Grice e Ghersi – filosofia savonese
– scuola di Savona – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Celle Ligure). philosopher --
curator of The Swimming-Pool Library at Villa Grice, Liguria, Italia. Ghersi has
an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s
something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi
appreciates like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s
inventions, such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi
enjoys the full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite
humorist is J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just
fascinatingThe Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s
personal tastes, as a personal library should!Ghersi is not particularly
appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s
favourite genre is drama, since “it is so clear in implicature.” Grice is a
frequent contributor to cultural circles and societies and a host like none
otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in
all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life, inghilterra. Refs.:
Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide
SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ghezzi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei tordi ubriachi – diritto artificiale – filosofia milanese –
la scuola di Milano – filosofia lombarda -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Milano). Filosofo Grice: “I love Ghezzi: he has explored
‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but also a count who was
condemned by the church; he has explored the history of masonry – in Italy it
started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’
– and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics
– also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice:
“Typically of Italian philosophers, he has explored Italian history, ‘ceneri del diritto,’ and a
confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La Filosofia del
Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia. Marginalità
e Società, ell'Università degli Studi
dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il positivism
giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il tema del
pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità,
devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto
Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con
particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico",
introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza”
sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del
nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come
“l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice”
e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico
o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi
contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo.
La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto
come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi
saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente
riferiti a G.. Altre saggi: “Socialismo e sociologia giuridica: "Centro
lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore nella
sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo, I e II, Patera Palermo Editore, Diversità e pluralismo. La sociologia del
diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina,
Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso
simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La
dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di
Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della
Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio.
Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano Federalismo laico e democratico, Mimesis,
Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano, Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis,
Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della
volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della
morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e
mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti,
alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come
valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno
al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di G, e Arduino,
C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U.,
edizioni Raccolto, Alle origini
dell'Umanitaria, G. e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine
pubblica della Magistratura italiana, di G. Giuffrè, Milano Curatele. “Etica
contro politica”; G., edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto, cultura e
libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan), Giuffrè,
Milano, Studi preliminari di sociologia del diritto Geiger, G., Nicoletta
Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di Leonie Schröder, Mimesis,
Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica amministrazione. Diritto
penale. Criminalità organizzata, Osservatorio permanente sulla criminalità
organizzata, CParano, Giuffrè Editore, Carluccio, In ricordo di G., anima della
Società Umanitaria, su Critica Sociale. 1 Dei delitti e delle pene. Rivista
dell'Agenzia del territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli Studi
dell’Insubria. Cura “Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis,
Milano); “Socialismo e sociologia giuridica: introduzione Arduino, Centro
lombardo studi socialisti); La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia
del diritto, Legge di Hume e tesi giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel
pensiero di Norberto Bobbio, su dialettica e filosofia. Etica contro politica, di Elias Diaz, G.,
edizione Iesi, L' immigrato
extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul territorio Milanese,
in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Gallini, Giovani E “Violenza:
Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con richiamo ad art. di
G. in “Marginalità e Società, II”. Le
ceneri del diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis,
Milano, al Ghezzi fa riferimento Minna in Crimini associati, norme penali e
politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè, G., Federalismo Laico e
Democratico, Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in
Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al
Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto
diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra
formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»
Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia", richiama G.
in: Governo dei giudici. La Magistratura tra diritto e politica, E. Bruti
Liberati et al., Feltrinelli, Berzano, Gallini, cita di G. “Alle origini della labelling theory e del
concetto di devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Balboni, Mimesis,
Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di G.. “come sostiene G. essa
svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di fenomeni di
stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando nella
marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e
crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Rinaldi e
Saitta, PM edizioni, Scrive Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento sociale come
ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica, in
Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Bolognini, Mimesis,
Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole di G., in Sociologia del Diritto,
Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli, Severino, nelle Dispute sulla verità e la
morte (Rizzoli) prende a riferimento un saggio di G. (Il Diritto come Estetica)
e s’intrattiene lungamente sul pensiero dell’autore. Giorello si intrattiene sul testo di G. (“Il
Diritto come Estetica”), lo commenta, ne riporta il pensiero, secondo cui «
"la morale non è altro che una forma dell’estetica"» e ricorda la
figura "nihilista" dell'autore. Da "Introduzione" di Giorello,
Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo di G., in G.. Ciò che resta. La
rivoluzione del diritto come estetica, Furio G. e Balboni, Mimesis, Milano, Il
Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il
nichilismo/nihilismo del dubbio, G.. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto
come estetica (Mazzullo, ‘’Prefazione’’, “Appendice“: saggi di: Merzagora, Riflessioni di una criminologa
prestata alla filosofia del diritto, Dorado, El devenir del derecho:
reflexiones acerca de las concepciones jurídicas de G., Il futuro del diritto: riflessioni sulle concezioni
giuridiche di G., Metodo di ricerca sul
rischio sociale, Vitale, Esistenzialismo e Nihilismo come confini
aperti del Giurispositivismo; Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto come
Estetica, Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, G.. Ciò che
resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio S. G.,
Mimesis, Milano, “Prefazione” di Mazzullo, “Introduzione” di Giorello, In
“Appendice” saggi di: Merzagora, Dorado, Vitale, Damiani di Vergata Franzetti. Marzulli,
"BRÜCKE als sein” Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro
nella descrizione del diritto come estetica." in Ermeneutica del
"Ponte". Materiali per una ricerca, Bolognini, Mimesis, Vincenzo Ferrari, Ciò che resta. Le ultime
parole di G., in Sociologia del Diritto, Fascicolo, ed. F. Angeli, Rinaldi e
Saitta, Devianze e crimine, Antologia ragionata di teorie classiche e
contemporanee, a cura di, PM edizioni, Minna, Crimini associati, norme penali e
politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè,
Sociologia del diritto Filosofia del diritto Criminologia. zi Le doverosità statutarie
ritualirischianoc, on il passaredel tempo, di perderela loro dimensione
rilevanza originaria, per trasformarsi in meri adempi mentrio utinari, prividi
quella dimensione creativa, costruttiva, propositiva che ne aveva motivato l a
nascita. Dunque, anche per quanto riguarda la nostra relazione morale si
rischia di far scivolar e lentamente nell’oblio le istanze storiche, che nei
accomandarono I'introduzione, per affronter la comeuna incombenza, neppure
moltopiacevolee, comunque retoricamente orientata riempire semplicsi
paziscenograficei non ad essere strumento di autoriflession inedividuale di
riflessione collettiva per la fratellanza tutta sul passato, nonché potente
strumentodi stimolo creativo per affrontare con consapevolezzale realtà future.
Pur troppopiù che un rischio tale situazione si e negliuliimi tempi manifesta t
a come avvenimento. Conseguentement pea r e necessario, prima di entrare
direttamente nella sostanza delle questionsiulle quali riflettere, ricordare
brevemente il significatto tradizional e profondo della relazione morale
propria della libera moratoria del Grande Oriente d'ltalia. Per comprendere
tale significato è necessario conoscere funzioni e competenze di chi e preposto
alla sua stesura; ossia del Grande Oratore Rituali, Costituzione Regolament di
el Grande Oriente d'ltalia come ognuno di noi, al calice divinoe assoggettar ma
il volere del destino. Goethe assegnano
al Grande Oratore competenze in campo iniziatico, culturale e giuridico (ex
art. Reg.). In oltre il Grande Oratore, in quanto Oratore e, competente as
volgere queste stesse funzion ainche ex art. Reg., funzione i competenze che,
per altro, salvo le elencazionei semplificativ reiportateda quest'ultim aorticolo,
nella sostanza della materia disciplinatta endonoa coincidere. Pertanto la
relazion e morale da discutere in Gran Loggia ex art., letter ad, Cost., in
quanto assegnata nella sua stesura al Grande Oratore e previament esaminata (ex
art., lettera f, Cost.) in riunione di Giunta del Grande Oriented'ltalia, non
può che consistere in un sistematico espletamenta onalitico e propositivdo elle
funzionei delle competenze del Grande Oratore. Risalendo, poi, alla tradizione
storica all'interno della quale nacque l’Istituto delle relazioni morali, e
facile comprender ceome esso fosse, al contempou, nasorta di biiancio
criticodelle attivita svoltee, soprattutto, della loro incisivita sia
all'interno, sia all'esterno dell'lstituzione, nonché un programma ed un impegno
di attività per il futuro. Dunque, da un lato, il Grande Oratoree tenuto nella
propria relazione morale a richiamare l'attenzione della Comunione sui temi,
che repute maggiormente rilevantpi er la stessa, privilegiando nael meno uno, e,
dall'altra parte, ad analizzare la moralità interna, dei suoi componenti, dei
fratelli tutti nelloro insieme, per evidenziarne a correttezza
caomportamentale, che non può essere intesa come mera correttezza giuridica.
Conseguentemente la presente relazione morale verrà idealmente divisa in due
parti, l’una riguardante la situazione morale e giuridica della nostra
comunione, e de credo, a tutti evidente quanto sia necessario un generale
richiamo in questa direzionem, entre l'altra rivolta aite mitrattatei da
trattare in ambito iniziatico, FILOSOFICO, culturale, sociale. Per meglio
svolgere soprattutto questa seconda parte della relazione morale ho reputato
opportuno non far scaturire i contenutti e matic di a u n mero lavoro solitario
dell'ufficio del Grande Oratore, confortato al più dalle riflessioni della
Giunta, ma mi e parso opportune, oltre che maggiormente proficuoai fini
dell'individuazion dei un corretto quadro di attivitae di aspettative in
materia, rivolgermi direttamenta ei fratelli della Comunione impegnatsiul
territorio nazionale nel campo dell'elaborazione de,lla proposizione
dell'organizzaziod nelle iniziative iniziatico, culturali, che sono proprie
della nostra tradizione. A tale fine, organizzo un incontro aperto a tutti i
Fratelli che avessero desiderio di partecipar vai, Massa Marittima presso la R.
L. Vetuloniae colgo questa occasione per ringraziare i Fratelli della R. L.
Vetulonia per la loro calorosa accoglienza, nonché tutti i partecipanti
all'incontro per i preziosi contribut fiorn i t i alla discussione. L'incontro
ha visto la partecipazione numerosa di molti Fratelli come singolic, ome
rappresentandti associazion ciol legate alla nostra lstituzione e come
operatori culturali. I lavori sono stati pienamente soddisfacent pier tuttii
partecipantei d,in particolare per me, in quanto mi hanno fornito numerose ed
utili indicazionpi er la presente relazione morale. Nel ringraziara encora,
dunque, tutti i Fratelli, che hanno contribuita olla buona riuscita
dell'iniziativa, posso sin da ora comunicare che intendo continuare su questa
strada anche in future ed auspico una partecipazion sempre piue stesaa questo
modello di incontro. L'immagine sterna della Libera Muratoria L'immagine
profana della Libera Muratoria per lunghi anni, soprattutto in Italia, e stata
offuscata dai pregiudizi, dalle calunniee, talvolta, anche dalla congiura del
silenzio perpetrate contro di noi dai nostri nemici storici, ossia dai seguaci
di integralis meidi totalitarism piolitici, religiose, i FILOSOFICHE dii ogni
colore. Tutta via, pur troppo, però, troppo spesso per insipienz ai gnoranza o
d’invidia la calunnia e dil disprezzo sono nati anche dal nostro stesso seno e
si sono diffuse nel mondo profane grazie ad un masochistico cupio dissolvoi
adun diffuso atteggiament poassivo ed autocommiserativo, peggio ancora, ad una
profanità penetrate tra le nostre colonne ad opera di fratelli, che erano e
sono rimasti p i e tragrezza. Fortunatamente questi fenomeni, sebbene ancora
presenti, soprattutto ad opera di fratelli inveterat di a lunghi anno negli
antichi vizii, come giustamente ha piu volte ricordato il nostroVenerabilissimo
Gran Maestro, tendon a non avere più presa sull'opinione pubblica profana
grazie soprattutto alla decennale politica di chiarezza, di trasparenze a di
impegno civile intra pres daall'attual Gran Maestranza. Se cosi si puo dire, la
battaglia per I'affermazione della nostra legittima presenza nella società
democratica italianae per la costruzione di una nostra imagine pubblica
positive è stata vinta. Oggi i mass-media distinguono quasi sempre con rigor
etra Grande Oriente d'Italiae massoneri e irregolaroi deviate, riportano
fedelmente, anche se ancora con non sufficiente frequenza, le nostre opinioni e
le nostre iniziative ci riconoscono uno spazio nell'informazione, che, sebbene
da estendere, ha tuttavia gia il carattere della correttezza. Anche le
istituzion piubbliche hanno mutato atteggiamentnoei nostril confronti,
riconoscendo cin taluni ambiti, che storicamente ci appartengono, come
interlocutori qualificati (partecipaziona ecommissioni, comitati pubblici,
etc.); i messagg di elle massime Autorità dello Stato alle nostre manifestazion
si ono ormai diventa te una felice consuetudine, sempre piu frequentemente
politici ed amministrator piubblici partecipano alle nostre iniziative
culturali e le Comunioni massoniche estere guardano alla nostra realtà con
rispetto ed ammirazione. In sintesi, la società civile ci ha restituito il
ruolo che storicamenti en ltalia e
sempre stato nostro. Poiché, però, nessuna Conquista nella storia umana e
definitiva e quandoci si ferma a contemplare compiaciuti risultatir aggiuntisi
rischiadi perdere quanto si è faticosamente conquistato, non solo è necessario
perseverare nell'impegno sino ad ora profuse nella costruzione della nostra
imagine pubblica, ma e altre sì indispensabili entensifica ruelteriormente in
modo operare attraverso un radicamento sempre piu profondo sempr epiù rigoroso
tale impegno e, soprattutto, della nostra imagine nell'azione sociale
effettiva, nella nostra reale presenza storica, nelle azioniche quotidiana
menctei ascuno di noi deve compiere per essere degno della maestranza cui
appartiene. Nelle attuali societa postmodern e l'immagine è molto, talvolta
quasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immagin serve anche la sostanza da cui
tale imagine dovrebbe derivare. In particolare, proprio nella via iniziatica
liberormuratori all’immagine non dovrebbe essere il vuoto simulacro di
irrealistiche aspiraziono i diabiliingannim, a la Fedele icona della realtà, di
cio che vogliamo esseree siamo come Liberi Muratori e come appartenenatil
Grande Oriente d'ltalia. Pertantole azioni di markefrng sono senza dubbio
necessarie in una societa come la nostra, per corsa da apparenze sempre più
invasive m, a eproprio la nostra natura iniziatica e tradizionala e imporcdi i
essere cio che desideriama opparire P. erraggiunger qeuesto obiettivoe
indispensabil pero gettared, a bravi architetti, una fattiva presenza nella
società in cui viviamo; una presenza che sia significativa, ttraverso le nostre
opere.dei valori che da sempre rappresentiamo. La arepresenza avrà la
prevalente componente individuale, ciascun Libero Muratore e chiamatoa fare
come singolo la propria parte di lavoro, a dare con il proprio comportamento il
buon esempio, ma dovrà essere accompagnat ea sor retta anche dalla presenza
dell'lstituzione liberomuratoria nel suo insieme per risultare maggiormente
incisivae persistente nel tempo: il mondo modernoe sempre più
istituzionalizzato ed anche noi dobbiamo adeguarci a questa tendenza
sociologica d, el resto, la tradizione altro non è che una istituzion
liazzazion deeisingoil comportamenti. La situazione interna della nostra
Comunione si presentaa, d una analisai pprofonditas, ostanzialmente positive e
ricca di prospettive per il futuro, anchese le fastidiose turbolenze profane di
taluni fratelli, più animat di a spirito di riva l s ache di collaborazion pe
o, tre b b ef a r pensare il contrario. Fortunatamen ti erisultati concret ci
onsegui tpiarlano più e meglio di qual sia spiette golezzo o d i qualsi assi
composto dissenso. La Comunion es i present ai n costante quantitativa,
crescita sia sia qualitativea segna I'affermarsdii un deciso ringiovanimendto
eisuoiaderenti Quest'ultimdo atonon deve essere trascurato non soloe non tanto
perch eil futuroe dei giovani ma soprattutto perche sono le vecchie generazioni
che manifestanmo aggiori difficoltà ad abbandonaruen modello di Libera
Muratoria non consononé alla nostra tradizione iniziatica ne alla realtà
storica attualment esistente. Nel generale panorama, non solo nazionale, di
diffusa disaffezion veersoI'impegno associazionistico (Rotary Club, Lions,
partiti politici, chiese, etc.) ed, in particolare, verso quello
liberomuratorio conforta constatare come il Grande Oriente d'ltalia si ponga in
contro tendenzae riescaa catalizzare I'interesse l'adesione di notevolei
qualificate forze giovanili. O. vivamente tali adesionsi ollecitanuon
rinnovatoi mpegno per garantire al nostro interno un ambiente semprepiù
favorevole ad una crescita iniziatica comune. Le adesioni scatur i sconod a
aspettative e l e aspettative piu diffuse sono proprio quelle che hanno
caratterizzato la nostra storia: una elevate qualità iniziatico-esoterica
qrande unita ad una capacita di presenza sociale. Simbolicament pearlandop,
urtroppole note iniziatiche del Flauto Magico di Mozart sono troppo
frequentement pero fanate dall'irromperneella Comunione di comportamen
atinimati dalla tipica profanità deitre Compagndi 'Artecheuccisero Hiram. La
Libera Muratorianon puo essere né la camera di compensazione delle frustrazion
pi rofanee neppure un campo di futili contese di natura condominiale l;a Libera
Muratoria è una scuola di perfezionament ion dividua l e finalizzato a l bene
dell'Umanita d; i questa nostra caratteristica non possiamo mai smarr i r nel a
memoria a pena d i negare la nostra stessa natura. Per questo motive e
necessario stigmatizzare negativamente quei comportamentci he, nascendo da uno
smisurato narcisismo personale p, ongono il proprio io in posizione assolutae tentano
di imporre il proprio modo di vedere come I'unico corretto.Tali comportamentni
on solo contrastano con il nostro basilare principio di tolleranza, manche con
quella visione relativam, olteplice, checi e propriada sempre. Non meno
deprecabil si ono quei profani comportamenti che mercanteggiancoarriere,
grembiulie riconoscimenti, prescindend do a capacità, convinzioni i d, e e e
progettoi perativi. Deve risultar eb e n chiaro a tutti che le funzion
iniziatich ed organizzative, chesi ricoprono in Loggia e nell'lstituzionien,
genere, sono servizi prestati alla comunitàe non orpelli, gerarchieo privilege
di a esibire, se non ancheda ostentare. esibizionei d ostentazionsi i
configurano come veri e propriabusi delie funzioni ricoperte. Se vissute
correttamente tali funzioni debbono essere intese comeonerie, per tanto, non
dovrebbero da readito ad alcun litigio in sedeelettoraleo di nomina alle
medesimen; onvi dovrebbei,n fattie, ssere Nessun interesse personale a
ricoprire qualsiasi una funzione l;'unicointeresse lecito e quellodi servire la
comunità. stratificatea cumulativadella verità, Ulteriorniegativitcài giungono,
poi, dallaormainval sabitudindeiesternarien sedeprofanai conflitti interni alla
nostra Comunione. Questo comportamento, certamente favorito dai moderni mezzi
di comunicazion dei massa (lnternet, e-mails, ms, etc.), induce prendere
posizione, il proprio pensier so enz a inte r porr pe rima una giusta pausa di
riflessiones o: no veramente convinto di quello ch-escrivo? Risponda elvero
quanto affermo? E'opportuno affermarloF? Accioilbene della nostra Comunità
affermandolo? Etc. L'azione dello scrivere costaormai così pocafatica ed è così
immediatcahe precede il pensiero stessos: i agiscesenzauna sufficien t
reiflessione. I danni d'immagin peernoi tutti, pot,a causa dell'impulsi virtà
razional deeipochis, i diffondono profani, trai che leggono iunquele
nostresternazioni, spesso anche senza riuscirea capirle, ma sempre comprendend
cohe siamoco involt in scontri completamenp terofania, nche peggiori dlquellpi
roprdi ella normale profanità. Particolarmenr tieprovevolaeppare, poi, I'uso
ormai diffuso di giuridicizzarie contenziosi . giuridica, interni, abbandonand
lao noslra tradizionme orale i, niziatice a ritual p, iùche e di in asprirei
tonidegli scontrbi e noltrequanto dovrebbesserelecito tr aFratelli
nell'lniziazion Sé. Emprepiù spessoI, nottret, ali conflitti non si fermano
all'interno della nostra giustizia massonica, ma fuoriescono, per'approoare
direttamenatei Tribunadliella Repubblica ltaliana Della illegittimiatà nche
giuridica di tali comportamenst ii diràinseguitop, erorabasti sottolineari le
degrade morale de-lltaradizionme muratoria, l comportamen dtei scritti sono
decisament reiprovevoli come esempio Luminoso I.nfattic, on estrema algradodi
Apprendist Laibero Muratorre icordal recipiendario: ll. secondo dovere è di
praticarela virtù, di soccorrere i vostri Fratelli d, i prevenirele loro
necessità, d i a lleviar e le loro disgrazie e d i assiste r l cion i vostri
consigli e col vostro affetto. e ueste virtù, che nel mondo profane sono
considerate qualità rare, sonotra ioi soltanto il compimento di un dovere
gradito. ll terzo dovere è quello di conformarvai lte leggi dell'Ordinedei
Liberi Muratorie ai Regolamentdii questa Loggia, La nostra Comunione non
dovrebbe rappresentarueno spaccato della nostrasocietà, ma raccogere solo
ilmeglio c,he inessagiàvive, pe riniziare un percorso disempre crescent
peerfezionamento. ll Libero Muratore non può rappresentare il cittadino
medio,ma deve aspirare ad essere l'élite della società. Fortunatamenltae
maggioranz daella nostra comunioneè composta da fratelli meravigliosi, che si
distinguono per profondità iniziatica e generosità civile. Poche piete
gîezzenon possono rovinare quantoi più hanno levigato. La giornata di Massa
Marittimhaa evidenziat Io'esigenzdai rifletterien torno ad unanumerosaseriedi
temi, chepaionocrucial pierla nostra Comunionien quésto particolare momento storico.
Certamentie temi individua eticheo raverrannoes postni onsononuo viallanostra
Tradizione, ppure sembranonon ancora completamenpteadro neggiati da tutti. In
convergenz caonlei stanze che da piirparti della Comunion leibero
muratorisailevanol, apresente Gran Loggia è dedicate all'Etica della libertà ed
all'etica della responsabilità. Non può sfuggire soprattutti onunambito come
ilnostroc, henon dovrebbe riprodurrie vizi della società profanam, a proporsi
chiaîezzi al rituale di iniziazione I'ispirazion weeberiana, che anima questo
tema. Weber fu, forse, il più illustre sociologio edesco della prima metà del
secolo passato e fu certamente postindustriale un acuto osservatore critic
della società e burocratica c'hein quegli annisi stave formando all'ombra della
minaccia dellegrandi dittatur europee, allora nascentlil. Messaggido ell'illustrse
ociologeo videnziava, primo potere c'he tendevanao spersonalizzare le decision
piolitichien dividuali e lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamav Ia'attenziona
enche sulla solitudinde ell'esserue mano di fronte alcrescent peoliieismdoei
valori del mondo moderno politeismo, che tuttorain esorabilmente organizzazion siociali.
Tuttaviaa fronte di un politeismo dilagante nell'estremo soggettivismo, Weber
concentrl a apropr i a analis si u l comportam enrtao zional e e sul momento
etico, per matéiializzar e dei valoriun comportamento orientato ad un
relativismo operativo, ispirato a à una organizzazione tutta umana e
democraticda ellè società Weber affronta il tema fondante delle società moder
Àec: ome possano funziona rele società industriali di massanel rispetto
delleindividualit pàersonaluimane? E', dunque, in questo quadroche I'etica
della libertà, rivolta alla tutela del singolo essere umano, deve coordinarsei
conciliars cion l'etica della responsabilità, fìnalizzata gli interessi collettive
id istituzional Ni. ulladi più attuale, sopratttutto, alla luce dei present pi
roblemdi i sviluppo economico sostenibile di benessereo, t tutela dellelibertà
individuaeli di sicurezza d, i partecipazione democraticea di esigenze di
governo p,er citare solo pochi esempi. Al di là,. comunque d, eg L
sipecificciontenut ciulturali eberianiiil sempiice richiamao questo Autores
prime un elemento fondante della Tradizion leibero muratoria: a a parlare da
trasmettere cheessi rivetano. in luogo, i mèccanismi burocratic diel incalzae
rischiadi sprofon darnel nichilismlo e dalnulla I'impegno civile e sociale sostenuto da
un'etica radicata nella nostra cultura iniziatica, ossia individuale,
personale, propriadi ciascun Libero Muratore. La nostra Tradizione iniziatica ci
assiste ed accompagna nelle impegnative prove, che I'attuale realta storicaci
presenta e, noi, peressere all'altezza dita le Tradizione, dobbiamo essere
capacidi re interpretarla a l presente, non d i ripeterla al passato. La
Tradizione e tale perche si pon e fuor i dalla storia in un a perenn e
attualitan, onin un richiamo cristallizzato ad un singolo attimo del tempo
passato. La centralita etica del nostro levigarela pietra grezza di noi
stessisi impianta sulle due colonne DI UNA PROFONDA CONOSCENZA FILOSOFICA e di
una altrettanto profonda consapevolezza morale. lgrandi insegnamenti che ci
giungo nodai simboli, dai riti, dalla sapienzae dai lavori dei nostri Fratelli
passatae dalla nostra lstituzione HANNO NATURA EMINENTEMENTE FILOSOFICA e
morale. Dunque, ciascunodi noi devecostruirsciome un attento conoscitoredei
nostri insegnamentim, a anche come un ferreo e rigoro soportatoredi
comportamentisi pirati alla nostrapiu rigida moralità.Troppo spessosi sentono
talun i Fratelli vantarsidi conoscenz esoteriche, poi, il loro comportamenteo
paragonabilae quello dei peggior pi rofani.Troppo spesosi assiste alleia mente
ledi taluni fratellpi erl'assenzad insegnamenti poi, massonci, e loro
persistenta essenza non solo a dibattitei convegnim, aanchee soprattutto agli
stessi lavori di Loggia. Troppo spesso sia scoltano taluni fratellli
amentarsdii quelloche non ottengono dalla Libera Muratoriae non domanda
rsciosaessi danno alla LiberaMuratoriaT. Uttiquesti comportamenti rivelano una assenza di vera e profond amorale
libero muratori a Dell'assenz da i conoscenza non e ne p pure il caso di
parlare. Fortunatamen ta efronte di queste degenerazio nl ai gran parte dei
Fratellsi i distingu epe r i mpegn oe serietà nel percorrere la via iniziatict
a radizional deella Libera Muratoria. Per favorire la crescita della nostra
lstituzione necessario in, una societa dimassa, giuocare suigrandi numerie,
quindi, selezionare dai grandi numerii migliori uomini, per inserirlai l nostro
interno. Se si raffrontano quantitativamenite Massoni dell'ottocento italiano a
quelli attuali ed entrambi alla rispettiva dimensione numerica dellasocietà,
nella quale viviamoe vivevanoc, i si accorgeche oggi noi siamo molto sotto
dimensiona Nt i on credo che si poss a pensa r ec h egl i italian di i oggi
siano peggior di i quelli d i ieri, forse, come sembra no testimoni artealune nostre
realtainterne al Grande Oriente è, vero il contrario E.dallorae nostra carenza
non dare la possibilitai migliori di entrare nella nostril stituzione. questa
Su comunicazion è ecentral e e molto s i e fatto in tale direzione si a
attraverso incontr pi ubblici, sia grazie ad un a ricca pubblicistica, sia, in
fine, attraverso la presenza sui mass media. Non si deve r a l lenta r s
l’impegni on queste direzioni, ma tale impegno potrebbe trovare fattori di
moltiplicazionaet traverso un sistematico coordinament noazionale degli
interventiI. Noltre il moltiplicarscio ordinato di una rete associazionistica
sul territorio nazionale potrebbe divenireun utile strumentoa, l contempod, i
diffusione dei nostril principei di informazion ientorno alle nostre
iniziative, ma anchedi selezione di coloro che intendono avvicinars ai noi. A
questa selezion esterna deibussantdi eve anche corrisponder uena selezione interna
dei Fratelli. Non casualmentegli insegnament libero muratorvi engonoim partitsi
u tre gradi (Apprendista, Compagno d'Arte, Maestro), per tanto non puo essere
il mero trascorrere del tempo a determinarei passaggdi i grado. Solo la
conoscenza del grado nel quale si lavora puo dare diritto ad aument di i
salario, come bene esprime la nostra Tradizione e, la conoscenza s caturisce
dalla somma del lavoro individuale con quello di Loggia. Pertantola selezione
non puoche avvenirea seguito di una costantepresenza in Loggia e di un sistematico
lavoro personale di ricerca. Le Logge dovrebbero lavorarein tuttii gradi, non solo
in quello di Apprendista ed, in particolare, i lavori in terzo grado dovrebbero
essere valorizzati, affinchesi possa constata reche il Grande Orientee composto
da Maestri, che lavorano nel loro gradoe non in grado di Apprendista. Il grado
di Maestro e il vertice della nostril stituzione, pertanto, deve informarela
maggioranza dei lavori rituali di Loggia per evitare che le ritualita di altri
gradi prendano il sopravvento, snaturando nlea forza iniziatica il: avorida
Apprendistra estano per Apprendi satinchese fattida Maestri. ln questi ultimi
anni il Grande Oriente d' ltalia ha promosso una crescent organizzazion deella
Comunione al fine di potenziar nela presenza sociale e la capacita internadi
creicita qualitativae quantitative In. fatti, sempre più numerose i
culturalmente rilevanti sono statii convegnil, etavolerotondee gli i n cont r
si i a pubblic si i a privati; l a nostra presenza sul territorio e stataraî
forzata da consistent i impegni per fornire a i fratell sie di dignito sem; a
necessita ancora sia una maggiore partecipazioni enterna a i lavor i della
Comuniones, i a una piu adeguata organizzazione storiche. Rispetto al tema
della partecipazione ai lavoridi Loggia non mi sembrasi debba insistere molto per
costituzionale, che meglio rappresentlei attuali esigenze evidenziarnela dove rositaolt
realla necessità. Tuttavia pare opportune ribadire come la radiceprofonda della
Libera Muratori ari sie dane i tre gradi dell'Ordine e non negl i ulterior gir
a di dei Riti, i quali, al massimo, possono essere considerati delle
articolazionsi pecifiche. Dunque, nessuna camera rituale puo sostituire sopperi
realla carenza di lavori nei primi tre gradi. Questa riflessione dovrebbe
convincere tutti i Maestri Venerabi la i promuovere un consistente incremento di
lavori in camera di Maestro, al fine di espandere pienamentele potenzialita
iniziatich dei detta camera. Riguardo, poi, alla nostra organizzazione costituziona
l ei nterna, pare necessario constatare com egli episodi cei d occasionali
interven tdi i riforma normative, sovrappos tai d un tessuto già di
disposizioni spes Ào si constata la strada la
contraddittorio carente, abbia noormairesa evidente la necessità di una
organica e completari scrittura della nostra costituzionee dei nostr Riegolamenti.
Infattir, isulta subito chiaroa chiunque studi la nostril stituzionceome alla
struttura iniziatic (aLogge, Gran Loggiae, tc.) della nostra Comunion sei
sovrapponga per dalla nostra appartenenza precisa ad una realtà storicau,
nasovra struttuar associazionistica di inevitabile sapore profano P. oichenone
possibil peorsfiuori dalle esigenz seloriche dalla società c, ui si appartiena e
pieno titolo, la struttura iniziatica deveper necessità coordinarsci on
l'oîganizzazion perofanal associazioni, società commerciaolib, blighfiscalei.
di pubblica sicurezzaq, uoteas sociativelo, cazionimi moòiliari, etc.) dalmo
dello confederale originarivo erso un modello federale piùo meno centralizzaìo.
neirecentpi rowedimendti adegua menatolle normative fiscali mposte
allealsociazioni civiles, i a d ella Liber a Muratoria, sia del rapporto che
intercorre pertanto traquestedue realtà storiche. Dobbiamo stupircci he anche il
nostro apparato normativo, quello conseguentemennteo, nscambinoi gradi
percarriere, grembiuli i peronorifìcenzee le norme per strumenti di
prevaricazion Lea. Libera Muratori saialimenta di idealie di spirito di servizio
fraterno. In ultimo, ma non ultimo. A chiusura di questa relazionme orale mi
sembra opportuno ricordardeuespecifich tematiche, sono dovute affrontare in
questo primo anno della nuova Gran Maestranza. prima intorno alla troppo eslesa
contenziosi gtàrudiziaria ed al degrado comportamentale, derivato e, mersi in
occasion ed el rinnovodelle cariche di é iunta e continua tpi ervicace mente
anche nel Corso del correnteanno. La seconda investe irapporttira Ordine Corpi
Ritualei dha portato alla stesura di nuovi Protocoldli' lntesa. Procediamco on
ordine. ll primo tema affronta I'ormadi iffuso mal costum dei ricorrere alla
giustizia ordinaria per presuntedisarmonie in materia libero muratoria, prima
anche di esperire il foro domesticeo di cercare concordia fraterna, come
dovrebbe essere nostro dovere fare. Inolt;e, tali scontri giudiziarisi connote
naoncheper la violenza, la ripetitivite à la caparbiareiterazion dei atti, citazionei,
sposti, richiest de i accertament in via preventivaed in via risarcitoria,
querele, richieste di prowedimentio urgenzae quant'altro consenta I'articolato
ordinament goiudiziario si somma anche un corrispondente di massa
(giornalil,eúere,siti internet, esigenze socialei giuridichdeipendenti etc.) ai
e giuridic armonicae, ntrola quales volgereinostri architettonici fine di
costituire una unità istituzionale lavori Del resto tale problema ha natura Tradizional
peo, ichenon nasceoggrm, aciaccompagna storicdi el compagno naggeio della
Massoneri OaDerativa. La Tradizione costituzionale della Muratoria Universale,
Infattil, e Logge sovrane siunisconoc, onservandlao propria sovranità, per formare
una Gran Loggia, ma il sistema è lentamentsecivolato, lnoltre, ha natura evidentemente
federale. comeperaltroè awenuio anche nelle costituziosntiatal (iSvizzera,
U.S.A., In sintesis, i è materiale alla Costituzion feormale origtnaria C.iòha
sovrappost uana, cosìdetta dai giuristi C, osîituzione
prodottoincertezzeinterpretativea,d esempiointorno all'autonomidaelle Logge,
comebenesi e evidenziato dallo Stato ltaliano. Ma anchea presclnder dealle antinomie,
dalle lacune e dalle oscuritàdeinostritestinormativil,tempo, come è notoai
giuristiè, nemico delle leggi e: ssocorre mentre le leggi restano ferme, cristallizzate
nella loro immobilità. In questi ultimi anniabbiamo assistitaollerapide trasfor,
Àazioanni, coraínfieri, sia de a società non adeguarsai lle nuove esigenze.
Owlamente l'adeguamento deve essere fatto in modo organtcoe sistematicto e,
nendo anche conto delle dimension ci rescendtiella nostral stituzione delle
regolamentazioni, che si sono date le altre Massonerie straniere e, delle
normative degl’ordinamengtiii ridici statali e sovranazionali. Una ultima
riflessjone mei porta a ricordarae tutti i Fratelli che, comunquela, Libera
Muratori naon può divenire una organizzazion perofana. Essa è e deve restare
una lstituzione Tradizionale Iniziatica per il perfezionamento dell'essere
umano. CiÒ, erò, presuppone non iniziatico, simbolico e rituale, debba anche che
i Fratelli avivano in questo spirito e, italiano Peraltro all'iperattivism
gioudiziari Jprofano fenomeno di comunicazione e-mails, ms, etc.), perlo più
anonimo, tendentea screditare la nostra lstituziona éd ín, particolaie, alcunsi
uoi esponendtii verticeN. Onpare necessariso offermarsui lla profaniteà, spesso
a, ncheilli ceità giuridic dai tali comportamenstie, mbra,inveceo, pportuno
sotlolineare come essirendano di dominio pubúico le nostre conte sei n terne,
violando non certo il segreto massonico, poiché non viè null ad i segre i oi n
simili miserie umane, ma umiliando il buon gusto, il diritto dei fratelli ad
una immagine pubblica interno disteso ed alla riservatezza delle proprie
problematiche f,ositiva, di fàmiglia. La litigiosità ed ancor più
I'accanimenntoel la litigiosità una sono pessimbi igliettdi a visita e
forniscono immagine Oriente d'ltalia. finedi evidenziar qeuali debbano essere i
comportamenti correùiinia le materia nella nostra comunione ln. Nostra
lstituzione. Tutti possono percepire idanniche questsi considerati Poiché il grande
oratore tra i propri compiti istituzionali quello haanche di interpretare e di
custodirle leggiho reputatomio precisidovere compiere un lavoro di esegesi
giuridica sulle nostre fonti normative a, l chesi La riguardala riflessione chè
ne è connesso e deteiioratdaella comportamenairirecanaol Grande daitempi ad un
clima breve, risulta evidente che la
nostra Tradizione non consente un facile ricorso alle giustizie or6inarie in
materia liberomuratorie, comunque, non tollera una eccessiv animosita nel
difenderà l" proprie presunte ragioni. Se non e possible parlare
dell'esistenzna el nostro ordinamento giuridico di una vera e propria clausola
corx promissorai assimilabil ae quelle tipiche dell'associazioni sm proófanoe,
tuttavia evidente come il ricorso alla gustizia ordinaria venga costantementv
eisto e vissuto come un comportament poatologicoe talvolta anche comeuna vera e
propria colpa massonica. La situazione si aggrava per I'atto iequalora il
giudizt o massonico o anche solo quello profano di aalui torto; poiche in tàle
caso si evidenzia senza equivocei d incertezze un comportamento non fraterno
nei confrcnti del convenuto. Al fine dichiarirei l più possible tali tematiche
ho provveduto ad una analisi delle nostre fonti di diritto, analisi che gia
evidenzia quanto sopraesposto, ma che raccomanda più puntualmi odifiche
normative nei nostril regola menta il fine di rendere esplicita, anche sul
piano associazionistico, nostro ordinamento giuridico di una clausola
compromissoria. ll parere sulle fonti del diritto libero muratorio del Grande
Oriente d'ltalia e sul vincolo dei Fratellai limitarsni ei contenziosailla
giustizia domestica viene riportato nell'allegato. ll secondo rilevante tema
affrontato in questo anno massonico riguarda i Protocoldl i'lntesatra il Grande
Orient ed’Italiae di Corpi Ritual ai desso aderenti Pur troppo anche i
comportamenti che hanno costretto ad affrontare tale tematica non sono certo
commendevole i rivelano il mai sopito tentativo
delle arganizzazioni ritual di i costituirsciome una Massoneria nella
Massoneria, come un livello superiore di controllò dell'Ordine Libero Muratorio
dei primi ed unici tre gradi, contravvenendo in tale modo alle regole
massoniche internazional mentre i conosciute. Pertanto i nuovi Protocoll
id'lntesasi sono rigorotamente ispirati all'applicazion delle normative
internazionali in materia ed hanno inteso pericolosa, correggerela anche se tra
Ordinee Corpi Rituali nuovi Protocolli di'lntesa si fondanosu quattro forse in
consapevoltee, ndenza egemonica dei Corpi Ritualsi ull'Ordine. Al finedi
ristabilire l’equilibrio principbi enprecisi: L'Ordineo, ssia il Grande Oriente
d'ltalia, svolge una indiscutibile d originaria' funzioni eniziaticamente
fondantee giuridicamente legittimante regolarizzantre rispetto ai Corpi Rituali.
I Corpi Rituali hanno tutti pari dignita di fronte al Grande Oriente d'ltalia e,
pertantoi, Protocolli, specifiche peculiarit daovutead oggettive differenze
storiches, onouguali per tutti i Corpi Rituali. Ordinee Corpi Ritual gi odono
della più assoluta e reciproc autonomia E. ', quindi, fatto obbligo ai Corpi
Ritualdi i astenersdi a qualsia stiipodi interferenza ed ingerenza direttaod
indiretta nella vita dell'Ordine ed in modo particolare nei momenti
istituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi governo dell'Ordine stesso.A
tale fine è parso necessarioritenere incompatibili dell'Ordine de I Corpi
Rituali. le normative interne dei Corpi Rituali devono essere conformi alle
normative massoniche internazionalmenrtie conosciute particolare, ed, in a
quelle proprie del Grande Oriente d'ltalia, nonche, ovviamentea, nche alle disposizioni
di legge della Repubblica ltaliana. La bozza dei Protocoll di 'lntesatra Grande
Oriente d'ltalia e Corpi Rituali viene riportata per esteso nell'alleganto. A
conclusion dei questa relazione morale sia lecito ricordare con profondo dolore
e fraterno rimpianto il Fratello Bent Parodi di Belsito gia Grande Oratore
Aggiunto che nelle imminenze del Solstizio d'inverno e passato all'Oriente
Eterno. La sua immensa cultura si univaad una profonda dedizione agli ideali libero
muratori, ma soprattutto coloroche hanno avuto il privilegio di conoscerlo da
vicino hanno potuto apprezzare quanta nobilta generosita ed amore fraterno
albergasserno el suo animo. Nel rimpianto di un fratello ed amico scomparso voglio
dedicare al suo ricordo queste mie brevi riflessioni di un tempo mai perduto:
RINTOCHI Se le campane suonano segnando il mio fato; se il giorno e la notte circolarmente
si avvicendano; Con il triplice fraterno saluto. se il mare arrotola cadenza triicciolbi
ianchi; se i monti forzano la volta del cielo, lo rido e piango e bevo e nego il
domani. L'orizzonte guida alla madre, ma tu sei un rigido segmento. IL GRANDE
ORATORE. Prima di formulare alcune precisazioni intorno alle principali
critiche rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio scritto, voglio
ribadire che sono infinitamente grato a Severino, a Carrino ed a Renner per
l’attenzione, che generosamente hanno voluto dedicare al mio lavoro. Le
obiezioni, infatti, che mi sono state rivolte hanno arricchito la ricerca con
contributi seri e proficui per la conoscenza umana; conoscenza che non può che
scaturire da serrate critiche, severe obiezioni, profondi dissensi, diversità
metodologiche ed euristiche, divergenti punti di vista e ripensamenti vari. Ma
senza indugiare oltre è tempo di commen- tare queste critiche. Ogni
affermazione presuppone anche la propria negazione: luce e tene- bre, dritto e
curvo, finito e infinito, piace non piace, etc.. La dialettica degli opposti
appare una fenomenologia, per così dire ontologica, ossia propria della
struttura mentale dell’essere umano. Ciò non significa che il dualismo sia
dotato di un fondamento maggiore o minore del monismo, ma sem- plicemente, che
né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun fondamento non dogmatico, non
assiomatico. Conseguentemente fidare in un paganesimo monista di dei, semidei,
eroi ed uomini divinizzati, come propone Carrino, o in un dualismo
giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano, è scelta meramente
arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em- pirico, nonché, meno che
mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel pensiero o, meglio, nella
rivelazione cristiana la sintesi teologica, il ponte tra fisico e
metafisico avviene attraverso la figura del Cristo, che viene considerato vero
uomo, ma, al contempo, espressione della trinità divina. Afferma, infatti, CACCIARI (si veda), commentando EMO (si veda):
Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire nella Croce stessa
(non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione. Si tratta, tuttavia di
una Resurrezione/ rivelazione di natura puramente spirituale e,
conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas- sione e di morte
nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il modo di pensare e di
credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a nascere, soffrire, morire,
fare violenza e guerra, elargire misericordia ed amore esattamente come
nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz- zazione dell’’essere umano
(pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino, nulla ha mutato nel
panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se non la superbia
dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre anch’essa si
presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria) Le
affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono
essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te
possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come
asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in
evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno
natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici
qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura
esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie
mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte
possibili e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le
affermazioni della perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla
struttura organica dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di
conoscere e, comunque, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce,
salvo il nostro percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso,
pertanto non testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista
un qual- che referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere
anche molto diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di
percezione animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da
Cacciari, Prefazione ad Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. G. - P.S.
Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute come viene
immaginato dall’essere umano. In altre parole, il saggio, problematizzando il
fondamento euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a
priori kantiano e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca
empirica sul medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su
un a priori indimostrabile. Infatti, giustamente Severino parla di una
struttura originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e
soltanto a questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza
del soggetto e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il
divino intende permeare l’umano in modo empiricamente comprensibile,
trasformandolo? Pare che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini
filosofici si ripete il medesimo quesito: il metafisico riesce ad entrare nel
fisico, trasformandolo dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra
sino ad ora essere negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come
ipotesi. Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile
visione morale di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità
re- lativa nella sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre
filosofo cerca di fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente,
nell’antropo- logia umana del mi piace, nell’estetica, che appare essere la
dimensione più originaria (strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un
macigno ancora più grande e pesante ostruisce la strada dell’etica, della
morale (kantiana e non kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio.
L’eventuale assenza di libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo
colpo ogni dover essere ed ogni prospettiva teleologica. Certo non si può
asserire l’as- senza del libero arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile
affermare la sua presenza. Nel dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla
possibile esistenza del libero arbitrio, ciascuno può scegliere la propria
convinzione e, quindi, la propria strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere
ben chiaro che la sua scelta non ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti-
co, ossia soggettivo e, pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per
il solo soggetto, che ha compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel
mondo del diritto, se si attribuisce a quest’ultimo, come nella prospettiva di
Carrino, una dimensione teleologica; ma il τέλος è un fine, ossia un valore,
una scelta ed è proprio dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro
tipo dei valori, delle scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte
al tema teleologico del diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura
prevalentemente politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui
prodest; a chi giova, a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con
affermazione ancora più radicale: per quale motivo si dovrebbe reputare
superiore, più auspicabile in assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto
al Caos, il disordine, quando, come dimostra il pur discusso, in sede di
scienza fisica, principio di entropia, è quest’ultimo quello verso cui si muove
il nostro universo? Sono mere preferenze soggettive, estetiche, appunto. Il
diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio personale o collettivo. Riguardo,
in fine, all’interpretazione data da Renner delle affermazioni di Emo, penso
che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per altro, non stu- pefacente data
la generale oscurità e frammentarietà dell’opera di questo Autore. Emo si muove
nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu- sano e, soprattutto, nel solco
dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una sorta di rovesciamento
lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma come negativo viene ad
esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume il ruolo di realtà
visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è nulla è il vero
essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra fede e scienza
prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente realtà
dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta come il
vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di questa
pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni d’EMO (si veda):
L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col
tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma
della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso
dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto
perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo
ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della
negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione
cioè negazione. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già implicito
nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme all’uomo;
religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua situazione,
diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la cui
attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza sono
gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che Renner
attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo dire che
riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con estetica non
intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e neppure una
occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto
compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente
pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos
kai agathòs Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. Emo P.S. Trappola senza
uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 141 καλòς καì αγαθός degli
antichi greci, nel quale ciò che era bello aveva buone probabilità di essere
anche buono. A mero titolo esemplificativo penso possa essere utile
all’interpretazio- ne fornire da parte mia uno scenario concettuale per meglio
comprendere i dubbi, che permeano le affermazioni empiriche, ma anche quelle
metafi- siche, che agitano questo lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato
ad alcune convinzioni proprie di chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar-
bitrarie, soggettive, relative, come quelle avanzate da qualsiasi altra perso-
na. Procedendo con ordine, pare doveroso iniziare il discorso da ciò che si
crede di percepire vivendo: un continuo movimento, oscuro nel significato, ma
soprattutto, senza fondamenti di certezza non solo sulla sua origine e
direzione, ma addirittura anche sulla sua stessa esistenza. Il treno della vita
non consente discese ai passeggeri: non possiede porte d’uscita e le finestre
sono sigillate; non compie fermate; non avvertì del- la partenza, ma neppure
prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri ignorano come sia loro capitato di
salirvi; non conoscono il luogo nel quale si trovano e non sanno neppure nulla
di se stessi: come funzionino, siano solo il percepito o si sdoppino in
soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del Tutto o parte tra parti.
Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire. La fonte si localizza,
oscillando tra spazi successivi, ed immagina le successioni, il tempo. Eppure
non vi è ancora forma, ma puro sentire senza immagine: chi sente? Chi o cosa
fornisce l’immagine, quando si presenta? Tuttavia una qualche forma di immagine
deve pur esistere come riferimento sia del soggetto, sia dell’oggetto, affinché
anch’essi possano assumere una propria immagine. La forza, l’energia oscilla
senza sosta tra se stessa ed una qualche forma, modulando la propria
vibrazione, ma la forma è instabile e si liquefa continuamente nella forza,
come ghiaccio nell’acqua. Se la forza osserva vede la forma, che non esiste in
se stessa, se non è osservata. Il mondo sembra un osservatorio permanete, che
osserva se stesso in un circolo tautologico, che esiste nell’osservarsi e
l’osservarsi è il solo esistere. Forza e forma, due volti del medesimo
fenomeno. La forma si dissolve nelle metamorfosi e la forza persiste, ma non
esiste come massa senza alienarsi nella forma. Tra i due enti si instaura un
vizioso legame mutualistico indissolubile, nel quale il soggetto crea l’oggetto,
ma l’oggetto modifica a sua volta il soggetto. L’incontro dei due enti produce
il fenomeno della consapevolezza, che è solo consapevolezza di se stessi, ossia
del soggetto/oggetto. Un se stesso, oscillante tra tutto e parte, tra onda e
particella, tra forza e forma, tra energia e massa, che non ha identità
fissa. Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di osservatore, che
è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due indeterminazioni, che
si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da parte sia dell’uno
che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che costruisce oggetti e
soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la tovaglia è materiale
coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma l’essere umano è
entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo indiano o un
uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in India sia in
America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo terra ed aria
e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli elementi chimici sono
energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le forme si dissolvono. La
trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le quinte (forse ver-
gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un essere, il quale
esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del nulla (è nel
determinato essente che il nulla è essere). L’indeterminato si determina,
sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena cessa di sentire; ecco perché
non ha senso, perché è e resta indeterminato, salvo che per se stesso per un
breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco del cielo è sorretto da due
colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce abissale profondità a stelle,
galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria avvicina l’abisso,
presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere. L’empiria ci
accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, fornendoci
informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi stessi, alla
nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre, non soddisfano
per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede un corpo, di cui
manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del dolore e del senso
dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non possono neppure
trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica. Non è possibile
verificare/falsificare il valore di un biologico, che si decompone
progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio e l’altrui
si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene separati, ma
strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di cui non si
conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo esistere. Di fronte
al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue deboli certezze
pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde e cerca
risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a questo
punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della
creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento
costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è
usata da Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e metafisica, tra
materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che non relega il
trascendente nell’ambito dell’inesistenza. Il diritto come estetica un
inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova ostruita per l’essere umano,
in quanto diretta o verso una conoscenza superiore ed incompati- bile con
quella umana o verso una conoscenza individuale, soggettiva e, quindi, incerta,
relativa e prospettica. In sintesi, sia l’empiria, sia la metafi- sica svelano
l’unica conoscenza umana possibile, quella propria di Socrate e narrata da
Platone nell’Apologia: so di non sapere. Può la psicologia umana accettare un
verdetto tanto duro sul senso della propria vita? Evidentemente no ed, infatti,
le elaborazioni metafisiche si sono moltiplicate, articolate e complicate nel
tempo, mentre gli studi em- pirici hanno continuato il loro corso senza
aspirazione di completezza e di assolutezza. Il fondamento di qualsiasi
discorso continua a sfuggire e le affermazioni fisiche e metafisiche restano
come appese nel vuoto e da nulla sorrette. Forse è proprio questa loro
collocazione priva di alto e di basso, che ne impedisce la definitiva caduta o,
forse addirittura, che rende priva di senso la domanda stessa sul fondamento.
Un dato empirico tuttavia è certo: la psicologia umana tende verso la certezza
anche a costo di rinunziare al mondo dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è,
in qualche misura, connaturato con l’essere umano come il fisico; è una
componente, per così dire, strutturale dell’antropologia. Nel mondo dell’etica,
cui il diritto sino ad ora è appartenuto, queste medesime problematiche hanno
dato corpo all’ideologia ed all’utopia, alla norma morale ed a quella
giuridica, al diritto naturale ed al diritto positivo, alla giustizia ed alla
legalità, alla validità ed all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al
mi piace/non mi piace. Tutte queste alternative esprimono la tensione tra il
vissuto reale e le aspirazioni, i desideri del soggetto. In particolare,
l’ultima alternativa ricordata apre la strada, che conduce dal diritto come
obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento del dover essere avviene
con la constatazione empirica, che le scelte umane sono Infatti, operando con una logica (quella
apofatica) che nega ogni proposizione assertiva (ed esaustiva) in merito alla
verità di qualsiasi ente – ma invece proponendovi l’inclusione di ogni
possibilità – si giunge a questo risultato che auspicava Nicolò Cusano con il
suo De docta ignorantia. Si giunge a un non-sapere che include ogni sapere e
viceversa: allo stesso modo in cui l’Essere-Uno – che non è un essere specifico
– include in sé tutti gli esseri a cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere
non è, gerarchicamente, estraneo e al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche
modo dominato e esautorato – ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne
è, pienamente, partecipe, pur essendone abissalmente lontano. Così come il
molteplice è l’espressione ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione
teofanica. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Corbin, in Corbin, Il
paradosso del monoteismo, Mimesis, Milano-Udine Premessa guidate dal piacere e
non dal dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover essere e
piacere divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e,
contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo
purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere,
la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del comportamento
umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti conoscitivi
uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni
demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile
illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia
assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Aνάγκη, la dea Τύχη,
le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto sorridono,
interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo. Ringraziamenti
Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare ringra-
ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e disponibilità ad
ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il fraterno impegno con il
quale ha setacciato i concetti del mio scritto, evidenziando proble- matiche a
me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i moltissimi suoi impegni di
misericordia, ha voluto aggiungere, con antica amicizia, anche quello verso il
mio scritto. Capo di Ponte, La frase, come risulta dalla lettera, riguarda
esclusivamente l’Albero della scienza, della conoscenza del bene e del male,
non anche l’Albero della vita, che pure era presente nel Giardino dell’Eden2.
Di quest’ultimo, dunque, Adamo ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti.
Per ora la no- tazione può apparire irrilevante, ma in seguito risulterà
determinante, poi- ché evidenzia che nel Paradiso terreste i nostri progenitori
erano immortali ed, infatti, compartecipavano della conoscenza divina. La prima
evidenza che colpisce il giurista nella narrazione biblica della cacciata di
Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dall’Eden è il concetto di colpa, la
quale, per necessità logica, presuppone ed è indissolubilmente legata ai
concetti di conoscenza e di responsabilità. Se l’albero, del quale mangiano il
frutto, è l’albero della conoscenza del bene e del male, ossia della
consapevolezza morale del proprio comportamento, non si compren- de come sia
possibile emettere da parte di una divinità come da parte di un essere umano un
verdetto, una sentenza di condanna per azioni commesse 1 Genesi Ora il Signore
Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da
lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e
buono a mangiarsi; inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e
l’albero della scienza del bene e del male. Genesi da esseri inconsapevoli, per
così dire, innocenti dal punto di vista sia del- la volontà, sia della
conoscenza, in quanto, appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei
concetti di bene e di male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la
ragione, da cui la teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste,
è la ragione divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non
può essere definita come razionalistica. Se è la ragione conoscitiva a statuire
norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del male,
allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che
statuisce norme, cioè della ragion pratica. In questa versione, il concetto
risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la conoscenza del
bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero. L’essenza di Dio è
nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male; sapendolo, egli vuole
anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo sapere coincide con il
suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è questa la ragione divina di
cui l’uomo si appropria col peccato originale. Ma è proprio questa la ragione
di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere umano o, piuttosto, esistono
due diverse ragioni, quella divina, universale, e quella umana, particolare, ed
è della conquista di quest’ultima, che il mito dell’Albero della conoscenza del
bene e del male parla? Probabilmente l’interpretazione della simbologia biblica
deve spingersi oltre, più in profondità, del concetto di acquisizione della
responsabilità (conoscenza del bene e del male) attraverso la colpa: un colpa
che non pre- suppone apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e
scaturisce da una disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra
cultura, ormai atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti
e sanzioni, a condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del
mito della mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso
esistere come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come
nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare
simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del
brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma
sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni
condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla
consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della
norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e Kelsen,
Il problema della giustizia, Einaudi, Torino ciò che non si può fare; ciò che
si può fare è bene, ciò che non si può fare è male. Ma bene e male possiedono
almeno due diverse dimensioni: quella assoluta del bene e del male universale e
quella relativa del bene e del male propria di colui che agisce, del suo modo
di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi ed i comportamenti. Dio disse di
non mangiare: sembra un comando eteronomo e, quindi, in quanto tale, pare
contrapporre un divieto divino ad un giudizio e comportamento umano. Questa
interpretazione, per altro condivisa anche da Ross, viene rafforzata dalla
presunta sanzione comminata: se ne mangerai morirai. Ma si tratta
effettivamente di una norma giuridica o morale dotata di sanzione oppure si
tratta di un mero avvertimento, della descrizione di una sorta di legge
naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche e che prevedono, ad
esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di un comando o di una
descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario risalire alla situazione
di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una situazione di
separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma comunione;
conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina, che
permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere, dunque,
erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in una tale
situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo luogo,
perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in secondo
luogo, perché un comando comporta volontà diverse, mentre, in questo caso, come
vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà. Desiderando il
frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo svincolare la
conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoaffermazione
dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del buono,
del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della pace,
perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può essere a
fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uomo, sua
immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia,
cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già
in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- Il peccato nacque
quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di
Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una
conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura
e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e
la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti
dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross,
Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano plarla nell’albero della
conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono conosciuti dall’uomo
insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica giusta conoscenza del bene
e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È con gli occhi di Dio che
l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli occhi di un altro e gioire
di questa intimità è proprio delle persone che si amano. Nell’a- more è la
tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e con il suo amore. Proprio
nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della conoscenza del bene e del
male, perché proprio lì in qualche maniera si incrociano gli sguar- di tra Dio
e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria, quindi di una tentazione. Guardare
può diventare desiderare, e desiderare prendere. Il rapporto tra Dio e l’essere
umano in quella dimensione di equilibrio creazionistico, tutto racchiuso nello
spazio/tempo divino dell’Eden, era di completa compartecipazione, e non proprio
di identità (a sua immagine e somiglianza. L’identità dell’immagine non
appartiene ad un semplice fenomeno visivo, ma si estende anche alla dimensione
cognitiva, sebbene non in modo completo (somiglianza). Il derivato non
partecipa a pieno titolo di tutti i caratteri del derivante, ma certo ne
incarna una rilevante porzione. Conseguentemente Adamo ed Eva non erano privi
di conoscenza e, quindi, anche di responsabilità, ma partecipavano della
medesima cono- scenza divina, della conoscenza propria dell’Uno e del Tutto.
L’uomo abbandonerà Dio e la proposta della tentazione acquisterà sempre più un
aspetto di verità. Poiché l’uomo non è più nella contemplazione dell’albero
della conoscenza, ma è ormai scivolato nella logica della posses- sione, gli
rimane solo il male, ossia la necessità di possedere. Sganciandosi dall’amore,
da quella intimità con Dio nella quale ha potuto conoscere che cosa è bene e
che cosa è male per lui, finisce essenzialmente posseduto dalla necessità di
possedere per salvarsi6. La conoscenza divina, della quale erano compartecipi
nell’Eden Adamo ed Eva, era universale, assoluta, non prospettica, ma posseduta
a tutto tondo nella dimensione della totalità degli eventi di un Essere, che
racchiude in sé ogni evento. Il comando, dunque, di non mangiare la mela, la
proibi- zione non si presenta come un atto di volontà eteronoma rispetto ad
Adamo Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma Rupnik, Il
Dio degli Dei, lo Spirito assoluto, permane in eterno, al di là della
conoscenza che può averne la religione in questo mondo. La storia non è il
luogo del divenire della coscienza divina suprema”. H. Corbin, Il paradosso del
monoteismo, ed Eva, ma come una informazione, un avvertimento, una descrizione
di ciò che avviene quando dall’unità si passa alla molteplicità, quando
l’assoluto cede il passo al relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò
che appare come condanna altro non è se non descrizione di ciò che accade nel
relativo, di ciò che produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela
è un frutto commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe
simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla
leggendaria mela di Newton, in contrapposizione ad una conoscenza divina ed
assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di abbandonare l’unione con
il divino, per vivere una propria vita separata, individuale ed autonoma,
dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e prospettica, non più
oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale, la tentazione spinge
l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè dalla persona
all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con Dio e a Dio,
poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col ritrovarsi a
desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza.
L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto,
ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo interlocutore
fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà dialogica, non può fare
a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è l’interlocutore di questo
dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più un oggetto. Percepirà se
stesso come un oggetto e si relazionerà agli altri come ad oggetti. Anzi, li
considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso dopo il peccato originale
sarà un passo ulteriore in questa reificazione spersonalizzante dell’uomo8. La
ribellione al comando divino (meglio, l’avere ignorato la descrizio- ne divina)
non consiste nell’infrangere un divieto, ma nel desiderare una propria
personalità individuale, separata dal Tutto, soggettiva, ma questa soggettività
si trasforma in oggetto del Tutto; abbandonata la soggettività del Tutto ciò
che resta, come parte, è una soggettività relativa, ossia una reificazione
rispetto al Tutto: il peccato originale, infatti, si presenta come separazione,
rottura del Tutto nelle sue molteplici parti, come oggetti della soggettività
universale. Una prima rottura nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta
dalla creazione, poiché essa fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze:
somiglianza con Dio, non identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva:
Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua. Mandò dunque il
Signore Dio ad Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli
tolse una delle coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che
aveva tolta ad Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E
disse Adamo: “Ecco, questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne;
questa sarà chiamata virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo
lascerà il padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in
un corpo solo”9. Tale rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile,
poiché frutto di una medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che
riconduce ad unità ciò che appare altro, diverso, separato (saranno due in un
corpo solo; rebis di alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo
diverso, separato in apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza,
a patrocinare ed ad attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe
per attrattiva verso l’individualità, una individualità nuova, il due, appun-
to. Il serpente sembra rappresentare questa attrazione verso il particolare,
verso la separazione -- diavolo da διάβαλος, colui che divide. La massa della
materia (il serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia
omogenea e priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si
separano dallo spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equazione d’Einstein
della conversione, dell’oscillazione, della compresenza (tra?) di energia e
massa in un sistema fisico, che ha superato la visione propria di un
materialismo legato solo al visibile, all’oggettivato: E=mc2. Corbin ben
sintetizza il tema dell’individualizzazione, dell’oggettivizzazione nel
paradosso (ossimoro?) dell’unità molteplice: È la visione della molteplicità
nell’unità. È la visione dell’unità nella molteplicità. Le due interpretazioni
si completano l’un l’altra necessariamente: l’ontologia integrale presuppone
nel perfetto Saggio la visione simultanea dell’unità nella pluralità e della
pluralità nell’unità. È attraverso questa simul- taneità che si effettua la
differenziazione seconda, quella stessa in forza della Genesi quale il
pluralismo metafisico si trova fondato a partire dall’Uno – senza di esso non
vi sarebbero i molti, ma caos e indifferenziazione. I nostri simbolici
progenitori, Adamo ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza divina, assumono,
come loro conoscenza specifica, quella umana e, dunque, divengono prigionieri
di tale conoscenza limitata, che comporta anche la comparsa di fatiche, dolori
e morte. La separazione è un divenire altro dal Tutto, conseguentemente,
all’immutabilità dell’Essere subentra il divenire con le sue opposizioni,
polarizzazioni: essere e non essere, fatica e riposo, dolore e piacere, morte e
vita, etc.. Il divenire non può esistere senza l’alternarsi di manifestazioni
diverse, ossia, soprattutto, non può esistere senza la morte, intesa come
termine di una manifestazione ed inizio di una nuova manifestazione. La morte,
dunque, come nell’ammonimento di Dio, è indissolubilmente legata alla
conoscenza umana, simbolicamente rappresentata dal cibarsi della mela. A questo
punto risulta ormai eviden- te che Adamo ed Eva non potranno più cibarsi dei
frutti dell’altro albero presente nell’Eden, dell’Albero della vita, dei quali sino
a quel momento potevano godere. I frutti dell’Albero della vita donano la vita
eterna, ma la conoscenza ed il divenire umani impediscono l’eternità, ciò che è
eterno non conosce solo la parte, ma conosce direttamente il Tutto, e non
diviene, ma permane sempre immutato uguale a se stesso. La parte, in quanto
limitata non può sfuggire alla morte. Particolarmente penetrante si presenta la
puntualizzazione di Nietzsche: L’albero della conoscenza. – Verosimiglianza, ma
non verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti che l’albero della
conoscenza non può venir scambiato per l’albero della vita. Alle considerazioni
mitologico-religiose sino a questo punto svolte pos- sono ora essere aggiunte
altre ed ulteriori considerazioni di natura più strettamente filosofica. Se il
divenire condanna, prima, la parte a distinguersi da un’altra parte e,
successivamente, la stessa parte ad essere se stessa e, poi, a trasformarsi in
altro, allora il divenire appare come un alternarsi di essere e di non essere.
Il tema è antico e vide già contrapposti il pensiero di Eraclito, con il suo
πάντα ρει a quello di Parmenide di VELIA (si veda), sostenitore di un Essere
che non può non essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente
rilevabile il non Corbin, Il paradosso del monoteismo Nietzsche, Umano, troppo
umano II, in Opere Newton, Roma essere è di problematica individuazione.
Rilevabile, invece, con estrema facilità è l’essere e l’essere altro come
espressione del divenire. Ma a livel- lo logico, secondo il principio di
identità, l’essere è solo se stesso e l’essere altro non è continuità
dell’essere iniziale, ma un diverso essere a sua volta uguale solo a se stesso.
La logica parmenidea, ampiamente sviluppata ai nostri giorni da SEVERINO (si
veda), nega nella sostanza il divenire e costruisce una logica di identità
degli eterni, che si separa e distingue dalla logica dialettica del divenire.
La logica degli eterni si addice ad un mondo metafisico, proprio del divino;
mentre la logica dialettica, empiricamente verificabile/falsificabile, pare
tipica degli esseri umani. Commentando Corbin, Bonvecchio in proposito ricorda:
oltre che teologica – la modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di
rapportarsi al divino ha costruito una vera e propria logica (di ascendenza
aristotelico-scientifica). Anzi, si può affermare che si è affermata come la
base stessa della logica occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre
che dogmati- camente) – nella costruzione del discorso – la possibilità di
affermare in manie- ra indiscutibile le caratteristiche di un ente.
Caratteristiche che ne esprimono la verità che si ritiene assoluta, se si
ottemperano determinate condizioni logico- razionali (principio di non
contraddizione, principio del terzo escluso, etc.). Tuttavia, questa verità non
consente mai un rapporto partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal
discorso la dimensione dell’Essere che è l’unica che fa di un ente un ente
esistente. Ciò che conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è
tanto l’affermarsi nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto
piuttosto la constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità
di un dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico
del Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della
conoscenza del bene e del male e quello della vita appare ancora più
indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva
umana del divenire, che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte.
Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste,
quindi torna nel nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella
quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive DONÀ
(si veda): Cfr. SEVERINO (si veda) Immortalità
e destino, Rizzoli, Milano. Ed anche del medesimo Autore: L’identità del
destino, Rizzoli, Milano Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Corbin, in Corbin,
Il paradosso del monoteismo, nel testo biblico l’Albero della Vita o delle vite,
al plurale, come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare, molto
probabilmente, l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una verità
che solo l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci
innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre
ancora possibile che caratterizza appunto l’Albero della Vita. Ossia, la
speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad
ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte.
Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che
avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da
quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente
portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare
dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile
dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos
avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante
il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente
limitato – ossia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa
intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla
posto di là dalla positività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso
medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del
male assoluto. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire teologica,
rileva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben due diverse
logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima conclusione. Alla
logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del divenire, dell’essere
altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di possi- bilità
empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a principi
considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori necessità di-
mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono essere definiti a
priori. La seconda, invece, completamente costruita a posteriori, grazie alla
percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si potrebbe dire, sempre in
terminologia kantiana, categoriale degli eventi. Quest’ultima logica si limita
a descrivere una realtà fenomenologica umana e, come tale, relativa, quindi,
senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche realtà assolute e
metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica dell’Assoluto, tra
l’Albero della Conoscenza e la realtà di separazione sembra ribadito dalla
Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e del crollo della Torre
di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata dall’albero, qualsiasi
albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene ricercata, in questo caso,
14 DONÀ (si veda), Parmenide di VELIA (si veda). Dell’essere e del nulla, Albo
Versorio, Milano attraverso un’opera di architettura, che sfida altezza e forza
di gravità, ma nel crollo di questo asse umano-divino si dissolve
l’universalità della pa- rola, intesa anche nella sua accezione più estesa di
logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice universale. La terra era tutta
d’una sola lingua e d’una sola parlata. Ma il Signore discese per vedere la
città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e dice. Ecco, è un
popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno cominciato a far questo
lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non l’abbiano condotto a
termine. Andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo ivi le loro lingue, così
che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo. Il Tutto diviso in parti
si differenzia e perde di unitarietà. Ciascuno divie- ne consapevole di sé, ma
solo di se stesso; gli altri mutano in esseri ignoti, estranei. La metafora
della confusione delle lingue, ancora una volta, non suona come condanna divina,
ma come descrizione delle conseguenze de- rivate dalla separazione delle parti
dal Tutto16. L’essere umano, in quanto parte del Tutto, non ha né colpe, né
meriti, ma solo caratteri suoi propri, che si separano e divergono da quelli
divini: Genesi. Diventare un solo popolo, sotto una istituzione – la lingua
sola – è qui, chiaramente, l’espressione della hýbris degli uomini, del loro
istinto auto- idolatrico: così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma
sottinteso. Ma la questione più interessante, sulla quale ha richiamato
l’attenzione Stefano Levi della Torre nel suo splendido e illuminante Zone di
turbolenza, è se la misura presa da Dio – la dispersione su tutta la terra e la
confusione delle lingue – sia la punizione per un grande male (come nel caso di
Caino reso ramingo e fuggiasco) o la garanzia di un grande bene.
L’interpretazione di Levi, in breve, è che la distruzione della città
dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle lingue, rese incomprensibili l’una
all’altra, e la dispersione dei popoli in lungo e in largo sulla terra, tutto
ciò è una moltiplicazione delle culture e delle istituzioni, un antidoto
all’idolatria del pensiero e del potere unico, una garanzia di pluralità delle
visioni del mondo e del modo di vivere nel mondo. Secondo questa profonda
interpretazione, la civitas maxima non è altro che idolatria. Zagrebelschy, La
virtù del dubbio, Editori Laterza, Roma-Bari è relativo e non assoluto; è
finito e non infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In
conseguenza di queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti
drammatici, che videro come scenario il Para- diso terreste, non possono essere
incasellati nella concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la
morale: alla colpa consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale,
proprio in quanto responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti
vengono chiaramente espressi a livello sia morale che giuridico da Ross: L’idea
che esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon-
sabilità giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la
colpa viene collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui
si chiama riprovazione. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere
una responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu
commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta
accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a
quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità. Nel caso
dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non
solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa,
responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il
divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere
che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia
una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo,
un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni
mortale) tesa a descrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata
come pericolosa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a dei
soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua
stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu
neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece,
responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva
avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve
essere rinviata, in quanto strettamente dipen- [Ross, Colpa, responsabilità e
pena] dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio.
Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la triste
condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature.
Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata,
nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e
differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur
imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno
dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio
genetico, ma può veramente essere considerato semplicemente uno svantaggio
esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa
del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui
quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di
comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare
prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di
natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione
prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed
anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle
lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo
attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia
empiricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometrico;
così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una
consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e
non certo solo per l’autorità di Descartes; altra e ben diversa questione è
comprendere se esista e che caratteri manifesti la consapevolezza di se stesso
propria del Tutto. Certo la parte partecipa del Tutto e, quindi, pare arduo
pensare che ad una limitata consapevolezza della parte non corrisponda una
illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia nulla può essere escluso
senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente umana ed, inoltre, resta
comunque impregiudicato il tema della qualità, delle caratteristiche di questa
eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia sicuramente non possiedono
un carattere di autocoscienza, di consapevolezza uguale a quello proprio
dell’essere umano, ma neppure la massa (materia individualizzata) possiede
livelli omogenei di autocoscienza, di consapevolezza, almeno per quanto si
conosce attualmente, nelle sue molteplici articolazioni, nelle sue diverse
parti. I minerali, i vegetali, gli animali e l’animale umano percepiscono se
stessi ed il mondo a loro presupposto esterno in modi molto diversi ed in modi
altrettanto diversi reagiscono, interagiscono con l’ambiente circostante. Il
Tutto, come somma di tutte le singole parti o come entità ulteriore, può,
e secondo quali modalità, percepire se stesso? Una possibile risposta
passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia che, permeando ogni cosa,
ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in qualità diversa, consente
questa generale, universale consapevolezza eterna di sé; una sorta di anima
individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è solo prospettiva diversa),
di anima mundi. Bene e male rappresentano una dualità, che acquista significato
solo in un mondo scisso, a sua volta, in un bipolarismo oscillante tra un polo,
espressione di assoluto, ed un secondo polo, espressione di relativo, il quale
subisce il giudizio del primo: buono o cattivo, appunto, rispettivamente nelle
sue singole e molteplici manifestazioni comportamentali. Quest’ultimo
bipolarismo non riguarda solo la distinzione tra dover essere ed essere, ma si
articola ulteriormente in quel dualismo del dover essere perennemente in
tensione tra valori assoluti e valori relativi: i primi frutto della dimen-
sione assoluta del Tutto ed i secondi propri della dimensione relativa delle
parti del Tutto. La dimensione relativa della bipolarità etica consente solo
l’espressione di formule valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del
soggetto, della parte che le esprime; del resto anche la dimensione assoluta
non riesce a fornire un contenuto etico certo, ma si limita a proporre for-
mule o dogmatiche oppure vuote di contenuto, prive di precise indicazioni
comportamentali, come, ad esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno
alla giustizia: unicuique suum tribuere. Il problema irrisolto riguarda il
significato, cosa si intenda per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità
del principio generale, che potrebbe anche consistere nell’attribuire a
ciascuno l’altrui e non il proprio o, addirittura non riconoscere l’esistenza
di un proprio. Il problema può essere superato solo distinguendo la cono-
scenza umana, cui si riferiscono queste aporie, dalla conoscenza divina, che,
in quanto assoluta, non può incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può
competere all’essere umano se non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si
complica, poiché nella storia della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa
dell’Assoluto, del metafisico, in quanto non empiricamente percepibile e,
quindi, problematico per la conoscenza umana, è stata messa in discussione.
Pertanto questo argomento si è sviluppato secondo due di- versi percorsi
culturali, l’uno monista e l’altro dualista; il primo sostenitore di una realtà
unitaria, nella quale fisica e metafisica si sintetizzano o si escludono a
vicenda, ed il secondo portatore di una visione separata dei due piani del
reale, anche se in qualche modo comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra
poco. Oltre alla possibilità alternativa dell’esistenza di una logica divina e
di una umana si presenta anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di
logica, come risultato dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo
silenzio, oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Cusano con
l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha
nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per
accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità,
perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile.
Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra
la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino,
l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche
l’estraneazione dall’Assoluto, che assume una dimensione impenetrabile,
misteriosa. L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura
e, quindi, anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non
appartiene al mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico
alienato nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile
abisso, che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue
parti. Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine. Carcharias Taurus è
il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una
caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura biologica.
Lo squalo toro, infatti, è noto per praticare il cannibalismo intrauterino;
ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri embrioni presenti
nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo biologico, giacché
il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la fotosintesi
clorofilliana). La vita è, dunque, indissolubilmente legata alla morte in un
perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors tua vita mea.
La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di sopravvivenza per un
altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si esaurisce direttamente
con la procreazione, evidenziando in tale modo l’irrilevanza della vita del
singolo individuo e la sua funzionalità esclusivamente orientata alla
continuazione della specie. Lo scenario di morte, nel quale viene ambientata la
vita biologica, si completa anche con la lotta per la vita, che pervade, permea
ogni entità vivente. La lotta si dispiega all’esterno dei corpi per
l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in una forma di dominio del
più forte sul più debole, ma anche al loro interno, poiché miliardi di
microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari) combattono
continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi, che li
contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro ridottissime
dimensioni, riescono ad avere il sopravvento, dimostrandosi più forti del loro
ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si estinguono, se non
raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e sovrabbondanza numerica.
Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la struttura (si po- trebbe
usare anche il termine ontologia se non fosse troppo compromesso con visioni
metafisiche) profonda della natura del biologico. Non si creda, poi, di
sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a forme, più o meno
radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche il mondo
vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la discriminazione
etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così non si comprende
la sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di quella animale.
Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica gerarchia delle
esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il vegetale alla
base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba saltare un
gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità
gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo
biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la
quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello
sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere
delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la
nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e
dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso
del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico
verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale
del biologico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino
d’Ippona, ma molto più probabilmente di Chiaravalle, con la quale si descrive
la nascita dell’essere umano: inter faeces et urinam nascimur. La nascita,
dalla cellula all’essere umano, è una cruenta rottura dell’individualità, una
separazione di materiale organico, una fuo- riuscita di un ente da un altro
ente, il numero uno che produce un altro uno, dando il via con il numero due
alla catena dei molti. Quanto, poi, alla morte basta visitare ospedali, case di
riposo per anziani e cimiteri per chiarirsi le idee intorno al dolore, al
decadimento psico-fisico ed... all’approvvigiona- mento alimentare di
microorganismi, vermi ed insetti vari, messi in fuga solo dal fuoco liberatore
della cremazione. Il tragico disvelamento della triste condizione del
biologico, in genera- le, ed umana, in particolare, è presente in quasi tutte
le religioni, le quali, infatti, tendono a costruire speranze in un mondo non
più biologico ed a porre al centro dei vari culti il concetto di sacrificio:
sacrificio, in epoche arcaiche, non solo animale e vegetale, ma anche umano, a
favore del divino. Il Cristianesimo, con ulteriore lucidità intorno alla
condizione umana, poi, ha addirittura capovolto i termini del mistero
sacrificale, rovesciando ed integrando il sacrificio umano nei confronto della
divinità con il sacrificio divino in favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia
rivive svelata l’ontologia del biologico umano e la sua speranza di redenzione,
liberazione attraverso il sacrificio del Cristo. Il fedele cristiano, infatti,
beve il sangue Ma se Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi
della vittima, questo è accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha
instaurato la suprema legge e mangia il corpo del Redentore; si nutre del
divino per sfuggire all’orrore del biologico, per aspirare ad una vita priva di
dolore ed eterna in Dio. Il Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed
umano, ricostruire il ponte crollato, riportare la riconciliazione e l’unione
tra le parti ed il Tutto. La struttura del nostro mondo è stata descritta con
estremo realismo da Spinoza: Per diritto e istituto naturale, non intendo altro
che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali
concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un
certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare
e i grandi mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i
pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti
certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò
che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove
si estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio,
il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale
dell’intera natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui,
ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo
potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la
sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa
si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione
di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a
pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è
naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli
uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di
ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi
e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua
natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne
ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione.
Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per
cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai
la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a
ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni
illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus,
Bollati Boringhieri, Torino Il sangue, la carne, il vino, il pane, l’acqua, il
cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se avviene che io sia
sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua assumerà il colore del
sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il colore della carne, e
il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo figlio dell’Etiope
stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò in Egitto, essendo
pieno di magie. E. Bresciani, Testi religiosi dell’antico Egitto, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano Il testo è ambientato ai tempi del faraone Ramesse,
dinastia, Cfr. anche. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata
Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico,
Mimesis, Milano in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla natura, né
può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la grandezza,
come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è chiaro:
ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria natura; la
gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma anche l’essere
umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una particolare
espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a ciascuno
caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice della
natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più potenti
prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento, per, poi,
comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento,
dell’indebolimento, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa
visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per
ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma
la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la
mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto
in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata
da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe
facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla
luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione
etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e
dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le
parole di Leopardi nel Dialogo della natura e di un islandese: Natura. Tu
mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo
circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di ma- niera,
che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo;
il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimen- ti in
dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna
libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi.
Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a
poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa
dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo,
conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono? Spinoza,
Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino Leopardi, Operette morali,
Rizzoli, Milano La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno
il grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem-
pio di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista
non si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’alternativa,
ma di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale
unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito della pura illusione
(Velo di Maya, espressione con la quale Schopenhauer si richiama alla religione
induista), all’ambito di un sogno che potrebbe appartenere anche solo al
soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe esistere solo
nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse est percipi).
Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo senza sacrificare
la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che tutto comprende,
seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni specificità, ogni
particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e la potenza di
Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di Dio, si deve
senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che le sue leggi
sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso
intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo sentimento, di
fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è posto la
domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo del
percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile trovare
risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale, verso un
reale immaginato solo nella mente, ma non soggetto a verifica/falsificazione
empirica. L’operazione si è fondata su un modello dualista di negazione del
sensibile e di contemporanea affermazione del suo esatto contrario: soffro la
morte ed allora affermo l’esistenza della vita eterna, a mero titolo d’esempio.
Una approfondita descrizione ed analisi di tale operazione, applicata alla
religione ed, in particolare, al Cristianesimo, la si può trovare nell’opera di
Feuerbach Ragione e fede si sono contese questo mondo astratto dell’immagina-
rio, che ha duplicato l’universo, spiegando il senso del percepibile senso-
rialmente attraverso il non percepibile sensorialmente. Spinoza, Trattato
teologico-politico Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972;
del medesimo Autore, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano Cfr.
Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari. Sul piano razionale sono
stati elaborati assiomi, principi primi imme- diatamente evidenti, ma non
dimostrabili, concetti a priori, ossia ancora non dimostrabili, ed operazioni
logiche, teorie e teoremi, ossia descrizioni di una qualche realtà esistente,
validi solo se vengono accolti i presup- posti non empirici, dai quali prendono
le mosse. Del resto, è ormai noto dai teoremi di incompletezza di Gödel, che è
possibile definire formule logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè
siano autoreferenziate. Si tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto
notevoli conseguenza in ambito matematico e geometrico, ma che possono essere
estesi a qualsiasi sistema formale. Particolarmente significativo ai fini delle
riflessioni qui svolte sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello
relativo alla indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa
coerenza, ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le
premesse già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia
(affermazione vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento
sono interessanti anche le parole di Russell: I grandi scandali della filosofia
della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e l’induzione. Ad
ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra credenza è una fede
cieca che non poggia su alcuna prova razionale. Se noi sottolineiamo il fatto
che la nostra credenza nella causalità e nell’induzione è irrazionale, dobbiamo
inferire che non sappiamo se la scienza sia vera, e che da un momento all’altro
essa potrebbe anche cessare di darci quel controllo sul nostro ambiente per
amor del quale essa ci piace. La ragione, dunque, duplica il mondo secondo il
modello proprio di René Descartes tra res extensa e res cogitans: la prima
riferibile ai cor- pi fisici e la seconda al pensiero dell’essere umano. La
distinzione pare speculare a quella tra materia e spirito, ma ne diverge
perché, mentre la distinzione cartesiana potrebbe sussistere anche all’interno
di un sistema immanentista monistico, tutto incentrato sull’essere umano come
modello di unificazione, nel quale i due termini tendano rispettivamente ad
identificarsi con l’alternativa concreto/astratto, la separazione tra materia e
spirito, invece, è per necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono
vicen- devolmente come espressione di mondi diversi: fisico e metafisico.
Heidegger va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo,
presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente Russell, Saggi scettici,
Longanesi Milano. Cartesio non si fa offrire il modo d’essere dell’ente
intramondano da questo ente, bensì, in base a un’idea di essere non
disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo diritto (essere =
esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al mondo il suo essere
autentico. Non è dunque primariamente il ricorso a una scienza, guarda caso
particolarmente apprezzata, come la matematica, a determinare l’ontologia del
mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente ontologica verso l’essere inteso
come esser-stabilmente-sottomano, alla quale la conoscenza matematica soddisfa
in modo eccezionale. Cartesio opera così filosoficamente in modo esplicito la
commutazione degli esiti dell’ontologia tradizionale sulla fisica matematica
moderna e sui suoi fondamenti trascendentali. Del resto anche Heisenberg rileva
la problematici- tà euristica della divisione cartesiana soprattutto alla luce
del principio di indeterminazione. In realtà non erano in gioco soltanto degli
esperimenti fisici, ma autentiche posizioni filosofiche. Qui la vecchia
concezione, radicata fin da Cartesio, della divisione tra un mondo oggettivo,
svolgentesi nello spazio e nel tempo, e un’anima da esso separata, in cui esso
si rispecchia, entrava in conflitto con le nuove vedute, alla cui luce non era
più possibile compiere quella divisione nel rudimentale modo precedente. Oltre
la ragione, meglio, prescindendo dalla ragione, però, si è presentata
all’essere umano, come via d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze
del quotidiano vivere anche un altro strumento mentale: la fede, spesso
interpretata più come un dono divino che come una conquista personale.
Nell’ambito della fede il campo sembra apparentemente occupato in modo completo
dalle religioni, ma non è possibile tacere che anche talune con- vinzioni
filosofiche (paradosso di Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele
Severino) od anche scientifiche (teoria delle stringhe, delle brane, Heidegger,
Essere e tempo, Mondadori, Milano Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica
moderna, Sellerio Editore, Palermo La fede essenzialmente una negazione
implicita o violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per tutti una
prigione: ma, fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la fede insegna
a negare queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La scienza è invece
una affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna di liberarci
della realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede invece vuole
insegnarci a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza appare come
superiore alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla negazione”. EMO
(si veda), Il Dio negativo. Scritti teorici Marsilio, Venezia degli universi paralleli e
multidimensionali) sono sorrette più da dogmi, da assiomi logici, da teorie
indimostrabili e da convinzioni personali che da prove empiriche. Esempio
tipico di dualismo è rappresentato dal sistema filosofico di Pla- tone . Il
mondo empirico si presenta come l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella
quale la perfezione dei modelli informa di sé le copie degradate della realtà
in cui vive l’essere umano. Gli archetipi, le idee delle qualità e degli Enti
emanano perfezione, immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come
la vera ontologia del mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria
imperfezione e provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo
iperuranico, metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la
volta celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria,
sottraendo il concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo
all’elaborazione razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di
quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché
bisogna pure avere il co- raggio di dire la verità soprattutto quando il
discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza
incolore, informe ed intangibile, contem- plabile solo dall’intelletto, pilota
dell’anima, quella essenza che è scaturigi- ne della vera scienza. Ora il
pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il
pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per
cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si
nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al
medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede
la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire,
né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella
scienza che è nell’essere che veramente è. Il mito della caverna e delle sue
ombre, proiettate sulla roccia, descrive una conoscenza limitata, tutta ed
esclusivamente umana, che può presen- tarsi completa solo nel momento in cui
riesce ad uscire all’aperto e conquistare la luce delle idee pure: una
conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta da Platone, poiché
quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza. Dentro una dimora
sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce, pensa di vedere
degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, .
Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra il fuoco e i
prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa Platone, Fedro, in Tutto
Platone, Laterza, Bari] pensa di vedere costruito un murricciolo, come quegli
schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra
di essi i burattini. Immagina di vedere uomini che portano lungo il murricciolo
oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, . Strana immagine è la tua, disse,
e strani sono questi prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali
persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre
proiettate dal fuo- co sulla parete della caverna che sta loro di fronte?13.
Come si è già fatto cenno, il pensiero religioso presuppone già di per se
stesso un dualismo del reale: la realtà divina crea la realtà umana ed esse
vivono separate nella costante tensione di quest’ultima verso la prima: il
ritorno alla casa del Padre. Esempio particolarmente significativo in questo
senso è il pensiero gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune
risalgono al mondo antico ed altre fioriscono nell’alveo del cristianesimo, ma
comunque tutte hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In primo luogo,
il mondo umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In secondo
luogo, lo spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere umano è
racchiusa, come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma- teria. In
terzo luogo, è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei corpi
umani di risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna del
divino. La dottrina di Simon Mago, descritta con spirito critico cristiano da
Ireneo sembra particolarmente utile per rilevare gli elementi gnostici più
caratterizzanti di questo pensiero: Se infatti alcuni caratteri presentano
chiara impronta gnostica (ostilità degli angeli arconti verso Dio e verso
l’uomo, imprigionamento dell’elemento divino nel corpo umano), altri sembrano
estranei a questa esperienza: diviniz- zazione di Simone, cioè del capostipite
della setta, e di Elena, e la loro pretesa immortalità; mancanza di una
specifica colpa che spieghi l’imprigionamento dell’elemento divino nel corpo;
redenzione del credente solo grazie alla cono- scenza della natura divina di
Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon- damentale il riconoscimento
dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé; assenza del Demiurgo,
creatore del mondo, e della componente giudaica in genere: il personaggio
femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed Elena. Anche tenuto conto
che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che appare influenzata da tratti
tipicamente cristiani e perciò non è di facile apprezzamento, si ha
l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta allo gnosticismo vero e
proprio, senza esserci ancora giunti Platone, Repubblica, in Tutto Platone Simonetti,
Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo nell’attesa di una sua
riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del mondo empirico cer- ca,
dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per questo meno probabile
del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i dualismi
concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente l’origine del
concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi percorrono sia le
visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre,
finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso
carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in esse è già
insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma
anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di continuità
dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del
resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo
con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza consente
l’emergere di tutti gli altri numeri ed, in effetti, rotta l’unicità
dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico
prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in
precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti
dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente
significativo, poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga
generalmente considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra
giudizi di fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione
di Hume, nella quale si distingue ciò che può essere predicato di falsità o di
verità attraverso la verifica empirica, sono i soli giudizi di fatto, e ciò che
può essere predicato di buono o di cat- tivo, di giusto o di ingiusto, di bello
o di brutto, in quanto non sottoponibile a verifica empirica, sono i giudizi di
valore. Il dualismo immediatamente evidente tra oggettività empirica e
soggettività umana, nasconde un altro dualismo ben più rilevante per la visione
dualistica del reale, quello tra valori relativi e valori assoluti; infatti
questi ultimi non possono che pre- supporre per avere senso nella loro
indiscutibile veridicità una dimensione a sua volta assoluta, alla quale essi
appartengono. Tale dimensione può essere anche meramente razionale, ma più
frequentemente ha natura tra- scendente e religiosa. Kant, infatti, accanto ad
una ragion pura e pratica pone anche una dimensione noumenica. Ghezzi, La distinción entre
hechos y valores en el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad Externado de
Colombia, Bogotá. Nell’antinomia
della ragion pura speculativa si trova un contrasto simile [impossibilità del
sommo bene secondo regole pratiche e, quindi fantasiosità ed inutilità della
legge morale, n.d.r.] fra necessità naturale, e libertà nella cau- salità degli
eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se
gli eventi, ed anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come
appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e medesimo
essere, agente come fenomeno (anche davanti al proprio senso interno), ha una
causalità nel mondo sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma
rispetto allo stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello
stesso tempo come noumeno (come intelligenza pura, nella sua esistenza non
determinabile secondo il tempo), può contenere un motivo determinante di quella
causalità secondo leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge na-
turale16. I valori assoluti conducono direttamente nel mondo divino dell’igno-
to, del noumenico, appunto, mentre quelli relativi si situano nel giudizio
morale dell’individuo umano, che tuttavia, può essere a sua volta conside- rato
come una entità noumenica. Questi ultimi, dunque, rivelano immedia- tamente la
propria natura soggettiva, ossia legata al pensiero del singolo essere umano,
che solo una ottimistica visione illuminista può reputare espressione di una
razionalità universale e, quindi, omogenea. Il sogget- tivismo valoriale apre
la strada al nichilismo, ma di ciò si dirà più oltre, per ora bisogna meglio
comprendere la distinzione posta alla base della separazione tra giudizi di
fatto e giudizi di valore. Per quanto riguarda i giudizi di fatto il problema
si presenta di sempli- ce soluzione, giacché possono definirsi tali solo quei
giudizi sostenuti da percezione empirica. Ovviamente esistono delle difficoltà
anche sulla stra- da dell’empiria, poiché sempre di giudizi trattasi, ossia di
percezioni sog- gettive filtrate attraverso la struttura categoriale propria
della conoscenza umana, che possiede almeno due caratteri limitanti la presunta
oggettività esterna al soggetto: quello biologico, anatomico, e quello
culturale. Potreb- be sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se
si attribuisce una propria autonomia individuale o collettiva alla mente come
entità separata dal cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio
ed inconscio 16 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari la realtà
oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante nessuna
deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o
sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla
conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire confermata mediante
l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia essa è stabile per se
stessa. Kant] collettivo18. Una ulteriore difficoltà è data dai limiti
assoluti, non categoria- li, della percezione umana: le unità di misura di
Planck ed, in particolare, il tempo (tp), la lunghezza (lp) e la massa (mp) di
Planck costituiscono l’attuale, e, forse, definitivo limite di rilevazione
empirica, al di sotto del quale è impossibile o, ancora forse, anche privo di
significato procedere. Riguardo ai giudizi di valore si presenta qualche
ulteriore difficoltà. Tra- lasciando i valori assoluti, in quanto appartenenti
ad un mondo separato da quello umano, ad un mondo umano assolutizzato o
all’individuo sempre assolutizzato, pare opportuno soffermarsi sulla natura dei
giudizi di valore relativi, soggettivi. Questi ultimi generalmente vengono
identificati come un dover essere, ma cosa significa dover essere a livello del
singolo sogget- to? Parrebbe un impegno inderogabile, morale, non motivato da
particolari interessi personali. Eppure la scelta di un qualche sistema etico e
dei suoi l’incosciente razionalmente comprensibile consiste per così dire di
materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e sotto
di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare
colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica
autonoma, opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori
dell’incosciente, non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza
personale, una specie di attività psichica superindividuale, un incosciente
collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposto con un incosciente
superficiale, relativo o personale”. Cfr. Jung, Il problema dell’inconscio
nella psicologia moderna, Einaudi, Torino la gravità quantistica è proprio la
scoperta che non esistono punti infinitamente piccoli. Esiste un limite
inferiore alla divisibilità dello spazio. L’Universo non può essere più piccolo
della scala di Planck, perché non esiste nulla che sia più piccolo della scala
di Planck. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare
della cosa, Cortina, Milano, Analogamente a come, secondo la teoria della
relatività, non si può parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi
quello della velocità della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente
di una indicazione di posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di
0,5. 1013 cm. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p.
103. Ed ancora: “Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono
realmente una terza costante universale nella dimensione della lunghezza, e
dell’ordine di 1013 cm, allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri
concetti usuali soltanto a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi
rispetto alla costante universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un
carattere qualitativamente diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo
a regioni nello spazio e nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno
dell’inversione temporale, di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato
soltanto da considerazioni teoriche come una possibilità matematica, potrebbe
perciò appartenere a queste minimissime regioni. Heisenberg, Fisica e
filosofia, il Saggiatore, Milano] valori scaturisce da preferenze personali,
legate all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive
(consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali
attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di
ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se
stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di
un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una
scelta comportamentale, che appaga il soggetto agente almeno da un punto di
vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un
appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza
al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore
dell’appagamento più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di
appagamento si tratta, il concetto di dover essere non presenta alcuna propria
autonomia di significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto
più immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo
stesso Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni
inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e
l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle
inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge
morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le
nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore;
e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i
concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è
conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del di-
spiacere20. Il dover essere altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato
dall’es- sere riferito ad una forza od ad una entità esterna al soggetto. Si
riferisce la propria scelta ad un obbligo inderogabile esterno, radicato nella
trascen- denza della ragione, del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo
per dare oggettività anche alle scelte soggettive ed, in tale modo,
tranquilliz- zare se stessi della bontà della propria opzione e presentare agli
altri tale opzione non come un arbitrio, un capriccio personale, ma come una
ogget- tiva necessità etica, come un comando eteronomo irresistibile, in quanto
doveroso, a pena di riprovazione, disonore, colpa, peccato, rimorso, etc..
Esempio tipico di questo processo è il concetto di obiezione di coscienza,
proprio di taluni ordinamenti giuridici, che con tale motivazione esentano
alcune persone dal tenere, in una data situazione, il comportamento Kant,
Critica della ragion pratica, cprescritto per legge, ma contrario ai
convincimenti etici delle medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni
autori, che comunemente dai divisionisti viene definito con l’espressione
fallacia naturalistica, di superare la Grande Divisione di Hume, unificando i
due termini, fatti e valori, in un’unica entità di natura oggettiva. In questo
modo tutti i valori divengono assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri
perché immanenti ed empiricamente verificabili; l’essere soppianta il dover
essere, ma quest’ultimo, sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria
funzione di guida delle azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio
diviene impossibile se si prende atto che il concetto di devo coincide,
semplicemente si identifica, con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso ad
indicare questa come la vera e profonda natura del dover essere: Ora, niente
accomuna il bello naturale e morale (entrambi causa di orgoglio), se non questo
potere di produrre piacere. Il piacere, quindi, è all’origine del dover essere,
ma, se questa è l’origine, pare opportuno riportare un po’ di ordine nel
vocabolario e chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi di
mistificazione. L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che
articolazioni specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono,
ma, in ultima analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto
agente. Inoltre questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul
piano pratico, in quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e
relativa delle scelte umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed
intollerante, ma consente anche una migliore utilizzazione metodologica della
Grande Divisione. Infatti, sostituire ai dualismi buono/cattivo,
giusto/ingiusto il dualismo bello/brutto significa conservare l’elemento
soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo, ed inoltre radicarlo anche in una
realtà umana individuale o sociale empiricamente analizzabile. Si apre in
questo modo la strada allo studio delle strutture motivazionali dei soggetti,
alle psicologie individuali, all’educazione, alla cultura ed alle tradizioni.
Tolti i valori dall’empireo della razionalità astratta, della religione, della
metafisica e ricollocati, come en- tità estetiche, all’interno del soggetto
agente e della società cui appartiene, divengono fondamentali gli studi
psicologici, antropologici e sociologici per spiegare le scelte
comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane, ma non necessità
più di giustificazioni non empiriche (almeno in Cfr. CARCATERRA (si veda), Il
problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere
dall’essere, Giuffrè, Milano Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani,
Milano uno dei suoi due termini) e non produce più neppure quello sdoppiamento
del mondo, che faceva sospettare una sua natura ontologica, e non mera- mente
metodologica, proprio per l’ambiguità oggettiva/soggettiva del dover essere,
dei giudizi di valore. La Grande Divisione, nella versione essere – mi
piace/non mi piace l’essere, giudizi di fatto e giudizi di estetica, riesce a
separare, a distinguere con chiarezza il primo temine come oggettivo ed il
secondo come soggettivo; ossia, il primo, come empiricamente sussistente
all’esterno del soggetto giudicante ed, il secondo, empiricamente sussistente
all’interno del medesimo soggetto; ovviamente la prova empi- rica
dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo giudizio consisterà, sarà data
proprio dalla espressione, dalla manifestazione di piacere o di dolore esternata
del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a questo punto pare chiaro che non
esi- stano dimostrazioni affidabili per propendere decisamente a favore della
tesi di una realtà monista o di una realtà dualista; d’altronde non è logico
pretendere una dimostrazione empirica dell’esistenza di un mondo che, per
definizione, non è empirico, né l’affermazione che il mondo empirico sia
l’unica realtà esistente, in quanto verificabile empiricamente, può essere
considerata qualche cosa di diverso da una tautologia. Forse, l’ontologia del
mondo è e non è monista; è e non è dualista, ma oscillano e coesistono
contemporaneamente entrambe le realtà, come sembra suggerire la fisica
subatomica con la coppia particella/onda ed ancor più con l’equazione, già
ricordata, di Einstein E=mc2, nella quale energia e massa sembrano essere due
aspetti della medesima realtà, come potrebbero essere anche spirito e materia.
Anche in questo contesto appare significativo il fatto che, secondo la mec-
canica quantistica, la conservazione dell’energia da un lato, che esprime la
sua esistenza atemporale, e il manifestarsi dell’energia nello spazio e nel
tempo dall’altro sono due aspetti opposti (complementari) della realtà. In
verità, essi sono sempre compresenti, ma in concreto ora l’uno ora l’altro
esplicano la loro azione in modo predominante. La riflessione di Pauli, sopra
riportata, apre la strada ad una visione non più oggettivizzata in modo statico
del reale, ma, bensì, oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia
in se stessa, sia tra soggetto ed oggetto. Se il mondo non fosse un fatto, ma
una mera Pauli, Psiche e natura, Adelphi, Milano Laddove il vecchio tipo di
spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore
indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei possibilità
oscillante continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali
soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo,
visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica dialettica
potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque il momento
di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del mondo
instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamorfosi continua,
come nell’opera poetica d’OVIDIO (si veda). Vi sono creature, o grandissimo
eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola volta e per sempre rimase in
questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è data facoltà di mutarsi in più
aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare che circonda la terra. Ti
videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone; adesso eri irruente
cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava paura; alcune volte
le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra e spesso anche
albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri fiume; talvolta,
l’opposto delle acque, fuoco. Ovviamente ad una tale visione si
accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata variazione
delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva oppure, ancora,
alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio dell’eterno ritorno di
nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la necessità di una profonda
revisione dei nostri processi logici, ad iniziare dal principio stesso di
identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto la conoscenza
scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di queste particelle
α Rutherford riuscì a trasmutare nuclei di elementi leggeri; poté, per esempio,
trasformare un nucleo di azoto in un nucleo di ossigeno aggiungendo la
particella α al nucleo d’azoto ed espellendone nello stesso tempo un protone.
Fu questo il primo esempio di processi su scala nucleare che ricordassero
quelli dei processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione artificiale
degli elementi. Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la fisica odierna
è giunta a un nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso cieco, privo di
finalità, la probabilità primaria che non può essere ricondotta a leggi deterministiche.
Secondo questa concezione la probabilità primaria appare legata in modo
essenziale al fatto che l’osservatore influenza i fenomeni attraverso la scelta
del dispositivo sperimentale, dal momento che la misurazione comporta per legge
di natura interazioni incontrollabili con l’oggetto da misurare. Questa
concezione sottolinea quindi con forza l’elemento della libertà nei processi
naturali. Pauli, OVIDIO (si veda), Le metamorfosi, Bompiani, Milano Monismo e
dualismo del mondo progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale
dei protoni per mezzo di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a
produrre la trasmutazione nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di
circa un milione di volt, e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento
decisivo a trasmutare nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento elio.
Il sogno antico degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora-
neamente, le forme si presentano oscillanti non solo a livello di particella e
di onda, appaiono sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il
principio d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente
opposto, il servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora
irrisolto, i pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della
filosofia1. Senza presunzione di poter risolvere tale dubbio, conviene
tuttavia, per affrontare l’argomento con sufficiente chiarezza, tentare qualche
definizione e qualche precisazione intorno ai concetti in discussione. In via
preliminare, dunque, pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto
storico tra Erasmo e Lutero, rispettivamente sostenitori, il primo,
dell’esistenza del libero arbitrio ed, il secondo, della sua negazione. Erasmo
formula una precisa definizione di libero arbitrio: noi qui definiremo il
libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù del quale l’uomo
può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al
contrario, allontanarsene. La contestazione di Lutero non si fa attendere ed è
completamente in- centrata sulla salvezza operata esclusivamente dalla Grazia
di Dio e non conquistata attraverso le opere umane: Innanzitutto Dio è
onnipotente non solo per il suo potere ma anche per la sua azione, altrimenti sarebbe
un Dio ridicolo. In secondo luogo sa tutto e prevede tutto, perciò non può né
errare né fallire. Se il nostro cuore e la nostra intelligenza approvano
pienamente questi due punti, siamo obbligati ad ammettere, per una conseguenza
ineluttabile, che non siamo stati creati per nostra volontà, ma per necessità;
e perciò non facciamo ciò che ci piace in virtù del nostro Cfr. Caro, Mori,
Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma,E.
da Rotterdam, Saggio o discussione sul libero arbitrio, in Michelis Pintacuda, Libero
arbitrio. Servo arbitrio, libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto da ogni
eternità e che fa accadere secondo il suo proponimento e il suo potere
infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione
intorno alla salvezza spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in
ambito religioso, teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome
Dio quello di Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire
o di inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a
contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile,
proprie dell’epoca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime
posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere
umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la
conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di
libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto autoreferenziato,
cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso; autonomo, ossia
legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e detentore di una
possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori esterni al soggetto
medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di fornire un’origine ed
un senso in proprio della vita del soggetto. L’autonomia esprime il rifiuto di
regole non condivise, provenienti da altri soggetti (eteronomia). La libertà di
volere e di agire intende descrive l’inesistenza di condizionamenti sia
psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per necessità presentarsi
radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o sevo arbitrio sembra
impossibile prendere in considerazione posizioni in- termedie, per così dire,
moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una libertà limitata
corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai limiti posti, ma
anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che, per la
salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è assoluto
il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto, l’assolutezza
empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal fatto che è solo
su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso che si manifesta
qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per soggetto individuale
non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi entità esistente,
capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali, piante, animali, entità
non visibili,...?). La definizione sopra illustrata parrebbe far propendere,
alla luce della percezione empirica del nostro esistere, per l’inesistenza del
libero arbi- [Lutero, Commento di Martin Lutero al saggio di Erasmo, in
Michelis Pintacuda, trio. Infatti, l’essere umano è condizionato dal suo
stesso vivere entro una forma, una realtà corporea da lui non scelta, ad
esempio non possiede ali per volare, può non apprezzare il proprio aspetto
fisico, rendersi conto di non possedere talune abilità intellettive (difficoltà
di apprendimento, scar- sa fantasia, etc.) o funzionali (carenza di arti,
difficoltà respiratorie, allergie, etc.), etc., e l’elenco, è bene ricordarlo,
si presenta come meramente esemplificativo. Ma un colpo ancora maggiore alla
libertà umana è dato dall’impossibilità di scelta di quando, dove, da chi e se
nascere, con il conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà del
patrimonio gene- tico e dalla casualità della condizione sociale dei genitori,
inoltre neppure il momento della propria morte è frutto di libera scelta (salvo
il suicidio, forse). Naturalmente tutto ciò alla sola luce della conoscenza
umana, che non può escludere qualsiasi cosa si possa immaginare nella
duplicazione metafisica del mondo, anche la libera scelta di nascere, si pensi
alla dottrina della reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel
pitagorismo, nel mito platonico di Er, in talune sette gnostiche,
nell’Induismo, nel Buddismo, etc. Comunque, empiricamente parlando, le uniche
certezze che si presentano riguardano la nostra forma, il nostro inizio e la
nostra fine5. Sia Secondo costoro, che appartengono alla setta cui la ragione è
più amica aristotelici, le anime beate, liberate da ogni contaminazione
materiale possiedono il cielo. Ma quelle che, sotto l’effetto di un segreto
desiderio, da quella dimora vertiginosa e da quella luce perpetua hanno gettato
uno sguardo in basso verso i corpi e verso ciò che chiamano quaggiù la vita si
sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori, per il solo peso di
questo pensiero terreno. Quando abbandona lo stato di perfetta immaterialità,
questa vestizione del corpo fangoso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma
graduale, ed essa si impoverisce impercettibilmente e con lento degrado dalla
sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con certi accrescimenti di
sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere situate al di sotto del
cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo, di modo che attraverso tali
involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento
di sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quello delle
sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che quaggiù in terra è
chiamato vita”. Macrobio, Commento al SOGNO DI SCIPIONE (si veda), Bompiani,,
Milano I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i mortali perché possono
morire. Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto
l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in
quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla,
vale a dire di ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente
essente, ma che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In
quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere.
Chiamiamo ora i mortali i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì
perché sono capaci di morte, essendo essenzialmente nel riparo nascosto
dell’essere. Essi sono il rapporto lecito il paragone, siamo come una
entità di forma predeterminata, che, nel percorso della sua caduta dall’ultimo
piano di un grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa di essere libera di
poter fare ciò che vuole. Ma esiste veramente questa libertà lungo il tragitto
della caduta (vita)? Per poter rispondere a questa domanda converrà ora
approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il determinismo
comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse sembianze. Quando
si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere una data azione si
possono intendere referenti empirici diversi, come bene illustra Ross,
individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza dell’agire: L’agire
attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di condizioni: quel- le costituzionali,
quelle occasionali, e quelle motivazionali. Possiamo anche dire che esso
presuppone che l’agente abbia sia la capacità, sia l’occasione, sia la volontà
o il motivo per compiere l’atto6. Ad esempio, per poter nuotare è necessario
saper nuotare (capacità), disporre di uno specchio d’acqua (occasione) e,
finalmente anche, volere, decidere di nuotare (volontà, motivo). A rigore solo
quest’ultimo requisito riguarda direttamente il tema del libero arbitrio; il
tema deterministico, in- vece, coinvolge tutti e tre i gruppi di condizioni.
Infatti, il determinismo non riguarda solo la volontà, ma anche le condizioni
soggettive capacità ed oggettive occasioni dell’individuo. Comunque, per
semplificare un tema sin troppo arduo, conviene tralasciare queste ulteriori
condizioni e soffermarsi solo sulla volontà. La volontà può presentare almeno
tre forme di ipotesi di condizionamento: la scelta non è riconducibile al
soggetto agente volontà divina; la scelta è condizionata da fattori immateriali
(cultura, educazione, morale, inconscio individuale o collettivo, psicologia,
etc.); la scelta dipende dalla struttura biologica, biochimica dell’essere
umano (si pensi all’uomo macchina di Mettrie ed agli studi medici intorno alla
causalità chimica nella struttura organica umana). È possibile ipotizzare anche
altri fattori di condizion- amento, ma, data la loro particolarità concettuale,
sarà più opportuno trat- tarli in seguito; ora è bene tornare al fattore di
condizionamento metafisico. L’esistenza di una volontà divina prevalente su
quella umana presup- pone l’accettazione di una visione dualista del mondo
(fisica e metafisica), essenzialmente essente con l’essere in quanto essere”.
M. Heidegger, La cosa, in PINOTTI, La questione della brocca, Mimesis, Milano
Ross, Colpa, responsabilità e pena. senza la quale l’esistenza del divino
non è pensabile. Se Dio tutto ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole,
allora la volontà umana in altro non può consistere che nella volontà stessa di
Dio. Tale posizione fu compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Geulincx
e di Malebranche. L’occasionalismo, negando un qual- siasi collegamento tra la
res estensa e la res cogitans cartesiane, sosteneva che le azioni umane altro
non erano che occasioni della manifestazione della volontà divina, l’unica ad
essere libera. In questa visione le azioni umane e la dimensione psichica si
presentano come due orologi perfetta- mente sincronizzati dalla volontà divina,
ma indipendenti l’uno dall’altro. A rigore, data l’evidente derivazione platonica
di questo pensiero, il mondo umano potrebbe essere anche inesistente oppure,
seguendo la convinzione nella onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in
questo preciso istante in cui, tu lettore, stai leggendo questo testo, con
tutti i tuoi ricordi e le tue sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di
questo mondo deriva dalla certezza della fede in Dio7. Ovviamente il
determinismo appena descritto è strettamente legato ad un pensiero religioso.
Prendendo ora in considerazione il pensiero immanentista, si presenta un
determinismo tutto incentrato sulla concatenazione degli eventi attra- verso il
nesso di causa/effetto. La prima considerazione da manifestare ri- guarda la
natura di tale nesso e la sua stessa esistenza. Già Auguste Comte ne metteva in
evidenza la natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di
comportamento degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le
sue concezioni in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso
l’esperienza e la riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia
assolutamente a penetrare il mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui
la sua natura gli impedisce per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad
osservare le leggi effettive. Ed invero, se anche oggi, con tutte le nozioni
positive acquisite, volessimo, per il più semplice fenomeno, 7 In termini
moderni questo problema è stato affrontato sotto l’aspetto
dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal punto di vista
biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di fare qualcosa e i
ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione una struttura logica
particolare.. Le condizioni di soddisfazione del ricordo non si limitano, se le
esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo dell’evento, ma richiedono che il
ricordo stesso, delle cui condizioni di soddisfazione è parte l’occorenza
dell’evento, sia stato causato da tale occorenza. Possiamo esprimere la
peculiarità di tale struttura dicendo che sia i ricordi sia le intenzioni sia
le esperienze percettive sono causalmente autoreferenziali. Ciò significa che
il contenuto dello stato stesso si riferisce allo stato ponendo un requisito
causale. Searle, La mente, Cortina, Milano] tentare di concepire per quale
potere il fatto che chiamiamo causa generi quello che chiamiamo effetto,
saremmo inevitabilmente portati a realizzare immagini analoghe a quelle che
sono servite di base alle prime teorie umane8. Il nesso causale non viene negato
dalle leggi generali, ma semplicemente contenuto entro il limite del suo
significato di costanza, di ripetitività negli accoppiamenti temporali dei
fenomeni, senza indagare e pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa,
di questo legame; ossia possiede natura meramente descrittiva e non anche esplicativa:
rileva il fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il principio
causale si presenta come il risultato del principio induttivo, sul quale si
fonda tutta la ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta
verificabile/falsificabile in via empirica, deve essere accolto a priori. Un
ulteriore affinamento del principio caus- ativo passa attraverso la dimensione
probabilistica delle rilevazioni em- piriche9. Conseguentemente le leggi
generali causali si sono trasformate negli studi scientifici in probabilità
statistiche di accoppiamento dei feno- meni, trasformando il nesso
causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza variabile. La potenza
di questo strumento metodologico (leggi generali causali) ha creato in un primo
tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter conoscere in anticipo
tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a pensare che un
generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben presto il principio
probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare, quello
fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg hanno, almeno in parte,
ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al libero
arbitrio. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze Dobbiamo dire
che generalmente i dati rendono il risultato probabile. La causalità regge,
diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto provare: perciò regge probabilmente
anche in esempi non confermati. Ci sono gravi difficoltà nel concetto della
probabilità, ma per ora possiamo trascurarle. Almeno finché è senza eccezione
disponiamo così di un principio logico. Russell, La conoscenza del mondo
esterno, Longanesi Milano. Vi sono relazioni così invariabili tra eventi
diversi avvenuti nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di
tutto l’universo in un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o
seguente può essere determinato teoricamente in funzione degli eventi dati
durante quel tempo”. B. Russell. Al posto della precisione della posizione
subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia,
il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità
decresce dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss. Heisenberg,
Lo sfondo filosofico della fisica moderna, Il nesso causa/effetto degli eventi
è stato per lungo tempo centrale nell’alternativa determinismo/ indeterminismo,
sino al punto da relegare il tema della libertà del volere ed il relativo
indeterminismo nell’ambito delle questioni metafisiche e degli errori di
logica. In proposito Nietzsche si esprime in modo estremamente chiaro: La
credenza originaria di ogni essere organico è forse addirittura questa, che
tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel grado originario del
pensiero logico è lontanissimo il pensiero della causalità: anzi, ancora oggi,
noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti della
libera volontà: se un individuo senziente si osserva, considera ogni
sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non condizionato,
privo di senso, che affiora in noi senza legami col prima e col dopo. Dunque, la fede nella libertà del volere è un
errore originario di ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in
esso gli stimoli del pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario
e ugualmente antico di ogni essere organico la fede in sostanze non
condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata
prevalentemente di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la
scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – come se fos- sero però
verità fondamentali. Estremamente interessanti in merito si presentano i più
recenti studi biochimici e neurologici. In particolare, poiché i neuroni per
scambiarsi scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano
di ener- gia, che è loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal
sangue, è possibile misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento
distrettuale di tale flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di
esplorazione funziona- le del cervello quali la tomografia a emissione di
protoni per il consumo di glucosio (positron emission tomography) e la
risonanza magnetica funzionale, per il flusso ematico (functional magnetic
resonance imaging). Un esperimento specifico, condotto da Libet e finalizzato a
misurare il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cambiamento
elettrico cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di
movimenti volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio.
Infatti, il distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame
si attiva 550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque,
sembrerebbe che un impulso inconsapevole anticipi l’azione, ma la volontà di
agire diviene consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel
mondo esterno dell’azione stessa. Nietzsche, Umano, troppo umanom in Opere. Si
può ritenere che le azioni volontarie comincino con iniziative inconsce, che
vengono borbottate dal cervello. La volontà cosciente quindi selezione- rebbe
quali di queste iniziative possono proseguire per diventare un’azione, o quali
devono essere vietate e fatte abortire in modo che non compaia nessun atto motorio.
Ciò comporta che l’esperimento consente anche di ipotizzare, in que- sti
istanti consapevoli, una attività di veto del soggetto nei confronti del
processo messo in atto per giungere all’azione ed il vietare è pur sempre
espressione di libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è possibile obiettare,
non solo e non tanto, che il concetto di causa non coincide con quello di
correlazione, ma, soprattutto, che il concetto di conscio non si identifica con
quello di arbitrio. Infatti, è possibile essere consapevoli che la casa, nella
quale ci si trova, stia per crollare, ma ciò non comporta né che si pos- sa
agire sul crollo, né che si possa compiere liberamente la scelta di restare o
di fuggire. Il punto da dimostrare, in relazione al libero arbitrio, riguar- da
la scelta, ossia l’origine dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno
dell’azione. Del resto, tale dimostrazione scientifica pare logicamen- te
impossibile, poiché la verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i
nessi, gli accoppiamenti causali, ma tali nessi possono essere considerati
pressoché infiniti, quindi non sottoponibili tutti ad una sistematica
sperimentazione. Soprattutto non possono essere presi in considerazione, per
ovvia impossibilità, i nessi ignoti e non immaginati come possibili dallo
scienziato. Conseguentemente si può solo empiricamente affermare che
l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150 msec all’azione stessa può
essere libero, ma può anche essere determinato da un nesso causale ignoto
(l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o ipotizza- to come
possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici condizionamenti noti Libet,
Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore,
Milano “Nessuna libertà assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra limitato
dalla nostra eredità biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo trovati a
nascere, dalle esperienze familiari, dalla banda criminale a cui abbiamo voluto
aggregarci, o dall’associazione differenziale a cui siamo stati esposti,
insomma: uno spazio di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in quanto
in gran parte costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce?
Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano
2012, p. 101. Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino
L’Autore affida lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo ad
una nuova scienza, la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a
detta scienza vedere anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur,
Milano. Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione
empirica dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da
assenza di nessi causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma
ciò significa che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua
manifesta- zione empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di
fenomeni empirici non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla
fisico non può essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non
rinviato a realtà trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di
una volontà significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è
libera solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente
(autore- ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico
ed una volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la
scelta soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua
psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia
ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una
indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di
un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità,
siano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel
corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo-
mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia
conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deterministico –
è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non
migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi
naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella
deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di
vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che
compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette,
almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi
convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo
possediamo. Resta il problema che solo il determinismo può essere assoggettato
ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo! Conseguentemente, con- scia
o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema da affrontare resta la
presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia conscia, sia incon- scia e
questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un livello immateriale privo di
quell’origine deterministica propria del mondo fisico: il mondo si duplica
necessariamente per rispondere alla domanda, ma la necessità, in questo caso,
ha natura logica, non certo empirica. Il punto focale di questa Libet, Mind
time. Il fattore temporale nella coscienza, cit., p. 160. discussione non
sembra, dunque, essere il nesso di causa ed effetto od an- che le leggi
costanti e generali di comportamento e neppure le probabilità statistiche di
accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il fattore condizionante l’esistenza
stessa del concetto di scelta, ossia il fattore tempo: se scegliere significa
generare azioni successive in alternativa tra loro, le azioni di questo tipo si
possono produrre solo in un sistema in movimento, ossia condizionato dal tempo.
I sistemi acronici sono privi di movimento e, quindi, anche di scelte, ma di
ciò si parlerà più oltre. Al determinismo neuro-biologico, appena considerato,
può aggiungersi una ulteriore forma di determinismo, nel quale determinante non
appare il nesso causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri
caratteri e le proprie qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti
specifiche ed individuali. Questo determinismo si presenta espresso con rigore
da Spi- noza, come in parte si è già visto, nella sua sintetica espressione
Deus sive Natura. La totalità della Natura, governata dalle proprie naturali
leggi, determinazioni, assurge al ruolo di divinità impersonale. Il problema
non riguarda più tanto la catene causativa degli eventi, ma i caratteri
peculiari, con linguaggio moderno si potrebbe dire genetici, delle sue parti, i
quali, per necessità, non possono che estrinsecarsi nell’attività di queste sue
parti, nelle azioni, se si tratta di animali e di animali umani. Ognuno esiste
per sommo diritto di natura, e conseguentemente per sommo diritto di natura
ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura; e perciò,
per sommo diritto di natura, ognuno giudica cosa sia bene e cosa sia male, e
provvede alla sua utilità secondo il suo giudizio, e si vendica, e si sforza di
conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di
questa tendenza deterministica di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come
risulta con evidenza dal seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi
uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare
i grandi predatori per il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli
dicono tra loro: “Questi predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno
possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe
essere buono?”, non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione
ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con un [Spinoza,
Etica. Dimostrata con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma “Infatti, alla
natura di una cosa non appartiene nulla se non ciò che segue dalla necessità
della natura della causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla necessità
della natura della causa efficiente accade necessariamente. certo scherno e si
diranno probabilmente: Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li
amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello. Pretendere dalla forza che
essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione,
volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di
resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che
essa si manifesti come forza. I rapaci e gli agnelli di Nietzsche si
sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di Spinoza,
nell’evidente tentativo di evitare, attraverso il determinismo della forza,
della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il vivente
si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali, animali
ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed esplicano le
diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro assegnate dalla
loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da quest’ultima. La
forza necessitante è consustanziale all’individualità: la pietra non possiede
organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si moltiplica per
frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque, vive sempre nel
medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono opporre il dito
pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente non possiedono
manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività artigianali limitatissime;
l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se respira anidride carboni-
ca. A causa di questa particolarità può abitare esclusivamente su pianeti
simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo determinismo sembra
paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i propri sudditi entro
carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi, ma anche per ciascun
individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani nati senza braccia o
diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del vincolo: mentre nel
caso della Natura il determinismo si presenta autonomo, cioè proprio della
natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia proveniente
dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei due modelli
attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di poter fare
qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determinista spinoziano
non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla volontà, mentre
il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a questa ipotesi
determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La prima
strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi
causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un [Nietzsche,
Genealogia della morale, Newton Compton, Roma mondo programmato in via di
sviluppo; la seconda, invece, frutto della visione di un mondo acronico, privo
di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima ipotesi,
già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può essere presa
in considerazione sia dal punto di vista della totalità di un essere (realtà,
mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo che qui si
discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole catene di
nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è usata in
ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva la
variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà ora,
non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste. L’affermazione
sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata dall’evidenza empirica del
divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti filosofi hanno percorso questa
strada. La qualità non me- ramente logica delle affermazioni di Heidegger,
consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema, verso questo filosofo: Il
tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico o, meglio, ontico nella
distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si delimita qualcosa che è
temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti della storia) rispetto
a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e numeriche). Si è soliti
distinguere un senso a-temporale delle proposizioni rispetto al decorso
temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra l’ente temporale e
l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi un ponte.
Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una
determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura Il panorama del tempo
heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si
manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scomparire nuovamente dietro il
sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato. È solo
in base al radicamento dell’esser-ci nella temporalità che diventa
intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che all’inizio
dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come costituzione
fondamentale: l’essere-nel-tempo. Il tempo sfuma e con esso si affievoliscono
anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In fondo è solo la
memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la principale prova
dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo, quindi, ho vissuto il
passato, ma, a parte Heidegger, Essere e tempo, Heidegger. De libero o de
servo arbitrio? l’ipotesi di Malebranche di un mondo creato da Dio attimo dopo
attimo, l’organizzazione cronologica degli eventi potrebbe essere determinata
dal- la forma categoriale, di kantiana memoria, della nostra conoscenza:
conosciamo attraverso la categoria del tempo, che in questo caso risiederebbe
in noi e non fuori di noi; avrebbe una esistenza solamente gnoseologica, non
anche ontologica. Russell avanza proprio questo sospetto: La differenza che
sentiamo tra cause ed effetti è una semplice con- fusione, dovuta al fatto che
ricordiamo gli eventi passati ma non ci capita di ricordare i futuri.
L’indeterminatezza apparente del futuro su cui fanno assegnamento alcuni
sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il risultato della nostra ignoranza
rela- tiva ad esso. Il libero arbitrio in ogni significato importante deve
essere compatibile con la conoscenza più completa. La nostra conoscenza del
passato non è basata interamente sulle deduzioni causali, ma deriva in parte
dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del futuro. Si deve
ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro più di quanto la
memoria non crei il passato. Risulta evidente che Russell costruisce il proprio
ragionamento sulla indifferente reversibilità dei fenomeni di causa e di
effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di fisica teorica; inoltre,
nell’accogliere questa ope- razione riduce necessariamente la funzione tempo ad
un indifferenziato presente. Probabilmente la posizione privilegiata di un
filosofo, che è stato al contempo anche un insigne matematico, ha consentito a
questo Autore di vivere pienamente le suggestioni di fisica teorica, che i
tempi agitavano. Se il mondo è privo di divenire e di movimento, che
rappresenta una delle possibili forme del divenire, è anche privo di tempo,
poiché non è pensabile divenire e movimento senza tempo. Riappaiono i fantasmi
dela scuola eleatica e della formulazione del principio di identità assoluta,
ontologica: l’essere è e non può non essere. Se l’identità non può essere
nientificata nell’essere altro, ossia non essere più se stessi allora il
divenire è pura illusione psicologica. Queste riflessioni di natura filosofica,
nel secolo passato hanno trovato sostegni e conforto anche in campo
scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo l’interpretazione più
diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è simile a una enorme
molecola in uno stato stazionario e che le diverse configurazioni possibili di
questa molecola mostruosa sono gli istanti di tempo. La cosmologia quantistica
diventa l’estre- [Russell, La conoscenza del mondo esterno] ma estensione della
teoria della struttura atomica e, simultaneamente, comprende il tempo.
Domandiamoci di nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione al tempo.
Le implicazioni sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto
la mobilia del mondo che noi chiamiamo istanti di tempo. L’equazione sopra
richiamata, detta anche di Einstein – Schrödinger, cerca di conciliare la
meccanica quantistica, che necessita di un tempo definito, con la relatività
generale, che lo nega, per descrivere la gravitazione quantistica. Wheeler e
Witt nel tentare questa difficile operazione, non ancora completa- mente
risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente, che la funzione
tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di tempo poteva
essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei- niana della
relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del tempo, non
poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo assoluto, ma anche
l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di cui
l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente
espressione. Ma se passato e futuro si propongono come indifferentemente
intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere
un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si
può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi determinista. Il solo
presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto),
nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti
libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre
quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile.
In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo descritti, non anche voluti,
ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di
eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante
dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non
esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere
o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola
cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della
successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si
preferisce un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della
quale è possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi
alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino Barbour, La
fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino. Cfr.
anche Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di Gödel e Einstein,
il Saggiatore, Milano. De libero o de servo arbitrio? (salvo che divina
non venga considerata la prateria stessa). Questa totale assenza di arbitrio e
ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a quel modo che è
determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi con la storiella
del ladro, il quale si difendeva dicendo che, essendo egli determinato ad agire
così come aveva agito, e non avendo egli alcuna possibilità di sfuggire alla
necessità ineluttabile della legge della causalità, sarebbe stato assurdo e
ingiusto punirlo. E il giudice gli rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo
comportamento era determinato e Lei non ha potuto sfuggire alla necessità che
governa tutto l’universo. Lo stesso vale però per la società e per me in quanto
suo rappresentante. La società è determi- nata a difendersi da aggressioni come
la Sua e perciò io Le infliggo una pena. Il contesto della storiella si colloca
all’interno di un condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta
ancora meglio ad un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso
parlare di scelte e tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel
luogo da sempre e per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma
da una completa acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta
di soluzione del proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi
di lavoro, poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica
empirica; pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve
essere considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione
empirica del determinismo o dell’indeterminismo risulta metodologicamente
impossibile a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per
l’irripetibilità dell’atto presunto volitivo. Infatti, se nel tempo to si
presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie
l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non
dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere
questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa
volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso
non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia
rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per
la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da
mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da
sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere
l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta
impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal Ross, Colpa,
responsabilità e pena, presente pare possibile accedere solo al futuro ed
impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione assoluta del tempo.
Il tempo in movimento unidirezionale, dunque, impedisce di trasformare il
libero arbitrio da concetto a priori in concetto a posteriori, condannandolo in
tale modo alla dimensione metafisica. Oltre all’impossibilità empirica di
raggiungere certezze in questo campo, si presenta anche un ulteriore
impedimento, questa volta di natura logica: se il determinismo descrive,
corrisponde effettivamente alla realtà, alla struttura del nostro mondo, allora
essere monista o dualista ed, addirittura, essere determinista o indeterminista
sarebbe una condizione imposta deterministicamente. Pertanto prima di
affrontare il tema del com- portamento e delle convinzioni individuali si
dovrebbe descrivere e spiegare il modello di sistema, nel quale comportamenti e
convinzioni sono collocati. Se il sistema è deterministico saranno
condizionate, non libere, anche le azioni e le convinzioni, che in esso si
agitano, ma, viceversa, se il sistema è indeterministico le azioni e le
convinzioni ad esso afferenti po- trebbero essere anch’esse libere oppure
vincolate da un determinismo causativo interno al sistema stesso (è il caso del
principio di indeterminazione, che opera solo a livello subatomico). Tuttavia,
per sapere se un sistema è o non è deterministico si devono analizzare
empiricamente le azioni e le con- vinzioni che lo compongono. Risulta evidente
il corto circuito che si crea: per conoscere del sistema si deve conoscere
delle azioni e delle convinzio- ni che lo compongono, ma per conoscere delle
azioni e delle convinzioni che lo compongono si deve conoscere il sistema. Si è
in presenza di una evidente petitio principi, che impedisce ulteriori
conoscenze. Questo esperimento mentale risulta valido solo nella realtà a
dimensione umana, ove il tempo è assoluto (tempo assoluto newtoniano), a livello
di fisica teorica, invece, perde di validità o perché il tempo diviene relativo
e consente viaggi almeno nel futuro (teoria della relatività einsteiniana), o
perché addirittura il tempo è proprio considerato inesistente (teoria
quantistica a loop). A livello fondamentale, il tempo non c’è. L’impressione
del tempo che scorre è solo un’approssimazione che ha valore solo per le nostre
scale macroscopiche: deriva dal fatto che osserviamo il mondo solo in modo
grossolano. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare
delle cose, Cortina, Milano. Il tempo non è che un effetto del nostro
trascurare i microstati fisici delle cose. Il tempo è l’informazione che non
abbiamo. Il tempo è la nostra ignoranza. DIRITTO ARTIFICIALE L’ambito culturale
del diritto presenta un ulteriore dualismo rispetto a quelli precedentemente
affrontati: il dualismo diritto naturale, diritto po- sitivo, meglio,
artificiale. Tale dualismo non si discosta dal modello di duplicazione del
mondo, ispirato ad una visione speculare, ma perfetta, della realtà empirica:
al concreto corrisponde l’astratto; al particolare il generale; al visibile
l’invisibile; al finito l’infinito; al relativo l’assoluto; al fisico il
metafisico; all’umano il divino. Questa specularità opera anche nel campo del
diritto e genera, a fronte del diritto positivo, imposto dalla forza degli
esseri umani dominanti, un diritto assolutamente giusto, detto naturale.
Ovviamente, il processo potrebbe essere interpretato anche in senso contrario:
il diritto naturale, per specularità, ispira la produzione del diritto
positivo, che, tuttavia, si presenta relativo ed imperfetto, ossia non necessa-
riamente giusto, ma solo valido ed efficace, rispetto al modello imitato. La
differenza tra i due diritti è tutta giuocata intorno ai concetti contrapposti
di assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si tratta, dunque, di evidenziare
l’origine, la fonte di questi concetti, rispettivamente nei due tipi di
diritto. Il diritto naturale propone come propria fonte la dimensione assoluta
dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la Natura. Non cambiano molto i
caratteri di queste tre denominazioni, che, sostanzialmente, esprimono il
medesimo referente; ciò che muta è solo il necessario dualismo del reale,
implicito nel concetto di Dio, a fronte della duplice compatibilità dei
concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà dualista che con quella
monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al mondo fisico, può dua-
lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel mondo metafisico; la
medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura, che può essere vista
come una realtà completamente immanente o come il corrispondente degradato di
una realtà trascendente. Non conviene addentrasi nella discussione intorno ad una
Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe alcun strumento di riscontro delle
affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui personale convincimento. Conviene
quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura immanente e procedere con lo
strumento della constatazione empirica. In questo limitato ambito si incontrano
due diversi significati dell’espressione diritto naturale. Da un lato, si
intende descrivere la costanza di comportamento degli eventi na- turali: la
legge di gravità, le condizioni che fanno franare una montagna, scoppiare un
temporale, sollevare le maree, morire un essere vivente, etc.. In questo
significato l’espressione è semplicemente descrittiva di ciò che avviene.
Dall’altro lato, invece, la stessa espressione acquista una valenza
prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti o violati a livello
umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono
relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono come inderogabili,
necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà coincidono. Detta
inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità assoluta sul piano
morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come le leggi naturali,
descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante passa attraverso il
libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è necessitante, se non
esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la differenza tra i due
significati dell’espressione, che resta solo descrittiva. A livello empirico è
facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono omogenei, uniformi,
ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli
uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da
taluni autori come prova evidente dell’inesistenza del diritto naturale in
quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale
è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con
un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti,
dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una
immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una
intuizione? Non può la mia intuizione essere buona quanto la vostra?
L’evidenza, assunta a criterio di verità, spiega il ca- rattere assolutamente
arbitrario delle affermazioni metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla
forza del controllo intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera
fantasia e al dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità,
ma mostra il proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può
escludere che il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od,
addirittura, ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà
dei diritti naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il
loro carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo,
individui inte- [Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino] ressati (perché
mai il diritto naturale dovrebbe essere egualitario ed uguale per tutti?),
etc.. L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la realtà naturale, nella
quale vive l’essere umano. Come si è già detto, il panorama è desolante e
fortemente immorale agli occhi della nostra attuale cultura umana: il più forte
vince sul debole, il cannibalismo governa tutto il biologico, il com-
portamento etico risulta indifferente alla buona o cattiva sorte umana, al
premio o alla pena e la morte trionfa su tutto e su tutti. Sembra che nella
natura e nella vita non vi sia alcun senso. Infatti già Giobbe, il personaggio
biblico, si interroga: Perché mai fu data all’infelice la luce, e la vita agli
amareggiati d’animo? I quali anelano la morte – che pur non viene – come si
cerca un tesoro nascosto; i quali si rallegrano oltre ogni dire, allorché hanno
trovato un sepolcro? Perché fu data la luce all’uomo, la cui via è nascosta,
avendolo Dio circondato di tenebre?2. Il senso lo si è dovuto trovare ancora
una volta nello sdoppiamento del mondo, nella dimensione metafisica, religiosa.
Comunque, stando alle rile- vazioni empiriche, non pare che vi sia molto da
mutuare dal diritto naturale per la vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della
natura che ha indotto l’es- sere umano a cercare differenti modelli di
comportamento, modelli artifi- ciali, non naturali. Il diritto positivo rientra
nel novero di questi modelli. L’artificialità si è sostituita, per motivi forse
deterministici, etici o forse anche utilitaristici, alla naturalità. Il dibattito
intorno alla natura benigna o maligna di questo mondo appassionò in passato
molti autori tra i qua- li è possibile ricordare Leibniz, quale sostenitore
dell’affermazione che questo è il migliore dei mondi possibili in quanto creato
da Dio, e Arouet, detto Voltaire, che contesta tale posizione da un punto di
vista filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente
metafisica e teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove
in ambito filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo
Autore la affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme.
Giobbe. Signori – dice Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita
oggi; molto bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In
effetti il diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così
che si agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è
perché abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse
risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto
della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste
mangiare i vostri amici. Si ripresenta il solito dualismo ontologico,
umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto
naturale/positivo ne è una diretta derivazione. In ambito immanentista
monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità
dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto
sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche
dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali,
oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità
congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali.
Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con
l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano
impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio
corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti
interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale
per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione
umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche
tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica
pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione
della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la
coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo
fisico. La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali
intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo
invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di
stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici. La posizione di Searle è
evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto rispecchia un
modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un tale modello
tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi, relativo alla
cultura dei luoghi e dei tempi Voltaire, Candido o l’ottimismo, Publidue,
Bolzano Novarese Searle, La mente, in cui sorge. In tale visione il diritto
naturale è frutto della mente umana esattamente come il diritto positivo e,
pertanto, entrambe possono essere definiti diritti artificiali. Paradossalmente
potrebbero essere anche definiti come naturali, poiché l’artificialità è una
componente naturale, congenita dell’essere umano. È bene precisare che il
carattere umano di artifex non coincide con l’espressione latina homo faber
fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone un libero arbitrio che la prima
ignora: non è precisabile sotto quale spinta l’essere umano crei manufatti ed
idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in cosa si diversificano questi due
tipi di diritto naturale e positivo, che manifestano la medesima origine,
quella umana. Il diritto naturale esprime la speranza, sempre viva nell’essere
umano, di accedere ad un mondo perfetto ed immutabile di giustizia; aspirazione
che, per altro, come si è visto, ha prodotto la duplicazione del mondo reale.
In questo caso l’accento non viene posto né sul carattere della perfezione, né
su quello dell’immutabilità, bensì sulla giustizia. Cosa è giusto? La ri-
sposta risiede nell’origine stessa del diritto naturale artificiale. Il
giudizio del singolo essere umano determina il contenuto concettuale del
sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come soggettivo e trascina con
sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non si tratta di un valore
assolto, ma semplicemente dell’espressione di un’opinione, di una preferenza;
ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato, carattere variabile. Per approfon-
dire ulteriormente il discorso, quindi, si dovrà abbandonare il giudizio in se
stesso, il suo contenuto, per rivolgere l’attenzione verso il soggetto che lo
ha espresso, verso i suoi interessi, i suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è
nel soggetto ed esclusivamente nel soggetto, che è possibile comprendere non
solo la variabilità dei contenuti del giudizio di giustizia, ma anche la
qualità di questi contenuti. Storicamente gli esseri umani hanno prodotto da
sempre utopie sociali tranquillizzanti, che potessero fungere da faro verso il
quale rivolgere, di- rigere la vita in comunità. Dalla Repubblica di Platone al
De Civitate Dei d’Agostino d’Ippona, all’Utopia di More, alla città del sole di
CAMPANELLA (si veda), alla Nuova Atlantide di Bacon, alle Avventure di Telemaco
di François de Salignac de La Mothe-Fénelon, al Comunismo di Karl Marx, al
movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è Cfr. Barsanti, Dalla
storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli,
Milano Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle
scienze umane, Rizzoli Editore, Milano. solo esemplificativo, l’interesse
per una società giusta si è sviluppato attraverso i secoli, chiedendo conforto
ora all’assoluto metafisico ed ora al relativo immanente. In quest’ultimo caso
l’accento è stato generalmente posto sui valori della libertà e
dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio instabile tra loro6. Il
desiderio di far prevalere il valore della libertà o quello dell’eguaglianza,
come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione di precise situazioni
sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pensare ai diversi
interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di- versi gusti
ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli individui e
nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga- nizzati in
gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie visioni
nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo, possono
avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di sostegno, di
quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo dominato,
recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali dominanti
e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad un
ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale,
dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento
metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico,
al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati
e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto
naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai
concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Mannheim: [le
utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con- dotta
verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non sono
ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor- mare
l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un
osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa
distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire
poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia
l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo
qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei
modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti
e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7.
In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei
gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa Cfr. ROSSELLI
(si veda), Socialismo liberale, Einaudi, Torino Mannheim, Ideologia e utopia,
il Mulino, Bologna dualizzazione si manifesta all’incirca il medesimo rapporto
che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed anche in questo caso,
sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane, relative, pur
aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è solo
indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e chi
sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto naturale,
al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza politica
od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino, come la
voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il diritto,
in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella storia, si
trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere eteronomo, la cui
fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene meno, si prosciuga,
con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa fonte eteronoma ed
il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili- smo, poco rileva),
si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover essere perde di senso in
favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa perdita di senso
corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed una corrispondente
identificazione del diritto positivo tout court con la forza. Il diritto positivo,
ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e si svelano come
espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che possono agire, nel
perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il convincimento od il
condizionamento culturale. Sotto questo profilo le differenze tra dittatura,
monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano marginali, poiché anche
quest’ultima, operando attraverso il principio maggioritario, si distingue solo
quantitativamente e non qualitativamente dall’uso della sopraffazione sul
singolo individuo dissenziente. Un ulteriore tentativo mistificatorio trova
espressione attraverso la separazione del concetto di ordinamento giuridico da
quello di Stato, come se un diritto potesse esistere come fonte originaria di
doveri, di obblighi, senza il supporto coercitivo di uno Stato, e come se le
regole imposte dallo stato potessero vivere di vita propria senza lo stato che
le ha generate. Si è ancora in presenza di una duplicazione, che assegna al
diritto una propria natura trascendente rispetto all’immanenza dello Stato.
Immanenza e trascendenza continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma
tra autonomia ed eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma
il dilemma è destinato a restare tale, poiché la scelta non può avvalersi di
prove né empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono
impercorribili, incompatibili con le realtà non empiriche e quelle
logico-razionali non possono descrivere un mondo governato da una logica e da
una ragione diverse da quelle umane. La scelta resta, dunque,
arbitraria, affidata ad assiomi, a fede, la cui origine risale sempre e
solo al soggetto, alla sua personale convinzione, illuminazione ed, in quanto
tale, ad esso relativa. Più in generale, tutto il mondo empirico si manifesta
sempre e solo come relativo al soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura,
come si è detto, consiste in una perenne lotta per l’esistenza e la
sopravvivenza, che genera una generale incertezza nei soggetti consapevoli
intono alla propria sorte. Da ciò scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente,
il desiderio di costruire una propria sicurezza di rapporti, sicurezza in
gradazione crescente dal mero impegno morale al diritto. L’artificialità non si
limita, dunque, all’ideazione del diritto, ma lo organizza anche in
istituzione, cioè in una entità astratta permanente, che persiste nel tempo con
il mutare dei soggetti umani che la compongo- no. Esempi tipici di tale
organizzazione sono l’ordinamento giuridico e lo Stato, che nelle società
contemporanee tendono praticamente a coincidere, anche se, come si è visto
sopra, originano da un tentativo mistificatorio di duplicazione. In altre
parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento dei conflitti
intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico
istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si
applica attraverso procedure burocratiche, a loro volta determinate dal diritto
stesso. Il diritto genera se stesso attraverso procedure ed artifici linguistici,
quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi diritto solo
quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione del soggetto
di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative sono solo
canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno alle
proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per l’azione o
la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente materializzato
dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe dire che il
diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno ai
comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà
anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di
tale opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto
natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in
quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti
solo nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al
diritto come tecnica burocratica pare opportuno precisare che la burocrazia si
forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle
procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri
dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe
consistere nella realizzazione della giustizia, ma si è già detto che,
purtroppo, il concetto di giustizia resta di contenuto vago e, comunque, relativo
al pensiero dei singoli soggetti agenti. In queste condizioni la burocrazia ha
buon giuoco a fare quello che Severino denunzia essere la tendenza di qualsiasi
tecnica: il trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il capitalismo, quanto il
diritto sono forme di volontà destinate a di- ventare, da scopi, mezzi della
tecnica. La tecnica è destinata a prevalere stori- camente, e questo prevalere
è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà
giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà –
diventa lo scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri- guarda la volontà
capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi
della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non
sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica
(e del capitalismo) per realizzare un certo ordinamento giuridico, ma sarà la
tecnica a servirsi della volontà del profitto e della volontà giuridica per
incre- mentare all’infinito la propria potenza8. La tecnica incrementa se
stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed ambiziosi, sino al punto di
dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi per una propria logica di
espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo modello espansionista e
diviene la referente di se stessa. IRTI (si veda), pur sollevando vari dubbi
intorno alla posizione di Severino, in particola- re riguardo alla capacità di
tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in quanto detentori della
decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con il diritto), riconosce
il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato tecnico-scientifico è
incremento indefinito della capacità di raggiungere scopi, chi decide, nel
silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinati scopi, a cui
quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia forse, quell’Apparato, di
risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in se stessi il tutto, non
hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il cammino, aperto dal
giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La risposta alla prima
domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero estinguersi nel
dominio di procedure, che, una volta decise, permangono per sempre immutate, perpetuando
se stesse. La seconda doman- da si limita a proporre un inconveniente della
tecnocrazia, la sua tendenza Severino, Atto secondo, in Irti, SEVERINO (si
veda), Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni Laterza, Roma-Bari Irti, Atto
primo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, al metafisico, ma
la risposta giunge dal noto broccardo latino: adducere inconveniens non est
solvere argumentum. Lo sviluppo dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste
tendenze espansioniste autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati
preposti. Valga l’esempio dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche,
forni- scono informazioni e prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai
ban- comat, ampliano il servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma
lo complicano con operazioni a computer autogestite dalla clientela e da codici
segreti; completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la
clientela entro rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la
prestazione del servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un
dialogo, ad una trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei
sevizi medesimi. La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso
sviluppo tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto,
in quanto tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più
ampie; la giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i
reati; si creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche
frustrate dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil-
mente l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamenti
possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa
velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia
l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a
soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro
lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un
nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere
umano, per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire
risposte; le domande le pone il computer. I termini dei problemi li determina
il computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di
disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi
della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque,
si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione
decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in
fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione,
che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene
diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto
positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a
nascere, ha i caratteri del suo genitore informatico: immateriale, trascendente
l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.Il metafisico sembra
potersi materializzare su questa Terra attraverso l’informatica ed il diritto
naturale riconquistare la propria autonomia tra- scendente attraverso una nuova
dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova legge naturale è meramente
descrittiva, come quella divina, poiché anche in essa conoscenza e volontà
coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei comandi e delle domande o non
si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi nuotare se non vuoi affogare.
Il dover essere del diritto naturale, per così dire, di derivazione etica cede
il passo al dover essere dei fenomeni naturali, delle frane, delle inondazioni,
della fisica e della chi- mica. Questo diritto naturale informatico non
manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità empiriche. L’alienazione
dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in quella informatica,
attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più per scelta. Il libero
arbitrio viene negato nei fatti e nella loro ineluttabilità. Forse, nella
ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà rinascere un nuovo umanesimo,
che dovrà portare con sé anche l’emergere di un nuo- vo diritto positivo o,
forse, la rinascita competerà ad una nuova fede tra- scendente ed al relativo
diritto naturale oppure, sempre forse, lo strumento giuridico potrà non essere
più considerato idoneo a gestire le conflittualità umane, le incertezze
prodotte dalla natura ed i suoi orrori. Probabilmente il mutare della
prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto culturale, da un nuovo paradigma,
per usare una espressione di Kuhn Del resto anche Foucault, nelle sue ricerche
archeologiche intorno al sapere, alla conoscenza umana ha individuato taluni di
questi salti cul- turali. Essa [la natura] si rivela omicida in quello stesso
movimento che la destina alla morte. Uccide perché vive. La natura non sa più
essere buona. Che la vita non potesse più essere separata dall’omicidio, la
natura dal male, e i desideri dalla contro-natura, era quanto Sade annuncia,
del quale egli esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle
lungamente condannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120
giorni sono il rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia
comparata. Co- munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa
età Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee
della scienza, Einaudi, Torino Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia
delle scienze umane. Anche il concetto stesso di natura subisce le mutazioni
culturali proprie del soggettivismo e del relativismo umano: la natura ora
appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta come benefica ed ora come
malefica (indifferente nell’ipotesi leopardiana), ora generatrice ed ora
omicida, probabil- mente perché possiede contemporaneamente tutti questi
aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista dal quale la si osserva, ossia
non è possibile per l’essere umano raggiungere una conoscenza complessiva,
completa, universale, si potrebbe dire olistica. La stagione, la temperie
culturale delle varie società umane consente, poi, il prevalere di una visione,
di un convincimento, di una interpretazione rispetto ad altre, diverse ma
altrettanto possibili, secondo un modello di trasformazione, di sviluppo non
ancora ben identificato, secondo un modello di salto culturale molto simile ai
salti quantici propri della fisica teorica. Le strade che conducono ad una
posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la differenza tra questi
concetti) sono almeno due. L’una proviene dal riconoscimento del pieno ed
insindacabile soggettivismo delle scelte umane e conduce al pluralismo, al
relativismo dei valori. L’altra origina nella convinzione del divenire della
storia e della vita umana e porta a quel trionfo logico del nulla, del non
essere, che attualmente sembra approdare ai lidi della tecnocrazia. Entrambe le
strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo panorama ambientale: la fine
dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che si impone), del trascendente,
dell’immutabile, dell’Essere che non può non essere1. Questo panorama è stato
descritto con estrema lucidità da Nietzsche e sintetizzato nell’espressione:
Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio!. Dov’è andato Dio? gridò Ve lo dico io.
L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come
ab- biamo fatto? Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra
dal suo sole? Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo
l’alito dello spazio vuoto? Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno
seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche
gli dei si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa
azione? Non dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei? Non ci
si ferma più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del
divenire, né a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora
esplicita incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del
sensibile e del divenire (del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per
la metafisica si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo
dietro il mondo o a un sopramondo”. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi,
Milano Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, Newton, Milano. Già in
passato, narra Plutarco, all’epoca dell’imperatore romano TIBERIO (si veda) corre
la leggenda che un certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto
verso Roma, si fosse sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua
risposta gli ingiunse di riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine
di un’epoca? Simbologia astrale della precessione della presunta stella fissa
Sirio? Avvento del Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco
importa la risposta; ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle
sue certezze al subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le
porte al futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove
cre- denze, nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza
umana e delle sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è morto
simboleggia la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e
dell’eteronomia e prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, relativo,
umano, autonomo. Il punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio
mondo ed alla nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del
nichilismo, è rappresentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo
sviluppo da Protagora a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivismo genera un
nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte, ma tale
assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si è costretti
dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del soggetto
oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alternativa è
stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla
verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla
quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con
evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o
sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica
della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e
l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è
il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede
che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come
certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più
esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e
costantemente in pieno possesso del vero, significa certamente una limitazione
alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale l’uomo funge
nel rappresentare – è limitato, finito, condizionato da altro. L’uomo non è in
possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini cristiani, il
divino. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della verità,
presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si è solo
costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di duplicazione trascendente.
Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di quella trascendente.
Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della fattualità, ossia di
poter essere sottoposto a verifica/falsificazione empirica. La verifica
empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte relative ai soggetti
che le esprimono, pertanto un suo eventuale assolutismo verrebbe falsificato
proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via soggettivista non può
che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta l’incertezza. Si
tratta di capire se la psicologia umana è in grado di sostenere un tale peso
esistenziale e se è possibile organizzare una società priva di verità e di
valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe strano rispondere
negativamente ai due precedenti quesiti. Tuttavia non appare strano che il
genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel dubbio e
nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma questa
duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un
fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, invece, che è chiaro è che
con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche l’Assoluto.
Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal tutto, genera
un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la pluralità. In
tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di quel Tutto
composto da creatore e creato. Il Tutto si estende, si diversifica e l’Assoluto
si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle proprie origini un
principio metodologico, che passa sotto la denominazione di novacula Occami [RIMINI
(si veda)] dal nome di Ockham. Questo principio ha trovato varie formulazioni
tra le quali la seguente pare la più adatta al tema qui trattato: Entia non
sunt multiplicanda praeter necessitatem. In sintesi, si tratta di scegliere tra
due alternative, a parità di fattori, quella più semplice, più immediata. La
domanda, dunque, da porre potrebbe essere: è necessario duplicare il mondo per
spiegarlo? In una visione immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione,
giacché i nessi causali e le leggi costanti, universali, nonché probabilistiche,
paiono poter rispondere ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo
stesso, dell’Essere; ma un tale M. Heidegger, Il nichilismo europeo,
interrogativo dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi,
privato di risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per
misteriosità impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità
comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giustificano
né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire senso,
significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’empiria, ma la
sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività dei fenomeni
osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro immediata
dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione immanentista del mondo,
a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se dotata del medesimo
(l’empiria si limita a descrivere le scelte non a motivarle valorialmente),
manca completamente il senso della vita, il motivo dell’esistere: ciò che
esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile carenza di senso non può
soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare i timori dell’ignoto.
L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se stesso e teme la morte
in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e timori è necessario
trovare un senso all’esistere e, possibilmente, anche una sopravvivenza post
mortem di questo esistere. Conseguentemente la duplicazione del mondo diviene
necessaria per giustificare, per attribuire una qualche finalità alla vita e
per calmare le angosce esistenziali; è antropologicamente e psicologicamente
necessaria, non certo teoreticamente, come si è già visto. Al contrario,
teoreticamente dovrebbe valere il principio della NOVACULA OCCAMI e, quindi,
reputare inutile, o almeno, poco probabile, la duplicazione, in quanto
operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro sogno, credenza,
ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama, conviene ora porre
attenzione alla strada da percorrere. Weber indica la prima (pluralismo e
relativismo dei valori). Si tratta di constatare l’emergere nel mondo
occidentale moderno di un politeismo di valori, che pone fine all’unità
ideologica, che fu propria della res publica christiana. La Entzauberung der
Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber certifica la destinale
pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la perdita di universalità
della ragione occidentale. Quella di Weber è la assunzione radicale della
sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la consapevolezza di vivere in un
mondo senza dei e senza profeti tipica di un’epoca che ha mangiato all’albero
della conoscenza. I valori supremi di ordine religioso che avevano avviato il
processo di razionalizzazione si svalutano irrimediabilmente nell’epoca del
compiuto disincanto, ossia del nichilismo compiuto. Fusillo, Nichilismo e
sovranità, in Esposito, Galli, Vitiello, Nichilismo e politica, Laterza Bari
Nichilismo e nihilismo, respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e
ogni bene, ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o
valutazione della personalità, pretenderebbe [questa concezione n.d.r.]
tuttavia, ed anzi proprio perciò, la sua propria dignità immanente nel senso
estremo della parola. Quale che possa essere la nostra presa di posizione nei
confronti di tale pretesa, in ogni caso essa non può venire dimostrata o
confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni considerazione empirica di
questi argomenti condurrebbe, come ha osservato Mill, al riconoscimento di un
politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente.
Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di
semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di
conciliazione, come tra dio e il demonio. Il frutto dell’albero della
conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non
consiste in nient’altro che nel dover cono- scere quell’antitesi e nel dover
quindi considerare che ogni importante azione singola, ed anzi la vita come un
tutto – se essa non deve procedere da sé come un evento naturale, bensì essere
condotta consapevolmente rappresenta una concatenazione di ultime decisioni,
mediante cui l’anima (come per l’ACCADEMIA) sceglie il suo proprio destino e cioè il senso del suo agire e del suo
essere. Il mondo sociologico weberiano è animato da una pluralità di soggetti
individuali e collettivi, che perseguono propri interessi e proprie valutazioni,
non richiamandosi necessariamente a legittimazioni trascendenti, Anzi cercando
nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al mezzo od al fine il senso, il
significato dell’agire. Questo senso diviene in tale modo meramente immanente
e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto agente. Il soggettivismo si impone
come scelta politica e giuridica, ma anche come procedura burocratica. In Weber
si possono già leggere le prime avvisaglie di quello che la burocrazia potrà
generare come tecnica fine a se stessa; è possibile intravedere il fantasma
della tecnocrazia disumanizzante. Ma ai fini del nichilismo ciò che
maggiormente interessa è il richiamo alla molteplicità degli interessi, delle
prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale molteplicità scaturisce
anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti valori non significano
certo nessun valore, ma comunque incrinanoWeber, Il metodo delle scienze
storico-sociali, Einaudi, Torino La burocrazia è di carattere razionale: la
regola, lo scopo, il mezzo, l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta.
Il suo sorgere e la sua espansione hanno perciò avuto ovunque un senso
rivoluzionario – che rimane ancora da esaminare – come di solito avviene per la
penetrazione del razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme
strutturali di potere che non avevano un carattere razionale in questo senso
specifico. Weber, Economia e società,
Comunità Milano il monolitismo sociale e ne cancellano la legittimazione
trascendente. Le società umane si presentano molteplici come molteplici sono
gli esseri umani. Severino intraprende, invece, per giungere al nichilismo la
strada del divenire che nientifica l’essere. L’essere è immutabile quindi non
divie- ne, ciò per Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è
illusione, ma che il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel
pensiero spinoziano di contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel
tempo, senza mai divenire nulla, in quello severiniano. Questa posizione di
Severino incide anche sul suo concetto di libertà e di nichilismo. Il libero
arbitrio dell’essere umano immutabile si fonda sulle infinite vite che po-
trebbero apparire e che non sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi
del divenire tra essere e nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’essere.
La libertà è in questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non
è nell’essere, ma nell’apparire dell’essere. Se vivo eternamente tutte le vite
che avrei potuto vivere se ho già da
sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere nell’apparire entra peraltro solamente que-
sta vita che vivo. Ma entra soltanto questa perché tutte le altre restano
nascose, o perché non esiste alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie
vite, oltre questa che appare? E se esistono, sarebbero potute apparire invece
di questa che appare? In tale possibilità risiede il fondamento della libertà
dell’uomo; che dunque può essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere
tutte le vite che potrebbe vivere. La natura non empirica dell’Essere di
Severino appare evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo,
ma dalla negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del
passare dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime
la medesima esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed
eterno in se stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro,
ossia nel nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle
monadi di Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto
sull’autoreferenzialità di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di
pari dignità e, quindi, ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul
divenire, che, consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi
affermazione, qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi,
Milano Cfr., per una certa analogia di pensiero, Bruce, I conigli di
Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Cortina, Milano
Nichilismo e nihilismo Il nulla consente
la negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contingente, occasionale, in
breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente,
ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha
identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere
niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e
l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del
niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo,
metafisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo,
assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo-
tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune
alienazione nichilista dell’Occidente. SEVERINO (si veda) è portatore di un
monismo immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si
identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o
assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e
all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità
tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la
strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si
presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di
qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori.
L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di nichilismo, mentre la
vera e propria completa assenza concettuale di entità Severino. In merito ai
passi citati in testo, con una comunicazione personale, Severino precisa quanto
segue. G. considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo
intorno al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità mostro che questa
posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere
(quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi
essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso
è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura
originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si
mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il
decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità
dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere.
Questa necessità esclude di essere relativizzata e messa accanto alle varie
posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto
e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si
afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal
suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende,
vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica. Ulteriori
precisazioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Severino a
questo saggio. definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La
distinzione potrà apparire più chiara se applicata al nichilismo giuridico.
Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si
contrappone una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come
analizza senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio,
la Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà
dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine
nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti.
Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la
capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si
identificano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli Dei
si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legittimità. Il
potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di
realizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice e
nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità. Il diritto
abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza
e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza La volontà
di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione ed
espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al
confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia
la maggiore il nichilista della volontà di potenza non può auspicare alcun
esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare
l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12.
Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di
vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto
di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti,
Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari Il falso contrasto tra diritto
e forza deriva da una concezione metafisica del diritto, dal diritto inteso come
un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che crea ed impone dei
doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto alla forza, cioè al
potere concreto. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano Sul rango
decide il quantum di potenza che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La
volontà di potenza, in Opere Newton, Milano Possenti, Nichilismo Giuridico.
L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli Nichilismo e nihilismo 89 essere
viene meno e con cosa viene sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito
verrà affrontata nel prossimo capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo.
Il dover essere può semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o
scomparire completamente, come concetto inesistente o falso. Si è già visto come
il soggettivismo renda relativi i contenuti comportamentali del dover essere e,
quindi, ne vanifichi la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in
vita, ma persiste come valore individuale, non generalizzabile, non imponibile
a terzi. Però è dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità
concettuale. E può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità
pratica; come affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover
essere comunque scompare, ma secondo modalità differenti. Un esempio articolato
ed eloquente di queste tematiche è dato dalla diatriba sviluppatasi tra la
Scuola di Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Hägerström ed Olivecrona,
e Geiger. La prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala
riguarda il carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si
tratta di nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede
nell’inesistenza dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza.
Chi è criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei
valori. Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti
emotivi indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla
realtà temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere
altro che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni
di situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche. Gaiger propugna un
nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche
nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta,
in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di
operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare
vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua
volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su
discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. Geiger,
Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino Vedere anche G., Un
precursore del nichilismo giuridico: Geiger e l’antimetafisica sociale, in
Sociologia del Diritto, la persona criticamente illuminata deve sapere su quali
questioni non si può sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può
esprimersi con la pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i
limiti naturali posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica
dinanzi alle asserzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con
intenti pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare
teoricamente una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca
tacitamente tali finalità. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o
meno di verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma
soprattutto i suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono
l’inesistenza di una teoria che fornisca significato alla domanda sulla
veridicità/falsità dei valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso,
neppure formulabile; Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della
domanda, in quanto la teoria esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta
risulta falsa. Chi asserisce la veridicità di un valore non formula una
proposizione priva di senso, ma intende soste- nere l’esistenza concreta di ciò
che afferma, cioè della fattualità dei valori; pertanto, per Geiger, non si
tratta di una proposizione priva di senso, ma di una proposizione falsa, poiché
ciò che afferma non esiste, è fantasia, è desiderio soggettivo. Chi giudica non
può esprimersi sulle qualità di valore dei fenomeni, quando è dimostrato che i
fenomeni non posseggono alcuna qualità di valore. Valore e non-valore non sono
inerenti all’oggetto stesso, ma gli sono attribuiti dal soggetto
dell’esperienza. Il giudizio di valore non è che una esplosione emotiva
rivestita della forma linguistica di una enunciazione oggettiva. È evidente che
mentre Hägerström si muove su un piano meramente logico, nel quale dovrebbero
operare solo teorie verificabili e la veridicità dei giudizi di valore non è
verificabile, ossia su un piano sul quale le teorie non falsificabili o
falsificate sono già state scartate; Geiger, invece, opera nel mondo empirico
dove il primo passo da compiere è proprio la verifica/ falsificazione delle
ipotesi e delle relative teorie Empiricamente la domanda intorno alla
veridicità dei giudizi di valore è stata posta e continua Geiger, Saggi sulla
società industriale, Geiger, Ora una ideologia è per definizione qualcosa di
unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che
pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false.
L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla posizione
sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non soddisfa
i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è
teoricamente falsa. Geiger, Nichilismo e nihilismo ad essere posta, pertanto si
tratta di falsificare la teoria che la regge ed è proprio questa la conclusione
a cui giunge Geiger. La differenza appare minima, ma non irrilevante e tutta
impostata sul piano del discorso svolto e sui tempi cui si riferisce
l’affermazione (prima o dopo la verifica empirica). Del resto, il tema fu
affrontato in senso generale anche da Heisenberg, riguardo alla costruzione di
teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a fenomeni: Il procedimento della
scienza naturale è raffigurato come l’applicazione di simboli a fenomeni. I
simboli possono, come in matematica, essere combinati secondo certe regole, in
tal modo le affermazioni sui fenomeni possono essere rappresentate da
combinazioni di simboli. Perciò una combinazione di simboli in disaccordo con
le regole non è falsa ma priva di significato. L’ovvia difficoltà di questo
ragionamento è la mancanza di un criterio ge- nerale che indichi quando una
proposizione debba essere considerata priva di significato. Una chiara
decisione è possibile soltanto quando la proposizione appartiene ad un sistema
chiuso di concetti e di assiomi, il che nello sviluppo delle scienze naturali
costituisce piuttosto l’eccezione che la regola. L’equivoco, dipendente sia
dalla difficoltà di definizione dei concetti, in quanto legati alle teorie di
cui sono figli, sia dall’impossibilità di verifica empirica degli assiomi su
cui si fondano le teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non può stupire.
Infatti, come afferma Foucault, le parole simboli e le cose fenomeni non
coincidono dal crollo della Torre di Babele in poi: Nella sua forma originaria
quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il linguaggio è un segno delle cose
assolutamente certo e trasparente poiché assomiglia ad esse. I nomi erano
deposti su ciò che indicavano, come la forza è scritta nel corpo del leone, la
regalità nello sguardo dell’aquila, come l’influsso dei pianeti è stampato
sulla fronte degli uomini: mediante la forma della similitudine. Tale
trasparenza fu distrutta a Babele per castigo degli uomini. Le lin- gue furono
separate le une dalle altre e rese incompatibili solo nella misura in cui venne
anzitutto cancellata la somiglianza alle cose, la quale aveva costituito
l’originaria ragione d’essere del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo
non vengono da noi parlate che sullo sfondo di tale similitudine smarrita e nello
spazio da essa lasciato vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino ed
umano, tra conoscenza asso- luta e conoscenza relativa, tra certezza e dubbio.
Tuttavia, ritornando ora Heisenberg, Fisica e filosofia, Foucault, Le parole e
le cose alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne
sottointende un’altra ben più rilevante e di natura politica; non è possibile,
infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di
Olivecrona per il nazismo di fronte alla posizione social-democratica di
Geiger, sostenitore della Repubblica di Weimar. In conclusione, il nichilismo
come il nihilismo scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute,
siano esse trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del
mondo. Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di
valore od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via
eteronoma rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta,
quindi di costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità,
della varietà, dell’incertezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di
valore. Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili
per la convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse
entità in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di
guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno
all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della
possibilità di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i
giudizi di valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento
del prossimo capitolo. Cfr. Olivecrona, I problemi del tempo visti da uno
svedese. Inghilterra o Germania?, in Lo stato, L’estetica è una disciplina che
studia, dal punto di vista trascendente, il bello in sé, mentre, dal punto di
vista immanente le sensazioni umane che si manifestano nell’alternativa
bello/brutto. Il bello in sé, il Sublime conduce subito verso il metafisico, la
perfezione delle idee, una realtà per- fetta non appartenente alla realtà
umana. Il semplice bello e brutto sono, invece, giudizi tutti umani intorno a
ciò che piace o non piace. Già nel LIZIO, nella Poetica (ποίησις, il cui
significato è fare, creare) evidenziava come il parametro attraverso il quale
giudicare un’opera d’arte fosse la produzione o meno nel soggetto di una
percezione gradevole, di piacere. Sembra poi in generale che la poesia l’abbia
prodotta due cause, e tutte e due naturali. Infatti è proprio della natura
umana, sin dall’infanzia, l’istinto dell’imitazione e che tutti godano innanzi
ai suoi prodotti, e l’uomo differisce specialmente dagli altri animali come
quel genere che più sa imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le
prime cognizioni. E che ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi
oggetti, così come sono in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni
invece, quanto più sono esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più
ripugnanti e dei cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di
suscitare piacere attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo
strumento umano di conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la
decisione intorno al bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una
imitazione perfetta dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa
sensazione pare essere il fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il
diritto positivo è decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto,
mentre l’essere umano è particolare e concreto, pertanto non può essere
giudicato con canoni stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le
sue particolarità individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si
intende comprenderne vera- [Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice,
Firenze] mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo diritto
naturale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo arbitrario,
senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur arbitraria,
spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto positivo tenta di
fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il bello può scaturire
anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso si indirizza anche
un autore più recente quale Quincey: Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse
la soddisfazione di scoprire che un’azione disgustosa e indifendibile sotto il
profilo morale si rivela, se valutata secondo i criteri del gusto, un atto
meritevole. Non deve stupire il divario tra dover essere ed estetica, perché il
primo è frutto di una duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea
(salvo che per il concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni
duplicazione del Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover
essere ed estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito
individuale, personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu-
cazione, tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta
di un divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello
individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente
dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi.
la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In entrambe
le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le nostre
decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della coscienza o
in quello che gli psicoanalisti chiamano il superio. C’è una creatura ansiosa
na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può piacermi questo? Questa
creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci consente aperta- mente di porci
come unici giudici delle nostre azioni. È lo sdoppiamento dell’eteronomia. Si
cerca sicurezza in un parametro comportamentale esterno ed, in quanto tale,
presupposto oggettivo. L’autonomia non con- cede giustificazioni esterne
all’agire; si agisce palesemente per seguire il proprio gusto, sia che esso sia
originario, sia che sia stato indotto dall’ambiente o dal determinismo.
Tuttavia lo sdoppiamento appare più evidente Quincey, L’assassinio come una
delle belle arti, TEA, Milano Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia
e nell’arte, Einaudi, Torino nella visione del bello metafisico, del Sublime,
espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come mobile
d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri letti si
presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo dirlo,
creato, creato dal dio. Uno poi è quello costruito dal falegname. Sì, disse. E
uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? Va bene. Ora, pittore, costruttore
di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di letti. Si, tre. Ebbene,
il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche necessità l’abbia costretto
a non creare nella natura più di un solo e unico letto, si è limitato comunque
a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé, ossia ciò che è letto. Ma due
o più letti di tal genere il dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li
produca mai4. L’idea del letto in sé o del bello in sé non si differenziano,
sono entrambe metafisiche, assolute e perfette, quindi rappresentano il corretto
parametro verso il quale rivolgere l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò
che in questa sede più interessa, cosa è bello. In questa prospettiva la
dualizzazione del mondo si è compiuta completamente e l’eteronomia diviene un
elemento strutturale del sistema interpretativo del mondo, in generale, e di
quello umano, in particolare. L’ulteriore duplicazione, quella tra dover essere
ed estetica, si è probabilmente prodotta sia per contenere l’arbitrarietà
evidente del senso estetico, sia per quell’illusoria pausa che intercorre tra
la constatazione che una cosa piace e l’azione che ne segue. In questa pausa
potrebbe celarsi il libero arbitrio, che potrebbe far rinascere la distinzione
secondo il principio: ho agito in un modo che non mi piace perché era mio
dovere farlo! Purtroppo non abbiamo conoscenze idonee né per escludere che in
quel momento nel soggetto il dovere coincidesse con il piacere, ma neppure che
questa pausa concettuale tra sensazione ed azione esista e sia governata nella
libertà. Tralasciando ora i problemi metafisici legati al Sublime, in quanto
frutto della solita duplicazione del mondo già più volte discussa, pare
interessante approfondire il termine estetica, il cui significato deriva dal
sostantivo greco αίσθησις, che indica un sentire, una sensazione e dal verbo,
sempre greco, αισθάνομαι, che significa percepire attraverso la mediazione dei
sensi, ossia ricevere stimoli che producono sensazioni. L’essere umano
percepisce in continuazione sensazioni provenienti dal mondo esterno attraverso
i suoi cinque sensi fisici, ed è questa la base sulla quale si fonda il metodo
empirico di ricerca; ma percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in
Tutto Platone, Editori Laterza, Bari zioni interiori, sentimenti provenienti da
precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da
convinzioni personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato
il suo vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono
essere rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto
che percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata
dalle propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la
percezione fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione,
poi, si complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del
sogno e del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le
percezioni esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostante il
soggetto, dal quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può,
tuttavia, essere certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal
soggetto, poiché ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una
sensazione mentale. Del resto, non è neppure possibile asserire con certezza
l’inesistenza del mondo esterno, sempre per il problema che a giudicare è una
entità soggettiva non oggettiva. L’oggettività nella percezione umana è
impossibile, per la stessa natura umana di soggetto. Si è già osservato che
alla mente non si presentano che percezioni. Ora, siccome le percezioni si
distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva una
questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle
idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguiamo la virtù dal vizio,
e dichiariamo un’azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà tutti i
discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e
di esatto in merito al presente argomento. La percezione, dunque, è legata ai
sensi, l’acqua fredda produce una sensazione di freddo, mentre l’impressione
esprime la predisposizione, il giudizio del soggetto verso il percepito: il
freddo mi produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché abbassa la
temperatura dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella sua
risposta, come del resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è
artefice ed alla quale ha fornito anche il nome: [è impossibile che la
distinzione tra bene e male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché
quella distinzione ha sulle nostre azioni un’influenza di cui la sola ragione
non è capace. La ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa
mediata di un’azione, destando o guidando una passione: Hume, Trattato sulla
natura umana, Bompiani, Milano ma non bisogna pretendere che un giudizio di
questo genere, sia vero o sia falso, possa accompagnarsi alla virtù o al vizio.
Hume non si limita a negare la predicabilità di vero/falso all’ambito morale,
ma affronta anche la natura di questo ambito, di queste impressioni, ed appare
con evidenza che la sua analisi conduce direttamente al principio del piacere
come scriminante tra bene e male. La prossima domanda è: di quale natura sono
queste impressioni, e in che modo agiscono su di noi? È qui impossibile non
esitare, ma dobbiamo dichiarare che l’impressione che sorge dalla virtù deve
essere gradevole, e quella che deriva dal vizio sgradevole. In qualsiasi
momento l’esperienza deve convin- cerci di questo. Una rappresentazione
teatrale o un romanzo bastano a darci esempi di questo piacere, che la virtù ci
procura; e del dolore, che nasce dal vizio. Risulta chiaro che sia
l’alternativa buono/cattivo, sia quella bello/brutto dipendono dalle
impressioni umane, ossia sono legate alla percezione di piacere o di dolore.
Nell’essere umano la percezione è unitaria, non esistono due diverse forme di
percezione, come può dimostrare l’empiria, forse possono esistere due diverse
forme di impressioni, se elaborate nella mente e quindi non sottoponibili,
almeno per ora, a verifica/falsificazione empirica. Dunque, se non si desidera
procedere ad una ulteriore duplicazione, priva in questo caso di motivazione,
che avrebbe un sapore formale incentrato sul mero linguaggio (dover essere o mi
piace) e non su fatti, tra percezioni e conseguenti impressioni morali ed
estetiche, si deve concludere che vi è un’unica percezione ed i due ipotetici
tipi di impressioni coincidono tra loro e sono un solo ed unico tipo di
impressione; ossia la morale altro non è che una forma dell’estetica in quanto
fondata, come l’estetica, sul piacere. In questo caso la prova empirica è
possibile poiché si tratta di impressioni prodotte da percezioni, sensazioni
empiriche, salvo sempre, ovviamente, la duplicazione strutturale del mondo in
fisico e metafisico. Se le percezioni esterne, produttrici di impressioni
esterne, provengono dalla presupposta esistenza di un mondo esterno al soggetto
percipiente, da dove provengono le sensazioni interne, ammesso che abbiano
natura diversa da quelle esterne? La risposta potrebbe risiedere nella capacità
della mente di apprendere, ricordare e rielaborare il percepito ed il sentito,
in qualunque modo venga percepito e sentito: fisico o metafisico. Certamente la
tradizione, l’educazione, le convinzioni religiose e scientifiche dovrebbero
giuocare un ruolo centrale nella determinazione delle sensazioni interiori e
nel giudizio su quelle esteriori. Commozione, attaccamento, repulsione, amore,
odio, etc. possono essere conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha
scottato e provo una repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti,
superstizioni, credenze si presentano come sensazio- ni interiori e possono
avere un’origine culturale: provo paura alla vista di un gatto nero, perché
sono convinto che porti sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio,
perché penso che porti fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo
significato empirico; le impressioni umane determinano il comportamento, in
presenza del libero arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di
dispiacere. Dunque, le sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano
all’origine dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo
cosciente; pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano
nei particolari gli stati intenzionali? L’autore, pur reputando che resti un
mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune
interessanti riflessioni ed indicazioni in merito ogni stato cosciente presenta
un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una certa
posizione sulla scala che include le nozioni ordinarie di piacere e dispiacere.
Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato chiedergli. È
stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei annoiato, ti sei
divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimente? La dimensione
piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di coscienza. Si
deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura empirica, ossia può
essere sottoposta ad un processo di verifica/falsificazione, pertanto passare
da un giudizio di valore ad un giudizio estetico comporta anche la
reintroduzione della metodologia empirista. Ovviamente non riguardo all’oggettività
del giudizio, ma all’impressione prodotta dalla sen- sazione percepita.
Infatti, un giudizio morale, se non si identifica con un giudizio estetico, se
non è un giudizio estetico, non può scaturire da una sensazione produttrice di
impressioni di piacere/dispiacere, non solo per Kant, ma per sua stessa
definizione, in quanto il dover essere, per essere morale, deve essere anche
privo di interesse personale. In modo diverso si presenta la doverosità
giuridica, che può anche essere sostenuta da un interesse personale, e, proprio
per questo motivo, sembra appartenere più Searle, La mente, al mondo
dell’estetica che a quello della morale. Ma è bene continuare con Searle, che
precisa il concetto di percezione: Dovremmo concepire la percezione non come
qualcosa che crea la coscienza, ma come qualcosa che modifica un campo di
coscienza preesistente. Siamo vicini concettualmente alla res cogitans di
Descartes, ma lontani dalla sua astrattezza; infatti in Searle tutto ruota
intorno ad una sensazio- ne rapportata ad una percezione non necessariamente
autoreferenziata al soggetto percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono
posti in cor- relazione, non rigidamente separati. Pare un timido tentativo di
riduzione del dualismo soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda
direttamente lo stato mentale cosciente, che altro non è che l’espressione
delle proprie condizioni di piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza
come l’esser appagato sta al desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione.
Propongo di descrivere tale fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale
con direzione di adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione.
Possiamo considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie
condizioni di soddisfazione. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori
comporta, per i fatti, la possibilità di rispondere a verificabilità empirica,
mentre, per i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la
mera soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande
Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la
descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non
esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la
sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto.
Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come
scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono
empiricamente verificabili/falsificabili), la seconda suddivisione (giudizi
etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di
recuperare, attraverso il giudizio etico, Searle Searle, Come è possibile che
io abbia sete d’acqua?, vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è
bere acqua. la risposta si fornisce mostrando la connessione essenziale tra
intenzionalità e condizioni di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio
di bere acqua è che sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di
un’osservazione psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della
definizione del contenuto intenzionale pertinente. valore, un metafisico
assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta chiaro che,
rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un giudizio
estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si preferisce,
da sensazioni percepite e produttrici di impressioni (piacere/dispiacere). Le
sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici impressioni, riassumibili
sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi piace. Si tratta ora di vedere
se questi giudizi estetici, oltre all’origine, possiedono anche i medesimi
caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi estetici che i giudizi di valore
esprimono una dimensione meramente mentale, ma mentre i primi dovrebbero essere
finalizzati a manifestare un piacere personale, i secondi, invece, dovrebbero
svolgere la funzione di governo del comportamento. Ma il giudizio di valore che
cosa è? Vi è una sola alternativa possibile: o è un valore assoluto, in qualche
modo trascendente, che è giunto all’essere umano dal di fuori per
illuminazione, per rivelazione, per quant’altro di immaginabile; oppure è un
valore relativo, nato nella mente del soggetto agente e caratterizzato dalla
sue preferenze. Si tralasci ancora il primo caso, che resta indimostrabile
empiricamente e che, comunque, deriva sempre dalla duplicazione del mondo, e si
affronti il secondo caso. Esso non si distingue dal giudizio estetico: è soggettivo
nel medesimo modo; porta giustificazioni solo apparentemente diverse alla
propria adozione; infatti, al di là di giustificazioni autonome od eteronome,
funzionali, utilitaristiche, pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la
scelta finale altro non è che una preferenza personale, un equilibrio tra le
convinzioni e le scelte possibili, che soddisfi il soggetto, lasciandolo
emotivamente tranquillo. Il giudizio di valore è un giudizio estetico formulato
in modo diverso, poiché pone l’accento sul comportamento da tenere e non sul
piacere nel tenerlo, ma la forma non riesce a mascherare il piacere di fondo,
che si colloca all’origine delle scelte etiche; dunque, poco conta la forma
funzionale, ciò che importa è, invece, la matrice, la natura comune, unitaria,
che li caratterizza. Inoltre la loro sovrapponibilità perfetta è anche
confermata dal modo in cui se ne può venire a conoscenza: per sapere quali
siano i giudizi estetici e di valore di un soggetto non è possibile fare altro
che porre la domanda al soggetto medesimo od osservarne il comportamento,
presupponendo sperando che il pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i
giudizi estetici presentano un vantaggio empirico su quelli di valore: il giu-
dizio estetico produce un immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che
è empiricamente verificabile; al contrario, il giudizio di valore aspirerebbe
ad essere disinteressato e, quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile
nell’imperativo del dovere. Ciò ovviamente nasconde il piacere originario
della scelta etica, ma, soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla
verifica/falsificazione empirica del giudizio di valore, in quanto assoluto, a
priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso
riconosce la propria origine empirica nel piacere e, quindi, può essere
studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore
significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos
dell’aristocrazia e della distanza il duraturo e dominante sen- timento totale
e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una specie
inferiore, di un sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e
cattivo. Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo,
che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come
espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e
questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così
facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia
dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di
torture, di eresie, di condanne capitali proprio per questa sua tendenza a
porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante
aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo,
come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di
valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo
del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non
sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella
attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio,
che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico. Per
continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune
considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una
compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di
giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono
evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma
fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. Nietzsche, Genealogia
della morale, Newton Compton, Roma quello che vale per i giudizi di valore
sensoriali e estetici vale anche per quelli morali, di cui fanno parte quelli
politici e sociali. Geiger, Saggi sulla società industriale. La possibile
indipendenza della validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia
indica nuovamente la necessità di distinguere con chiarezza fra i due
concetti13. La validità attiene alla vincolatività giuridica della norma,
l’efficacia, invece, alla sua capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana.
La validità appartiene al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel-
lo dell’empiria. Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è
diretta, rivolta; valida è una norma che viene considerata appartenente
all’ordinamento giuridico vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo
(si tratta sempre di convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà,
tuttavia, non può essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret-
tanto evidente anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si
impone o non si impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione
della validità di astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di
identificare la validità con la realtà. Nel senso della teoria qui sviluppata
il diritto è un determinato ordinamento (od organizzazione) della forza. Il
diritto, dunque, si presenta sia come valore (validità), sia come forza
(efficacia), ma anche la validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di
cambio di regime politico o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza.
Certo, la validità cerca di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore,
verso il dover essere, verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il
depistaggio non è sufficiente a far scomparire la forza, la violenza
(sanzione), come principale carattere identificativo del diritto. È al
vincitore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni
e il suo sangue. La violenza è il primo fondamento del diritto, e non c’è
diritto che nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza. La
forza del diritto è, dunque, mera forza bruta, mera violenza, alla quale è
difficile resistere, senza subire gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo
giuridico, della doverosità, prima, morale e, poi, anche giuridica, non
descrive fedelmente il fenomeno diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo
di spontanea subordinazione, di impegno interiore, che poco o nulla esprime del
reale. Nel dover essere la fantasia imperversa libera da qualsia Kelsen,
Lineamenti di dottrina pura del diritto Kelsen Nietzsche, Verità e Menzogna,
Newton Compton Editori, Roma si vincolo empirico verso poli opposti di
intensità, che vanno da una razio- nalità morale dubbiosa, moderata e
tollerante ad un integralismo fanatico ed intollerante, e di qualità, di
contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi che i filosofi sono
perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante del diritto non è
un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del mondo empirico.
L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è che la forza
vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la convinzione
della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea non è stata
quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante intesa nel
senso tradizionale ha continuato, e continua tuttora, a costituire una della
assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il diritto è
l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale dominante, sia esso
politico, economico, etnico, religioso od anche solo maggioritario; neppure la
democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto. Pertanto, la
burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo dominante nel
diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione procedurale e
processuale è burocrazia, tecnica burocratica con tutti i problemi
disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della tecnica
da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale
rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il
diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello
che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che
ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali e si è
trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non
si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di
attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà
umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una
preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee,
riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante,
sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il
modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro
non è che una preferenza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi
piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si
discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere
umano lungo Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano Cfr. Ferrari,
Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari la storia nelle sue avventure
culinarie, musicali, letterarie, architettoniche, pittoriche, scultoree, etc..
Non casualmente, infatti, non solo il nichilismo giuridico ha fatto la sua
comparsa all’orizzonte delle nostre società con- temporanee, ma anche i
modelli, le regole, i canoni, gli ordini estetici, con la modernità, sono
precipitosamente tramontati. Il nichilismo si converte, a parte subjecti, in
solipsismo giuridico. Il diritto è scelto da me; accettando l’inizio, anche
accetto le procedure, con cui si svolge l’intero ordine di norme. Scegliendo
l’inizio di un regime democratico accetto il criterio della maior pars, e
procurerò di scendere nel conflitto e di inserirmi in una od altra delle forze
in campo. Il solipsismo è l’essenza stessa del nichilismo; la piena
consapevolezza dell’autonomia individuale umana; il riconoscimento
dell’irriducibilità del soggettivismo ad oggettività; la constatazione che
l’individuo è il referente ultimo ed indiscutibile di qualsiasi scelta.
L’individuo osserva se stesso e, senza la duplicazione del mondo, resta solo
con se stesso, con le proprie speranze, con le proprie opinioni, con il proprio
senso estetico, ma anche con le proprie angosce e con un profondo senso di
impotenza, che certo non riesce ad essere compensata dalla volontà di potenza
insita nel nichilismo. Non deve stupire che il nichilismo ed ancor più il
nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali dominanti. Sono, infatti, essi
che governano più facilmente, velando la forza ed il potere con lo strumento
del dover essere etico, morale e giuridico, che riescono a meglio celare i
propri interessi e le proprie preferenze estetiche sotto una parvenza di
universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva. la teoria del nihilismo
dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni secoli orsono lo è stata la
nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni fa la teoria genetica e a
suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre- sentazioni abituali. A lungo andare
tale pericolosa verità non potrà rimanere celata; gradualmente si imporrà, e
sarà pericolosa soltanto nella misura in cui durante un periodo di transizione
provocherà disorientamenti passeggeri. Con il graduale adattamento degli
atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica il pericolo verrà
superato. Per ciò che concerne in particolare l’incombente pericolo del
nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a vederlo.
Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard Irti,
Nichilismo giuridico, Cfr. V. Frosini, L’ipotesi robinsoniana e l’individuo
come ordinamento giuridico, in Sociologia del Diritto morale sia più disgregato
di quanto già non lo sia a causa dello scisma delle rappresentazioni morali. La
Grande Divisione di Hume si trasforma, come si è visto preceden- temente,
facendo cadere il termine giudizi di valore e sostituendolo con il termine
giudizi di estetica. Ciò produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza,
poiché è a tutti noto e da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e
non discutibili (de gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso
affaticarsi a convincere gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della
bontà dell’arrosto piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza
dello stile architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il
soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a
qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo,
quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine
personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità
assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire convinzioni personali
certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e
ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire
questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo
sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza
fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura
nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce
tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se
rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovrebbe guidarlo anche verso
una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la censura
delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio capriccioso,
ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi limiti, nella
loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro umano. La pazzia è
una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le dottrine e le
filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita stessa è colma
di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla ragione solo
per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non ha regole.
Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello che tu
chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che risulti
comprensibile Geiger, Saggi sulla società industriale Jung, Il libro rosso.
Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino. Il diritto come estetica La
partita intorno al nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante
la duplicazione metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica
che i valori non sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto
assoluta da essere trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res
cogitans/res extensa), potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in
via teorica che le scelte estetiche siano frutto di autonoma elaborazione
mentale. Intorno al tema del determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta
della categoria del dover essere e della sua sostituzione con il giudizio
estetico, non muta la prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo
caso e libera nel secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi
estetici: l’uno condizionato dal sistema e l’altro espressione della scelta,
della preferenza del soggetto singolo. Resta sempre aperto il problema se il
soggetto può essere completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo,
a cominciare da quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche
essere intesi proprio come i limiti personali, individuali della conoscenza.
Deve risultare ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti
e neppure il determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da verifica/falsificazione
empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che si verifica
empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è evidente. Il
nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui, come un
mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma una tale
visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo pensiero nella
sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che
ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno ritorno. È questa la
forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso) eterno. È bene ripeterlo;
il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere in discussione le proprie
scelte, non le altrui, che rispondono ad un soggettivismo esterno ed estraneo
al nostro e, quindi, si presentano insindacabili, in quan- to autonome.
L’educazione in questo ambito è destinata a trasformarsi in autoeducazione, in
autocontrollo, in autolimitazione, non certo in arbitrio verso il prossimo, sul
quale non si potrebbe vantare alcun titolo, come il prossimo non può vantare
alcun titolo verso il soggetto agente. Risulta evidente che etica, morale,
diritto, sinteticamente, dover essere, in questa cornice risultano privi di
senso, ma ciò non significa, che la vita Nietzsche, Il nichilismo europeo,
Adelphi, Milano. Il diritto come estetica 107 umana sia priva di senso.
Significa soltanto che il senso non è dato, non può essere dato, da valori né
morali, né giuridici, ma solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso
interrogarsi intorno al senso di un essere, di un esistere che si presenta come
dato ineluttabile, ineludibile, come un dato primo, come una singolarità, si
potrebbe dire con espressione propria della fisica teorica. Un diritto estetico
è solo espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non
certo di un imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero
frutto di una descrizione, come pare che sia, e non di una scelta valoriale,
allora già esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo
smascherato, se non una maggiore chiarezza sulla natura e i limiti del diritto.
Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si nasconde dietro né la
trascendenza universalistica dello stato, né la doverosità metafisica della
norma, ma prende atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è
interessante riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva
sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la
conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo
concettualmente marginale, in due testi di TACITO (si veda) e di GELLIO (si
veda), entrambi, curiosamente, riferiti a LABEONE (si veda). La connessione fra
ius e ars è stata infatti, tempo prima, una bandiera degli studi giuridici di CICERONE
(si veda). Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui. Naturalmente,
all’epoca, il termine ars non corrisponde all’attuale significato di opera
artistica, tuttavia, nella interpretazione di CICERONE (si veda) esso descrive
l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica universale, di una
dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto dell’interpretazione giuridica,
spostava sulla ragione umana il contenuto normativo e, quindi, consapevolmente
o inconsapevolmente il diritto, pur sembrando trasformarsi in una forma di
conoscenza e non di volontà, in realtà diveniva una elaborazione dei giuristi,
una scelta relativa, arbitraria, soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota
infatti senza esitazioni Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i
dogmi dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su
dogmi interpretativi. Questi dog-Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in
Occidente, Einaudi, Torino.Il diritto come estetica mi tacitando le coscienze,
restituiscono tranquillità al giudice, danno conforto al dottore. Tutti questi
schemi o espedienti possono essere considerati per l’appunto schemi o
espedienti da parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito e
dell’arbitrio tende a spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi
essa coinciderà con la linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere
collocata nella posizione corretta. Il soggettivismo, di cui l’interpretazione
è un aspetto, esprime nel diritto estetico tutta la propria potenzialità
delegittimante di stati, ordinamenti giuridici e norme giuridiche non
condivise, ma semplicemente subite. Poiché l’origine dell’autorità, la
fondazione o il fondamento, la posizione della legge possono per definizione
appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono anch’essi una violenza senza
fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiusti in sé, nel senso di
illegali o illegittimi. Non sono né legali né illegali nel loro momento
fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non fondato, come di ogni
fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche se il successo di
performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di
uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e delle
convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o internazionale),
lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle suddette
condizioni, regole o convenzioni e della loro interpretazione dominante. il
diritto è essenzialmente decostruibile perché il suo ultimo fondamento per
definizione non è fondato. Ancora una volta per discutere del fondamento si
deve uscire sia dal soggettivismo, sia, conseguentemente, anche dall’empiria,
per entrare in una qualche forma di duplicazione mistica del mondo.
L’alternativa, sempre possibile resta il nichilismo/nihilismo, ma anche del
nichilismo/nihi- lismo si può avere una versione metafisica ed una non
metafisica legate alla sorte dell’Essere e dell’Ente: inesistente, il primo,
(metafisica come affermazione infondata); in dissoluzione, il secondo, (come
espressione empiricamente verificabile/falsificabile). Se l’Essere è
inesistente la me- tafisica diviene priva di fondamento, mentre l’Ente,
dissolvendosi nel non essere, appartiene al mondo dell’empiria. Tuttavia la
dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere, monoteisticamente, con un
Essere molteplice, Alpa, Interpretare il diritto: dal realismo alle regole
deontologiche, in Derrida, Vattimo (cur.), Diritto, Giustizia e
Interpretazione, Laterza, Roma-Bari Derrida, Diritto alla giustizia, in
Derrida, Vattimo (cur.). Il diritto come estetica ad esempio, nel
Cristianesimo, con una Divinità una e trina e, nella Gnosi, con il progressivo
alienarsi, decadere del divino nella materia, (in alterna- tiva politeista: con
una molteplicità di Esseri equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che
si manifesta immutabile. Ma anche la negazione, il nulla, se dotato di
esistenza, di presenza e non di assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già
capito che il nichilismo rimane impigliato nella metafisica fino a che, anche
solo implicitamente, si pensa come la scoperta che là dove crede- vamo ci fosse
essere, c’è, in realtà, il nulla. Così, dove credevamo ci fossero principi
della legge c’è solo l’arbitrio del legislatore o dell’interprete, la de-
cisione infondata, e per questo essenzialmente violenta, che deve essere resa
accettabile dalla finzione delle affabulazioni, o da una accettazione motivata
misticamente (nella versione kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne
non metafisica del nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e-
spressione con cui Heidegger caratterizza la storia del nichilismo
nietzschiano: nichilismo è la vicenda nella quale dell’essere come tale non ne
è più nulla. Nichilismo, se non deve e non può intendersi come la scoperta che
al posto dell’essere c’è il nulla, non può che pensarsi come la storia senza
fine – senza conclusione in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il nulla
in cui l’essere, asintoticamente, si consuma, si dissolve, si indebolisce. Il
Nulla è entità metafisica al pari dell’Essere, tuttavia, paradossalmente, tale
negazione dell’Essere, del Principio può trasformarsi, capovolgendosi, in
affermazione a livello di teologia negativa. Scrive, infatti, Emo: Il
principio. Dobbiamo cominciare con un principio. Ma, nessun principio è
definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare con la rinuncia ad un
principio, il che equivale ad una negazione del principio. Ed è appunto questa
negazione che è il principio. Il cogito. Come passare da questa negazione alla
presenza. Dobbiamo contemplare l’origine della negazione. L’assolutezza della
presenza consiste in questo: che essa non è presenza in quanto presenza di
qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè nega ogni cosa. Nega ogni cosa
che non sia la presenza stessa. Il suo essere pura presenza è un essere
presenza di... che è un essere presenza di nulla, quindi è un negarsi, appunto
perché è un ridurre a presenza Vattimo, Fare giustizia del diritto, in J.
Derrida, Vattimo (cur.), Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici, Il diritto
come estetica La negazione diviene, metafisicamente, affermazione proprio per
la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma questa affermazione negativa
della metafisica si distingue dall’affermazione positiva dell’empiria, poiché
mentre quest’ultima è oggettivata, individualizzata, è parte di un tutto, la
prima, invece, è puro soggetto, privo di specificazioni e qualità empiri- che,
proprio perché le trascende come puro Essere. In questa logica negativa
conoscenza e volontà, pur coincidendo, si connotano come non conoscenza e non
volontà. Ovviamente, l’ipotesi si capovolge nella metafisica positiva, nella
quale conoscenza e volontà si presentano come assolute, e scompare
nell’empiria, ove la negazione è metamorfosi, ove il nulla è essere altro.
Tuttavia anche nella metafisica negativa il nulla sembra scivolare nell’altro,
tanto altro da essere al di là della fisica e della metafisica, ossia del
pensiero umano, ma questo altro è a sua volta nulla, almeno per la dimensione
conoscitiva umana, che non riesce a comprendere un altro non umano e fatica ad
immaginare una nullità, una assenza assoluta. Tornando ora in modo più stretto
al tema del diritto, è possibile riassu- mere quanto detto nel seguente modo:
se conoscere e volere coincidono a livello metafisico, nella realtà fisica
possono sia coincidere (Spinoza), sia non coincidere (volontà di potenza) e
lasciare spazio a scelte soggettive. Il diritto, inteso come estetica, consente
di non rinunziare al diritto, pur relativizzandolo, e di affidare al singolo
soggetto l’adesione o meno al diritto dominante, che in questo modo non
rappresenta più una obbligatorietà, ma l’alternativa tra una vita omologata, ma
sicura (forse), ed una vita originale, deviante, ma pericolosa. La norma
estetica può essere obbedita o disattesa. Il disattenderla, senza possedere una
potenza, una forza sufficiente a piegarla alla propria volontà, significa
soccombere alla forza dominante. Disattendere il diritto diviene una scelta
come tante altre, della quale si possono subire le conseguenze, generalmente
sgradevoli. Il determinismo o la volontà di potenza governano comunque il
sistema umano, ma almeno non sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere,
frutto dell’ulteriore sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che
guida l’azione. Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del
mondo ed il diritto estetico è ciò che resta del diritto dopo questa
demistificazione, che, tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire
certezze assolute. Ma l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il
sigillo della condizione umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani
della conoscenza e della volontà si presenta come una possibile via di fuga
dall’incertezza, dalla solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo,
è anche la misura fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La
duplicazione, dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed
artificiale Il diritto come estetica 111 alla condizione umana di assenza
di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della
vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due cellule.
Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il
sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un
processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso
l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo
sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta
iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4,
5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo
processo moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione
(finito/infinito) espressione di un processo al limite, che mai si compie, che,
per sua stessa natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti
cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la
tentazione dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni
duplicazione si presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta
solo un soggetto, della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto, poi,
non vi è neppure certezza della sua stessa esistenza), con il proprio sentire
incomunicabile se non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire percorso da
limiti organici, stimoli, motivazioni, giustificazioni, condizionamenti,
influssi misteriosi, comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre riducibile ad
una semplice alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine dell’essere è
questa l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e variabile, come
vari e variabili sembrano essere i singoli soggetti; una certezza che può
essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords:
i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a thrush/newt” turdus ubriacus –
sturdy – I tordi -- nihilism about values, Mackie, Inventing right and wrong,
Hare, emotivism, Grice, The conception of value, valitum – valore – axiology,
stato federale, federazione, fascismo, il fascismo e la autobiografia d’Italia
– Gobetti – statocentrale – diritto – diritto naturale e diritto artificiale –
assiologia, codice valoriale, fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte
Cagliostro, bobbio, nihilism, nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto,
delinquent, delinquenza, devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Ghezzi: l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool
Library.
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