio incarico all’interno del Fascio veronese, «per
motivi di salute e non politici. Al riguardo mancano purtroppo notizie
certe, ma non è da escludere che la sua decisione, anziché a ragioni
contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, più o meno indirette.
D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi ai suoi
lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un uomo tutt’altro che
dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo da parte e che,
persuaso della bontà dei propri convincimenti, riaffermava la propria
indipendenza di giudizio. Su tutta questa vicenda v. MANA. Melchiori (a
lungo segretario politico del Fascio di Brescia) aveva già espresso il
proprio punto di vista in un precedente intervento su «Audacia». I
sindacati - aveva rilevato - dovevano mantenersi il più possibile
indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano rinunciare al sostegno e
alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli stessi
interessi padronali. Come fino ad oggi aveva scritto Melchiori - i nostri
camions sono serviti per punire i calunniatori del fascismo, essi
serviranno per prelevare a domicilio quei proprietari che volessero ad
ogni costo andare contro corrente. MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati
Economici, «Audacia). Alla fine dei lavori l’adunata approvò un ordine del
giorno, formulato da Italo Bresciani d’intesa con il presidente
dell’assemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale), per la
costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici «nazionali», aventi
autonomia «finanziaria e politica. Ho sempre pensato scriveva
Malusardi - come meglio mi è parso. Non ho mai avuto alcun feticcio. Ho
sempre preso il bello ed il buono da qualunque parte venissero. Perché io
non sono di quelli che marciano sulle rotaie dell’anchilosi cerebrale che
i partiti e le chiesuole hanno portato su tutte le contrade. Sempre ho
irriso, anzi, a tutte le botteghe multicori politiche che pretendono
d’aver la privativa dell’infallibilità. E interessante, in questa lunga
“confessione” di Malusardi, il modo in cui egli tornava ad illustrare la
propria concezione sindacalista. Il tono e i contenuti - come si può
vedere - non erano granché mutati dai tempi de «L’Agitatore. Benché sono
[sic] orgogliosamente individualista affermava - fui tra le masse
lavoratrici e per esse lottai, pugnai di persona. Non perché io credessi o
creda nella elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da
essa delle individualità e delle minoranze intelligenti e volitive,
capaci d’innalzarsi realmente ad un più alto livello di comprendonio e di
personalità. Poiché io non dimentico che la storia è sempre stata scritta
dagli individui e dalle minoranze. Il sindacalismo, quale io lo intendo è
individualista ed è una realtà avveniristica nella quale predomina il
“mito” della singola responsabilità. Il sindacalismo è logicamente per un
continuo superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed
il comunismo statali rappresentano invece il livellamento e la massima
proletarizzazione di tutti!8* Infine, Malusardi rilasciava una
dichiarazione dall’evidente sapore programmatico.lo non sarò mai per il
conservatorume rancido e vilissimo che, passata la bufera bolscevica,
spazzata via dal salutare vento fascista, si è riverniciato a nuovo e
pretende rimerchiare la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di
aver molto contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua
caratteristica sbarazzina e ardita, tanto da essere chiamato la punta
estrema del movimento fascista! n definitiva, l’allontanamento di Malusardi da
Verona - cui fece seguito il suo temporaneo “esilio” in provincia -
pareva dettato, più che da cattive condizioni di salute, da valutazioni
di opportunità “ambientale”. Egli, del resto, non abbandonò affatto
l’attività politica. Al congresso provinciale MALUSARDI, Commiato A
seguito delle dimissioni di Malusardi la direzione di «Audacia» fu ereditata da
Grancelli. fascista, Malusardi è infatti presente in rappresentanza
dei piccoli Fasci di Legnago e di Cologna Veneta, figurando altresì
quale segretario generale della Federazione fascista intermandamentale
del basso veronese. In quel frangente egli si fece promotore di una
mozione favorevole al patto di pacificazione, da poco stipulato con i
socialisti, «per ragioni di ordine nazionale»'”°. L'ordine del giorno
Malusardi fu approvato con 14 voti a favore, il doppio di quelli ottenuti
da una proposta di Bernini, del Fascio di Verona, per l’accettazione
condizionata del patto. Ci sembra significativo che, proprio nel momento
in cui il Fascio veronese manifestava al riguardo molte perplessità,
Malusardi appoggiasse la strategia distensiva di Mussolini. Senz'altro,
com’è anche possibile desumere dalle sue future prese di posizione in tema
di violenza, Malusardi riconosceva il bisogno di una “tregua d’armi” con
le sinistre (la sua intransigenza sui principi non dev'essere confusa con
l’estremismo squadristico), ma è anche presumibile che egli mirasse in
parte a recuperare credito agli occhi delle gerarchie!”, Tra l’agosto e
il settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa opera di propaganda a
sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la provincia di
Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a collaborare
con «Audacia», di cui riassunse la direzione, poco tempo prima del III
congresso nazionale fascista Favorevole alla tregua con i socialisti si era
detto anche Massimo Rocca, benché, in un articolo di poco precedente alla
firma del patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta di un
eventuale accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta
politica aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la
pace interna, «Il Risorgimento). Dopo che l’accordo fu denunciato - in
conseguenza dei gravi incidenti scoppiati al margine de! III congresso
nazionale fascista -, Rocca attribuì la responsabilità del suo fallimento
ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una pacificazione Su tutte
le questioni connesse al patto di pacificazione v. FELICE, Mussolini il
fascista. Audacia A questo proposito, il responsabile per la propaganda del
Comitato Centrale, mentre rimproverava a Grancelli e agli altri dirigenti
del Fascio di Verona, il loro «semplicismo politico», si disse
piacevolmente sorpreso che «l'ex anarchico Malusardi» condividesse
l’iniziativa di Mussolini per la pacificazione (MARINONI, Dopo il Congresso
Provinciale). In preparazione dell’assise nazionale di Roma, i Fasci del
veronese si radunano a congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello
dell’annunciata trasformazione del movimento in partito (che avrebbe
dominato i lavori dell’ Augusteo ), vi fu nuovamente quello dei Sindacati
Economici. Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei “Gruppi dei ferrovieri
fascisti”, organismi di categoria dipendenti dai Fasci, che lasciavano
intravedere la possibilità di un sindacalismo integralmente fascista, si
andava vieppiù riconsiderando la funzione dei Sindacati Economici, la cui
pretesa apoliticità era ormai oggetto delle critiche di autorevoli Il
congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di Roma tra il 7 e il
10 novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo
Rocca. Questi si preparò all’appuntamento con una serie di articoli
d’indubbio interesse, nei quali — per la prima volta in modo compiuto -
formulò la sua proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di
Rocca, i Fasci avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di
avanguardia politica e ideale, come lo era stata la Destra storica
cavouriana. La vita politica italiana, costretta in avvilenti
compromessi, aveva bisogno di «un eccesso di spiritualità», tale da
bilanciare l’eccesso «di politicantismo mercantile» che la sommergeva; e
solo una destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi della cultura
e dello spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe potuto
svolgere questo «compito di equilibrio e di correzione». In quella
tradizione risiedeva del resto un «grande insegnamento realistico e morale»
dal quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire che «non
le masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo» e che il progresso
consisteva nel «succedersi di aristocrazie libere»'. I fascisti - Rocca non
ne dubitava - avevano le carte in regola per guidare quest'opera di
rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi come
forza politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera
di sovversivi, alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti
con il proprio passato. Erano coloro che difendevano la pregiudiziale
repubblicana e i Sindacati Economici (forse Rocca pensava agli amici
Gioda e Malusardi) e rappresentavano la tendenza «filoproletaria» del
movimento: una tendenza, sia pur degna del massimo rispetto, che
rischiava di ripetere gli errori storici della sinistra, plasmando una
sorta di «demagogia fascista», non meno deprecabile di quella
socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva esponenti della
gerarchia fascista, da Bianchi a Grandi, da Rocca allo stesso Mussolini
(su questi punti v. CORDOVA). Al congresso veronese Malusardi si
pronunciò contro la costituzione di sindacati «prettamente fascisti» e
difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale (la tesi patrocinata
a livello nazionale da Edmondo Rossoni). I sindacati “di partito”, rilevò
Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità di tutte le forze sindacali
nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il
monopolio dei sindacati socialcomunisti. «Se in politica — affermò — le
divergenze son profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili.
Il lavoratore credente e quello miscredente, il monarchico ed il
repubblicano sono tutti d’accordo nel volere il proprio miglioramento
economico e morale». Di concerto con Bresciani, Malusardi presentò dunque
un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinché sorgesse,
«all’infuori dello stesso Partito Fascista, un forte organismo sindacale
che raccogliesse sotto il suo vessillo di battaglia tutti i lavoratori
che non rinnegavano la realtà Nazione («Audacia ROCCA, Pér una nuova destra,
«Il Popolo d’Italia, anche in Idee sul fascismo. la destra
reazionaria, formata da certa borghesia, specialmente terriera, e da
residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva nel fascismo «l’arma di difesa
e di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile», ed era responsabile
del carattere «offensivo e violento» assunto dai Fasci in talune zone del
Paese, Tra le due ali estreme del fascismo si situava tuttavia un folto
centro moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo erede del
primo nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di
destra, del liberalismo, cioè, non ancora “inquinato” dall’utopia
demo-sociale. Una zona media del fascismo, dunque, fondata sulla
«disciplina verso la Nazione, al di sopra degli esclusivismi ideologici e
degli interessi particolari», che Rocca confida sarebbe infine prevalsa
sugli opposti estremismi, fino a costituire il perno della “nuova destra”
di governo!” Nel suo intervento al congresso di Roma Rocca riprese uno ad
uno questi temi. Il fascismo — disse - doveva innanzi tutto svolgere
«un’opera di educazione sulle masse», per volgersi infine alla
trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi italiana era
una crisi d’incompetenza e le questioni economiche e amministrative, per
le quali lo stato politico non era adatto, dovevano essere demandate ai
tecnici. In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali avrebbero
potuto giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati
divenissero strumento «di selezione delle élites proletarie. L’assise
dell’ Augusteo decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia
Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio lombardo di
Castellanza) sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e Gioda,
presenti anch’essi al Un neo liberalismo?, “Il Risorgimento” anche in
Idee sul fascismo Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo
Rocca v. altresì GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista Il Popolo
d’Italia. L'intervento di Rocca al congresso dell’ Augusteo fu per la maggior
parte incentrato sui problemi di ordine internazionale. A questo riguardo
Rocca confermò la convinzione che l’Italia dovesse avere una politica
estera «rettilinea e chiara», senza le incertezze del passato, e che
spettasse al fascismo far sì che ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi
richiami alle glorie e alla potenza d’Italia, vibrava di forti acc>nti
nazionalistici e non fu un caso che l'organo dell’Associazione
Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di Massimo
Rocca, «L’Idea Nazionale Cfr. «Il popolo d’Italia» Il Fascio di Castellanza, un
piccolo centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato inaugurato
alla presenza di Rocca, che aveva fatto da padrino. Ne è segretario
Schejola e conta 67 soci, in prevalenza operai e impiegati. L'assemblea
generale dei soci designa Rocca a rappresentare il Fascio al congresso
nazionale di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del
Comitato Centrale con i Fasci di combattimento,Busta
[Castellanza]. congresso, votarono a favore della trasformazione del
movimento in partito!” Dal congresso scaturì inoltre il nuovo
organigramma fascista: Massimo Rocca entrò a far parte della Commissione
Esecutiva del PNF°%, mentre De Vecchi, a testimoniare la definitiva
virata a destra del fascismo, rilevò Gioda nel Comitato Centrale?”
Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un lungo
articolo celebrativo, significativo per i numerosi richiami al problema
dell’organizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai
Consigli ; A Errante " Si raduna l’assemblea generale dei
fascisti torinesi. Nella sua relazione Gioda si era pronunciato a favore
del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare - la stessa parola
partito gli ripugnasse «istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto - che
il movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava,
perciò, soltanto di ratificarne ufficialmente l’esistenza. La creazione
di un partito fascista era altresì indispensabile per imprimere un
carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato
alle singole realtà provinciali; e per porre un freno alle «lotte
infeconde» tra le sue diverse correnti, espressione, nella maggior parte
dei casi, d’interessi localistici o addirittura personali. Si noti, a
questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di
Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista
Italiano, «Il Popolo d’Italia». Anche Malusardi, in occasione del già
menzionato congresso provinciale veronese del 30 ottobre, si era detto
favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto
che la nuova compagine politica ereditasse «il patrimonio ideale del vecchio
partito d’azione mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista
della Costituzione Fiumana, alle esigenze della vita moderna»
(«Audacia»). In seguito, Rocca riferì che Vecchi, «a nome di amici
nazionalisti e sindacalisti», gli aveva offerto la segreteria del
partito, da egli rifiutata, «malgrado le insistenze», per non venirsi a
trovare in una situazione difficilmente gestibile. «Qualunque segretario del
partito — scrive Rocca ricordando l’episodio — avrebbe dovuto scegliere
fra il ritirarsi in un compito amministrativo e di adulatore, o diventare
dopo qualche settimana il rivale e poi il nemico del Duce» (Rocca, Come
il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del PNF fu
quindi nominato Michele Bianchi. Per la cronaca del congresso
dell’Augusteo v. «Il Popolo d’Italia. Sulle vicende legate a questa importante
tappa della storia del fascismo v. FELICE, Mussolini il fascista. Stando
al resoconto de «Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro
0 contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’
Associazione Nazionalista. In base a quanto da lui stesso riferito anni
dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la doppia tessera (cfr.
Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il tema dei rapporti col
nazionalismo domina a lungo il dibattito interno fascista all’indomani
del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo dell’ANI, Rocca,
dopo aver sottolineato lo «spirito aristocratico» che animava il nuovo
Partito Fascista, si disse «convinto che il fascismo, il nazionalismo e
il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando qualcosa che, un
giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi», ed auspicò
la formazione di un unico partito nazionale (Il fascismo e la crisi
italiana in una nostra intervista con Tancredi, «L’Idea
Nazionale), Tecnici. Rispetto ai sindacati - rileva il neo dirigente
fascista -, il partito poteva scegliere di prevalere «aristocraticamente»
su di essi (come egli si augurava), oppure di farsene soggiogare,
soccombendo a una visione demagogica della lotta sindacale. Alla
necessità di delineare gli orientamenti sindacali del fascismo si
accompagnava quella di riformare gli organi elettivi, in armonia con la
economia sindacale moderna». Secondo Rocca, un primo passo verso questa
riforma era rappresentato dalla decisione, presa in ambito congressuale,
di dar vita a organismi professionali ristretti - i consigli tecnici
appunto -, da affiancare ai Parlamenti generici e politici, inadatti per
loro stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero competenze
tecniche specifiche. Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto
dei deliberati del congresso nazionale fu Malusardi. In primo luogo -
com’ebbe a scrivere su Audacia - egli dissentiva da Mussolini in merito
alla concezione statale. Il ritorno al liberismo e l’accantonamento della
Carta del Carnaro, sanciti a Roma, gli apparivano difatti come la
negazione dello spirito originario del fascismo. Quando egli
[Mussolini] rileva Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,
superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici
nella vita della Nazione, ecco che viene ad ammettere che dalla Carta del
Carnaro possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di più,
poiché appunto nella Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella
ideologia mazziniana che il fascismo, secondo lo stesso Mussolini, non
deve ignorare ma integrare Quanto all’annosa questione istituzionale,
Malusardi ribadì il proprio repubblicanesimo, solo in parte stemperato da
considerazioni di opportunità politica. Rocca, Un congresso di vivi,
«Il Risorgimento» (anche in ‘cismo). DIE n prete anre ie del
PNE, accolge le indicazioni del congresso circa l’opportunità di dar vita
a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare). Questi, che venivano al
terzo posto nella struttura gerarchica del partito, subito dopo gli
organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale, Direzione e
Segreteria Generale) ei Fasci, avrebbero dovuto raccogliere tutti gli
iscritti che avessero dimestichezza in materia di servizi pubblici, o in
questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto sul
piano nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere possibile !
analisi di ogni problema politico, economico e sociale secondo criteri di
competenza professionale. Cfr. Programma e Statuti del Partito Nazionale
Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, (lo statuto/regolamento del
partito è pubblicato in prima battuta da «Ii Popolo d’Italia» MALUSARDI, /n
margine al congresso, «Audacia», Anche Mazzini — scrive - pur mantenendo
intatta la sua FEDE REPUBBLICANA, per raggiungere l’unità d’Italia, scrive
la famosa lettera a Carignano e non ostacola di salire al trono Vittorio
Emanuele SAVOIA (si veda). Ma il veggente ligure, però, mai si adatta a
servilismi o incensamenti cortigianeschi. Così, pure noi fascisti, pur
riconoscendo inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano,
perché verrebbe sfruttato dagli elementi antinazionali, dovremmo
riaffermare chiaramente la nostra originaria tendenzialità
repubblicana? Infine, Malusardi deplorò la scarsa attenzione volta
dai congressisti ai problemi sindacali e alla questione agraria, attribuendo
la ragione di questa grave lacuna programmatica alla presenza, in seno al
fascismo, di «agrari dalla mentalità antiquata». Per contro, egli affermò
la necessità di combattere il latifondo, per giungere alla
«sproletarizzazione» delle campagne, incrementando la piccola proprietà e
la cooperazione, L'ultimo atto pubblico di Malusardi a Verona è la
partecipazione al congresso provinciale fascista. Anche in quella
circostanza egli non tralasciò di riaffermare la propria fede sindacalista e
di celebrare il «sindacalismo/corporativismo dannunziano
genialmente dettato nella Carta di Fiume». Due giorni dopo, il congresso
nazionale delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna,
sancì la fine dei Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita
della Confederazione Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale
fortemente ideologizzato’”. Il sindacalismo “puro”, nella tradizione
corridoniana e Malusardi abbandonò la direzione del giornale (che
fu rilevata da Grancelli). Intorno a questi avvenimenti v. CORDOVA. AI
congresso di Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si
scontrarono tre posizioni: quella di Rossoni, sostenitore della tesi
autonomista (cui era propenso Malusardi), quella del neo segretario del
PNF, Bianchi, per l’istituzione dei sindacati “di partito”, e quella,
mediana, di Grandi e Rocca, a favore di
un’autonomia “controllata”, che finì per prevalere (a questo riguardo si
veda NELLO, Grandi: la formazione di un leader fascista, Bologna, cit.).
Nel corso della discussione Rocca sostenne che il sindacalismo apolitico
avrebbe avuto senso solo dopo l’entrata in funzione dei Gruppi di
Competenza. Prima di allora - data «l’immaturità delle masse» -, era vano
sperare di sottrarre i lavoratori al controllo pervasivo dei
socialcomunisti, semplicemente lasciando loro la facoltà di organizzarsi
in modo autonomo. D’altro canto, creare dei sindacati fascisti, come
proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per
questi motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione di
sindacati semplicemente deambrisiana, usce dunque dall’orizzonte
programmatico del fascismo, ma Malusardi pare non rendersene conto.
Lasciata Verona per Brescia, dove rileva la direzione del locale organo
fascista, Malusardi si presenta ai camerati bresciani con queste parole. Se
noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a
qualsiasi dittatura bolscevica, ciò non significa che siamo dei
conservatori e dei reazionari. Noi siamo, invece, profondamente NOVATORI.
Se Malusardi si considera ancora e sempre un NOVATORE, Rocca, ch’è
l’iniziatore e il maestro” del NOVATORISMO ANARCHICO, è ormai un
integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del
liberalismo si spinse anzi sempre più a fondo, giungendo, in un articolo carico
di reminiscenze sonniniane, ad invocare la restaurazione di tutte le
prerogative della corona, usurpate dal parlamento, secondo la lettera
dello statuto albertino. Di pari passo con la maturazione conservatrice
di Rocca crescevano le sue responsabilità politiche e organizzative
all’interno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo
prestigio e la sua influenza, come l’esplosione, in marzo, del caso legato
a PMarsich, avrebbe pienamente rivelato. A ridosso del
drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un giornale vicino a
Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra oltranzista e
rivoluzionaria), rese nota una lettera di quest’ultimo alla Segreteria
del partito, nella quale egli lamentava la “degenerazione”
parlamentarista del nazionali, guidati da fascisti e da uomini della cui
fede patriottica non fosse possibile dubitare» («Il Popolo d’Italia. Rocca
prende parte anche al congresso nazionale delle Corporazioni (Milano), durante
il quale svolge una relazione sull’emigrazione italiana all’estero (cfr.
Il Lavoro d’Italia). 208 Malusardi arrivò a Brescia, dopo un breve
soggiorno a Milano, nei primi giorni di febbraio. In origine il suo
compito avrebbe dovuto limitarsi all’organizzazione del locale sindacato
fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del
partito (rispondendo alle richieste che già da due mesi giungevano dal
Fascio bresciano) ne aveva sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr.
ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i
fasci di combattimento, Busta
[Brescia]. MALUSARDI, A guisa di presentazione, «Fiamma» ROCCA, La
più grande crisi, «Il Risorgimento», col pretesto di vendicare l’assassinio del
fascista ed ex legionario Alfredo Fontana, le camicie nere di Fiume,
guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo autonomista di
Riccardo Zanella e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana
si concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un
fascista, Giovanni Giurati, a capo provvisorio
dell’esecutivo. fascismo e si scagliava contro l’«infausta egemonia» di
Mussolini, contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele D’Annunzio?!.
Il “duce”, a sua volta, in una secca replica al suo censore, ne definì lo
sfogo nient’altro che una tragicommedia, Lo scontro tra Marsich e
Mussolini, che, ben lungi dall’esaurirsi in un contrasto personale,
concerneva l’indirizzo politico del partito, innestò una lunga serie di
polemiche, a tutti i livelli (a Brescia, ad esempio, contrappose
Malusardi al segretario provinciale uscente, Minniti) °!*. Dei dirigenti
del PNF, Rocca fu tra i primi a prendere posizione. Quella della presunta
egemonia mussoliniana - scrisse in una lettera a «Il Popolo d’Italia» - è
una leggenda priva di fondamento. Quanto alla “deriva” legalitaria che
negli ultimi tempi, secondo Marsich, si sarebbe venuta a creare nel
fascismo (una situazione che Rocca si vantava di aver contribuito a
determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo, dal momento che
l’Italia stava attraversando una fase di assestamento e non aveva,
perciò, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si domandava
Rocca -, levare la bandiera dell’antiparlamentarismo una volta SIRO Gebo a
: Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Marsich,
«La Riscossa dei legionari fiumani», (la lettera è ripresa anche
dall’«Avanti!» del giorno seguente). La filippica di Marsich,
già da tempo molto critico nei confronti dell’orientamento politico del
fascismo, fu originata da un’intervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di
Mussolini sulla crisi ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio
1922), nella quale il duce”, commentando la caduta del governo Bonomi, si
era detto ben disposto verso un eventuale rientro in scena di
Giolitti. Sul caso Marsich v. FELICE, Mussolini il fascista, cit.,
p. 197 ss. us «Il Popolo d’Italia. Nel corso di un convegno straordinario
dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi prese le difese di
Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi,
tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nell’essersi colpevolmente
adeguato alle regole e ai “sotterfugi” del parlamentarismo, quanto
nell’assenza di un orientamento politico univoco; una lacuna grave, in
ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano elementi novatori e,
senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti del
lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di reazione e
di corruzione». Il dibattito di Brescia riveste un’importanza notevole,
soprattutto perché la discussione intorno alla vicenda Marsich toccò
anche il tema della violenza. Turati affermò che i rilievi contro il
parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ciò,
soprattutto dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del
Veneto, notoriamente “feudo” di Marsich, non conducesse all’apologia dei
metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al “manganello”, affermò il
futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe
fatalmente condotto all’isolamento politico. Il convegno si chiuse con
l’approvazione di un ordine del giorno unitario, col quale i fascisti
della provincia di Brescia, «non riconoscendo nelle critiche contenute
nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso»,
reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano auspicio che alla lotta
politica fosse «restituita la forma di un civile contrasto»
(«Fiamma»). entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema
rappresentativo, semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe
senz’altro avvenuto, grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti
tecnici. Riguardo a Gabriele D’Annunzio - proseguiva Rocca -
l’atteggiamento di Marsich era poi del tutto irragionevole: non solo
perché, dopo le infinite vicissitudini dei legionari dannunziani, nessuno
era in grado di dire quali fossero le idee politiche del “comandante”, ma
anche, e soprattutto, perché era privo di senso attaccare Mussolini per
poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle seduzioni del
dannunzianesimo. «Il fascismo concludeva Rocca dev'essere anzitutto
un’accolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una causa ed
un’azione liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio di un
uomo. La Direzione del partito votò una mozione di biasimo a Pietro
Marsich°!°, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal
Consiglio Nazionale del fascismo. Rocca conosce forse il suo periodo di
maggior popolarità come dirigente fascista. In quei mesi, che prepararono
l’ascesa al potere di Mussolini, sembra per molti versi che le idee di
Rocca potessero concretizzarsi in un progetto politico di ampio respiro.
Parve, cioè, che il fascismo (com'era nelle aspirazioni dell’ex
anarchico) potesse davvero configurarsi come élite ROCCA, Chiarificazioni,
«Il Popolo d’Italia». nonna Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla
vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge «lo in politica non concepisco la
disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella intelligente e
consapevole che viene accettata dagli uomini liberi» (MALUSARDI, Sincerità
delle sincerità [cf. GRICE, APING COOPERATIVE PRINCIPLE], «Fiamma», 1 aprile
1922). Lo spirito individualista di Rocca e Malusardi — se così si può
dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn politiche dei
due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, È;
fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno aggiornata del
tiberalismo i destra (come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a
recuperare l’ispirazione i ionaria e i programmi del Partito d’ Azione
mazziniano. una pr direzione del partito. L'On. Piero Marsich deplorato,
«Il Popolo "Italia). ù dI Of La prima pra del Consiglio
Nazionale Fascista; Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per
tre giorni, durante i quali furono Pv temi importanti, dalla vicenda di
Fiume all’indirizzo politico del partito. SNA lo a quest’ultimo punto,
Rocca si schierò una volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi -
affermò provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra]
lega " rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della
credibilità, si doveva avere il coraggio di fare la rivoluzione sul
serio, non limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata del
Consiglio Nazionale Fascista. Rocca dirige anche la Federazione
provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. PARETI RIE
IPP IRT OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT dirigente, capace
di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra e di
guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio
di luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di
procedere alla costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene
contemplati dallo statuto/regolamento, erano rimasti sulla carta) ‘!;
quindi nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato
nazionale. Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva «coordinare
l’opera dei singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali», in modo
tale ch’essi servissero «da legame e da organi d’informazione fra il
Partito Nazionale Fascista e le Corporazioni sindacali», e facessero da
punto di raccolta dei «nuovi valori intellettuali e tecnici» destinati a
formare la classe dirigente del futuro - Per l’ex operaio tipografo,
orgoglioso e tenace autodidatta, che da anni andava predicando l’urgenza
di una rivoluzione dei competenti, si tratta di un riconoscimento
personale importantissimo e di una grande occasione politica. Anche per
questa ragione, il fallimento dei Gruppi di Competenza (al quale dovevano
contribuire le resistenze opposte dalla “oligarchia” fascista e dai «capi
locali più ignoranti») ?”, rappresentò, per Rocca, una cocente
delusione, che ebbe un peso non secondario nel definirne | il
mutato atteggiamento riguardo al fascismo. A fine agosto «Il Popolo
d’Italia» rese noto un programma in due parti “per il risanamento
finanziario” dello Stato e degli Enti Locali”, Il documento, che doveva
dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia
economica, era redatto da Massimo Rocca e dall’on. Ottavio Corgini, ed
era, in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista.
Proprio a motivo della sua “classicità”, il programma Rocca/Corgini
suscitò commenti benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano”?
e valse, insieme Cfr. «Il Popolo d’Italia». Gli unici due Gruppi di
Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in vigore dello
statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti” e quello degli
“assicuratori fascisti triestini” (cfr. CORDOVA). «Il Popolo
d’Italia Su tutti questi punti V. principalmente AQUARONE,
Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», nonché
CORDOVA, Ka cit., p. 101 ss. si Massimo Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura pì Detto programma aveva avuto un’anticipazione
nell’articolo di Rocca Disavanzo cronico, pubblicato dall’organo
mussoliniano il 18 luglio. «Il Corriere della Sera», in un fondo
del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente (senza firma, ma
opera di Luigi Einaudi), formulò un giudizio addirittura entusiasta sul
programma economico fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di
risalire alle «sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente concedere
alla facile demagogia alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di
regime?”4, a spazzar via le residue diffidenze dell’opinione pubblica
moderata nei confronti del fascismo, nel momento in cui esso si candidava
scopertamente a forza di governo. AI centro della riflessione di
Rocca e Corgini è l’idea che il Parlamento italiano è ormai diventato un
organo di sperpero, in balia di gruppi parlamentari irresponsabili, e che
occorresse per questo abolire l’iniziativa parlamentare a proporre nuove
spese. Tra i provvedimenti atti a risanare l’erario, il programma
annovera: la riforma della burocrazia (affinché gli uffici pubblici
cessassero di essere un ricettacolo di tutti «i vinti anticipati nella
lotta per l’esistenza e l’elevazione»); la cessione ai privati delle
industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali “inutili”; la
soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici,
ai privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione
all’essenziale dei lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che
“inceppavano” la produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero
sistema tributario, nel senso di una riduzione delle imposte dirette, le
quali andavano a detrimento della produzione, e di un corrispondente
aumento di quelle dirette, che, colpendo il consumo interno, lasciavano
ampio margine alle esportazioni”, La seconda parte del programma,
dedicata alla situazione degli Enti Locali, era senz'altro molto più
“politica”. La responsabilità prima del dissesto dei Comuni e delle
Province italiane - affermavano infatti gli estensori del “socialistoide”.
Rocca stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate,
scrisse che il programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso
«andasse oltre l’ideologia liberale. Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura,). nell’ambito di un intervento al Teatro Sociale di Udine,
Mussolini afferma che la rivoluzione fascista non insidia il trono dei
Savoia. Lasceremo in disparte dice, fuori del nostro gioco, che ha altri
bersagli visibilissimi e formidabili, l’istituto monarchico, anche perché
pensiamo che la gran parte dell’Italia vede con sospetto una
trasformazione del regime che anda fino a quel punto (Un forte e chiaro discorso ammonitore
di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessità
storiche della Nazione, Il Popolo d’Italia. Il discorso di Mussolini è molto
apprezzato e non puo essere altrimenti — da Rocca, che, in un telegramma
al duce, dichiara di condividerne entusiasticamente ogni parola. Più sfumata la
reazione di Gioda. Le considerazioni di Mussolini in ordine alla
questione istituzionale - scrive il segretario del Fascio torinese - doveno
essere valutate serenamente. Dopo tutto, osserva Gioda, anche REPUBBLICANI
INTRANSIGENTI come Mazzini e Crispi si sono piegati, nell’interesse
d’Italia, ad accettare la monarchia. (GIODA, Il discorso di Udine, «Il
Maglio. ROCCA, CORGINI, Pel risanamento finanziario dello stato
italiano. Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, «Il Popolo d’Italia», Ae documento - era delle amministrazioni
di sinistra, socialiste e popolari dell’azione «immorale, disordinata e
dilapidatrice dei sovversivi». Un rimedio poteva consistere
nell’obbligare gli amministratori rossi a preparare e fare approvare i
bilanci comunali e provinciali nei modi e nei tempi stabiliti dalla
legge» (a costo di agire «fascisticamente, senza mezzi termini ed
eufemismi»), ma, ancora una volta, la soluzione vera del problema doveva
passare attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale Rocca e
Corgini auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia, di
un «comitato centrale di difesa dei contribuenti Dalla metà di settembre sino
alla vigilia del congresso fascista di Napoli Rocca è impegnato a dirigere la
campagna di comizi per il risanamento finanziario, che attraversò tutta
l’Italia. Quattro giorni prima dell’inaugurazione del congresso
partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblica lo statuto/regolamento dei
Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo a ragione considerare il
maggior contributo di Rocca ai programmi del primo fascismo) era
preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale l’autore
esponeva in modo lineare la propria dottrina della competenza. Per prima
cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti e i
sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti
gli effetti, formazioni di massa, all’interno delle quali «i produttori
restavano raggruppati più con riguardo al numero che alle capacità
singole», al fine di salvaguardare «interessi particolari e soprattutto
economici»; i primi dovevano configurarsi come «nuclei esigui di
persone», le quali, in quanto «partecipanti ai gruppi medesimi», non
dovevano avere «alcun interesse specifico, né personale né di classe» da
tutelare. Ai Gruppi doveva quindi competere una funzione eminentemente
«consultiva e di studio», ma anche una funzione, per così dire, di
“armonizzazione” dei diversi interessi, un’opera «il cui precipuo
carattere spirituale» fosse quello di favorire «la concordia fra le
diverse classi e categorie produttive», così come fra il partito e le
corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non
erano compatibili «né col numero né con i metodi democratici di elezioni
e i Lo (1g ARA ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali.
Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922. Entrambi i programmi furono in seguito
pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza pubblica. Relazioni di
Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria
dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922. Rocca era a
capo di una commissione finanziaria, incaricata di organizzare i
comizi. Rocca è l’oratore principale a Genova, Livorno, Savona, Alba
- dov’è previsto un suo contraddittorio con Sturzo, saltato all’ultimo
momento (cfr. «Il Popolo d’Italia») - e Palermo. di
discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la
diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito. Nella sua relazione al
congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato per discutere i
problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente il progetto di
statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i Gruppi di Competenza
avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione
meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Rocca, che egli avrebbe in
seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario aprire una
parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso napoletano, il
fascismo, che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa,
mirava a mettere radici nel meridione. D’altronde, l’ipotesi - ormai
sempre più concreta - di una “marcia su Roma” presupponeva, per la sua
attuazione, una penetrazione politica e militare anche nei territori a
sud della capitale. Si è riunita la Direzione del PNF, «per studiare
l’organizzazione fascista in rapporto ai bisogni delle regioni
meridionali e delle isole», e definire l’ordine del giorno della prevista
adunata partenopea. Nel corso della discussione Rocca si era mostrato
scettico sull’opportunità di considerare la questione meridionale — anche
in relazione alle tematiche riguardanti l’ordinamento del partito — un
problema a se stante, slegato dalla più complessa realtà nazionale, e
aveva espresso il timore che il congresso potesse risolversi in una
contrapposizione artificiosa tra nord e Il Popolo d’Italia A norma dello
statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre,
i Gruppi di Competenza (ripartiti in sette «rami» principali: industria,
commercio, agricoltura, trasporti, amministrazione pubblica, scuola e
difesa) si dividevano in locali, provinciali e nazionali, nominati rispettivamente
dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal Segretariato nazionale. Il
numero dei componenti i singoli gruppi non doveva eccedere i venti
elementi, scelti, secondo il criterio della capacità professionale, in
tutte le classi sociali, e, in ogni caso, iscritti al Partito Fascista.
Compito precipuo di tali gruppi doveva essere quello di offrire un
sostegno tecnico qualificato agli organismi dirigenti del fascismo; e, a tal
fine, di «compiere indagini, raccogliere materiale di studio, emettere pareri,
compilare proposte e relazioni», che servissero «di guida» al partito e
ai sindacati. Ai Direttori fascisti dei capoluoghi di circondario e a
quelli provinciali era fatto obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni
qual volta avessero dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in
parte tecnici», e quando si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze
sociali. In questo caso lo statuto prevedeva che i Gruppi, o parte di
essi, potessero essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte
a comporre i conflitti tra capitale e lavoro. Lo
statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza, con l’annessa relazione, si trova
anche in Rocca, Relazione al Gran Consiglio Fascista sui Gruppi di
Competenza. Relazione introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di
Competenza nella nuova vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata
di Napoli: vigilia della Marcia su Roma, Milano, Imperia, Cfr. «Il Popolo
d’Italia», sud del Paese, o, peggio, in una guerra di frazione o di
campanile tra le diverse regioni del Mezzogiorno. Nell’insieme, si può
dire che il torinese Rocca non manifesta una particolare sensibilità
verso i problemi del meridione. Eppure, nei mesi che seguirono la nomina
di Mussolini a capo del Governo, egli è uno dei dirigenti fascisti maggiormente
presenti al sud. Rocca compe un viaggio di studio in Sicilia per conto
della Direzione del partito, e ne rifere al Gran Consiglio. Sembra peraltro che
nel corso delle sue frequentazioni siciliane egli rimane invischiato in
affari torbidi (connessi alla gestione del consorzio zolfifero), che ne hanno
in qualche misura condizionato il futuro politico. Il punto è oscuro, ma
deve essere richiamato, dal momento che, tra le accuse mosse a Rocca da
Farinacci e dagli altri ras provinciali nel pieno della polemica
revisionista, quelle di corruzione hanno un peso non secondario. Stando a
quanto ammesso dallo stesso Rocca al segretario del Fascio di Londra (dove
Rocca si trova per seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo
italiani e nordamericani), egli ha i primi contatti con i responsabili
del consorzio zolfifero siciliano alla vigilia del congresso di Napoli,
in occasione di un suo comizio palermitano nell’ambito della campagna
fascista per il risanamento finanziario”? Il Governo Mussolini - dichiara
Rocca al suo intervistatore - doveva impegnarsi a fondo per risollevare
le sorti dell’industria zolfifera siciliana, da tempo alle prese con una
grave crisi, anche «attenuando» il proprio intervento «nelle faccende del
Consorzio». Ora, a quanto risulta da un documento conservato nelle
carte di PS (un dattiloscritto anonimo), alla sollecitudine dimostrata da Rocca
verso le sorti dell’industria zolfifera sarebbe in realtà
corrisposta una ricca contropartita. I produttori di zolfo, riuniti in
consorzio, avevano dato vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di
esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore
del settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva
prelevato Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo
d’Italia» Cfr. PNF, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista,
Roma, Editrice Nuova Europa, Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca,
egli avrebbe individuato nella «regolazione delle acque e nel
miglioramento delle vie di comunicazione» la «misura immediata e
necessaria, sebbene non sufficiente» per attenuare i disagi delle
popolazioni meridionali (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura PELIZZI,
La questione degli zolfî e altre cose. Un'intervista con Massimo Rocca,
«Il Popolo d’Italia arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo
assicurazioni del sindacato zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo
di rendiconto. La decisione, chiaramente illegale, aveva incontrato
l’opposizione tanto del Ministro del Lavoro del Governo Facta, quanto del
suo successore nel nuovo esecutivo a guida fascista, il popolare Stefano
Cavazzoni. A questo punto - secondo la medesima fonte -, sarebbe entrato
in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro adeguata “ricompensa”, avrebbe
fatto valere il proprio peso politico, intercedendo con successo a favore
del consorzio zolfifero. Le informazioni contenute nella relazione citata
rispondevano probabilmente al vero, ma non è da escludere, tenuto conto
del momento in cui il documento in questione vide la luce (al termine,
cioè, della seconda “ondata” revisionista), che esse fossero montate ad
arte nel tentativo di screditare Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un
oppositore dichiarato del Governo. AI di là dei proclami ufficiali,
l’assise napoletana servì quale adunata generale in vista della “marcia
su Roma”. Già da tempo, e precisamente dopo la prova di forza offerta
dalle camicie nere in occasione dello sciopero “legalitario” indetto
dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di luglio, molti capi fascisti
meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori del fascismo,
riunitisi a Milano, a pochi giorni dalla conclusione dello sciopero,
avevano discusso a lungo sull’eventualità o meno di un'insurrezione
armata”. Insieme a Grandi, Rocca è il più convinto fautore della via
legalitaria, mentre la linea insurrezionale aveva trovato i suoi
propugnatori soprattutto in Farinacci, Balbo e lo stesso segretario del partito
Bianchi”. Dopo la “marcia Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca].
L’importante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del
Gruppo parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della
Confederazione delle Corporazioni) era stato dominato dalla relazione di
Bianchi sulla situazione politica. Il segretario del PNF aveva
chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di
forza offerta nei giorni dello sciopero “legalitario”, non era più
disposto a tollerare lo sfacelo del Paese e si sarebbe impadronito del
potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due tendenze, la
legalitaria e l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno
alla relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a
mezza via, e i due ordini del giorno votati il 13 agosto (il primo, per
l’istituzione di un comitato militare ristretto; il secondo, firmato
anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della
Camera e l’indizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente
del “duce”. Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale
Fascista, «Il Popolo d’Italia Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano,
Rizzoli, su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini
alla Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa
al potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa
comportava, dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della
rivoluzione e inaugurare quella della ricostruzione, in spirito di
concordia nazionale, e — soprattutto - nell’assoluto rispetto della
legalità. L’esigenza di porre un freno alle intemperanze dello squadrismo
era del resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da molti
fascisti della “prima ora”, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle sue
continue peregrinazioni (egli stesso amava definirsi un “nomade”), dopo
aver retto per qualche tempo la Federazione Sindacale padovana??”,
Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in provincia di Genova, dove aveva
assunto il duplice incarico di segretario politico del Fascio e di
direttore del locale organo fascista” I fascisti di Sestri Ponente si
radunarono in assemblea straordinaria. È in discussione il tema della
violenza, reso scottante a motivo dei reiterati episodi di squadrismo
verificatisi in molte zone del genovese Malusardi, secondo l’impostazione
cara anche a Rocca, a Gioda e ai fascisti più moderati (una forma mentis
di cui abbiamo già rimarcato i limiti intrinseci), rilevò che la violenza
squadrista, utile e legittima fintantoché si manteneva «chirurgica e
cavalleresca», non era giustificabile quando assumeva i caratteri
della prevaricazione. Inoltre, dopo l’ascesa al governo del fascismo, le
camicie nere avevano l’obbligo, insieme morale e politico, di essere
disciplinate. Su questo punto di grande importanza v. altresì CHIURGO,
Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, e NELLO,
Dino 4 Grandi: la formazione di un leader fascista Cfr. ACS, CPC,
Busta [Malusardi]. Malusardi
è chiamato a Padova e vi si è trattenuto, contribuendo, grazie alle sue
capacità di organizzatore e di propagandista, e alla vena popolare del
suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il suo maggior successo
è il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione Agraria,
alla fine di giugno. L'accordo è tendenzialmente favorevole ai lavoratori
(prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, l’imponibile di mano
d’opera e la creazione di commissioni paritetiche per dirimere i
conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai propri convincimenti
sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche
i più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte
dell’associazione padronale, il congresso sindacale provinciale si conclude con un ordine del giorno molto
duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed inesorabile, per far
piegare, innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...]
datori di lavoro» («Il Lavoro d’Italia». Malusardi rimase a Sestri
Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi
Edoardo]. Noi non possiamo più — sostenne Malusardi a proposito
dell’autorità politica I scavalcarla ed esautorarla, bensì la dobbiamo
coadiuvare e vigilare perché applichi inflessibilmente lo imperio della
legge. E conclude: Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio
di ricino, la gradassata inutile, e chiedete invece delle biblioteche e
delle scuole di cultura Aspettative e delusioni
Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza
del Consiglio non attenuò affatto le brutalità fasciste, che anzi
subirono un’impennata, culminando nella strage di Torino.
L'episodio è fin troppo noto e costituisce una delle pagine più fosche
nella storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le
conseguenze che ebbe sulle sorti politiche di Gioda e di Rocca. Accampando
come d’abitudine il pretesto di vendicare l'uccisione di due camerati,
gli squadristi torinesi, capeggiati da Brandimarte, scatenarono una sanguinosa
rappresaglia contro le organizzazioni socialcomuniste. In quella che
Salvemini define una vera orgia di sangue trovano la morte una ventina di
persone, tra le quali l’ex anarchico Berruti, consigliere comunale
comunista e noto L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza.
sn «i pa del dicembre è solo l’apice di una lunga teoria di fatti di
sangue. In un telegramma al Ministro Di Interni, il Prefetto di Torino
mostrava di aver perfettamente compreso la situazione («Articoli comparsi
su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» - O rivelano
chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni
comuniste accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma
violenta ed improvvisa») e chiedeva l’invio di rinforzi. ACS, MINISTERO
DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris., Busta [Fascio di Torino]. : It
i La ricostruzione più accurata di questi drammatici avvenimenti si trova
in FELICE, I fani di Torino in «Studi Storici», SALVEMINI, Scritti
sul fascismo, Milano, Feltrinelli, esponente del Sindacato Ferrovieri. Gioda,
il cui potere effettivo all’interno del Fascio torinese era andato
vieppiù scemando (tanto che, negli ultimi mesi, la sua attività si era
limitata a curare le corrispondenze per «Il Popolo d’Italia»), non ebbe
alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al pari di Rocca, non si
fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi. Vecchi, al
contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti, se ne
attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non
quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che
aveva incaricato una commissione d’inchiesta di far luce
sull’accaduto), «la sua | figura di ras di Torino e del Piemonte»?
Con una mossa a effetto, carica però di significati politici - e non solo
per quanto atteneva agli equilibri interni del fascismo torinese -, Rocca
e Gioda fecero giungere una corona di fiori sul feretro di
Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi - nota Rocca a
distanza - non gli avrebbero mai perdonato quel gesto. Episodi come
quello di Torino contrastavano drammaticamente con la | necessità - posta
in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una | normalizzazione del
fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini Sulla figura di Berruti v.
ANDREUCCI, DETTI, Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata
ordinata a sua completa insaputa. Cfr. FELICE, / fatti di Torino
Popolo» FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82.
% Cfr. GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, «Il
Popolo d’Italia. Gioda scrive di Berruti ch’egli era «indubbiamente un
uomo in buona fede e dotato di qualità intellettuali non comuni. Cfr.
MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura L’inchiesta ordinata da
Mussolini, affidata a Giunta e Gasti, accerta le gravissime responsabilità
degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle indagini, il
Gran Consiglio si limitò a statuire lo scioglimento del Fascio di Torino,
delegando l’incarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi, nominato
fiduciario con pieni poteri, mentre Gorgolini e Gobbi (due dei più
stretti collaboratori di Mario Gioda), autori di un memoriale contro il
quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per esservi riammessi
solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente
compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a Vecchi la
sua indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima
allontanato dal Governo, ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle
pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo la sua nomina a
governatore della Somalia, costretto a lasciare l’Italia. In una vibrante
lettera a Mussolini, poi allegata agli atti dell’inchiesta, In un discorso al Teatro Ambrosiano, il
quadrumviro difese l’operato di | Brandimarte e si assunse la
responsabilità politica e morale della strage. Cfr. «La Gazzetta del
| furono segnati da questa stridente contraddizione, in un
difficilissimo equilibrio tra disordine e legalità, spinte eversive e
propositi riformatori, ricerca del consenso e violenza indiscriminata.
Sebbene funzionale agli interessi del partito, il dibattito sulla legge
elettorale, che monopolizzò la vita politico/parlamentare italiana è UNO
DEI POCHI MOMENTI REALMENTE COSTRUTTIVI DEL FASCISMO. Rocca, già da tempo
schierato per il ritorno al sistema maggioritario”, entrò nella speciale
commissione per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio,
primo passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un
certo MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale,
in «Il Risorgimento. Sulla delicata questione del sistema
elettorale Rocca ha un vivace scambio di vedute con Farinacci, fautore di
un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a Farinacci, Rocca
definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale
vigente (che se non altro aveva avuto il merito di immettere «sangue
nuovo» nell’asfittica vita parlamentare italiana), un’eventuale
reintegrazione del collegio uninominale; una formula dominata «dalle
aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre
con mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il difetto di
acutizzare «Io spirito campanilistico» (La discussione sul sistema uninominale.
Una lettera di Massimo Rocca all'on. Farinacci, «Cremona Nuova). Nella
sua pronta replica, Farinacci obietta che la rivoluzione fascista ha a
tal punto innovato i costumi politici degl’italiani che il ristabilimento
dell’uninominale non puo considerarsi un semplice ritorno al passato. «Se
allora, nel passato — sosteneva Farinacci — sono le clientele che decideno, adesso sarebbero da una
parte il criterio e il giudizio della Federazione provinciale fascista e
dall’altra la conoscenza personale del corpo elettorale e il suo
giudizio, non più formulato in virtù della potenza della clientela, ma in forza
del valore del candidato, facilmente apprezzabile dagli elettori per la
loro educazione fascista». Quanto al problema del campanilismo —
questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la si
consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in merito al
fascismo provinciale -, il ras di Cremona fu ancora più esplicito. «Tu —
rimprovera infatti a Rocca — prescindi dall’efficacia del nostro movimento,
che ha allargato la visione dei singoli i quali sono inclinati, mercé
l’opera nostra, a conciliare l’interesse della provincia con quello della
nazione, subordinando l’uno all’altro» (FARINACCI, // perché del ritorno al
collegio uninominale). a conclusione dei suoi lavori, la
commissione (di cui facevano parte, oltre a Rocca, Michele Bianchi,
Roberto Farinacci, Rossi, Maraviglia, Bastianini e Sansanelli) si pronuncia
ufficialmente per il sistema maggioritario secondo uno schema elaborato da
Bianchi e contro l’uninominale. Rocca, che si trova in Sicilia e non poté
esser presente alla riunione, invia una lettera di piena adesione, di cui da
conto lo stesso Bianchi (cfr. «Il Popolo d’Italia). Il Gran Consiglio accettò
le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21 voti a
favore, contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei
primi dieci anni dell'era fascista), dopodiché il sottosegretario alla
presidenza del consiglio, Giacomo Acerbo, fu incaricato di stendere il
relativo disegno di legge. Questo, sottoposto all’esame preventivo di una
commissione parlamentare interpartitica (la cosiddetta commissione
dei VIT PATTI VENI "TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP
TI periodo, parve che alla riforma elettorale — com'era negli
auspici di Michele Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi
una più ampia azione di rinnovamento istituzionale. Nell’ultima seduta
della sessione di aprile il Gran Consiglio deliberò la creazione di un
Gruppo di Competenza per la riforma costituzionale, affidandone la
presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi all’allarme suscitato negli
ambienti liberali da queste manovre Rocca si affrettò ad «assicurare ogni
patriota in buona fede» che né l’istituto monarchico, né i principi
informatori dello Statuto sarebbero stati messi in discussione”. In
realtà, proprio la diffidenza manifestata dagli altri partiti della
maggioranza e il timore che essa potesse incidere negativamente sul
cammino della legge elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni
velleità riformatrice. Rocca, che finalmente intravede la possibilità di
legare il proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad un’opera
propositiva di riforma, ne resta amareggiato. Questa volta — scrive a
distanza di tempo — la delusione è profonda. Il movimento fascista, che
da quattro anni parla senza tregua di rivoluzione e già ne invocava i
pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non osava intraprendere
la più modesta riforma, meno radicale di quella “corporativa” attuata d’ANNUNZIO
(si veda) a Fiume; una riforma capace di giustificare, dinanzi ai
contemporanei e ai posteri, le gesta passate del fascismo, il dominio
presente, la chiara intenzione di prolungarlo nel futuro, la retorica
sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive intemperanze verbali e
le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva dunque ad
un'etichetta, dal significato puramente negativo, comodo pretesto per
trascurare la legalità | vigente, senza però curarsi di foggiarne un’altra
qualsiasi. Mussolini trascurava diciotto) - che lo approvò -, fu
ratificato dalla Camera il 21 luglio, dopo una lunga discussione.
Su tutti questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista Cfr. PNF, I! Gran
Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista Il Gruppo comprendeva anche:
Bianchi (presidente), Costamagna (segretario), Corradini, Maraviglia,
Casalini, Rossoni, Tamaro, Panunzio, Lolini, Gatti e Vecchio. «Il
Popolo d’Italia», FELICE, Mussolini il fascista Fedele a una visione
tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a presentare uno schema
di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati
«d’ogni categoria e d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei dirigenti e
delle federazioni sindacali, di consigli tecnici dell'economia,
«comprendenti tre classi», a livello locale, provinciale e — nazionale; il
divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al
Senato vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere loro
ogni preoccupazione elettorale ed assicurare il contributo dei migliori
uomini agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di proporre
nuove spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come
il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138). un'occasione unica
di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore, ai
capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti
esteriori La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto
all’accantonamento dei disegni di riforma costituzionale si aggiunse il
concomitante naufragio dei Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale
egli aveva riposto le maggiori speranze. In un’intervista a un quotidiano
romano (riprodotta in parte anche da «Il Popolo d’Italia»), Rocca, pur
ribadendo che i Gruppi di Competenza, «nati da un’idea prettamente
aristocratica», rappresentavano la maggior novità del fascismo, riconobbe
che la loro attuazione dipendeva «dalla volontà del Governo di utilizzarli»?9°.
Dietro questa semplice constatazione si nascondeva l’amara consapevolezza
delle grandi difficoltà fin lì incontrate dai Gruppi all’interno stesso
del fascismo (si tenga presente che, a quasi quattro mesi dall’entrata in
vigore dello statuto/regolamento, i soli due Gruppi realmente funzionanti
erano quello per la pubblica amministrazione e quello per l’educazione,
quest’ultimo, peraltro, in pessimi rapporti con il ministro Gentile) AI
Gran Consiglio del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla situazione
generale dei Gruppi, affermò la necessità di riconoscere loro una «franca
autonomia», sola condizione per garantirne un'effettiva operatività”. Nei
mesi successivi qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio
del 28 luglio, Rocca poté annunciare l'avvenuta costituzione di 178
Gruppi di Competenza provinciali, ottenendo l’assicurazione che gli
organi direttivi del partito avrebbero fatto il possibile per promuoverne
lo sviluppo”. Nonostante le apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza
conducevano un’esistenza stentata, senza un reale collegamento gli uni
con gli altri e con la segreteria nazionale, mal visti e spesso
dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del partito e dalle stesse
corporazioni”! L’insorgere della prima crisi revisionista, conclusasi con
l’insuccesso di Rocca, diede loro il definitivo NicoLA Pascazio, /l Gran
Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola, l'Istituto
delle Assicurazioni. Intervista con Rocca, «Il Giornale d’Italia». A questo
riguardo v. CORDOVA, op. cit., pp. 166-167. 258 PIF, /l Gran
Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista V. altresì / gruppi di
competenza e la riforma della scuola nella relazione di Rocca al Gran
Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia. Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi
dieci anni dell'era fascista E? estremamente significativo, ad esempio, che il
primo consiglio nazionale delle Corporazioni, riunitosi a Roma il 30
giugno 1923, non avesse minimamente affrontato il tema dei Gruppi di
Competenza. Cfr. CORDOVA, op. cit., p. 164. colpo di grazia”.
Complessivamente, quindi, il primo anno di vita del governo Mussolini non
rispose alle aspettative, personali e politiche, di Massimo Rocca e non
v’è dubbio che fu proprio la disillusione a indurre l'ex anarchico alla
sua ultima battaglia polemica. Fatale alle aspirazioni rinnovatrici
di Rocca, mentre Mario Gioda tornava faticosamente alla vita politica (il
Fascio di Torino, sciolto in conseguenza dei fatti del dicembre, fu
ricostituito), il biennio vide la consacrazione di Malusardi come
dirigente sindacale; e tuttavia — non sembri un paradosso -, proprio nel
1924 la carriera dell’ex stuccatore rischiò di spezzarsi per sempre. AI
pari dei suoi vecchi compagni sebbene su un piano diverso -, anche
Malusardi si trovò a dover fare i conti con la trasformazione del
fascismo in regime. Malusardi lasciò Sestri Ponente, per dirigere
la Federazione sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli seppe conferire
all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina maggiore stabilità ed
efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu
nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da
poco costituita”, Quali fossero gli orientamenti generali del
fascismo in materia sindacale e quanto essi si discostassero dalla
concezione operaista di Malusardi, alimentata dai miti corridoniano e
dannunziano, lo mostrò chiaramente il cosiddetto patto di Palazzo Chigi,
stipulato tra la Confederazione delle Corporazioni e la Confindustria, un
accordo che segnò «il fallimento, almeno nell’industria e in quel
momento, dell’ipotesi di In seguito alla sua sospensione per tre mesi da
ogni attività di partito, Rocca lascia la segreteria dei Gruppi di Competenza
al suo vice Costamagna, che la assunse a titolo definitivo. Nel
frattempo, il Gran Consiglio daveva disposto la trasformazione dei Gruppi in
Consigli Tecnici nazionali, organismi ancor più evanescenti, dei quali
ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.AQUARONE al Teatro Scribe, ha luogo
l'assemblea del Fascio per l’elezione del nuovo Direttorio. Questo,
radunatosi quattro giorni dopo, riconfermò segretario politico Mario
Gioda. Cfr. «Il Maglio», 2 giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia. Cfr. MALUSARDI,
Elementi di storia del sindacalismo fascista, E A n past p In base
alla relazione presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle
Corporazioni, le corporazioni operanti nella provincia di Firenze sei
mesi dopo il suo arrivo a Firenze – erano XIV (I agricoltura, II commercio,
III industria, IV impiego, V professioni intellettuali, VI scuola, VII sanità,
VIII dipendenti monopoli e aziende statali, IX stampa, X teatro, XI trasporti
e comunicazioni, XII ospitalità nazionale, XIII industrie artistiche, e XIV belle
arti), per un totale di circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia»,
Ctr. sindacalismo integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio della
collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo,
sollevò tensioni e contrasti all’interno del sindacalismo fascista. Si riunì a
Roma il consiglio nazionale delle Corporazioni, nel corso del quale si
manifestarono due tendenze: la prima (più conciliante e che finì per
prevalere) facente capo a PANUNZIO (si veda) e sostenuta dal segretario
generale Rossoni, per il sindacato unico obbligatorio e il riconoscimento
giuridico dei contratti collettivi di lavoro; la seconda, rappresentata
da Bagnasco e Malusardi, a favore dell’azione diretta contro gl’industriali.
Nel clima di confusione seguito al rapimento e all’assassinio di
Matteotti, Malusardi si dimise dalla segreteria dei sindacati fascisti
fiorentini (dove è sostituito da Lusignoli) 2°. È un primo atto di ribellione,
al quale fa seguito la costituzione - con Galbiati (segretario della
Corporazione nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi
- d’un comitato d’azione per rigenerare le Corporazioni, Nell’ordine
del giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la
debolezza, l’incertezza programmatica e l’autoritarismo che
contraddistinguevano l’opera delle Corporazioni fasciste, e s’invoca un
totale revisionismo, nei metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le
Corporazioni proseguiva il documento - dovevano agire «in senso
nettamente sindacalista», avendo presenti gli «interessi effettivi della
classe produttiva», senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici
(«di lotta di classe e di collaborazione aprioristica») e politici, ma
anzi ricercando l'intesa «con le masse e le organizzazioni che si
muovevano sul terreno nazionale». Quanto ai rapporti con il Partito
Fascista, questi dovevano essere fissati «in forma di libera e
consapevole alleanza»? Pochi giorni dopo, PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Su
questi punti v. CORDOVA. PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Per la
cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia»,
e «Il Lavoro d’Italia. Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, «La
Giustizia». Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle
Corporazioni milanesi, «La Voce Repubblicana. AEREI ; i i Dal 13
settembre il Comitato iniziò le pubblicazioni di un proprio settimanale:
«L’Idea Sindacalista». Jai Un sintomatico pronunciamento fra
i dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. («La Voce Repubblicana», che,
da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali
del fascismo, seguì con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una
«diagnosi perfetta» quella contenuta nell’ordine del giorno del Comitato
milanese). Direttorio nazionale delle Corporazioni sanzionò
l’allontanamento «dal movimento sindacale fascista» di Galbiati e Malusardi?”!,
il quale però, all’inizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato,
ottenendo il ritiro del decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale
motivo Malusardi si decise a quella mossa, ma è certo che, così facendo,
egli salvaguardò la propria carriera politica. Pertanto, pur senza mai
rinnegare del tutto le proprie radici anarcosindacaliste (si può dire
infatti che la sua azione nell’ambito del sindacalismo fascista
continuò a vivere di velleità operaiste) ?”?, Malusardi la cui fedeltà al
fascismo non fu comunque mai in discussione - rientrò |
disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre più ai modelli imposti
dal regime. Nell'autunno del 1924, preludio all’avvento di una lunga
dittatura, si concluse quindi — almeno formalmente — la vicenda
“libertaria” di Malusardi: un’uscita di scena meno appariscente di quella
toccata in sorte a Massimo Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente
emblematica. Si riune a Roma il Direttorio nazionale delle
Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu liquidata come l’atto «di
quattro persone che non avevano alcuna autorità e alcun seguito». Cfr.
«Il Popolo d’Italia Hi Provvedimenti del Direttorio delle Corporazioni. Sull’intera
vicenda v. CORDOVA 2a Dimissioni!, «L’Idea Sindacalista Un mese dopo Malusardi
presenzia regolarmente al secondo congresso nazionale delle
Corporazioni (Roma). Cfr. «Il Popolo d’Italia. Esemplare, a questo proposito,
l’esperienza di Malusardi come segretario dell’Unione provinciale dei
sindacati fascisti di Torino, segnata dai continui contrasti con l'Unione
industriale fascista, e la FIAT in particolare (al riguardo v. SAPELLI,
Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino, Milano, Feltrinelli.
Le aspirazioni libertarie di Malusardi trovano un ultimo rifugio
nell’utopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella quale egli ha
— comunque un ruolo defilato e la cui funesta parabola non gli risparmia
dolori e amarezze (uno dei suoi figli, divenuto partigiano, è fatto
prigioniero dai fascisti e condannato a morte, Malusardi si rivolge a
Mussolini, il quale intervenne personalmente affinché al ribelle è risparmiata
la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria particolare
del duce. Nel dopoguerra, nonostante la non più verde età, Malusardi
partecipa attivamente alla vita politica e sindacale nelle file della CISNAL.
Il suo approccio alle questioni del lavoro resta di fatto immutato,
sentimentalmente ancorato alle memorie di Corridoni e Annunzio (a titolo
di esempio si vedano i saggi Corridoni e Socialità di ANNUNZIO (si veda),
pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de «Il Maglio. Muore a
Torino. Sulla figura e l’opera di Edoardo Malusardi, quale rappresentante
dell’ala sinistra del fascismo, v. infine PARLATO, La sinistra fascista. Storia
di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad indicem. L’inizio
della polemica revisionista è giustamente fatto coincidere # L
pubblicazione su «Critica Fascista», dell articolo Rocca Fascismo e paese
. Già da qualche mese, tuttavia, dinanzi al protrarsi delle illegalità
fasciste, i settori più lungimiranti del PNF -e I ambienti ad essi vicini
- avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di un cambio di rotta,
di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento del fascismo
nell’ordine statutario. Intervenendo alla Camera, l’on. Misuri, già
parlamentare fascista, anticipa, di fatto, alcuni dei temi poi sollevati
da Rocca nel suo celebre articolo. In RT Misuri chiede la smobilitazione
delle squadre e | inclusione le ; MVSN nell’esercito regolare; la
cessazione, da parte del segretario si Partito Fascista e dei
responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i affari di
competenza dell’esecutivo e delle prefetture; ! allargamento va base del
Governo a tutte le «sane correnti nazionali». Il discorso kr deputato
perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di breve stagione
del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ché Di furono
altri tipi di dissidentismo) ‘, fenomeno parallelo — e in un certo sen
L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il Giornale
d’Italia», che lo definì «notevole». Lira : Epi ? Alfredo Misuri,
di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn i fasciste,
dovette abbandonai Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f, d a r i
ua ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li 1922 a seguito
di duri contrasti personali con al sa 1 di i P ta nel PNF rientrò per
bre i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr
| lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi
di a. MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un
uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924. i i i
95-122. | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar È ‘, hà
vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni
sgherri fascisti, guidati dall’ufficiale della Milizia Arconovaldo
Bonaccorsi, e malmenato Cs sull’episodio v. Per l'aggressione all’on.
Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i ) Il dissidentismo
conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun pun concreta
nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e Libertà”,
evocante, gi: speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le
riserve espresse dai dissidenti - e da Misuri in particolare — sul
revisionismo e su Massimo Rocca, tra le due “eresie” fasciste correva una
differenza sostanziale. Come già notava acutamente Giacomo Lumbroso nel
1925, mentre i dissidenti non nutrivano grandi speranze circa la capacità
del fascismo di autoriformarsi (tant'è che finirono per distaccarsene quasi
subito), Rocca s’illudeva di far trionfare la propria idea “da dentro” il
partito”; credeva, in altri termini di poter cambiare il fascismo dal suo
interno, nella convinzione - per dirla con le sue parole - che esso
potesse realmente diventare «l’ala marciante e riformatrice del
liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che nei mutevoli
umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e «degli altri
ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo (che avrebbe
fatto della battaglia revisionista un’estenuante e infruttuosa «lotta di
posizione») *, devono essere ricercate le ragioni ultime della sconfitta
di Massimo Rocca. Come detto, l’articolo di Rocca vide la luce su
«Critica Fascista», la nuova rivista di Giuseppe Bottai, che aveva
iniziato le pubblicazioni il 15 giugno nel nome, taluni circoli monarchici
piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti I associazione
prese a pubblicare il settimanale «Campane a stormo» (poi riesumato da
Misuri nell’immediato secondo dopoguerra). n Sul dissidentismo
fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue diverse coloriture e
ramificazioni, v. principalmente LOMBARDI, Per le patrie libertà: la
dissidenza fascista tra mussolinismo e Aventino, Milano, Angeli, ma anche
con più esplicito riferimento all’operato di Misuri e Corgini, ZANI,
L'Apsocio4iali costituzionale “Patria e Libertà, in «Storia
Contemporanea», ‘ondamento delle loro critiche al revisionismo i dissidenti di
“Patria e Libertà” ponevano la considerazione che fosse ormai necessaria
«la liquidazione, non la revisione del fascismo». Pisi «caotici
costruttori di teorie», in quanto convinti di poter salvare qualcosa del
‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per esso (Revisionismo, «Campane), PSR A
E e Cfr. LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, Lumbroso
(già nella fiorentina “Banda dello sgombero”, una delle prime
manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana
dei Fasci Nazi nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi
al fascismo “puro” delle origini. «Fascista di animo e di azione sin
dalla vigilia — scriveva Lumbroso nelle pagine ug se suo da Ta sono
rimasto tale perché non credo che la dottrina e lo spirito del cismo
debbano confondersi collo scempio che ne è stato compi i inetti i f ì iu
indegni. RIA: dae Re) 2a ” Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura. ZANI. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era fatto
interprete di una concezione legalitaria, costituzionale del fascismo.
Sebbene muovendo da premesse culturali e politiche molto diverse, anche
Bottai - come Rocca - riteneva finito il tempo della “rivoluzione” e
chiedeva il rinnovamento del partito, la sostituzione del vecchio ceto
dirigente fascista «con una nuova élite» che fosse in grado di guidare la
ricostruzione del Paese. Un mese e mezzo prima che Rocca aprisse
ufficialmente il fronte revisionista, un altro collaboratore di Bottai,
l’ex sindacalista corridoniano Marsanich, chiara in modo inequivocabile
l’orientamento della rivista. Noi — scrive Marsanich -
diciamo che il nostro partito deve iniziare subito un’opera di revisione,
anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi suoi metodi, che
se furono utili prima, oggi non servono più, se non ad intorbidire le
fonti della nostra forza ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e
forte che proprio uno dei nostri compiti necessari, in quanto l’Italia è
nata dal liberalismo e cresciuta nel parlamentarismo, è quello di
ridonare al Parlamento il suo valore di massimo istituto storico e
politico dell’età nostra, di riconciliare insomma la Nazione col
Parlamento. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la necessità
di smobilitare e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo di
sintesi nazionale, l'eventualità di avvicinarsi a molti, se non a tutti,
i suoi nemici di ieri"! Essendo queste le premesse, era quasi
inevitabile che Rocca, il quale da tempo esorta alla normalizzazione,
trova in Bottai e nella redazione di «Critica Fascista» degli
interlocutori attenti e ben disposti. Ma ? Sul ruolo avuto da Bottai e da
«Critica Fascista» nel dibattito interno al fascismo durante il primo
scorcio degli anni venti (con particolare riferimento al revisionismo) v.
soprattutto MANGONI, L ‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste
del fascismo, Bari, Laterza, GENTILE, GUERRI, Bottai fascista critico,
Milano, Feltrinelli, BOTTAI, Disciplina, «Critica Fascista. Che il fascismo,
compiuta la sua “rivoluzione” e conquistate le leve del potere, dovesse
por mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un
programma propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti
più “politici”. Lo stesso Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata
sul secondo numero di «Critica Fascista» (e riprodotta anche da «Il
Popolo d’Italia» del 30 giugno), aveva scritto: «Caro Bottai, prima
ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi
appare come un gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del
nostro movimento. Il quale, raggiunto il suo secondo tempo costruttivo,
deve affinare le sue capacità di controllo e di critica». !!
Augusto DE MARSANICH, Revisione Su MARSANICH (si veda), figura di rilievo del
regime mussoliniano e quindi, nel secondo dopoguerra, uno dei
protagonisti del movimento neo-fascista, v. Dizionario biografico degl’italiani.
cosa scrive Rocca che desta tanto clamore? La “rivoluzione” fascista —
questo in sintesi il suo pensiero aveva avuto il merito di strappare l’Italia
al baratro del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion d’essere
soltanto se finalizzata al bene della Nazione, di “tutta” la Nazione, e
non alla propria autoconservazione. Il fascismo - spiega Rocca – dove servire
il Paese e non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali,
interessati solo a perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi
responsabili del perdurare dell’illegalità e del clima di tensione, da
guerra civile permanente, che ancora dominava in certe regioni"’.
Ora, nella battaglia intrapresa per la sprovincializzazione” del
fascismo, Rocca era convinto di trovare in Mussolini un alleato naturale,
ma quest’opinione, se non mancava di riferimenti nella realtà, non teneva
nel dovuto conto la spregiudicatezza tipica del modus operandi del
“duce”, ed era perciò, in definitiva, frutto di una valutazione
decisamente ottimistica. Scorrendo l’articolo di Rocca si ha I
impressione che l’autore tendesse a sopravvalutare certe prese di posizione
di Mussolini é che, più o meno inconsapevolmente, finisse per attribuire
al duce” la propria personale visione del fascismo. I segni più evidenti
della volontà conciliatrice del Presidente del Consiglio -
scriveva Rocca - erano stati: la promessa, lanciata nel
primo discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del Paese tutti
gli elementi di valore, persino se provenissero dall’estrema
sinistra: l’appoggio dato alle Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle
di fatto, se non di diritto, sebbene ospitassero nel loro seno vaste
masse di non tesserati; I incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a
completare e correggere l’opera sindacalista compiuta nei ceti proletari;
la costituzione di un governo non esclusivamente fascista; l'immissione di ufficiali dell’esercito nei
quadri della Milizia, per maturarne la futura fusione con l’esercito
medesimo; il rifiuto ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle
pretese d’impiegati e di favori da parte di troppi procaccianti in veste
fascista, specie dell’ultima pes; Se pensiamo alla sorte
ingloriosa che, complice proprio la caduta in disgrazia del loro mentore,
sarebbe spettata di lì a poco ai Gruppi di Competenza; all’effettivo
strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e proprio esercito di
profittatori, d’intriganti e d’incapaci che affollava l’entourage di
Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della Cfr.
MassIMo Rocca, Fascismo e paese, «Critica Fascista. L’articolo, con altri due
dello stesso periodo, si trova ri ilti i STE, con, prodotto — sotto il
titolo // l'Italia - anche in Idee sul fascismo. pan sua sfiducia
negli uomini, trovò sempre inutile opporsi), abbiamo la misura di quanto
Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene accolto da «Il
Popolo d’Italia», che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e nel
complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il
giornale diretto dal fratello del “duce”, Arnaldo, ne incoraggiò
apertamente le fatiche. Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai
esporsi in prima persona, dette una mano alla campagna revisionista, ma
la ragione di questo suo favore non derivava tanto, come crede Rocca, da
un’intima convinzione ideale, bensì - come ha ben sottolineato Felice (e
com'era, d’altronde, nel carattere del duce) - da considerazioni di
opportunità politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti,
è quello di una graduale apertura verso le forze costituzionali
(liberali, cattolici, ma anche socialisti riformisti), che consentisse un
ampliamento — e dunque un consolidamento — della sua maggioranza. A
questo progetto si opponevano scopertamente gli intransigenti alla
Farinacci, ed ecco, perciò, che l’esistenza di una corrente revisionista,
moderata, all’interno del fascismo, poteva servire a un duplice scopo: a
rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica sulle “buone
intenzioni” del governo e a tenere a freno i ras, in vista di un
possibile compromesso! Fu quindi grazie a Mussolini che il
dibattito inaugurato da Rocca sulle pagine di «Critica Fascista» poté
uscire «dall’ambito piuttosto limitato» della rivista di Bottai per
diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi di stampa, «un fatto
politico di portata nazionale»'”. Per rimanere all’ambito strettamente
fascista, i giornali che più degli altri si fecero carico di assecondare
i disegni dei revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di
Filippelli, «L'Impero» di Carli e Settimelli, e, inizialmente in misura
più sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si trattava di fogli dalla
linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più conta - legati
a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno Su
questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana v. RENZO DE
FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. FROMBOLIERE, Un monito fascista:
basta con gli pseudo-Mussolini!, «Il Popolo d’Italia Cfr. Renzo DE
FELICE, Mussolini il fascista. «Il Corriere Italiano» era sorto grazie a
finanziamenti di origine imprecisata ed era, a ragione, considerato
l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti ispiratori due uomini
molto vicini a Mussolini: Finzi, sottosegretario al Ministero degli
Interni, e Rossi, capo dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran
Consiglio del fascismo. «L'Impero» aveva anch'esso iniziato le
pubblicazioni e si distingueva per l'accento smaccatamente reazionario,
spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi dette a Rocca
l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico più vasto, è
altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giovò affatto
alla serietà della campagna revisionista, e che anzi, l’essersi trovato
Rocca anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche,
offrì a suoi avversari il destro per muovergli accuse, più o meno
esplicite e motivate, di corruzione. Rocca — rileva al riguardo
Lumbroso puo ridersi di certe accuse poiché la sua probità privata era
inattaccabile; ma sta di fatto che i giornali di cui egli si serviva e
anche taluni degli uomini che lo incoraggiavano nella sua campagna non
erano certo i più indicati a parlare di epurazione del Partito; ed è
innegabile che certo fascismo provinciale, illegalista, dispotico e violento,
in del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista,
oltre che nei vincoli strettissimi con Filippelli e il suo giornale
(«L’Impero» apparteneva alla stessa cordata economico/finanziaria
editrice de «Il Corriere Italiano», la società “La vita d’Italia”, di cui
Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro
esasperato “mussolinismo”, nell’ammirazione, certo non disinteressata, per
il “duce”, verso il quale i due | reduci del futurismo, un tempo
cantori dell’anticonformismo e dell’individualismo anarchico, tenevano un
atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che più di una volta mise
in imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dell’incostanza e
dell’opportunismo che caratterizzava la redazione de «L’Impero» si
ricordi che, nel corso della crisi Matteotti, il giornale, già
revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere il “giro di vite” e
la soppressione violenta delle opposizioni; e che, a conclusione di
quella dolorosa vicenda, Carli pubblica un saggio, con la prefazione di
Farinacci, (Fascismo intransigente. Contributo alla fondazione di un
regime, Firenze, Bemporad), che è tutto un panegirico del ras di Cremona
e dei suoi epigoni. Il Nuovo Paese» apre i battenti su iniziativa di
Bazzi. Questi, che ècompagno di Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed
apparteneva a quelle frange del movimento repubblicano che, in polemica
con l’orientamento antifascista prevals o in seno al partito d’origine,
se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici
del fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore di una Unione
Mazziniana Nazionale). Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi
giri d’affari, essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico
che subito dopo la marcia su Roma si annida ai margini del fascismo al governo»;
una lobby multiforme «che aveva tutto l’interesse che il fascismo
rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una normalizzazione
che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal giornale
di Bazzi alla causa del revisionismo FELICE, Mussolini il fascista.
Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere Italiano» si veda CANALI, Cesare Rossi:
da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino. Il
medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico
sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo
e politica nel primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino. Su Bazzi
in particolare v.SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione
dei residuati bellici, Storia Contemporanea.Infine, a proposito de
«L’Impero», v. SCARANTINO. complesso si era mantenuto puro dalla piaga
dell’affarismo, e non vi ha dubbio che ci erano dei ras, tipo Farinacci,
persuasi in buona fede di giovare alla causa del fascismo e dell’Italia,
dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed
incontrollabili e riducendo a zero l’autorità dei funzionari
governativi"? Il giorno dopo la comparsa dell’articolo di
Rocca su «Critica Fascista», «Il Corriere Italiano» prese di petto la
questione e, in un fondo che avrebbe sollevato l’indignazione di
Farinacci, si scagliò senza mezzi termini contro «l’arbitrio capriccioso
e tirannico» dei capi provinciali, arrivando a prospettare, neanche
troppo velatamente, la possibilità di uno scioglimento del PNF, il quale,
vivendo ormai di rendita alle spalle di Mussolini, costituiva «l’inciampo
più grave» all’azione del Governo”. L’ipotesi insinuata dal quotidiano di
Filippelli destò, com’era prevedibile, un nugolo di polemiche.
«L'Impero», per tramite dei suoi condirettori, affermò che il «feticismo
ostinato» nei confronti del partito non aveva più alcuna giustificazione
e che, essendosi chiuso il «periodo eroico» della “rivoluzione” fascista
ed essendo stati «lo spirito e la mentalità» del fascismo «gradualmente
ma rapidamente assorbiti dall’intera Nazione», non vi era più ragione di
conservare in vita il partito. Nel frattempo, Rocca non perde occasione per
riaffermare il proprio punto di vista. Personalmente contrario, almeno
nel breve periodo, allo scioglimento del PNF, il leader revisionista
prosegue imperterrito lungo la via intrapresa. I problemi più gravi del
fascismo - insiste Rocca - consisteno nell’equivoco perdurante tra
partito e governo, vale a dire nell’identificazione del primo col i
secondo; nell’irresponsabilità e nella prepotenza dei fiduciari
provinciali; nella LUMBRO50 Cfr. Governo e fascismo, «Il Corriere
Italiano». SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero»Così, ad
esempio, a Torino, in sede d’inaugurazione dei nuovi locali dei Gruppi di
Competenza. Nel suo discorso, che riceve il plauso dGioda, Rocca non
tralascia di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le
proprie critiche agl’intransigenti (cfr. Il discorso di Rocca sulle funzioni
dei Gruppi di Competenza, «Il Piemonte»). In una lettera pubblicata da
«L'Impero» (Partito e Governo fascista), Rocca scrive non essere ancora
giunto il momento in cui l’Italia, pienamente e consapevolmente fascista,
si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non esclude che,
in un futuro più o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei
Gruppi di Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo gli
strumenti necessati di questa trasformazione. Il giorno seguente Rocca
ribade i medesimi concetti in un’intervista a «Il Corriere
Italiano», parodia d’una disciplina formale senza norme né garanzia;
nel predominio degl’organi esclusivamente politici di partito su tutto
ciò che pur rientrando nella vita corrente del fascismo, non è
strettamente ulivo (ad esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa
ragione, il partito ostacolava in ogni modo. Tutto ciò - secondo Rocca -
conduce ad una vera forma di nuovo bolscevismo, DISSOLVITRICE DELLO STATO
E DELL’ITALIA, cui si dove assolutamente porre rimedio. Contro la campagna
revisionista, che raccolge i favori dell’opinione pubblica moderata
variamente filo-fascista, insorsero invece gl’intransigenti. Nell’ambito
di una riunione del Consiglio Provinciale di Cremona, Farinacci difende
il principio dell’intransigenza, si disse contrario all'inserimento della
milizia nell’esercito regolare e minacciò una «seconda ondata»
rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori «senza fede» che si
servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici, Più avanti, in un
editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replicò seccamente alle
accuse dei revisionisti. Non era affatto vero scrisse - che Mussolini non
dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario.
costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito
in modo schiacciante al trionfo. Se si distrugge il fascismo delle provincie
— si domanda Farinacci — che cosa resterebbe del fascismo? Io non ho
l’acume di Massimo Rocca, ma come caffoncello” di Provincia mi permetto
di fare uno sforzo mentale pari a quello
di he pero della terza elementare calcolando che Provincia più Provincia
fa ‘azione!” ROCCA, Partito e Governo fascista, cit. Tra gli
organi “indipendenti” che offrirono spazio e considerazione alla campagna
revisionista, oltre a «Il Giornale d’Italia», tradizionalmente vicino alla
destra liberale, si segnalarono soprattutto «La Tribuna», l’autorevole
quotidiano romano diretto da Olindo Malagodi, «Il Corriere d’Italia»,
organo ufficioso della destra cattolica ex popolare, e «L’Epoca», un
giornale d’ispirazione combattentistica. Proprio «L’Epoca» pubblicò
un’intervista di Montalto a Rocca (Il momento attuale e il fascismo),
dando modo all’ex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un
pubblico non strettamente fascista. di Un forte discorso dell'on.
Farinacci, «Cremona Nuova» FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia. Il
giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del
bolognese Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure più note
del fascismo emiliano/romagnolo (su di lui v. NELLO, Grandi: la
formazione di un leader fascista, cit, ad indicem). L’articolo
(intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in contemporanea anche da «La
Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese «L’ Assalto») era una
difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo “spurio”,
interessato e Il ragionamento di Farinacci, nella sua schematicità, non
mancava di logica e di veridicità e coglieva un aspetto essenziale del
problema, andando al cuore delle contraddizioni della politica
revisionista. Il fascismo delle provincie, caotico, brutale e intimamente
sovversivo, costituiva davvero, assai più del fascismo “addomesticato”,
costituzionale e legalitario di Roma e di Milano, l’anima del movimento”.
Mussolini ne era ben consapevole, tant'è vero ch’egli non pensava
affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una liquidazione in tronco del
“rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno ridimensionamento, che lo
svuotasse dei contenuti più radicali e più difficilmente gestibili; alla
qual cosa, come già si è detto, la propaganda senza anima, propagandato
dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben più sbrigative e
violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo
trevigiano, per mano del suo direttore, lasciò intendere che Rocca
avrebbe meritato lo stesso trattamento riservato a Misuri, in quanto il
suo l’articolo su «Critica Fascista» era degno «di far pari col
famigerato discorso» dell’ex deputato fascista (PEDRAZZA, Polemica
fascista. Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera. A Piacenza, IL
CONTE BARBIELLINI (si veda) punta l’indice contro le trame affaristiche
sottostanti alla campagna revisionista. Per quali anonimi lestofanti —
tuona il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di torbidi nel
fascismo? Vi secca la attività fascista di provincia? Vi secca che dai
ras provinciali si siano mandati all’aria diversi grossi affari che
gruppi capitalisti avevano qui realizzato ai danni dell’Erario Nazionale?
(BARBIELLINI, Perché non molliamo, La Scure). Circa le radici e le
ragioni culturali e politiche dell’estremismo provinciale fascista — con
particolare riguardo a Farinacci — v. GENTILE. E” interessante, a questo
riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura
antifascista, Gobetti, secondo il quale non già i revisionisti ma Farinacci e
gli altri ras del suo stampo erano gli autentici e più genuini
rappresentanti del fascismo. In due articoli non certo teneri nei
confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrive di
preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso di dignità» e di
spirito di sacrificio, al politicantismo senza pudore e al «trasformismo,
senza decoro e senza intransigenza» dei vari Rocca, Bottai e Grandi,
«professionisti della politica» il cui revisionismo era nato in mezzo
alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A parte gli
aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la
predilezione, tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale
dell’intransigenza), l’intellettuale torinese coglieva nel segno allorché
metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e culturale in
senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce
di sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive,
aspirazioni palingenetiche, e godeva di un seguito che mancava invece
completamente alle fredde teorie dei revisionisti. Dietro ai vari ras di
provincia - notava lucidamente GOBETTI (si veda) - vi erano «centomila giovani,
che al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il
problema della propria disoccupazione, ma vi avevano portato la loro
disperata aberrazione, la repugnanza per i compromessi e gli opportunismi»
(la prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, La Rivoluzione
Liberale; le restanti da Secondo elogio di Farinacci. Anche in GOBETTI, Scritti
politici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi. revisionista (anche
attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia di
scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio. Queste
considerazioni parevano sfuggire a Rocca, il quale, vittima forse anche
della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo arco più
frecce di quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla
reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,
perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui
stesso suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse. Non ci si è
ancora accorti, evidentemente — scrisse in un nuovo articolo per «Critica
Fascista» — che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia più salda
che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare
e ingrandire un’Italia unitaria, ove la forza armata, anche solo di
manganello, dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno
solo il governo che fa le leggi e le applica attraverso i prefetti, dando
a questi ultimi il diritto di mettere in galera anche i più autorevoli
fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si adattano ad essere
cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene,
facciano essi i prefetti, e pongano nella legalità il loro dominio personale
e continuino pure l’opera meritoria compiuta nel fascismo. Ma quest’opera
è indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito
non riguardano; ma per continuare tale funzione non è necessario
instaurare repubbliche dittatoriali o vicereami con feudi annessi o
diarchie lillipuziane. Non basta federare degli staterelli autonomi, ove
l’augusto signore sentenzia “qui comando io” e fabbrica una legge
speciale per lui, senza controllo; non basta federarli platonicamente
sotto l’egida di Mussolini, sopporta col platonico omaggio di un alalà.
Bisogna disfarli.Tutto ciò per la fronda fascista, nuova specie di
sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo
e ingombrante oggigiorno. Tutto ciò per la Fronda insorta personalmente
contro una mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi
vassalli un modestissimo, ma convinto pensiero individuale, che non
riconosce altro ordine se non quello del Duce, né altra legge se non
quella raccolta nel codice e applicabile dal procuratore del Re [...]. Ma
la Fronda si piegherà?” La “fronda” non si piegò. A distanza di
soli tre giorni dalla pubblicazione di questo articolo, la Giunta
Esecutiva del PNF - istigata da Farinacci - decretò l’espulsione di Rocca
dal partito «per grave Rocca, Diciotto brumaio, «Critica Fascista» (anche
in ID., Idee sul fascismo). Questo saggio di Rocca è preceduto da una
significativa postilla della redazione. Siamo perfettamente solidali con
l’autore — vi si legge - e con gli scopi altissimi della sua battaglia,
che è anche la nostra battaglia. VIPATTTTRA VENTO ile
A indisciplina e indegnità politica. MUSSOLINI RICEVE ROCCA in
qualità di vicepresidente dell’istituto nazionale dell’assicurazioni,
ufficialmente per trattare di questioni riguardanti l'ente ma in realtà per
aver modo di esprimergli la propria solidarietà. La sortita del duce, da
cui egli si aspettava le dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva, ebbe
invece come effetto di provocare quelle della Segreteria Generale (cioè
di una parte soltanto della Giunta), il che — rilevava prontamente «Il
Popolo d’Italia» - «non risolveva affatto la questione». Era in atto,
come ben notava «Il Giornale d’Italia», un vero e proprio regolamento di
conti. Ora si domanda il quotidiano romano è per le espressioni crude ed
aspre adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la
espulsione è dn stabilita? Se è vero che il “Cremona Nuova” di Farinacci
sarebbe dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso del
partito, sarebbe da dedurre che le lamentate tendenze, diremmo così,
provinciali, localistiche avrebbero prevalso?” E prosegue: La lotta
è precisamente tra i “revisionisti” tipo Rocca e gli ioni ono Farinacci,
tra i politici e i “selvaggi”, tra i “romani” e i “provinciali IRPROI Crisi
i coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta di due
opposti elementi: quelli che vogliono avvicinare il fascismo all’anima,
del Paese e quelli che vogliono mantenerne la formazione chiusa e intransigente La
Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la necessità della
manetta compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno del
Governo, «Il Popolo d’Italia. tif, side Hib: La Giunta Esecutiva del PNF,
istituita in luogo della disciolta Direzione, sa composta da: Farinacci,
Lantini, Bianchi, Marinelli, Sansanelli, Teruzzi, Bolzon, Bastianini,
Maraviglia, Caprino, Dudan, Zimolo e Starace. La decisione contro
Rocca è presa all’unanimità. i i 31 Rocca ricopre la carica di
vicepresidente dell’INA. Cfr. Ibidem. TSI VII j; La Segreteria Generale
era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli, Teruzzi,
Starace e Bolzon. bri Bata La Giunta esecutiva del PNF espelle Rocca il
revisionista. Mussolini intende che tale decisione è ri-esaminata. La
Segreteria Generale del partito presenta le dimissioni al duce, «Il
Giornale d’Italia gii vl Nell’insieme, l’espulsione di Rocca solleva
un’ondata di sdegno Si scrive di procedimento sommario, di decisione
grottesca che ha il sapore della rappresaglia, mentre anche il consiglio bazionale
dei gruppi di competenza fa sentire la sua voce, votando un ordine del
giorno di pieno sostegno al proprio segretario. A Torino, Gioda, che
fin dall’esordio della polemica revisionista aveva preso le parti di
Rocca” si dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidarietà con
il suo vecchio compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei
passati contrasti tra Gioda e De Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli
intransigenti) e delle mai sopite tensioni in seno al fascismo
torinese, si colorava di un forte significato politico. Non
è la prima volta riconosce a questo proposito l’organo mussoliniano che,
durante clamorose polemiche, Gioda si schiera apertamente per la corrente
temperata del Partito Nazionale Fascista, ed è ancora ricordato a Torino
l’omaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo Rocca, tributò al comunista
Berruti, consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso
dicembre‘' Qualche giorno dopo, nel dare l’annuncio delle proprie
dimissioni anche dalla direzione de «Il Maglio», Gioda fu al proposito
più che esplicito, con parole che non lasciavano spazio a fraintendimenti. Li
«L’Epoca L'Impero Cfr. «Il Giornale d’Italia. In un fondo per il nuovo
quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon senso), Gioda define i saggi
revisionisti di Rocca un meraviglioso, poderosissimo quanto ardito e
coraggioso studio sul fascismo. In un articolo di poco successivo, il
segretario del Fascio torinese chiarì il proprio punto di vista, perfettamente
in linea con gli assunti dei revisionisti. «I fasci scrive tra l’altro
Gioda non sono sorti per
soddisfare le ambizioni militari o politiche di TIZIO, CAIO, O SEMPRONIO, ma
per l’Italia, unicamente per la salvezza e le fortune d’Italia (GIODA,
Corfù, Roma e il Fascismo, Il Maglio). Cfr. «Il Popolo d’Italia Gioda
riassume la carica di segretario del fascio e la direzione de «Il Maglio»
da pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche mese a seguito
del riacutizzarsi della sua grave malattia. Il posto di Gioda, dopo le
sue dimissioni, è rilevato da Bardanzellu, già presidente della sezione
torinese dell’ Associazione Nazionale Combattenti. Insieme a Gioda si
dimise anche il segretario federale Pino Mongini, un suo fedelissimo, ufficialmente
«per ragioni di carattere famigliare» («Il Maglio»). Mongini è sostituito
dal milanese Rossi. Il Popolo d’Italia. Le polemiche de’ passati giorni —
scrisse - mi hanno trovato pienamente, apertamente, risolutamente
favorevole alla corrente cosiddetta revisionista capeggiata da quella
catapulta cerebrale di grande anarchico che è Rocca. Mi sono dimesso dalle
cariche [...] perché mi parve inconcepibile che si potesse appartenere
ancora un minuto ad un partito ridotto a defenestrare i suoi uomini più
formidabili [...], mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta
gramigna Mussolini convoca Bianchi a Palazzo Venezia. Questa volta Il
duce richiede espressamente le dimissioni della giunta esecutiva, decide
il rinvio del convegno dei Fiduciari provinciali e decreta la prossima
convocazione del Gran Consiglio del fascismo. Di fronte alla precisa
intimazione di Mussolini, ai membri della Giunta non restò altro da fare
che obbedire. Rocca, dal canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa
(così almeno rivelava «Il Giornale d’Italia) dal provvedimento
disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito passato al
contrattacco, dichiarando in un’intervista che la Giunta, essendo parte
in causa, non aveva diritto alcuno di decidere della sua espulsione e
che, in ogni caso, egli non sarebbe indietreggiato di un millimetro. A
primi di ottobre Rocca si ritirò nella sua Torino" e lì, accanto
alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e ai familiari, attese la
pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese l’ex anarchico
inviò a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente retorici,
col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e in
ossequio alla grandezza d’Italia. MagriO Giona, Commiato, «Il Maglio. L'articolo
di Gioda usce accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente
di Colisi Rossi, che definiva “inopportune” e ”intempestive” le parole
del direttore uscente. Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre
1923. In un editoriale (/ncoscienza?) «Il Popolo d’Italia» plaudì
alla richiesta di dimissioni avanzata da Mussolini alla giunta esecutiva.
Quest'ultima - secondo l’organo milanese - manca di rispetto al duce, il
quale, oltre a non esser stato messo al corrente del proposito di mettere
fuori gioco Rocca, è allora interamente assorbito d’impellenti questioni
d’ordine internazionale e non dove essere trascinato in polemiche
artificiose. «Egli — scrive il giornale diretto da Mussolini (A) — ha altro da
fare. I capi fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo. Se i
fascisti locali non intendono ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo
e sono indegni di appartenervi. La giunta esecutiva si dimise infatti. Cfr. «Il
Popolo d’Italia». «L’Epoca», Cfr. «Il Piemonte», Cfr. ACS, CPC, Busta 4362
[Rocca]. AI cospetto di un fatto così grandioso — scrive -, noi, uomini
che alla nuova creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo
sentire la nostra pochezza individuale al confronto con la creatura che
non è soltanto nostra e ci sovrasta nello spazio e nel tempo; dobbiamo
comprendere che nulla sarebbe più folle, più sterile del voler
monopolizzare l’Italia nuova per noi. Dobbiamo sentire che anche il
Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del fenomeno
storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza
del ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia e le
serve di ase Nelle intenzioni dell’autore queste parole avrebbero
dovuto «placare ogni dissenso personale». In realtà, trascinato dal suo
temperamento, Rocca si era ormai invischiato in una fitta ragnatela di
polemiche. Tipica, in questo senso, la controversia che lo oppose in quei
giorni a LANTINI (si veda), uno dei maggiori esponenti del fascismo
ligure. Sulle colonne del suo giornale Lantini — ch’era membro della
Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato Rocca, definendo la campagna
revisionista «denigratrice, svalorizzatrice ed offensiva, e denunciandone
la «ben meschina» origine, «di carattere prematuramente e comicamente
elettorale». In una lettera di poco successiva, Rocca replica al suo
detrattore con una serie di accuse minuziose, in particolare
rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia fascista» nei giorni
infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi ROCCA, L ‘intangibile
grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche in ID. Idee sul
fascismo). f L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi
anche da «Il Piemonte» (10 ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre). di
ID., /dee sul fascismo, LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova. AI
breve editoriale di Lantini fa seguito una chiosa di Pala, il fiduciario
provinciale per la Liguria (nonché condirettore del giornale), che si
professa completamente solidale con l’autore. Fin dal suo apparire Il
Giornale di Genova suscita sospetti circa i suoi finanziamenti. In
polemica con «Il Messaggero», che in un articolo svela i legami esistenti
tra il nuovo quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala
smente [cf. GRICE DISIMPLICATURA] seccamente, dichiarando che la
proprietà del giornale appartene alla società anonima Compagnia Editrice,
di cui egli è presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia»). A Genova,
tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero legalitario”
aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle
agitazioni, il Fascio genovese da corpo a un comitato d'azione, del quale
fanno parte, tra gli altri, Lantini, gli onorevoli Torre e Stefani, e Rocca, il
cui nome è però del tutto assente dalle dettagliatissime cronache de «Il
Popolo d’Italia», la qual cosa fa pensare ad un coinvolgimento minimo del
futuro isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS servirsene,
accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere Consigliere
Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascina a lungo, in un intreccio
di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello (peraltro
sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno d’incrociare le armi) *, a
tutto scapito della credibilità complessiva della campagna revisionista.
Come previsto, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al termine di una
lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava l’espulsione di
Rocca in una ben più blanda sospensione di tre leader revisionista nei
disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i
fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale
della violenta offensiva fascista è stato il Consorzio autonomo
portuario, cuore del potere socialista a Genova, che riuniva le
cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del porto. Dopo
che i capi fascisti lanciano un manifesto contro la camorra portuaria dei
vigliacchissimi socialisti («Il Popolo d’Italia), le camicie nere genovesi, con
il concorso di squadre giunte da Carrara, da Alessandria e da Torino,
assaltano Palazzo San Giorgio, sede del consorzio (nell’attacco, che fa
numerose vittime, rimane ucciso lo squadrista carrarese Martini, poi entrato
trionfalmente nel martirologio fascista. Il senatore Ronco, presidente
del Consorzio autonomo, è stato costretto a firmare una dichiarazione
capestro, con la quale si impegna a revocare le concessioni di lavoro
alle cooperative socialiste. Per la versione di parte fascista, v. La
cronaca delle giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia. Su questi avvenimenti v.
altresì REPACI. La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima
lettera di Massimo Rocca a Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX (anche in
«Il Giornale d’Italia»). «Il Secolo XIX» segue con partecipazione le
polemiche tra revisionisti e intransigenti, mostrando di parteggiare
chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risente dell’avvenuta
pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non destinata alla
pubblicità» - e ne chiese “soddisfazione” al direttore del quotidiano
genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza cavalleresca, «Il Secolo XIX». A
un certo punto, come riferiva il 6 ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda
assunse i contorni di un vero e proprio «torneo». Si aggiunga che
anche il dissidio tra Rocca e Lantini cela un più vasto conflitto
d’interessi (di cui la vicenda dei finanziamenti a «Il Giornale di Genova»
costituiva un risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari
che si contendevano il controllo di Genova: da una parte il trust formato
dall’Ansaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di Sconto (allora in via
di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente
capo a Mastromattei, amico di Rocca; dall’altra la potente azienda
armatoriale Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva
l’appoggio di Lantini e dei suoi (su questi punti v. LYTTELTON, La
conquista del potere. Il fascismo, Bari, Laterza). Tale contrapposizione
travagliò a lungo il fascismo genovese, ‘dando luogo a laceranti lotte
intestine. Il primo atto della crisi fu il pestaggio, ad opera di alcuni
squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, Loiacono, di cui
erano note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia), +55 de i
fee . mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si
risolveva in un accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia»
allorché scriveva che: Senza esaminare il merito delle polemiche da
questi Rocca sollevate, è certo che tra la prima condanna all’espulsione
per indegnità politica e la sospensione per tre mesi inflittagli ieri
sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere all’intervento di un
compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili contingenze
che essa impone, i compromessi diventano non di rado inevitabili
Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e proprio riordinamento del
partito, nonché la nomina di Cesare Maria De Vecchi a governatore della
Somalia. L’allontanamento del futuro conte di Val Cismon dall’Italia (un
provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di doversi misurare con le
irrequietezze del quadrunviro), fu una grande vittoria di Mario Gioda, il
quale - come si è visto - aveva avuto il coraggio di esporsi personalmente
nel dibattito sul revisionismo e poteva ora, mercé la messa in disparte
del suo rivale, aspirare a recuperare credito all’interno del fascismo
subalpino. Ai primi di dicembre, con la rielezione a segretario politico
del Fascio di Torino”, ebbe inizio l’ultima fase della sua vicenda
politica. In un'intervista di quel periodo, Gioda espose il suo
progetto per la “normalizzazione”. Occorre — dichiara - puntare sullo
sviluppo dei sindacati e delle cooperative, in modo da allargare la base
effettiva del fascismo e porre le condizioni per una piena collaborazione
con le altre forze sociali (al riguardo Gioda si disse convinto della
possibilità di realizzare una federazione di cooperative di tutti i
colori e di tutte le tinte politiche. Come a livello sindacale, così anche
sul piano politico i fascisti avrebbero dovuto ricercare «un insieme di
aperta, onesta, equilibrata concordia» con Per l’esattezza, il testo
dell’ordine del giorno recita.Il gran consiglio prende atto delle
dimissioni della giunta esecutiva, revoca l’espulsione di Rocca e, per le
degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende
per tre mesi da ogni attività di partito a cominciare dalla seduta
odierna («Il Popolo d’Italia»). Una nuova fase, «Il Giornale d’Italia». V.
anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio fascista, «Il Nuovo
Paese»e l’articolo di Carli Il palladio della rivoluzione, «L’Impero» La Giunta
Esecutiva è sostituita da un direttorio di IX membri, V con
funzioni politiche e IV con funzioni amministrative. Giunta divenne il
nuovo segretario generale del PNF. Cfr. «Il Piemonte». Gioda
non riassunse la direzione de «Il Maglio», che resta a Rossi, tutti gl’elementi
politici nazionali. Relativamente ai temi della violenza e del rassismo,
Gioda è perentorio. È oggi doveroso per i fascisti — afferma - orientarsi
verso un'attività più Sa ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le
disciplinatissime forze della milizia a Fascio può svolgere la più
intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È è rappresentato
unicamente dal Prefetto. Essendo paladini le 1A ri fascisti sono e devono
essere i primi a dare luminoso esempio. De n ci br grande partito moderno
come il nostro non può reggersi unicamente sulle Vi o qualità politiche
suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi vitali e poter
operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’ DE Mussolini in
sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea organizzazione
che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non dunque nu compagnia di
guitti attorno all’attore di cartello, ma un insieme di squisite cap: che
troveranno tutte una dura parte da reggere Il programma illustrato da
Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto al giudizio del nuovo
Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi. Oltre il
fascismo La sospensione di Rocca attenua ma non pose fine alla poni
revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse:
Ha le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad
pi c iosa per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno
i un ie sà Il fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima
dinamica Hd decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua
trasformazione e le circostanze che avevano reso possibile 1 pr
delle teorie revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse di un intenso i % Ù
n — per quanto funzionale e condizionato -, non si sarebbero più simonos
e pel mesi successivi. Mutata la situazione politica, venuta meno, res
me ma inesorabilmente, la “benevolenza” di Mussolini, i sostenitori di
suse defilarono (chi per calcolo, chi come Bottai perché ormai
persua i i i i itico GALETTO, Problemi e propositi del fascismo
torinese. Intervista col segretario pol io Gioda, «La Gazzetta del
popolo», 12 dicembre 1923. È o ; ca parzialmente anche su «Il Maglio») fu
rilasciata da Gioda all’ospedale San Giovanni, durante una delle
sue ormai abituali degenze. Il Direttorio era entrato in carica. IRE
SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT dell’inanità
della lotta), mentre i giornali che gl’avevano dato man forte
manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima servendosi della
copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro il
ministro Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare dall’altra
parte della barricata. Così, quasi senza rendersene conto (e forse, come
al solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca s’infilò in un cu/ de
sac vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in poco tempo
mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a fattori
esterni certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi errori
personali. Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto della
propria cultura, Rocca conferì un tono sempre più concettuale e
filosofico al suo revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppiù
cervellotici, colmi di citazioni libresche, in uno sfoggio di erudizione
spesso fine a se stesso, con la conseguenza — inevitabile - di
distogliere il grande pubblico dal cuore del problema e di stancare anche
gli osservatori più benevoli, facendo apparire la polemica revisionista —
in confronto alle concrete argomentazioni di un Farinacci - poco più che
una bizzarria intellettuale. Scontato il provvedimento di
sospensione, Rocca riprese - inizialmente con cautela — l’ordito dei suoi
disegni. In una sequenza di nuovi articoli, pressoché concomitanti, per
«Il Nuovo Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per «Critica Fascista», l’ex
anarchico torna sul tema della legalità. Sebbene “paretianamente”
convinto che «l’indifferenza e la diffidenza nel Paese verso il
Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo (in virtù della
degenerazione dell’istituto parlamentare) e dunque che la responsabilità
della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla
“rivoluzione” delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico
irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante,
Rocca non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un
liberalismo restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza
originaria. Dai ripetuti episodi di squadrismo, e in particolare
dall’aggressione ad Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire l’urgenza di
ristabilire il confronto politico entro i confini della normale
dialettica costituzionale, e l’obbligo, per il fascismo, di abbandonare
le pratiche extralegali. Solo così si sarebbe giunti «ad una nuova e più
alta normalità», fondata sull’imperio della legge, di cui il Governo a
guida fascista avrebbe dovuto farsi garante Rocca, Fascismo e
Costituzione, «Il Popolo d’Italia (anche in Idee sul Fascismo). Cfr.
«Il Nuovo Paese (anche in Idee sul Fascismo), nel suo stesso interesse. Il
primo segnale che i rilievi critici di Rocca cominciavano ad esser mal
tollerati, oltre che dagli irriducibili del manganello, anche dai suoi
alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de «L’Impero». In un
editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Settimelli si chiese se, alla luce
delle sue più recenti affermazioni, egli potesse ancora esser considerato
un fascista o non, piuttosto, un liberale a tutti gli effetti. Nella sua
replica, che non si fece attendere, Rocca non dissimulò affatto il
proprio filo-liberalismo. Il fascismo — scrive - è un superatore più che
un negatore assoluto dei principi liberali. Infatti, fatto salvo il dogma
della Nazione, la cui accettazione era il requisito essenziale per
potersi dire fascisti, tutte le libertà che non avessero minacciato quel
dogma e che non si fossero risolte «in una negazione della Patria, doveno
essere rispettate. Sul piano strettamente politico, il torto maggiore del
liberalismo è - secondo Rocca - quello di voler ancora comprendere da
solo tutta la società, assai più complessa e articolata che in passato,
così come il difetto di fondo del parlamentarismo era quello di voler
fare del Parlamento, un puro organo politico € generico», uno strumento
tuttofare. È dunque necessaria un’inversione di rotta e l’esecutivo
fascista ne possede i mezzi nei consigli tecnici, l’unico proposito
veramente rivoluzionario» scaturito dal fascismo, la pietra angolare di
ogni autentica riforma in senso tecnocratico. A parte l'enfasi posta sui
Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a fronte
del naufragio dei “suoi” Gruppi di Competenza, dei quali essi avrebbero
dovuto raccogliere l’infruttuosa eredità), l’essenza delle considerazioni
di Rocca non si discostava da quanto egli aveva più volte sostenuto in
passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi più posto
per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla s Ip., Tornare
alla normalità, «Il Nuovo Paese», (anche
in Idee sul Fascismo,). SETTIMELLI, Fascista o liberale energico?
(Risposta a Rocca), «L’Impero. Più tardi, conclusasi la polemica
revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca dal PNF,
Settimelli, in risposta all’accusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte
socialista (cfr. La ritirata dell'Impero, «Avanti!), avrebbe rievocato
proprio quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr.
“L'Impero e Massimo Rocca ”, «L'Impero»). Ciò non toglie che, nel giro di
poco più di tre mesi, l’organo romano avesse completamente mutato
la propria linea editoriale riguardo al revisionismo, passando
dall’iniziale sostegno alla decisa ostilità. Rocca, Fascismo e
liberalismo (anche in ID., Idee sul Fascismo). a i idee
pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del
Partito Fascista diramò un comunicato nel quale s’informava che il
Direttorio Nazionale aveva inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca
a motivo dei suoi ultimi saggi. Forse per evitare altri inconvenienti, il
testo di un discorso che Rocca pronuncia al Teatro Scribe di Torino
è sottoposto alla preventiva approvazione del duce, Ciò che colpiva nel
lungo intervento torinese di Rocca (un vero e proprio compendio della sua
dottrina dello STATO, quale anda formandosi negli anni) è l’assenza -
certo non casuale - di qualsiasi riferimento al partito fascista. Perciò,
nonostante il discorso dello Scribe non contene cenni al revisionismo,
pure, in un certo senso, ne costituiva lo scheletro, il fondamento
concettuale. Nella FILOSOFIA di Rocca, sintesi delle tre grandi direttive
della sua esperienza politica, individualismo, liberal/nazionalismo e
fascismo, non c’è più spazio per la mediazione del partito. LO STATO,
vertice della piramide, è il dogma intangibile e indiscutibile, superiore
ad ogni temporanea formazione e vicissitudine partigiana, superiore,
quindi, allo stesso fascismo. Il discorso è l’ultima uscita pubblica di
Rocca prima dell’appuntamento elettorale. Egli, tuttavia, non disarma
affatto e anzi lavora ad un volume antologico dei suoi saggi
“revisionisti” (il più volte citato “Idee sul fascismo”), che vede la
luce dopo le elezioni, nell’ambito della collana “I problemi del
Fascismo” diretta da SUCKERT (si veda). Il saggio, significativamente dedicato
a Gioda («un fratello che sa valutare e comprendere la testimonianza d’un
travaglio spirituale) contene anche due inediti di grande importanza. Nel
primo di essi, intitolato Una legge agl’italiani, Rocca invoca l’avvento
di una legge che è inattaccabile nella sua imparzialità serena,
amministrata da uno stato capace di farne sostanza della Il Nuovo Paese»,
Cfr. Il discorso di stasera del comm. Rocca, «Il Piemonte. Il testo completo
del discorso si trova anche in MAssIiMO Rocca, Idee sul Fascismo, come La
ricostruzione morale della Nazione. Le considerazioni di Rocca riceveno
commenti benevoli da «La Stampa» (Il discorso di Rocca), da «Il Nuovo
Paese» (Il discorso di Rocca a Torino) e financo da «Il Maglio», che ne
definì l’intervento un mezzo di lento riavvicinamento all’anima del
fascismo (Il discorso di Rocca). ROCCA, Idee sul Fascismo sua
eternità, al di sopra degl’uomini e dei governi e dei partiti e delle
classi. Il secondo inedito, Il Fascismo nel pensiero moderno,
rivela pienamente i segni dell’involuzione concettualistica che
contraddistingue la ripresa della campagna revisionista. Perno di questa
lunga e spesso contorta digressione storico-politico-FILOSOFICA è la
condanna della modernità, di cui Rocca — come altri anti-modernisti -
individua l’origine nella riforma protestante e di cui segue le
successive incarnazioni, dal razionalismo allo scientismo, per giungere,
sul terreno politico, all’astrazioni della democrazia demagogica e del
socialismo. Contro la decadenza e la dissoluzione d’ogni gerarchia
innestate dalla critica moderna, si leva, in passato, la rivolta isolata
d’alcuni spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma - è in Italia -
prosegue Rocca - che la reazione anti-intellettuale da i frutti migliori e più
durevoli, generando prima la riscossa nazionalista, poi quella futurista
e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella fascista. Ma il
fascismo, pur nella sua grandezza, è ancora, per il teorico del
revisionismo, una energia formidabile ma grezza, contenente i germi d’una
creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali. La
pienezza restauratrice del fascismo - conclude Rocca - dove passare
attraverso la riscoperta della centralità e della missione della chiesa cattolica
romana, unica depositaria della certezza del dogma. Negli ultimi due
paragrafi del suo saggio - Il valore del Cattolicesimo e Fascismo e
religione -, Rocca immagina un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro
ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura,
quale approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo
sotto l’egida della Chiesa. La critica di Rocca al moderno e la sua
rivalutazione della tradizione mostrano non pochi nessi con la
contemporanea riflessione di Suckert, senza tuttavia possederne né
l’originalità, né tanto meno l’anima romantica e sostanzialmente
rivoluzionaria. Puramente e Il riconoscimento del cattolicesimo romano
come base fondante dell’unità nazionale e, più in generale, della
religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, è al centro
della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di
ABC, la rivista fondata da Bottai, Rocca ampiamente tratta questi temi,
sia sotto un’angolatura puramente storico-FILOSOFICA, sia in riferimento alla
nuova situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella
dottrina della Chiesa cattolica l’unico vero antidoto alla degenerazione
partitocratica caratterizzante l’Italia repubblicana. DA proposito
dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua
centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. GENTILE, €
MICHEL deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex
anarchico lo fa dunque assomigliare più a Maistre che a MAZZINI. AI di là
di queste considerazioni, è ormai chiaro che Rocca esprime
posizioni personali, che difficilmente, con l’eccezione di pochi
intellettuali, trovano nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a
caso Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non esita
a farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario. Le elezioni e
la crisi del fascismo torinese Rocca e Gioda parteciparono alle elezioni
nelle file del listone governativo”. La candidatura di Rocca incontra
invero moltissime difficoltà. Apertamente osteggiato dagl’intransigenti,
il leader revisionista dove rinunciare a correre nel sicuro collegio di
Torino (dove è invece candidato Gioda), per accontentarsi di un posto in
1 quello di Milano/Pavia, non senza incontrare le forti resistenze di
Farinacci. Sembra, peraltro, che Gioda condiziona la propria candidatura
alla presenza nel listone dell’amico Rocca. Avendo Rocca — rileva infatti
un giornale torinese -, con cui Gioda è pienamente solidale, accettato la
candidatura in Lombardia, OSTENC. Sul pensiero politico dell’intellettuale
toscano v. la monografia di PARDINI, SICKERT (si veda) Malaparte. Una
biografia politica, Milano, Luni. Non solo Farinacci, a dire il vero. E’
singolare che quasi a voler rinverdire le polemiche d’anteguerra, la
comunità anarchica di New York, gravitante attorno al giornale «Il
Martello» (uno degli organi più autorevoli dell’anarchismo italiano
all’estero), da alle stampe un saggio intitolato Dio e patria nel
pensiero dei rinnegati, che, accanto a vecchi scritti anti-clericali di
Mussolini e di Hervé, riproduce il testo di una conferenza tenuta da
Rocca a Providence allo scopo di dimostrare che il mangiapreti d’un tempo
è in realtà un voltagabbana. Due anni dopo, peraltro, il foglio anarchico
italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello
stesso Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei
confronti di Mussolini (cfr. Rocca, La verità su Mussolini, «Il
Martello»). Su tutte le vicende legate alla decisiva consultazione
elettorale v. FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. «Il Piemonte. Il ras di
Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo
la diramazione della lista ufficiale dei candidati, Farinacci si rassegna
ad accettare il fatto compiuto. Ora che le liste sono approvate, col sigillo
del duce e del PNF - scrive con evidente disappunto -, dev’essere bandita
ogni discussione, anche se nel listone. V'è qualcosa d’indigesto; vi è il nome
di qualcuno che credevamo che la rivoluzione nostra avesse sepolto per
sempre (FARINACCI, Ora basta!, «Cremona Nuova). il Segretario politico del
fascio di Torino rimane candidato nella lista nazionale.
Quella di Rocca è, necessariamente, una campagna elettorale in tono
minore, né molto diversa — a causa della salute malferma — è quella di
Gioda; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera. Il dopo
elezioni apre un’ennesima deflagrante crisi all’interno del fascismo sub-alpino;
crisi significativa perché, a prescindere dai fattori di ordine
ambientale, s’inscrive nel più generale contrasto tra revisionisti e
intransigenti. La Stampa» pone l’accento sui contrasti tra la tendenza
transigente filo-liberale del fascismo locale, rappresentata da Rocca, e
l’ala più, giottosa e ribelle, nostalgica dei metodi squadristici,
arroccata in provincia. Come effetto di queste lacerazioni intestine, la
formazione della lista nazionale era stata difficoltosa e,
complessivamente, la percentuale di voti ottenuta.In Piemonte da tale
schieramento era risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%). A una settimana
dalle votazioni si riunì a Torino l’assise dei Fasci provinciali. In
un’atmosfera satura di tensione (il discorso Il Piemonte. «Io rinfaccia più tardi Rocca a Farinacci -, per
disciplina verso il duce, ho accettato di abbandonare Torino, ove riempio
i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia, quando ho
visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne
sono andato, infischiandomi dei voti» (ROCCA, All'onorevole Farinacci
despota e censore, «Il Nuovo Paese. La propaganda elettorale fascista fu
inaugurata domenica 2 marzo con una serie di comizi per la proclamazione
dei candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, ch’ebbe luogo
al Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere all’assemblea una
lettera “programmatica”, nella quale si augurava che il confronto
elettorale in Piemonte si mantenesse nell’ambito della correttezza, come
si conveniva ad una «lotta d’idee e non di uomini», e professava
«disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio di Mario
Gioda ai fascisti torinesi, Il Popolo d’Italia. Anche in «Il Piemonte). Il segretario
del fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il proprio
pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu l’unica
sua uscita pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. il forte
discorso di Gioda al Teatro Alfieri, «Il Maglio»). Nelle 328 sezioni
di Milano/città Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza. Miglior
risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. «Il Popolo d’Italia»).
Di gran lunga più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario Gioda: 5.694
preferenze in Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La Stampa»).
82 Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale. A
confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale si era
presentato anche un raggruppamento di fascisti “dissidenti”, guidato da
Cesare Forni e Raimondo Sala, che vantava un largo seguito tra gli agrari
e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse delle simpatie di De
Vecchi. Su tutti questi punti v. MANA del segretario federale, Rossi, fu
interrotto più volte), il congresso si risolse in un tumulto generale,
con violenti scontri tra i membri del Fascio del capoluogo e i
rappresentanti delle province”. Il punto era - come ancora evidenziava
«La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del nuovo Direttorio,
all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata da Gioda, 1
margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo subalpino si
erano definitivamente assottigliati. di fascismo nella provincia registra l’organo giolittiano - tende ad avere
una Cuggino diversa da quella dell’attuale Direttorio, un
carattere, cioè, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle
gerarchie, quasi intransigente, del tipo, insomma, che fu gi. è
i L de, È già ed è ancora definito coi i schiettamente piemontese
st GR Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare®, la gravità
della situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso
parte alla concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla
Direzione del partito, «per chiarire la vicenda di Torino»®”. Le
decisioni più importanti, in realtà, erano già state prese,
indipendentemente dalle valutazioni di Gioda Sabato 19 aprile, Colisi
Rossi annunziò lo scioglimento del Direttorio del Fascio torinese e la
nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Brandimarte, Orsi e
Gorgolini. Il provvedimento colse di sorpresa Gioda, il quale, in
un’accorata lettera a «Il Popolo d’Italia», lo definì un «atto inconsulto
e provocatore» e dichiarò di non riconoscere «nel modo più assoluto lo
scioglimento del Direttorio del glorioso e laborioso Fascio di Torino».
La Segreteria Federale, forte dell’approvazione dei vertici nazionali del
partito, non si curò minimamente pie È si “a Incidenti ad un convegno
fascista. Qualche contuso, «La Stampa». x tt n : In una lettera
della Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il
Popolo d Italia») l’organo giolittiano veniva accusato di «subdole
esagerazioni». «Il Maglio» attribuì la responsabilità dell’«indegna gazzarra»
a misteriosi provocatori esterni, «elementi incoscienti, operanti per
conto terzi». «Il Popolo d’Italia», 18 aprile 1924, Rs;
situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. GiodaIl giorno
prima il segretario del fascio torinese invia un telegramma ancor più duro a
Mussolini, definendo lo scioglimento del direttorio un imbecillesco
provocatore colpo di mano e chiedendo la nomina di un «commissario avente
pieni poteri» che facesse piena luce su ; pasa na $ quanto accaduto a
Torino. ACS, MIN/S7% DEGL’INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris.,
Busta e delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera come
una manifestazione di «deplorevole indisciplina»”. Giunge a Torino
Starace, in qualità di supervisore, Su decisione di Starace il decreto di
scioglimento del direttorio cittadino è esteso all’intero fascio, la cui
ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario straordinario,
nella persona del ras Lantini. La nomina dell’intransigente Lantini, uno
dei più accaniti avversari del revisionismo, ad arbitro delle sorti del
fascismo torinese aveva un evidente significato ammonitore”. Gioda, ormai
sfinito dalla lotta contro la malattia, uscì definitivamente di scena,
assistendo impotente alla rovina politica dell’amico Rocca”. Minato dalla
leucemia, l’ex tipografo si spende in un ospedale torinese. Quale
che sia il giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse
potuto essere più incisiva ed influente, se le tortuosità programmatiche
del fascismo, le difficoltà incontrate nella gestione del Fascio di
Torino - in particolare l’annosa contrapposizione con Vecchi e le sue
stesse esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando
sulle celebrazioni postume dell’oleografia fascista”, è certo che con
Gioda Il Piemonte Cfr. «La Stampa, e «Il Piemonte. Cfr. «La Stampa», e «Il
Piemonte». Non a caso, l’arrivo di Lantini a Torino fu salutato con
soddisfazione da «Il Maglio». In un precedente fondo, l’organo fascista - che
significativamente non da spazio
alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i
revisionisti, affermando di non credere «alla utilità di mutamenti
programmatici nei postulati fondamentali del partito e negando
addirittura l’esistenza del fenomeno “rassismo” (Rassismo, revisionismo e
speculazioni avversarie. Sull’intera vicenda v. anche MANA. Dopo
l’espulsione di Rocca dal PNF, l° «Avanti!» s’interroga su quali
sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già
avvenuto in occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le
ripercussioni a Torino per l'espulsione di Rocca. In realtà, come riferì
a Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo stesso Gioda,
questi reagì «serenamente», ormai rassegnato, consapevole forse di non
poter cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,
Gabinetto Finzi, Busta. si Esemplare, a questo proposito
(oltre agli articoli commemorativi de «Il Popolo d’Italia», de «Ii
Piemonte» e de Il Maglio, pubblicati all’indomani della sua morte), il già
citato volumetto La vita diGioda narrata da Croce. Nel secondo
dopoguerra, la memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del
sindacalismo di estrazione fascista (più propriamente salodina),
organizzato nella CISNAL. «Fondatore Gioda» campeggiava sul frontespizio
della nuova serie de «Il Maglio», come “periodico del sindacalismo
nazionale”, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito ricordo di Gioda,
firmato da siii. ef .1.} scompare un protagonista
appassionato di una fase cruciale della storia politica italiana, una
figura complessa e contraddittoria, in un certo senso simbolo
dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad un unico criterio
interpretativo. Pa seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta
di Rocca. Mentre si consuma la crisi del fascismo torinese. Rocca riapre
formalmente il fronte revisionista, con l’intenzione come confessò più tardi di
giungere ad un risultato pratico di epurazione e di chiarificazione. In
una lucida intervista a “L’Epoca”, che riattizza immediatamente il fuoco
delle polemiche, il neo-deputato ribadì uno ad uno i capi-saldi del
revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito attacco contro quelle
«classi industriali». che, prive d’ogni idea generale nobilitante,
s’illudevano «di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la civiltà
foraggiando i vari capetti fascisti, in cambio di utili tranquilli. Alla
domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un
«orientamento verso sinistra» del fascismo, Rocca replica. Verso una
sinistra politica, democratica o liberale d’idee, no. Verso una democrazia
di fatto, nel senso di appoggiarci su larghi strati di popolazione,
si». Il governo fascista - osserva Rocca -, uscito rafforzato dalle
consultazioni politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di
ampliare la propria base favorendo, a tal scopo, «una profonda
collaborazione» tra le diverse componenti della società civile e del mondo
del lavoro. Una collaborazione Malusardi, che di quel giornale fu
usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando Gioda, «Il Maglio»). a
MAassIMO Rocca, A Farinacci despota e censore, cit. Il nuovo
orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» con l'on. Massimo
Rocca, «L’Epoca». Rocca riprende questi concetti in un saggio su «Il
Nuovo Paese» (// bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in
quella circostanza - non era nato per tutelare gli interessi delle
«cricche industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e vecchi
imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica, proprio come
certi “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle provincie un
terreno di conquista politica e militare». Tra i due deprecabili fenomeni
- aggiunse Rocca vi era un nesso
profondo, in quanto gli squadristi «dell’ultima ora» erano sovente
finanziati da industriali e proprietari «senza scrupoli». Il nuovo
orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» all'on. Massimo Rocca,
cit, di questo tipo, fondata sulla «solidarietà nazionale» e non
«isterilita da pure considerazioni economiche o da un’opera di
gendarmeria a favore di una classe sola», poteva darsi soltanto a
condizione che il Partito Fascista abbandonasse ogni residuo settarismo
per divenire finalmente parte integrante della Nazione”. A queste
considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla prudenza fattogli
pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri interventi -
soprattutto su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando sugli stessi
concetti. In un articolo particolarmente duro per il giornale di Bazzi
(una sferzante requisitoria contro le «camarille locali» fasciste),
Rocca, quasi presentendo la resa dei conti finale, sostenne che la
normalizzazione non poteva più esser rimandata. «Dopo le elezioni scrive -, il Paese ha diritto di pretendere
un assetto definitivo del Fascismo. Il 1924 dovrà assolutamente
assistere all’inquadramento completo del partito nella Nazione,
Com’è lecito attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una
pronta levata di scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta,
però, Farinacci e gli altri ras trovarono un insperato alleato nel
ministro delle Finanze Alberto De Stefani, una delle figure di maggior
prestigio del governo Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda
“ondata” revisionista L’Epoca», diretta allora da Madia (subentrato a
Falbo), dedicò — almeno inizialmente — molta attenzione alla seconda fase
della polemica revisionista. Pochi giorni dopo la pubblicazione
dell’intervista a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospitò un’altra,
anch'essa molto importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalità
del revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on. Bottai). «Mussolini
— ricorda Rocca a questo proposito - mi fa pregare, da Paolucci
de’Calboli Barone, di abbandonare la polemica. Rifiutai qualsiasi impegno
in merito, perché volevo giungere ad una chiarificazione definitiva (Rocca,
Come il fascismo divenne una dittatura). Il Nuovo Paese» prende, di
fatto, il posto che è stato de «L'Impero» e de «Il Corriere Italiano». Il
favore accordato dal giornale di Bazzi al revisionismo era però
caratterizzato da un’ambivalenza di fondo. Tipico, sotto questo profilo,
un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in cui, agli elogi a
Massimo Rocca si accompagnavano critiche all’eccessiva «astrattezza
filosofica» delle sue tesi, il tutto in una cornice di disinvolta
celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve
chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi una via di fuga, nell’ipotesi,
rivelatasi realtà, che i revisionisti finissero per soccombere.
102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Questo
articolo apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di “Mezzi
per normalizzare” veronese Stefani, deputato (è eletto - come si è visto -
nell’ambito della lista fascista patrocinata da Malusardi), era entrato nel
governo Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte
del popolare Vincenzo s’intrecciò con la violenta campagna scatenata
contro Stefani da «Il Nuovo Paese» nel tentativo di sottrarre i propri
equivoci giri d’affari alla temuta opera moralizzatrice del ministro'.
Secondo Felice, il coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del
tutto chiarite - manovre fu probabilmente il prezzo che egli dovette
pagare per conservare il sostegno di Bazzi, ma è certo, in ogni caso, che
il leader revisionista ha in tutta quella vicenda una parte solo
marginale. Rocca, del resto, nega sempre di esser sceso in polemica
personale con Stefani; e in effetti, sfogliando i suoi articoli di quel
periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a questioni
economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!””. E’
bensì vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato
con Corgini fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il suo
accantonamento da parte di Mussolini) pubblicò un intero volume contro la
politica economica di De Stefani, ma è anche vero che il saggio uscì
quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese» non resta che l’eco!?.
D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale Tangorra, anche il
Dicastero del Tesoro. La sua azione di governo, sostanzialmente
improntata ai postulati del liberismo classico, si articolò lungo tre
direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio
drastico della spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte);
contenimento della dinamica salariale; ripresa di un liberismo doganale
“controllato”. Cfr. Dizionario biografico degl’italiani, fe Su
questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista. Il Nuovo Paese» rimproverava al
ministro l’ostinazione nel voler perseguire a tutti i costi l’equilibrio
del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della
Nazione; ma questa era - per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”,
essendo ben altri, in realtà, i motivi dell’ostilità del giornale nei
confronti di Stefani. Tra le principali imputazioni mosse al ministro, la
più importante - perché più strettamente connessa agli interessi della
lobby sottostante all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi
presunti favori alla potente Banca Commerciale (accusata di mirare al
monopolio di tutte le attività industriali, bancarie e finanziarie), a discapito
soprattutto della Banca di Sconto, già in via di liquidazione (ofr. Per
gli uomini di buona fede, «Il Nuovo Paese»). si Cfr. Renzo DE
FELICE, Mussolini il fascista. In una lettera successiva alla sua espulsione
dal Partito Fascista (pubblicata il 27 maggio 1924 da «Il Corriere della
Sera»), Rocca si sarebbe detto amareggiato del fatto che il suo nome
fosse stato collegato alla diatriba «Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di
non aver «mai attaccato» il ministro. 1°? Una sola volta, con
l’articolo La tirannide finanziaria (pubblicato da «Il Nuovo Paese» il 14
maggio), Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro la Banca
Commerciale. Ra Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura.
Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli). Il saggio, che fa parte
della collana Pagine Politiche diretta d’Angiolillo, raccoglie il
testo di un dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a Stefani ha un
riflesso del tutto negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle
province l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento
nella lotta contro gl’affaristi” romani, all'opinione pubblica moderata,
che aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della
normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato
il principale organo revisionista ad un conservatore come Stefani (il
quale godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità del mondo
politico ed economico liberale, come Einaudi) apparvero incomprensibili
e gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe
mai accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi
collaboratori. discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati
(anch'esso, dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie
di note nelle quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo
dissenso dalla linea politica di De Stefani, ribadendo peraltro la
propria estraneità alla polemica tra il ministro e Il Nuovo Paese, e
definendo una leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso
dal Partito Fascista a motivo di essa. Quanto alla sostanza delle sue
critiche a Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva nell’imputare
al responsabile delle Finanze il suo economismo professorale - troppo
legato all’arida teoria e perciò fine a se stesso - e la sua incapacità,
per converso, di valutare l’evoluzione sindacalista della produzione,
colta invece dal programma economico fascista. Per un economista di tal
razza — argomenta Rocca — esiste soltanto la libertà economica, cioè della
classe borghese, ma non la libertà politica, cioè delle altre classi, con
la conseguenza di favorire il dominio della plutocrazia bancaria e affaristica,
la quale rappresentava l’applicazione quotidiana, esagerata e unilaterale
della scienza economica classica e borghese. Pi «La lotta contro Stefani — scrive
Farinacci in tono minaccioso - deve cessare. Il Direttorio del Partito
deve intervenire e sconfessare ancora una volta il Nuovo Paese e i suoi
collaboratori fascisti. Un ministro fascista come l’on. De Stefani non può
essere lasciato aggredire da chi è privo di ogni diritto e autorità
morale» (FARINACCI, Solidali con Stefani, «Cremona Nuova).
!!! palla giolittiana «La Stampa» (CABIATI, Il ministro Stefani) ai
filo-fascisti «Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste sul
“revisionismo” e pro 0 contro De Stefani) e «Il Resto del Carlino»
(FLORA, Per l'onorevole Stefani), la stampa liberale prese, compatta, le
difese dell’uomo di governo veronese, l’energico restauratore delle
finanze pubbliche. Il commento di Flora per il quotidiano bolognese è
forse il più indicativo di questo comune sentire. Nulla di più enigmatico
e di più doloroso per il pubblico italiano — scrisse l’articolista de «Il
Resto del Carlino» — della campagna ostile contro il ministro De Stefani,
riuscito in soli due anni con una politica finanziaria coraggiosa e
sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella, a salvare le
finanze italiane dal fallimento e il credito della nazione dall’estrema rovina.
I revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo Paese» contro De
Stefani, apparivano dunque, alla maggioranza degli osservatori liberali,
per sostenitori della finanza “allegra”, al punto che tutti gli altri
argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino della
legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo, finirono per
passare in fe TE avitbicee In un’atmosfera carica di equivoci
e di tensioni, Massimo Rocca si avviò incontro alla sua fine politica. Le
diverse posizioni, ancora incerte al momento della sua intervista a
L’Epoca, si andavano d’altronde sempre più definendo. «L’Impero», dopo un
lungo silenzio, scese in campo a dar manforte a Farinacci. In un
editoriale Il pugno e la
biblioteca -, Settimelli prende le difese dei selvaggi delle province (il
pugno), accusando i revisionisti (la “biblioteca”) di filosofare
vanamente sui massimi sistemi, tradendo l’anima guerriera del fascismo. A
parte la disinvoltura dei suoi ex alleati, è però indiscutibile che Rocca
si compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a virtuosismi
da erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione e le
fonti del Fascismo, uscito su L’Epoca in contemporanea all’articolo di
Settimelli), col risultato — come si diceva - di togliere mordente e
immediatezza alla polemica revisionista, facendola apparire, appunto, uno
sterile e noioso esercizio di critica filosofica. A strappare
definitivamente Rocca alle sue speculazioni provvide Mussolini (A) con un fondo
durissimo per «Il Popolo d’Italia. Gli onorevoli Rocca e Bottai — scrive il
fratello del duce -, ai quali non si può negare perspicacia nello studio di
grandi problemi, si sono dati a demolire, a precipitare ciò che anda
semplicemente attenuato. I patriarchi non si mettono a fare la boxe coi
capi di provincia. Se non ci fossero stati gli squadristi, se non ci
fosse stata la violenza, l'ordine, la disciplina, la ripresa di tutta la
nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili
critici secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembra infine un
mezzo necessario per salvare l’integrità dei bilanci. Persino Il Mondo,
l’organo dell’opposizione costituzionale amendoliana, che pure precisa di
non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni caso, non ha mai
risparmiato critiche all’operato di Stefani, convenne sull’inopportunità
della campagna contro il ministro. Indifferenti come noi siamo a
qualsiasi esito - scrive infatti il giornale diretto da Cianca — di una
cosa sola possiamo rallegrarci: che non ha vinto una campagna che appare
troppo minata da rancori e da vendette d’uomini o di gruppi che si sono
trovati in contrasto con le ragioni dell’erario, ed hanno sferrato contro
l'ostacolo Stefani attacchi di stile inusitato perfino nell’attuale
depressione del costume politico (Il caso Stefani. La logica del pugno in
opposizione alla biblioteca - replica Rocca a Settimelli -, l’esaltazione
cieca della forza, il mito dell’ITALIANITÀ, conduce il fascismo alla
dissoluzione morale (Rocca, Il problema morale del fascismo, «L’Epoca»). Il
problema d’educare — e quindi di responsabilizzare — i quadri fascisti è
avvertito dai dirigenti più accorti. Dopo la marcia su Roma, nel pieno delle
polemiche sullo squadrismo, Malusardi - allora a Sestri Ponente - si batte
per l’apertura, nei locali del fascio, di una biblioteca di cultura
varia, in modo da offrire ai fascisti un'opportunità di crescita “etica”
e “intellettuale” (cfr. «Giovinezza»). di oggi puo parlare da Roma,
sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il tono ieratico degl’eunuchi.
Le brusche parole di Mussolini (A), in perfetto stile farinacciano,
colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche all’improvviso - ancorché
non imprevedibile — voltafaccia de Il Nuovo Paese, Rocca prova dapprima a
parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisa di non aver mai
inteso offendere l’eroiche camicie nere. Quindi, di fronte agl’insistenti
affondo di Farinacci, si decide a pubblicare una lettera aperta al
proprio rivale. Benché traboccante di retorica, la lettera di Rocca è un
fiero atto d’accusa a Farinacci (il viceré spagnolesco di Cremona) e al
fascismo provinciale che egli rappresenta, degenerante nella volgare
brutalità del cazzotto o del randello. È stato scritto, molto
suggestivamente, che in questo modo Rocca ridiventa l’anarchico Libero
Tancredi esi prepara a riprendere la via dell’esilio. Non sembra,
tuttavia, che Rocca si è del tutto reso conto d’esser giunto al capo-linea
della sua avventura fascista, sebbene non è difficile prevedere, come
riuscì a un giornale MUSSOLINI, La Fronda, «Il Popolo d’Italia. Lo stesso
giorno, con grande tempismo, L'Impero titola: Gridiamolo ancora: il fascismo
ha fatto la rivoluzione per avere uno STATO FASCISTA, non per appuntellare lo stato liberale.
3 ‘gu i i ni C'è una fronda in giro? — si chiede il giornale di Bazzi,
riecheggiando il titolo del saggio d’Mussolini (A). Non ci riguarda. Noi
chiediamo anzi che è spezzata. La dichiarazione di Rocca è pubblicata da «Il
Nuovo Paese» e ripresa, il giorno seguente, anche da «Il Popolo d’Italia»
e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo giornale, si dice
indignato per quella che considera un’autentica virata di bordo da parte
del suo avversario («Cremona Nuova»). In realtà, Rocca si era DERER a
esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della vecchia guardia
(come sO resto aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le
violenze dei teppisti pc quelli di tutte le seste giornate, ma anzi
sottolineando che egli continua a attersi per l’epurazione all’interno
del panic affinché questo puo realizzare il suo genuino di disciplina
legale e materiale. Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la
lettera si trova riprodotta anche in Come il fascismo divenne una
dittatura). Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffunde un
comunicato con il cbr no notizia delle proprie dimissioni da
vicepresidente dell’INA, nonché da membro del consiglio d’amministrazione
della Società Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica
che ricopriva da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», e «Il Nuovo
Paese»). BEGNAC, è ti 18 In. effetti, ancora dopo che il direttorio
fascista ne sanziona il definitivo allontanamento dal PNF, Rocca nutre la
speranza che il suo caso è ri-esaminato, come già è avvenuto in occasione
della sua precedente espulsione. Ed ora — dichiara il dell’opposizione,
che la sua lettera a Farinacci ne ha con tutta probabilità determinato
l’espulsione dal partito. La sera stessa il direttorio fascista, riunito a
Palazzo CHIGI alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una
visita ufficiale in Sicilia), DECRETA L’ESPULSIONE DI ROCCA dal PNF. Essa,
commenta «Il Popolo d’Italia», non è solo: la punizione ad un sedizioso,
ma un monito severo e una minaccia solenne a tutti quegli PSEUDO fascisti
o FALSI fascisti che rinnegano la fede, offendendo la patria e turbano
colla smania e la follia dell’arrivismo quel che è il dovere fascista più
grande: la ricostruzione nazionale. Il direttorio decide altresì l’espulsione
di Bottai, ma questi, grazie all’intercessione di Marinelli (non si sa a
quali eéindizioni probabilmente la promessa di rientrare nei ranghi),
ottenne la revoca del provvedimento, cosicché Rocca si trova, di fatto, a
sostenere da solo il peso dell’epurazione. Nel giro di pochi mesi,
dunque, il revisionismo passa d’una concreta, benché ingannevole,
speranza di successo al più cocente fallimento, mentre a «Il Giornale
d’Italia» — più fascista che mai, se il fascismo è legge statale e
disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere un po’ di
giustizia, non Importa se più tardiva che nello scorso
settembre. Avanti!: Cfr. «Il Popolo d’Italia. Ogni commento da parte
nostra - rileva Farinacci trionfalmente — è superfluo. Costui [Rocca], da
noi, è considerato fuori del fascismo già da un anno (FARINACCI Virando
di bordo, Cremona Nuova. GUERRI. La marcia indietro di Bottai addolora Rocca,
che ne attribuì la ragione alle preoccupazioni carrieristiche del intellettuale fascista. Bottai — scrive
Rocca --, teme di veder spezzata per sempre la sua carriera. Rocca, Come
il fascismo divenne una dittatura. Il punto è che il revisionismo di
Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muoveno da premesse
culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca,
infatti, che vanta una militanza politica pre-fascista di tutto rispetto,
Bottai, fatta eccezione per la sua breve stagione futurista, si e form politicamente
col fascismo, al quale dedica tutto se stesso, e di cui — se così si può
dire - puo considerarsi l’unico vero intellettuale organico. Nonostante
l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non è
assolutamente in discussione. È così — come sottolinea efficacemente Guerri -
che Bottai, il quale crede nel FASCISMO COME TEORIA POLITICA, non volle
rinunciarvi sempre ripromettendosi di migliorarne la prassi, mentre
Rocca, assai meno fascista e anebra molto anarchico, piuttosto che
accettare la disciplina di un partito che considera irrimediabilmente
marcio, prefere rinunciarvi del tutto (GUERRI. Rocca vienne abbandonato al
proprio destino”. Perché MUSSOLINI decide di sacrificare Rocca, di cui aveva
personalmente preso le difese meno di un anno prima, è questione di non
facile interpretazione. La risposta può essere ancora una volta ricercata
nella duttilità strategica del duce. Mussolini, infatti, coltiva ancora
il disegno d’un allargamento della maggioranza, da realizzarsi
soprattutto grazie a un’intesa con la CGL -- un progetto a cui il capo
del fascismo tiene in modo particolare e che, se non è sopraggiunta la
vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in porto.
Un'operazione tanto importante — scrive Felice — dove essere realizzata
con le minime possibili scosse interne. Gl’intransigenti dovevano essere
convinti ad accettarla. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro è
la fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non puo certo
esimersi da Rocca è quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è
giusto ripetere che egli sconta anche gravi errori personali. Con la sua
definitiva espulsione | commenti della stampa italiana sono variamente ma
unanimemente favorevoli alla decisione del direttorio. Settimelli, su
L'Impero ha parole di stima per Farinacci (il suo programma semplice e
schietto, energico e fiducioso, è il nostro programma) e di riprovazione
per Rocca (Rocca non ha una visione chiara e sintetica della situazione. È
farraginoso e analitico). «Il Resto del Carlino», che vede con favore la
battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarca la degenerazione
personalistica della polemica revisionista — concretatasi negl’attacchi a
Stefani - augurandosi che Rocca si convince dell’opportunità di rientrare
in un completo silenzio (Il provvedimento contro l'on. Rocca). Con
argomenti simili, «Il Giornale d’Italia», pur riconoscendo la validità
del revisionismo degl’inizi, ne critica l’involuzione dottrinale (non si
capisce quale è la meta, per quali vie concrete raggiungibile, che i nuovi
San Paolo si proponeno) ed espressa soddisfazione per l'avvenuta
risoluzione della crisi (Nube risolta). FELICE, Mussolini il fascista. A
una successiva riunione del gran consiglio del fascismo (in piena crisi
Matteotti), Mussolini si mostra ancora moderatamente ben disposto verso certe
tematiche revisioniste. Dichiaro — dice il duce -- che io non ho ben
capito ancora dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisogna che
questi nostri amici specificano. Si tratta di una ricaduta nello STATO democratico/liberale
con tutti gl’annessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri ed i
gregari? O si vuole — come è logico — ri-vedere le posizioni morali e
politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del
potere politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo ha una reale
utilità. E evidente che, assunto il potere, bisogna diventare dei
legalitari e non continuare ad essere dei ribellisti. Oppure il
revisionismo vuole condurci ad un ri-esame delle nostre posizioni
programmatiche? Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un
ritorno al passato? (PNF, Il Gran Consiglio nei primi danni dell'ERA
FASCISTA). dal PNF, Rocca (che non si dimise da deputato e presenzia
regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera) ©’ concluse la
propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa coscienza
anti-fascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne, riguardo
al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di odio/amore),
di cui è testimonianza il suo saggio, Come IL FASCISMO divenne una
dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo
momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tenta la via
dell’opposizione interna; quindi lascia l’Italia per la Francia, dove vive
a lungo come appartato in rapporti di reciproca diffidenza con la
concentrazione anti-fascista e in ristrettezze economiche, scrivendo
saltuariamente per Il Pungolo, il giornale diretto dal socialista Lemmi
che raccoglie anche molti ex fascisti espatriati in seguito alla vicenda
Matteotti (fra i quali Rossi e lo stesso Bazzi) !°8. Dalla Francia Rocca passa
in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a 15 Cfr. «Il Giornale
d’Italia. Rocca, PRIVATO DELLA CITTADINANZA ITALIANA dopo l’espatrio in Francia, è dichiarato
decaduto dal mandato parlamentare. Cfr. Atti Parlamentari, Camera
dei Deputati, Legislatura, Discussioni, Rocca è aggredito più volte: le
più gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad opera di Bonelli,
Masini e Nardo (rispettivamente il segretario del fascio di Genova e i
comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i riferimenti
contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo
genovese e i gruppi armatoriali liguri (cfr. «La Tribuna»,); e in Galleria
a Milano da parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS,
MINISTERO DEGL’INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 7 [Rocca
comm. Massimo]. Un telegramma del prefetto di Verona al ministero degl’interni
informa d’una riunione in una trattoria di Peschiera, nel corso della
quale Rocca, illustrando il programma revisionista, propugna la
formazione di fasci autonomi, che avrebbero dovuto raccogliere tutti gl’elementi
dissidenti degni di militare nel fascismo (a questo proposito Rocca lesse
le adesioni di Forni, Padovani, Sala e Marsich) e ricercare la
collaborazione dei combattenti e dei mutilate. Il progetto, caldeggiato da
Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo
fascista intorno a un programma e a degl’obiettivi comuni, prende corpo nella
Lega Italica, sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libertà — e
sotto l’egida del poeta e drammaturgo BENELLI (si veda), figura, se
possibile, politicamente ancor più contraddittoria di ANNUNZIO (si veda). La
Lega Italica, che avrebbe dovuto costituire l’embrione di un vero e
proprio partito dei dissidenti, si dissolve però nel giro di pochi mesi,
vittima dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi. ZANI. Cfr.
ACS, CPC, Busta [Rocca]. Per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblica il saggio
“Le fascisme e l'antifascisme en Italie,” anticipante molti dei temi da
lui in seguito sviluppati in Come il fascismo divenne una
dittatura. ci giornali e riviste — soprattutto di lingua francese -
e sempre mantenendo, nei confronti del regime, un contegno
altalenante (lex anarchico approva pubblicamente l’impresa d’Etiopia, ma
non ha esitazioni, in seguito, a prendere posizione contro le leggi
razziali). Rientra in patria soltanto dopo un periodo di detenzione nelle
carceri belghe, riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista.
Muore a Salò. Tra questi spiccavano il settimanale Cassandre e il
quotidiano Le manna entrambi editi a Bruxelles. I saggi di Rocca, per lo
più firmati con pseu toni il più ricorrente), vertevano
principalmente su questioni di politica RENO È RAT. Rocca è arrestato subito dopo la sesta di sg Ù
tgp ° so ta I È Il suo nome appare nella lista egl de ni
iale». L'ex anarchico nega sempre di aver avuto a che fare con nig
ela aa e, su ricorso del figlio, St cancellato dall’elenco (al
riguardo v. Rocca, Come il dae pri, i dittatura). Ciononostante — a
quanto i; a un FOA È documentatissimo studio (FRANZINELLI, I tentacoli
dell OVRA. Seen co ADEN e viftime della polizia politica fascista,
Torino, Bollati Boringhieri, ta pare ani Rocca fa effettivamente parte
dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome di Omero. Le battaglie
perdute sono generalmente dimenticate, poiché i vincitori non sentono
alcun interesse a ricordarle, almeno quando si sono svolte entro uno
stesso partito o una stessa nazione. Ciò non toglie che, se non gl’uomini,
almeno le cose e le verità sconfitte alla lunga si vendichino, attraverso
le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla è più facile, ad esempio,
che deridere e sopprimere certi valori spirituali, quando si dispone
della forza sufficiente per impedirne la affermazione e persino il ricordo.
Nei giorni della sventura tuttavia, cioè quando la forza vien meno,
si misura l’importanza negativa della loro assenza, e meglio ancora la
misureranno coloro che, più tardi, cercheranno una spiegazione obiettiva
agli avvenimenti (Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo, «ABC»). Con
l’uscita di scena di Rocca, coincidente con il fallimento della linea
revisionista, ha termine questo saggio. La caduta in disgrazia di Rocca
(cui si accompagnarono, pressoché contemporaneamente, la scomparsa
di Gioda — e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco
ridimensionamento delle residue velleità libertarie” di Malusardi), può
infatti essere assunta a limite cronologico della parabola storica
dell’anarco-interventismo, quanto meno di quella parte dell’anarco-interventismo,
qui presa in esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali
esponenti, che confluì nel movimento fascista. Se infatti, come giova
ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza
storiografica, considerare l’anarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e
Malusardi come fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto
(perché il conflitto mondiale comportò un’effettiva trasformazione della
società italiana, contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie
politiche prebelliche; e perché il fascismo, al di là delle sue molte
anime, fu comunque un fatto nuovo, impensabile senza la svolta epocale
della guerra), pure, come crediamo di aver illustrato, l’atteggiamento di
fondo con cui questi personaggi si accostarono al fascismo può in qualche
modo esser ricondotto alla loro formazione anarcoindividualista. In questo
senso, riteniamo si possa parlare della presenza, nel fascismo delle
origini, di una piccola vena anarchica, che, innestatasi in esso tramite
l’interventismo, si esaurì, progressivamente ma in modo inesorabile, con
il consolidarsi al potere della rivoluzione” fascista. ‘Renzo
Novatore’ (Arcola) filosofo. ‘Renzo Novatore’. Keywords: implicatura,
l’anarchismo di Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I anarchici di
Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari” – The Swimming-Pool
Library. Abele Ricieri Ferrari. Ferrari
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