Grice e Faggin: la ragione conversazionale dei bei --
metrica filosofica – inno orfico – scuola di Vicenza – filosofia vicentina –
filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Isola Vicentina). Filosofo italiano. Isola Vicentina, Vicenza, Veneto. Grice:
“I like Faggin: he is obsessed with love; he translated Fedro, he selected some
passages from the Roman philosopher Plotino and titled it, implicaturally “Dal
bello al divino,” but surely for Plotino, via hypernegation, the divine IS
beautiful – and finally, being an Italian, he became interested in “Dutch
Protestantism” – “il Pellegrino cherubico”!” Si laurea a Padova sotto Troilo. Insegna a Padova, Bassano
del Grappa, Campobasso, Vicenza. Studioso
del platonismo, della tradizione mistica e dell'occultismo, commenta le Enneadi
di Plotino. Altri suoi lavori riguardano Eckhart e la mistica medioevale, Schopenhauer,
la stregoneria e l'occultismo rinascimentale.
Altre opere: “Van Gogh, Padova, MILANI); Plotino, Milano, Garzanti); “Eckhart
e la mistica” Bocca, Milano); “Schopenhauer: il mistico senza Dio, Firenze, La
nuova Italia); “Le streghe: trentatré incisioni dell'epoca, Milano, Longanesi
et C.); “Gli occultisti dell'età rinascimentale, Milano, Marzorati); “Storia
della filosofia: ad uso dei licei classici, Milano, Principato); “Dal
Rinascimento a Immanuel Kant, Milano, Principato); “La filosofia antica”
(Milano, Principato); “Diabolicità del rospo” (Vicenza, Neri Pozza); “Dal
Romanticismo alla scuola di Francoforte, Milano, Principato); “Enneadi” Milano,
Istituto Editoriale), “Sulla libertà del volere”; “Sul fondamento della morale”
(Torino, Boringhieri); Eckhart, Trattati e prediche, Milano, Rusconi); Inni
orfici, Giuseppe Faggin, Roma, Āśram Vidyā). Platone Fedro Edizione
Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it) Platone
Fedro SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO:
Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una
passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal
mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio
delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza
più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia
era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da Epicrate, nella casa di
Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE: E come avete trascorso
il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo
saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che
io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo
tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio? FEDRO: Muoviti, allora!
SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice,
poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo,
sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un
amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante:
sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama.
SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che
un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno
bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero
urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se
facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico, arrivato
alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo
Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui
quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto
in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più
che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche
di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui,
ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma
ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato
convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine,
ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha
fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a
fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a
memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle
mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare
discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse
coribanteggiare con lui e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante
dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non
desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo
si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello
che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga
migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai
assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti
sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho
proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o
meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di
chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi,
cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai
nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il
discorso. Se è così, tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è
anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni
retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza
che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere?
SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci
sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al
momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo
camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa
stagione e a quest'ora. SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci
potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO:
Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se
vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio
da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito
Orizia? SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono
davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino.
SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per
andare al tempio di Agra: appunto là c'è un altare di Borea. 2 Platone
Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate,
sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come
fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente,
potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre
giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata
rapita da Borea (oppure dall'Areopago, poiché c'è anche questa leggenda, che fu
rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì
ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del
tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare
la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso
una folla di tali Gorgoni e Pegasi e un gran numero di altri esseri
straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà
ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una
sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo
per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in
grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso; quindi mi sembra
ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo.
Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si
crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me
stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta
fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per
natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.Ma cambiando discorso,
amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto
frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed
essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il
platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può
sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un
luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo. E se vuoi ancora, com'è amabile e
molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro
delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in
dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi
perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo
eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero
strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e
non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi
sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io
sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla,
gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina
per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati
agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu,
tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai
in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l
momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione
in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque.
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli
altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno
benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente,
per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che
amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i
benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano
pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece
coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle
proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né
incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo
tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà
loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in
grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado
di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più
speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per
di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di
diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per
via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non
hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre
spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di
piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se
dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del
piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone
di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma
irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe
involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove
di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non
possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo
tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche
acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una
tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di
tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici
non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali,
serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle
feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e
ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li
seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno
non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere
non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore;
non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della
tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno
partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne
vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non
coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo
stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma
dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e
che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi
veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i
Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi
nella maniera migliore. Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli, Socrate:
precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla
di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe
dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In
questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno
parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere
convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di
queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da
qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in
prosa. Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino
fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle
sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò,
dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra
fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza
ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose
bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come
le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di
dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle
contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto
che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale,
non solo mia ma anche tua. SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se
pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose
diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo
scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del
discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano
piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia
tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza
degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e
perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non
l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili
da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO:
Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto
farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più
ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in
maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua
lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! SOCRATE:
L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo
amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più
vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai
dato l'occasione per un'uguale presa. Ora tu devi parlare assolutamente, così
come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da
commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar
fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato
anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma
tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò
che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io
sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,
e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato
Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti,
da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è
la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una
cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela!
FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti
giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti
giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano,
non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno.
SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo
amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti
giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché
tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce
melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate
dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il
racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo,
uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna
sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più
sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna cosa. Perciò, nella convinzione
di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne
pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra
loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma
dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con
chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una
definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente
questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un
vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti;
che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa
allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in
ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi
seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri,
l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due
princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in
disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando
l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria
ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione
verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La
dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti;
e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il
soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi.
Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e
sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga
chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce
in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche
per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a
seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene
chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso
precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta
detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il
sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto
verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso
congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome
dal suo stesso vigore, è chiamato eros. Ma caro Fedro, non sembra anche a te,
come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha
preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE:
Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non
meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe:
le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi. FEDRO: Dici
cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché
forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo
provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al
fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni,
è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire
il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno
che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al
desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più
possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza
è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un
amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole
sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al
saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha
abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è
inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti
difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che
essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso
e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie
vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa
grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale
diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui
inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato,
così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante
di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe
fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso.
Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in
nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la
costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone,
dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà
seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole
ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta
invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti
altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a
ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un
punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra
come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli
amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar
perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo,
cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la
protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli
si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari,
più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre,
parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima
compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli
penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato,
trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto
del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante
si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a
lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto
della sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla
maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o
molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono
essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga. L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il
discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso
uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e
indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non
ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi,
proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa
credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali
tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che
quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi
opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di
entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta;
e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto
da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia
passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene
chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non
appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino,
Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti
durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li
pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli
(faccio eccezione per Simmia il Tebano, ma gli altri li vinci di gran lunga). E
ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora
non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando
stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino
che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per
fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di
andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa
verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo,
ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò
comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un
che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il
discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo»
nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani. Ma ora mi sono
reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? SOCRATE: Terribile, Fedro,
terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai
costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto
empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno,
se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di
Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non
è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia
bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino,
non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui
ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa
nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché
senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà
cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto
io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle
colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non
conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver
diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse
quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è
veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana
Pergamo. E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò
immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto
questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò
di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come
allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di
queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza
siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se
un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o
lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti
sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei
confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare
persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero,
e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros?
FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi
confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine
che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a
Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni,
conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che
sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che
Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso
argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti
coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in
modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi
favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è
accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel
ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di
Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di
Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è
veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve
piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a
"mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania
fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci
vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa
di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania,
procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre
quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla e
di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con
le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il
futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere
addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i
nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non
avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si
discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una
cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli
uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno
chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli
uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo,
dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla
"oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono
"oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la
"o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto più l'arte mantica
è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al
nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli
antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene
dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva
manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più
gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche
colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso
purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente
e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda
a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono
l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare
il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande
felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo
sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo
alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue
opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale.
Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da
altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò
che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di
muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose
dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che
tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia
origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe
più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche
incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né
altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così
principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né
nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico,
resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita
e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si
proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione
dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene
dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno,
cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è
così, ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di
necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto
a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia,
sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire
invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve;
parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza
costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti
buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga
che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e
nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria;
perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta.
Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato
mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e
gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata,
essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene
trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la
sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra
muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente
ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere
spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in
maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di
un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si
dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita
delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca
questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è
pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa
del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli
che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria
schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi
entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici,
adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo
vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a
banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta
celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono
facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del
male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non
l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema.
Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità,
procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le
trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo.
Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il
luogo iperuranio. La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio
di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è,
senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo
dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della
vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è
nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui
preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo
l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione
ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa
compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9
Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che
in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi
chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere;
e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono
e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno
alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia,
mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la
vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi
il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo
fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai
cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso
il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni
esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in
alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno,
calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima
dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore,
nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e
a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne
partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate
indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono
tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo
adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di
esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è
la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto
qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a
fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a
tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di
oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada
sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale
nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di
esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o
amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene
per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto
alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad
amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà
amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo,
la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai
misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di
coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o
di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo,
alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita
secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro
giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è
venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di
tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha
amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni,
se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo
modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre,
quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo
essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a
scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del
cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in
forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla
scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima
umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può
ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non
giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò
che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene
raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un
tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò
dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente
è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al
ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in
virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di
tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo
realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e
si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più
che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il
discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza
di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi
in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi
di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania:
di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con
essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e
partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima
d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe
incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle
cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora
videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno
avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie
all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche
nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora
vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in
sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione
sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose
che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù,
ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso
i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si
poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al
seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una
contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più
beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova
di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando
nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e beate
in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora
chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come
un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per
il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto
alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere,
e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre
sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è
la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci
permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se
giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le
altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte,
di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato
di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso
la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di
conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere
imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con
tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura.
Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora,
quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una
qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra
qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se
non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo
amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione
provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso
gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si
abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto
donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della
bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è
turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita
comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte
né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di
poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è
imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti,
riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento
presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di
sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di
madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue
sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le
consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a
servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più
vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in
colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A
questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini
danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo,
data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi
citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali
è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così :
I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere
l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la
causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da
Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso
del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e
giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche
torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio
amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era
seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta
incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e
ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra
i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli
edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I
seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro
dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e
quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia
effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del
genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile,
continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro
conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a
volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono
presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le
occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un
dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro,
e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono
nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro
che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno
per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno
degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio
fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano
essi stessi il dio e con la persuasione e 11 Platone Fedro
l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello,
ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato
con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza
più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore
e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano
nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga
conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è
conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione
in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di
cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un
punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no:
quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non
l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova
nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto
e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito
a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta
e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto,
grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il
pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e
vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli
speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in
tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei
pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a
freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso
all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta,
ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta
di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso
l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si
oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e
inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano
trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro
ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante
dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della
bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla
temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade
supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte
che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non
recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano,
l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro,
cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende
fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole
l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato
il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la
loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta.
Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo
rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad
accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono
vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li
trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa
impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira
indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina
la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo
dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa
più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito
dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza
accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e
timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni
venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo
sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in
precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le
quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo
avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo
inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un
malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E
dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare
in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino,
colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non
offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un
dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato
incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di
quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore,
scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne
è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da
corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della
bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura
arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i
condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche
l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a
conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una
malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli
non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in
presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è
assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una
sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede
amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole,
desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in
seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo
sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo
guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da
dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante,
manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così, nel momento in cui
si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua
l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme
all'auriga 12 Platone Fedro si oppone a ciò, obbedendo al pudore e
alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che
guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di
quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati,
avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui
nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle
tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina
possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di
vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato
di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di
giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa
direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e
mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne
avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono
approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno
di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi
dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito
sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono
dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio
non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali
hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella
tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e
felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati
rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così
divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la
compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di
amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una
bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno
alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre
facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in
dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al
resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di
prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e
non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di
essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso
precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata,
attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da
simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello
Polemarco, affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma
dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici.
FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che
avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più
bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche
voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico,
un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua
critica lo chiamava logografo; perciò forse si tratterrà per ambizione dallo
scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al
tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore.
Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per
criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che
coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si
vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione
dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro,
che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre
all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo
comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono
un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per
primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO:
In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del
discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda!
FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il
popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e
qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si
mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver
composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro
che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il
discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e
radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui
e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non
disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora?
Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di
Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città,
non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri
non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO:
Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in
qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi?
13 Platone Fedro FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a
quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro
a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo.
SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo
non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual
è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro,
di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o
comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in
versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale
ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non
certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova
godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo
sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto
pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra
la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero
che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma
sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente,
giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per
dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio
presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro
come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci
daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini.
FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito.
SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai
sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli
vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il
canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si
curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in
seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo
dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare
subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi
dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse
onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli
a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le
altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania,
che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E
allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci
siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non
lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo
bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il
vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro
Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la
necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto
alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico,
abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto?
Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto
a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per
Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco?
FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti
accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti
sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di
ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco
la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da
ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione
di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque,
amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci
offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO:
Pare di sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel
discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle
cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra
cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati.
SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due
discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le
parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne
attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle
Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono,
poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia
come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del
discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui
sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse
evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste
cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma
esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola
"ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa
cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto"
e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e
siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO:
Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO:
è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la
retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è
evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve
innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere
peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi
nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo,
Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che,
nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba
percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende
parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe
dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi
che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non
ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e
in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso
seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso.
Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio
lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia
utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere
ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si
pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...».
SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette
mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e
prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso
di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa?
O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità
doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti
trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in
maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una
qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi
argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi
che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE:
Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme
scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no?
16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo
compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in
nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il
Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è
questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua
scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime
aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come
credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per
ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo
perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai
quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e
passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per
chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa
alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve
compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE:
Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto
questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì
. SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane,
l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO:
Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a
quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella
iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros,
e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come,
rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un
che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso
non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con
parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo
signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un
discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame
solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO:
Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto
realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due
procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte
la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose
disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo
d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di
volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una
volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è
appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e
coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE:
Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle
loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla
maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano
la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo
unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti
si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. Platone Fedro SOCRATE: Hai
fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere
pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è
vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da
testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi
vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente
uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro?
SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una
confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo
Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55)
alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per
esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare
Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto
più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è
piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario
nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità
infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me
queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi
di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto
sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite
eleo voterebbe con lui. FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi
alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il
parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui
Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le
opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE:
Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto
ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che
l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario
nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto
adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e
sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra
tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di
riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli
ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati?
SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei
discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE:
Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale
potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una
potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE:
Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra
anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora
dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e
dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e
raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e
persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho
queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico
un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero
dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e
quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se
allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso
queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»?
FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità
non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie
e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che
conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una
tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina,
non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che
direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri
ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i
loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre
ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme,
come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia
proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini
insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia
detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è
veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un
perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario,
che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai
un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di
una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò,
non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e
Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo,
che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica.
FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di
discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa
capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da
qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche
questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di
discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione,
argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò
quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE:
Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E
come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del
corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo
empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli
medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la
virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è
verosimile che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile
comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la
natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è
degli Asclepiadi, senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la
natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il
discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata
per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che
cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo
di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece
persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un
sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con
arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i
suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
19 Platone Fedro FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto
pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo
non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento.
Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante
forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza
alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme
dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme
dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un
certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su
determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai
niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando
sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali
discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se
stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a
suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così, per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il
mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve
dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo
uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli,
e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia
condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non
ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà
subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le
cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO:
Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero
sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque
luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no. FEDRO:
Cosa? Platone Fedro SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora
che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere
nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la
verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da
dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò
che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro
che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le
forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte
dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire
queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare
i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose
che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto
è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha
intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se
non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni.
Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere
grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice
il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei
traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo
bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi
intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di
soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e
della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come
no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza
della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no?
FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai
acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole?
FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata
dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci
importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una
domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito
dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi
dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della
divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria
e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la
scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città
della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il
suo dio Ammone.Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che
dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse
l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli;
quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà
gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato
trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose:
«Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale
danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene.
Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello
che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della
memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza,
perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri
estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco
non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai
tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte
cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più
le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori
di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità
discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio
caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona
venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti
come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una
roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che
parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno
così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla
scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di
tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella
convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di
simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose
vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La
medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino
come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di
ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e
Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il
discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così
come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve
parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre
bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di
venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime.
SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo
di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente
di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è
quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende;
esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi
tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale
quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per
l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente
d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse
ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe
ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a
quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e
seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse
a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul serio per gli uni,
diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi
possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno
dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le
scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a
discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in
modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti
non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per
gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se
stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua
la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri
faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti
fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la
vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che
dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi
coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli.
SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa,
credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende
un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che
siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non
siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di
altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo
sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO:
Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo,
Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle
che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia
esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i
discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è
conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito
opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta
come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a
ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa
in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue
specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver
scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie
adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo
procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena
armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto
è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per
insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha
chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE:
Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere
discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha
forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto?
SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti
d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica,
nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo
ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e
sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di
essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di
certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi
argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio
di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche
pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), Platone
Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la
memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto,
sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far
apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e
pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti
suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel
caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo,
sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e
ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che
sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi
auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda
i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che
noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato
dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga
discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in
terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi
con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è
il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e
quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è
stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di
costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO:
Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra
che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece
filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente.
FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di
maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù
per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a
buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no?
SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non
bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui?
FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo?
SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo
di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore
a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più
nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere
dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se
fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo
non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi;
giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di
filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio
amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma
andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene
rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come
no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di
diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò
che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro
quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via. Abbiamo
bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura.
FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni.
SOCRATE: Andiamo! Platone Fedro Celebre oratore ateniese vissuto tra il
quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano orazioni giudiziarie. Il
discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente
fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi
al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca.
Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente
della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso
divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. Erodico di
Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo
regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella
Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele,
i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. Piccolo fiume
che scorre vicino ad Atene. Il dialogo è immaginato in piena estate, a
mezzogiorno. Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di
Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali.
Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso.
Demo dell'Attica. Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove
aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di
carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati
dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera
era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di
serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime
due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo
sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato
dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto
Bellerofonte uccise la Chimera) Conosci te stesso è appunto il precetto scritto
nel tempio di Apollo a Delfi) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era
un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura
lotta Zeus lo fulmina e lo scaglia sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in
Esiodo, Theogonia seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante
un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole,
intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente
accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite
l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità',
'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi
verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie)
Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il
dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale,
era anche dio dei fiumi) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade) Saffo è
la famosa poetessa lirica di Lesbo, autrice di carmi soprattutto d'amore
omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti
un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza.
Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di
poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece
possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. Gli arconti
ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero
trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro
della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e
fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una
statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua
volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler
(citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra
"ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con
lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della
leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. Socrate istituisce un
nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). Il
ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi
di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa,
indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e
quindi non mediata dal logos. L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un
coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi
in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava
lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che
l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima pitagorico, poi
discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. Ibico, frammnto,
Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi
frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C.
Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un
carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la
'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera
Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa
da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase
cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso
precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso.
Platone Fedro) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che
dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona,
nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. Questo nome designava in origine una,
in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei
responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. L'arte
divinatoria, "mantike", viene fatta derivare da "manikos"
cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione
platonica, viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e
accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli
auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è
provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale
al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. è il celebre mito dell'anima
come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se
infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il
significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione
tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima
concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da
intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella
Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e
anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio
della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si
nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è
comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i
cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima
immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio.
33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col
centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non
viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente
quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle
Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua
immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo
dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una
personificazione del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la
vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria
della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di
Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita
futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno
contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso
corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. Altro
gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros"
('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-,
radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di
"méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé"
('flusso'). Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la
tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i
poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è
un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente
coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi
omerici (Iliade, versi; libro, verso; libro, verso in cui si dice che gli dèi
chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare
nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e
l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. Le
Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE,
bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece
il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros". L'espressione
significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di
per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre
una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il
senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre
differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta
bisognava atterrare l'avversario tre volte) Figlio di Cefalo e fratello di
Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene
la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava
l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto
nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava
su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono
appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel
contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a
sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i
sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica,
significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile.
Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il
legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi,
Solone attuò, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che
prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario, re di
Persia., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. Il mito che segue è
probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora
dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte
dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico,
un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e
le Muse, non approvano. Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia), le Muse
qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato
è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. Platone
Fedro) Omero, Iliade. Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che
dice la verità in modo franco e lapidario. I "figli" di Fedro sono i
discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei
guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e
soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe
che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia,
era fornito di capacità oratorie. LEONZIO (si veda) fu uno dei principali
esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle
sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista
Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della
Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come
diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del
quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. Allusione ironica a Zenone
di VELIA (si veda) e ai paradossi con i quali cerca di confutare
dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi
della freccia e di Achille e la tartaruga. Mida era il leggendario re della
Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter
trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva
mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono
funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette
saggi. Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. Tisia fu maestro di Gorgia e
iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico di Ceo,
uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e
maestro di Socrate. Ippia di Elide, il
celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di
Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei
protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere
di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora.
Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad
Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è
ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una
condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo
è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere) Adrasto,
il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da
Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già
riferito da Tirteo (frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come
eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo
statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico
della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco
d'ironia, per le sue capacità oratorie) Anassagora di Clazomene visse per molti
anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto
cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà
ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di
Cos fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da
Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un
considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum.
64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco.) Theuth o
Thoth era il dio egizio dell'invenzione,che i Greci identificavano con Ermes;
rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con
questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente
"ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e
non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata
all'oralità dialettica) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus,
leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone,
una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale
e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data
a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone») I «giardini di Adone» erano
recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e
subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il
bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di
scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di
gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione
orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto) Il retore Isocrate fondò ad
Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano
orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la
guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani)
Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco,
venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era
rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo
assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva.
«Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.
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Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Orfeo (disambigua). Orfeo - Orfeo (epoca romana) - Foto G.
Dall'Orto.jpg Orfeo circondato dagli animali. Mosaico pavimentale romano, Museo
archeologico regionale di Palermo. Nome orig.Ὀρφεύς Specieumana SessoMaschio
Luogo di nascitaTracia Professionecantore e argonauta Orfeo (Ὀρφεύς
[or.pʰeú̯s]: Orpheus) è un personaggio della mitologia greca. Bassorilievo
in marmo di epoca romana, copia di originale greco, che rappresenta Ermes,
Euridice e Orfeo. L'opera originale, probabilmente di Alcamene, è andata
perduta. Questo bassorilievo, conservato presso il Museo archeologico di
Napoli, è tra le testimonianze che attesterebbero l'esito negativo della
catabasi di Orfeo già a partire dal V secolo a.C. Qui Orfeo voltatosi verso
Euridice, le alza il velo, forse per verificare l'identità della donna e quindi
la perde. Secondo l'opinione di Cristopher Riedweg sarebbe infatti evidente che
Ermes a questo punto trattenga per un braccio la sposa di Orfeo, che volge
quindi il piede destro per tornare indietro. Orfeo ritratto in un kratēr
(κρατήρ) attico a figure rosse risalente al V secolo a.C. e oggi conservato
presso il Metropolitan Museum di New York. Orfeo, che siede a sinistra
impugnando la lira (λύρα), veste un abito tipicamente greco, a differenza
dell'uomo che gli si pone in piedi davanti che invece indossa un costume
tracio. Questo particolare, unitamente alla presenza, a destra, della donna che
impugna una piccola falce, può rappresentare una delle varianti della sua
leggenda che lo vuole missionario greco in Tracia, ucciso lì dalle donne in
quanto escludendole dai suoi riti induceva i loro mariti ad abbandonarle:
«Dicono poi che le donne di Tracia tramavano la sua morte, perché aveva
persuaso i loro uomini a seguirlo nei suoi vagabondaggi, ma non osavano passare
all'azione per paura dei loro mariti. Ma una volta, riempitesi di vino,
attuarono la scellerata impresa. E da quel momento invalse per gli uomini il
costume di andare ebbri alle battaglie.» (Pausania, Periegesi della
Grecia) Mappa dei luoghi che, secondo la mitologia, Orfeo avrebbe visitato e
legato a sé. Il nome di Orfeo è attestato a partire dal VI secolo a.C., ma,
secondo Mircea Eliade, «non è difficile immaginare che sia vissuto 'prima di
Omero'». Si tratta dell'artista per eccellenza, che dell'arte incarna i valori
eterni, ma anche di uno «sciamano, capace di incantare animali e di compiere il
viaggio dell'anima lungo gli oscuri sentieri della morte»[7], fondatore
dell'Orfismo. I molteplici temi chiamati in causa dal suo mito - l'amore,
l'arte, l'elemento misterico - sono alla base di una fortuna senza pari nella
tradizione letteraria, filosofica, musicale, culturale e scultorea dei secoli
successivi. Orfeo e l'Orfismo Il primo riferimento a noi pervenuto sulla
figura di Orfeo è nel frammento del lirico di Rhegion (REGGIO (si veda) Reggio
Calabria) Ibico vissuto nella Magna Grecia, nel quale appare già famoso.
Attorno alla sua figura mitica, capace di incantare persino gli animali, si
assesta una tradizione che non gli attribuisce un normale modo di fare musica,
bensì la psychagogia, che si estende alle anime dei morti. Il papiro di
Derveni, rinvenuto vicino a Salonicco, offre un'interpretazione allegorica di
un poema orfico non a caso in concomitanza con un rituale per placare i
morti. Associato alla figura di Dioniso, divorato dai Titani con i quali
rappresenta, da un lato la componente dionisiaca della vita –ossia l'elemento
divino o "anima"– e dall'altro il corpo mortale, Orfeo è la figura
centrale dell'Orfismo, una tradizione religiosa che, per prima nel mondo
occidentale, introduce la nozione di dualità fra corpo mortale e anima immortale.
Il mito Orfeo ucciso dalle menadi, in uno stamnos a figure rosse,
conservato al Museo del Louvre di Parigi. Questo dipinto racconta la morte di
Orfeo secondo il mito che lo vuole ucciso dalle seguaci di Dioniso, da questo
dio a lui inviate in quanto mosso dalla gelosia per l'ardore religioso che il
poeta conservava nei confronti di Apollo, da lui invocato sul monte Pangaio
(anche Pangeo) quando il sole, immagine di Apollo, sorgeva: «[Orfeo] Non
onorò più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamò anche
Apollo; e svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa aspettava
il sorgere del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò Dioniso,
adirato, gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico Eschilo:
esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente; le
Muse poi riunitele, le seppellirono nel luogo chiamato Libetra.» (fr. in
Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern; traduzione di Elena
Verzura. Milano, Bompiani) Le originiModifica Ulteriori informazioni Questa
voce o sezione sugli argomenti religione e mitologia greca è priva o carente di
note e riferimenti bibliografici puntuali. Secondo le più antiche fonti Orfeo è
nativo della città di Lebetra in Tracia, situata sotto la Pieria, terra nella
quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che
fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici
operanti sul mondo della natura, capaci tra l'altro di provocare uno stato di trance
tramite la musica. Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro (o,
secondo altre versioni meno accreditate, del dio Apollo), appartiene alla
generazione precedente degli eroi che parteciparono alla guerra di Troia, tra i
quali ci sarebbe stato il cugino Reso. Secondo un'altra versione Orfeo fu il
sesto discendente di Atlante e nacque undici generazioni prima della guerra di
Troia. Egli, con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto,
placava le bestie feroci e animava le rocce e gli elementi della natura.
Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo. Orfeo fonde in sé
gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il
pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore
del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto
figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale,
di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è
dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti
analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli Inferi di una fanciulla
(Euridice nel caso di Orfeo e la madre Semele in quello di Dioniso). Orfeo
domina la natura selvaggia e può addirittura sconfiggere la morte
temporaneamente (anche se alla fine viene sconfitto perdendo la persona che
doveva salvare, a differenza di Dioniso). La letteratura, d'altra parte,
mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita
dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver
assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il
canto; tornato dagli Inferi, Orfeo abbandona il culto del dio
Dionisorinunciando all'amore eterosessuale. In tale contesto si innamora
profondamente di Calaide, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai
Traci. Per questo motivo, le Baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti
per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi
(vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di
Virgiliola causa della sua morte è invece da ricercarsi nell'ira delle Baccanti
per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.
Le imprese di Orfeo e la sua morteModifica Le ninfe ritrovano la testa di
Orfeo di Waterhouse. Secondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla
spedizione degli Argonauti: durante la spedizione Orfeo diede innumerevoli
prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte
occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave rimasta inchiodata
nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placò a Cizico
l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi, addormentò il drago e
superò la potenza ammaliante delle sirene. La sua fama è legata però
soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide separato dalla
driadeEuridice, che era sua moglie. Come Virgilio narra nelle Georgiche,
Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene
il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni
fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la
uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora negli inferi per
riportarla nel mondo dei vivi. Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da
Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore con la sua
musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade.
Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era, era stato
condannato da Zeus a essere legato a una ruota che avrebbe girato all'infinito:
Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira per fermare
momentaneamente la ruota, che, una volta che il musico smise di suonare,
cominciò di nuovo a girare. L'ultimo ostacolo che si presentò fu la
prigione del crudele semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio Pelope
(antenato di Agamennone) per dare la sua carne agli dei e aveva rubato l'Ambrosia
per darla agli uomini. Qui, Tantalo è condannato a rimanere legato a un albero
carico di frutta ed immerso fino al mento nell'acqua: ogni volta che prova a
bere, l'acqua si abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i frutti con
la bocca, i rami si alzano. Tantalo chiede quindi a Orfeo di suonare la lira
per far fermare l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato rimane
immobilizzato e quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento. A
questo punto l'eroe scese una scalinata di 1000 gradini: si trovò così al
centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta
raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo incontrò Ade (Plutone) e
Persefone (Proserpina). Ovidio racconta nel decimo libro delle
Metamorfosi come Orfeo, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto. Il
discorso di Orfeo fece leva sulla commozione, richiamando alla gioventù perduta
di Euridice e l'enfasi sulla forza di un amore impossibile da dimenticare e
sullo straziante dolore che la morte dell'amata ha provocato. Orfeo assicurò
anche che, quando fosse venuta la sua ora, Euridice sarebbe tornata nell'Ade
come tutti. A questo punto Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché
non fosse stato accontentato. Paesaggio con Orfeo ed Euridice di Poussin.
Mossi dalla commozione, che colse persino le Erinnistesse, Ade e Persefone
acconsentirono al desiderio. «Intonando al canto le corde della lira, così
disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi, dove noi tutti, esseri
mortali, dobbiamo finire, se è lecito e consentite che dica il vero, senza i
sotterfugi di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare le tenebre
del Tartaro o per stringere in catene le tre gole, irte di serpenti, del mostro
che discende da Medusa. Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva
calpestato, in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto Amore!
Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo; se lo sia anche qui, non so, ma
almeno io lo spero: se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi, per questo immane
abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego, ritessete il destino
anzitempo infranto di Euridice! Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per
la prima volta si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera, e
chiamarono Euridice.» (Ovidio, Metamorfosi) Essi posero però la
condizione che Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino
fino all'uscita dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla
soglia degli Inferi, temendo che lei non lo stesse più seguendo, Orfeo non riuscì
più a resistere al dubbio e si voltò per assicurarsi che la moglie lo stesse
seguendo. Avendo rotto la promessa, Euridice viene riportata all'istante
nell'Oltretomba. Orfeo, tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai
limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere e animando
gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo VIRGILIO (si veda),
]mentre Ovidio riduce il numero a sette giorni. Sa che non potrà amare più
nessun'altra, e malgrado ciò molte ambiscono a unirsi a lui. Secondo la
versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà del Trace nei
confronti della moglie morta non si piegava; allora, in preda all'ira e ai
culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (il famoso sparagmòs) e ne
sparsero i resti per la campagna. Un po' diversa è la rivisitazione del poeta
sulmonese, che aggiunge un tassello alla reazione anti-femminile di Orfeo,
coinvolgendo il cantore nella fondazione dell'amore omoerotico (questo elemento
non è di invenzione ovidiana visto che ne abbiamo attestazione già nel poeta
alessandrino Fanocle). Orfeo avrebbe quindi ripiegato sull'amore per i
fanciulli, facendo innamorare anche i mariti delle donne di Tracia, che
venivano così trascurate. Le Menadi si infuriarono dilaniando il poeta,
nutrendosi anche di parte del suo corpo, in una scena ben più cruda di quella
virgiliana. Piatto con Orfeo circondato da animali presso il Museo
Romano-Germanico di Colonia. In entrambi i poeti si narra che la testa di Orfeo
finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo
dell'immortalità dell'arte, scendendo (qui solo OVIDIO (si veda)) fino al mare
e da qui alle rive di Metimna, presso l'isola di Lesbo, dove Febo Apollo la
protesse da un serpente che le si era avventato contro. Il sofista del III
secolo Filostrato nell'Eroico racconta che la testa di Orfeo, giunta a Lesbo
dopo il delitto commesso dalle donne, stava in una grotta dell'isola e aveva il
potere di dare oracoli. Secondo altre versioni, i resti del cantore sarebbero
stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra. Tornando a
Ovidio, eccoci al punto culminante dell'avventura, forse inaspettato; Orfeo
ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla senza più temere. Orfeo
vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà più.
Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un
gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a partecipare a un'orgia
dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo
che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo uccidono, lo fanno a
pezzi e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa
cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus,
toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo
formando una costellazione (la quale in alternativa, secondo le Fabulae di
Igino, sarebbe non la lira di Orfeo ma quella di Arione). Secondo quanto
afferma Virgilio nel sesto libro dell'Eneide, l'anima di Orfeo venne accolta
nei Campi Elisi. Evoluzione del mitoModifica Ragazza tracia con la
testa di Orfeo, di Moreau. «Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo
traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la
pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora
dissi "sia finita" e mi voltai» (Orfeo ne L'inconsolabile di
Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947) Il mito di Orfeo nasce
forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del
riscatto della Kore e dello σπαραγμος (sparagmòs) al greco antico "corpo
fatto a pezzi") che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il
riportare la vita sulla terra dopo l'inverno. La prima attestazione di
Orfeo è nel poeta IBICO (si veda) di REGGIO (si veda), che parla di Orfeo dal
nome famoso. In seguito Eschilo, nella tragedia perduta Le bassaridi, fornisce
le prime informazioni attinenti alla catabasi di Orfeo. Importanti anche i
riferimenti di Euripide, che in Ifigenia in Aulide e ne Le baccantirende
manifesta la potenza suasoria dell'arte di Orfeo, mentre nell'Alcesti spuntano
indizi che portano in direzione di un Orfeo trionfatore. La linea del lieto
fine, sconosciuta ai più, non si limita a Euripide, dato che è possibile
intuirla anche in Isocrate (Busiride) e in Ermesianatte (Leonzio). Altri due
autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse
versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio. Nel
discorso di Fedro, contenuto nell'opera Simposio, Platone inserisce Orfeo nella
schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per
esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per
questa ragione gli viene consegnato dagli dèi degli inferi un phasma di
Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti
poiché il suo eros è falso come il suo logos. La sua stessa morte ha carattere
antieroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade,
non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza
della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere
conseguita solo tramite le forme superiori dell'eros. Apollonio Rodio inserisce
il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche, presentato anche qui come un eroe
culturale, fondatore di una setta religiosa. Il ruolo attribuito a Orfeo
esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria
arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare
ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel
quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una
personale cosmogonia. Nell'Alto Medioevo Boezio, nel De consolatione
philosophiae, pone Orfeo a emblema dell'uomo che si chiude al trascendente,
mentre il suo sguardo, come quello della moglie di Lot, rappresenta
l'attaccamento ai beni terreni. Nei secoli successivi, tuttavia, il Medioevo
vedrà in Orfeo un'autentica figura Christi, considerando la sua discesa agli
Inferi come un'anticipazione di quella del Signore, e il cantore come un
trionfante lottatore contro il male e il demonio (così anche più tardi, con El
divino Orfeo di Barca). Dante lo colloca nel Limbo, nel castello degli
"spiriti magni" (Inf.). Compare la prima rivoluzionaria
avvisaglia di un tema che sarà caro soprattutto al secolo successivo: il
respicere di Orfeo non è più frutto di un destino avverso o di un errore, ma
matura da una precisa volontà, ora sua, ora d'Euridice. Nel componimento
Euridice a Orfeo del poeta inglese Robert Browning, lei gli urla di voltarsi
per abbracciare in quello sguardo l'immensità del tutto, in una empatia tale da
rendere superfluo qualsiasi futuro. Il XX secolo si è appropriato della
tesi secondo cui il gesto di Orfeo sarebbe stato volontario. Come è d'uopo, i
primi casi non sono italiani. Jean Cocteau, ossessionato da questo mito lungo
tutta la propria parabola artistica, diede alle stampe il proprio singolare Orfeo,
opera teatrale che è alla base di tutte le rivisitazioni successive. Qui Orfeo
capovolge il mito; decide di congiungersi con Euridice tra i morti, perché l'al
di qua ha ormai reso impossibile l'amore e la pace. Laggiù non ci sono più
rischi. Gli fa eco il connazionale Jean Anouilh, in un'opera pur molto diversa,
ma concorde nel vedere la morte come unica via di fuga e di realizzazione del
proprio sogno d'amore: si tratta di Eurydice. Nel dialogo pavesiano
L'inconsolabile (Dialoghi con Leucò), Orfeo si confida con Bacca: trova sé
stesso nel Nulla che intravede nel regno dei morti e che lo sgancia da ogni
esigenza terrena. Totalmente estraneo alla vita, egli ha compiuto il proprio
destino. Euridice, al pari di tutto il resto, non conta più nulla per lui, e
non potrebbe che traviarlo da siffatta realizzazione di sé: ha nelle fattezze
ormai il gelo della morte che ha conosciuto, e non rappresenta più l'infanzia
innocente con cui il poeta l'identificava. Voltarsi diviene un'esigenza
ineludibile. «L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io
cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non
sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre
irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto,
lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare.
Ho capito che i morti non sono più nulla» Più cinico, l'Orfeo delineato
da Bufalino intona, al momento del "respicere", la famosa aria dell'opera
di Gluck (Che farò senza Euridice?). La donna così capisce: il gesto era stato
premeditato, nell'intenzione di acquisire gloria personale attraverso una
(finta) espressione del dolore, in un'esaltazione delle proprie capacità
artistiche. Opere in cui appare o è trattata la sua figura Letteratura Simposio
(discorso di Fedro) - opera filosofica di Platone. Argonautiche - poema epico
di Apollonio Rodio. Elegia n.1 Powell - Orfeo e Calais - elegia contenuta ne
Gli amori o i belli di Fanocle. Georgiche - poema di Virgilio. Eneide - poema
di Virgilio (Orfeo è tra gli spiriti dei Campi Elisi; Virgilio lo chiama
sacerdote di Tracia, senza dunque nominarlo) Metamorfosi - poema di Ovidio.
Fabula di Orfeo - Opera teatrale di Angiolo Poliziano. Orfeo - idillio di
Marino. Euridice ad Orfeo - epistola lirica di Antonio Bruni. Sonetti a Orfeo -
raccolta poetica di Rainer Maria Rilke. Orfeo, Euridice ed Hermes - poesia di
Rainer Maria Rilke La persuasione e la rettorica - saggio di Carlo
Michelstaedter (il rimando al mito di Orfeo è centrale anche nel ciclo di poesie
A Senia, del medesimo Michelstaedter). Canti orfici - raccolta poetica di Dino
Campana. Orfeo Vedovo - opera teatrale di Alberto Savinio. Tutte le
cosmicomiche di Italo Calvino (racconti Senza Colori, Il cielo di pietra,
L'altra Euridice). Il ritorno di Euridice (da L'uomo invaso) - racconto di
Gesualdo Bufalino. Eurydice to Orpheus - poesia di Robert Browning. Eurydice
(da Collected Poems) - poesia di Doolittle. Orphée - opera teatrale di Jean
Cocteau. Eurydice - opera teatrale di Jean Anouilh. Orfeo - poema di Juan
Martinez Jáuregui. Racconto di Orfeo - poema di Robert Henryson (o Henderson).
Bestiaire ou Le cortège d'Orphée - raccolta poetica di Guillaume Apollinaire.
La presenza di Orfeo - prima raccolta poetica di Alda Merini. Orfeo emerso -
romanzo di Jack Kerouac. La terra sotto i suoi piedi - romanzo di Salman
Rushdie. Il lamento d'Orfeo - opera teatrale di Valentino Bompiani. Dialoghi
con Leucò - raccolta di racconti di Cesare Pavese (Orfeo appare nel dialogo
L'inconsolabile). La discesa di Orfeo (Orpheus Descending), opera teatrale di
Williams. La Saga dei Mitago - Il Tempio Verde - di Robert Holdstock. Orfeo
africano - romanzo breve di Werewere Liking. Lei dunque capirà - monologo di
Claudio Magris. Orpheus - opera teatrale di Giuliano Angeletti.
"Schatten" Euridyke sagt - opera teatrale di Elfriede Jelinek Poema a
fumetti, (racconto per immagini del mito di Orfeo in chiave moderna) di Buzzati,
Mondadori. La Musica, Orfeo, Euridice – Il mitema e l'adeguamento al
contemporaneo, di Francesca Bonaita, Virginio Cremona Editore Orfeo
sconsacrato. Viaggio nelle vite di Orfeo, Danilo Laccetti, Jouvence, Musica Lo
stesso argomento in dettaglio: Orfeo (musica). Euridice (opera) - opere
teatrali su libretto di Rinuccini musicate da Iacopo Peri e da Giulio Caccini
(1600). L'Orfeo - Melodramma di Monteverdi. Orfeo dolente - Opera musicale di
Domenico Belli. La morte di Orfeo - Tragicommedia pastorale di Landi. Orfeus
und Euridice - Opera-ballo di Schütz. Orfeo - Opera musicale di Rossi Orfeo (Sartorio) - Opera musicale di Antonio
Sartorio, su libretto d’Aureli Orfeo - Opera musicale di Jean-Baptiste Lully e
Louis Lully. Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Gluck. Orfeo ed Euridice -
Ballo di Deller. Orfeo ed Euridice - Opera lirica di Naumann. L'anima del
filosofo ossia Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Haydn. Orpheus - Poema
sinfonico di Liszt. Orfeo all'inferno - Operetta di Offenbach. Orfeo -
Mimodramma di Ducasse. Orpheus und Eurydike - Opera lirica di Krenek. La favola
di Orfeo - Opera in un atto di Casella Orpheus - Balletto di Stravinskij. Orfeu
da Conceiçāo - Dramma musicale di Moraes. Orfeo - Opera rock di Schipa Jr.
Orpheus - Canzone di David Sylvian contenuta nell'album Secrets of the Beehive.
Euridice - Canzone di Roberto Vecchioni dall'album Blumùn Orfeo - Singolo di
Carmen Consoli contenuta nell'album Stato di necessità. Orfeo a Fumetti - Opera
da camera di Filippo del Corno. Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus – album di Cave and The Bad Seeds,
che contiene la traccia The Lyre Of Orpheus. Metamorpheus - Concept album dedicato al mito di
Orfeo di Hackett. Eurydice - singolo d'esordio del progetto Sleepthief. Orfeo
Coatto - Mp3dramma di Francesco Redig de Campos. Caliti junku, canzone
dell'album Apriti sesamo di Battiato. Awful Sound (Oh Eurydice) e It's Never
Over (Hey Orpheus), canzoni dell'album Reflektor degli Arcade Fire. King of Shadows - track 1
dell'album R-Evolution - Martiria featuring ex Black Sabbath Vinny Appice. Pittura Orfeo morto - Dipinto di Delville. Le ninfe
ritrovano la testa di Orfeo - Dipinto di Waterhouse. Orfeo - Dipinto di
Tintoretto. Orfeo solitario - Dipinto di Chirico Orfeo all'inferno - Dipinto di
Rubens. La leggenda di Orfeo - Trittico di Luigi Bonazza. Ragazza tracia con la
testa di Orfeo - Dipinto di Gustave Moreau. Orfeo - Dipinto di Pierre
Marcel-Béronneau Scultura La morte di Orfeo di Michele Tripisciano a
Caltanissetta. Orfeo, Euridice ed Hermes - Rilievo fidiaco. Orfeo, formella di
Luca della Robbia per il Campanile di Giotto. Orfeo ed Euridice, scultura di
Auguste Rodin, New York, Metropolitan Museum of Art. La morte di Orfeo scultura
di Michele Tripisciano, Caltanissetta, Museo Tripisciano di Palazzo Moncada.
Cinema Le sang d'un poète, di Jean Cocteau Orfeo (Orphée), di Cocteau Il
testamento di Orfeo (Le Testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi!),
di Cocteau Pelle di serpente (The fugitive kind) di Sidney Lumet, dal dramma di
Tennessee Williams Orpheus Descending Orfeo negro (Orfeu Negro), di Camus; dal
dramma di Moraes. Harry a pezzi di Woody Allen Tre colori - Film blu (Film
bleu) di Kieslowski Al di là dei sogni (Where dreams may come, di Vincent Ward
Solaris di Steven Soderbergh Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma
Fumetti e animazione Orfeo della Lira è un personaggio del manga e anime Saint
Seiya (I cavalieri dello zodiaco). Orfeo è figlio di Sogno nei fumetti
Sandman scritti da Neil Gaiman. VideogiochiModifica Orfeo (Orpheus) è il
Persona iniziale del protagonista del videogioco Shin Megami Tensei: Persona
3 Orfeo (Orpheus) compare anche nel viodeogioco Hades come personaggio
secondario, legato ad una questline che, riprendendo il mito greco, coinvolge
anche il personaggio di Euridice. Modifica ^ Cristopher Riedweg, Orfeo, in
Salvatore De Settis (cur.), Storia Einaudi dei Greci e dei Romani,
Milano-Torino, Il Sole 24 Ore – Einaudi Pausania, Viaggio in Grecia, traduzione
di Rizzo, Milano, Rizzoli, Anche Conone (Frammenti orfici, nella edizione di
Otto Kern). ^ «Orfeo, fondatore dell'Orfismo» è l'incipit della voce
nell'Oxford Classical Dictionary (trad. it. Dizionario di antichità classiche,
Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo,, voce firmata da Nilsson, Croon e Robertson.
La voce dell'Oxford Classical Dictionary prosegue precisando: «La sua fama di
cantore nella mitologia greca deriva dalle composizione nelle quali erano
esposte le dottrine e le leggende orfiche». In modo analogo la Encyclopedia of Religion ( NY,
Macmillan, avvia la voce Orpheus a firma di Detienne e Bernabé: «In the sixth
century BCE, a religious movement that modern historians call Orphism appeared
in Greece around the figure of Orpheus, the Thracian enchanter.». Werner Jaeger evidenzia tuttavia che «nella tarda
antichità Orfeo era un nome collettivo il quale più o meno raccoglieva tutto
quanto esisteva in fatto di letteratura mistica e di orge liturgiche.» (Cfr. La teologia dei primi
pensatori greci, traduzione di Ervino Pocar, Firenze, La Nuova Italia, Orfeo,
Pitagora e la nuova escatologia, in Storia delle credenze e delle idee
religiose, Milano, Rizzoli, Detienne e Bernabé, Encyclopedia of Religion, NY,
Macmillan, Thus, before he becomes the founding hero of a new religion or even
the founder of a way of life that will be named after him, Orpheus is a voice—a
voice that is like no other. It begins before songs that recite and recount. It
precedes the voice of the bards, the citharists who extol the great deeds of
men or the privileges of the divine powers. It is a song that stands outside the
closed circle of its hearers, a voice that precedes articulate speech. Around
it, in abundance and joy, gather trees, rocks, birds, and fish. In this
voice—before the song has become a theogony and at the same time an
anthropogony—there is the great freedom to embrace all things without being
lost in confusion, the freedom to accept each life and everything and to
renounce a world inhabited by fragmentation and division. When representatives
of the human race first appear in the presence of Orpheus, they wear faces that
are of war and savagery yet seem to be pacified, faces that seem to have turned
aside from their outward fury. Guidorizzi,
Il mito greco, Milano, Mondadori, La sapienza greca, traduzione di Giorgio
Colli, Milano, Adelphi ὀνομακλυτὸν Ὀρφήν. Orfeo dal nome famoso.» (Ibico)
Orfici. Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern, traduzione di
Elena Verzura, Milano, Bompiani «τοῦ καὶ ὰπειρέσιοι ποτῶντο ὄρνιζες ὑπὲρ
κεφαλᾶς, ἀνὰ δ'ἰχθύες ὀρθοὶ κνανέου ἐξ ὓδατος ἃλλοντο καλᾶι σὺν ἀοιδᾷι» Sul
suo capo volavano anche innumerevoli uccelli e diritti dalla profondità
dell'acqua cerulea i pesci guizzavano in alto al suo bel canto.» (Simonides; PLG IBetegh, G.,
The Derveni Papyrus: Cosmology, Theology and Interpretation, Cambridge. REALE (si veda), La novità di fondo dell'Orfismo, in
Storia della filosofia romana, Milano, Bompiani, DK Georgiche Metamorfosi Virgilio
Nel libro XI delle Met. Il mito è narrato. Jacquemard e Brosse, Orfeo o
l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma, Borla, Rodighiero, Gli autori e i testi, in Ciani e
Rodighiero, Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Discorso di Fedro, in Platone,
Simposio, Siamo nel racconto Il ritorno di Euridice, ne L'uomo invaso; per
questo e tutti gli altri riferimenti cfr. A. Rodighiero; per una panoramica
dettagliata delle riprese novecentesche della vicenda del cantore tracio cfr.
M. di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra
passato e presente, Firenze, Michele Tripisciano, su storiapatriacaltanissetta.it,
Caltanissetta, Società Nissena di Storia Patria, Jacques Brosse e Simone
Jacquemard, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma,
Borla, Cannas, Lo sguardo di Orfeo, Roma, Bulzoni, Ciani e Rodighiero, Orfeo.
Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, Simone, Amore e morte in uno sguardo.
Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, Libri liberi,
Guidorizzi e Melotti (et al.), Orfeo e le sue metamorfosi, Roma, Carocci,
Lonardi, Alcibiade e il suo demone. Parabole del moderno tra D'Annunzio e
Pirandello, Verona, Essedue Edizioni, Schuré, I grandi iniziati, traduzione di
Arnaldo Cervesato, Bari, Laterza, 1 Charles Segal, Orfeo. Il mito del poeta,
traduzione di Morante, Torino, Einaudi, Sorel, Orfeo e l'orfismo, traduzione di
Luigi Ruggeri, Nardò, Besa, Orphée et l'orphisme, Parigi, Presses
Universitaires de France, Euridice (ninfa) Orfeo (musica) Orfismo Decapitazione.
Orfeo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Rostagni, ORFEO, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Orfeo, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Letteratura
Portale Mitologia greca Orfeo (nome) prenome maschile Euridice
(ninfa) driade della mitologia greca, moglie di Orfeo Fabula di Orfeo. Giuseppe
Faggin. Faggin. Keywords: metrica filosofica, Lucrezio, inno orfico, inni
orfici, philosophy of the toad – rospo – l’orfismo nella Roma antica; filosofia
antica – l’antico nel rinascimento italiano – occultismo – misticismo –
protestantismo italiano – Italia contro Roma. Fedro, ovvero del bellow, Dal
bello al divino – Il peregrine cherubico – l’arbero come simbolo – il fuoco
come simbolo – la luce come simbolo – canti orfici – sul bello -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Faggin” – The Swimming-Pool Library.
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