Grice e Girotti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della curva – la filosofia nella storia d’Italia – il caso
Gentile – filosofia veneta – scuoa d’Adria -filosofia italiana – Luigi Speranza (Adria). Filosofo adriase. Filosofo veneto Filosofo Italiano.
Adria, Rovigo, Veneto. Grice: “I like Girotti; for one, he has explored the
idea of ‘beauty,’ which Sibley should, but did not!” Si laurea a Padova, sotto SANTINELLO (si veda) e BERTI
(si veda). Pubblica Filosofia (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua
storia storica della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica”
“Società Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi”
(Polaris, Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso
sui metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo,
Sapere, Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere,
Pensa multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che
vogliamo?, Il Giardino dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità,
Diogene Multimedia, Bologna; Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia,
Bologna; GENTILE; Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e
la giustificazione del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da
Atene a Delfi dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene
Bologna; Comunità di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani, La collana si chiama Briciole di Filosofia “una
storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’;
infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter
abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione,
quella che G. definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico. G.
distingue la fenomenologia come metodo e lo spirito metafisico come oggetto.
Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo sarebbe
invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso mostra.
Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofostoriografo ritroverebbe l'oggetto
o topico della sua ricerca, cioè il fatto spirituale. È su questo fatto spirituale che G. refina Gouhier
in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello storico della storia
storica della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione bergsoniana, ammessa
anche da Gouhier. Cf. Grice on the
longitudinal history of philosophy. “We should treat those who are dead and
great as if they were great and living – it’s a matter of introjecting into his
shoes, or sandals!” -“La distillazione filosofica” GENTILE nasce a
Castelvetrano, provincia di Trapani, ottavo di dieci fratelli, due dei quali
erano già morti quando egli vide la luce. Suo padre, che si chiamava anche lui Giovanni, era
farmacista; sua madre, Teresa Curti, maestra elementare. Da quel poco, o
non molto, di autobiografico che, sempre restio alla confidenza e all'effusione
dell'animo, pur si deduce dagli scritti e, in particolare, dai carteggi con i
suoi maestri pisani, Jaja ed Ancona,
risulta che il rapporto con i genitori fu intenso, nutrito di forti affetti;
sebbene, per altro verso, travagliato, a causa soprattutto, oltre che della
morte del fratello Gaetano, delle disavventure professionali del padre. Le
quali derivarono dal forte e alquanto anarchico convincimento di non dover
sottostare, nella gestione della farmacia di cui era proprietario e titolare,
alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria emanata dal governo di F.
Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la farmacia, che si trovava a Campobello,
e ritirarsi con la famiglia nella vicina Castelvetrano, quindi di riaprirla
tornando da solo là dove quella si trovava e subendo un nuovo processo per il
reiterato suo rifiuto di sottostare alle nuove regole. È probabile che
nell'animo sensibile, e più impressionabile forse di quanto il G. fosse
disposto ad ammettere, del giovinetto che intanto attendeva agli studi
scolastici, si formassero, nei confronti della terra siciliana, ossia di un
luogo così fortemente segnato da dolori e umiliazioni, sentimenti contrastanti.
Non che per le sofferenze che involontariamente aveva inflitto al padre, egli
prendesse allora a odiare, o anche soltanto a disistimare, il siciliano Crispi,
al quale sempre invece guardò come a un grande personaggio, l'unico degno di
rappresentare sul serio, nella decadente Italia di fine secolo, lo spirito
autentico del Risorgimento, nelle cui battaglie era stato protagonista.
Ma nei confronti della piccola, e pur amata, patria siciliana, i suoi
sentimenti furono in effetti misti; e abbastanza presto si sublimarono,
assumendo forma intellettuale, in quelli che, se lo si legge con attenzione, si
colgono al fondo del libro che, quando era professore a Pisa e insegnava dalla
cattedra che era stata del suo maestro Jaja, egli dedicò a Il tramonto della
cultura siciliana (Bologna). Libro singolare, in effetti; che, riboccante di
passione e di affetti, concerne un "tramonto" atteso e auspicato di
"cose" che, profondamente radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola,
meritavano, a suo giudizio, di "tramontare" per sempre risolvendosi
in assai più ampio e comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella
Sicilia "moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se
non materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente
romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel
segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le
difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla
vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia
della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento
che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo
attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che
nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito
consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai
quali la Sicilia era rimasta ferma. Nell'isola il G. non rimase se non il
tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando,
finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la
licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il
relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno
studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che
approdava alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di
quella. Il positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di
materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non
era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e
se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega
l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla
scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni
possibile traccia. Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo con
il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità che
lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la
trasfigurazione risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e
l'altra, antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V.
Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura
italiana di Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche oltre. Fu
forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che il G.
venne positivamente in contatto con la questione del "fatto"; che
certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza,
trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel
risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella
prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello,
l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma,
oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel
processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza
che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia
nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione". Non s'insisterà
mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola
normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in
primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo
siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora
v'incontrò, Volpe e Pintor, Congedo, Salza, Radice. Anche qui, per altro,
avrebbe torto chi semplicemente ritenesse che al fuoco dell'idealismo
professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria positivista e rapidamente
acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe stata la sua. È vero invece
che la dicotomia determinatasi in lui quando, in Sicilia, per un verso si
accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori civili da lui rappresentati e
per un altro si piegava al culto reverente dei fatti, in qualche modo si
ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche qui perché alla filosofia
senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja corrispondevano la storia
e la letteratura senza filosofia che gli provenivano dall'esempio di D'Ancona e
di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve sorprendere, perché a
predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con il congiunto metodo
storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana Jaja costituiva, in
quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la regola. La produzione
scientifica in cui, senza abbandonare la rivista Helios, che si pubblicava in
Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò infatti a non far mancare la sua
collaborazione, allora si impegnò appare nettamente scissa fra l'erudizione
pura, da una parte, e la filosofia, altrettanto pura, da un'altra (anche se,
nel ricercare e commentare i testi di quest'ultima, il giovane G. mostrava
chiari i segni del metodo che aveva appreso d’Ancona e dal Crivellucci, e che
dette del resto chiara prova di sé nella dissertazione accademica Delle
commedie di Grazzini, detto il Lasca, pubblicata negli Annali della Scuola
normale superiore di Pisa. Le cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna
a conclusione del suo periodo pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e
Gioberti, discussa con Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la
più breve indagine su La filosofia di Marx. Di questi due libri, il primo
costituisce il documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine
condotta nel segno di Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla
relazione intercorrente fra il pensiero italiano e quello europeo, fra A.
Rosmini e V. Gioberti, da una parte, I. Kant e Hegel da un'altra. Il secondo è
invece il documento della capacità dimostrata dal giovane studioso di cogliere
il carattere, che a lui sembrava nel fondo idealistico, della filosofia di K.
Marx, e altresì di entrare con autorevolezza in uno dei dibattiti - quello concernente
la "crisi" del marxismo - fra i più vivi che allora si accendessero
nella cultura dell'Europa contemporanea. Lo studio dedicato a Rosmini e
Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il conseguimento della laurea in
filosofia, che il G. ottenne con il massimo dei voti e il diritto alla stampa.
Quello dedicato a Marx fu composto per la tesi di abilitazione all'insegnamento
che egli conseguì l'anno successivo e gli dette la possibilità di un ulteriore
periodo di perfezionamento da trascorrere presso l'Istituto di studi superiori
di Firenze, dove fu per un anno e dove ebbe modo di entrare in contatto con gli
illustri professori che allora vi insegnavano e che, fra gli altri, si
chiamavano Villari, Vitelli, Rajna. Fra questi era anche il professore di
filosofia, il neokantiano F. Tocco, con il quale i rapporti non furono né
semplici né facili, ma con il quale comunque conseguì un nuovo titolo,
discutendo una tesi sulla filosofia italiana del periodo che da Genovesi va
fino a Galluppi, e che poi divenne un volume, pubblicato, nelle edizioni de La
Critica, da Croce (Da Genovesi a Galluppi: ricerche storiche, Napoli).
Fu, anche quello trascorso a Firenze, un periodo importante; e se il rapporto
con il Tocco fu, malgrado asprezze e incomprensioni, proficuo perché lo mise
comunque in contatto con un Kant diverso da quello di Bertrando Spaventa
mediatogli dall'insegnamento di Jaja; se quello con Villari fu alquanto
burrascoso, dei grandi filologi, classico il primo, romanzo il secondo, Vitelli
e Rajna dovette conservare per sempre un grato ricordo, se è vero che ancora
negli ultimi anni progettò di ristampare, del secondo, il libro su Le fonti
dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti più insigni della vecchia scuola
del metodo storico. Con l'anno trascorso a Firenze, nell'estate 1898 i
suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che seguirono furono non facili;
anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per lui imperiosa di trovare un
lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio, era pari a quella che egli
avvertiva non meno viva e urgente di non interrompere gli studi filosofici, nei
quali aveva già realizzato un'impresa notevole, con quei tre lavori, così
ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza di proseguire senza nocive
interruzioni la intrapresa carriera dello studioso implicava l'altra che
l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana provincia meridionale e
lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale, dalle università e
dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu allora, in
particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola dalla quale
era partito anni innanzi: sì che quando ebbe la sede di Campobasso, con
l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté dirsene del tutto
scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto Napoli, dove la
frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al liceo Umberto e,
sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in contatto quando
ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano dalla solitudine
alla quale era invece, per il resto del tempo, costretto. Del resto, non
fu quello di Campobasso un periodo che si protrasse nel tempo. E la fortuna
girò in suo favore, perché G. poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio
Emanuele di Napoli: il che gli dette la possibilità di rendere veramente
intrinseci i legami intellettuali con Croce, ossia con il già illustre studioso
che, in quello stesso anno, concluso il periodo degli studi soltanto eruditi,
giunto al termine della discussione intrapresa con i testi di Marx e dei
marxisti, era tornato alla filosofia e aveva dato all'estetica la sua prima
sistemazione. A ragione, e del resto non è un'osservazione peregrina, è
stato detto che, se senza Croce non s'intende G., altrettanto è vero per
l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe dirsi e ripetersi che, se si prescindesse
dalla collaborazione, stretta, intensa e anche conflittuale, che subito si
stabilì fra il libero studioso Benedetto Croce e il giovane ex normalista
siciliano, poco o niente si capirebbe della cultura italiana che nel bene
(secondo alcuni), nel male (secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata
dalle loro personalità e dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre
nel segno prima della concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile
decidere chi fra i due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro
nella forma più decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male,
perché, se è vero che da G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero che
si veniva formando in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle nel
segno dell'unità, se è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata dal
giovane studioso alla formazione della filosofia dello spirito non avvenne
senza che egli ne traesse grande giovamento per le tante idee con le quali
veniva in contatto e la non comune dottrina storica e letteraria con il cui
carattere venivano al mondo, anche è vero che in questi bilanci del dare e
dell'avere c'è sempre qualcosa di angusto, di gretto, di meschino: e conviene
perciò, dalle parole generali, passare di volta in volta ai fatti
determinati. Sta comunque di fatto che, mentre il carteggio fra i due si
faceva tanto intenso e frequente che non c'era, si può dire, giorno senza che
uno scambio intervenisse a proporre osservazioni, suggerimenti, informazioni e,
magari, contrasti; mentre l'amicizia si approfondiva nella collaborazione, la
diversa indole dei due ingegni ne riusciva non soffocata, ma in qualche modo
persino potenziata. E, come si è detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non
si pensi, anche i contrasti, anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma
ferme. Se, per esempio, nella questione concernente il materialismo
storico (una filosofia, per il G., e non, come per Croce, un semplice
"canone empirico": una filosofia della storia, fondata per altro
sullo scambio del trascendentale e dell'empirico), il dissenso rimase senza
soluzione, la discussione, che in buona parte si svolse per lettera, su forma e
contenuto nell'estetica condusse i due filosofi a un accordo sempre più
stretto; e anche qui è, non solo alquanto meschino, ma sopra tutto difficile
chiedersi, e quindi rispondere al quesito, se a condurre il gioco fosse
piuttosto G., o se invece fosse Croce che, via via che veniva impadronendosi
dell'intero territorio dell'estetica, suggeriva il tema e controllava lo
svolgimento. Intanto, la realizzazione del progetto di una rivista
letteraria, storica e filosofica, che si chiamò La Critica (il primo numero
uscì il 20 gennaio), dette a Croce, e a G., lo strumento attraverso il quale la
loro collaborazione potesse rendersi visibile e concreta in risultati
specifici, attraendo altresì su di sé, fra consensi e dissensi, l'attenzione
del mondo culturale italiano e non soltanto italiano, perché l'anno precedente
era uscita la prima edizione dell'Estetica crociana e il successo travolgente
del libro, andato al di là di ogni previsione, non poteva non ripercuotere
sulla rivista appena agli inizi la sua positività. La Critica divenne
così, velocemente, un severo luogo di ricerche, di studi, e anche, spesso, di
impietosi esami critici; e, con il diverso accento caratterizzante lo stile del
direttore e del suo principale collaboratore, svolse un'opera della quale
sarebbe vano voler disconoscere l'importanza. L'oggetto della
"critica" era costituito dalla cultura positivistica, che era bensì
in declino quando la rivista iniziò la sua battaglia, ma non tanto, tuttavia,
che se quell'urto violento e sistematico non si fosse prodotto, avrebbe trovato
così presto la via della sua risoluzione. Al contrario, si direbbe: perché,
malgrado la non eccelsa qualità dei suoi pensatori, e certa loro tendenza a
dividersi fra un alquanto volgare materialismo e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche",
il positivismo aveva, nella sua forma di "metodo storico", non
soltanto prodotto alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in
profondità nella cultura e nel costume dei professori e della classe dirigente
del paese. E "positivista" era in sostanza il pensiero democratico e
altresì, malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con
maggiore o minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano,
gli stessi Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano
compiuto i primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia
antipositivistica, esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e
magari deplorata da altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una
battaglia che giorno dopo giorno i due filosofi amici condussero contro quel
loro "sé stesso" che di essere emendato nel senso della nuova
filosofia avesse avuto necessità. E molte cose della vecchia "fede"
certamente furono lasciate cadere, che qui non occorre elencare. Ma alcune no;
e, per fare qualche esempio, certo si deve anche alla severa disciplina erudita
appresa alla scuola dei maestri del metodo storico se, come nessun altro ai
suoi tempi, Croce esplorò gli angoli più riposti della "regione"
seicentesca, e scrive il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari),
e il G. non disdegnò le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò
ai grandi quadri d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per
scrivere il bel libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo
decimonono. Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non
poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di
renderlo sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il
che, trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la
parte più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che
toccava il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e
persino le identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo
rovesciamento nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio
conoscere a entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i
due ne uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista,
rafforzati nell'amicizia. Ma la polemica epistolare, e rimasta perciò privata,
sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva già,
sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura portante
dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo consenso
alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di vecchio
hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S. Maturi; e
questo G. non l'aveva gradito. L'amicizia per allora rimase salda, e
anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e la
scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella
battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché
nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di
ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al
margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso
in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della
filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che
perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali
dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non
risentì e non mostrò il segno. La collaborazione che essi vi svolgevano e
realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due
fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il
rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si
aggiunga che allora Croce fu impegnato, fuori della Critica, nella costruzione
della Filosofia come scienza dello spirito; e che, per parte sua, mentre
svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i progressi filosofici del suo
amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei primi anni la tendenza a
restare in disparte. Avvertiva, e in una lettera del 1908 inviata al
Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse dovuto esprimere
intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce sarebbe giunto allo
scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva di sapere, che,
svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero avrebbe dato luogo a
conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora ricavando dalle sue
premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore qualità filosofica di
quelle era altrettanto convinto come della necessità che per allora non
convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale frutti copiosi la
cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la cautela del G. e la
sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con Croce non potevano
esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico, sebbene non dichiarate,
le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente avvenne quando G. scrisse
(e per allora non pubblicò) la prolusione al suo corso libero di filosofia
teoretica nell'Università di Napoli. Da Napoli, dove nell'insieme trascorse
un sereno periodo (aveva sposato Erminia Nudi, una maestra conosciuta a
Campobasso), quasi per intero consacrato all'insegnamento - aveva ottenuto la
libera docenza che esercitava nel corso libero di filosofia teoretica presso
l'Università e dal 1904 aveva assunto anche un incarico di filosofia e
pedagogia presso l'Istituto superiore di magistero Suor Orsola Benincasa -,
alla riflessione filosofica, allo studio, G. passò a Palermo, perché nel
frattempo - dopo che un primo concorso per la filosofia teoretica lo aveva
visto soccombere per l'ostilità dimostratagli da Tocco, e anche a causa della
debole difesa fattane da A. Labriola, gravemente ammalato e quasi
impossibilitato a parlare - aveva vinto la cattedra di storia della filosofia
per quella Università. Così, senza averlo sul serio desiderato, era di nuovo
approdato alla sponda siciliana; e meno che mai lo aveva desiderato Croce, che
non solo vedeva interrotta una consuetudine di vita, di collaborazione e di
lavoro che doveva a ogni costo essere difesa, ma anche temeva che il nuovo
ambiente potesse distrarre in vario modo l'amico e, sotto diversi punti di
vista, allontanarlo da lui. Il timore di Croce non aveva allora nessun
altro fondamento che sé stesso e l'intuizione di cui si alimentava. Era infatti
qualcosa come una congettura, una supposizione. Ma la congettura, la
supposizione, e il timore, non si rivelarono tuttavia per intero infondati;
perché, come forse era inevitabile, nel nuovo ambiente G. non poteva non
ottenere la posizione preminente e da protagonista che non solo il prestigio di
cui godeva, ma anche e sopra tutto la forte personalità della quale era dotato,
non potevano non assicurargli. La sua posizione divenne preminente
nell'Università e, quindi, nella Biblioteca filosofica che, per le iniziative
di G. Amato Pojero che ne aveva la cura principale, divenne un centro vivo di
dibattiti, nel quale l'idealismo attuale definì per la prima volta sé stesso e
vide la luce. Anticipato in modo più che parziale con il breve saggio che G.
dedicò a Le forme assolute dello spirito e, senza presentarlo in altra sede,
incluse nel volume su Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia come
sua ideale premessa (e conclusione), l'idealismo attuale trovò la sua prima
espressione nella memoria, letta presso la Biblioteca filosofica su L'atto del
pensare come atto puro (Palermo), quindi nell'altra su Il metodo
dell'immanenza, e ancora nelle pagine consacrate a La riforma della dialettica
hegeliana e a Spaventa che l'aveva avviata, nonché nel Sommario di pedagogia
come scienza filosofica, il cui primo volume contiene in effetti una sorta di
teoria generale dello spirito sotto specie pedagogica. Un volume, questo,
che quando lo lesse in bozze Croce giudicò con qualche severità, perché gli
parve che non solo il G. si fosse espresso con nettezza contro la possibilità
che tra le forme dello spirito potesse darsi la "distinzione", ma
anche che, senza nominarlo e perciò con tanta maggiore asprezza, avesse
polemizzato proprio con lui che nella distinzione aveva fatto e stava facendo
consistere il criterio supremo dell'intelligenza della realtà. Da queste
dichiarazioni di autonomia e di indipendenza, che, implicitamente (ma in modo
per altro trasparente), contenevano qualcosa come una sfida, Croce non poteva
non essere preoccupato; e tanto più in quanto il senso di indipendenza e di
autonomia era confermato da quel che scrivevano gli allievi siciliani del G.:
Fazio-Allmayer e Omodeo, Saitta e Albeggiani; e anche Ruggiero, che siciliano e
residente in Sicilia non era, ma attualista sì, anzi ultrattualista, come ci
teneva a dichiararsi e come aveva del resto dimostrato con la memoria,
pubblicata anch'essa nell'Annuario della Biblioteca filosofica, su La scienza
come esperienza assoluta. La pubblicazione degli scritti attualisti del
G. e le varie manifestazioni che allora innegabilmente si ebbero del formarsi
di una scuola che in quella forma d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa e,
perciò, possibile, non potevano non provocare prima o poi la reazione di Croce.
Il quale aveva bensì fatto il possibile perché G. tornasse a Napoli come
professore nell'Università, convinto che in tal modo la collaborazione sarebbe
tornata alle vecchie forme senza le perturbazioni provocate dalla
"scuola" e dagli spiriti non sempre positivi che, in effetti, vi si
formano o tendono a formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe, com'è noto,
successo, perché forti e insormontabili furono le resistenze che l'ambiente
accademico napoletano dimostrò all'accettazione della sua proposta. E così
accadde che, persa quella battaglia nella quale aveva speso molto del suo
prestigio e delle sue energie, quando una grave sciagura privata gli dette il
senso che tutto ormai, nella sua vita dovesse giungere all'estremo chiarimento,
Croce decidesse di rendere pubblico il "dissidio" filosofico che lo
divideva dall'idealismo attuale; e scrisse, per la Voce di Prezzolini, un
articolo in forma di lettera, nel quale i termini del dissenso erano definiti
con amichevole fermezza. La scelta della Voce significava, nelle intenzioni
crociane, che la disputa non riguardava La Critica, ossia il luogo della loro
comune opera culturale; e si svolgeva, per così dire, al margine di questa. Ma
la decisione di mettere in piazza il loro dissenso ferì in modo particolare G.:
anche se, decisa nella sostanza e orientata non a sanare, bensì a ulteriormente
precisare, il dissenso, la replica che anche lui affidò alla Voce, si
presentasse come la risposta amichevole a un'amichevole richiesta di
chiarimenti teoretici. Il dissenso era comunque stato dichiarato; e non mancò
di suscitare molta impressione: tanto più che, replicando a sua volta, con
fermezza, Croce prese atto di un divario che concerneva non la periferia, ma il
centro stesso delle loro filosofie. Il periodo siciliano fu comunque
fecondo di molto lavoro. E oltre ad aver gettato le basi dell'idealismo
attuale, G. svolse infatti e approfondì alcuni essenziali aspetti della
scolastica e del Rinascimento; e scrisse di Bruno, di Telesio, di Vico, mentre
la collaborazione alla Critica continuava con il consueto ritmo e, dopo la
tempesta teoretica, nei rapporti con Croce era tornata la calma. Deve anzi
dirsi che, malgrado varie traversie di natura familiare e qualche apprensione
per la sua salute, fu quello un periodo nella sostanza sereno, sebbene non
possa escludersi che egli lo considerasse provvisorio e in cuor suo non
desiderasse una sede diversa e migliore. Quando infatti a Napoli e a Roma si
liberarono due cattedre, la prima università fu subito scartata, perché vivo
era ancora il ricordo della sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la
seconda no; e fu invece presa in seria considerazione. G. riteneva infatti che
l'opposizione di Barzellotti, titolare della cattedra di storia della
filosofia, potesse essere in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo
risultò errato: a Roma per allora non fu chiamato; e dopo un tentativo,
esperito senza troppa convinzione, di essere chiamato a Torino, città molto
amata da Croce, che non avrebbe visto male un suo trasferimento colà, ma assai
meno da lui, che la considerava lontana, fredda ed estranea ai suoi gusti e
alle sue abitudini, scelse infine di andare a Pisa, dove sarebbe succeduto a D.
Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza, anche avrebbe ritrovato la Scuola
normale, luogo e fonte inesausta di cari e intensi ricordi. A Pisa tornò
con un piglio e una convinzione ben diversi da quelli con i quali vi era
approdato, giovane e sperduto studente siciliano, tanti anni prima. Vi approdò
con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di sé e delle sue forze, sente di
dover svolgere una missione non solo filosofica, ma anche, lato sensu, civile e
politica. La forte accentuazione teoretica che nei precedenti anni aveva
conferito alle sue pagine, anche di storia della filosofia, non aveva mai
spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione spaventiana che
ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse in realtà
contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del Risorgimento,
riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la corruzione
letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata con lo splendore
delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda che a Jaja era
rimasta sostanzialmente estranea, ma non ad Ancona, ebreo e fervente patriota
risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, a Crivellucci. Del resto,
la prolusione pisana è; e con gli avvenimenti che lo caratterizzarono e con
quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno fatale avrebbe ben presto
provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti, abitudini, costumi, ad
accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in superficie, altre volte in
profondità, a rendere esplicito e visibile quel che per l'innanzi fosse rimasto
chiuso nel segreto delle coscienze. A Pisa, per altro, G. non stette a
lungo, perché egli passa all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di
storia della filosofia, dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe
passato a quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino
Varisco. Ma, a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce
politiche che li caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i
risultati filosofici innanzi tutto, che G. vi conseguì. Fu allora, infatti,
che, dopo averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi
nelle memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee
della Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola e
pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero
in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali,
espressione suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella
sua dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra
potesse operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i
distinti. Ma a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica
come teoria del conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della
quale scrisse il primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce e
dovette attendere per avere il suo compimento nel secondo volume, dedicato alla
logica del concreto. Agli anni di Pisa appartiene anche, con sicurezza,
Il tramonto della cultura siciliana, un libro del quale si è già avuto modo di
accennare come presenti un duplice carattere, di condanna della cultura
siciliana positivistica, materialistica e, deteriori sensu, illuministica; e di
speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo attuale, nato nell'isola per
virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed entrasse a pieno titolo nella
civiltà moderna. Gli anni pisani furono quelli del primo conflitto
mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia, dopo la cui conclusione
niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con passione, fra
esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto, della sua
condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto convincimento
che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che quella di
entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro gli
Imperi centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del
destino risorgimentale della nazione. G. non è nazionalista, e meno che mai era
disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze sanamente
irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica, sconvolgendo i suoi
concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e vario sensualismo,
così frequenti allora nella "cultura" italiana e non soltanto
italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici furono
rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che
all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e
attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico
e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui,
allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò
e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a
oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o,
peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova
terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì
in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era
ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di
sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie. Di qui, anche in
questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle passioni,
delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei "brividi",
la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora, giorno dopo giorno, si
venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo era stato contrario
alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di Giolitti e di
quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra avrebbe comunque
rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche aveva dichiarato
che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano se all'improvviso
i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero schierati dalla
parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere. Anche nei
confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi consapevoli
che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia aveva scelto
per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai diverso. E
Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile della
natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che
sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la
logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e
dell'arte. Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che
perciò si inducesse a passare il segno e a farsi, come Croce diceva,
"l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una grande
occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno di una
tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto meno
sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse
conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei
rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si
placassero e depurassero, G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non era
mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione
nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni,
si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra
parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli
credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo
strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia. Il sistema
filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali
qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la
filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser
tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un
concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e
della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e
cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che
per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo
proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non
concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il
concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto
organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi,
caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità,
l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non
potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria
che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo G.) ma
astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a
fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un
verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e
criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva,
fosse perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e
dunque come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e
concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume
del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere
al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce) la questione
dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì celebrato
nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli si rivelavano
a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il suo opposto,
ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure dissolvendolo,
il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a idealmente passare.
Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo essere, non, come tante
volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel porsi come una sintesi,
attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter rinunziare - donde
l'ambiguità - a trattare gli opposti come gradi, e cioè come diversi o
distinti: nell'essere insomma una teoria dell'unità che in eterno supera la
distinzione, e della distinzione che, proprio perché è in eterno superata, non
può veramente uscire dal quadro e si rivela come la condizione insostituibile
della sua possibilità. Verità del concreto, dunque: ma anche
dell'astratto; che nelle opere del secondo attualismo, e cioè nel Sistema di
logica e oltre, si rivela non, quale all'inizio era, come natura, immobilità,
impenetrabile assenza di coscienza, ma come circolo e mediazione, punto
semovente che parte da sé e per fare ritorno a sé: come circolo, e perché no,
dunque, come esso stesso logo concreto? Come logo concreto; e perché no,
dunque, come logo astratto, se questo è mediazione e coscienza, e niente più di
questo il logo concreto può essere? A Pisa, negli anni della Grande
Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica che gli stava dentro come
assopita; e assunse perciò una dimensione che non era più soltanto quella del
professore che parla dalla cattedra e magari fa conferenze, ma era bensì quella
dell'"intellettuale" militante, che si rivela al grande pubblico
attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in effetti, assumendo una
consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel tempo), mantenuta fino
alla fine della sua vita, G. allora prese a collaborare: tanto che quando, a
guerra finita, raccolse in un volume che intitolò Guerra e fede (Napoli) quanto
aveva scritto durante il suo corso, il libro risultò tutt'altro che smilzo, e
comunque più consistente di quello che lo seguì, e nel quale, con il titolo
Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò gli articoli composti nei due anni
iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico dopoguerra. Un periodo,
quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente G. cercò la sua parte e venne
via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea natagli nei passati anni,
durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e sulla fatale dicotomia che
nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo splendore artistico e la decadenza
politica e morale, quest'idea doveva ora essere messa alla prova della realtà,
doveva diventare uno strumento forte e tagliente di lotta e di azione politica.
Il che implicava che, pur seguitando a dichiararsi liberale, sempre più egli
sentiva di doversi opporre al liberalismo quale si era riflesso nel costume
politico italiano, nella degenerazione dei metodi parlamentari, nell'arte del
compromesso e del perenne rinvio delle decisioni: un'arte nella quale maestro
insuperabile gli sembrava fosse Giolitti, che per lui fu allora non il
ministro, come Salvemini l'aveva in precedenza definito, della malavita, ma
l'artista di ogni cosa che fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e
rinunziasse a volare alto nei cieli della grande politica. Furono,
questi, mesi drammatici, che egli visse in uno stato d'animo teso e agitato, e
nel segno di un'attività senza soste, che dette a tratti l'impressione di
essersi risolta in frenetico attivismo. Che certo non si placò quando Croce è
chiamato da Giolitti a ricoprire nel governo la carica di ministro
dell'Istruzione pubblica e dette la sua opera alla riforma della scuola media e
introdusse sia l'esame di Stato, sia l'insegnamento della religione. Alle cose
della scuola G. aveva, per parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo:
ossia fin da quando, giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso
conto di quante manchevolezze l'affliggessero. E poi aveva pubblicato il
Sommario di pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato
un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo
a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e
dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma
dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario
dell'Istituto femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo nel
Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi). A Croce, del resto,
G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e incondizionato. Almeno nei
risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che occorreva trarre da alcune
generali premesse, i due filosofi amici concordavano senza riserve. E nel
sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse costituire materia
d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di Croce se non per il
modo e per la diversa posizione che alla religione egli riserva nel sistema
dello spirito. La sua idea era insomma che, come per pervenire alla pienezza
del suo sé nella filosofia, lo spirito passa attraverso le fasi ideali, e
contrapposte, dell'arte (soggetto) e della religione (oggetto), così anche
nella scuola questo ritmo dovesse trovare una sorta di trascrizione temporale o
fenomenologica, quasi che, per giungere alla filosofia, anche lì si dovesse
percorrere la regione del mito di cui le religioni s'interessano. Ma la
religione della quale il progetto ministeriale prevedeva l'insegnamento era
quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per G., di tutte le religioni
quando, appunto, proprio nella forma assunta dal cattolicesimo la si fosse
considerata. Era, questa, della perfezione cattolica, un'idea che G. aveva
sostenuto quando, nei primi anni del secolo vigorosamente aveva polemizzato con
i modernisti cattolici. E, per questo riguardo (oltre che per quello concernente
la struttura dello spirito), il suo accordo con Croce era piuttosto sulle
conclusioni che non sul metodo. Che è poi quello stesso che si dà a vedere
nell'idea che presiedette all'introduzione dell'esame di Stato, perché se, nel
propugnarlo, G. vi implica il concetto secondo cui in esso lo Stato realizzava
una delle dimensioni della sua eticità, Croce non vi vedeva se non uno
strumento di controllo e a questa luce ne interpretava la necessità. La
cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più stretto si rivelava il
legame dei due filosofi impegnati in una importante impresa pratica, il loro
dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a complicarsi con quello
politico generale, perché nei confronti del fascismo la reazione di Croce fu bensì,
agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in quel movimento egli non vide
nemmeno una piccola parte delle idealità che G. riteneva gli fossero
intrinseche e immanenti. Del resto, dopo due anni che era salito sulla
cattedra romana, G. fondò, assumendone la direzione, il Giornale critico della
filosofia italiana: una rivista di sola filosofia che anche per questo suo
carattere non si contrapponeva in ogni senso alla Critica, ma in un certo senso
sì, anche perché nella nuova rivista gli scolari che subito si erano stretti
intorno al nuovo professore, e in lui vedevano il sole della filosofia
mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E questo, come si sa, era il punto
che Croce meno apprezzava ed era disposto a perdonare. Il momento
decisivo della vita del G. venne quando, caduto il governo del Giolitti nel
quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e succedutogli uno
presieduto da Bonomi con Corbino all'Istruzione pubblica, egli ebbe modo di
riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo politico e parlamentare sempre
sarebbero state opposte a ogni tentativo che si fosse fatto d'introdurre nella
scuola una seria riforma. La disistima che, in linea generale, già da molto
tempo G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava così,
nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti, nuovo
alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a guardare con
sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con politica
indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua azione. I
documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una congettura,
mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto, riflettendo sulle
recenti esperienze, G. allora si persuadesse che, nella questione della scuola
come, in generale, in quella concernente il governo del paese, il regime
parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico diverso, fondato
sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a tradurle nella realtà.
E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e nell'orientare in questa
direzione le sue scelte politiche, come molti altri egli fu forse tratto in
inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso, aveva non solo della
politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata meglio nota, gli
avrebbe con ogni probabilità in segnato che la politica è un'arte
difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un Parlamento e da
questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che fare con le
passioni e gli interessi, nonché con il loro governo. Come che sia,
l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli si erano
formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di formare
il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto da L.
Facta, MUSSOLINI scelse infine come ministro della Pubblica Istruzione proprio
Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel governo come
indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma tecniche, il G.
accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto accettare da Giolitti
e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione. Ma, sebbene egli non
avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al fascismo, e fascista
ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che quel che pensava di
Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non gli avrebbe forse
consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali nutriva disprezzo,
e non stima. Nel governo in cui entrava G. poteva infatti contare sugli ampi
poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso a Mussolini, che
governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità poteva aggirare
le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli si giovò con
larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era andato con
l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era deciso. Non
è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse e intricate alle
quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E basteranno due
rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma tendeva e alla
quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere critiche che essa
suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello della scuola. La
struttura della scuola riformata prevedeva una scuola elementare obbligatoria
per tutti, nella quale il senso della tradizione nazionale, della religione e
della letteratura tenessero il centro e costituissero il criterio per la
formazione del giovane, al quale certo non sarebbero mancate le nozioni
elementari dell'aritmetica e della scienza. Accanto al ginnasio-liceo,
destinato a formare le future élites dirigenti e, comunque, gli strati più alti
della popolazione, la scuola riformata prevedeva quattro indirizzi fondamentali
a cui, come ha scritto S. Romano, corrispondevano quattro distinti ruoli
sociali; e altresì prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari
sarebbe stata completata, per i figli del popolo, con tre anni di
complementare, mentre una scuola industriale e tecnico-commerciale, integrata
da un istituto tecnico per chi avesse inteso proseguire nello studio, avrebbe
corrisposto alle esigenze formative di queste professioni, insieme con una
scuola magistrale, proseguibile in un magistero universitario, per certe parti
analogo alla facoltà di lettere e filosofia. Le critiche che a questo
modello di scuola, qui sommariamente descritto, furono rivolte posero subito in
rilievo il carattere conservatore, statico e anche classista di una struttura a
cui faceva in effetti riscontro l'idea di una società immodificabile nei suoi
equilibri politici ed economici. E forti furono subito, da parte di non pochi,
le riserve avanzate circa il ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo
studio delle due lingue classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello
delle lingue moderne e, nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva
rispetto a quella fatta alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le
critiche rivolte all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e
anche della matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva
antiche abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente
dedotto da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di
rendere filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi
che la riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato
veniva a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi
pure che la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti
i cittadini dello Stato italiano. Accanto alle molte critiche, occorre
tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da
una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che
altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di
diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito deteriore
del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non infondato)
di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il nodo che, per
parafrasare ALIGHIERI, tiene al di qua di ogni ragionevole traguardo chi,
ripugnando all'idea di fare delle classi economiche più forti le vere
destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento di conservazione e
di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di spirito ritenga che la
difficile questione si risolva col "democratizzare" la cultura, ossia
con l'estenderne l'ambito e abbassarne il livello. L'esigenza che G. (e questo
non può essere negato) cercava di realizzare, e che per alcuni versi si
traduceva in istituti didattici inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti
che "cultura" significa, in primo luogo, la grande difficoltà che
s'incontra nel tentativo che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a
buon segno soltanto se ci si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici,
storici, linguistici, filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del
sapere non dischiude i suoi tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che
tende a tornare insoluto dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo,
occorre non insistere. All'apparenza con una decisione improvvisa, che
non fu comunicata se non a Mussolini, che doveva essere informato, e della
quale nemmeno Croce fu messo al corrente, G. si iscrive al PARTITO NAZIONALE
FASCISTA. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era ministro, a compiere
questo passo, che certo non era privo di gravi conseguenze, si è molto
discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a prendere questa decisione,
che rese contenti i suoi allievi romani, ma non altri che ne rimasero invece
alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due diverse, ma convergenti,
persuasioni. La prima, che quello fosse l'esito necessario non
tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in quanto tale poco aveva in
comune, quanto piuttosto della riflessione da lui condotta nei passati anni
sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il fascismo aveva nelle mani
di reintegrarne in unità le secolari scissioni e lacerazioni, la politica
imbelle e la letteratura vuota, compiendo il Risorgimento. L'altra,
immediatamente pratica e politica, che la riforma sarebbe stata meglio difesa,
e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale che egli era, ed era
considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve la convinzione
mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un freno, alle critiche
che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era circondato. In ogni
caso, il passo che doveva decidere il destino di G. era compiuto. Ed è quanto
meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la riforma dalle forze che
l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione, quel passo servisse
veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio di Matteotti, e che
videro quattro giorni dopo le sue dimissioni dal governo, furono
drammaticamente segnati da gravi difficoltà, a superare le quali non bastarono
né il tattico appoggio datogli dal capo del governo, né gli inviti alla
resistenza provenienti dai suoi scolari e amici romani, né il sostegno deciso
di Croce che, malgrado il sempre più netto incrinarsi dei loro rapporti e la
frattura che entrambi sapevano, in cuor loro, inevitabile, non glielo fece
mancare e, nella sua impresa di ministro, lo sostenne. Le dimissioni dal
governo non furono un atto di autonomia, di distacco dal fascismo che si era
macchiato di un gravissimo delitto, di opposizione alla sua politica. Furono,
infatti, da lui motivate con pure ragioni di opportunità politica e
nell'interesse sia del governo, sia di colui che lo presiedeva: ossia con
l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali la sua riforma era da tempo l'oggetto
potessero diventare un pretesto per colpire Mussolini o avessero comunque,
pretesto o no, a indebolire la posizione politica di lui che, all'improvviso,
era venuto a trovarsi in una situazione obiettivamente molto difficile.
Accusato apertamente dalle opposizioni di essere il responsabile e il materiale
mandante del delitto, MUSSOLINI è allora non solo in pericolo, ma sembrava
altresì aver perduto la sicurezza e la spregiudicatezza che, in momenti non
altrettanto gravi, erano sembrate la dote precipua del suo essere un politico
nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e alle infinite mediazioni della prassi
parlamentare. E, proprio perché sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli
ebbe allora, in lettere private, a formulare critiche precise - nonché il
timore che quello smarrisse la via e naufragasse -, proprio per questo il
proposito di rendergli il più possibile sgombro di ostacoli il cammino dovette
sembrargli l'unico che un seguace fedele dovesse preoccuparsi di tradurre in
comportamenti conseguenti. Al fascismo, dunque, con quel gesto il G. non
tolse il suo consenso, ma piuttosto lo rinnovò in un momento in cui non
mancarono, fra i suoi allievi, quelli che, delusi dall'indecisione
mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida effettiva, e cioè politica,
del fascismo in crisi. Furono quelle settimane drammatiche, perché, oltre gli
elementi obiettivi che rendevano tale la crisi, a coloro che, nel campo
fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si contrapponevano gli amici
che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli davano il consiglio opposto:
non di rimanere nel partito di MUSSOLINI, ma, decisamente, di uscirne, mettendo
in salvo una volta per tutte il suo "nome onorato". Drammatiche sono,
in questo senso, le lettere che allora gli scriveno Radice, collaboratore
fedele e amico fraterno, e Omodeo, uno degli allievi prediletti della scuola
palermitana. Furono giorni, settimane, mesi molto difficili anche perché il
dissidio con Croce, che, come si è detto, mai si era sul serio ricomposto e, come
il fuoco la cenere, sempre aveva seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse
allora, finalmente, alla sua definitiva espressione. E quali, a determinare la
rottura che in sostanza si consumò, possano essere stati gli episodi e le
circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle cose a rendere
grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non fosse appunto
stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità, potuto avere un
esito diverso. Sulle ragioni profonde che la determinarono e misero fine
a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose si dissero allora, molte
sono state dette poi, quando parve che il distacco cronologico consentisse la
serenità necessaria alla formulazione del giudizio. E questa non è la sede dove
la questione possa essere analizzata in ciascuno dei suoi aspetti, filosofici,
politici, psicologici; e si può ben dire che, per quanto attiene al suo
concreto e determinato delinearsi e decidersi, essa risulti definita dalle due
lettere che G. e Croce si scambiarono: essendo tuttavia quest'ultimo che, di
fronte alla dolorosa meraviglia espressa dall'altro nell'apprendere che certi
suoi comportamenti avevano seriamente messo in pericolo la prosecuzione, non
solo del loro sodalizio scientifico, ma, addirittura, della loro amicizia,
obiettò che al dissidio mentale nel quale da tempo si trovavano se n'era
aggiunto un altro, di natura pratica e politica; e che le cose dovevano perciò
fare il loro corso necessario, fino alle estreme conseguenze. Le
dimissioni che il G. presentò e che Mussolini accettò, nominando al suo posto
il liberale, e grande amico di Croce, A. Casati, segnarono nella sua vita una
svolta importante. Nella sua vita, s'intende dire, pubblica e politica; e non
nei suoi sentimenti e convincimenti politici che, a quanto risulta, fino
all'ultimo dei suoi giorni rimasero quelli che lo inducenno a chiedere la
tessera del PARTITO FASCISTA. Non nei sentimenti e nei convincimenti, dunque.
Ma nella vita pubblica e politica, sì. Al governo infatti G. non torna più. E
alla politica del paese partecipa bensì, nei primi tempi, come presidente della
commissione dei quindici (divenuta poi dei diciotto), il cui compito fu di
svolgere una revisione costituzionale in senso autoritario dello Stato.
Partecipò bensì come vicepresidente del consiglio superiore della pubblica
istruzione: una carica importante, questa, che gli consentiva di vegliare
sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti avevano interesse a
intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in senso stretto, dalla
politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua partecipazione alla vita del
regime fascista si realizzò nelle istituzioni culturali (per esempio,
l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di cultura fascista) delle quali
ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali e nelle riviste politiche
alle quali normalmente collaborava non perse occasione per dire il suo parere
su ciò che più da vicino lo toccava, l'argomento prescelto fu quasi sempre
culturale, anche se mai egli mancò di collocarlo nel quadro costituito della
sua fede fascista e della sua fedeltà al regime mussoliniano. Almeno su
due episodi occorre tuttavia, non essendo possibile in questa sede un più largo
discorso, soffermarsi. E di questi uno era bensì di natura anche filosofica e
culturale, perché implicava in modo preminente l'idea che da anni ormai egli
aveva elaborato della filosofia e dello Stato che, identico alla filosofia,
rappresenta il vertice stesso dell'autocoscienza; ma anche era di natura
politica, e persino diplomatica, coinvolgendo direttamente l'azione del governo
e del suo capo. Si allude al concordato con la S. Sede. E G. lo avversò in un
pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche perché sulla via
concordataria MUSSOLINI è deciso ad andare fino in fondo, e l'opposizione del
filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse seguitare ad agire
dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse rinverdire dentro di
sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta la vita polemizzò con
i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli ambienti dell'Università
cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con Gemelli, che egli trattò con la
mano rude che riservava a certe sue battaglie culturali e filosofiche.
L'altro episodio è costituito dalla battaglia che egli sostenne perché ai
professori universitari fosse imposto il giuramento di fedeltà al regime
fascista. E a parte le modalità con le quali e attraverso le quali si svolse; a
parte il nesso con le vicende della replica che, per iniziativa di Amendola, e
a nome di tanti e tanti intellettuali, Croce dette al Manifesto degli
intellettuali fascisti redatto da G.; a parte le tragiche ferite che questa
imposizione apriva nella coscienza di tanti che innanzi a sé videro o la
prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai dettami dell'etica, c'è
qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato. E questo è il singolare
concetto della "concordia" a cui, com'era accaduto persino nei giorni
cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti (e come ancora sarebbe
accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica sociale), anche in quel caso
G. si appella per sostenere che, se l'opposizione resa evidente e, anzi,
drammatizzata dal conflitto dei due manifesti, il suo e quello di Croce, fosse
stata superata da un formale atto di fedeltà al regime, l'unità sarebbe stata
ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più avuto alcuna ragione d'essere
nei confronti di dissenzienti che non erano, ormai, più tali. E la cosa
singolare è che, nell'argomentare così, non solo egli mostrava di credere che,
se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del dissidio politico che ai suoi
occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute meno; ma addirittura riteneva
che potesse essere e definirsi unità autentica quella che fosse stata
conseguita per la via della coercizione e non per quella, da lui tante volte
definita come l'unica possibile, della libertà, mediante la quale lo spirito
costituisce sé stesso. Quella dell'enciclopedia è l'impresa alla quale G.
dedica la parte più viva della sua energia di grande organizzatore culturale.
La parte più viva, e anche la più grande, la più impegnata e costante, quella
con la quale il suo "tutto" quasi per intero giunse a coincidere.
Quasi per intero; perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non
dimenticare l'altro grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale
superiore di Pisa, della quale ècommissario, quindi direttore, e che nella sua
stessa persona difese dall'attacco mosso da Vecchi di Val Cismon che, divenuto
ministro dell'Educazione nazionale, gli mostra intera la sua ostilità,
giungendo anche a destituirlo. Il provvedimento del ministro è presto ritirato
perché, sollecitato da G., nella controversia intervenne direttamente il capo
del governo, che rimise al suo posto il filosofo; che poté così continuare la
sua opera di potenziamento e di ammodernamento della Scuola, e rendere assai
più agevole il soggiorno, e migliori le condizioni di studio, agli studenti
interni. Dai quali dovette sopportare non poche manifestazioni di antifascismo,
perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani professori, e
in primo luogo di Calogero, Pisa era diventata un centro assai vivo di
opposizione al regime fascista. Il consenso del quale questo aveva goduto
fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo quando, con la
guerra di Spagna e poi, con le leggi razziali, si ha netta l'impressione che
l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe avuto per conseguenza
la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E, ancora una volta, il
G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e penoso, con i giovani
che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non poco, comunque, avevano
ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche orali, che rimangono di
quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento incerto fra paternalismo e
autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise durezze. Un atteggiamento,
questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso tempo, incapace di
comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di ben altra
drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di
"sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che avevano dovuto lasciare
la loro terra perché ebrei (Kristeller, Löwith, Rubinstein, per citarne solo
tre), la medesima questione gli si presentò, per gli ebrei italiani, in seguito
alla promulgazione delle già ricordate leggi razziali. Anche in questo caso,
infatti, quanto fu benevolo e comprensivo nei confronti dei perseguitati,
altrettanto il suo atteggiamento fu debole nei confronti di chi di quella
persecuzione si era reso responsabile. E se niente egli disse in quegli anni in
difesa di provvedimenti che non potevano non ripugnargli profondamente, in pubblico
non se ne dissociò. Ma si diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la
quale, nel dirigerla, nell'avviarla alla sua realizzazione, G. seppe altresì
formare, nella sede romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto
particolare, segnato in profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo
senso della libertà della scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile
equilibrio fra il censore ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo
più garantire agli studiosi che vi collaboravano e che, se non certo in
maggioranza, in buon numero erano antifascisti o non fascisti. Si pensi,
per fare qualche nome, a Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare
anche dopo che, per non aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al
regime, aveva dovuto rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a Calogero, a
Giusti, a Malfa, a Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano
propriamente ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui
si possono, per esempio, fare i nomi di Chabod, di Sestan, di Maturi. A
proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se
il G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al
fascismo, o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era
convinto che quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento
dell'unica, ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se l'enciclopedia,
quale il G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza della chiusura e
dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco disposta a
concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio che queste
avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve rispondersi che,
certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo, l'Enciclopedia
appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma fascista non è
nella concezione, perché esplicitamente il G. sostenne il suo carattere in
primo luogo scientifico, culturale e non politico. E fascista non è nel contenuto,
perché, oltre a essere scritta da molti che fascisti non erano, e anzi al
regime erano avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero
per lo più da studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre
distinguere e mantenere le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa
all'altra questione) che, come non fu fascista nella concezione, così nemmeno
fu "idealistica" nel senso vulgato, per il quale si dice
"idealismo" e s'intende qualcosa come un oltraggio recato alla
scienza. In realtà, come accanto a studiosi idealisti tanti altri vi scrissero
che idealisti non erano affatto, così non sarebbe giusto dire che in generale
le scienze vi fossero depresse, e che le relative voci non fossero affidate a
studiosi di provato e, spesso, di grande valore. Il lavoro svolto nelle
Università di Roma e di Pisa, l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di
Milano, l'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di
studi manzoniani (di cui G. è stato nominato commissario, e che è affidato alle
cure sapienti di Barbi e del suo collaboratore Ghisalberti) non resero però
meno intensa la sua attività di studioso. Certo, venne meno in G. la
possibilità e, con questa, anche l'interesse, di coltivare la ricerca storica
nelle forme che questa aveva assunto, presso di lui, negli anni precedenti. Ma
nel 1931, rielaborazione di un corso tenuto nell'Università di Roma, dove (come
già si è ricordato) era succeduto al Varisco sulla cattedra di filosofia
teoretica, il G. pubblicava La filosofia dell'arte, documento di aspra polemica
anticrociana, ma anche, nello stesso tempo, rielaborazione dell'idealismo
attuale dal punto di vista del sentimento, interpretato ora come una sorta di
grande Grundakkord, presentante tratti di essenzialità e precategorialità della
stessa vita spirituale. E quindi pubblicava l'Introduzione alla filosofia,
raccolta di scritti concernenti l'esame dei concetti fondamentali della
filosofia, studiati e prospettati dal punto di vista conseguito dall'idealismo
attuale. E senza la pretesa di ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia
occasione, che egli allora compose e con i quali fu presente nel dibattito e
nella vita culturale del paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti
dedicati ai poeti, e cioè, in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma; Il
Purgatorio, Firenze), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato, e quello
altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della critica
letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano; Commemorazione di
Leopardi, Roma; Poesia e filosofia di Leopardi, Firenze). Se la si
osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve periodo seguito alle battaglie
per la riforma della scuola, contro il concordato, per l'istituzione del
giuramento da imporre ai professori delle università, la vita di G. sembra,
come si è detto, svolgersi prevalentemente all'interno delle istituzioni
culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le luci e le ombre di queste
molteplici attività, che lo condussero anche all'acquisto della Sansoni, si ha
quasi l'impressione che il personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado
la sua spesso ingombrante presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di
irriducibile, con il quale egli era forse il primo a non voler prendere, fino
in fondo, contatto. L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come
si è detto, ma anche deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che
qualcuno spingesse, o provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di
quella spessa corazza attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose
di quante amici, nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri
penetrasse nel suo animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad
aprirlo perché egli stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla
"critica" di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza
perciò che un moto di stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva
qualche ricerca, dal suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla
questione della morte, ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale,
insidioso fin quasi al limite dello "scandalo" (filosofico). Da
qualche altro indizio documentario può desumersi che se la fedeltà che lo
legava al FASCISMO non venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini
e inconcussa la fiducia in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo
il G. mostrò tutt'altro che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli
impedì di accettare senza discussione alcuna la guerra che coinvolse tragicamente
anche l'Italia. Nei tre anni successivi - in quei tre anni così gravi di
disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di dolorosi lutti familiari,
mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla patria si spezzava, perché la
difesa di questa non s'identificava più, per molti, con la difesa della
libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni G. scelse il silenzio; che
fu rotto solo in poche occasioni: quando esaltò in un articolo il Giappone
guerriero, che, nei modi noti era entrato in guerra attaccando gli Stati Uniti
d'America; e quindi con il famoso discorso agli Italiani del 24 giugno
1943. È difficile dire come, dentro di sé, G. valutasse il dissenso
politico sempre più vivo nei confronti del regime, e che egli non poteva non
cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a Pisa, aveva frequente contatto:
anche se è indiscutibile che di quel dissenso, di quell'avversione, del
progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in questo avevano creduto e
riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo sentimento di fedeltà come
in una fortezza della quale convenisse non abbassare, bensì, piuttosto, tenere
ben alzati i ponti levatoi. È questa, come si sa, la ragione per la quale
egli accettò l'invito rivoltogli dal segretario del partito fascista, Scorza,
di pronunziare dal Campidoglio un discorso che si rivolgesse agli Italiani,
impegnati nella terribile prova della guerra e che, da qualche settimana
avevano ormai il nemico in casa, fortemente attestato nella terra siciliana.
Accettò l'invito che altri, interpellati prima di lui, avevano declinato. Salì
sul Campidoglio, e pronunziò il suo discorso, che alcuni lodarono per il
coraggio che aveva dimostrato e per il rischio al quale aveva in tal modo
esposto la sua persona, e altri invece fortemente deplorarono e criticarono,
cogliendovi come il segno della sua perdizione, del suo ribadito essersi reso
estraneo a quel suo più profondo "sé stesso" dal quale non pochi
avevano tratto una lezione di libertà. Certo, con quel suo discorso, così teso,
così eloquente e così, politicamente, ingenuo, G. mostra intero il dramma, anzi
rivelò la tragedia nella quale, forse al di là della sua stessa consapevolezza,
si dibatteva. Poi vennero la caduta di Mussolini e del fascismo, le
umiliazioni che egli dovette subire quando il suo antico segretario al ministero
della Pubblica Istruzione, Severi, divenuto a sua volta ministro nel governo
formato da Badoglio, rese, senza alcuna seria ragione, pubbliche tre lettere
che gli erano state da lui privatamente indirizzate a proposito, sopra tutto,
di questioni concernenti la Scuola normale superiore di Pisa. Il che provocò
giudizi aspri su di lui sia da parte dei fascisti che lo ritennero pronto a
mettersi al servizio dei nuovi governanti, sia da parte di non pochi
antifascisti uniti ai primi, in questo caso, da un non diverso giudizio.
Poi venne l'8 settembre, la cui notizia il G. apprese mentre si trovava a Roma,
dove si era recato uno o due giorni prima, per affari personali, da Troghi, un
piccolo paese sito a pochi chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di
campagna messa a disposizione sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni,
aveva trascorso i mesi estivi, occupato a scrivere Genesi e struttura della
società, il suo ultimo libro, estremo frutto di un corso di lezioni tenute
all'Università di Roma. E le settimane successive furono quelle in cui,
liberato Mussolini, e formatosi, con la proclamazione della Repubblica sociale,
un governo fascista con sede a Salò, egli ricevette, tramite Biggini, divenuto
ministro dell'Educazione nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro
con il capo del governo, il "vecchio amico" al quale, ancora una
volta, non poté non concedere quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato
presidente dell'Accademia d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu
sistemata a palazzo Serristori. E qui, dopo che il "commovente"
incontro con l’amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di
non starsene in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli
riprese il lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i
pochi soci che vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia,
cercando di riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette
vita e autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi
richiederebbe qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine
era stata in parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E
riprese ancora a collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati
risalivano la penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne
un'altra si aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si
potesse non far di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità.
Era un suo vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico
teatro che era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita
all'assassinio di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto
ai professori universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo
che circondavano la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido,
ancora più tragico. G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia
fascista, forte lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a
esistere come soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle
ideologie e qui, in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e
identità di Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse
tale, si comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel
tragico inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora
una volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un
verso sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e
identità dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle
ideologie, dal fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era
la Repubblica sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo
ideale. Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle
che, nel loro contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile
dimensione tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà
mantenuta usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più
volte elevò contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei
fascisti, con torture, uccisioni, gravi violenze. La sua morte, avvenuta
per mano di un commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della
Villa Montalto al Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole,
nella tarda mattina, al suo ritorno a casa dopo la mattina trascorsa al lavoro
a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte violenta. E suscitò molta
emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto e mai avevano perdonato a
lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà, la scelta fascista, cui
era rimasto fedele. Due domande, semplici, ovvie e altrettanto
inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della sua ultima
scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di ucciderlo. E
la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto semplice di
quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il G. aderì per
le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di scegliere di nuovo,
ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta fatta vent'anni
innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in crisi questa
decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto puro, e quel
che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore, niente. Alla
seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi documenti
interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora impediscono di
vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e allora si vedrà
fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva rinnovato il suo
legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche valutazioni
politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono
il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S. Croce, in
Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua
sepoltura. Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la
vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e
Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la
morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al
quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste
tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze.
L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal
G., e cioè: Opere sistematiche; Opere storiche; Opere varie alle quali due si
aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste cinque partizioni
si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari, nella quale sono
apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile del manoscritto
della traduzione di Diels), a cura Cavallera, premessa di Adorno, Firenze 1996,
e La filosofia della storia. Saggi e inediti, a cura di Schinaia, premessa di
Garin. A parte questi due ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere
complete sono quarantanove, perché ancora in preparazione risulta il XXIX,
dedicato a Spaventa; e aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione
comprendente i Carteggi, alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello
con G. Calogero, a cura di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di
M. Simoncelli. Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo
della voce le principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa; La filosofia
di Marx, ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia,
Bari; I problemi della scolastica e il pensiero italiano; La riforma della
dialettica hegeliana, Messina; Sommario di pedagogia come scienza filosofica,
I, Pedagogia generale, Bari; II, Didattica, ibid.; Teoria generale dello
spirito come atto puro, Pisa; I fondamenti della filosofia del diritto, ibid.;
Sistema di logica come teoria del conoscere, La logica dell'astratto, La logica
del concreto, Bari; Le origini della filosofia contemporanea in Italia,,
Messina; Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze; La
filosofia dell'arte, Milano; Introduzione alla filosofia, ibid.; Genesi e
struttura della società, Firenze. Fra i carteggi, quello con Croce,
comprendente le sole lettere del G., è raccolto in Lettere a B. Croce, cur. di
Giannantoni, Firenze (il testo di riferimento è Croce, Lettere a Gentile, a
cura di Croce, con introd. di Sasso, Milano). Ma sono anche usciti: G. - Jaja,
Carteggio, a cura di Sandirocco, Firenze; G. - Omodeo, Carteggio, a cura di
Giannantoni; G. - Maturi, Carteggio, a
cura di Schinaia, Gentile - Pintor, Carteggio, a cura di E. Campochiaro, Fonti
e Bibl.: Tre sono le biografie fin qui dedicate a G.: Lalla, Vita di G.,
Firenze; Romano, G.: la filosofia al potere, Milano; G. Turi, G. G.: una
biografia, Firenze. Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di Gentile: G.:
dal Discorso agli Italiani alla morte, Firenze; Ricordi e affetti, Firenze.
Sulla uccisione di G., v. Canfora, La sentenza. Marchesi e G., Palermo, dove si
trova l'indicazione della precedente bibliografia relativa a questa pagina non
ancora definitivamente scritta. Cfr. anche Sasso, La fedeltà e l'esperimento,
Bologna. La bibliografia su G. è assai ampia: per gli scritti di G. ci si deve
ancora servire della Bibliografia degli scritti di G., a cura di V.A. Bellezza,
in G.: la vita e il pensiero, Firenze, e anche di Il pensiero di G. Gentile.
Atti del Convegno, Roma. Per gli scritti, si veda: Bonechi, Croce - G.:
bibliografia Giornale critico della filosofia italiana. In questo ambito per un
primo orientamento si può innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e
sul G. è stato scritto dai principali discepoli delle sue due scuole, la
palermitana e la romana, e cioè da V. Fazio-Allmayer, da Omodeo, Albeggiani,
Ruggiero, e quindi Spirito, Volpicelli, Volpicelli, Calogero, Chiavacci, lo
stesso Carlini, ecc. in ciascuna delle loro opere, e quanto invece al pensatore
siciliano è stato dedicato con esplicita intenzione storiografica. Non sempre
agevole da rispettare, la distinzione può tuttavia essere di qualche utilità; e
qui si indicheranno gli scritti appartenenti alla seconda classe (mentre per la
storia "filosofica" dell'attualismo, può vedersi Negri, G. G.,
Firenze; cfr. anche A. Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari). Sono, innanzi
tutto, da tener presenti gli studi raccolti nei quattordici volumi della serie
G.: la vita e il pensiero, Firenze. Si veda quindi: G. De Ruggiero, La
filosofia contemporanea, Bari; U. Spirito, Il nuovo idealismo italiano, Roma;
Id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze; La Via, L'idealismo
attuale di G. G., Trani; Sarlo, G. e Croce. Lettere filosofiche di un superato,
Firenze; Calogero, Il neohegelismo nel pensiero contemporaneo, in Nuova
Antologia; Holmes, The idealism of G. G., New York Carabellese, L'idealismo
italiano, Roma; Guzzo, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Roma, Ciardo, Un
fallito tentativo di riforma dello hegelismo: l'idealismo attuale, Bari; E.
Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari; Harris, The special philosophy of
G. G., Urbana, IL; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia,
Padova Spirito, G., Firenze, Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano;
Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma; Noce, G. G.: per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Negri,
L'inquietudine del divenire. G. G., Firenze, Sasso, Filosofia e idealismo, G.,
Napoli. Armando Girotti. Girotti. Keywords: la curva, la curva della bellezza,
la linea, la linea della bellezza, storia storica, non filosofica – unita
longitudinale – longamiranza, distillizione filosofica – Gentile, il Gentile di
Girotti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gitio: la
ragione conversazionale e a setta di Locri -- Roma – scuola di Locri –
filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Locri,
Calabria -- According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Giudice: la ragione conversazionale al rogo
-- l’implicatura conversazionale di Bruno – filosofia napoletana – scuola di
Napoli – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo
Italiano. Napoli, Campania. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust in the
worth of the longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed some
philosophical minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on
‘Atteone,’ which are jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno
is interesting: it’s not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and
usually the heretics had a better philosophical background – into what the
Italians called the lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford
in pre-lib days!” -- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the
Italians prefer ‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the
full surname – if it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth
the origin of philosophy in the Eleatic school. Si laurea a Napoli e studia BRUNO e la filosofia del
rinascimento. Fonda la Societa Bruno. Altre opera: “BRUNO” (Marotta e
Cafiero Editori, Napoli); “La coincidenza degl’opposti” (Di Renzo, Roma); “Bruno,
Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo, Roma); “Due Orazioni. Oratio
Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo, Roma, “La disputa di Cambrai.
Camoeracensis acrotismus, Di Renzo, Roma); “Il Dio dei Geometri” quattro
dialoghi, Di Renzo, Roma); “Somma dei termini metafisici”; “Tra alchimisti e
Rosacroce, Di Renzo, Roma, “Io dirò la verità. Intervista a Bruno, Di Renzo,
Roma, “Contro i matematici, Di Renzo, Roma, “Il profeta dell'universo finite” –
“Epistole latine, Fondazione Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore). BRUNO,
Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). Nacque
a Nola, nel Regno di Napoli, figlio di Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa
Savolino: è battezzato con il nome Filippo. Della città natale, dove trascorse
l'infanzia e iniziò i primi studi, conserva poi sempre un ricordo nostalgico. Si
reca a Napoli per studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe
come maestri il Sarnese (COLLE (si veda)), filosofo di tendenze averroiste, e
fra' Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera
ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da
allora in lui l'interesse per la mnemotecnica. Con una incipiente
formazione laica, entra come chierico nel convento napoletano di S. Domenico
Maggiore, dove assunse il nome Giordano (forse in onore del domenicano fra'
Giordano Crispo, maestro allo Studio) e quel nome ritenne poi sempre, salvo che
per una breve parentesi. Mal compatibile, per carattere e prima formazione, con
la regola conventuale incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il
culto di Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne
allora stracciata dal maestro dei novizi). Con cautela va accolta la
notizia da lui in seguito fornita (Doc. parigini) di un invito a Roma per
mostrare la propria abilità mnemonica a Pio:va però notato che allo stesso
pontefice il B. dichiarò di aver dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di
argomento morale (Dialoghi italiani). Ordinato suddiacono e poi diacono,
venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i ventiquattro anni, e celebrò la
prima messa nella chiesa del convento domenicano di S. Bartolomeo a Campagna,
presso Salerno. Dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece
ritorno allo Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di
teologia: il curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e
terza parte della Summa tomista) e un corso morale (seconda parte della
Summa,alternabile con il quarto libro delle Sentenze di PLombardo esposte da
Capreolo). È da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e quelli
di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est quicquid dicit D. Thomas
in Summa contra Gentiles" e "Verum est quicquid dicit Magister Sententiarum"
(Doc. parigini). Tali studi, se da una parte suscitarono in lui una non
mai smentita ammirazione per l'opera d’AQUINO (si veda), d'altra parte
dovettero ingenerargli quel fastidio per "les subtilitez des
scholastiques, des Sacrements et mesmement de l'Eucharistie" (Doc.
parigini,), con il conseguente disinteresse per la problematica teologica
manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, più tardi, in sede
processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro interesse per opere
estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i "libri delle
opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di Erasmo" (Doc.
veneti). Ciò che, unitamente all'espressione dei propri dubbi circa il dogma
della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana, portò all'istruzione
di un processo a suo carico da parte del padre provinciale (con l'occasione
venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già distrutto): in una
scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come sospetto di eresia.
Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò ad abbandonare il convento
e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello stesso mese dové giungere
a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria sopra Minerva, confidando
forse che il proprio caso passasse ignorato tra i disordini che turbavano la
città. Egli stesso venne però coinvolto in tali disordini e imputato di
"aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi credette lui che l'avesse
accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I): imputazione infondata (come è
mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle successive vicende processuali),
con tutto che un secondo processo contro di lui venne istruito dall'Ordine dei
predicatori. Dopo i primi mesi di quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani
erano stati rintracciati a Napoli, B., deposto l'abito, abbandonò Roma,
raggiunse GENOVA e si trattenne a insegnando la grammatica a figliuoli e
leggendo la Sfera a certi gentilomini (Doc. veneti). Da NOLI passa a SAVONA e
quindi a Torino; di lì, non avendovi trovato trattenimento a sua
satisfazione", si recò a Venezia, dove si trattenne non più di due mesi,
facendovi stampare, allo scopo di guadagnare qualcosa, "un certo libretto
intitolato De' segni de' tempi", da lui fatto esaminare dal domenicano Remigio
Nannini: opera pur questa smarrita. A Padova fu persuaso da alcuni domenicani a
indossare l'abito pur quando non avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che
il B. fece dopo essersi recato, per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, lasciò
l'Italia attraverso la Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito
dai domenicani locali dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si
trasferì a Ginevra, dove fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era
stata fondata dal marchese Gian Galeazzo Caracciolo di Vico. A Ginevra,
dimesso nuovamente l'abito, il B. si guadagnò da vivere come correttore di
bozze tipografiche. Risulta tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo,
come provato non tanto dalla immatricolazione universitaria autografa, quanto
da un processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de
la Faye, istruito contro di lui dal concistoro: B. venne riconosciuto colpevole
e virtualmente scomunicato. Dopo un debole tentativo di difesa, egli si riconobbe
colpevole, pregò di essere riammesso alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto
dalla scomunica. Tale episodio (che avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue
opere mediante la propria polemica anticalvinista) determinò la sua partenza da
Ginevra. Recatosi questa volta a Lione, non avendovi trovato modo di
sostentarsi, vi si trattenne solo un mese e si recò quindi a Tolosa, che era
proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò che
dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal
tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La
mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti), non gli
impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual
lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti), nonché
di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il posto
allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi anni
continui, il testo del LIZIO De anima ed altre lezioni de filosofia". Da
accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire che il suo
insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane. Risale a
quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato mnemotecnico-lulliano
rimasto inedito e smarrito. Si delineò una ripresa della lotta tra
cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare Tolosa "a causa delle guerre
civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi a Parigi, vi intraprese "una
lezion straordinaria", cioè un corso di trenta lezioni su altrettanti
"attributi divini, tolti d'AQUINO (si veda) dalla prima parte, che alcuni
vogliono costituisse l'operetta inedita e smarrita "di Dio, per la
deduzion di certi suoi predicati universali" (Doc. veneti). A Parigi non
poté accettare un lettorato ordinario per l'obbligo - che, come apostata, non
volle assumersi - di frequentare la messa; tuttavia conseguì tale rinomanza
mediante il lettorato straordinario, che, come ebbe a dichiarare egli stesso,
"il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria
che avevo e che professava, era naturale o pur per arte magica; al qual diedi
sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesimo, conobbe
che non era per arte magica ma per scienza" (Doc. veneti): episodio che
ben si comprende tenendo conto del fatto che la corte francese era frequentata
da intellettuali come Perron e Tyard di cui sono noti gli interessi per il
sapere enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di
riforma culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero
durati, direttamente o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano
altresì sul piano ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra
l'equidistanza bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la
posizione mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo
cattolico dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti. Durante
questo primo soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a
noi pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera
mnemotecnica e lulliana stampata da Gourbin, da B. dedicata ad Enrico III, il
quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e
provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei
lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della
Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica
stampata da Gilles e dedicata, per conto del B., da Regnault ad Angoulême,
fratello naturale del re, essendo B. stesso "gravioribus negociis
intentus" (Opera); quindi il De compendiosa architectura et complemento
Artis Lullii (Gourbin) dedicata dal B. all'ambasciatore veneto Giovanni
Moro. La prima parte del De umbris rielabora materiale lulliano e
mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica che presuppone,
platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo ideale; la seconda
e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui il B. attinge in
particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa nell'Ars
memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si inseriscono
nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando l'intento
gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta un'applicazione
concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza un'intenzione satirica che
sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa architecturarielabora gli
elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire uno strumento gnoseologico
per cui l'ordine universale risulta riflesso nello schema simbolico. B.
terminava la composizione dell'unica sua commedia, il Candelaio, stampata prima
della fine dell'anno (anteriormente forse al De compendiosaarchitectura) da
Guillaume Julien figlio. Sul frontespizio l'autore si definiva "Academico
di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia hilaris, in hilaritate
tristis. Il Candelaio, scritto in un volgare popolaresco ricco di
napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione burlesca rinascimentale
(Aretino, Berni, ecc.) accanto a moduli parodici della retorica classica,
riflette sul piano morale il momento di rottura con l'Ordine, né è da escludere
che la composizione ne fosse stata iniziata prima dell'allontanamento
dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana B., personaggio napoletano di non
sicura identificazione, la commedia, di ambientazione appunto napoletana - la
cui azione si svolge vicino al seggio di Nilo" - investe satiricamente tre
materie principali e l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la
pedanteria di Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del
principio bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti
nell'uno. Fin dalle pagine preliminari si notano del resto motivi che,
riallacciandosi alla base teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica
delle operette latine, anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi
filosofici ("Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla
s'annichila; è un solo che non può mutarsi..."). Dalla dedica del
Candelaio si sono desunti due titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli
pensier gai e Il troncod'acqua viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova
citata un'ottava ("Don'a' rapidi fiumi in su ritorno") di un
"poema" inedito e smarrito, cui appartiene forse anche l'ottava
"Convien ch'il sol, donde parte, raggiri" citata tre anni dopo negli
Eroici furori. L'ambasciatore inglese a Parigi, Cobham, inviava un
preoccupato messaggio al primo segretario del Regno d'Inghilterra, Walsingham,
informandolo dell'intenzione del B. di passare in Inghilterra: la
preoccupazione concerneva l'ambigua posizione bruniana in fatto di religione.
L'arrivo del B. in Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III
per il proprio ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel de
Castelnau (cui era affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria
di Scozia presso la regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B. poté
essere indotto a lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero" (Doc.
veneti) - o più esattamente per il delinearsi di quella reazione cattolica che
due anni più tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di pacificazione
con i protestanti -; d'altra parte non è da escludere che il suo viaggio in
Inghilterra potesse rientrare in un piano dei moderati francesi inteso a
mobilitare la corrente politique inglese ai fini di una distensione
politico-religiosa in Europa. Ma non è certo da trascurare la personale urgenza
bruniana per una sua affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i
tentativi compiuti a Tolosa e a Parigi. Al suo arrivo in Inghilterra B.
prese dimora nella casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva
altro, se non che stava per suo gentilomo" (Doc.veneti). Fa una visita a
Oxford, al seguito del conte palatino Laski: in tale occasione, pur non facendo
parte degli oratori designati, sostenne un pubblico dibattito con i dottori
oxoniensi, in particolare con il teologo Underhill, richiamandosi alla logica
aristotelica in polemica con le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da
ritenere che indirizzasse allora la sua pomposa lettera Ad excellentissimum
Oxoniensis Academiae Procancellarium, clarissimos doctores atque celeberrimos
magistros (allegata ad alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum),
con la quale faceva istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene
dai registri universitari non risulti che B. abbia tenuto un corso formale in
quella sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche
letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici
sphaera" (Dialoghi italiani: vedi Doc. parigini, I, e Opera), risulta
confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il
futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol, da cui si apprende
che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò nel corso della stessa
estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l'altro, la teoria
copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando
quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati
l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare che tale
corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il medico
Martin Culpepper, guardiano di New College, e Matthew, decano di Christ Church,
avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De vita coelitus
comparanda: ciò che può essere inteso con riferimento ai prestiti ficiniani
nella terminologia bruniana). Interrotto il corso dopo la terza lezione,
rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento
antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e insieme
antiumanistica. A Londra il B. condusse la propria polemica culturale e
speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli paraccademici di corte,
sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal
pubblico universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra è un
volumetto contenente l'Ars reminiscendi, l'Explicatio triginta sigillorum
(preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il
Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio e per la lettera è possibile
precisare l'officina tipografica, che è quella di Charlewood, dalla quale
sarebbero uscite tutte le rimanenti opere londinesi. L'Ars reminiscendi
è, con lievi varianti, una riproduzione dell'ultima parte del Cantus circaeus.
Gli scritti che seguono portano la dedica all'ambasciatore francese, con parole
di riconoscenza per la familiare ospitalità. L'elencazione dei triginta sigilli
mostra che questi rappresentano la sintesi formale dei segni ovvero ombre delle
cose e delle idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio appare manifesto il
presupposto gnoseologico del complesso simbolismo mnemotecnico bruniano. Nel
Sigillus sigillorum si manifesta la fede del B. nell'unità del processo
conoscitivo, cui corrisponde, sul piano ontologico, la fondamentale unità
dell'universo. Alla innegabile utilizzazione di elementi propri alla tradizione
platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di preoccupazioni e tendenze
d'ordine mistico-religioso: il carattere "speculativo" del Sigillusfa
di quest'opera il legittimo antecedente della serie dialogica italiana. Il
mercoledì delle Ceneri, B. venne invitato a illustrare la propria teoria sul
moto della Terra nella "onorata stanza" di Greville, a Whitehall, in
compagnia di Florio e del medico Gwinne, essendo presenti due dottori oxoniensi
sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere di nome Brown (in sede
processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta invece in casa del
Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio causato dalla
intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato, il B. si licenziò dall'ospite
e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della Cena de le Ceneri (stampata
nello stesso anno). Tramite il resoconto della sfortunata discussione, il
B. enuncia in questi dialoghi la propria cosmografia: movendo
dall'eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente a una concezione
originale dell'universo che per molti rispetti sembra anticipare i postulati
della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del B. in Inghilterra, la corrente
scientifica distaccatasi dalle università e sostenuta dalla corte elisabettiana
(Recorde, Dee, Field, Digges) aveva mostrato un certo interesse per le teorie
copernicane: è in questa corrente appunto che si inserisce ormai l'attività
inglese di B., sia per le istanze "scientifiche" (elaborazione di una
moderna teoria astronomica), sia per quelle letterarie (ripudio del latino e
adozione del volgare per trattazioni scientifico-speculative) e perfino
politiche (adesione alla moderata fazione puritana capeggiata da Dudley, conte
di Leicester, nei contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano Cecil: ciò
che ci è rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo
II della Cena). Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore
francese, la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte
contrasta il geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende
l'eliocentrismo copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi
nell'universo infinito (non senza la suggestione implicita della definizione
ermetica di Dio, come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui
circonferenza non si trova in alcun luogo): sul piano teologico ne deriva
l'affermazione dell'infinito effetto della causa infinita, nonché
l'interpretazione prammatica di quei passi delle Scritture che concordano con
la concezione vulgata dell'universo. L'impostazione polemica dell'opera
investe, nel dialogo II, tutti gli strati della contemporanea società inglese
mediante una rappresentazione vivacemente realistica. B., pur adottando la
forma dialogica della tradizione speculativa rinascimentale, la piega alle
esigenze della propria polemica, accostandosi non di rado alla maniera parodica
della tradizione aretiniana: onde non manca la satira della pedanteria
grammaticale oltre che di quella peripatetica. Gli attacchi contenuti
nella Cena alla università di Oxford e alla società inglese suscitarono una
forte reazione negli ambienti accademici e cittadini: reazione che coincise con
una serie di offese, anche materiali, del pubblico londinese contro gli addetti
all'ambasciata francese e contro, la stessa sede diplomatica. Nell'emozione del
momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di quella reazione anticattolica:
è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena gli fece perdere molte di
quelle simpatie che era riuscito ad accattivarsi a Londra. Di qui l'esigenza di
premettere ai già composti quattro dialoghi speculativi De la causa, principio
et uno, un dialogo "apologetico" che si risolse però,
caratteristicamente, in un ribadimento della propria polemica, salvo un
riconoscimento esplicito della validità della tradizione speculativa oxoniense
anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi conosciuti a Oxford (in
particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La pubblicazione dei nuovi
dialoghi, dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di poco quella della
Cena. Il primo dialogo della Causa si distingue dai rimanenti quattro
anche per i diversi interlocutori (tra questi Elitropio è Florio, mentre
Armesso sembra identificabile con Gwinne); notevole, tra gli interlocutori dei
rimanenti dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson Arelio (nativo di Errol),
discepolo londinese del B. e autore di un'opera mnemotecnica, De umbra rationis
et iudicii ispirata al De umbris bruniano: l'opera era stata attaccata da
William Perkins, ramista di Cambridge, il quale non mancò di accomunare i nomi
di B. e del Dicson nella sua riprovazione del metodo mnemonico classico
considerato in opposizione a quello ramista. La presenza di questo
interlocutore, insieme con l'attacco frontale a Ramo nel dialogo III, può
valere a farci considerare la Causa come opera di letteratura militante
nell'ambito della contemporanea polemica ramista (per l'aspetto politico non va
dimenticato che l'attività del Dicson era in linea con il programma
politique). I quattro dialoghi più propriamente speculativi della Causa
concernono la definizione dei tre termini enunciati nel titolo: "causa"
e "principio" sono intesi, rispettivamente, come la "forma"
e la "materia" che, indissolubilmente unite, costituiscono
l'"uno", cioè il "tutto". Movendo dalla critica dei
postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso alle formulazioni
di stampo neoplatonico ed ermetico, B. giunge in tal modo a fornire una
originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte enunciata nella
Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito. Il motivo della
satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza polemica alle
posizioni culturali delle due università inglesi. Il ritmo serrato con
cui alla pubblicazione della Cena e della Causa segue quella dei dialoghi De
l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la bestia trionfante si spiega
tenendo conto del fatto che B. doveva aver elaborato buona parte del materiale
confluito poi nei tre dialoghi cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al
Castelnau, mentre lo Spaccio è dedicato a sir Philip Sidney, nipote del
Leicester, mostrandoci in tal modo la portata dei contatti letterari, oltre che
politici, dal B. avuti in Inghilterra. Nei cinque dialoghi De l'infinito,
in polemica con la fisica aristotelica, il B. rigetta la teoria della
divisibilità all'infinito e ribadisce la propria teoria della infinità
dell'universo e della pluralità dei mondi. In questa opera risulta enunciato il
pensiero bruniano sul rapporto tra filosofia e religione conforme alla teoria
averroista esposta dal Pomponazzi. Tra gli interlocutori figura Fracastoro, tracce
delle cui dottrine sono reperibili nel dialogo; discutibile rimane
l'identificazione di Albertino con Gentili (da B. certamente incontrato a
Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano. La nuova
concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul
piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti
"morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva
un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di
Niccolò Franco. Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica
la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella
cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale
umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica
bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta -
della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera
sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella
Cena. Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con
l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno
parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia
trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con
l'intransigente Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare
all'interpretazione il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con
l'aggiunta dell'Asino cillenico, in cui l'"asino", identificabile con
la "bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né sembra
possibile supporre che la Cabala sia posteriore, data della bolla con cui Sisto
scomunicò il re di Navarra. Al di là del possibile significato
politico-religioso, la Cabala interessa sia per l'accentuata satira morale
rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi (quali il problema del
rapporto tra le anime individuali e l'anima universale, risolventesi nella
negazione dell'assoluta individualità delle anime) che valgono a meglio illuminare
questa fase del pensiero bruniano. L'operetta è scherzosamente dedicata a
un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della stessa famiglia materna di
B. cui pure appartiene l'interlocutore Saulino presente già nello Spaccio. Il
B.ebbe a dichiarare in seguito, di aver soppresso questa opera in quanto non
piacque al volgo e ai sapienti "propter sinistrum sensum": essa è
infatti la più rara tra le superstiti opere a stampa di Bruno. Il
soggiorno inglese del B. non poteva concludersi in maniera più degna che con la
pubblicazione dei dialoghi De gli eroici furori, dedicati a Sidney, in cui
risultano poeticamente esaltati i principî fondamentali della filosofia
bruniana esposti nei tre dialoghi cosmologici, mentre vi si sviluppa e precisa
la portata della satira morale contenuta nei due dialoghi etici. I dieci
dialoghi De gli eroici furori hanno come tema il conseguimento della
consapevolezza dell'unione con l'Uno infinito da parte dell'anima umana. La
terminologia di estrazione ficiniana (risalente a Platone, Plotino, Dionigi
l'Areopagita, lamblico, Proclo, ecc.) rischia di far perdere di vista il
carattere "naturale e fisico" del discorso bruniano, quale
dall'autore stesso enunciato nella dedicatoria. La stessa adozione dei moduli
platonici ("ente, vero e buono son presi per medesimo significante circa
medesima cosa significata") va in realtà ricondotta a una sfera etica in
cui si risolve ogni apparente residuo di trascendenza: infatti "le cause e
principii motivi" sono "intrinseci" e la divina luce è sempre
presente"; "ogni contrarietà si riduce a l'amicizia, "le cose
alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte. Notevole nei Furori
l'esposizione della poetica bruniana che, movendo dalla critica delle poetiche
rinascimentali nella loro interpretazione normativa della poetica aristotelica,
approda a una concezione della poesia come letteratura applicata: di qui il
ripudio della tradizione lirica petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di
rime intonate al gusto del tardo petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal
Tansillo e dalla Cecaria di M. A. Epicuro). Gli interlocutori sono tutti
nolani, ovvero, come il Tansillo, amici della famiglia del Bruno. Notevole,
come dato biografico dell'infanzia, la presenza di due figure femminili:
Laodamia e Giulia. B. rientrava in Francia al seguito dell'ambasciatore
Castelnau: il quale ai primi di novembre si trovava già a Parigi; durante il
viaggio la comitiva era stata vittima di una grassazione. Al suo rientro a
Parigi B. veniva a trovare un clima politico mutato (nel luglio Enrico III
aveva revocato gli editti di pacificazione e nel settembre era stata pubblicata
la bolla contro il re di Navarra): di qui forse il suo tentativo infruttuoso
"de ritornar nella religione" (Doc. veneti) tramite il nunzio apostolico
Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese Bene, abate di Belleville, la Figuratio
Aristotelici physici auditus, esposizione mnemonico-mitologica del pensiero
aristotelico; entrò in contatto con gli italiani di Parigi, tra i quali Botero,
stringendo amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definì "piacevol
compagnietto, epicuro per la vita" (cfr. Yates), e prese a frequentare
l'abbazia di St. Victor, dove quel giorno prese a prestito l'edizione di LUCREZIO
(si veda) curata da Giffen e confidò al bibliotecario Guillaume Cotin (il cui
diario ci conserva le notizie fornitegli da B.) l'intenzione di pubblicare
l'Arbor philosophorum, del quale nulla sappiamo a parte il titolo
lulliano. Due episodi clamorosi neutralizzarono in quel tempo il residuo
d'appoggio in cui il B. poteva ancora sperare presso il partito politique. Dopo
aver assistito a una pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato
dal geometra salernitano Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B.
acconsentì a divulgare in latino la scoperta - parendogli atta a dimostrare il
limite fisico della divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia
-: pubblicò infatti i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope
divina adinventione (seguiti dall'Insomnium), presso Chevillot: opera
ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il B.
rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii
interpretatione,dedicati al Del Bene e fatti stampare insieme con i due
precedenti dialoghi mordentiani. B. veniva così ad attaccare apertamente un
cattolico fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai vacillante protezione
politique. Atale imprudenza si aggiunse una disputa da B. tenuta al Collège de
Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux, sulla base di Centum et viginti articuli
de naturaet mundo adversus peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto
il nome del discepolo Hennequin. Secondo il Cotin B. non avrebbe preso la
parola, neppur dopo che allo Hennequin ebbe risposto Callier, giovane avvocato
politique (il B. venne dunque sconfessato dal suo stesso partito), e,
riconosciutosi battuto, avrebbe abbandonato Parigi. Secondo Corbinelli, il B.
"s'andò con Dio per paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo
al povero Aristotele", mentre il Mordente decideva di ricorrere al
Guisa. Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania; toccata Magonza e
Wiesbaden, veniva immatricolato all'università di Marburgo come theologiæ
doctor romanensis (Doc. tedeschi). L'insegnamento bruniano si dovette mostrare
incompatibile con l'aristotelismo ramista di quella università: gli fu infatti
negato il permesso di leggere pubblicamente; a una protesta formale B. fece
seguire le proprie dimissioni. Nella stessa estate passò a Wittenberg, nella
cui università venne introdotto da Gentili e immatricolato come doctor ITALVS
(Doc. tedeschi. Per circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra
l'altro, l'Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria
lulliana - commentario dell'Arsmagna - cui premise una lettera alle autorità
accademiche mostrandosi riconoscente per la liberale accoglienza. Seguì la
pubblicazione del De progressu et lampade venatoria logicorum, sorta di
compendio della Topica aristotelica, dedicato a Mylins, cancelliere
dell'università. Allo stesso anno risale il suo corso privato sulla Rhetorica
adAlexandrum (pubbl. post. da H. Alstedt: Artificium perorandi, Francofurti,
come il frammento delle Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas
triginta statuarum, amplificazione dell'Arsmagna lulliana post.: negli Opera,
con cui si conclude la trilogia delle "lampade". L'anno seguente, per
i tipi di Zaccaria Cratone, uscì nella stessa città una seconda edizione dei
Centum et viginti articuli (ridotti a ottanta, con le relative rationes), con
un discorso apologetico di J. Hennequin: Iordani Bruni Nolani Camoeracensis
Acrotismus. Allostesso periodo, sembra, risalgono i commentari aristotelici ai
primi cinque libri della Fisica, al De generatione et corruptione e al quarto
libro Meteorologicon (pubblicati negli Opera postumi: Libri physicorum
Aristotelis explanati. B. si accomiatava dall'università con una Oratio
valedictoria stampata dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto era
morto prima dell'arrivo del B., e che il successore Cristiano I favorì
progressivamente il calvinismo, giungendo a proibire, ogni polemica a questo
contraria; di qui la rinnovata precarietà della posizione di Bruno.
Partito da Wittenberg, B. giunse a Praga e vi si trattenne fino al principio
dell'autunno, attrattovi forse dal mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il
cui cattolicesimo moderato poté sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque
se fu registrato all'università. A Praga B. ripubblicò, presso Nigrinus, il De
lampade combinatoria R. Lullii preceduto dal De lulliano specierum scrutinio:
nuovo commentario dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo don
Guglielmo de Haro; con dedica all'imperatore, presso Daczicenus, gli Articuli
centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, in
cui riprendeva la propria polemica contro l'interpretazione meccanica della
natura (già anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta nel De
minimo):notevole, nella dedicatoria, la dichiarazione della religio bruniana,
interpretabile come teoria della tolleranza religiosa e speculativa.
Ricevuta in dono dall'imperatore la somma di "trecento talari" (Doc.
veneti), B. si recò a Helmstedt, attrattovi dalla "Academia Iulia"
(fondata dal duca protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato e dove
lesse l'Oratio consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la morte del duca.
B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico Giulio, con "ottanta scudi de
quelle parti" (Doc. veneti), ma non gli mancarono seri fastidi: fu infatti
scomunicato dal sovrintendente della locale Chiesa luterana, Voët, per motivi
che B. definì di natura privata in una sua lettera di protesta alle autorità
accademiche, ma che avranno avuto giustificazione formale per sospetto
filocalvinismo (è comunque significativo che alla originaria scomunica
cattolica e a quella calvinista ginevrina si aggiungesse ora la scomunica
luterana). Il B. rimase tuttavia nella città. Durante l'anno e mezzo ivi
trascorso lavorò alle opere poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di
opere magiche stampate postume negli Opera, De magia e Theses de magia
(concernenti la magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora
inedita nel codice di Mosca), De rerum principiis et elementis et
causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità dell'utilizzazione
pratica delle forze naturali occulte. Intervenne a una disputa tenuta dal
dottor Heidenreich e avendo riscossi a Wolfenbüttel 50 fiorini assegnatigli dal
duca - si accomiatò dall'università con l'intenzione di passare per Magdeburgo
(dove risiedeva W. Zeileisen, zio del discepolo norimberghese Besler, di cui si
era servito come copista) allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore
del duca. La partenza fu ritardata: ed è probabile che il B. si recasse
direttamente a Francoforte sul Meno (allo scopo di farvi stampare la trilogia
poetica latina, sua opera di maggior rilievo dopo i dialoghi londinesi), dove
giunse al più tardi nel giugno. Il Senato della città rigettò una sua richiesta
di poter alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale tuttavia gli
procurò alloggio presso il convento dei carmelitani. B. attese soprattutto alla
pubblicazione dei tre poemi: i Detriplici minimo et mensura... libri V e il De
monade, numero et figura liber unito ai De innumerabilibus, immenso et infigurabili...
libri octo, opere dedicate al duca di Brunswick, per le quali B. curò la stampa
e intagliò i legni, salvo che per l'ultimo foglio del De minimo a causa di un
repentino allontanamento dalla città (per cui la dedica relativa fu composta
dal Wechel. Stampati il De minimo fu posto in vendita nella primavera; il De
monade con il De immenso,nell'autunno. Nei poemi francofortesi - composti
alla maniera di Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico la
propria concezione della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De
minimo sicontiene la definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia,
minimum fisico assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La
discontinuità degli atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante
con tutto che B. riconosce l'esigenza di una materia che agglutina gl’atomi. Se
l'atomo è l'elemento materiale insecabile, il minimo è l'essere o la figura
minima in un dato genere, mentre la monade è l'unità di un genere determinato:
l'atomo, che è di forma sferica, è anche minimo e monade. Gl’atomi sono
infiniti essendo infinita la materia. In tale concezione non v'è posto per una
forza esteriore che regoli o determini le combinazioni materiali. Nel De monade
B. dà una spiegazione aritmologica delle diverse qualità degli oggetti
sensibili, i cui elementi vengono mossi - come già sostenuto nella Causa
rispetto alla materia infinita - da un principio intrinseco. Così l'atomismo
dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo dei dialoghi londinesi, dei
quali il De immenso riprende esplicitamente l'esposizione cosmologica, con una
aderenza a tratti letterale (tanto che il Fiorentino fu indotto a riportare al
periodo inglese l'inizio della composizione del poema). In quest'ultimo il B.
ripercorre il cammino della propria speculazione, rinnovandone la polemica
contro la fisica aristotelica e ribadendone il superamento intuitivo
dell'eliocentrismo copernicano. Applicato l'ordine di estradizione del
Senato francofortese B. riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia
scolastica raccolte e pubblicate poi da Egli (la Summa terminorum
metaphysicorum a Zurigo; la Summa con la Praxis descensus seu applicatio entis
a Marburgo. Ritornato per breve tempo a Francoforte, B. pubblica presso Wechel
i De imaginum,signorum,et idearum compositione ad omnia
inventionum,dispositionum et memoriae genera libri tres, dedicati a Heinzel,
patrizio di Augusta da lui conosciuto a Zurigo. Durante il secondo soggiorno
francofortese B. è raggiunto da lettere del patrizio veneziano Giovanni
Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché gli
"insegnasse l'arte della memoria ed inventiva" (Doc. Veneti. B.
giunse a Venezia. I motivi soggettivi dell'imprudente rientro in Italia
sono stati variamente definiti: imponderabile è la componente nostalgica,
mentre è ormai da escludere il proposito di una azione di riforma religiosa con
l'ausilio delle proprie nozioni magiche (con tutto che l'accessione del Borbone
al trono di Francia e la presenza del mite Gregorio sul soglio pontificio
ravvivavano allora le speranze conciliatrici in Europa); sul piano contingente,
più che dell'occasionale invito del Mocenigo, va tenuto conto delle aspirazioni
magistrali dal B. non mai dimesse nel corso dei suoi soggiorni francesi,
inglese e tedesco. Infatti, soffermatosi qualche giorno a Venezia "a
camera locanda Doc. veneti, B. prosegue per Padova, dove già si trovava al
principio di settembre e dove si trattenne, con brevi interruzioni, per almeno
tre mesi. Qui impartì lezioni "a certi scolari tedeschi", tra i quali
sarà da includere Besler, che era allora procuratore degli studenti tedeschi
(Besler gli trascrisse, e la Lampas triginta statuarum, il De vinculis in
genere, abbozzato l'anno precedente, e il non bruniano De sigillis Hermetis,
inedito e smarrito). All'insegnamento patavino vanno riferite le Praelectiones
geometricae e l'Ars deformationum, lezioni, rinvenute solo piu pardi, in cui B.
illustra geometricamente postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività
del B. a Padova induce a ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse
alla vacante cattedra di matematica, che è assegnata a GALILEI (si veda).
Rivelatosi infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio dell'inverno il B.
si trasferì a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo in contrada S.
Samuele, presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il ridotto Morosini, sul
Canal Grande, dove, in un clima di "civile e libera creanza", si
disputava di cose che avevano "per fine la cognizione della verità"
(F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida. Nella chiesa dei SS. Giovanni e
Paolo, confide al domenicano fra' Domenico da Nocera il proprio desiderio di
quetarsi e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente, con lo scopo
ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi "accapare forsi alcuna lettura Doc.
veneti: programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale e dalla
contemporanea esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo di far
stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle sette
arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste al Papa Doc. veneti, B.
chiede licenza al Mocenigo. Costui, deluso dall'insegnamento ricevuto, la notte
lo fece arrestare dai suoi e presenta una denuncia per eresia (allegando tre
libri a stampa di B. e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la
deduzion di certi suoi predicati universali", nonché i nomi di due
contesti: i librai Ciotti e Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da
Saluzzo: la sera stessa B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle
carceri di S. Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo,
che si doveva concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma.
Gli episodi principali del processo veneto sono i seguenti: denuncia del
Mocenigo; denuncia (B. era complessivamente accusato di disprezzare le
religioni, di non ammettere la "distinzione in Dio di persone",
di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non credere alla transustanziazione,
di sostenere che il mondo è eterno e che vi sono mondi infiniti, di credere
alla metempsicosi, di attendere all'arte divinatoria e magica, di negare la
verginità di Maria, di disprezzare i dottori della Chiesa, di ritenere che i
peccati non vengano puniti, di essere già stato processato a Roma, di indulgere
al peccato della carne); interrogatorio dei contesti (favorevoli a B.) e primo
costituto di B.; costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di
eretici vivendo alla loro maniera); interrogatorio sui capi d'accusa (a
proposito dei propri saggi B. dichiara: "io ho sempre diffinito FILOSOFICAMENTE
e secondo li principii e lume naturale, non avendo riguardo principal a quel
che secondo la fede deve essere tenuto, Doc. veneti; interrogatorio di Morosini
e deposizione di Ciotti, favorevoli a BRUNO; 30 luglio: ultimo costituto veneto
del B. (ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al
tribunale) e trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore
supremo in Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella
causa); richiesta formale di avocazione della causa a Roma: consenso del
tribunale veneto; trasmissione della richiesta romana al Collegio presieduto
dal doge; parere sfavorevole del Collegio trasmesso al Senato; comunicata a
Roma la risposta negativa; rinnovata richiesta al Collegio motivata con
precedenti; comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato. BRUNO usce dal
carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, fa ingresso nel carcere del S .
Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente processo, sarebbe uscito
sette anni più tardi per subire l'orrendo supplizio. Gli episodi noti e
salienti del processo romano sono così riassumibili: grave denuncia da parte di
fra' Celestino da Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto
che Cristo peccò mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore
di Abele, che Mosè era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini
astuti e ben meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che
il culto dei santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver
bestemmiato; di aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare
nell'Ordine); interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò,
Francesco Vaia, Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità
bruniane e nuova accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio
del conteste Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei
mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Otto costituti
bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero processo) e conclusione del
processo offensivo. Il B. mantenne la linea difensiva già adottata a
Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la Trinità, disponendosi ad
accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno, Cristo, i propositi
sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò il significato di
"magia" con riferimento a Mosè, e la propria opinione, ritenuta
"filosoficamente" e ipoteticamente, circa la metempsicosi; negò
l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella relativa alla pluralità
dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando il proprio interesse per
l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami ripetitivi dei testi
(Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate nel complesso le
precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi poté far differire
la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia da parte del
Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus); estate 1594:
sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su quella relativa ai
Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di Maria; sporse denunce
contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi concarcerato a Roma); BRUNO
presenta una difesa scritta, non pervenutaci. Si stabilì che una lista dei
libri bruniani fosse presentata al papa. BRUNO è raggiunto nel carcere da
Pucci, Campanella e Stigliola. La
Congregazione stabilì una commissione con lo scopo di censurare le proposizioni
eretiche contenute nei libri. BRUNO è ammonito di abbandonare la sua teoria
della pluralità dei mondi. Si stabilì inoltre che egli è interrogato stricte
(forse con applicazione della tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo
costituto, circa la Trinità e l'incarnazione (BRUNO precisa il carattere
speculativo dei dubbi passati), nonché la pluralità dei mondi (che BRUNO
persiste a sostenere). Ha luogo, forse oralmente, la risposta del BRUNO alle
censure, otto delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo:
"circa rerum generationem"; circa il principio che a causa infinita
debba corrispondere effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e
anima individuale; circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe;
circa il moto della terra; circa la definizione degl’astri come angeli; circa
l'attribuzione di un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa
l'affermazione che l'anima non è forma del corpo umano (due altre censure,
rilevabili da una lettera di Schopp Doc. romani, concernono l'identificazione
dello spirito santo con l'anima mundi, e la credenza nei pre-adamiti. A istanza
di Bellarmino, venneno sottoposte a BRUNO, per la sua dichiarazione di abiura,
otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, de hæresi Novatiana, e la
settima, estratta dal De la causa, ubi tractat an anima sit in corpore sicut
nauta in navi. Il ventesimo costituto BRUNO si dichiara disposto all'abiura
incondizionata; ma torna a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. In
mancanza della prova giuridica della colpevolezza, i consultori si dichiararono
in favore dell'applicazione della tortura, che tuttavia non è approvata da
Clemente. BRUNO si dichiara disposto all'abiura (costituto), ma con un
memoriale al papa, rimette in discussione le proposizioni incriminate. Intanto
al S. Uffizio di Vercelli perveniva una delazione dovuta, sembra, a un reduce
dall'Inghilterra con cui BRUNO è di nuovo accusato di irriverenza verso il papa,
lo Spaccio, e di aver lasciato fama di ateo in Inghilterra. Il tribunale ordina
il termine per il riconoscimento degl’errori. Ventiduesimo costituto, BRUNO rifiuta
la ritrattazione. Vano è l'intervento del generale e del procuratore dei
domenicani. Il papa ordina che BRUNE è sentenziato come eretico formale,
impenitente e pertinace, e consegnato al braccio secolare. Un estremo memoriale
di BRUNO al pontefice venne aperto ma non letto dal tribunale. BRUNO viene
condotto dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in
piazza Navona, dove la sentenza gli è letta pubblicamente. Dell’imputazioni
contenute nella sentenza, risultano accertate quelle concernenti la
transustanziazione, la verginità di Maria, la vita eretica, lo spaccio, la
pluralità dei mondi, la metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo,
Mosè, le Sacre Scritture, i preadamiti, Cristo, i profeti e gl’apostoli.
Riconosciuto eretico impenitente pertinace ed ostinato (Doc. romani), BRUNO è
condannato alla degradazione dagl’ordini, all'espulsione dal foro ecclesiastico
e a essere consegnato alla corte secolare per la debita punizione. I suoi saggi
sono bruciati in piazza S. Pietro e le opere tutte incluse nell'indice. BRUNO
ascolta in ginocchio la sentenza. Quindi, levatosi in piedi, esclama rivolto ai
giudici. Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam Doc.
romani. Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora da teologi e
confortatori, è condotto a Campo di Fiori, dove, spogliato nudo e legato a un
palo, è bruciato vivo Doc. romani. La portata speculativa della vicenda
bruniana è implicita nella storia del moderno pensiero europeo. Per il lato
culturale e biografico, pur dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al
vaglio della filologia contemporanea. Fonti e Bibl.: Per la biografia
bruniana le fonti sono costituite dalle opere e da una serie di documenti
coevi. Edizioni complete delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine
Conscripta: Facsimile - Neudruck der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und
anderen,Neapel und Florenz Drei Bände in acht Teilen, Stuttgart-Bad Cannstatt
da integrare con le seguenti pubblicazioni: Zubov, Rukopisnoe nasledie Džordano
Bruno, Moskovskij Kodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im. V. I.
Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva Bruno, Due dialoghi sconosciuti e
due dialoghi noti: Idiota triumphans, De somnii interpretatione, Mordentiu, De
Mordentii circino, cur. Aquilecchia, Roma con Errata-corrige stampate a parte;
Id., Prælectiones geometricæ e Ars deformationum: Testi inediti, cur. di
Aquilecchia, Roma; Le opere italiane di G. B., cur. Lagarde, Gottinga, edizione
para-diplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: Bruno, Candelaio:
commedia, a cura di V. Spampanato, Bari; Id., Dialoghi italiani: Dialoghi
metafisici e Dialoghi morali stampati con note da GENTILE (si veda) cur.
Aquilecchia, Firenze; Id., Lacena de le ceneri, cur. di Aquilecchia, Torino (da
tenere presente Tissoni, Sulla redazione
definitiva della Cena de le ceneri, in Giorn. stor. della letter. ital. Pregevoli
le sillogi antologiche in Opere di BRUNO e di Campanella, cur, Guzzo e Amerio,
Milano - Napoli, e in Scritti scelti di BRUNO e Campanella, cur. Firpo, Torino.
I documenti coevi in Spampanato, Documenti della vita di BRUNO, Firenze
suddivisi in Documenti napoletani Documenti ginevrini Documenti parigini Documenti
tedeschi Documenti veneti Documenti romani da integrare con Elton, Modern
Studies, London, Harvey, Marginalia, cur. Smith, Stratford-upon-Avon; Sigwart,
Kleine Schriften, Freiburg i. B. Mercati, Il sommario del processo di BRUNO, Vaticano,
Firpo, Il processo di BRUNO, Napoli Yates, BRUNO: some documents, in Revue internationale
de philosophie, XVI 1951], 2, pp.
174-199; G. Aquilecchia, Un autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor.
della letter. ital., Id., Un nuovo documento del processo di BRUNO, McNulty, B.
at Oxford, in Renaissance News, XIII 1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un
autografo inedito di G. B. in Polonia, in Atti dell'Accademia di scienze morali
e politiche... in Napoli, Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La
Ragione, Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Bruna, in Euhemer. La
biografia più estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V.
Spampanato, Vita di G. B. con documenti editi e inediti, Messina Biografie
sintetiche recenti sono dovute a Garin, B., Roma-Milano, e a G. Aquilecchia, G.
B., Roma da cui dipende la presente voce. La bibliografia bruniana è
vastissima: va fatto riferimento a Salvestrini, Bibliografia di BRUNO, a cura
di Firpo, Firenze: opera monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi
essenzialmente, Quanto ai titoli, con l'appendice bibliografica alla citata
monografia di Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento,
rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (Tocco, Troilo,
Gentile, Namer, Garin, Corsano, ecc.), e per saggi più recenti, che propongono
un ridimensionamento della problematica bruniana conforme a diverse metodologie
(Badaloni, Michel, Yates, Gorfunkel', Nowicki, Papi, ecc.). Guido del Giudice.
Giudice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, del
Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords: l’implicatura di
Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti, matematici –
rinascimento – scintilla d’infinito” -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice:
implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giudice: la ragione conversazionale,
l’esperienza, e l’implicatura conversazionale di Telesio – filosofia foggiese –
la scuola di Lucera -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Lucera). Filosofo lucerese. Filosofo
pugliese. Filosofo italiano. Lucera, Foggia, Puglia. Grice: “Riccardo del
Giudice is a philosopher; he wrote an essay on Telesio.” Allievo e collaboratore di GENTILE (si veda),
si laurea in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali,
che, insieme ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica
formano il suo principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e
l'accuratezza nella scrittura, è parlamentare di chiara fama nella Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare
preparazione filosofica. Insegna a Roma. Intestazioni: Sindacalista,
politico, SIUSA. Iscrittosi al movimento nazionalista mentre frequenta
nell'ateneo romano i corsi di GENTILE (si veda). Si tessera al Partito
fascista, del quale apprezza l'interesse per le questioni sindacali. È appunto
nell'organizzazione fascista dei lavoratori, diretta da Rossoni, che muove i
primi passi nella politica militante. Nominato responsabile dei sindacati in
provincia di FOGGIA, distinguendosi per la dura opposizione nei confronti
dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore Caradonna. Espulso dal partito viene
nominato da Rossoni Segretario della Federazione sindacale di Torino. Passato
nella Federazione di Bari si oppone allo sbloccamento dei sindacati. Si occupa
di studi sulla legislazione del lavoro e sul corporativismo, partecipando
attivamente alle riunioni del consiglio nazionale delle corporazioni e viene
nominato presidente della confederazione fascista dei lavoratori del commercio.
Dopo una intensa attività nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con SPIRITO
(si veda) sul rapporto tra sindacato e corporazione - è nominato sotto-segretario
al ministero dell'educazione nazionale, allora retto da Bottai. Si occupa
soprattutto di sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro,
seguendo le indicazioni contenute nella carta della scuola di Bottai. Lasciato
il ministero in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è
nominato presidente dell'ente nazionale per l'oganizzazione scientifica del
lavoro, Enios. Non adere alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato nel
campo di concentramento di Padula dove scrive le memorie. Epurato
dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di diritto della
navigazione, poi di diritto del lavoro, presso l'ateneo romano. Complessi
archivistici prodotti: G. (fondo). Il fondo archivio conserva le carte del
dirigente sindacale e collaboratore di BOTTAI ed e costituito da documentazione
riguardante la politica sindicale FASCISTA, da una vasta raccolta di materiale
e stampa sulla POLITICA CORPORATIVA, da documenti sulla POLITICA SCOLASTICA del
regine negl’anni della guerra e da un ricco epistolario con personalita della
FILOSOFIA, della politica, dell’economia, e della cultura. Bibliografia:
PARLATO, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla caduta del regime, Roma,
Bonacci. G. PARLATO, G.: dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Spirito, G.
PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il
Mulino. Sindacalismo fascista Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni La
neutralità di questa voce o sezione sugli argomenti fascismo e politica è stata
messa in dubbio. Con sindacalismo fascista si intende quel settore del
sindacalismo improntato sui principi della dottrina fascista del lavoro. Filippo
Corridoni con Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915 a
Milano. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Sindacalismo rivoluzionario. Fontana sulla cui lapide marmorea era
scolpito il discorso che Mussolini pronuncia presso lo stabilimento di Dalmine,
in occasione dell'autogestione operaia. Il sindacalismo fascista ha i suoi
primordi nel magma del movimentismo sindacale dei primi due decenni del XX
secolo: in particolare esso trova i suoi riferimenti culturali prima nella
componente rivoluzionaria del sindacalismo socialista, che portò alla dirigenza
del partito diversi esponenti e Benito Mussolini alla direzione dell'Avanti!,
poi nelle sezioni più agguerrite del sindacalismo interventista, in particolare
l'attivissima sezione milanese retta da Filippo Corridoni, nate in seno
all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui saranno espulse già nel 1915, per
incompatibilità con i principi antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2].
Numerosi, pur con alcuni bassi, sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza,
gli scontri ed i comizi cui parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo
a fianco, o anche in qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari. In Italia
non sarà possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito
Socialistanon sarà abbattuto. Corridoni a Malaparte SICKERT (si veda) a Milano
poco prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame è quello
con la Unione Italiana del Lavoro, da essi creata e di ispirazione sindacalista
rivoluzionaria, diretta inizialmente da Rossoni. La nuova formazione sindacale,
nel fermento dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di
operare una prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario
italiano, combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle
nazionaliste del popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le
teorie di imperialismo operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista
Italiana) e lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo
d'Italia di Mussolini, pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di
classe per difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti
all'interno del comune interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL
portava però già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a
concludersi più tardi, durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella
tra la visione di un sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata
principalmente da Rossoni, e quella indipendentista di Ambris. Primo sfogo di
queste evoluzioni avvenne al Dalmine, dove si verifica la prima occupazione con
autogestione operaia della storia italiana, organizzata dai sindacalisti
rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore fu però soprattutto la
continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica produttivista che aveva
acquisito il movimento: gli operai autorganizzati continuarono infatti il
lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore nazionale. Due giorni dopo lo
stesso Mussolini è in visita agli stabilimenti: Voi oscuri lavoratori del
Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma
idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato
nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione,
perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi
nella patria libera e grande oltre i confini. Mussolini, Discorso del Dalmine,
in "Tutti i discorsi) In un primo momento la posizione di De Ambris e
della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920
una forte convergenza tra i due, con il secondo che sostenne apertamente la UIL
dalle colonne de Il Popolo d'Italia[11 ed il primo che dette un apporto
considerevole al programma dei FASCI ITALIANI DI COMBATTIMENTO, costituiti e
dai quali prenderà spunto il fascismo durante la fase governativa. Il nucleo
iniziale Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio:
Sansepolcrismoe Squadrismo. Benito Mussolini a Dalmine con gli operai
dello stabilimento autogestito. Grandi. È da questo connubio che, infatti,
si costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui
protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione
sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli
interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e
squadristi. Fra i maggiori esponenti di questo sindacalismo squadrista,
che affianca i sindacalisti puri Balbo, Bianchi, Baroncini ma, soprattutto,
Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de "L'Assalto",
portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di sinistra, basato
particolarmente a Bologna sulle rivendicazioni contadine, l'allargamento della
piccola proprietà agricola ed al concetto de "la terra a chi la lavora. L’armonia
tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in
conseguenza della grave sconfitta elettorale, Mussolini operò la strategia
della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e, staccandoli dalla
UIL, creò i Sindacati economici, che diventeranno poi la Confederazione
nazionale delle corporazioni sindacalifasciste dirette da Rossoni. La crisi tra
i due movimenti si attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto
tra economia e politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale
che ogni dinamica attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra
i sindacalisti rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai
propri canoni libertari ed autonomisti, concependo la nazione come identità e
sostanza storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe
esclusiva. Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo decisivo
alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò l'onore
dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali
l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre
forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo
senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale
fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario. Masotti) Rossoni e la
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali fasciste Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali. Edmondo Rossoni. I quadrumviri e Benito
Mussolini(da sinistra a destra: Bono, Bianchi, Mussolini, Vecchi e Balbo). Il
primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Si tenne il I Convegno
sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni principali, già
emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei sindacati nei
confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito PARTITO NAZIONALE
FASCISTA. Si scontrarono quindi la visione "autonomista" di Rossoni e
di Grandi e quella "politica" di Rocca e Bianchi, tra le quali sarà
vincente la seconda. A Bologna vennero inoltre affermati i principi
basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della
lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale
su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale
delle corporazioni sindacali, una nuova formazione antisocialista ed
anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque
Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno piu
tardi) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo
rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività
professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica
con il dovere imprescindibile del cittadino verso la Nazione". La nazione,
sintesi superiore di tutti i valori materiali e spirituali della razza, è al di
sopra degli individui, dei gruppi e delle classi. Individui, gruppi e classi
sono gli strumenti di cui la nazione si serve per migliorare le proprie
condizioni. Gli interessi individuali e di gruppo acquistano legittimità a
condizione che si realizzino nell'ambito dei superiori interessi
nazionali.» (Articolo 4 della Carta dei principi delle corporazioni)
Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche negli ambienti del
sindacalismo internazionale: la sinistra operaia internazionale, in sede di
Organizzazione Internazionale del Lavoro, contesta il titolo alla
rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e, quindi, la possibilità di
partecipare all'assemblea. La polemica non venne però accettata, e l'ILO
permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza interruzioni nel
rinnovo del mandato. In sede congressuale Rossoni dichiarò l'esistenza di una
linea di continuità tra il sindacalismo rivoluzionario, il sindacalismo
fascista ed il corporativismo: per il sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo
era legato al primo sia per il comune intendimento del concetto di rivoluzione
che, al di là dell'aspetto della rivolta popolare, in ambito lavorativo
ritenevano rivestisse il significato di sopravvento di superiori capacità
produttive; inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il
proletario (nell'accezione negativa del termine) al rango di lavoratore inserito
a pieno titolo nella vita nazionale. Il sindacalismo deve essere nazionale ma
non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro e
sostituire al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore ed all'altro,
di padrone, la parola dirigente, che più alta, più intellettuale, più grande. Rossoni,
Congresso dei Sindacati intellettuali fascisti) Nei mesi successivi, in
concomitanza con il termine del biennio rosso e l'avanzata dell'offensiva
militare del fascismo imperniata sulle squadre d'azione, ebbe luogo lo
sfondamento politico in campo sindacale, con il passaggio di interi settori
operai dalle strutture del Partito Socialista Italiano e della CGdL al
fascismo. Tanto che la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali
contava 800.000 iscritti. Ciò evidenziava il successo dei progetti di Rossoni,
che aveva pensato di creare da una parte una base contadina potente ed
affidabile che appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo,
dall'altra di fare del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato
fascista. Con la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo fascista fu
quasi definitiva e l'inizio della costruzione del nuovo Stato portò quindi una
relativa tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso che, con il termine
degli scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi sul proprio sviluppo
culturale e la propria evoluzione politica. Rossoni così ne spiega definizione
e scopo principale: la salvaguardia della salute spirituale del popolo. Sindacato
vuol dire: unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve
disciplinare e tutelare gli interessi omogenei. Noi rivendichiamo la concezione
italiana del Sindacalismo alle corporazioni italianissime che sono nate ancor
prima che la parola 'sindacalismo' fosse pronunciata.» (Edmondo Rossoni,
La Marcia su Roma e il compito dei sindacati, Napoli) Caratteristiche
principali, che evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto
a quello socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e
perseguimento di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un
determinato tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare,
ma tentando sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27] Questo clima
non portò fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che
gli stessi vecchi sindacalisti rivoluzionari come Rossoni, Lanzillo, Panunzio e
Olivetti, discutevano e si dividevano spesso e volentieri tra loro. In tutti
però un'evoluzione era avvenuta: il sindacalismo non era più considerato
propulsore del libero mercato ma, aderendo al concetto di nazione come unità
organica d'intenti, ritenevano che il sindacato - come gli imprenditori -
dovesse trovare il suo limite nel superiore interesse della patria, rigettando
il concetto di libero mercato stesso e giungendo al tal punto da definire che
"la nazione è il più grande sindacato. Le prime forti tensioni con i
conservatori ed il padronato Farinacci. Renato Ricci con la sua squadra
d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello sgombero delle macerie del
forte di Falconara. Immediatamente dopo l'apice della Marcia su Roma si accese
però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i settori più conservatori dello
Stato. Avvennero alcuni episodi chiave: la creazione dei gruppi di
competenza, da parte di Rocca, limitanti lo spazio sindacale della
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali; il tentativo di bloccare
il corporativismo da parte di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti
alla minaccia di Rossoni di assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da
parte dei lavoratori fascisti; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da
parte di tutta la sinistra fascista nazionale, compresi Bianchi e Farinacci; il
lancio del sindacalismo integrale da parte di Rossoni, che puntava ad inglobare
nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le rappresentanze
sindacali dei datori di lavoro); la creazione della Federazione italiana dei
sindacati agricoltori e della Corporazione dell'Industria e del Commercio da
parte di Rossoni; i primi tentativi di trasformare le organizzazioni sindacali
da associazioni di fatto in organi di diritto pubblico da parte di Casalini; il
patto siglato tra Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e
Confindustria a Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di classe.
Sia il Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati. L'appetito
all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista
è per la collaborazione ma con gli industriali che si impuntano e dicono
comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai lavoratori il posto
degno nella vita della nazione» (Edmondo Rossoni, adunata al Teatro Regio
di Torino) In questo periodo di tensioni tra industriali e sindacati fascisti,
difficile per l'attecchimento della collaborazione di classe vagheggiata dal
fascismo per il mondo del lavoro, assurgono agli onori del sindacalismo
fascista le personalità di Mario Gianpaoli, sindacalista e federale del PNF di
Milano, e di Domenico Bagnasco, segretario dei sindacati fascisti di Torino.
Organizzatore e combattente di piazza, Bagnasco fu deciso a prendere di petto
gli industriali, accusando il padronato di "spietata intransigenza
antioperaia". Spesso i sindacalisti fascisti di questo periodo pagarono
con la fine della propria carriera politica l'attivismo sfrenato, a causa di un
fascismo ancora non abbastanza forte da poter far fronte ad uno scontro con la
grande industria, appoggiata dai molti uomini del precedente regime ancora
posizionati nelle istituzioni dello Stato. Essi ebbero però il merito di
infondere risolutezza in molti sindacalisti di periferia. La seconda fase del
sindacalismo fascista Monumento a Razza. Corradini. Si entra quindi
in quella che viene chiamata "la seconda fase del sindacalismo fascista,
durante la quale il sindacalismo e tutte le componenti della sinistra fascista
tornarono all'attivismo ed alla tensione del periodo rivoluzionario. Panunzio
ricominciò a tuonare a favore della ripresa dell'anima rivoluzionaria del
fascismo e del recupero del programma, esprimendosi per la creazione di una
Camera sindacale e del lavoro e di un Senato politico. Cadde la
Confagricoltura, inglobata dalla fascista Federazione italiana sindacati
agricoli, riunendo in un'unica corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli
proprietari agricoli. Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento
fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un
conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni
reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la
ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista,
dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più
infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo
sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio
Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito
Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del
PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini. Al termine dello sciopero si
ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di lavoratori
per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il padronato. Si
tenne a Roma il II Congresso nazionale delle corporazioni. Qui venne messa
momentaneamente da parte la strada della collaborazione di classe, per
riprendere quella della lotta in difesa dell'unità dei lavoratori e
dell'istituzionalizzazione delle corporazioni, quest'ultimo aspetto chiesto a
gran voce durante tutto il congresso dalla maggioranza degli esponenti,
soprattutto quelli rappresentanti i sindacati agricoli provinciali, come Mario
Racheli. Nei riflessi della politica economica non v'è chi non afferri
l'utilità nazionale di rendere responsabili le organizzazioni sindacali e di
creare discipline contrattuali garantite dalla legge.» (Edmondo Rossoni,
intervento al II Congresso nazionale delle corporazioni) In questo quadro ha
luogo, come in altri casi era avvenuto, un'avversione crescente nei confronti
dell'inerzia e dell'inattivismo di Mussolini verso la situazione generale,
legato alla fase ed alle operazioni di consolidamento del potere del fascismo
all'interno della formazione statale. Ciò generò, in diversi casi, il
concepimento e la presa di decisioni autonome da parte dei capisquadra, dei
leader sindacali e dell'ala movimentista e la messa in evidenza della natura
anticapitalista che permeava il fascismo provinciale nei confronti di quello
cittadino, dove il movimentismo si scontrava coi circoli conservatori. Questa
natura emerse visibilmente e prepotentemente con lo sciopero carrarese
organizzato da Renato Ricci, capo delle squadre d'azione della Lunigiana. In
tale frangente lo sciopero fascista portò ad una radicalizzazione estrema dello
scontro con "i baroni del marmo", imperanti nel carrarese, da portare
all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle industrie di lavorazione,
ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse con una vera e propria
vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della nascita di una corrente
di dissidenti all'interno del fascismo ufficiale. Ha luogo il discorso alla
Camera con cui Mussolini si prende carico della responsabilità politica della
vicenda Matteotti. Il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito
Nazionale Fascista si riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi
da risolvere per valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro
inserimento a pieno titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del
giorno in cui si autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla
"lotta economica" contro industriali e capitalisti, rei di
"colpevole incomprensione" dei fini e della prospettiva sociale e
nazionale del fascismo. Ciò determina, insieme all'entusiasmo per
l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini, l'instaurazione di un clima
da "seconda ondata", rimettendo nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra
e accendendo nuovamente l'entusiasmo del fascismo movimentista. Avviene quindi
l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M.
di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie
di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta,
abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di
Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto,
gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per
non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi. Le
agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove
gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di
contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri
argomenti, estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il
sindacalfascista Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta minaccia
e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla possibilità di
combinazioni politiche unitarie impreviste. Dopo lunghe trattative le
agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli industriali,
che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli operai tramite i
sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i cui rappresentati
si spostarono in massa nelle Corporazioni. Per ben tre anni l'esistenza di un
sindacalismo fascista, cioè di un movimento sindacale guidato da fascisti e
orientato verso le idee del fascismo, fu ostinatamente negata. Ci voleva, per
dissuggellare gli occhi dei ciechi volontari e fanatici, il fatto clamoroso: lo
sciopero che mettesse in campo le forze sindacali del fascismo e che desse in
pari tempo allo stesso sindacalismo fascista una più risoluta nozione della sua
forza e delle sue possibilità di azione.» (Benito Mussolini, Fascismo e
sindacalismo, a seguito degli scioperi metallurgici organizzati dai sindacati
fascisti in Nord Italia) Altro commento che rivela il momento infuocato fu
quello di Corradini, sindacalista nazionale: «Il superamento del
socialismo, non la dispersione, non la distruzione dell'opera socialista. Questo
è buono affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti. Vi è fra
socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica. Il
fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera
socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera continua.
Corradini, Il Popolo d'Italia. La trasformazione in organi di diritto
pubblicoModifica Edmondo Rossoni in Piazza del Popolo (Roma) annuncia la
promulgazione della Carta del Lavoro. Spirito. La conseguenza principale
di questi avvenimenti furono però gli accordi di Palazzo Vidoni, in cui venne
riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e da
Confindustria la reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori
di lavoro, con l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale.
Va però evidenziata soprattutto la legge: con questa legge vennero infatti, tra
l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati fascisti e
legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori con la
nascita della contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a significare
che le Corporazioni divennero organi di diritto pubblico dell'amministrazione
statale, con "funzioni di conciliazione, di coordinamento ed organizzazione
della produzione". All'interno di questa legge era inoltre presente
l'articolo 42, che prevedeva una direzione comune tra le associazioni di
categoria delle due parti, contenendo in nuce il progetto corporativo a
sindacato misto che verrà realizzato piu tardi. Dopo questa vittoria, per
Rossoni si ebbe la redazione della Carta del Lavoro, testo fondamentale della
politica sociale fascista in ottica di eliminazione della dicotomia tra le
classi sociali ma, dall'anno successivo, con Farinacci non più alla segreteria
nazionale del PNF, ebbero sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle
corporazioni sindacali, che venne smembrata dai circoli conservatori,
capeggiati da Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle corporazioni)
ed Augusto Turati(nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni
di sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo,
disperdendolo in strutture più piccole e limitate. Il secondo Convegno di Studi
sindacali e corporativi Nel periodo che intercorse da questo momento alla
legge, istitutiva delle corporazioni, si ebbe uno blocco totale dell'azione nel
settore, in cui intervenne positivamente soltanto il II Convegno di Studi
sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara, nel quale emerse il concetto di
corporazione proprietaria proposta da Spirito, nei confronti della quale il
sindacalismo fascista si trovò su posizioni contrastanti a causa di un
arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste nel passaggio
dal socialismo eterodosso al fascismo, molti degli esponenti pre-rivoluzionari
del sindacalismo fascista (Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il
progetto di annullare il sindacalismo nel corporativismo come un progetto
reazionario, rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno
scontro benefico per gli interessi individuali e nazionali. L'incapacità di
accettare la proposta di Spirito da parte dei primi sindacalisti fascisti, ma
anche i "nuovi" come Razza e Capoferri, fu dovuta quindi essenzialmente
al rigetto totale della visione statalista che andava formandosi nel fascismo
ed al cui finalismo erano sempre stati avversi: per loro "la corporazione
è il sindacato, e dire Stato corporativo è come dire Stato sindacale. L'esaurimento
del sindacalismo fascista nelle CorporazioniModifica Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Corporativismo. Sede
dell'Opera Nazionale Dopolavoro. Viene approvata la creazione dello Stato
corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e
l'abolizione del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro alle
corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti dei
lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la facoltà
di stipulare i contratti collettivi di lavoro. In ogni caso il cambiamento di
assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del lavoro, non pregiudicarono
i risultati effettivi che il sindacalismo fascista aveva ottenuto negli anni.
Tra le più importanti si possono elencare: ferie pagate; indennità di
licenziamento; conservazione del posto in caso di malattia; divieto di
licenziamento in caso di maternità; assegni familiari; diffusione delle casse
mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro(ad es.
centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico, manifestazioni
teatrali, etc). È Mussolini stesso a rivendicare alle corporazioni la funzione
di esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando
oltre al sindacalismo stesso, inserendosi nel solco della Rivoluzione
continua: «È nella corporazione che il sindacalismo fascista trova
infatti la sua meta. Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che
potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia con l'educazione dei
singoli alla vita associativa; si continua con la stipulazione dei contratti
collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o mutualistica; si perfeziona
l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo socialista, per la strada
della lotta di classe, sfocia sul terreno politico, avente a programma finale
la soppressione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, il
sindacalismo fascista, attraverso la collaborazione di classe, sbocca nella
corporazione, che tale collaborazione deve rendere sistematica e armonica,
salvaguardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispettando
l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della vita e dell'economia della
Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé stesso: o si esaurisce nel
socialismo politico o nella corporazione fascista. È solo nella corporazione
che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro,
tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la collaborazione
di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità del sindacalismo
è assicurata. Mussolini, discorso inaugurale del Consiglio Nazionale delle
corporazioni) Maggiori esponenti ed ispiratori Corridoni Corradini Ambris
Panunzio Olivetti Dinale Lanzillo Grandi Fontanelli, G., Bianchi Baroncini Cianetti Rossoni Razza
Racheli Bagnasco Bramante Cucini Capoferri Landi Aimi Riviste La Stirpe Il
Lavoro Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il
Lavoro d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il
Lavoro I Problemi del Lavoro NoteModifica Perfetti, Il sindacalismo fascista.
Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo Bonacci, Roma, Breve storia
dell'Usi di Fedeli Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di
Milano, De Donato, Bari, Malaparte e Suckert, Malaparte, vol. 1, Ponte delle
Grazie, operante e senza legami con la UIL attuale. Cordova, Le origini dei
sindacati fascisti, Roma e Bari, ristampa Firenze, La Nuova Italia, Nel cui
sottotitolo cambiava, in questo periodo, la dicitura da quotidiano socialista
in quotidiano dei produttori ^ Francesco Perfetti, Dal sindacalismo
rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, Felice, Mussolini il
rivoluzionario, Torino, Einaudi, Corridoni (a cura di Andrea Benzi), ...come
per andare più avanti ancora - gli scritti, Milano, Zamponi, Lo spettacolo del
fascismo, Rubbettino, Roma, Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino,
Einaudi, Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. Torino,
Einaudi, Sacco, Storia del sindacalismo, Torino, Olivetti Dal sindacalismo
rivoluzionario al corporativismo, Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al
corporativismo, Roma, Bonacci, Corridoni, Casa editrice Carnaro, Milano, Anche
per via del cambiamento di schieramento di Grandi: Renzo De Felice, Mussolini
il fascista, I, La conquista del potere. Torino, Einaudi, Haider, Capital and
Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, Allio, La polemica
Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle corporazioni fasciste nell'ILO,
"Storia contemporanea", Bologna, Annali della Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli, Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale, Feltrinelli,
Milano"Il Giornale d'Italia", Il Mondo", Felice, Mussolini il
rivoluzionario, Torino, Einaudi, Cordova, Uomini e volti del fascismo, Bulzoni,
Roma, Ancora forti rimanevano i sindacati socialisti (CGdL) e comunisti
soprattutto tra metallurgici e metalmeccanici del nord-ovest e lo rimarranno
fino allo sciopero fascista della OM di Brescia, espansosi poi in tutto il nord
Italia. In Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Settimo Sigillo,
Roma, Le idee della ricostruzione. Discorsi sul sindacalismo fascista,
Bemporad, Firenze, Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze.
Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla vigilia dello Stato
corporativo, Bonacci, Roma, Con l'eccezione di Lanzillo, che continuò
pericolosamente a portare avanti idee liberiste anche durante il regime.
Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Editrice Rivista Nazionale,
Milano, Deliberazione congiunta del PNF e del Gruppo parlamentare del partito
Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, Espressosi esplicitamente,
in particolare, nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo occupatasi
dell'analisi dei problemi sindacali. In questo ambito Michele Bianchi definì
"dittatoriale" la "procedura introdotta dal sindacalismo
fascista", mentre il sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la
doppia organizzazione, cioè quella dei datori di lavoro e quella dei
lavoratori, allontana ogni pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e
l'influenza delle organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di
classe". In Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia,
Milano, Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, Rimbotti, Il
Fascismo di sinistra, Settimo Sigillo, Roma, Corriere della Sera, Uomini e
volti del fascismo, Bulzoni, Roma, contrassegnata da un parziale ritorno alla
teoria e alla pratica del conflitto di classe", in Adrian Lyttelton, La
conquista del potere. Il fascismo Laterza, Bari, Il fascismo è una dottrina,
una fede, una civiltà nuova. Riemerge ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo.
Il Fascismo deve immediatamente tornare, non per opportunismo, ma per necessità
storica, al programma L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre, il
Sindacalismo Nazionale, la cui formula Mussolini lanciò prima, prima di
Vittorio Veneto". In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il Popolo
d'Italia, Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, Schwarzenberg, Il
sindacalismo fascista, Mursia, Milano, Il Mondo, Rossoni sta, nel suo
intervento, illustrando le future battaglie del sindacalismo fascista sui
contratti collettivi di lavoro. In Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati
fascisti, Laterza, In questo periodo continuarono ad affiorare, in seno al
sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso Mussolini e il partito, la
cui sorte pareva a molti gravemente compromessa" in Alberto Acquarone, La
politica sindacale del fascismo ^ Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il
regime fascista, Il Mulino, Bologna, Che rientrò poi in breve tempo nell'alveo
della sinistra fascista ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci: dallo
squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. Uva, La nascita
dello stato corporativo e sindacale fascista, Carucci, Assisi-Roma Gerarchia
Acquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, Arata,
Decennale della Carta del Lavoro - Sul piano dell'Impero, su
"L'Italia", Milano, Felice, Mussolini il fascista. L'organizzazione
dello Stato fascista Einaudi, Spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi,
Milano Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra - La dottrina corporativa di Spirito,
Firenze, in Belfagor Parlato, Spirito e il sindacalismo fascista, Il pensiero
di Spirito, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Roma, Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Settimo Sigillo, Roma,
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BibliografiaModifica Testi in lingua italiana Uomini e volti del fascismo,
Bulzoni, Roma, Critica Fascista, antologia a cura di De Rosa e Malgeri, Landi,
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Aquarone e Vernassa (a cura di), Il regime fascista, Il Mulino, Bologna,
Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, Allio, La
polemica Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle Corporazioni fasciste
nell'ILO, "Storia contemporanea", Bologna, Annali della Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli, Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale
Feltrinelli, Milano, Bocca, Mussolini socialfascista, Garzanti, Milano,
Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Vallecchi, Firenze. Ferdinando
Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Roma e Bari; ristampa Firenze, La
Nuova Italia, Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere, Torino,
Einaudi, Felice, Mussolini il fascista. L'organizzazione dello Stato fascista,
Torino, Einaudi, Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, Felice,
Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti, Bergamo, Minerva
italica, Gentile, Le origini dell'ideologia fascista, Laterza, Bari. Granata,
La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De Donato,
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sinistra - La dottrina corporativa di Spirito, Firenze, in Belfagor, Lyttelton,
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fascista: storia di un progetto mancato, Il Mulino, Parlato, Spirito e il
sindacalismo fascista, in AA. VV., Il pensiero di Spirito, Istituto
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Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla caduta del
regime, Bonacci, Roma, Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla
vigilia dello Stato corporativo Bonacci, Roma, 1988. Francesco Perfetti, Dal
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Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, Setta, Renato Ricci:
dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, Susmel, Opera
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Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Roma, Haider, Capital and
Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, Lowell Field, The
Syndacal and Corporative Institutions of Italian Fascism, Columbia University
Press, New York, Roberts, The Syndacalist Tradition and Italian Fascism,
University of North Carolina Press, Chapel Hill, Camera dei fasci e delle
corporazioni Carta del Lavoro Corporativismo Corporazione proprietaria
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Collaborazione di classe Fasci
Italiani di Combattimento Interventismo Leggi fascistissime Politica economica
fascista Politica sociale (fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista Squadrismo
Sindacalismo rivoluzionario Sindacato fascista dei giornalisti Portale
Fascismo Portale Politica Portale Storia d'Italia
Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista e politico italiano Oliviero
Olivetti politico, politologo e giornalista italiano Confederazione
nazionale delle corporazioni sindacali. Riccardo Del Giudice. Giudice. Keywords:
l’implicatura di Telesio, Telesio, polemica con Spirito su la distinzione tra
sindacato e corporazione, le corporazione nell aroma papale, I diritti dello
stato pontificio, il diritto della navegazione, contratto, gentile, la scuola
al lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” -- – la tesi di telesio – consiglio nazionale
delle corporazioni. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool
Library.
Grice e Giudice: all’isola – la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- corpi ed espressioni – filosofia
messinese – scuola di Messina – la scuola d’Antillo -- filosofia siciliana – filosofa
italiana -- Luigi Speranza (Antillo).
Filosofo messinese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Antillo, Messina, Sicilia. Grice: “Giudice has
written an essay that poses a conceptual query for Austin’s conceptual query. It’s “Sull pudore” – “But do
we have that in ordinary language?”” – Grice: “Giudice has also written on more
standard forms of philosophy of language, and Nietzsche.” Dopo aver espletato studi classici si laurea con la
tesi “Ideologia e Sociologia” -- Ricercatore all'Istituto di Filosofia di
Messina. Direttore della collana "Filosofia Teoretica". Altre saggi:
“La Nuova Filosofia, Messina, Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi del
corpo” Verona,Paniere, “Il lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana.
Esercizi di lettura, Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle
cose più alte, Fedeltà alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza,
Pellegrini, “Stare insieme” Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito,
Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza, Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione,
Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni
e cognitività: Un approccio fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul
pudore e sull'osceno, Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova
filosofia", Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza,
Pellegrini, Su Messina e altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi
fidarti di te, Milano, Mondadori, Battaglia, Storia e cultura in Popper,
Cosenza, Pellegrino, Battaglia, Guicciardini tra scienza etica e politica,
Cosenza, L. Pellegrino,, varie Giovanni
Coglitore, Kant: cristianesimo come impegno morale, in Il contributo, L'Espresso, Studi etno-antropologici e
sociologici,. Fisiologia branca della biologia che studia il
funzionamento degli organismi viventi disambigua.svg Disambiguazione –
"Fisiologo" rimanda qui. Se stai cercando l'omonimo trattato antico,
vedi Il Fisiologo. La fisiologia (da φύσις, natura', e λόγος, 'discorso',
quindi 'studio dei fenomeni naturali') è la branca della biologia che studia il
funzionamento degli organismi viventi, analizzando i principi chimico-fisici
del funzionamento degli esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari,
animali o vegetali. L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante
prima tappa nello studio della fisiologia. È detta "condizione
fisiologica" lo stato in cui si verificano le normali funzioni corporee,
mentre una condizione patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono
in malattie. Data l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide, fra
gli altri, in fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia cellulare, fisiologia
microbica, batterica e virale. Il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina
è assegnato dall'Accademia reale svedese delle scienzea coloro che raggiungono
risultati significativi in questa disciplina. StoriaModifica Claude
Bernard e i suoi aiutanti. Olio su tela di Leon-Augus Wellcome. I primi studi
fisiologici risalgono alle antiche civiltà dell'India e all'Egitto, dove
venivano condotti insieme agli studi anatomici, senza l'utilizzo della
dissezione o della vivisezione. Lo studio della fisiologia umana come campo
medico risale almeno ai tempi di Ippocrate, noto come il padre della medicina.
Ippocrate incorpora questa scienza alla sua teoria degli umori, che si basa su
quattro sostanze fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco; associate ad un
corrispondente humor (bile nera, flegma, sangue e bile gialla,
rispettivamente). Ippocrate nota alcune connessioni emotive ai quattro umori,
che Galeno avrebbe poi ripreso nei suoi studi. Il pensiero criticodi Aristotele
e la sua teoria sulla correlazione tra struttura e funzione ha segnato l'inizio
dello studio della fisiologia nella Grecia antica. Come Ippocrate, Aristotele
riprende la teoria umorale, che per lui consisteva in quattro qualità primarie:
caldo, freddo, umido e secco. Galeno è stato il primo ad utilizzare degli
esperimenti per sondare le funzioni del corpo. A differenza di Ippocrate, però,
Galeno sostiene che gli squilibri umorali siano situati in organi specifici, o
nell'intero corpo. Galeno ha poi introdotto la nozione di temperamento: sanguigno
corrisponde al sangue; il flemmatico è legato al catarro; la bile gialla è
collegata alla collera; e la bile nera corrisponde alla malinconia. Galeno
afferma che il corpo umano è composto da tre sistemi collegati: il cervello e i
nervi, responsabili dei pensieri e sensazioni; il cuore e le arterie, che danno
la vita; e il fegato con le vene, che sono collegati alla nutrizione e la
crescita.[9] Galeno è anche il fondatore della fisiologia sperimentale. Per i
successivi 1.400 anni, la fisiologia galenica influenza l'intera medicina. Fernel,
un medico francese, ha introdotto per primo il termine "fisiologia".
Il fisiologo francese Milne-Edwards introduce il concetto di divisione
fisiologica del lavoro, che ha permesso di "confrontare e studiare le cose
viventi come se fossero macchine create dall'industria dell'uomo".
Ispirato dal lavoro di Adam Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo
di tutti gli esseri viventi, animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ...
in cui gli organi, paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per
produrre i fenomeni che costituiscono la vita dell'individuo." Negli
organismi più differenziati, il lavoro può essere ripartito tra diversi
strumenti o sistemi (chiamati da lui appareils). Lister studia le cause della
coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue scoperte portano
all'implemento di antisettici in sala operatoria, con conseguente diminuzione
del tasso di mortalità degli interventi chirurgici. La conoscenza fisiologica
ha iniziato a crescere ad un ritmo rapido, in particolare grazie alla teoria
cellulare di Schleiden e Schwann, nella quale si afferma per la prima volta che
gli organismi sono costituiti da unità chiamate celle. Le scoperte di Bernard
hanno portato al concetto di milieu interieur (ambiente interno), che sarà poi
ripreso e definito "omeostasi" dal fisiologo americano Walter B.
Cannonnel. Con omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento di stati
stazionari nel corpo e i processi fisiologici con cui sono regolati. In altre
parole, la capacità dell'organismo di regolare l'ambiente interno. Va notato
che, William Beaumont è stato il primo americano ad utilizzare l'applicazione
pratica della fisiologia. I fisiologi del XIX secolo come Michael Foster,
Max Verworn, e Alfred Binet, sulla base delle idee di Haeckel, elaborano il
concetto di fisiologia generale, una scienza unificata che studia le cellule, ribattezzata
biologia cellulare nel 900. Nel XX secolo, i biologi iniziano ad interessarsi
agli organismi diversi dagli esseri umani, e nascono i campi della fisiologia
comparata ed ecofisiologia. Più di recente, la fisiologia evolutiva è diventata
un sotto-disciplina distinta. La fisiologia opera su diversi livelli,
occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di
cellule e organi, come pure dell'integrazione delle funzioni d'organo negli
organismi complessi. A seconda dell'ambito specialistico, la
fisiologia si avvale delle conoscenze di numerose discipline, oltre alle già
citate chimica e fisica, alcune branche della biologia quali: biochimica,
biologia molecolare, anatomia, citologia e istologia e costituisce anche la
base fondamentale per numerose discipline mediche quali la patologia, la
farmacologia e la tossicologia. Esistono diversi metodi per classificare
la fisiologia In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni e i
meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale: studia i
fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali. Fisiologia umana:
studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli esseri umani
Fisiologia microbica e virale. In base al livello di organizzazione: Fisiologia
cellulare: studia i meccanismi associati al funzionamento delle cellule e le
loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia molecolare: studia i fenomeni e i
meccanismi associati alle funzioni delle molecole Neurofisiologia: studia il
funzionamento del sistema nervoso sia a livello cellulare che sistemico
Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica Fisiologia integrativa In base ai
processi che causano variazioni fisiologiche: Fisiologia ambientale: studia le
reazioni e l'adattamento dell'organismo sottoposto a differenti ambienti
(temperatura, altitudine, inquinamento, ecc..). Fisiologia patologica: studia
le modificazioni delle funzioni in seguito ad una patologia. Fisiologia dello
sviluppo: studia i meccanismi e le fasi che conducono un organismo alla
maturità riproduttiva. In base agli obiettivi finali della ricerca: Fisiologia
applicata: studia la capacità umana d'interagire con l'ambiente esterno. Fisiologia
comparata: studia le somiglianze e le differenze delle diverse specie animali.
Fisiologia dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano l'attività
motoria e sportiva e come migliorare le prestazioni con l'allenamento. Prosser, C. Ladd Comparative
Animal Physiology, ambientale Environmental and Metabolic Animal Physiology Hoboken,
NJ: Wiley Introduction to Physiology:
History And Scope, in Medical News Today Hall Guyton e Hall Manuale di
fisiologia medica Philadelphia, Pa .: Saunders / Elsevier. Burma; Maharani
Chakravorty. From Physiology and Chemistry to Biochemistry. Pearson Education.
Zimmermann. The Jungle and the Aroma of Meats: An Ecological Theme in Hindu
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Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale Biologia: Biologia scienza che
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Grice e Giulia: la ragione conversazioanle e
l’implicatura conversazionale – la scuola d’Acri -- filosofia calabra – scuola
d’Acri -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Acri). Filosofo calabro. Filosofo italiano. Acri, Cosenza,
Calabria. Grice: “Julia was more of a poet than a philosopher; but then for
Heidegger, philosophy IS poetry and vice versa!” -- essential Italian
philosopher. Studia a Cosenza sotto FOCARACCI (si
veda). Direttore di Telesio, periodico. Stringe grande amicizia PADULA (si
veda). La temperie culturale in ambito locale vede la difficoltà della Calabria
a integrarsi nella nuova entità politica. Area essenzialmente contadina, la
regione ha una classe dirigente che preferisce assoggettarla al clientelismo e
alla sua arretratezza piuttosto che metterla al passo con zone del paese più
avanzate e progredite; perciò il mondo intellettuale d'avanguardia, deluso
dalle speranze e conscio del sottosviluppo, si volge verso il positivismo e il
socialismo. Vive tra il tardo romanticismo e l'affermarsi delle innovative
correnti costituite dal naturalismo e dal verismo, nella scia di CARDUCCI (si
veda) e VERGA (si veda). Le contraddizioni della sua epoca lo formano come un
intellettuale spiritualista che rifiutail materialismo e in parte il mondo
contemporaneo, e d'altra parte un sostenitore degli ideali socialisti, del
riscatto delle masse disagiate e della glorificazione del passato della
Calabria a partire dall'assedio degl’Aragonesi e dei suoi conterranei coevi
illustri, fra i quali Miraglia, Padula, Quattromani, Tocco, oltre a CAMPANELLA.
Accostatosi in un primo tempo al misticismo di Gioberti, si converte al
verismo, alla ricerca del pragmatismo e di un modello di poesia di alto civismo
che lo stesso G. proclama nei suoi Sonetti e liriche. Parte dai miti popolari e
dalle ballate della tradizione romantica per marcare orgogliosamente la storia
della sua terra. Considerato il padre della letteratura calabrese, si interessa
alle origini della cultura letteraria della regione analizzando anche alcune
opere a lui precedenti. Il suo impegno regionalistico si concretizza in uno
studio su Selvaggi, nel quale si individua un collegamento fra Galeazzo di
Tarsia e le produzioni romantiche. Vi fu poi un saggio su Padula e un esame
delle liriche riferibili all'Accademia Cosentina. Sa però spaziare oltre i
confini delle sue terre, fino a richiamare Milton nel suo scritto dedicato a
Padula. Oltre a uno studio su Monti, produce dei lavori anche su Mazzini,
Poerio, Correnti, legati dall'attenzione alle tematiche relative al
Risorgimento e perciò in convergenza con il proprio pensiero, che dal punto di
vista della poetica si richiama ai modelli che il letterato individua in
Leopardi, Berchet e Giusti, oltre che in Prati.
Piromalli, La letteratura calabrese, Pellegrini, Cosenza; Monografia su
calabria o, su calabria. Digital Storytelling su G. a cura degli studenti del
Liceo G. di Acri, CS. Ovvero delle famiglie nobili e titolate del Napolitano,
ascritte ai Sedili di Napoli, al libro d'oro Napolitano, appartenenti alle
Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale
Napolitano o che gioccano un ruolo nelle vicende del Sud Italia. Famiglia G. A
cura di Dodaro Socio Corrispondente dell’Accademia Cosentina, Arma:
d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata nel capo da un destrocherio di
carnagione tenente un uccello di nero e in punta da un albero radicato al
naturale. Titolo: Nobile d’Acri. Arma Famiglia La famiglia G., in
origine nota come de “Giulia”, figura fra le antiche e nobili casate d’Acri,
Cosenza. I G. godettero sempre nella locale società di un buon livello di
prestigio sociale come testimoniato dalle alleanze matrimoniali contratte con
diverse famiglie patrizie fra le quali ricordiamo le seguenti: Benincasa,
Candia, Capalbo, de Simone, Dodaro, Falcone, Fusari. Simbolo della condizione
privilegiata della famiglia è il grande palazzo sito tra il rione Casalicchio
ed il quartiere Piazza. Tale edificio, al cui interno si conserva la ricca
biblioteca di famiglia, è abbellito da un portale lapideo sul quale spicca un
mascherone sormontato da un’antica riproduzione in pietra dello stemma del
casato. Il suddetto blasone è timbrato dalla classica corona a cinque punte che
identifica i Julia come nobili. Acri, Palazzo Julia, portale con
atto del notaio Gaudinieri, il sacerdote Nicola Maria J. fonda una cappella
privata sotto il titolo dell’Immacolata Concezione all’interno della chiesa di
San Nicola di Bari in Acri situata nel rione Casalicchio. Fabrizio J. vende a
Sanseverino un terreno dove e edificato l’imponente complesso del palazzo
acrese dei principi di Bisignano, permutandolo con la casa e il fondo Macchia.
Dal matrimonio fra il dott. Raffaele e la N.D. Giuseppina Capalbo nacquero
Salvatore ed Antonio dei quali il primo è rinomato avvocato mentre Antonio
viene ricordato come “Medico illustre” che “in età provetta, in pochi mesi,
studiò leggi presso il Focaracci e ne apprese quanto ne anno i più maturi; onde
s’incentrarono in lui il medico e l’avvocato. Fra i personaggi celebri di
questa famiglia ricordiamo il citato Raffaele, Governatore di S. Giorgio e
Vaccarizzo. La figura cui si lega maggiormente la fama del casato è quella di G.,
FILOSOFO. Allo stesso è intitolato il liceo – LIZIO -- d’Acri. Svolge gli studi
presso l’istituto Molinari di Acri ed il seminario di S. Marco Argentano.
Frequenta il seminario di Bisignano dove ebbe come insegnante il Canonico
acrese Francesco Saverio Benvenuto, quest’ultimo colto latinista nonché
teologo, filosofo e parroco maggiore di Santa Maria in Acri. Intraprese gli studi giuridici e per alcuni
anni esercita la professione di avvocato poi accantonata a favore
dell’insegnamento di materie filosofiche. Quanto alla sua produzione filosofica
questa e quella del poligrafo (letteratura, filosofia, storia, cultura
calabrese) inoltre. Nei suoi studi predilesse la valorizzazione e la riscoperta
di figure regionali poiché gli pareva che la Calabria fosse dimenticata e poco
apprezzata dopo la raggiunta Unità. Fra le sue opere ricordiamo: Saggio sulla
vita e le opere di Gravina, Saggio di studi critici su Selvaggi e la Calabra
poesia, ROVERE e i suoi dialoghi di scienza prima, FIORENTINO filosofo, Lettere
al figlio Antonio su Cesare, SANCTIS in Calabria, Monti. Muore in
Acri. Telesio, rivista codiretta da J. Antonio J. figlio di Vincenzo,
avvocato e raffinato poeta sposa, in prime nozze, Mariantonia Dodaro, figlia
dell’avv. Giovanbattista e di Cristina Benvenuto. Il loro è un matrimonio
felice e allietato dalla nascita di Maria Gabriella, Vincenzo e
Antonietta. Antonio G. e sua moglie Mariantonia Dodaro Antonio G. è
legato da sincero amore a sua moglie e quando questa prematuramente scomparve,
riversò il suo dolore in alcuni toccanti componimenti poetici che rappresentano
una struggente testimonianza del suo dramma interiore e assieme della sua
spiccata sensibilità d’animo. AL CROCIFISSO DEL SUO LETTO Non più le sue
lucenti Pupille a te si volgeran la sera; non più per le dolenti mie stanze
echeggerà la sua preghiera. O tu, che pendi ancora, mistico Iddio, sul vedovo
mio letto, volgi le luci ognora sovra i miei figli e sul paterno
tetto! Dimmi che ancor le rose Olezzano per te, vigile Iddio, le parole
amorose che a te rivolse, ne l’estremo addio. Dimmi che ancor tu senti La voce
sua, ne l’ombre de la sera, e che, in soavi accenti, mormora pe’ suoi figli una
preghiera! Gli smalti dello stemma J. sono noti grazie ad una raffigurazione
del blasone in oggetto riportata dallo storico acrese Capalbo in un suo lavoro
inedito sull’araldica delle famiglie nobili d’Acri. Nella riproduzione del
blasone dei G., visibile ancora oggi sul portale del loro palazzo in Acri, il
destrocherio appare vestito. (2) - Per approfondimenti si rimanda a CHIODO,
L’Archivio Privato della famiglia G. di Acri - Inventario sommario, in
“Archivio Storico per le Province Napoletane. Per un elenco completo delle
famiglie patrizie di Acri si vedaCAPALBO, Memorie storiche di Acri, S. Giovanni
in Persiceto (BO), Edizioni Brenner, CAPALBO. Quest’ultima, appartenente a una
famiglia originaria di Rogiano Gravina, sorella di Balsan, letterato e deputato del regno d’Italia
nonché preside del liceo Telesio di Cosenza. Lo stesso figura tra i maestri del
nipote PIROMALLI, La Letteratura Calabrese, Cosenza, Pellegrini. Per approfondimenti
su alcune vicende storiche che interessarono la famiglia Fusari si rimanda a
CAPALBO,- G. vincenzo. atavist. Alcuni anni dopo il decesso della prima moglie,
si unirà in matrimonio con Maria Beatrice Antonietta Romano di Acri. Poi
sposatasi con Carlo Giannice Andata successivamente in sposa a Giuseppe
dell’Armi A. G., Momenti, S. Maria Capua a Vetere, Casa ed. Della Gioventù, Si
veda anche il componimento intitolato “Alla Vergine della Sua Stanza”. Questo
egregio, su cui fondiamo, a buon dritto, non pic cola speranza, per le diverse
prove del suo nobile ingegno fin'ora dateci, coltiva con forte, inteso amore le
filosofiche discipline, tutto solo rannicchiato in piccol paesuccio delle
Calabrie, Acri. Egli, da quello n'è sembrato, predilige la filosofia di quel
sommo torinese filosofo, che col suo primato Civile e Mormale D'Italia
fanatizzò tutti isuoi connazionali per la dupla autonomia del loro paese,
Libertà ed Indipendenza; e con l'Introduzione allo studio della Filosofia, la
Protologica ed altre opere speculative ispira nei cultori di questa no
bilissima scienza l'amore delle nazionali dottrine. J. a dunque è un
giobertiano, un ontologo, e per lui quindi sta che l’ente, il primo essere,
Colui che dà l'essere a tutte cose, non però spezzandosi, non diffondendosi, nè
emanandole dal suo seno, come il ragno il ragnatelo; ma liberamente creandole;
per lui dico sta, che l'Ente, l'ASSOLUTO reale, non astratto, quale il pose, il
proclama Hegel, è il Primo Filosofico, cioè a dire è non solo il primo essere o
primo ontologico; ma anche la Prima Idea o Primo Psicologico. Sicchè non solo
anno le cose tutte da Dio l'essere loro, ma anche la loro intelligibilità.
Verità già insegnata dal fondatore dell'Accademia, il divino Platone, il quale
dice che l'idea del DIIVINO è pel mondo intelligibile quello che il sole è pel
mondo visibi le, e che l'essere assoluto dà alle menti nostre l'esistenza e
spande su loro e sugli obbietti della scienza illume della verità« detí v
8.& Tlothuns oùoxv xai adnocías» come il sole, che non solamente rende
visibili le cose, ma dona loro eziandio il nascimento, l'accrescimento e la
maturita -- τον ήλιον τοϊς ορωμένοις ου μόνον, οίμαι τήν του οράσθαι δυναμιν
παρέχειν φήσεις, αλλά και την γένεσιν αυτών όντα. Quindi per J. sta quel metodo
detto deduttivo, o sillogistico, che dai principii va alle conseguenze, ma non
come pretende il fondatore del Peripato del LIZIO, il qua le fa il sillogismo
posteriore all'induzione, ed il cui scopo non consiste in altro che in
applicare i principii alle cose particolari a meglio rifermarle. J. ha capito
bene che l'induzione non può darci punto tanto i principii proprii a ciascuna
scienza, quanto i principii comuni ed assolutamente universali. I principii
sono ontologici ed originalmente presenti alla intelligenza, secondo dice il
divino Platone, e non già puramente logici ed astratti, secondo dice
Aristotele, che li vuole prodotti la merce dell'intelligenza con gl’elementi
fornitici della sensazione. Nè debbe dirsi che J. neghi l'induzione. Ei
l'ammette, e nel senso di venir essa provocata, sostenuta e guidata in noi dal
lume di certe idee generali sempre presenti all'anima nostra, essendo un
impossibile elevarsi da qualche fatto individuale e variabile all'idea della
legge generale e permanente, senza averci di già nella mente, almeno in una
maniera vaga e confusa, l'idea di ordine, di generalità e di stabilità. Laonde
dice Laforet nella sua storia della filosofia antica, in parlando del LIZIO. Comment s'élever de la
perception de faet contingents et relatif à l'idée de principes nécessaires et
absolus, si le necessaire et l'absolu sont entieremant étrangers à
l'intelligence? Dunque pel J., come per ogni giobertiano,
si deve partire di Dio per costruire la scienza filosofica ossia dalla idea
somma ed improdotta, perché è quel principio supremo che illumina e rende
conoscibili gli altri principiimeno generali e senza di cui non potrebbe aversi
quella sintesi obbiettiva, che argumenta di necessità nel suo moto organico la
gerarchia dei principii scientifici; e deve radicarsi in un principio assoluto,
supremo, universale, immutabile, il quale, reggendo colla sua virtù ogni
singolar passo del procedimento razionale, accorda ed unifica tutti imomenti del
discorso ideale, e tutta insieme 1.umana enciclopedia. Laonde dice saviamente
nel suo dotto di scorso intorno al Panteismo Attanasio, nella La Carità di Napoli.
Sintesi senza gerarchia di principii io non intendo nell'ordine dell'idee, come
non vedo nell'ordine umano sociale e nell'ordine fisico di natura. E
ingradamento di gerarchie che ponga in atto una sintesi universale torna
impossibile a concepire pur col pensiero senza un principio supremo,
essenzialmente uno ed immutabile, che sia il centro immoto che governi i moti
del multiplo e del diverso e tragga a sè ed accordi il multiplo e dil diverso».
Laonde, lasciando chel'induzione non conduca ai principii, a ciò che è
universale, sia che dessa fosse positivista o come la intende il positivismo,
siache fosse anche nel senso di Aristotsle, ci facciamo a lodare J. per avere
ei scelto quel sistema, che parte dall'idea dell’ASSOLUTO reale per costruire
la scienza, non sipotendo, per tante e tante ragioni dette e ri-dette, porsi
per primo conoscibile ciò che non è prima cosa; per chè sarebbe, seguendo
questa via, un turbare l'armonia della scienza filosofica; giusta che vien
fatto dai psicologi, i quali partono dal contingente, ed oșano spiegare
l'assioma degl’assiomi, la verità prima con la verità seconda, e separare
l'ordine di esistenza da quel lodi conoscenza, il primo psicologico dal primo
ontologico, dando questo per primo filosofico. Di qui non potremmo esserer
improverati che atorto, se dicessimo che iseguaci del PSICOLOGISMO di
Aristotele -- non però di quelle d’AQUINO (si veda) ch'è ben altro -- siam
lontani da una vera scienza; perché la scienza è con la sintesi, e la sintesi
co'principii, e la gerarchia dei principii scienziali nel principio sommo, Dio,
radicata. Siechè scienza sull'ANALISI è scienza effimera, è scienza di nome,
essendo disgregazione, e tale è la filosofia di Aristotele, siccome è conto da
quei due principii ammessi da lui. Nihilest in intellectu,quod prius non fuerit
in sensu -- e che l'anima nostra si
rassomiglia ed una tavolarasa -- Δείδ'ούτως ώσπερεν γραμματειωώ μηθένυ πάρχει
εντελεχεία γεγραμένον. È quantunque fosse vero che il LIZIO ammettesse
l'intelletto attivo profondamente distinto dalla sensibilità, essendo quello
che opera 83 $¢%su ciò che ci vien porto dalla sensazione, per tirarne od
indurne avec lemonde intelligible; sun intervention n'apportedo nerien de now
eri veau à ce qui est déposé dans l'àme par suite de la perception des 0C sens,
il ne peut qu'exercer son activité et travaillier sur ce qui est racu dans
l'intellect paseif. L'intellect actif d'Aristote nous semble jouer, redans la formation de la
connaessance,un rôle exactement samblable à 1021"celui que joue la
reflexion de Locke; ni l'un ni l'autre n'ajoutent ta rien à l'objet fourni par
la sensation, toute leur action seborné à éla:) doaborer cet objet Dunque
nonpuò farsi ammeno di ammettere col ret. J. e la scuola giobertiana l'apprensione diretta ed
immediata, din cioè l'intuito dell'assoluto, e ritenere essere questi la prima
idea, la l'oprima conoscenza, che, per la via di un primo guardare, viene al.
into: l'intelletto umano nello stato d'intenebramento, che la riflessione di in
poi, la quale èun secondo intuito od un ripiegamento dello spirito e sopra il
primo intuito, chiarifica e fissa, e non già che la si acqui isti e conosca in
forza del raziocinio, passandosi dalla cognizione a iilistratta, ottenuta per
la via dell'induzione, a quella concreta del V e on& ro Assoluto, avendo
ben dimosorato altrove, che i psicologi si tro fost vino in grande errore,
credendo ed insegnando, che Dio siccome ve fosesrità assiomatica, essendo
universale, necersaria ed immutabile, debba 18 essere astratta,e che vi bisogna
di forza indispensabilmente il ra ley ziocinio per ascendere, mediante essa
verità astratta, al vero primo buik ed assoluto, mentre, siccome facemmo notare
in proposito di Milone. Insomma, senza menarla piùinlungo, della insignescuola
on anda tologica è J., siccome l'ha mostrato co'suoi vari scritti di ar
veratgomento filosofico e conquello, veramente stupendo, Discorsointorno alla
vita ed alle opera di Balsano, in cui, prendendoa consi ost: der ar e questo
disgraziato dotto Calabrese, divenuto vittima del pugnale di un assino, e,
considerandolo non solo quale oratore egregio ed acuto critico,ma anche
qualeillustre cultore delle scienze filosofi cincche, e forte amatore del
sistema ontologico, palesa a chiare note i suoi O. pensamenti in fatto di
filosofia, che sono indubitatamente quelli del Pladiotonismo, cristianizzato
d’Agostino, ammirato d’AQUINO (si veda) e d’ALIGHIERI (si veda), divulgato da
Gioberti, ed abbracciato dalla th, maggior parte de'pensatori nostrani. La
FILOSOFIA di J. che ci avemmo in dono da lui medesi i mo, palesa ad evidenza
non solo la scuola filosofica cui appartie ne; non solo la lucentezza delle
idee, ond'è corredata sua mente; e non solo l'affetto per la patria grandezza
quanto a politica, governo e civile, scienze, lettere ed arti; ma dàanche prova
della perizia che l'universale ed elevarci sino alla concezione dei principii;
pure non to bisogna dimenticarci che nella teoria dello Stagirita è desso
affatto et vuoto, senza alcun rapporto diretto col mondo intelligibile, da
potersi pelo dire che nella conoscenza eserciti l'ufficio nè più nè meno della
riostruflessione di Locke. E dice bene Laforet. Dans la theorie du Stagirite
l'intellect actif est tout a fait vide et n'a nul rapport direct Profilo
Bibliografico pubb. nella Rivista Itoliana di Palerino ela:Anno IV,N. 11, nonci
ha cosa più chiara, che essa verità assio -artormatica primitiva è obbiettiva
in sommo grado,appunto per le sue veritacaratteristiche di universalità,
necessità ed iminutabilità. COSS me adal tile. // ne 84 ha ei nell'idioma
nazionale. Sicchè è a rallegrarci con lui dei buoni studi, dell'amore delle
nazionali dottrine dell'eccellenza del sistema che ha adottato nelle scienze
speculative, anteponendo (fra i due sistemi che veramente possono dirsi i più
perfetti, essendo ambo sin tesisti, cioè a dire razionalo-empirici od
empirico-razionali) l'ontologismo al psicologismo, e, fuggendo, quelloche è
più, gl’eccessi del razionalismo e dell'empirismo, e quei tali sistemi erronei,
idealismo e positivismo, pei quali delirano i filosofi, da cui camminando si di
questo passo, non ci possiamo attendere, se non un ar venire sventurato.
Prosegue J. i suoi studii filosofici, e ci offra lavori speculativi di maggior
lena, per poterlo vie meglio ammirarlo, e rallegrarcene con lui. Delle
dottrine filosofiche e civili di Gravina per Balsano, con saggio sulla vita e
sulle opere del Gravina per J. Cosenza, Mgliaccio. Gravina è considerato dai
più come poeta e letterato segnatamente pel suo trattato della Ragione
poetica,e come insigne giureconsulto, specie per lasua opera De ortu et progressu
juris civilis. Ma eglime rita,sotto un certo rispetto,d'essere altresi
considerato come filosofo e per le dottrine speculative che professava e per
quei sommi principii a cui s'informano i suoi SAGGI DI FILOSOFIA, dovendo le
scienze particolari e d'applicazione, quali sono appunto le discipline giuri
diche e pratiche.esser precedute ed illuminate da una scienza speculativa più
alta ed universale, cioè dalla Filosofia propriamente detta. A nostri giorni il
calabrese Balsano si pro pose di far meglio conoscere le dottrine filosofiche e
civili di Gravina, studiando accuratamente e con intelletto d'amore le opere
del suo grande concittadino. Ma Balsano, non che pubblicarlo, non potè compiere
il suo lavoro, perchè trafitto dal pugnale dell'assassino! J. ha raccolto la
sacra eredità del suo venerato maestro, dettando un'eru dita ed ampia
monografia sulla vita di Gravina, e pubbli candola insieme al lavoro inedito
del Balsano. In questa vita e troviamo uno specchio breve ma
fedele dei tempi di Gravina, specie riguardo agli studii; la pittura del carattere
morale del pensatore rogianese, un cenno de'suoi numerosi scritti e de'suoi
meriti letterarii. L'opera del Balsano, dettata in una forma quanto castigata
altrettanto elegante ed elevata, contiene una larga esposizione dei pensamenti
di Gravina diretti a coordinare tutte le sue meditazioni di filosofia
speculativa e di morale, di religione e di diritto, di estetica e
d'insegnamento, di politica edi civiltà. È divisa in due libri. Nel primo si
ragiona delle dottrine civili. Quanto alla filosofia, da Balsamo si cerca dimo
strare che Gravina, studioso della TRADIZIONE DELL’ANTICA FILOSOFIA ITALICA,si
attenne specialmente alla dottrine platoniche (come apparisce anche
dall'Orazione sua De instauratione studiorum), armoneggiandole col progresso
della civiltà cristiana, delle scienze particolari e massime del Diritto, egli
che aveva meditato le opere dei sommi giure consulti romani, e che aveva piena
la mente ed il petto della grandezza di ROMA antica. Le dottrine platoniche da
lui professate gli fecero innalzare la mente ai principii sommi del Diritto, a
meditare la riforma delle dottrine civili, ed a comprendere la sintesi
el'armonia delle parti principalidel sapere. Difatti, Gravina vedeva la scienza
umana come un'armonia e ricordava la piramide in cui egli dice espressamente
avere gli antichi savi simboleggiato la scienza umana e la natura delle cose:
il che significa che per lui l'ordine della scienza risponde a quello della
natura, l'idealità alla realità; e come il primo vero è l'idea divina nota da
principio all'intelletto creato, così il primo essere è Dio creatore della
scienza e della natura. Tutto l'ordine dei contingenti reali ha sua causa
efficiente nell'ASSOLUTO che licrea; tutto l'ordine delle cono scenze empiriche
ha sua origine nell'idea eterna, presente sempre all'intelletto umano e norma o
tipo a cui si riscon trano le cose finiteapprese per esperienza sensibile. E
sotto questo aspetto può dirsi che Gravina precorresse a Gioberti, che in cima
del sapere e dell'essere doveva porre Dio creatore. Adunque il contemporaneo di
VICO (si veda) non segui le dottrine del Locke, ma invece quelle più elevate di
Pla- [Disp.] tone e del Cartesio, quantunque non și mostrasse sempre giusto
verso il LIZIO. Ma se a Gravina non può negarsi un certo valore filosofico, i
suoi veri meriti risguardano, più che la FILOSOFIA ela Letteratura, la
Giurisprudenza. Preceduto da Gentile, da Bacone e da Grozio, Gravina non solo
ricercava l'origine del Diritto e ne indagava iprogressi (De ortu et progressu
juris civilis), ma sapeva altresi elevarsi alle idealità o ai principii supremi
del Diritto. Quindi è che a lui debbono molto la Storia del Diritto, specie, di
quello romano che insegna in Roma stessa, e la FILOSOFIA. Gravina, esaminando
l'origine e la natura del Diritto, non lo separava dalla Morale come oggi fanno
taluni, perchè nella legge morale,da cui scaturiscono tutti i doveri umani,
trova pure il suo primo e vero fon damento il diritto. Egli precorse al Savigny
da un lato, al VICO e Montesquieu dall'altro, interpretando con larghezza di
veduta la storia civile e giuridica di ROMA. Balsano si è proposto di ritarrre
ilGravina non solo qual eminente giureconsulto, sì ancora qual filosofo civile,
mostrando com'egli additasse le norme eterne d'ogni società umana (che
ammetteva come un portato della natura) nella vita privata e pubblica,
nell'ordine privato e politico. Ma ripetiamo, Balsano non potè compiere l'opera
sua; la quale del resto, merita di essere conosciuta e studiatadai cultori
della Filosofia, benchè ci sembri scritta con entusiasmo soverchio verso il
proprio concittadino risguardato come filosofo. DISCORSO Recitato nella sala
dell'Accademia Cosentina). Piansi,o Signori, nella mia pensosa solitudine, la
morte immatura del caro Fiorentino, che mi fu amico e fratello!; vengo ora a glorificarne
l'ingegno nel tempio della scienza, innanzi al simulacro del vecchio TELESIO,
al cospetto di dotti Accademici, di fervidi giovani, dieletti ingegni, di
distinti Professori, che meglio di m e, nato e cresciuto nelle montagne,
potrebbero valutarne i forti studi e la vasta intelli genza. Parlerò con
franchezza, senza adulazioni rettoriche, senza intemperanze di lodi; dinanzi ad
uomini gravi ed austeri le apoteosi e la rettorica sono un fuordopera. La
parola mendace è un insulto alle ceneri di Fiorentino, uomo sovero ed aperto,
che disdegnò il lenocinio e le bel lezze oratorie, sa dire con schiettezza di
calabrese la v e rità ad amici e nemici, e fu audace demolitore del vecchio
mondo; inesorabile agl'ipocriti ed ai ciarlatani. Nella rioca personalità del
Fiorentino grandeggia il filosofo ed il pensatore; lascio,per ora,ad altri di
me più competenti, esami nare il letterato, lo scrittore, ed il cittadino; io
vi parlerò soltanto dell'Autore di BRUNO;del Saggio Storico sulla Filosofia; di
POMPONAZZI e di TELESIO; quat tro titoli di gloria, che basteranno a rendere
immortale il nome di Francesco Fiorentino. [Vedi il saggio su Fiorentino da J.
pubblicato nell'Avanguardi, riprodotto dalla Gazzetta Calabrese e dal Calabro
in Catanzaro; dal Corriere del Mattino e dall'Ateneo, in Napoli. L'Italia,
o Signori, fu scossa nei principi del secolo, dopo la grande Rivoluzione
dell'ottantanove, dalla parola del nostro GALLUPPI, che il Gioberti chiama il
Nestore della sapienza italiana. Senza mistiche intemperanze, senza voli
metafisici, ei richiamò, nuovo Socrate, la mente degl’italiani ad indagare il
me e la coscienza; a scrutare profondamente ilsubbietto umano; e, rigettando
lequiddità scolastiche ed il sensismo di Condillac e di Tracy, contribui à
rinnovare presso di noi il metodo naturale, e fu salutare reazione
all'esorbitanze speculative del secolo decimottavo, Conscio dell’esigenza
storioa del secolo decimonono, Galluppi inizia presso di noi lo studio della
storia della filosofia; indovino, pur combattendola fieramente, l'importanza
speculativa della sintesi a priori, che in parte accetto; e, benchè avesse
trascurata la Rinascenza, Telesio, Bruno, Campanella, può dirsi, IL VERO
EDUCATORE DELLO SPIRITO FILOSOFICO IN ITALIA. La Calabria, terra delle grandi
iniziative e delle magnanime audacie, si elevò con Galluppi all'altezza del
pensiero moderno, e fu, sarei per dire, la squilla settimon tana di CAMPANELLA,
che risveglia in Italia il pensiero laicale ed umano, il pensiero puro ed
universale. FIORENTINO studia Galluppi, ne comprese l'indirizzo storico, o gli
piacque la nuova e socratica spe culazione, che un modesto filosofo inizia
nella estrema Calabria, sulle rive di quei mari, che ripetono ancor l'eco delle
armonie pitagoriche. Galluppi, con le sue serene e casalinghe meditazioni, non
bastava ad appagare il libero ed irrequieto ingegno di Fiorentino, aquila delle
montagne, che volea spezzare le pastoie del vecchio mondo e della speculazione
galluppiana. In mezzo a queste ansie intellettive sopravvenne Gioberti a
scuotere le menti dei meridionali con la magica parola; ed Fiorentino, assetato
di ideale e di patria, come tutti i forti ingegni di Calabria, accettò
anch'egli la mistica speculazione giobertiana, o è idealista platonico ed
ortodosso. E chi potea, pria del sessanta, resistere al fascino di Gioberti?
Chi rinnegare la p a tria, ch'egli glorificò nelle pagine immortali del
Primato? Guerrazzi chiama Gioberti scintilla piovuta dal Vesuvio sulla cima
delle Alpi: veramente ci è in lui l'audacia, la fiamma profetica, la
divinazione geniale del Mezzogiorno; ci è VICO e Campanella, AQUINO o Bruno; ci
è la fede dei credenti, lo spirito ribelle dei tempi nuovi, l'ome rica fantasia
di Platone, l'austero sillogismo di Aristotile. Nei dolori dell'esilio, egli
scrive la Teorica del Sopranna turale, ch'è l'apoteosi della vecchia ortodossia
; riassunge nella Introduzione tutto il passato teologico e tradizionale,
rinnovò il realismo del Medio-Evo, sposandolo al pensiero moderno; risuscitò
nel Primato, con l'entusiasmo del pro feta, i titoli della nostra grandezza, e
lanciandosi col volo dell'Aquila alpigiana nel grembo dell'essere, credette di
averne interrogate le profondità, ringiovanito il vecchio Dio della Scolastica,
e sciolti tutti i problemi con la formola ideale e con l'ente creatore.
Gioberti non arrestossi a metà; e, ringagliardito da nuovi studî, ingegno
audace e progressivo, com'era, accettò gran parte della speculazione moder na,
e, spastoiandosi dal vecchio teologismo, dalle utopie del Primato, inaugura la
nuova Italia col Rinnovamento; la nuova Scienza con la Protologia, e la nuova chiesa
con la riforma cattolica, e con la filosofia della rivelazione; sebbene non
interamente emancipato dalla vecchia ortodos sia. Ai tempi che Gioberti pubblica
il Rinnovamento, ed Massari le Opere postume del suo grande amico, le Calabrie
erano chiuse dalla muraglia cinese, ed ilnuovo pen siero laicale di Gioberti
non potè penetrare nei nostri boschi. È ancora innamorato del misticismo e
della formola ideale; gl’eroi della Rinascenza non sono ancora conosciuti tra
noi; o SPAVENTA, esule a Torino, dove pubblica i suoi stupendi Saggi Critici su
Bruno e Campanella, e quasi ignorato in Calabria. Fiorentino, non bisogna
nasconderlo, avea subito an. Scrisse allora a Napoli Bruno, un Saggio, come
schiettamente confessa l'Autore; composto in tutta fretta nelle vacanze, e
disteso in soli ventotto giorni. Quel Saggio, benchè imperfetto, segna il primo
momento della critica evoluzione del nostro in filosofia, il passaggio, cioè,
dal dommatismo giobertiano alla speculazione libera e laicale dei tempi
moderni. Nello studio del passato Fiorentino trova la spiegazione dei
posteriori sistemi; e, poichè non poteva valutare le teoriche di Bruno, senza
risalire alle origini, guarda la dialettica nelle scuole di CROTONE e VELIA, e
ne rilevò con sa gace giudizio l'importanza speculativa nel gran dramma del
greco pensiero. Si occupa, egli il primo, presso di noi, della stupenda
Dialettica del cardinale di Cusa, e ne indaga i le gami col sistema del Nolano,
dove causa e principio sono una medesima cosa, e la esteriorità della causa e
la inte 1 Leggeva i SS. Padri in una cella di monaci: ne trascrisse molto; e ne
pubblica alcuni saggi a Messina, voltandole in italiano. Cusani; Aiello; Re;
Salvetti; Gatti; Spaventa e Spaventa; Imbriani; Meis; Tari; Savarese; Perez;
Mancini; Sanctis; Marselli; Trinchera; Turchiarulo; Zio; Quercia ed
altri. pensiero germanico, diffuso nel mezzogiorno dai più forti ingegni
del Napolitano; indovina la grandezza speculativa della Rinascenza, e si sentì
attratto dall'eroica figura del Nolano ch'egli l'influsso dei Santi Padri, e,
principalmente, come dicemmo, del filosofo torinese, che da lui studiato profon
damente in gioventù, non fu dimenticato nella età matura, in mezzo ai più
splendidi trionfi del suo ingegno. Venne però il sessanta, con le sue titaniche
audacie, e con le sue immortali demolizioni a svegliare Fiorentino dalla sua
fede dommatica e dal suo sonno ortodosso; e, benchè non ancora emancipato da Gioberti,
si volse a studiare il riorità del principio si ricongiungono nell'Uno, ch'è
insie me causa e principio. L’uno nel sistema del Nolano, è totalità assoluta;
vale a dire che come principio della forma zione dello cose è minimo,come
totalità perfetta ó massimo; come identità del principio e della fine piglia il
nome di uno, ove tutto si assorbe, come in vasto ricettacolo; ove il pensiero e
la realtà si confonde in una identità suprema. In ciò consiste il panteismo di
Bruno, che Fiorentino rigetta, soggiogato da Gioberti, confutando l'eccletismo
poco omogeneo, gli ondeggiamenti e le contraddizioni del Nolano, che fonde
insieme la Causa dei Pitagorici, l'Uno di VELIA, ed il Principio
degl’alessandrini. E pure, ad onta delle prevenzioni ortodosse e giobertiane,
Fiorentino non disconosce le novità laicali, di cui è ricco il sistema del
Bruno; la maggioranza del pensiero, la menta lità, che splende come intelletto
divino, mondano, partico lare,ed ilconcetto direlazione, ch'è tanta parte della
Protologia del Gioberti, e costituisce il verace assoluto; l'assoluto, cioè,
della moderna speculazione. Dallo oscillare di Bruno tra la Scolastica e la
Rinascenza deriva che il finito ora è una vana parvenza, ora la massima realtà;
ed il Nolano ondeggia tra Eraclito e Parmenide di VELIA, tra il flusso c o n
tinuo e la rigida immobilità. Fiorentino mette Bruno in relazione con Spinoza e
Schelling, ne nota col solito acume le differenze e le somiglianze, o conclude che
i tre filosofi si rassomigliano nella prospettiva generale del sistema, hanno
il medesimo intendimento di unificare la scienza e d'immedesimarla col mondo;
cercano fuori del pensiero il centro della loro unità, e costituiscono quella
serie di Panteisti, che si dicono obbiettivi; l'Uno, la Sostanza, l'Assoluto
sono tre creazioni parallele. Fiorentino analizza del pari la dialettica di
Hegel e di Gioberti, monumenti immortali della moderna speculazione, e nota che
in Hegel e Gioberti contrastano due tradizioni, due filosofie, e due nazioni;
la filosofia della creazione e la filosofia della identità, il
cattolicismo ed il razionalismo, l’Italia, patria d’AQUINO o d’ALIGHIERI, e la
Germania, patria di Lutero e di Göthe. Fiorentino, senza sconoscere la
importanza della filosofia tedesca, glorifica la vecchia formola giobertiana,
il cattolicismo e la rivelazione; rigetta quasi il pensiero moderno, desidera
il rinnovamento della antica filosofia italiana, e, collocando sugl ialtari il Gioberti
della Teorica e della Introduzione, chiude il Saggio con queste parole. Sogna
che il nome di GIOBERTI suonerebbe terribile sui campi di battaglia, e
venerando tra le arcale della Università. Quel mio sogno giovanile si è
avverato in gran parte e la indipendenza e l'unità della « mia
patria,propugnata da quel grande statista, è presso a compiersi; mi sarebbe ora
assai dolce il vedere una « scuola ed un'accademia iniziarsi, diffondersi,
giganteggiare in quel nome si caro ad ogni italiano, con quella « formola,che
assomma la scienza e la fede dei nostri padri. Da esse soltanto noi potremo
sperare, compagni di quelli che combatterono a Curtatone, e cacciarono
gli’austriaci da Varese e da Como. Bruno porta Fiorentino ad uno studio più
accurato della greca filosofia, di cui è anche specchio e ri produzione, in buona
parte, la Rinascenza italiana, della quale il Nolano è l'eroe ed il martire.
Professore straordinario di Storia di filosofia a BOLOGNA, Fiorentino si da a
studiare alacremente e con tenacità di calabrese Aristotile e Platone. Si fatti
studii, come racconta egli stesso, gli apreno nuovi orizzonti, gli allargano la
vista intellettiva, o gli fanno scorgere il difetto fondamentale della
filosofia giobertiana. Fiorentino si allontano da Gioberti, non col cuore, si bene
con la mente, ch: i forti amori non possono dimenticarsi. Rude e franco
calabrese, intelletto austero, Fiorentino si emancipa dalla scuola filosofica
ortodossa, quando si convince che il mito e la leggenda prevalevano sulla pura
speculazione, sul pensiero libero o laicale. La critica, che Aristotile fa di
Platone, a cui GIOBERTI si rassomiglia, fece schivo il Nostro dal mescolare
immagini ad idee, e lo inimicò con le metafore filosofiche la severa, m a
ineluttabile critica di Aristotile; non i tedeschi lo convertirono alla nuova
filosofia, degna dei tempi moderni, si bene il rigido, inesorabile Aristotile
Fiorentino scese, CALABRO ATLETA, nella arena della greca filosofia, e ardente è
trasportato lungo le sponde dell' Ilisso, tra gl’alberi fragranti, che ne
ombreggiano il margine; sotto il bel cielo d’Omero, tra le dispute di Socrate,
i simposî platonici, e le austere meditazioni dell'Accademia. Sa egli fondere
ed accordare insieme l'idea greca all'idea calabra, rappresentata nei tempi
antichi da Pitagora, e tutte e due al nuovo pensiero laicale del Rinascimento,
rappresentato presso di noi da Telesio e Campanella. Ringiovani così il
pensiero, irrigidito nelle ferree strette della Scolastica e di Gioberti; e
farfalla, ch'esce a poco a poco dal suo involucro; montanaro calabrese, che si
trasfigura man mano sotto il soffio dei nuovi tempi, si sentì umano ed
universale nei Dialoghi di Platone e nella Metafisica di Aristotile. La Grecia è
infatti la terra dove sboccia il fiore dell'Arte, e germoglia il seme
dell'umana ragione; è la patria del pensioro speculativo, della Dialettica, e
della Categoria, a cui metton capo ipiù vasti sistemi dell'antica e della moderna
filosofia. Fu lapatria di Platone, che per genialità e divinazione speculativa,
per universalità di pensa menti, per movimento drammatico, per colorito
artistico e finezza di dialogo, grandeggia su tutti i filosofi; egli fonde in
sè l'eloquio facile e maraviglioso d’Omero e l'attica bellezza di Sofocle. La
vecchia Grecia s'idealizza e si trasfigura nel gran discepolo di Socrate; la
speculazione diviene arte e dramma, ed il pensiero, chiuso nei c ancelli di
Talete e di Eraclito, abbraccia ilmondo, si fa universale ed umano, an- [Vedi
Filosofia Contemporanea in Italia, Napoli] ticipa il Cristianesimo e preludia
all'età moderna. Egli fonde, come disse bene FERRAI FERRARI (si veda), in una
grande unità isofisti e i politici, gli artefici e i guerrieri; uomini, donne,
vecchi, fanciulli, schiavi e liberi, e in questo mondo in azione ti si fa duca
e maestro, innalzandoti, migliorandoti, affinando le tue facoltà, spesso
spirandoti nell'anima un sacro entusiasmo per il buono, per il vero;
quell'entusiasmo, aggiungo io, che crea i grandi fatti della storia, e quei
capolavori del l'arte, che si chiamano Convito ed il Fedro, ove si specchia
tutto il sorriso dell'Ionio mare, l'apollinea bellezza dei Greci, il fascino di
Diotima e di Aspasia; la morbida poesia dell'Attica e l'arguta ironia di
Socrate ; divina bellezza, m u . sica arcana, che rende unica la Grecia tra le
nazioni più civili e più artistiche del mondo. Non volendo abusare della vostra
bontà io m i restringo per ora a Platone; che ci porterebbe assai lungi il
voler discorrere completamente del Saggio Storico sulla filosofia Greca ;
discutere ed esaminare Aristotele e quanto altro riguarda le Categorie ed i
problemi della filosofia moderna, di cui si occupa il nostro nel suo stupendo
lavoro. Fiorentino scrutò con animo libero e spassionato la vec chia
speculazione ellenica; la Grecia anteriore a Socrate,ove campeggiano le
grandiose figure di Talete, di Senofane, di Eraclito, di Parmenide,
d’Anassagora; o dove si elabora a poco a poco l'idea platonica e la categoria
aristotelica. È un quadro ricco di pensiero, ed anche di poesia,che con vivi
colori ci tratteggia Fiorentino con quella sua ge nialità, con quella lucida
esposizione, che tanta grazia a g giunge ai suoi lavori speculativi;
incantevole lucidezza, che ritrae i limpidi Soli diffusi sui patrî vigneti e
sulle marine di Cotrone CROTONE. Il Saggio Storico sulla filosofia sarà sempre,
secondo il nostro debole parere, l'opera più bella, più geniale del Fiorentino;
ci è il profumo e l'entusiasmo, ci è la vita artistica, anche in mezzo alle
severe meditazioni del pensatore; quella vita, che solo può dare la
Giorn.Napoli] gioventù, nella sua più rigogliosa fioritura ed espansione. Ciò
nonostante, spassionati estimatori dell'ingegno del nostro amico, riconosciamo
in quel saggio lacune ed imperfezioni, che l'autore medesimo, uomo schietto e
leale,vi riconobbe, ricco di nuovi studi sulla lingua, sulla filosofia, sulla
letteratura greca; dotto nel tedesco e conoscitore profondo dei moderni lavori
alemanni su Platone ed Aristotile. Intanto facciamo notare che il cardine
fondamentale della critica di Fiorentino sono le idee platoniche e le categorie
aristoteliche, che sono e saranno sempre le colonne e le pietre granitiche
dell'umano pensiero. La critica platonica (come nota Chiappelli nel dottissimo
studio sulla interpetrazione panteistica della dottrina platonica) si è a
giorni nostri ri fatta da capo; e la quistione si aggira sui fondamenti di
tutto il platonismo, valeadire, sul genuino valore della dottrina delle idee,
che forma il centro del sistema dell’ACCADEMIA. Dalla interpetrazione di
codesta dottrina dipende quella di tutto il resto del sistema; è il
presupposto, da cui, come tanti corollarii, scendono tutte le altre parti di
questo monumento immortale del genio greco, che scosso dalla potente critica dal
LIZIO d’Aristotile, travisato dal Neo-platonismo, rivive anche oggi, dopo le
vicende di tanti secoli. Varie e con traddittorie in ogni tempo sono le
interpetrazioni delle idee platoniche. Sono scambiate, ora con gl’ideali
estetici, che vagheggia l'artista, ora ritenuti come generi logici e concetti
intellettivi, ed ora come gl’eterni paradimmi del divino artefice, modelli
esemplari delle cose, e quindi esistenti per sė; la quale interpetrazione, che
si trova diffusa tra i neo-platonici, tra i padri della chiesa, ed in tutto il medio-evo,
anche oggi è sostenuta da valorosi critici. È certo poi che le idee in Platone
sono trascendenti, immobili e separate dalla materia, e che carattere
principale del Platonismo è la irreconciliabilità tra l'idea e la materia, tra
l'intelligibile ed il sensibile: Le più ingegnose interpetrazioni dei critici moderni,
e massime di Teicmuller, che fa dell’ACCADEMIA un Panteista, non han potuto
colmare l'abisso, che nel greco filosofo separa l'idea dal cosmo, l'elemento
intelligibile dall'elemento materiale. Relegate, come sono, le idee in un mondo
inaccessibile, non possono esercitare nessuna influenza, nè sul l'essere, nè
sul divenire delle cose sensibili, nė spiegare il formarsi delle cose medesime.
Anche la relazione delle idee col divino, osserva Fiorentino, rimane indefinita.
Le idee non hanno causalità, perciò la causa efficiente deve trovarsi accanto a
loro, o concorrere con loro alla formazione dei mondo. L’ACCADEMIA non tenta
neppure di conciliare il divino con le idee; perciò accanto alla speculazione
tu trovi ancora il mito, non come semplice ornamento, ma come elemento
integrale del sistema. Solo è certo che l'altissima idea è per Platone quella
del bene; la quale ora s'immedesima con la ragione divina, ora è quella, a cui
guardando il demiurgo dà forma al mondo; se non che non si può risolutamente
affermare che il bene s’immedesimi col divino, ch'è un dato della tradizione
piuttosto che della filosofia, ed in Piatone non essendo chiara quella
immedesimazione, non riesce perfetto il collegamento tra le idee e la mente
divina, ed il sistema delle idee riesce poco coerente, e sempre ondeggiante ed
incerto. Fiorentino nel Saggio storico rigetta la interpetrazione delle idee
dell’ACCADEMIA come riminiscenze di una vita anteriore, come modelli e
paradimmi del mondo, come pensieri divini; e ritenne che Platone non è sempre
lo stesso ne'suoi dialoghi; filosofo da poeta, senti bisogno di spiegare la
scienza, e ricorre alle idee; negli ultimi anni adotta il linguaggio pitagorico
a proposito delle idee, e le considera come numeri. La dottrina delle idee
platoniche, trattata davvero scientificamente, consiste per Fiorentino nei
Dialoghi il Teeteto, il Sofista, ed il Parmenide. Il Sofista prepara il
Parmenide, a cui dà il fondamento ed il principio; ed il Parmenide sostituisce
alla me- [Manuale di Storia della Filosofia, Napoli] tessi ed ai simulacri la
relazione, ch'è la vera natura e la vera condizione di tutte le idee; è la loro
vita e fecondità. Fiorentino, austero intelletto e libero pensatore, prefere
alla lirica del Fedro e del SIMPOSIO, alla epica narrazione del Timeo ildramma
ideale del Parmenide. Fiorentino scruta profondamente i tre dialoghi platonici,
o ne rileva il vero significato. La scienza, egli dice, non è sola sensazione e
sola opinione, come vogliono i Jonici, ed ecco il significato del Teeteto; la
scienza non è la sola cognizione dell'uno, come pretende Parmenide di VELIA, e
ne anco dell'essenze immobili ed irrelative dei megarici; ed ecco il significato
del Sofista. La scienza è l'una e l'altra opinione e cognizione, relazione di
entrambe; ed ecco il risultato ultimo del Parmenide da VELIA; tanto vero che, senza la relatività
delle idee, il Parmenide da VELIA rimarra sempre un enimma, il sistema di
Platone un leggiadro tessuto di favole, di reminiscenze oltre-mondane ed
assurde, e di sperticate idealità. Scrutando meglio il Sofista ed il Parmenide
di VELIA, Fiorentino asserisce che il principio da cni muove Platone nel
Sofista, ossia l'ente, e quello da cui muove nel Parmenide, ossia l'uno,
sonolostesso principio; se non che l'ento è rigido, immobile, indeterminato, e
l'Uno è determinato, e produce i molti. L'uno è il medesimo e dil diverso del
Molti; come viceversa il molti si può dire medesimo ed altro dell'uno; tanto
che, a parere del Fiorentino, abbiamo nel Parmenide esplicito il diverso e
l'altro; sebbene rimanga in Platone nell'ombra la causa della estrinsecazione
della idea, e l'apparire della materia. Platone non colse la vera natura
dell'altro, che non può essere nè un'essenza, nė un'idea; sì bene una relazione;
egli perciò oscilla dall'uno all'altro di questi due termini, per trovarvi la
materia, ed, irresoluto, la fè credere una volta essenza, ed un'altra idea.
Pare che in tutte queste sottili ed ingegnose interpetrazioni di Fiorentino
entrasse un po il sistema e la critica moderna dell’Hegel, sempre caro al nostro,
come quegli che è la sintesi più stupenda del pensiero laicale tedesco, da
Lutero a Kant. TOCCO (si veda), di cui tanto si onorano le Calabrie, nelle
sue dotte Ricerche Platoniche, esplicitamente osserva che Fiorentino interpetra
il Parmenide di Platone alla maniera di Hegel, e che, ad onta delle argute
considerazioni sulle stonature della Dialettica platonica, non tenne in conto
il fare negativo di tutto il dialogo. Il trapasso, dalla teorica della metessi
e degl’influssi a quello della dialettica assoluta, è un salto così smisurato,
che difficilmente puo farsi da un uomo, per vastissimo ingegno ch'egli ha, sopra
tutto nel tempo, in cui la speculazione è ancora sul nascere, ed i sistemi filosofici
sono appena abbozzati. E ingiusto per ciò, conchiude Tocco, il raccostamento
della dialettica platonica all’egheliana, e non bisogna interpetrare con Hegel
Platone, e trasportare il mondo antico nel mondo moderno! Alla origine e natura
delle idee è intimamente legata la DIALETTICA dell’accademia. Essa non è altro,
se non che la legge dell'intreccio ideale, il modo come si forma il Logo, o la
Ragione universale ed assoluta. Il ritmo della dialettica vera dell’ACCADEMIA,
secondo la interpetrazione di Fiorentino, è nel Parmenide; il contenuto del
quale si risolve in una trilogia, di cui la prima parte presenta la idea
solitaria dell'uno, e l'annulla. La medesima idea appaiata con quella del
l'essere, e con essa in contraddizione; la risolve la con traddizione nel
momento, ch'è il diventare; momento e divenire, che sono mutuati dalla
dialettica hegeliana, e rendono infide e soverchiamente moderne le
interpetrazioni di Fiorentino. Egli è convinto, quando scrive il saggio
storico, che la dialettica hegeliana è modellata sulla platonica, e che le
prime tre categorie del filosofo alemanno, l'essere, il non essere, ed il divenire
ricordano l'uno, l'ente, ed il momento del Parmenide da VELIA. La Dialettica
platonica, monumento grandioso dell'umano pensiero, ispira in ogni tempo gl’Artisti
ed i Filosofi; e Fiorentino conchiude che Goethe v'im [Catanzaro. Lo
studio della filosofia greca fa rientrare Fiorentino nel mondo moderno, ch'egli
avea sfiorato col lavoro di Bruno; il greco pensiero, che più degli altri è pensiero
umano ed universale, ricondusse il nostro alla Rinascenza, la quale, se inizia
l'epoca moderna con le ribellioni speculative di Bruno, di Telesio e di Pomponazzi,
usufrutta con TELESIO e con BRUNO la parte viva ed immortale della greca filosofia,
il concetto della natura, autonoma od assoluta, e l'idea dell'infinito
generante. FIORENTINO, ingegno fecondo e progressivo, accetta i pronunziati, gl’ardimenti,
o, le ribellioni della rinascenza. Nelle fresche correnti della natura ei sente
ringiovanirsi, ed il suo pensiero divenne più ampio ed umano. L'epoca della rinascenza
è, o Signori, un'epoca gloriosa, battagliera, o titanica. La scolastica è
assottigliata. La cavalleria ed il feudalismo se ne vanno. La teocrazia perde
il suo prestigio, e la sua universalità. La poesia si emancipa dai terrori
mistici. Alle fosche pitture succedono i freschi colori del Tiziano e del
Correggio. Nasce lo stato laicale, e Machiavelli crea la storia moderna. I
filosofi rappresentarono in questo gran dramma una parte gloriosa, e
specialmente il mantovano POMPONAZZI, che per audacia speculativa, per energia
di carattere è uno degli eroi più spiccati del rinascimento italiano.
FIORENTINO, che come fiero calabrese e libero pensatore, è naturalmente
attratto verso i grandi precursori ed apostoli, si mette a studiarlo con
coscienza di filosofo e pazienza di critico; sgobba sui polverosi volumi in
folio, si chiuse come un anacoreta nella sua cella di BOLOGNA; ed affronta con
leonino coraggio l'intolleranza e lo scherno degl'insipienti, le beffe dei
gaudenti, che senza forti stupara la movenza del Dialogo; Hegel il severo ragionamento;
VICO vi attinse lo schema della Scienza Nuova; SERBATI il principio del nuovo saggio;
ed a quell'opera immortale bisogna ricorrere ogni volta, che si vorranno
scandagliare davvero le origini dell'umano pensiero senza accurato lavoro
vogliono, con la veduta corta di una spanna, giudicare gl’uomini serî ed
austeri, gl’uomini che sacrificano tutto sull'ara del pensiero e della scienza
; indomiti o tetragoni nei loro propositi ; Capanei, che muoiono e non si
arrendono. POMPONAZZI insorse fieramente contro la scolastica, e contro la
greca filosofia; e nello spiegare la natura dell'anima, ed il processo del
conoscere non ha esitato punto, nè riprodotte, come altri fecero, le incertezze
del LIZIO. Sgombrate tali perplessità, il filosofo mantovano si libera
dall'intelletto separato di Averroè, dell'intelletto agente dello Afrodisio,
senza però emanciparsi del tutto dagl’influssi e dalle intelligenze superiori;
ondeggiante ancora, come tutti gl’uomini della rinascenza, tra la scolastica ed
il mondo moderno; tra AQUINO (si veda) e BRUNO (si veda). Strema, è vero,
POMPONAZZI (si veda) la trascendenza in filosofia; considera l'intelletto umano
come sviluppato dalla potenza della materia. Ma non volle attribuire
all'intelletto dell'uomo la concezione dell'universale; e disconobbe la vera
mediazione, che l'uomo fa tra le cose eterne e caduche. Egli scruta insistente
i più ardui problemi metafisici, religiosi e morali, la provvidenza, il fato,
la libertà, la predestinazione e la grazia; e porta in tutte queste discussioni
la novità e l'audacia, proprie dei filosofi del rinascimento; piega più dalla
parte della determinazione fatale del PORTICO ROMANO che da quella della vuota
determinabilità dell’Afrodisio; che l'arbitrio non può essere primo movente; e
l'aver compreso il difetto della dottrina della libertà, come è in Alessandro
ed in LIZIO; l'aver intravveduto nel fato del PORTICO ROMANO maggior ragione
volezza costituisce uno dei massimi pregi della critica di POMPONAZZI (si veda)
Disconosce inoltre il valore assoluto delle Religioni; ne spiega con ragioni
naturali l'origine, il fiorire, la decadenza; le riconosce portato dello
spirito, eterno ed irrequieto viaggiatore, che tutto rinnova e distrugge. Con
questa divinazione Pomponazzi è anche precursore dei nuovi tempi, e della
scuola moderna; se non che mancogli la perfetta coerenza nelle dottrine, e non
si solleva al concetto profondo dello spirito, come lo intendono i moderni.
L'ingegno di POMPONAZZI (si veda), benchè novatore e ribelle, non si era
completamente spastoiato dal vecchio mondo scolastico ed del LIZIO aristotelico;
ei non puo ai suoi tempi cancellare del tutto il divino di Agostino e d’AOSTA
(si veda); non puo scartare intieramente la provvidenza oltre-mondana, non puo
combattere a viso aperto le tradizioni della fede ortodossa. Ei però intravvede
che al divino estra-mondano, collocato fuori la coscienza, dovea fra poco
succedere il divino intimo e vivente; che la vecchia forma religiosa dovea
ringiovanirsi e al motore immobile di LIZIO dovea succedere l'infinito di BRUNO
(si veda). È questo il merito precipuo di POMPONAZZI (si veda), che a buon
dritto deve chiamarsi il precursore della riforma e del mondo laicale moderno;
e l'averlo saputo rilevare con sagacia di critico coscienza di storico è gloria
di FIORENTINO (si veda). Ciò segna un altro momento importante nella evoluzione
critica e speculativa del nostro; la quale ha il suo compimento ed il suo
massimo splendore in Telesio, e negli studii sulla idea della natura nel
risorgimento italiano. TELESIO (si veda) infatti costituisce l'ultimo e più
splendido momento speculativo e storico di FIORENTINO (si veda), il quale
rappresenta perciò in Calabria il più alto grado, la più alta manifestazione
della critica storica, ed il completo svegliarsi presso di noi della coscienza
laicale ed umana; rappresenta la continuazione della rinascenza, ingrandita,
però, trasformata e divenuta pensiero europeo ed universale coi Saggi critici
di SPAVENTA (si veda). È primo SPAVENTA (si veda) in Italia a dare la debita
importanza a BRUNO (si veda) ed a CAMPANELLA (si veda), ed a tutta la filosofia
del rinascimento, rivendicando gl’eroi della nostra filosofia, ed i martiri
obbliati della ragione. L’Italia, dice Spaventa, apre le porte della civiltà
moderna con una falange d’eroi della filosofia. Pomponazzi, Telesio, Bruno,
VANINI, Campanella, CESALPINO (si veda) paiono figli di più nazioni. Essi
preludiano più o meno a tutti gl'indirizzi posteriori, che costituiscono il
periodo della filosofia da Cartesio a Kant. VICO (si veda) è il vero precursore
di tutta l'Alemagna -- Prolusione alle Lez.di fil. nap. Le austere parole e i
forti ragionamenti del filosofo abruzzese eccitarono il potente ingegno di
FIORENTINO, e come il nostro schiettamente confessa, lo fa orientare in quell'
arruffio, ch'è la speculazione della rinascenza, e lo innamorarono di quel
periodo filosofico, che prima si contenta di ammirare, senza averne perfetta e
matura cono scenza, piuttosto, perseguire i facili lodatori che per vederne
realmente l'importanza coi proprii occhi. Educato dalla critica nuova e
poderosa di Spaventa, Fiorentino percorso da padrone e da maestro il campo
glorioso della rinascenza italiana, e v'impresse orme da gigante. Gli uomini
nuovi od audaci; i martiri dell'idea piacquero tanto a Fiorentino, ed ei s'immedesimò
loro, aspirandone l'immortale profumo, ed il soffio. La Calabria, che, senza
conoscersi, spesso si vilipende e si schernisce, non è per lui barbara c
selvaggia, covo di briganti, e nido di cannibali; è invece terra di filosofi,
di critici, di poeti; culla di martiri e di eroi, terra artistica ed originale,
a cui, ultimo tra gl’ingegni calabresi, consacrai tutto me stesso, e per la
quale non cessa di combattere, finché avrò forze, finchè in Italia vi saranno
uomini senza coscienza storica e senza carità di patria. La Calabria (e
perdonate questo amore indomabile alla mia patria nativa, alle mie care
montagne) sa anch'essa indovinare e comprendere i tempi nuovi, uscire dal fondo
de'suoi burroni, e mettersi a paro coi più grandi eroi della Rinascenza italiana.
La Calabria sa anch'essa combattere con la sua selvaggia vigoria lo impero, la
scuola, ed il potere teocratico. Il calabro pensiero, che ancora si accusa di
angustia e municipalità, è, com’io dimostrai, un pensie ro, non solo nuovo ed
originale, ma eziandio italiano, europeo ed umano. Universale in
filosofia, inizid con Telesio lo studio dellanatura, sconosciuta ai padri
nostri, velata per tanto tempo dalle ombre del Medio-Evo; nel tetro carcere
della Vicaria crea col SERRA la scienza economica; con GALEAZZO usci dal cerchio
della poesia provinciale, e fuse nel calabro Sonetto la vigoria d’ALIGHIERI e
la musica di Petrarca; pre corse con Campanella a Descartes; e con GRAVINA
anticipa Vico e Montesquieu, o crea la nuova critica italiana. Fiorentino, che,
com'egli stesso canto, avea Saldo il voler ne le virili imprese, E indomita la
tempra calabrese, innamorato della vecchia Calabria, fa rivivere con magiche
tinte le belle ed eroiche figure dei padri nostri, PARRASIO, Telesio, il
Martirano, il Quattromani, il Tarsia, Cornelio, Severino, Schettini ecc.;
filologi, poeti e critici precursori, che usciti dal fondo dei nostri boschi
illustrarono le prime università, e danno un potente i m pulso al rinascimento
italiano, col fondare e promuovere quella stupenda accademia dei cosentini,
segno in tutti i tempi di odio inestinguibile e di amore indomato, la quale è
tanta parte del dramma grandioso della rinascenza; da all'Italia grandi
latinisti da emulare Poliziano, Sannazaro, Fracastoro, e sorpassarne altri con
Coriolano Martirano; porta scolpito il fatidico motto: Donec totum impleat
orbem; decrescit numquam, nec fulmine læditur; e servi di modello a tutta
Europa con Telesio per la scoverta del vero metodo naturale. Sotto questo
doppio aspetto la vide l'occhio sagace di Fiorentino, e stupendamente la
illustra, sollevandola a quel posto, che merita, e meriterà sempre, finchè le
tradizioni del pensiero laicale ed umano rimarranno vive in Calabria, e ne
trasformeranno la vita, l'arte, e la speculazione; finchè vi saranno uomini insigni
come il Presidente Scaglione,ed il Segretario Greco, che ne accresceranno le
glorie e l'importanza, continuando l'esempio dei loro illustri a n tenati, che
noi, gaudenti e borghesi, abbiamo dimenticati, sconosciuti, e fino scherniti.
Fiorentino, che il dotto canonico Scaglione avea precorso con lo studio su
Telesio, pubblicato negli atti dell'Accademia, studiando a fondo, al lume della
nuova critica, le opere del filosofo cosentino, proclama che Telesio inaugura i
tempi moderni, ritiene la natura, come il principio universale delle cose, il
ricettacolo di tutte le forme, e, come schietto naturalista, rigetta il LIZIO
d’Aristotile e la Scolastica, la Teosofia, e la Magia. Telesio, evitando la
contraddizione del Lizio aristotelica, che rompe l'unità della natura, parte da
una materia primitiva ed unica, e da una contrarietà universalissima, il caldo
ed il freddo, nature agenti, dalla cui azione sulla materia nasce la
generazione e la corruzione. Telesio, pur ritenendo la necessità di
un'opposizione universale e di un'unica materia, il che è anche ammesso dal
LIZIO d’Aristotile, ne ha profondamente modificato il valore. La forma del
LIZIO aristotelica, ch'èsempre assoluta ed estra-naturale, non gli parve
principio naturale, e la sbandì, e la rigetta dalla sua filosofia, con la rude
franchezza del calabrese. In una parola, la natura non ha mestieri per essere
spiegata di principi, che non siano naturali. E così è vinto e sor passato il medio-evo,
e la filosofia delle scuole. Il soffio fresco delle nostre montagne spazza lo
nebbie scolastiche, e Telesio, meditando gl’arcani della natura nel suo ameno
podere, sito sulle rive pittoresche del fiume Coraci, è veramente il precursore
di Bruno e di Galilei, l'uomo nuovo ed audace, che scrolla il vecchio mondo
medievale, ed inaugura l'epoca moderna. Telesio, rigettando l'entelechia del
LIZIO aristotelica, vi sostitui una sostanza sottile, mobile, lucida, che per
lui costituisce il principio della vita; semplifica inoltre il sistema del
naturalismo, tolge il dissidio immenso, che è nel medio-evo tra la natura
esterna e l'organismo vitale, e fuse insieme nel suo novello sistema la fisica
e la biologia. Fiero ed inesorabilo calabrsse, rovescio tutto, non diè
quartiere al LIZIO d’Aristotile ed alla scolastica, o combattė senza ipocrisia,
ed a fronte scoverta; da una nuova teorica dell'anima, sorpassando il
Fedone dell’Accademia, e l'intelletto universale del Lizio d’Aristotile; FONDA
SUL SENSO LA CONOSCENZA, ed ammise il mondo etico come un effetto e risultato
naturale. Nel vasto dramma telesiano, che Fiorentino stupendamente tratteggia,
brilla di nuova luce il martire di Nola, il quale, ebbro del nuovo divino,
dell'Infinito generante, e della Natura, allarga e feconda i concetti del filosofo
cosentino, ed accetta pienamente il naturalismo. Il vero assoluto rimane però
in lui un punto oscuro, dove i contrarii si affondano e spariscono; il nolano,
più che cogliere con l'atto intellettivo l'assoluto, vuole trasformarsi in lui,
e divenire il divino. E l’eroico furore, che lo trasporta in grembo dell'infinito,
non il sillogismo speculativo, e la serena meditazione; l'ebbrezza dell'amante,
che lo trasfigura in grembo alla divina Anfitrite. Bruno, uomo del Mezzogiorno,
nato presso il Vesuvio, ha scosso in ogni tempo la mente dei pensatori, ed il
cuore dei poeti. Eroe leggendario del pensiere, cavaliere errante della
scienza, mistico o ribelle, inesorabile flagellatore dei cucullati pedanti,
egli che veste la bianca tunica di Domenico, Bruno percorse, si può dire, da un
capo all'altro l'Europa disputando, combattendo, affrontando il vecchio LIZIO
d’Aristotile, la ciarlataneria delle scuole, e l'infallibilità dei dottori.
Vilipeso e adorato, schernito glorificato, ora debole innanzi a'suoi carnefici,
ed ora sublime; il tutore tradito a Venezia da Mocenigo, suo pupilo discepolo
ed ospite, è consegnato al Sant'Uffizio, dissacrato e condannato a morte.
Quando in Roma gli è letta la sentenza, Bruno, con calma eroica e tremenda
ironia, ha il coraggio di profferire innanzi ai giudici queste memorande parole.
Maggior timore provate voi nel pronunciar la sentenza contro di me, che non io
nel riceverla. L’eroe della verità, e del pensiero laico è legato come un
volgare malfattore ad un'antenna, e, bruciato vivo in Campo di Fiore, imperterrito
Bruno non manda nè un sospiro, nè un lamento. Le fiamme sono la sua
apoteosi; e benchè le sue ceneri fossero state disperse al vento, correno
l'Europa come polline fecondatore, e vi propagarono i semi del libero pensiero,
e della filosofia moderna. Fiorentino, pensatore e poeta, che dopo più maturi
studî avea accettata in tutta la sua pienezza la Rinascenza, ritorna su Bruno,
e lo vede nel Telesio sotto un nuovo punto di vista; e se lo avea rigettato come
pan-teista ed anti-mistico, ora lo guarda, e lo ammira come il vero eroe del pensiero,
l'araldo e il martire della nuova e libera filosofia; degno, come dice
Spaventa, di avere un posto accanto a Prometeo ed a Socrate. Quel che
FIORENTINO scrive di SPAVENTA, permettete, o signori, che io lo riferisca al
nostro fiero concittadino. Il grande ideale del filosofo per Fiorentino è
Bruno; pari forse avrebbero avuto il fato, se fossero vissuti nella stessa età.
FIORENTINO guarda il rogo con lo stesso coraggio; BRUNO avrebbe disprezzato con
la stessa serenità, non il rogo, ma qualcosa di peggio, quella rete sottilissi.
ma di cabale, onde la turba ignara circonda gli animi alteri; che tentano
slacciarsi da maltesi agguati: non il rogo, ma la calunnia divota: dopo il Torquemada
ilTartufo: siamo ben progrediti noi. Il vecchio divino della Scolastica si
assottiglia in Bruno. In lui si fondono il divino e l'Universo; la creazione è
sviluppo del divino stesso, processo necessario, che rende cono scibile e reale
l'attività del divino. In una parola, il divino del Nolano non vive se non per
la natura, e nella natura. Fuori e senza di lei sarebbe un'astrazione ed un
fossile. La necessità della creazione, che BRUNO insegna a viso aperto, lo
mette di accordo col futuro naturalismo spinoziano, e lo fa precursore della
moderna filosofia alemanna. La filosofia del rinascimento, incarnata in TELESIO
ed in Bruno, per avere considerato l'assoluto, come natura, ha preparato il
grande avvenimento dello spirito, la cui speculaziane incomincia con la
coscienza cartesiana. L'infinita natura, iniziata da un sofo di Calabria, è la
gran parola della rinascenza e dei tempi moderni! Telesio e Bruno preparano
inoltre la vasta speculazione di Campanella, indomito frate, che sopporta, con
la fiera costanza del calabrese anni di carcere, ed un giorno intero di
torture. Permettete, o Signori, ch'io m’inchini al martirio di Campanella, ed
al rogo di Bruno; martirio e rogo, che sono LA GLORIA DEL MEZZO GIORNO, e del
libero pensiero; la condanna più eloquente dei feroci persecutori dell'umana
ragione. CAMPANELLA, che sublima alla dignità di principio speculativo la
divinità latente di Bruno, è il vero tipo dell'uomo calabro, ricco d'ingegno e
di cuore, intemperante, battagliero, audace, iniziatore. È uomo originale e
contraddittorio; fa l'apoteosi della teocrazia e della Spagna, della
scolastica, del Medio-Evo, e poi scrive la Città del Sole, e vagheggia la
democrazia ed il socialismo, la sovranità del libero pensiero, e lo stato laico
moderno. Ei fonde in sè due età di verso, la età della fede, e l'età della
ragione; Platone ed Aristotile, Telesio ed il Cusano; l'austero sillogismo del
pensatore, e le vaporosità dell’astrologo; le apocalittiche visioni dell’abate
Gioacchino FIORE (si veda), o la fredda sottigliezza di Machiavelli; l'ossequio
alle somme chiavi, e l'audace ribellione di Lutero. Campanella, stupendamente
tratteggiato da FIORENTINO, ritorna, come metafisico, a Platone, ed al Medio-Evo.
Come sensista e psicologo, anticipa, nella teorica del senso e della
cognizione, Cartesio, ed il mondo moderno. Ei proclama la identità del pensiero
e dell'essere. Se non che sì fatta unità non acquista la forza di vero
principio, e Campanella, ad onta delle sue stupende divinazioni, ondeggia
ancora tra lo schietto naturalismo ed il sistema delle cause finali. Alla
filosofia naturale, che tolse in prestito ed usufruttua dal nostro Telesio,
CAMPANELLA aggiunge una metafisica, che ne rimane staccata; mettendo ogni
sforzo per levarsi alle categorie supreme della natura e dell'essere, non seppe
applicarle alla natura, e con tutta l'energia poderosa d’assurgere all'unità,
resta nella opposizione, ch'è il carattere principale del naturalismo. Il solo
naturalismo, chiarendosi con Campanella impotente a spiegare la genesi della natura,
non potė, esso solo, sciogliere il gran problema del mondo moderno, e
conciliare l'universale col particolar; ricomprendere il senso in una forma di
pensiero più larga, dove l'opposizione riapparisse trasformata ed unificata in
una sintesi suprema e dialettica. Tale è il progresso apportato nel
naturalismo, o nella filosofia moderna da GALILEI (si veda) e Descartes. Tali
sono le glorie del nuovo pensiero, anti-mistico e laicale, iniziato da due
filosofi, nati tra i selvaggi burroni delle nostre Calabrie. Fiorentino, dopo
aver richiamato alla memoria degl’taliani. Cornelio, e Severino, glorie dell'università
napoletana, e filosofi telesiani. Dopo aver valutato la importanza di Galilei e
di Bacone, si arresta con Descartes alla soglia della filosofia moderna, lieto
che la speculazione filosofica si stacchi dalle scienze naturali, preliminare, per
altro, necessario nella evoluzione del pensiero moderno, e si posi nel cogito
cartesiano. La natura si emancipa, il pensiero si scioglie, e diviene più
libero e più snello; lo spirito, che tutto ringiovanisce e trasforma, fondo ed
armonizza Telesio e Bruno, Campanella e Galilei, Bacone e Descartes, e la
silvosa Calabria entra co'suoi filosofi, e coi suoi profeti, co’suoi martiri, e
co'suoi precursori nel dramma glorioso del mondo moderno. Vi rientra sotto
l'impulso di Fiorentino, che, nato presso Stilo, tocca di nuovo la squilla
dimenticata di Campanella, annunzia ai calabresi l'aurora di nuovi giorni, la
completa emancipazione dalla scolastica e dal medio-evo; la risurrezione del
pensiero della magna Grecia, fuso, ingrandito, trasformato nel pensiero
moderno. La Calabria e l'Accademia Cosentina non potranno dimenticarlo. Non
potranno disconoscere l'austero filosofo, che ne illustra stupendamente le
glorie, e con magico pennello ne ritrasse gl’apostoli, e gl’eroi,
rivendicando i padri nostri al cospetto di un secolo banchiere e borghese. La
morte lo colge sulla soglia del tempio del Rinascimento; gloria al virile
sacerdote della scienza, che muore, adempiendo il suo dovere, mentre si
folleggia, deridendo gl’eroi del pensiero, i modesti operai del mondo moderno, e
sigitta lo scherno sulle ossa dei grandi precursori della nuova filosofia e
della nuova critica. Io ho fede che i calabresi, così ricci d'ingegno e di
cuore, cosi amanti delle patrie glorie, hanno un culto per gl’uomini, che
muoiono sulla breccia, martiri della scienza e della patria; per le anime
generose, che non curano le amarezze della vita, l'esilio, la povertà, la
carcere, ed accettano, fino le torture di Campanella, fino il rogo di Bruno. Ho
fede che la Calabria si rinnovi nel lavacro della rinascenza e negli studii
virili del passato, e la gentile e dotta Cosenza, riccaperme di care e dolorose
memorie, prodiga di tanto sangue alla patria, di tanto contributo d'ingegno
alla storia del pensiero italiano, s'ispiri nell'austera figura del più grande
dei suoi figli, il cui busto parla tra il verde degli alberi la gran parola del
risorgimento ai calabresi. Ho fede che l'austera parola del filosofo di
Sambiase non suoni più nel deserto, e la sua tomba, su cui piansero amici e
nemici, è un'ara dove le novelle generazioni attingano i forti propositi, e,
quel che più ci preme, la serietà della vita, l'abnegazione, il sacrifizio, ed
il libero pensiero. Così,o gio vani, non sarò costretto a ripetere gli amari
versi dell’austero poeta di Recanati. Oggi è nefando stile Di schiatta ignava e
finta Virtù viva sprezzar lodare estinta. Vincenzo Julia. Julia. Keywords:
implicatura, filosofia calabrese, Campanella, Telesio, Sanctis, Leopardi,
Mazzini, Garibaldi, Gioberti, Spaventa, Hegel, Aligheri, Serra, Bruno. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giulia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giuliano: la ragione conversazionale e la
filosofia di Giove -- Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “When I think
Giuliano, I think Donizetti – and Poliuto’s lions!” -- Flavio Claudio Giuliano
(in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli), filosofo. L’ultimo
sovrano dichiaratamente pagano, che tenta, senza successo, di riformare e di
restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in decadenza di fronte
alla diffusione del cristianesimo. Sometimes known as ‘the Apostate,’ Giuliano was a
Roman emperor, who died in battle at the early age of 32 exclaiming the
infamous “Galileans, ye won!” as the arrow penetrated in his breast. A
naturally gifted scholar, Giuliano stuied philosophy under Massimo di Efeso and
had many philosophical friends and acquaintances, including Saturnino Secondo
Salutio, Prisco, and Imerio. Although his philosophical outlook was what he
described as ‘generally eclectic,’ he had a special fondness for the Accademia,
and a particular hostily to the Cinargo. Keen to eliminate the Galileans, as he
called the sect originated after the death of Gesu di Nazareth, in fact he left
them rather ‘to their own devices,’ although removing some of their privileges.
His letters and speeches survive – many on deep philosophical issues (‘What is
universal about worshipping a man born in Galilee who claimed to be the son of
God – and born of a virgin?’). Grice: “There are various Griceian problems when
approaching Giuliano from a Griceian perspective. It all reminds me of my
father, a non-Conformist, in a household comprised of my High-Church mother and
Catholic convert aunt! At Oxford, and in fact, before then, at Clifton, I
learned that religion has nothing to do with i. Nobody believes that Giove
raped Ganymede – it’s a tale! Giuliano has been unjustly treated
counterfactually. Historians, seeing that Giuliano’s fight was useless, dismiss
it. But this is a weak argument. I might just as well dismiss Mussolini’s plans
because we English bombed Milano! Giuliano read too much of what the Hebrews
call ‘the Holy Writ’ – but his propositions should be taken separately, one by
one. In a way reminiscent of Arnold (in his Ebraism and Ellenismo), Giuliano
proposes to us an examination of things like ‘Jesus was the son of God,
therefore he was God.’ Aeneas was divinized by Virgil, so the Romans shouldn’t
count as good critics here. A nice story involves Giuliano and Arete, a
philosopher to whom Giamblico di Calcide dedicated one of his books. It seems likely
that she was one of his pupils. Her neighbours (presumably Christians) tried to
get her thrown out of her home, but the emperor Giuliano himself went to
Phrygia to help her. Giuliano. Keywords:
pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Giuliano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giuliano:
la ragione conversazionale e la gnossi a
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Eclano). Filosofo italiano. A follower of (of all people)
Pelagio. As a result he was prompty
deposed from his position as ‘vescovo’ of Eclanum. He appears to have led an
unsettled life thereafter. His works survive in the use made by them by Agostino
in “Against Giuliano, the defender of the Pelgagian heresy, and the so-called
‘Incomplete work against Giuliano’ – left unfinished by Agostino. Giuliano
strongly opposed Agostino’s convoluted doctrine of the original sins (he said
there were many). By contrast, Giuliano entertained a totally positive
conception of human nature. Giuliano.
Grice e Giulio: la
ragione conversazionale e la filosofia sotto Giulio Cesare – Roma – filosofia italiana – l’anima di
Cesare – il discorso contro la penna di morte a Catilina -- Luigi Speranza. (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Si lo è voluto collocare G. Nel GIARDINO ROMANO perchè, nell’orazione
che, secondo SALLUSTIO (si veda), tenne in senato per opporsi alla condanna a
morte dei complici di Catilina, NEGA l'immortalità dell’anima -- e le pene
dell’oltre-tomba. Però non sappiamo se e fino a qual punto rispecchi la sua
filosofia quell’orazione, che, in ogni modo, mira a impedire l'uccisione dei
catiliniani. La divinazzione di G. La stella raccontata di OVIDIO (si veda). OTTAVIANO
(si veda) interpreta la stella di altro modo. Allorche nella congiura di CATILINA
(si veda) il console pronunzia il primo contro i congiurati l’opinione sua
per la pena di morte, G., il quale desidera ne’ suoi fini di salvare loro la
vita, nell’orazione che recita in senato, riferita estesamente da SALLUSTIO (si
veda), non tratta gia come ingiusta o crudele la pena di morte, ma disse anzi
che per coloro, che condur devono una vita misera ed infelice, la morte NON È
UNA PENA, MA UN BENEFIZIO, che li libera avventurosomente dai mali che
sofirone. Ne CICERONE (si veda), ne CATONE (si veda), ne alcun altro de'
senatori contraddissero punto in questa parte al sentimento di G.. Anzi, Cicerone
ne parla come d'un sentimento vero e giusto. G., dic’egli, considera che la
morte non e stata dagl’iddi immortali stabilita come una pena, ma come il fine
de’ dolori e delle miserie. Le catene, massimamente le catene perpetue, sono, a
parere di lui, la pena che merita l'orrendo attentato, di qui si tratta. Egli
lascia a questi empil uomini la vita, la quale, se venisse loro tolta, liberati
verrebbero ad un tratto da tutte le pene dell'animo e del corpo. Omnis homines, patres
conscripti, qui de rebus dubiis consultant, ab odio, amicitia, ira atque
misericordia vacuos esse decet. Haud facile animus verum providet, ubi
illa officiunt, neque quisquam omnium lubidini simul et usui paruit. Ubi
intenderis ingenium, valet. Si lubido possidet, ea dominatur, animus
nihil valet. Magna mihi copia est memorandi, patres conscripti, quæ reges
atque populi ira aut misericordia inpulsi male consuluerint. Sed ea malo dicere, quæ maiores nostri contra
lubidinem animi sui recte atque ordine fecere. Bello Macedonico, quod cum
rege Perse gessimus, Rhodiorum civitas magna atque magnifica, quæ POPVLI ROMANI
opibus creverat, infida et advorsa nobis fuit. Sed postquam bello confecto
de Rhodiis consultum est, maiores nostri, ne quis divitiarum magis quam
iniuriæ causa bellum inceptum diceret, inpunitos eos dimisere. Item
bellis Punicis omnibus, quom saepe Carthaginienses et in pace et per
indutias multa nefaria facinora fecissent, numquam ipsi per occasionem
talia fecere: magis quid se dignum foret, quam quid in illos iure fieri
posset, quærebant. Hoc item vobis providendum est, patres conscripti, ne plus apud vos
valeat P. Lentuli et ceterorum scelus quam vostra dignitas, neu magis iræ
vostræ quam famæ consulatis. Nam
si digna poena pro factis eorum reperitur, novom consilium adprobo. Sin
magnitudo sceleris omnium ingenia exsuperat, his utendum censeo, quæ
legibus conparata sunt. Plerique eorum, qui ante me sententias dixerunt,
conposite atque magnifice casum rei publicæ miserati sunt. Quæ belli
saevitia esset, quae victis adciderent, enumeravere: rapi virgines,
pueros; divelli liberos a parentum conplexu; matres familiarum pati quæ
victoribus conlubuissent. Fana atque domos spoliari. Cædem, incendia fieri.
Postremo armis, cadaveribus, cruore atque luctu omnia conpleri. Sed, per
deos inmortalis, quo illa oratio pertinuit? An uti vos infestos
coniurationi faceret? Scilicet, quem res tanta et tam atrox non permovit,
eum oratio adcendet. Non ita est, neque quoiquam mortalium iniuriæ suæ
parvæ videntur, multi eas gravius æquo habuere. Sed alia aliis licentia
est, patres conscripti. Qui demissi in obscuro vitam habent, si quid
iracundia deliquere, pauci sciunt, fama atque fortuna eorum pares sunt. Qui
magno imperio præditi in excelso aetatem agunt, eorum facta cuncti
mortales novere. Ita in maxuma fortuna minuma licentia est; neque studere
neque odisse, sed minume irasci decet; quæ apud alios iracundia dicitur,
ea in imperio superbia atque crudelitas appellatur. Equidem ego sic
existumo, patres conscripti, omnis cruciatus minores quam facinora illorum
esse. Sed plerique mortales postrema meminere et in hominibus inpiis
sceleris eorum obliti de pœna disserunt, si ea paulo severior fuit. D.
Silanum, virum fortem atque strenuom, certo scio quæ dixerit studio rei
publicæ dixisse, neque illum in tanta re gratiam aut inimicitias exercere.
Eos mores eamque modestiam viri cognovi. Verum sententia eius mihi non
crudelis – quid enim in talis homines crudele fieri potest? Sed aliena a
re publica nostra videtur. Nam profecto aut metus aut iniuria te subegit,
Silane, consulem designatum genus pœnæ novom decernere. De timore
supervacuaneum est disserere, quom præsertim diligentia clarissumi viri
consulis tanta præsidia sint in armis. De pœna possum equidem dicere,
id quod res habet, in luctu atque miseriis mortem ærumnarum requiem,
non cruciatum esse; eam cuncta mortalium mala dissolvere; ultra neque curæ
neque gaudio locum esse. Sed, per deos inmortalis, quam ob rem in
sententiam non addidisti, uti prius verberibus in eos animadvorteretur? An quia lex Porcia vetat? At
aliæ leges item condemnatis civibus non animam eripi, sed exilium permitti
iubent. An quia gravius est
verberari quam necari? Quid autem acerbum aut nimis grave est in homines
tanti facinoris convictos? Sin
quia levius est, qui convenit in minore negotio legem timere, quom eam in
maiore neglegeris? Maiores nostri, patres conscripti, neque consili neque
audaciæ umquam eguere; neque illis superbia obstabat quo minus aliena
instituta, si modo proba erant, imitarentur. Arma atque tela militaria ab
Samnitibus, insignia magistratuum ab Tuscis pleraque sumpserunt.
Postremo, quod ubique apud socios aut hostis idoneum videbatur, cum summo
studio domi exsequebantur: imitari quam invidere bonis malebant. Sed
eodem illo tempore Græciæ morem imitati verberibus animadvortebant in
civis, de condemnatis summum supplicium sumebant. Postquam res publica
adolevit et multitudine civium factiones valuere, circumveniri
innocentes, alia huiusce modi fieri cœpere, tum lex Porcia aliæque leges
paratæ sunt, quibus legibus exilium damnatis permissum est. Hanc ego
causam, patres conscripti, quo minus novom consilium capiamus, in primis
magnam puto. Profecto virtus atque sapientia maior illis fuit, qui ex
parvis opibus tantum imperium fecere, quam in nobis, qui ea bene parta
vix retinemus. Placet igitur eos dimitti et augeri exercitum Catilinae? Minume.
Sed ita censeo: publicandas eorum pecunias, ipsos in vinculis habendos
per municipia, quæ maxume opibus valent. Neu quis de iis postea ad senatum referat neve cum
populo agat. Qui aliter
fecerit, senatum existumare eum contra rem publicam et salutem omnium
facturum. Tutti gli uomini, o senatori, che
deliberano intorno a fatti dubbi, debbono essere liberi da odio e da
amicizia, da ira e da misericordia. L’intelletto non può discernere
facilmente il vero, se quei sentimenti 1’offuscano, e nessuno mai può
obbedire contemporaneamente alla passione e al proprio interesse. Se
tendi l’arco dell’intelletto, questo ha forza; se sei preda della
passione1, questa domina e la mente non ha più vigore. Potrei, o
senatori, ricordare molti e molti esempi di re e di popoli che spinti
dall’ira o dalla pietà presero funeste deliberazioni; ma io preferisco
dire ciò che i nostri antenati, trattenendo l’impeto delle loro passioni,
fecero con senso di rettitudine e di giustizia. Nella guerra Macedonica, che
noi combattemmo contro il re Perseo, la città di Rodi, grande e magnifi
ca, che aveva accresciuto la sua potenza con l’aiuto del popolo romano,
ci fu infedele e nemica; ma quando, terminata la guerra, si dovette
deliberare intrno alla sorte dei Rodiesi, i nostri antenati li lasciarono
impuniti3, affi nché non si dicessse che si era intrapresa la guerra per
impadronirsi delle loro ricchezze piuttosto che per l’offesa ricevuta. Allo
stesso modo in tutte le guerre puniche, benché i Cartaginesi, durante gli
intervalli di pace e le tregue, avessero commesso molte azioni crudeli, i
nostri non approfi ttarono mai dell’occasione per fare delle
rappresaglie; cercavano di agire sempre secondo la loro dignità piuttosto
che, infi erire contro di quelli, anche se a buon diritto. Così pure voi,
o senatori, dovete tener conto di voi stessi, affi nché presso di voi non
possa di più la scelleratezza di Publio Lentulo e degli altri che la
vostra dignità, e non pensiate maggiormente alla vostra ira che alla vostra
buona reputazione. 8. Infatti se si può trovare una pena adeguata al male
da loro compiuto, io approvo anche un provvedimento eccezionale; ma se la
grandezza del misfatto supera ogni umana credenza, io penso che si debbano
applicare quelle pene che siano stabilite dalle leggi. La maggior parte
di coloro che hanno espresso il loro parere prima di me, con un
linguaggio forbito e brillante, hanno commiserato la sventura dello
Stato. Hanno enumerato le crudeltà della guerra e i mali che toccano ai vinti,
vergini e fanciulli rapiti, fi gli strappati dalle braccia dei genitori,
madri di famiglia costrette a subire le voglie dei vincitori, case e templi
spogliati, stragi, incendi, infi ne in ogni luogo armi, cadaveri sangue e
lutto Della pena posso dir questo, che è pura verità: nel lutto e nelle miserie
la morte è il riposo dagli affanni; non è un tormento, anzi dissolve
tutti i mali umani e non schiude né angosce né gioie. Ma, per gli dèi
immortali, perché non hai aggiunto alla tua proposta che i congiurati
fossero sottoposti prima alla fustigazione? Forse perché lo vieta la legge
Porcia? Ma ugualmente altre leggi dispongono che ai cittadini già condannati a
morte non si tolga la vita, ma si conceda l’esilio. O forse perché è più
duro essere fustigato che ucciso? Quale pena è grave o troppo aspra per
chi risulta colpevole di un tanto delitto? Se poi è una pena troppo
leggera fustigarli, come può darsi che si tema la legge per fatti
poco importanti, quando è stata violata per più gravi? Ma invero,
chi potrà criticare una sentenza di morte contro traditori della patria?
L’occasione, il tempo, la fortuna, che dominano a loro volontà tutte le genti.
Qualunque cosa accada, essi l’avranno ben meritata; però, voi, o
senatori, rifl ettete bene6 che ciò che deliberate non ricada su
altri. Tutti gli esempi di illegalità nascono da casi in cui quell’illegalità
fu giusta; ma quando il potere passa nelle mani di cittadini incapaci o meno
onesti, quel nuovo esempio di illegalità, applicata contro chi l’aveva ben
meritato, viene rivolto contro cittadini incolpevoli e innocenti. Quando la
repubblica s’ingrandì e la moltitudine dei cittadini accrebbe la forza dei
partiti, si cominciarono a opprimere gli innocenti e a commettere arbìtri
di tal fatta; allora fu approvata la legge Porcia e con essa altre leggi con
cui si concedeva l’esilio ai rei di pena capitale. Io, o senatori, ritengo che
questo motivo sia di grandissima importanza perché non si approvi
l’innovazione che ora si propone. Certamente ebbero più virtù e saggezza coloro
che costruirono con forze modeste un così vasto impero che non noi, che a
malapena sappiamo mantenere ciò che così bene essi hanno creato. Allora si debbono
mettere in libertà costoro e mandarli ad accrescere l’esercito di
Catilina? Niente affatto. Ma ecco il mio parere: si confi schino i loro
beni, si tengano i rei in prigione affi dandoli ai municipi che posseggono i
migliori presìdi; per l’avvenire intorno a costoro non si facciano più
proposte in Senato né discorsi al popolo; se qualcuno trasgredisse, il
Senato deve dichiararlo nemico dello Stato e della salvezza pubblica.Giulio
Cesare. Tutti gli uomini, o senatori, che deliberano intorno a fatti dubbi,
debbono essere liberi da odio e da amicizia, da ira e da misericordia. 2.
L’intelletto non può discernere facilmente il vero, se quei sentimenti
1’offuscano, e nessuno mai può obbedire contemporaneamente alla passione
e al proprio interesse. 3. Se tendi l’arco dell’intelletto, questo ha
forza; se sei preda della passione1, questa domina e la mente non ha più
vigore. 4. Potrei, o senatori, ricordare molti e molti esempi di re e di
popoli che spinti dall’ira o dalla pietà presero funeste deliberazioni; ma
io preferisco dire ciò che i nostri antenati, trattenendo l’impeto delle
loro passioni, fecero con senso di rettitudine e di giustizia. Nella
guerra Macedonica, che noi combattemmo contro il re Perseo, la città di
Rodi, grande e magnifi ca, che aveva accresciuto la sua potenza con
l’aiuto del popolo romano, ci fu infedele e nemica; ma quando, terminata
la guerra, si dovette deliberare intrno alla sorte dei Rodiesi, i nostri
antenati li lasciarono impuniti, affi nché non si dicessse che si era intrapresa
la guerra per impadronirsi delle loro ricchezze piuttosto che per l’offesa
ricevuta. Allo stesso modo in tutte le guerre puniche, benché i Cartaginesi,
durante gli intervalli di pace e le tregue, avessero commesso molte
azioni crudeli, i nostri non approfi ttarono mai dell’occasione per fare
delle rappresaglie; cercavano di agire sempre secondo la loro dignità
piuttosto che, infi erire contro di quelli, anche se a buon diritto. Così
pure voi, o senatori, dovete tener conto di voi stessi, affi nché presso
di voi non possa di più la scelleratezza di Publio Lentulo e degli altri che
la vostra dignità, e non pensiate maggiormente alla vostra ira che alla
vostra buona reputazione. 8. Infatti se si può trovare una pena adeguata
al male da loro compiuto, io approvo anche un provvedimento eccezionale; ma se
la grandezza del misfatto supera ogni umana credenza, io penso che si debbano
applicare quelle pene che siano stabilite dalle leggi. La maggior parte
di coloro che hanno espresso il loro parere prima di me, con un
linguaggio forbito e brillante, hanno commiserato la sventura dello
Stato. Hanno enumerato le crudeltà della guerra e i mali che toccano ai vinti,
vergini e fanciulli rapiti, fi gli strappati dalle braccia dei genitori,
madri di famiglia costrette a subire le voglie dei vincitori, case e templi
spogliati, stragi, incendi, infi ne in ogni luogo armi, cadaveri sangue e
lutto. Della pena posso dir questo, che è pura verità: nel lutto e nelle
miserie la morte è il riposo dagli affanni; non è un tormento, anzi
dissolve tutti i mali umani e non schiude né angosce né gioie. Ma, per
gli dèi immortali, perché non hai aggiunto alla tua proposta che i
congiurati fossero sottoposti prima alla fustigazione? Forse perché lo vieta la
legge Porcia? Ma ugualmente altre leggi dispongono che ai cittadini già
condannati a morte non si tolga la vita, ma si conceda l’esilio. O forse
perché è più duro essere fustigato che ucciso? Quale pena è grave o
troppo aspra per chi risulta colpevole di un tanto delitto? Se poi è una
pena troppo leggera fustigarli, come può darsi che si tema la legge per fatti
poco importanti, quando è stata violata per più gravi? Ma invero,
chi potrà criticare una sentenza di morte contro traditori della patria?
L’occasione, il tempo, la fortuna, che dominano a loro volontà tutte le genti.
Qualunque cosa accada, essi l’avranno ben meritata; però, voi, o
senatori, rifl ettete bene6 che ciò che deliberate non ricada su
altri. Tutti gli esempi di illegalità nascono da casi in cui quell’illegalità
fu giusta; ma quando il potere passa nelle mani di cittadini incapaci o meno
onesti, quel nuovo esempio di illegalità, applicata contro chi l’aveva ben
meritato, viene rivolto contro cittadini incolpevoli e innocenti. Quando la
repubblica s’ingrandì e la moltitudine dei cittadini accrebbe la forza
dei partiti, si cominciarono a opprimere gli innocenti e a commettere
arbìtri di tal fatta; allora fu approvata la legge Porcia e con essa
altre leggi con cui si concedeva l’esilio ai rei di pena capitale. 41. Io, o
senatori, ritengo che questo motivo sia di grandissima importanza perché
non si approvi l’innovazione che ora si propone. Certamente ebbero più virtù e
saggezza coloro che costruirono con forze modeste un così vasto impero
che non noi, che a malapena sappiamo mantenere ciò che così bene essi hanno
creato. Allora si debbono mettere in libertà costoro e mandarli ad
accrescere l’esercito di Catilina? Niente affatto. Ma ecco il mio parere:
si confi schino i loro beni, si tengano i rei in prigione affi dandoli ai
municipi che posseggono i migliori presìdi; per l’avvenire intorno a costoro
non si facciano più proposte in Senato né discorsi al popolo; se qualcuno
trasgredisse, il Senato deve dichiararlo nemico dello Stato e della
salvezza pubblica. Giulio Cesare.
Grice e Giulio: la
ragione conversazionale e l’attaco a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. A philosopher who was killed
during an attack on the city. Giulio
Giuliano.
Grice e Giunco:
la ragione conversazionale dell’andreia -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. The author of a philosophical
dialogue about the three ages of man. The son-in-law of Tito Vario Ciliano. The
models for the three ages of man are his father in law, himself, and his own
son, as models. He argues that the middle age is the best. Grice: “But he was
biased. In fact, in my lectures on reasoning, I give this as an example of
biased reasoning!” – Giunco.
Grice e Giunio: la
ragione conversazionale dell’accademia al portico romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Appartene
all'Accademia -- cioè effettivamente all’eclettismo con tendenze stoiche di
Antioco d’Ascalona -- che, appunto, accetta dottrine derivate dal
portico. In Atene fa studi di filosofia, e in questa ha maestro
Aristone. Nella guerra civile parteggia per Pompeo e combatte a
Farsaglia. Ottenne di riconciliarsi con GIULIO (si veda) Cesare. Forma stretti
rapporti con CICERONE, che gli dedica varie opere: "Brutus",
"Paradoxa", "Orator", "De finibus",
"Tusculanae", "De natura Deorum." A CICERONE, dedica il
"De virtute" (Andreia). Legato pro-pretore nelle Gallie, pretore
urbano, partecipa alla congiura contro GIULIO (si veda) Cesare e e uno dei suoi
uccisori. Sconfitto a Filippi d’OTTAVIANO, si uccide. Uno dei maggiori
rappresentanti dell’atticismo è oratore insigne. Scrive lettere (VIII a
Cicerone ci restano nella corrispondenza di questo), poesie e tre opere
morali. Nel "De virtute” difende la teoria dell’auto-sufficienza
della virtù. In "Sui doveri" da precetti al fratello sulla sua
condotta. (Grice: “He never followed them!”). Nel "De patientia,"
tratta di questa. Marco Giunio Bruto il Minore. Giunio. The Swimming-Pool
Library.
Grice e Giunio: la
ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Porch, and one of
the senators who opposed NERONE. Giunio
Maurizio
Grice e Giuniore:
la ragione conversazionale e la geografia filosofica -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher
who wrote, or edited, a short work on geography, comprising the whole of Rome,
and some of the shoreline outskirts, including Ostia. Giuniore.
Grice e Giussani: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’amicizia – il comune,
fraternità, liberazione – la scuola di Desio -- filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Desio).
Filosofo
lombardo.. Filosofo italiano. Desio, Monza, Lombardia. Grice: “I like
Giussiani; of course at Oxford he would be a no-no, being a Catholic; but he
understands the pragmatics of conversation!” Ricevette la prima introduzione dalla madre Angelina
Gelosa, operaia tessile; il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un
socialista. Entra nel seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso
dove frequenta i primi quattro anni di ginnasio. Si trasfere a Venegono
Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequenta l'ultimo anno di
ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolge i successivi studi di filosofia.
Ha come docenti, fra gli altri, Colombo, Corti, Carlo, e Figini. In quella sede
conosce i compagni di studio Manfredini e Biffi. Si interessa di Leopardi e
delle chiese ortodosse. Riceve l'ordinazione da Schuster. Dopo
l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono come insegnante e si
specializzò nello studio della teologia orientale, specie sugli slavofili,
della teologia protestante e della motivazione razionale dell'adesione alla
Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario per quello nelle scuole
superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle scuole a Milano dove e
suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si tennero con il nome di
Gioventù Studentesca, che fonda insieme a Ricci e che fa parte dell'Azione
Cattolica. Inizia anche un'attività pubblicistica volta a porre
attenzione sulla questione educativa. Redasse la voce "Educazione"
per l'Enciclopedia Cattolica. Sotto Colombo continua gli studi di teologia
protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la
cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano. Lo Spirito Santo ha suscitato
nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la
bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione
che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. G.
s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità
e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei
desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto
della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese
il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il
consiglio generale. Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la
Fraternità di Comunione e Liberazione e G. ne guidò la Diaconia
Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare.
Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire
dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta
al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in
successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso
religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la
concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo
attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed
occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani,
l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una
critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale
strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo
di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza
religiosa. Dopo la morte, sono stati dedicati a G.: Desio: nel
paese natale di G., la piazza retrostante il municipio e un monumento opera di
Cristina Mariani a Milano: parco G., in predenza parco Solari Trivolzio: il
piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla chiesa
parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale Ligure:
l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo di
Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e Liberazione,
che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un largo presso la
rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno: la scuola
primaria e dell'infanzia "G.". Portofino: la piazzetta del faro Kampala
(Uganda): la scuola secondaria G. Pozzolengo: il parco comunale adiacente al
castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera dell'artista riminese Ceccarellia,
sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini: la rotonda davanti al
Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera dove si sono svolte le
prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari: un tratto del
lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo Trento Cinisello
Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il centro sportivo
della frazione di Redecesio Strade comunali sono state intitolate a don G. a
Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre, ecc. La maggior parte delle
opere deriva dalla trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in
pubblico durante raduni, convegni, esercizi spirituali. I suoi libri sono stati
pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli ha iniziato a rieditare i testi
di G. in nuove edizioni aggiornate dotate spesso di un nuovo apparato di note e
di nuovi contenuti editoriali e a volte con titoli diversi. Rizzoli ha anche
pubblicato le opere inedited e volumi antologici di conversazioni
precedentemente disponibili sotto forma di fascicoli pro manuscripto o di
redazionali per varie riviste. Volumi di inediti o di riedizioni di testi sono poi usciti anche per altri editori,
tra i quali Marietti, San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni
di conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di
Comunione e Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti
ai Memores Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o
allegate come fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come
CL-Littere Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni
nella Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato
in volumi antologici. -- è iniziata la catalogazione sistematica dei
testi e degli scritti di Giussani. G. Scritti, curato dalla Fraternità di
Comunione e Liberazione, inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei
testi. Ha diretto la collana editoriale I libri dello spirito cristiano per la
Biblioteca Universale Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga
iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli
scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di G. e di Comunione e
Liberazione. Ha diretto la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di
«introduzione alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota
introduttiva di G., una scheda storica sui compositori o sui musicisti e una
guida all'ascolto. Saggi: “Il senso religioso: all'origine della pretesa
cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold
Niebuhr, Jaca Teologia protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno
del cristiano nel mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo
cristiano, Jaca Dalla liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il
rischio educativo, Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione
per l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori,
BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano,
Jaca Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina
Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La
coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca, Il senso religioso, Per Corso, Jaca Rizzoli, All'origine
della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un
avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano,
BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?,
BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca, Il tempo e il tempio, BUR
Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è
un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere
così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San
Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella
storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino,
Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la
terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?,
San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La
Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità,
Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La
libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità
con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil,
BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana
Quasi Tischreden "Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella
carne, BUR Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo,
BUR Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR
Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia
alla presenza BUR Rizzoli, Certi di
alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR
Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più
caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino
BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR
Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla
carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli, Interviste Comunione e Liberazione.
Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni
sul presente e sul destino, colloqui con Farina, Milano, Rizzoli. Il fondatore:
Comunione e Liberazione. CamisascaC’altro Sessantotto", da
"L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia
S.p.A.Area Internet, Il mistero di don G.. Rivelato dai suoi scritti, su
chiesa. espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in
Archivio Il Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce,
Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica »
politica » Milano, i funerali di G., su repubblica Milano, profanata la tomba
di don G., Corriere della Sera su corriere. Chiesta l'apertura della causa di
beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Passo
avanti verso la beatificazione di don Giussani, in Tempi, Società Coop. Edit.
Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi G., fondatore di CL, nominato monsignore, in
Avvenire, Don G.: vince il premio della cultura cattolica, in Adnkronos, Mia
giovinezza, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, Premio Isimbardi Città
metropolitana di Milano.Tettamanzi, La famiglia a scuola, in Tracce, Coop.
Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello StatutoEdizione Sigilli longobardi, su
Consiglio Regionale della Lombardia. Desio, rinasce il monumento per don
Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il Cottadino, Il parco Solari sarà dedicato a G., in Il
Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri, in La Provincia
Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona News, Castronno, intitolata a Don G. la nuova
rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano intitolata una
scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, G. faro di Portofino, Il Giornale, Uganda.
La G. High School inaugurata a Kampala tra i canti delle donne del Meeting
Point, su AVSI, Pozzolengo, raid vandalici nei parchi, in qui Brescia, Un
bassorilievo per G. a San Leo, in Rimini
Today, Rotatoria del Palacongressi dedicata a G., in Altarimini, Chiavari,
lungoporto G. per il fondatore di Cl, in Il Secolo XIX, In Borgo Trento
giardini intitolati al fondatore di CL, in Verona Notte, Melati, Jaca Santa
editrice della rivoluzione, in Il Venerdì di Repubblica, L'Espresso SpA, Le
opere di Comunione e Liberazione. Chi
siamo, su G. Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione
e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco,
G., Torino, Elledici, Bedouelle; Graziano Borgonovo; Clément; Olinto; Ries, Gli
uomini vivi si incontrano: scritti per G., Milanok, Camisasca, Comunione e
Liberazione: Le origini Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo
Camisasca, Comunione e Liberazione: La ripresa, Cinisello Balsamo, San
Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero sorgivo, Marietti D Perillo, Caro G..
Dieci anni di lettere a un padre, Piemme, Camisasca, Comunione e Liberazione:
Il riconoscimento, Appendice, Cinisello Balsamo, San Paolo, Farina, G.. Vita di
un amico, Piemme, Farina, Maestri.
Incontri e dialoghi sul senso della vita, Piemme, Ceglie, G.. Una religione per
l'uomo, 1ª ed., Cantagalli, Gamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Camisasca,
G.. La sua esperienza dell'uomo e di Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, Savorana,
Vita di G., Milano, Rizzoli Editore, Savorana, Un'attrattiva che muove, 1ª ed.,
Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, G. e Guardini. Una lettura originale, Milano,
Jaca, Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico
dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Studium, Massimo Camisasca,
L'avventura di Gioventù Studentesca, fotografie di Elio Ciol, Milano, Mondadori
Electa, G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e Tombolini, Giussani. Il percorso
teologico e l'apertura ecumenica, Siena, Cantagalli Eupress FTL. Scritti
di G., su G. Scritti, Fraternità di
Comunione e Liberazione. Giussani su Comunione e Liberazione, Fraternità di
Comunione e Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani. Keywords:
dell’amicizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Giusso: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale degl’eroi – filosofia fascista -- il mistico dell’azione – filosofia campanese –
filosfia napoletana – la scuola di Napoli -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Giusso: he has explored philosophers
from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole ‘tradizione ermetica
nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and especially “Dutch,”
i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio
Giusso e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in
un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito
allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, G., uno dei fondatori
del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia a Napoli
sotto ALIOTTA (si veda). Segue con passione l'attualismo gentiliano e proprio
il suo carattere passionale lo porta anche nel campo filosofico ad un tipo di
critica scenografica, così come fu definita. Le sue frizioni con Croce,
inizialmente orientate su temi politici, presero più tardi una forma
"sotterranea", genericamente orientata contro l'idealism. G. si
richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo di Nietzsche, allo storicismo
di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a causa di quest'ultimo, oltre che
per la sua interpretazione della Scienza nuova vichiana (che si attirò una
severa recensione dello stesso Croce, G. è criticato dall'ambiente crociano. G,
critico e storico delle idee s'identificava con la visione della vita di autori
che sentiva a lui vicini per temperamento ed interessi come Bruno, Vico
(dall'analisi degli scritti del quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo,
Bacchelli, Barilli, Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto
ispirò la sua composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a
Montecavallo meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre,
egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce,
da cui molto presto si distaccò (come TILGHER (si veda), che egli difende e
mostra di apprezzare) assumendo posizioni eretiche e ispirandosi piuttosto a un
ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle
molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler
e Nietzsche. Intelligenza precoce, prima
di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da
Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso
avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi
quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del
Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di
Sicilia, La Stampa ed altri ancora.
Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei
più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali
esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti
dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede cristiana.
Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano dal
Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione
dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare
la filosofia della Roma antica e quello cristiano. In chiave revisionista
rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di BRUNO (si
veda). Di ritorno da un viaggio nella sua adorata Spagna muore. A Napoli gli
venne intitolata una strada. Saggi: “Le
dittature democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida);
“Idealismo e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie”
(Firenze, Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze
di Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “VICO fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo”
(Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del
torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue:
saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano,
Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca, “La tradizione ermetica nella filosofia
italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo
Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,.
Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Croce, "Gerarchia",
"La Critica", rist. in Nuove
pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in
Bruno, Napoli Roma, Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di
metafisica, F. Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui,
Di noi contemporanei, Firenze, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di
oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo, ad indicem; G.
Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la ricerca d'un
sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero; Toffanin,
Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico letterario, Diz. della
letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli
italiano. L’Illuminismo oscuro G., autore e studioso
multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata produzione
intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal mondo
accademico contemporaneo. Stefano Chemelli 10 articoli G. è
studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui invece parco
multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Allievo d’Aliotta e BATTAGLIA
(si veda) è critico letterario, si laurea, ottiene la libera docenza in
Filosofia teoretica e morale ma insegna. “Tafferugli a Montecavallo” pubblicato
da Cappelli uno studio sul barocco romano e Bernini, “La tradizione ermetica
nella filosofia italiana”, le straordinarie conversazioni radiofoniche di
“Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a una sterminata produzione
redatta nel breve arco di cinquantasette anni. Sodale di Unamuno e Ortega
con i quali ha condiviso amabili conversari, G. si occupa a fondo di Goethe, LEOPARDI
(si veda), Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij, Freud, Dilthey, Simmel, Bergson,
GIOBERTI (si veda), VICO (si veda), BRUNO (si veda). Inoltre fu di Spengler uno
dei primissimi esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava
anche il grande Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si
trasformava in spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per
intuire la rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura
che poteva reggere l’impulso filologico di un Croce. Dona un’analisi storica
poderosa in “Le dittature democratiche dell’Italia”, all’ascesa del fascismo,
seguito dalla prima raccolta di scritti letterari che ne connotano le capacità
di “viandante” nei diversi giardini del sapere; “Il ritorno di Faust” è, “Figure
di Capri”, a ruota seguono le pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e
soprattutto lo studio su Leopardi. Copia de "La tradizione ermetica
nella filosofia italiana"Copia de “La tradizione ermetica nella filosofia
italiana” Stendhal e Nietzsche non escludono l’impegno anche poetico che
troverà sfogo in tre raccolte che molto dicono del Giusso più segreto (“Musica
in piazza”, “Cadenze di Sigismondo nella torre”, “Elegie del torso della
saggezza mutilata”). “Spengler e la dottrina degli universali formali”
restituisce in forma autonoma un approfondimento più volte ripreso da Giusso
nel decennio dei trenta che costituisce la decade dell’approfondimento
filosofico più intenso (Dilthey e Ortega tra gli altri) e preparatorio al grande
volume “Filosofia e immagine cosmica” dedicato a GENTILE. Due traduzioni
spagnole coinvolgeranno gli studi di G. rivolte a Vico ma sarebbe urgente dare
attenzione alla tradizione ermetica, magari per scoprire che GARIN (si veda)
l’ha sicuramente letta e ripresa molto più tardi. Kulturkritiker
universale lo definì Buscaroli, allievo devoto a Bologna quando G. strabilia un
manipolo di arditi fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai
avrebbero rinunciato alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater
bolognese, fugacemente ospitati. Un grande romantico della ispecie dei
Kleist, degli Hoederlin, dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che
trova negli articoli, nelle corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite
suggestioni, il tono di un G. confidenziale e descrittivo vicino al lettore non
specialista ma disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce chiara
e tersa di un respiro curioso sino al dettaglio minuto. Filosofia ed
imagine cosmica; Filosofia ed immagine cosmica; Pubblicati recentemente i
quaderni spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite le pagine
tedesche e austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei quali uomini e
cose sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e la magnificenza
della scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza né l’astrazione,
G. è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo ignorato, noi
italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre l’amatissima Spagna.
Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese, spagnolo, tedesco…), in
VICO e Spengler. Tilgher, Alvaro, Toffanin, furono amici veri, fidati, ammirati
di un uomo al quale era sconosciuta l’invidia e al contrario era profferta a
piene mani una generosa e prodiga liberalità in nome di una poetica propensione
al dialogo di un sapere trasversale, comunicativo e incantato nella magia della
parola libera, circostanziata, esatta. Una studiosa di letteratura
italiana ha affermato che il più bel libro di G. è il quaderno spagnolo, ed ha
pure aggiunto che quaderno spagnolo e autoritratto spagnolo coincidono. Spaini,
ma pure Buscaroli che con Rispoli di G. sono stati tra i conoscitori più
profondi di G., difficilmente concorderebbero. Le pagine spagnole, tedesche,
austriache servono a entrare nel mondo giussiano, consentono di accedere a una
dimensione della cultura che non conosce omologazioni di sorta, schieramenti,
posizionamenti di rendita. Permettono di sorridere a fronte di un esteta armato
solo di una generosità speciale: cogliendo l’anima dell’umanità in una minuzia
necessaria a ritrovare un sentiero precario, attraverso il quale condurre a una
visione più ampia, senza dimenticare la poesia della vita. Gioberti come uomo
del risorgimento – serie: Uomini del risorgimento. “U= IL FASCISMO di Croce”
Gerarchia – “Croce contro Croce” – da CRITICA FASCISTA – “Gentile, mistico
dell’azione, tratto da “Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La Nazione” .
Nacque a Napoli, in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio e da
Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno
fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo
sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, ne era
stato sindaco). Gli studi di G. a Napoli (dove è allievo, fra gli altri,
di ALIOTTA (si veda)), coronati dalla laurea in lettere e filosofia, si
svilupparono in molteplici direzioni. Pur destinato a diventare
prevalentemente filosofo e storico della filosofia, i suoi non dilettanteschi
interessi spaziarono dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla
filosofia, secondo un percorso eclettico ed estroso, fondato sull'istinto
piuttosto che sul metodo, che lo portò a una conoscenza approfondita ed
estesissima nei settori più diversi. Tra le due guerre, egli partecipò
all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui
molto presto si distaccò (come TILGHER (si veda), che egli mostra di
apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a
un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e
dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare, in una fase
iniziale, Spengler e Nietzsche. Intelligenza precoce, prima di
intraprendere l'insegnamento universitario, che lo avrebbe allontanato da
Napoli, G. avvia una copiosa pubblicazione di saggi, collaborando con numerosi
quotidiani italiani come autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più
diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali
esponenti, soprattutto scrittori. L'attività giornalistica si sviluppa
particolarmente quando G. inizia a collaborare con L'Idea nazionale, Il Popolo
d'Italia e Il Secolo, quindi con Il Mattino, come critico letterario; fu poi
autore di articoli di viaggio, per il Corriere della sera, e tenne un diario
critico per Il Resto del Carlino, pubblicando sulla terza pagina di molti
quotidiani italiani (Il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di
Sicilia, La Stampa e altri ancora), anche se il lavoro propriamente
giornalistico rallentò quando prevalse quello universitario. Ottenne la
libera docenza in filosofia a Napoli, dove l'anno successivo insegnò filosofia
morale; le principali tappe del suo percorso universitario - molteplice anche
per le numerose discipline di cui si occupa - furono: Cagliari, dove insegna come
professore incaricato, ricoprendo, secondo un percorso abbastanza inconsueto e
irregolare, le cattedre di filosofia teoretica, letteratura italiana e
francese, storia delle religioni; quindi, Bologna, dove, sempre come
incaricato, insegnò lingua e letteratura spagnola, infine Pisa. La carriera
universitaria del G. non si limitò, comunque, all'Italia: insegna letteratura
italiana a Monaco, a Nizza, a Breslavia, a Debreczen in Ungheria, a Madrid,
dove è accademico d'onore, e a Barcellona. Proprio al ritorno da un
viaggio in terra spagnola venne colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto
alla morte. G. muore a Roma. Oltre all'attività come giornalista e
saggista, G. pubblica anche alcune raccolte di poesie: Musica in piazza
(Napoli) e Don Giovanni ammalato, una rifusione, accresciuta, del primo volume;
Cadenze di Sigismondo nella torre, Modena; e, infine, Elegie del torso della
saggezza mutilata, Milano: d'intonazione prossima ai crepuscolari le prime,
percorse dal senso di una discrepanza tra la piattezza della vita quale ci è
data e il desiderio di viverla in modo più libero e pieno; maggiormente legate
all'estetismo dannunziano, e insieme non dimentiche del clima d'avanguardia in
cui era avvenuta la prima formazione di G., le ultime due. Saggista
acuto, ottimo conversatore, spirito brillante e fortemente antiaccademico,
caratterizzato da un sapere enciclopedico, G. non si lega ad alcuna scelta
politica, non appartenne a nessuna scuola di pensiero e non ebbe maestri
diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo di interpretazione della
cultura moderna non si può trarre una dottrina unitaria ma soltanto il profilo
di un cammino variegato e intenso, che trae origine dalla ricerca di una
visione totale dell'esistenza nel fondamentale intento di realizzare un ideale
di vita, problema con cui G. non smise mai di misurarsi, secondo una
prospettiva antirazionalista (e implicitamente antidealista).
Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal crocianesimo imperante
nell'ambiente napoletano, il primo interesse di G. è per i protagonisti
dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il pessimismo cosmico di
Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli; Leopardi, Stendhal, Nietzsche; Tre
profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y Gasset; Leopardi e le sue due ideologie,
Firenze); in tempi diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei
personaggi che più lo avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi
sulla letteratura contemporanea, Milano). Nell'ambito di una ricerca più
propriamente FILOSOFICA, i principali autori di riferimento di G. - che
costituirono anche l'oggetto dei suoi studi – sono Dilthey (Dilthey e la
filosofia come visione della vita, Napoli; Dilthey, Simmel, Spengler, Milano);
i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli), Spengler (Spengler e la dottrina
degli universali formali, Napoli), e Gasset. Il rapporto tra razionalismo
e irrazionalismo (e il superamento della loro opposizione) e quello tra scienza
e filosofia e vita sono il tema di fondo di quella che probabilmente rimane una
delle sue opere più significative, Filosofia ed imagine cosmica (Roma), in cui,
in diretto riferimento a Vico (si veda anche: Vico tra umanesimo e
occasionalismo, Roma; La filosofia di Vico e l'età barocca), egli delinea una
genealogia della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire
dalle istanze vitali e concrete dell'uomo. In VICO (si veda), secondo G., non
c'è una filosofia intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale
perché i sistemi filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale
del mondo in rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze
e le tecniche non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni
dell'uomo sociale, rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo
legame, non specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo. Nel
dopoguerra, approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo
e dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua
intenzione realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal
Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e
l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico
volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano.
In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche
alla figura di Bruno (Scienza e filosofia in Bruno, Napoli-Roma). Tra le
opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le dittature
democratiche d'Italia, Milano; Idealismo e prospettivismo, Napoli; Lo
storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma; Bergson, Milano; Gioberti; Spagna
e antispagna: saggisti e moralisti spagnoli, Mazara del Vallo; La tradizione
ermetica nella filosofia italiana, Trapani; Tafferugli a Montecavallo, Bologna;
Origene e il Rinascimento, Roma: Autoritratto spagnolo, a cura di A. Spaini,
Torino; Necr. in Corriere della sera, La Fiera letteraria; Giornale di
metafisica, Bruno, L. G., in Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos; Falqui,
Di noi contemporanei, Firenze, ad indicem; Villaroel, Gente di ieri e di oggi,
Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo, ad indicem; G.
Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e
la ricerca d'un sistema, in Sophia; Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero;
Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia; Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in
L'Osservatore politico letterario; Diz. della letteratura mondiale del '900,
sub voce. Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il panteismo
(πάν = tutto e θεός = Dio, vuol dire letteralmente "Dio è Tutto" e
"Tutto è Dio") è una visione del reale per cui ogni cosa è permeata
da un divino immanente o per cui l'Universo o la natura sono equivalenti a Dio
(Deus sive Natura). Definizioni più dettagliate tendono ad enfatizzare
l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo (la somma di tutto ciò
che è e che sarà) siano rappresentati nel principio teologico di un 'dio'
astratto piuttosto che una o più divinità personificate di qualsiasi tipo.
Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo dal panenteismo e
dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando elementi
panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e
pandeiste. Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una concezione
non-teistica della divinità». In senso lato, con "panteismo" si
intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il
principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di Dio-Uno-Tutto si
presenta in due versioni: quella "cosmistica", la quale afferma "Dio
è nel Tutto", e quella acosmistica (il termine è di Hegel), la quale
afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo caso, come nello stoicismo,
Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua parte; nel secondo caso, come
nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte rifluisce e si scioglie in Dio,
quale Uno-Tutto. Storia del panteismo Modifica Il termine
"panteista" (dal quale la parola "panteismo" è derivata) è
usato propriamente per la prima volta da Toland nella sua opera Socinianism
Truly Stated, by a pantheist. Comunque, il concetto era stato discusso già al
tempo dei filosofi della Grecia antica, da Talete, Parmenide ed Eraclito. I
presupposti ebraici del panteismo possono essere ricercati nella Torah stessa,
nel racconto della Genesi e nei suoi primi materiali profetici, nei quali
chiaramente gli "atti di natura" (come inondazioni, tempeste,
vulcani, etc.) sono tutti identificati come "la mano di Dio"
attraverso idiomi di personificazione, così spiegando gli aperti riferimenti al
concetto, sia nel Nuovo Testamento, che nella letteratura cabalistica. Sorge
una consistente controversia tra Jacobi e Mendelssohn, che infine coinvolse
molte importanti persone del tempo. Jacobi affermava che il panteismo di
Lessing era materialistico, per il fatto che considerava tutta la natura e Dio
come una sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che il risultato
della devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe condotto
all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il panteismo
era teistico. Il Panteismo di Eraclito Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un componente della
dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è in tutte le cose
ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione porta a
identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi l'Unità di
tutti i contrari, il Fuoco generatore. Il Dio-tutto di Eraclito ha in sé
tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi alla teoria della
cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è simile a un insieme
di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà sviluppato in
seguito dagli Stoici. Il Panteismo del PORTICO ROMANO Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: IL PORTICO ROMANO. Il panteismo
stoico è una delle più compiute espressioni di esso, dove il divino è la
ragione e l'intelligenza che lo determina e lo permea. Il divino del PORTICO
ROMANO, quindi, non si identifica con l'universo, ma lo permea come suo
fondamento e ragion d'essere. Il Panteismo di Plotino Si è parlato spesso
impropriamente di panteismo in Plotino. In realtà, secondo Plotino, Dio non è
solo immanente, ma anche trascendente. Come ha evidenziato anche Reale, l'Uno,
il Dio plotiniano, pur permeando di sé ogni realtà, ne è superiore. Plotino
dice infatti chiaramente che l'Uno, «in quanto principio di tutto, non è il
tutto. Con questa affermazione egli sembra prendere in contropiede, quasi le
prevedesse, le interpretazioni immanentistiche e panteiste del suo
pensiero. Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Bruno. La visione di BRUNO (si veda) può essere
considerata un panteismo del divino-Infinità ed ha alcuni caratteri del panpsichismo.
Nella filosofia di Bruno, i cinque dialoghi del De la causa, principio et uno
intendono stabilire i princìpi della realtà naturale. Forma universale
del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l'intelletto
universale, il quale «empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la natura
a produrre le sue specie». La materia è il secondo principio della
natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell'arte, variandosi in
infinito le forme, è sempre una materia medesima che persevera sotto quella,
come la forma dell'albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo,
poi di sgabello, e così via discorrendo, tuttavolta l'esser legno sempre
persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e succedendo
l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la materia». Discende da
questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta
la vita è materia, materia infinita. Nella sua concezione, anche la Terra è
dotata di anima. Egli in De l'infinito, universo e mondi scrive:
«Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni
suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto
lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente:
al contrario dell'infinità dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non
in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esser chiamate
parti) che noi possiamo comprendere in quello. Bruno, Dialoghi metafisici,
Firenze, Sansoni Il Panteismo di Spinoza Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Spinoza e Monismo panteistico. La tesi centrale del
pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o, meglio,
immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa convergono i
temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, la
teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia
neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il
pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes. Spinoza
concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:
«Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei
quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo
neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la
sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo:
dunque Dio esiste necessariamente.» (Spinoza, Etica, Roma, Editori
Riuniti Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è: «Tutto ciò
che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente. Infatti esiste
necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi della divina natura
sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo contingente e ciò o in
quanto si considera la divina natura assolutamente oppure in quanto la si
considera determinata ad agire in un certo modo. Inoltre, di questi modi Dio è
causa non soltanto perché semplicemente esistono in quanto li si considera
determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono determinati da Dio, è
impossibile e non contingente che determinino se stessi; e al contrario se sono
determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che rendano se stessi
indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla necessità della
divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e agire in un
certo modo, e non si dà nulla di contingente.» (B. Spinoza, Etica, Questa
concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma non meno quello del PORTICO ROMANO),
per qualche filosofo contemporaneo, risulti essenzialmente un impersonale
Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà come persona divina tipica dei
monoteismi. Descrizione Tipi di panteismoModifica Si possono distinguere
tre gruppi di panteisti: panteismo classico, che si esprime attraverso
l'immanente Dio del Giudaismo, Induismo, Monismo, neopaganesimo e delle
dottrine New Age, generalmente considerando Dio come personificazione o
manifestazione cosmica; panteismo biblico, che è espresso negli scritti della
Bibbia; panteismo naturalistico, basato sulle, relativamente recenti, visioni
di Baruch Spinoza (che potrebbe essere stato influenzato dal panteismo biblico)
e John Toland (che coniò il termine "panteismo"), così come sulle
influenze contemporanee. La maggioranza delle persone che possono identificarsi
come "panteiste" appartengono al tipo classico (come gli Indù, i
Sufi, gli Unitaristi, i neopagani, i seguaci della New Age, etc), mentre molte
persone che identificano se stesse come panteiste (non essendo membri di
un'altra religione) appartengono al tipo naturalista. La divisione tra le tre
branche del panteismo non sono completamente chiare in tutte le situazioni,
rimanendo dei punti di controversia nei circoli panteisti. I panteisti classici
generalmente accettano la dottrina religiosa secondo cui ci sarebbe una base
spirituale per tutta la realtà; mentre i panteisti naturalisti generalmente non
concordano, piuttosto intendendo il mondo in termini più naturalistici. La
confusione tra i concetti di panteismo e ateismo è un problema antico in
linguistica. GL’ANTICHI ROMANI si rifereno ai cristiani come atei e le
spiegazioni di questo fenomeno semantico possono variare. Metodi di
spiegazione Una caratteristica spesso citata del panteismo è che ogni essere
umano, essendo parte dell'universo o della natura, è parte del divino. Uno dei
problemi discussi dai panteisti è come possa esistere il libero arbitrio in un
contesto simile. In risposta, qualche volta è data la seguente analogia
(particolarmente dai panteisti classici): "stai a Dio come una tua singola
cellula sta a te". L'analogia sostiene anche che, sebbene una
cellula possa essere cosciente del suo ambiente e abbia persino qualche scelta
(libero arbitrio) tra giusto e sbagliato (uccidere un batterio, divenire
cancerogena o non fare semplicemente niente), ha presumibilmente una
comprensione limitata dell'essere più grande, di cui fa parte. Un altro modo di
comprendere questo tipo di relazione è tramite la frase indù tat tvam asi -
"quello che sei", in cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa
medesima di Dio o Brahman. Nel contesto indù, si crede che il singolo debba
essere liberato attraverso l'illuminazione (moksha), in modo da sperimentare e
capire pienamente questa relazione: la parte diventa non dissimile dal
tutto. Non tutti i panteisti accettano l'idea del libero arbitrio, dato
che il determinismo è largamente diffuso, particolarmente presso i panteisti
naturalistici. Sebbene le interpretazioni individuali del panteismo possano
suggerire certe implicazioni per la natura e l'esistenza del libero arbitrio
e/o determinismo, il panteismo non implica il requisito di credere in entrambi.
Comunque, il problema è largamente discusso ed è presente in molte altre
religioni e filosofie. Dibattito Alcuni sostengono che il panteismo è
poco più che una ridefinizione della parola il divino per definire esistenza,
vita o realtà. Molti panteisti direbbero che, se fosse così, un tale
cambiamento nel modo in cui pensiamo a queste idee servirebbe a creare una
nuova e potenzialmente più perspicace concezione sia dell'esistenza, che di
Dio. Forse il più significativo dibattito all'interno della comunità
panteistica è quello riguardante la natura di Dio. Il panteismo classico crede
in un Dio personale, cosciente e onnisciente e vede questo Dio come unificante
di tutte le vere religioni. Il panteismo naturalistico crede invece in un
Universo non cosciente e non senziente che, sebbene sacro e meraviglioso, è
visto come un Dio in senso non tradizionale e non personale. I punti di
vista compresi all'interno della comunità panteista sono necessariamente
diversi, ma l'idea centrale, che vede l'Universo come un'unità onnicomprensiva
e la sacralità sia della natura che delle sue leggi, è comune. Alcuni panteisti
sostengono, inoltre, un fine comune di natura e uomo, sebbene altri rifiutino
l'idea di un fine e vedano l'esistenza come esistente di per sé. Concetti
panteistici nella religione Induismo È
generalmente riconosciuto che i testi religiosi indù sono i più antichi
conosciuti in letteratura contenenti idee panteistiche. Nella teologia indù,
Brahman è la realtà infinita, immutabile, immanente e trascendente che è il
Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo e che è anche la somma totale di
tutte le cose che sono, sono state e saranno. Questa idea di panteismo è rintracciabile
in alcuni testi più antichi come i Veda e gli Upanishad e nella più tarda
filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya degli Upanishad, in un modo o nell'altro,
sembrano indicare l'unità del modo con Brahman. Upanishad dice Tutto in
questo Universo in realtà è Brahman; da lui esso procede; all'interno di lui è
dissolto; in lui respira, così lasciate che ognuno lo adori
tranquillamente". Inoltre dice: "Tutto l'Universo è Brahman, da Brahman
a una zolla di terra. Brahman è la causa efficiente e materiale del mondo. Egli
è il vasaio da cui si forma il vaso; egli è la creta con il quale è fabbricato.
Tutto proviene da Lui, senza perdita o diminuzione della fonte, come la luce
irradiata dal sole. Ogni cosa è unita entro Lui ancora, come le bolle che
esplodono si uniscono all'aria, come i fiumi sfociano negli oceani. Tutto
proviene e ritorna al divino, come la tela di un ragno è fabbricata e ritratta
dal ragno stesso, Negli inni del Rig Veda, una traccia di pensiero panteista
può essere riconosciuta nel libro decimo. Questa concezione di Dio lo vede come
l'unità, con gli dei personali e individuali aspetto dell'Unico, sebbene
differenti divinità siano viste da diversi fedeli come particolarmente adatte
alle loro preghiere. Come il sole emana raggi di luce che provengono dalla
stessa fonte, lo stesso avviene dagli sfaccettati aspetti di Dio emanati da
Brahman, come più colori dallo stesso prisma. Il Vedānta, specificatamente
l'Advaita, è una branca della filosofia indù che pone grande accento su questa
materia. Molti aderente vedantici sono monistio "non-dualisti, vedendo le
molteplici manifestazioni di un solo Dio o della fonte dell'essere, una visione
che è spesso considerata dai non induisti come politeista. Il panteismo è
la componente chiave della filosofia Advaita. Altre suddivisione dei Vedanta
non sostengono in maniera peculiare le stesse istanze. Per esempio, la scuola
Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia il Dio esterno personale Vishnu,
laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il Panenteismo. Ebraismo Il
senso radicalmente immanente del divino nella mistica ebraica (Kabbalah) si
ritiene abbia ispirato la formulazione del panteismo da parte di Spinoza.
Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata recepita dall'Ebraismo
ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il panteismo spinoziano
fosse una conseguenza della lettura di Malebranche da parte del filosofo
olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che osserviamo è in Dio stesso. Ciò
equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa di ancor più
oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non solo vediamo tutto in Dio, ma Dio
è anche l'unica attività, sicché le cause fisiche sono mere occasionalità
(Ricerca della verità,. E così qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di
Spinoza che pare abbia appreso più da Malebranche che da Descartes.
(Schopenhauer, Parerga e paralipomena, "Schizzo di una storia della teoria
dell'ideale e del reale"). Inoltre, Eliezer, fondatore dello chassidismo,
aveva un senso mistico del divino che può essere definito come
Panenteismo. Secondo l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è
basata sulla Torah (legge) della natura. Pertanto la Torah originale non è
rinvenibile negli scritti di Mosè, bensì nella natura stessa.
"Interpretare" la Torah della natura equivale ad
"interpretare" la Torah della rivelazione e teoricamente alla fin
fine coincideranno l'una con l'altra [come si dimostra ad esempio con la
scoperta del Big Bang. L'ortodossia rabbinica considerando questa posizione
come una discrepanza, allo scopo di porre la Torah scritta al di sopra di
quella data per prima in natura, ha sostenuto che la Torah scritta precedette
la creazione, infatti a partire dalla Torah scritta che Dio ha parlato nella
creazione. Questa posizione non è accolta dai panteisti biblici.
Maimonide, benché Ortodosso, nei suoi scritti sulla riconciliazione fra le
sacre scritture e la scienza, accolse l'opinione dell'equivalenza fra la Torah
della natura e la Torah delle scritture e trovò la sua logica come inevitabile.
Queste tesi, senza dubbio, servirono da sfondo per lo sviluppo delle teorie di
Spinoza. Cristianesimo Vi è un certo numero di tradizioni minori
nell'ambito della storia del Cristianesimo secondo le quali le origini del loro
credo panteistico sono da rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre
correlate tradizioni ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è
rintracciabile a partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino
ad arrivare alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale
e del protestantesimo liberale. Altre fonti includono la Teologia
del processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito,
altri ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto,
per qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo. Alcuni
Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene
insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta
personifica se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che
il Padre è al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri,
lo Spirito Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per
benedire la gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali
si ritiene che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo. I
panteisti di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è
rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed
attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno
sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e
della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una
formulazione per il Cristo come verbo di Dio e per l'unità del
Monoteismo. Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la
definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo
richiamo verso questo sistema di credenze. I panteisti cristiani
sostengono che la definizione cattolica del divino è pesantemente influenzata
da fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il neo-Platonismo, che
considerano il divino come qualcosa che esiste fuori dall’esistenza, pertanto
la definizione del divino si riferiva ad un qualcosa che non esiste, cioè, ad
un Dio non-esistente. È proprio questa basilare definizione neo-platonica di
non-esistenza che i panteisti cristiani ritengono biasimevole e contraria alle
scritture. Agostino rigettò il panteismo per i seguenti motivi: Ma
c'è un motivo che, al di là di ogni passione polemica, deve indurre uomini
intelligenti o comunque siano, perché all'occorrenza non si richiede un'alta
intelligenza, a fare una riflessione. Se Dio è la mente del mondo e se il mondo
è come un corpo a questa mente, sicché è un solo vivente composto di mente e di
corpo ed esso è Dio che contiene in se stesso tutte le cose come in un grembo
della natura; se inoltre dalla sua anima, da cui ha vita tutto l'universo
sensibile, vengono derivate la vita e l'anima di tutti i viventi secondo le
varie specie, non rimane nulla che non sia parte di Dio. Ma se questa è la loro
tesi, tutti possono capire l'empietà e la irreligiosità che ne conseguono.
Qualsiasi cosa si pesti, si pesterebbe una parte di Dio; nell'uccidere
qualsiasi animale, si ucciderebbe una parte di Dio. Non voglio dir tutte le
cose che possono balzare al pensiero. Non è possibile dirle senza vergogna.
come pure: Riguardo allo stesso animale ragionevole, cioè l'uomo, la cosa
più banale è ritenere che una parte divina prende le botte quando le prende un
fanciullo. E soltanto un pazzo può sopportare che le parti divine divengano
dissolute, ingiuste, empie e in definitiva degne di condanna. Infine perché il
dio si arrabbierebbe con coloro che non lo onorano se sono le sue parti a non
onorarlo?[5] Nel Vangelo secondo Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani),
Gesù disse: Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il
Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e
io sono là; solleva la pietra e là mi troverai. Tuttavia questa è
un'affermazione dell'onnipresenza di Dio, non in senso panteistico, ma in
armonia con l'insegnamento che ogni apparenza fenomenica è riflesso della luce
divina. informazioni Questa voce o sezione sull'argomento religione non cita le
fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La maggioranza dei
Musulmani condanna il concetto di panteismo e lo considera come un insegnamento
non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto dai musulmani contenere
insegnamenti panteistici. Il Sufismo può essere suddiviso nelle seguenti
categorie: Sufismo originario - Sincretico: Mescola insieme dottrine e
concetti dell'Islam con credenze e pratiche religiose locali dei paesi
Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi non-Islamici. Sufismo ḥadīth -
Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle forme ortodosse della spiritualità
e del misticismo Islamico. Essenzialmente ortodosso e considerato
prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici. Sunniti o Sciiti.
Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto scritto nel
Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth come
altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come una
forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico. Ha
subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del Protestantesimo.
Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth. Il
concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di
Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto
diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed
individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda
della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente
dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi
Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano
come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata
in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti
è panteista, o per essere più precisi, Panenteista. Gli scritti di Seth e
il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle
credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto
al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come
presentati dalla medium Roberts. Seth, l'"entità" cui da voce la
Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa energia mentale
è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose; la coscienza di
Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio è onnipresente.
Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che è" e diceva che
"Tutte le facce appartengono a Dio". Seth descriveva Dio come una
forma contenente tutti gli individui al suo interno; inoltre aggiungeva che Dio
si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun individuo. Tuttavia, questo
insegnamento ha molto in comune con il correlato concetto di panenteismo, dato
che pone in risalto la personificazione di Dio e quindi si trasforma in un
teismo. Altre religioniModifica Molti elementi panteistici sono presenti
in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e Teosofiainsieme a molte variabili
denominazioni. Si veda anche la Neopagana Gaia e la Church of All Worlds.
Molti Universalisti si considerano panteisti. Il filosofo Carus si define
un ateista che ama Dio. Egli critica ogni forma di monismo che cerca l'unità
del mondo non nell'unità della verità bensì nella unicità di una logica
supposizione di idee. Carus define tali concetti come henismo. Il Taoismo
propugna una visione panteistica. Il Tao potrebbe essere paragonato al
Deus-sive-Natura di Spinoza. Concetti connessiModifica
PanenteismoModifica Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma
non coincidono: il primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come
parte di Dio. Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre
per il panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è
superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello
spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo). Per alcuni tale
distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di
divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero
essere descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile
per il panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla
sola natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo
si rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e
Shri Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista. CosmismoModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e
World Brain. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento
filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali.
Mentre questo termine è raramente usato, e molto spesso è solo un sinonimo di
Panteismo, l'insolita filosofia da esso indicata è stata utilizzata in modo
piuttosto differente, ma in ogni caso con essa si vuole esprimere il concetto
che Dio è un qualcosa creato dalla mente umana, forse rappresenta uno stadio
finale della evoluzione dell'uomo, raggiunto attraverso la pianificazione
sociale, l'eugenetica e altre forme di ingegneria genetica. Wells diede
vita a una forma di cosmismo, che denominò World Brain (cervello mondiale),
rifacendosi a un saggio da lui in cui viene tra l'altro descritta la creazione
di una biblioteca-enciclopedia. Tale idea venne ripresa nel libro God the
Invisible King, in cui l'autore consiglia all'umanità di istituire un sistema
socialista, strutturandolo sui dati statistici sociali ed eugenetici,
sull'istruzione e l'eugenetica, in modo che un giorno idealmente possa essere
alla pari e possibilmente anche fondersi con la stessa divinità panteista, e
anche in alcuni paragrafi di Outline of History, che richiamavano tali credenze
dell'autore e le sue ricerche sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste
idee vengono riprese nel suo libro Shape of Things to Come e nel film da esso
tratto nel Things to Come; in essi viene descritta l'umanità che, sopravvivendo
ad una guerra apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si unisce per dar
vita ad una utopia collettivista. In Israele, il Cosmismo è stato oggetto
di studio da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi ideologi del Movimento
Laburista Israeliano e docente presso l'Università di Beit Berl. Secondo questo
autore Dio è qualcosa che non esisteva prima dell'uomo, ma era una entità
secolare. Infatti fu la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ad avere un
ruolo nell'"invenzione" di questa entità. Nel XX secolo, lo
statunitense Pierce, un nazionalista bianco iscritto nel Partito Nazista
Americano e, a sua volta, fondatore del movimento Alleanza Nazionale, utilizza
il termine cosmismo. Per Pierce (così come per Wells), Dio sarebbe il risultato
finale dell'eugenetica e dell'igiene razziale. Si veda: Nazismo, Galton e
Teosofia. La noosfera descritta da Vernadsky e Chardin puo essere
considerata come la descrizione di una divinità Cosmistica, come anche la
coscienza collettiva di Émile Durkheim e l'inconscio collettivo di
Jung. Clarke fa un possibile riferimento alla Noosfera Cosmista nel suo
libro Childhood's End o Le guide del tramonto, riferendosi ad essa come la
"Overmind", una mente alveare interstellare. Il Pandeismo è una
specie di Panteismo che include una forma di Deismo, sostenendo che l'Universo
è identico a Dio, ma anche che Dio precedentemente fu una forza cosciente e
senziente ovvero una entità che progettò e creò l'Universo. Diventando
l'Universo, Dio divenne inconscio e non senziente. A parte questa distinzione
(e la possibilità che l'Universo un giorno ritornerà ad essere Dio), le
credenze Pandeistiche sono identiche a quelle del Panteismo. Secondo
Schopenhauer, nel panteismo non vi è etica. Il panteismo, nel suo complesso,
naufragherebbe a fronte delle inevitabili esigenze etiche e quindi non avrebbe
risposte sul male e sulle sofferenze del mondo. Se il mondo è una teofania,
allora ogni cosa fatta dagli uomini, ed anche dagli animali, è da considerarsi
parimenti divina ed eccellente; niente può essere giudicato più censurabile e
più meritevole rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è etica. (Il mondo
come volontà e rappresentazione, Tuttavia, alcuni panteisti sostengono che il
punto di vista panteista è molto più etico, evidenziando che ogni danno
arrecato all'altro è come fare male a se stessi, perché arrecare danno ad uno è
come arrecare danno a tutti. Ciò che è bene e ciò che è male non dipende da
qualcosa al di fuori di noi, ma è il risultato di come ci rapportiamo gli uni
con gli altri. Il fare bene non si deve basare sulla paura di una punizione da
parte di Dio, bensì deve scaturire da un reciproco di tutti verso tutto.
Le forme tradizionali e le varie definizioni di panteismo, comunque, rinviano
ai loro testi sacri e ai loro maestri per le definizioni di ordine etico. Levine, Pantheism: A
Non-Theistic Concept of Deity, Londra e New York, Routledge, Il Panteismo. Una concezione non-teistica della divinità, Genova,
ECIG, Constance E. Plumptre, General Sketch of the History of Pantheism,
Londra, W. W. Gibbings, Chandogya Upanishad 3-14 traduzione di Monier-Williams
^ La Città di Dio, La Città di Dio, Testo del Vangelo secondo Tommaso God the
Invisible King Voci correlateModifica Dio Monismo Monoteismo Teismo Deismo
Pandeismo Panenteismo Naturalismo (filosofia) Panpsichismo Panteismo
naturalistico Panteismo classico Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote
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esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Panteismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su
Wikidata ( EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Appleton Mander,
Pantheism, Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for
the Study of Language and Information, Stanford. Tanzella-Nitti, Panteismo del Dizionario
Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Portale Filosofia
Portale Mitologia Portale Religioni Monismo (religione)
Panenteismo scuola filosofica Panteismo naturalistico. Lorenzo Giusso. Giusso.
Keywords: gl’eroi, il vico di giusso, la tradizione ermetica nella filosofia
italiana, nazionalsocialismo, bruno, panteismo, leopardi, occasionalismo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giusso” – The Swimming-Pool Library. Giusso.
Grice e Giustino:
la ragione conversazionale e la gnossi a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. Giustino is cited by Ippolito di
Roma as the originator of what Ippolito describes as a pagan form of gnosticism
in which a wide variety of disparate elements are brought together.
Grice e Giustino:
la ragione conversazionale e la setta di Napoli -- Roma – filosofia campanese –
filosofia napoletana – scuola di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo campanese. Filosofo napoletano. Filosofo
italiano. Napoli, Campania. He studies various schools of philosophy with his
friend Trifone, but could not decide. He shows his scepticism in a letter to
Antonino Pio. He irates Crescente, who has a mob kill him. Grice e Giustino. Giustino.
Grice e Givone: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei fanes – la scuola di Buronzo -- filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza -- Givone
(Buronzo). Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Buronzo, Vercelli, Piemonte. Grice: “I like
Givone, especially his two essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more
controversial, ‘eros and knowledge.’ Si
laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato a Perugia, Torino e Firenze. Alcuni
suoi lavori riguardano la poetica e l’estetica all’ombra del nichilismo. Da
questa riflessione nasce anche la sua ricerca sulla “Storia naturale del nulla”
-- e sulle implicazioni sullo tragico.
In sua estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il malinconico,
‘l’ibrido – Saggi: “La storia della filosofia secondo Kant” (Milano, Mursia);
“Hybris e malinconia: Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano, Mursia); “William
Blake. Arte e religione, Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo, Milano,
Mursia, Dostoevskij e la filosofia, Roma, Laterza, Storia dell'estetica, Roma, Laterza,
Disincanto del mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore, La questione romantica, Roma, Laterza, Storia
del nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos,
Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi, Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il
bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi, Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica
della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi
dell'amore ferito, Firenze, Olschki, Sull'infinito,
il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice:
“I like Givone; he philosophises on ‘eros,’ but fails to notice that for Butler
there’s self-love and other love; instead, Givone prefers to contrast ‘eros’
with ‘ethos’!” “His ramblings on Phanes are fun, though!” – Grice: “Not
satisfied with metaphysics, Givone goes to criticize Marinetti’s hybris, or
superbia, i. e. lack of moderation. His ottimismo notably contrasts with the
decadentismo of the croposcolaristi. Futurismo movimento artistico, culturale, musicale e
letterario italiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua. svg Disambiguazione
– Se stai cercando altri significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori
informazioni Questa voce o sezione sull'argomento arte è priva o carente di
note e riferimenti bibliografici puntuali. Il Futurismo è stato un movimento
letterario, culturale, artistico e musicale italiano dell'inizio del XX secolo,
nonché una delle prime avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini
che si svilupparono in altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati
Uniti d'America e in Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione:
la pittura, la scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica,
l'architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La
denominazione del movimento si deve al poeta italiano Marinetti. Boccioni
La città che sale, bozzetto, Museum of Modern Art, New York OriginiIl manifesto
del Futurismo pubblicato su Le Figaro (qui evidenziato in giallo) Il Futurismo
nasce in Italia, in un periodo di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo
dell'arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le
guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e
le nuove scoperte tecnologichee di comunicazione, come il telegrafo senza fili,
la radio, gli aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a
cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo,
"avvicinando" fra loro i continenti, creando nuove connessioni.
Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà:
la velocità. I futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le
biblioteche" in modo da non avere più rapporti con il passato per
concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso
ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le
automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luci
artificiali, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro e velocità sia nel
tempo impiegato per produrre o arrivare a una destinazione, sia nei nuovi spazi
che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione. Severini
racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se aderire o
meno al Futurismo parlò anche con MODIGLIANI (si veda), che egli avrebbe voluto
nel gruppo, ma il pittore declinò l'offerta perché come scrisse:
«Queste manifestazioni non gli andavano, il complementarismo congenito lo
fece ridere, e con ragione, perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi
in quelle storie; ma io avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre
ero, e sono sempre stato pronto ad accettare l'avventura. Severini, Vita di un
pittore Primo Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante
progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi,
da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri
della radiosa magnificenza del futuro…» (dal Manifesto dei pittori
futuristi) Una scazzottata futurista A seguito di una serie di articoli critici
di Ardengo Sofficisu La Voce vi fu una reazione violenta dei futuristi:
Marinetti, Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a Firenze e lo aggredirono
mentre sedeva al caffè delle "Giubbe Rosse" in compagnia dell'amico
Medardo Rosso. Ne nacque una grande pubblicità e un grande tumulto rinnovatosi
alla sera, alla stazione di Santa Maria Novella, quando Soffici, accompagnato
dagli amici Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e Alberto Spaini, volle
rendere la contropartita. «Fu una vera spedizione punitiva, che mi
fu raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici. I futuristi appena arrivati
a Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevano di trovare Soffici,
Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori della Voce. Boccioni domanda ad
un cameriere: «Chi è Soffici?»; sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e
senza spiegazioni gli appioppa un paio di schiaffoni; Soffici per niente
smontato si alza risponde con una scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole
seggiole per terra, bicchieri rotti e questurini che portano tutti al
commissariato. Per fortuna caddero in un commissario intelligente che capisce
con chi aveva a che fare; visto che Soffici e quelli della Voce non volevano
far querela d'aggressione, li rimandò tutti fuori come se niente fosse stato. I
futuristi, vendicate le ingiurie, andarono alla stazione dove un treno, pressappoco
a quell'ora, doveva riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado si
fossero ben difesi, non erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta
anch'essi alla stazione. Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro
incontro, e un altro violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi
futuristi. Ma fecero in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma
soddisfatti. Severini, Vita di un pittore Nel Manifesto Futurista, pubblicato
inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di Napoli, la
Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di Verona) e,
definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le Figaro,
Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a Milano i pittori
Boccioni, Carrà, Balla, Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei
pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della
pittura futurista. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una
fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie
(bollate con l'etichetta di passatismo, tra cui figura anche il Parsifal di
Wagner, che cominciò a essere rappresentato nei teatri d'Europa). Si esaltavano
inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria, il militarismo, il nazionalismo
e la guerra, che veniva definita come "sola igiene del
mondo. Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi per
l'inaugurazione della prima mostra. La prima importante esposizione futurista
si tenne a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune. All'inaugurazione della
mostra erano presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo.
L'accoglienza iniziale fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento
suscitò un certo interesse divenendo presto oggetto di attenzioni
internazionali tanto da favorire la riproposizione della mostra anche in altre
città europee come Berlino. La riconciliazione con i futuristi avvenne in
seguito, grazie alla mediazione dell'amico Palazzeschi. Infatti, Soffici e
Papini uscendo da La Vocedecisero di fondare la rivista Lacerba appoggiando
così il movimento futurista. Alla morte di Umberto Boccioni, Carrà e
Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di
conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da
Milano a Roma, con la conseguente nascita del secondo Futurismo. In prima
fila Depero, Marinetti e Cangiullo con panciotti "futuristi" Il
secondo Futurismo fu sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava due
anni dopo la morte di Boccioni, e fu caratterizzata da un forte legame con la
cultura post-cubista e costruttivista; la seconda invece, fu molto più legata alle idee del
surrealismo. Di questa corrente - che si concluse attraverso il cosiddetto
"terzo Futurismo", portando anche all'epilogo del futurismo stesso -
fecero parte molti pittori fra cui Colombo, Prampolini, Sbardella, Diulgheroff,
Tulli ma anche Sironi, Soffici, Rosai, Testi e la moglie Stagni. Se la prima
fase del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica
(in pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la
seconda stagione ebbe un effettivo legame con IL REGIME FASCISTA, nel senso che
abbraccia gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di
speciali favori. I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel
panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del
futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo e al
bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi
ritenuti principali è fagocitato dal FASCISMO. Anche se la gerarchia
fascista riserva ai futuristi coevi una sotto-valutazione talvolta sprezzante,
l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del
Futurismo sono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che
alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze
dall'ideologia fascista (Carrà, ad esempio, abbraccia la metafisica). Altri
ancora, come il giovane pittore maceratese Tulli, mantennero costantemente un
approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con L’ESTETICA
FASCISTA, anche nelle successive esperienze di pittura informale. Goncharova Il
ciclista, Museo russo, San Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era
stato pubblicato a San Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e
Gončarova e Larionov, che in patria verrà definito il padre del Futurismo
russo, furono i concreti iniziatori del movimento in Russia. Il pittore Malevič,
il compositore Matjušin e lo scrittore Kručënych redassero il manifesto del
Primo congresso Futurista russo. Al movimento, conosciuto anche come
Cubofuturismo o Raggismo, aderirono personalità come il poeta e drammaturgo
Majakovskij. Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal movimento
d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti la
rivoluzione due importanti avanguardie artistiche, il Costruttivismo e il
Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico dedicarono a Marinetti
fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte dei futuristi russi,
alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita di Marinetti. Altri
invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il temperamento e le
declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma Marinetti tentò
invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i futuristi
italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič, Majakovskij e
anche il regista Larionov criticarono Marinetti. L'ultima "mostra
futurista" si tenne a Pietrogrado. In Russia il movimento non fu
caratterizzato dal bellicismo come quello dei futuristi italiani, criticato da
Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica idea di pace e libertà, sia
individuale dell'artista, sia collettiva del mondo, che si sarebbe concluso con
l'adesione di una parte del gruppo al bolscevismo. Dopo la rivoluzione
d'ottobre molti futuristi confluirono nel cubismo e nell'astrattismo.
Futurismo francese In Francia il Futurismo non si organizzò mai come movimento,
ma ebbe almeno due nomi degni di nota: Apollinaire e Saint-Point.
Apollinaire scrive il manifesto L'antitradition futuriste, pubblicato su
Lacerba solo dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi
Calligrammes rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista sul poeta
francese. Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine, scrisse il
Manifesto della donna futurista, con il sottotitolo “Risposta a Marinetti”, in
un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a Milano. è il Manifesto
futurista della lussuria. Orientamenti artistici Nelle opere futuriste è
quasi sempre costante la ricerca del dinamismo; cioè il soggetto non appare mai
fermo, ma in movimento: ad esempio, per loro un cavallo in movimento non ha
quattro gambe, ne ha venti. Così la simultaneità della visione diventa il
tratto principale dei quadri futuristi; lo spettatore non guarda passivamente
l'oggetto statico, ma ne è come avvolto, testimone di un'azione rappresentata
durante il suo svolgimento. Per rendere l'idea del moto nelle arti visive
tradizionali, immobili per costituzione, il Futurismo si serve, nella pittura e
nella scultura, principalmente delle “linee-forza”; poiché la linea agisce
psicologicamente sull'osservatore con significato direzionale, essa,
collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e
diventa forza centrifuga e centripeta, mentre oggetti, colori e piani si
sospingono in una catena di contrasti simultanei, determinando la resa del
“dinamismo universale”. PitturaJoseph Stella Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras, Yale. A Milano gl’artisti d'Italia avevano pubblicato i
manifesti sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del
dinamismo plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla
passò dallo studio delle vibrazioni luminose (divisionismo) alla
rappresentazione sintetica del moto. Boccioni, Carrà e Russolo esposero a
Milano le prime opere futuriste alla "Mostra d'arte libera" nella
fabbrica Ricordi. Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni
artistiche legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere
letterarie e teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata
capacità espressiva. Le radici del fermento che portò alla declinazione
del Futurismo nell'arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già
nella Scapigliatura - corrente tipicamente milanese e borghese della seconda
metà dell'Ottocento - laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l'attenzione
dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale, sulle
fabbriche. Dal punto di vista stilistico il Futurismo - in particolare
quello boccioniano - si basa sui concetti del divisionismo che però riesce ad
adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di
simultaneità: è grazie ad artisti come Segantini e PELLIZZA da Volpedo che,
pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti come La
città che sale. Opera futurista di Emma Marpillero Corradi Dal
punto di vista concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi
cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di
essi sulla tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la
superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa
prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende
possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione
esclusivamente spaziale (il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone
ogni aspetto), il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione
temporale, il movimento. Altrettanto interessanti sono i rapporti
stilistici tra il Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Delaunay.
Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i più importanti
esponenti delle avanguardie russe e tedesche. Equiparare, infine, la ricerca
futurista dell'attimo con quella impressionista, come è stato fatto in passato,
è ormai considerato profondamente errato. Se è vero infatti che gli
impressionisti fecero dell'"attimalità" il nucleo della loro ricerca
- loro scopo era fermare sulla tela un istante luminoso, unico e irripetibile -
la ricerca futurista si muoveva in senso quasi opposto: suo scopo era
rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma il movimento stesso,
nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale. Come
conseguenza dell'"estetica della velocità", nelle opere futuriste a
prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge infatti l'oggetto e lo
spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni, degli aeroplani
(Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle azioni quotidiane
(del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona, della bimba che corre
sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e pennellate che
mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La costruzione può essere
composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche da pennellate lineari,
intense e fluide se il moto è più armonioso. Tra gli epigoni più
interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e del
costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei due
manifesti sulla pittura. Due tra i principali esponenti del movimento
pittorico, Boccioni e Balla, furono presenti anche nella scultura. La pittura
di Boccioni è stata definita "simbolica": il dipinto La città che
sale, per esempio, è una chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle
scene di cantiere edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa
crescita dalla potenza del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si
scompone per piani. Se Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico.
Ancora legato a principi cubisti, non è raro che realizzi sequenze
fotogrammetriche di una scena, per rendere il movimento, piuttosto che
affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è il caso del posato Bambina che
corre al balcone. Scultura Boccioni Forme uniche della continuità nello
spazio, New York, Museum of Modern Art L'artista futurista più attivo nel campo
della scultura è Umberto Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre
parallela a quella plastica. Lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto
tecnico della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere
considerato Forme uniche della continuità nello spazio: l'immagine, applicando
le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo spazio
circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo in sé
stessa. Anche in L'Antigrazioso o La madre, immediatamente precedente,
sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella continuità dello
spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di plasticità derivanti da
influssi naturalistici. MosaicLa tecnica del mosaico, basata
sull'utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata molto bene a
esprimere i modi e il dinamismo intesi dall'arte futurista. Enrico
Prampolini e Fillia eseguono l'importante mosaico dedicato al tema delle
Comunicazioniall'interno della torre del Palazzo delle Poste di La
Spezia. Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le
Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici
futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato,. ArchitetturaMagnifying
glass icon mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio: Architettura futurista.
«Il problema dell'architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento
lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove marginature di
finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi,
mosconi, rane: ma di creare di sana pianta la casanuova, costruita
tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…» (Antonio
Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo Nuove
Tendenze) Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della Città Nuova.
Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. Arnaldo Dell'Ira lampada "a
grattacielo Pettazzi Stazione di servizio "Fiat Tagliero",
Asmara. Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del movimento,
era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel movimento del
cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera attivo Giuseppe
Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande influenza sulla
formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici del
futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di
Varese. Sant'Elia pubblica il Manifesto dell'Architettura futurista, dove
esponeva i principi di questa corrente. Al centro dell'attenzione c'è la città,
vista come simbolo della dinamicità e della modernità. Tutti i progetti creati
da Sant'Elia si riferiscono a città del futuro: in contrapposizione
all'architettura tradizionale, vista come inadeguata, le città idealizzatedagli
architetti futuristi hanno come caratteristica fondamentale il movimento, i
trasporti e le grandi strutture. I futuristi, infatti, compresero
immediatamente il ruolo centrale che i trasporti avrebbero assunto
successivamente nella vita delle città. Nei progetti di questo periodo si
cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia futurista è una città in
perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte, un continuo cantiere in
costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è impregnata di
dinamicità. Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique simboleggia
questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei progetti
futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa. Le teorie
futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano
espressione di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a
metodi formali e tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni
dell'architettura e della città che saranno proprie del Movimento
Moderno. A causa della guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia il
movimento futurista in Italia perse il suo slancio. L’originaria proposta
futurista dei primi tempi è raccolta piuttosto dai costruttivisti russi. Il
movimento razionalista italiano cercherà di proporre gli scenari della Città
Nuova delle utopie futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi
privilegiando un monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso
avvenne in Unione Sovietica con il sopravvento del regime totalitario.
Tra i grandi esponenti dell'architettura da ricordare Chiattone, che visse con
Sant'Elia a Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando
straordinarie visioni di città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e
abbandonare la militanza. E infine Marchi, che operò anche come
scenografo. Al Secondo Futurismo appartengono le architetture di Mazzoni,
autore di notevoli edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in
funzione in diverse città italiane. CeramicaPer le sue possibilità
espressive, anche la ceramica interessa il movimento futurista. In particolare
i ceramisti dell'ISIA espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Sulla
Gazzetta del Popolo a firma Marinetti ed Albisola viene pubblicato il Manifesto
futurista della Ceramica e Aereoceramica. Il centro propulsore della ceramica
futurista italiana fu Albissola Marina. Musica Modifica In campo musicale
gli unici rappresentanti di rilievo sono Pratella e Russolo, pittore, musicista
e scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori. L'arte dei rumori è
considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti
nell'estetica musicale del XX secolo. A Russolo si deve l'invenzione
dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria
del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni dovevano essere
sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che
permettevano di controllare la dinamica e il volume. Letteratura Modifica
Da sinistra: Palazzeschi, Carrà, Papini, Boccioni, Marinetti, Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo
Tommaso Marinetti. Marinetti invia il Manifesto del Futurismo ai principali
giornali italiani, ma è la pubblicazione su Le Figaro a garantirgli risonanza
europea. Sulla rivista fiorentina Lacerba, comparve il "Manifesto tecnico
della letteratura futurista. è il volume Zang Tumb Tumb, miglior esempio delle
futuriste Parole in libertà. Poesia. I poeti futuristi si riuniranno
attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche anno prima. Nei
componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e delle sensazioni
forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti, oltre al
Marinetti, sono: Palazzeschi, autore della raccolta poetica L'incendiario (che
include "La fontana malata", "E lasciatemi divertire" e
"La passeggiata"); Soffici, autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità
– Chimismi lirici; Paolo Buzzi, autore di Aeroplani. Canti alati. Anche
Quasimodo aderì, in gioventù, al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera
d'estate. A un successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene
l'Aeropoesia. Teatro Modifica Magnifying glass icon mgx2. svLo stesso
argomento in dettaglio: Teatro futurista. I futuristi perseguirono la
rifondazione del concetto stesso di comunicazione teatrale. Promossero un
teatro «sintetico, atecnico, dinamico, simultaneo, autonomo, alogico e
irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al pregiudizio della teatralità,
soddisfare la primitività delle folle, curarsi della verosimiglianza, voler
spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si rappresenta, sottostare alle
imposizioni del crescendo, della preparazione e del massimo effetto alla fine,
lasciare imporre alla propria genialità il peso di una tecnica che tutti
possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel vuoto della creazione
totale». I futuristi, infatti, possedettero una «invincibile ripugnanza»
per il lavoro studiato a tavolino, a priori, sostenendo l'improvvisazione, il
teatro come «serbatoio inesauribile di ispirazioni». «Tutto è teatrale
quando ha valore» (Il teatro futurista sintetico di Marinetti, Settimelli
e Corra) Il teatro futurista promosse anche la commedia e la farsa, anziché la
tragedia, o il dramma borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era
inusuale vedere il pubblico adirato a causa di spettacoli fatti di azioni
deliranti. Le cronache dell'epoca riportano notizie relative agli attori
futuristi che sfuggono all'ira degli spettatori, spesso provocata ad arte
secondo gli intenti espressi nel Manifesto futurista del teatro di
varietà. Cinema Magnifying glass icon mgx2. svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Cinema futurista. Venne pubblicato il Manifesto della Cinematografia
futurista, firmato da Marinetti, Corra, Ginna, Balla, Chiti ed Settimelli, che
sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie
alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema
narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di
"viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo
"antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico,
parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di
un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come
un retaggio vecchio. I futuristi, per allontanare il cinema dal passato,
ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e
bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che
verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della
perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori
forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante
la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini
disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di
Firenze. Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la
tragedia Tahïs di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del comico
Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta tutta
raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi
rintracciabili su YouTube). Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di
questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Il cuoco francese
Maincave adere al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di nuovi sapori
ed elementi fino ad allora separati senza serio fondamento. Questo comprende
accostamenti come filetto di montone e salsa di gamberi, noce di vitello e
assenzio, banana e groviera, aringa e gelatinadi fragola. Marinetti
pubblica il Manifesto della cucina futurista sulla rivista Comoedia. Secondo
Marinetti bisognava eliminare la pastasciutta, così come forchetta e coltello e
condimenti tradizionali, e incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche,
poesie e profumi. Scrive Marinetti: vi annuncio il prossimo
lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema
alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi
sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata
dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi
principi, l'abolizione della pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita
al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude
sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra
parte patriottico favorire in sostituzione il riso.» Nel suo tempo È
normale che il Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto
molteplici contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato
dalle "tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli ed Annunzio)
i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e alla
raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi suddetti
richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti: esse rientrano
appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo scoppio
della Prima Guerra Mondiale. Secondo i futuristi, questi poeti devono
essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro ingredienti
intellettuali che il Futurismo vuole abolire: la poesia morbosa e
nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la passione
per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la corrente
crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il Futurismo
l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita completamente
diversa: i futuristi inneggiano alle innovazioni, i crepuscolari sono
avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi sono prepotenti,
dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi, pacifici e
malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi città, i
crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo gusto",
gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono sempre protesi
verso un domani esaltante, i crepuscolari guardano al passato e alle piccole
cose quotidiane. Scultura futurista esposta a Milano in Piazzetta
Reale per il centenario del movimento Nelle arti figurative invece si presenta
il confronto con le altre avanguardie, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo,
Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata da propri temi e propri linguaggi
espressivi. L'opera futurista è in evidente contrasto per alcuni temi con molte
delle altre avanguardie sebbene condividano tutte l'intuizione di trasmettere
attraverso l'arte un impulso di trasformazione della società e di rinnovamento.
Aspetto specifico del Futurismo è quello di non limitare la propria azione alle
espressioni artistiche (come il Cubismo o la Metafisica), ma di prospettare la
re-invenzione dell'intera vita, in ogni suo aspetto (e uno dei manifesti
maggiormente rilevanti fu infatti "Ricostruzione futurista
dell'universo" di Balla e Depero). Tra i contemporanei dei futuristi
che criticarono il movimento ricordiamo Giandante X, che a Milano, all'apertura
dei festeggiamenti per il ventennale del Futurismo, contestò apertamente
Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che "l’uomo si deve affrancare dalla
macchina ed è un errore lasciare sussistere lo scombinato movimento
artistico"[20]. Nella critica del dopoguerra Il Futurismo ha
influenzato tutta l'arte d'avanguardia del Novecento. Gli artisti futuristi che
sopravvissero alla morte di Marinetti e alla seconda guerra mondiale caddero in
disgrazia come tutto il Futurismo, con l'accusa di aver fiancheggiato il
fascismo. Nel secondo Novecento nuovi studi di Luciano De Maria, Mario
Verdone, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia Salaris, Giordano Bruno
Guerri hanno parzialmente corretto l'accusa di collusione fascista, rilanciando
l'interesse artistico-sociale verso il futurismo. Studi sul futurismo di
sinistra (i contatti con gli ambienti anarchici, e persino comunisti)
mostravano contemporaneamente che l'avanguardia futurista italiana era stata
troppo sommariamente giudicata. Nel corso del tempo diverse sono state le
esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia rilevanza è stata quella del
2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il centenario del movimento. La
mostra si intitolava Futurismo 1909-2009 Velocità+Arte+Azione. Il Futurismo
italiano, con una grande esposizione retrospettiva fino al 1944 al Guggenheim
Museum di New York a cura di Greene, è tornato alla ribalta internazionale. Il
centenario del Futurismo ha anche contribuito al rilancio internazionale degli
studi sulle artiste del Futurismo e sulla visione della donna nel
Movimento. è stato pubblicato il Manifesto del Fumetto Futurista redatto
da Bonura e uno dei primi, se non il primo, fumetti futuristi programmatici,
cioè seguente esplicitamente uno schema scritto e definito, dal titolo "Il
brutto anatroccolo. Ma che Wow!!" di Gnoffo, a significare l'importanza
che il movimento futurista ha avuto come influenza nel delineare nuovi stili d'arte
di rottura e sperimentali. Principali esponenti del futurismo Futuristi
italiani Marinetti Allimandi Asinari Asinari Antonio Asturi Azari Baldessari
Balla Benedetto Boccioni Bodini Bonetti Bot, pseudonimo di Barbieri Bragaglia
Bruschetti Buzzi Cangiullo Cappa Carli Carmassi Carta Carrà Carramusa Caselli
Castagnedi Cavacchioli Ciacelli Chiti
Conti Corona Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio Crali D'Alba,
pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici Mino Delle Site
Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba EVOLA (si veda), Farfa,
pseudonimo di Tommasini Fillia, pseudonimo Colombo Folgore Gesualdo Frontini
Funi Gambini Giardina Ginna, pseudonimo di Ginanni Corradini Governato Govoni
Jannelli Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele
Leskovic Licini Lucini Magnelli Mai Mainardi Michetti Marasco Marchesi Emma
Marpillero Masnata Mix Sante Monachesi Marisa Mori Munari MUSSOLINI (si veda)
Mussolini (si veda) Notte Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello
Voltolina Pippo Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Papini Pepe Diaz Peruzzi
Piscopo Prampolini Pratella Preziosi Quasimodo Righetti Romani Rosai Rizzo
Rognoni Ronco Rosso Russolo Sanzin Sartoris Sant'Elia Sbardella Severini
Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni
Stella Sturani Tavolato Tedeschi Thayaht, pseudonimo di Ernesto Michahelles
Tulli Ungaretti Vann'Antò Ruggero Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Landsmann
Vucetich; Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna
Gončarova Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič
Aleksandr Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr
Burljuk Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Léger Jules
Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková
Futuristi ungheresi Béla Kádár Lajos
Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del
movimento attraverso le riviste Orpheu e Portugal Futurista Guilherme de
Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista Futuristi
spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de Andrade Futuristi
argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali manifesti Manifesto del
futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" Marinetti Uccidiamo il Chiaro
di luna, Marinetti Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910),
Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto
tecnico, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista,
Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi futuristi,
Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, Pratella La musica
futurista-Manifesto tecnico, Pratella Manifesto della Donna futurista,,
Valentine de Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, Boccioni Manifesto
tecnico della letteratura futurista, Marinetti L'arte dei Rumori, Russolo
Distruzione della sintassi. L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà,,
Marinetti L'Antitradizione futurista, Apollinaire La pittura dei suoni, rumori
e odori, Carrà Il Teatro di Varietà, Marinetti Il controdolore, Palazzeschi
Pittura e scultura futuriste, Boccioni Manifesto dell'Architettura futurista,
Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra, Settimelli, Marinetti
La ricostruzione futurista dell'universo,, Balla, Depero La Scenografia
futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema futurista, Marinetti, Corra,
Settimelli Manifesto della danza futurista, Marinetti Manifesto dell'Aeropittura
futurista, Manifesto della Fotografia futurista, Tato (pseudonimo di Sansoni),
Marinetti Manifesto della cucina futurista, (1931), Marinetti. Manifesto
futurista della Ceramica e Aereoceramica, Filippo Tommaso Marinetti e Tullio
d'Albisola Opere principali Pittura Umberto Boccioni, Tre donne; Boccioni, La
città che sale; Carrà, Notturno a Piazza Beccaria Boccioni, La risata Boccioni,
Stati d'animo, gli addii Carrà, I funerali dell'anarchico Galli; Umberto
Boccioni, Materia; Balla, Ragazza che corre al balcone Balla, Dinamismo di un
cane al guinzaglio Balla, Lampada ad arco; Umberto Boccioni, Elasticità
Severini, La chahuteause Russolo, Dinamismo di un'automobile Carrà, Cavaliere
rosso; Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce Severini, Ballerina in blu;
Fortunato Depero, I Cavalieri.
Futurismo, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Il pensiero futurista si richiama evidentemente a
varie ideologie dell'azione e della violenza: il "vitalismo" del "superuomo"
(oltreuomo) di Friedrich Nietzsche, l'anarchismo di Max Stirner, la
"violenza" di Georges Sorel (Considerazioni sulla violenza), lo
slancio vitale di Henri Bergson(cfr. "Futurismo" nell'Enciclopedia
"Il Sapere", De Agostini editore). arengario.it, arengario.it/ futurismo
specimen-tonini- manifesti.pdf. Archivi del futurismo regesti raccolti e
ordinati da Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, Roma Il Futurismo: le Edizioni
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Edizioni Ex Libris, Per il Manifesto del Fumetto Futurista si veda per le
tavole del Fumetto Futurista di Gnoffo Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle informazioni. Giulio
Carlo Argan, L'arte moderna Firenze, Sansoni, Lista e Ada Masoero (a cura di),
Futurismo Velocità+Arte+Azione (Milano, Palazzo Reale, 5 febbraio – 7 giugno
2009), Milano, Skira, Severini, Vita di un pittore, Abscondita, Maria, Laura
Donati, Marinetti e i futuristi, Garzanti, 1Greene (a cura di), Italian
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Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti III Biennale di Monza La Spezia
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Britannica, Inc. Il portale sul Futurismo, futurismo.org LA VERA STORIA DEL
FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini Il "Discorso contro i
Veneziani" di Marinetti, su pagina delle idee. Il Cerchio: Rivista di
Cultura con particolari approfondimenti sul Futurismo, su cerchionapoli.it.
Russolo: Frammenti di un discorso rumoroso - La rivoluzione musicale
futurista": monografia sul sito Sentireascoltare Recensioni delle mostre
del centenario futurista a Roma e a Milano avanguardie russe, su
chimera.roma1.infn.it. Viva il Futurismo! Iniziativa culturale e artistica per
il centenario del Futurismo, su kulturserver-nrw.de. Principi e filosofia del
Futurismo in arte, poesia e politica, su manentscripta.wordpress.com.
Architettura Futurista Italiana, su architettura futurista.it. Il futurismo e
le arti applicate, sul portale RAI Arte, su arte.rai.it. Portale Arte
Portale Italia PAGINE CORRELATE Carlo Carrà Pittore e docente
italiano Manifesto dei pittori futuristi Manifesto futurista pagina di
disambiguazione di un progetto, Esaminerò i temi principali del mio saggio,
intitolato “Eros ethos”: la contraddizione, la violenza, la domanda di
salvezza, che è poi la domanda di senso, il silenzio di Dio. Ma,
effettivamente, questi temi fanno da sfondo, perché “ Eros ethos”, questo nesso
su cui dobbiamo riflettere, riguarda piuttosto le cose prossime che non le cose
ultime come la domanda di senso, la domanda che appunto ruota interamente
intorno a ciò che era al principio. Che cos’era il principio? Era il senso, era
il logos, o non era piuttosto come Nice, in modo sprezzante, ma anche polemico
e profondo, ebbe a dire: “ in principio era il non senso”? Ecco, cos’ hanno a
che fare queste domande sulle cose ultime con le cose prossime? Eros ethos: che
cosa c’è di più prossimo alle esperienze che noi facciamo, che questa?
Esperienza erotica ed esperienza etica. Questo è il quadro, questo è
l’orizzonte problematico dentro il quale vorrei insieme con voi procedere per
alcuni passi, e allora incomincerei col dire che, davvero, la domanda da cui
partire è la domanda sull’origine: una domanda che ai non filosofi può sembrare
di scarsa rilevanza. Perché la domanda sull’origine? E che cosa vuol dire
domanda sull’origine? Vuol dire, se la vogliamo tradurre, interrogarsi sul da
dove veniamo, da dove il male, la violenza che patiamo. “Unde malum?” questa è
la domanda sull’origine. Ma a questa domanda sull’origine, così perentoria e
così grave di implicazioni, come risponde il pensiero contemporaneo? Il
pensiero contemporaneo risponde rimovendola, come se non esistesse, meglio come
se non la potessimo, né la dovessimo porre. E questo perché? Perché alla
domanda ha già risposto la scienza. Sappiamo da dove veniamo, di chi siamo
figli: siamo figli del caos, e se è vero che leggi che possono essere accertate
scientificamente governano questo caos, del caos noi siamo figli, o, se non del
caos, di quel suo riflesso che è il caso. Siamo figli del caso. La violenza è
un fatto. Certo che c’è violenza nel mondo, ma c’è come c’è quell’ultimo
orizzonte che non possiamo trascendere. Ci appartiene la violenza, è in noi,
sempre di nuovo la evochiamo, basta un niente ed ecco esplode, come se un fondo
sub umano ci abitasse, come se da questa brutalità naturale noi provenissimo,
come se appunto questo fondo sub umano, questa brutalità naturale, sempre
pronta ad esplodere, costituisse un orizzonte intrascendibile. Non è forse vero
che veniamo di lì, non ci dice la scienza che veniamo dalla “selva antiqua?”
Dallo stato di natura? E che cos’è lo stato di natura se non lo stato in cui la
violenza ci fa simili, anzi identici, a quegli esseri che abitano la natura e
l’abitano inconsapevolmente, producendo la violenza appunto come produzione
inconsapevole di quella volontà di vivere che abita tutti gli esseri naturali?
Sembra essere questa la grande parola della filosofia moderna e poi
contemporanea, perchè troviamo in essa quasi un vero e proprio ritornello: il
risalimento all’origine è precluso, la filosofia pensa a partire da una
situazione, da un trovarsi ad essere in un certo modo, a partire da cui
soltanto il pensiero è pensiero. Che cosa significa risalire alle origini,
ipotizzare fondamenti ultimi? Tutto questo appartiene all’ontoteologia cioè
alla pretesa appunto di ragionare ricostruendo il fondamento, la ragione ultima
di tutte le cose, in una parola l’origine, quell’origine che non è, o meglio
non è se non nella forma che ci è data, e di cui noi facciamo esperienza
sapendo di essere quello che siamo, ossia esseri naturali che dallo stato di
natura provengono e che nello stato di natura trovano una sorta di ultimo
orizzonte, di estremo confine intrascendibile, assolutamente intrascendibile.
Da questo punto di vista abbiamo la parola di Hobbes da una parte( lo stato di
natura), e la parola di Rousseau dall’altra( lo stato di natura come 1
stato di pura violenza che si tratta di controllare attraverso un patto,
i cui contraenti autolimitano la propria libertà in nome del controllo di ciò
che è dato: lo stato di natura). Da una parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra
Rousseau dicono la stessa cosa anche se sembrerebbero dire due cose
completamente diverse. Che cosa dice Rousseau? Dice che lo stato di natura non
è il regno del Leviatano, il regno della violenza, è il regno della gioia, è il
regno della libertà, è il regno della giustizia. Eppure dicono la stessa cosa.
Che cosa? Dicono che quello, lo stato di natura, è un orizzonte che non
possiamo trascendere. Lì ci troviamo a vivere. Che questo stato di natura sia
uno stato di violenza, o che questo stato di natura sia uno stato tornando nel
quale noi ci liberiamo dalla violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa,
perché è questo stato, questa condizione intrascendibile, e non possiamo
affacciarci, per così dire, sulla soglia, su questo stesso orizzonte, e
guardare al di là e chiederci: “ Ma noi da dove veniamo? Chi ci ha gettati
qui?” O nella lotta o nella gioia edenica: domanda senza senso. Risalire non è
possibile. L’orizzonte è chiuso. La violenza non è nient’altro che questo,
quella violenza di cui ci parlano anche le cronache, ma che noi conosciamo
anzitutto in noi stessi, perciò della violenza non resta che prendere atto come
qualche cosa che è connaturato, stato di natura appunto, e che non ci resta che
controllare. Sempre di nuovo l’uomo ricade nella violenza, sempre di nuovo
l’uomo deve, se non liberarsene totalmente, elaborare delle strategie di
controllo. Auschwitz non deve più accadere e invece è accaduto e probabilmente
sempre di nuovo accadrà. Questo lo sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni
violentissimi, crudelissimi. Su questo non possiamo chiudere gli occhi: sul
fatto che Auschwitz sempre di nuovo accade, che sempre di nuovo l’uomo cade
dentro quello stato di natura dal quale proviene e dal quale non può evadere.
E’ la parola più dura della filosofia contemporanea, nascosta spesso dentro
strategie di pensiero molto sofisticate, molto raffinate, ma che questo dicono:
l’intrascendibilità della nostra provenienza, dell’orizzonte dal quale
proveniamo, tanto è vero che sempre di nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte.
Difficile immaginare, appunto, una risposta più cupamente ateistica e
nichilistica di questa, ma anche più vera, con una sua verità che sembrerebbe
difficilmente controvertibile. Non è forse vero che la violenza è in noi, che
veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in noi ci sono forze che se non
teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque di noi, il peggiore dei
delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità negativa e terribile?
Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma per i casi che la vita
ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i genitori, il mobbing
tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente male, che cos’è questo
se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo naturale, maligna, ma in
questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica, perché appunto è lo
stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale sempre di nuovo ricadiamo
in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo sia detto nei termini di
Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a partire da Hobbes si
elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che l’uomo ha per tenere
sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si elaborino invece
teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno alla natura, però
questo ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’ una tesi che ha
mille sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi della
intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola
obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è
che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto,
che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa
violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che
espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che
cos’è? E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente
assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone
feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in
un animale 2 è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano
in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante,
anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa
violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un
segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti
che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli
entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza
umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza
dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la
violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza
dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello
che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve
farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una
situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso
che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto
il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace,
la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé
stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o
non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera), sempre ha
questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di
sottolineare questo valore aggiunto, irridendo il nemico. Questo è nell’Iliade,
come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri. Nell’Iliade, quando
Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di straziarlo sotto le
mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel di più, ecco ciò
che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente umano. Nel soldato che
aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico vinto, stuprando la sua
donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice espressione pulsionale di
qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco, c’è invece il desiderio di
segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore simbolico), c’è il bisogno di
umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità di ricadere nella quiete della
violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora, se la violenza dell’uomo non è
assimilabile alla violenza della natura, se questo valore aggiunto fa sì che la
violenza dell’uomo riveli una sua irriducibilità all’ordine naturale delle
cose, allora non è vero che lo stato di natura non può essere trasceso, non è
vero che non è possibile affacciarsi sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da
dove vengo io?” Allora non basta dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e
dalla sua brutalità, io vengo da un altrove”. E’ una contraddizione, perché, se
vogliamo dirla con una formula filosofica, la intrascendibilità dello stato di
natura chiede di essere trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono
impastato di quella pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono
forze brutali, bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non
soltanto la mia provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non
so che cosa sia, che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare.
Non mi basta riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento
fa cenno, sia pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io
fossi caduto, come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento
potesse spiegare il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi,
di due grandi filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della
intrascendibilità dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi
filosofi della modernità i quali sostengono quello verso cui sto cercando di
condurvi e cioè che l’intrascendibilità dello stato di natura è
contraddittoria. Certo l’uomo, con le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò
di cui dispone, non può uscire dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma
patisce, soffre, vive questo suo trovarsi in un orizzonte che è come un carcere
per lui, appunto come un essere cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi
guardo intorno, e tutto è confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace
( il silenzio di Dio), e non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente
silenzioso, e il silenzio degli spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se
voglio in questo orribile 3 caos muovermi e sopravvivere? Che cosa
mi resta da fare? Prendere atto che le cose stanno così, seguire le leggi del
mio paese. Già, ma le leggi del tuo paese sono esattamente l’opposto delle
leggi del paese accanto. Che fare? Questa è appunto la prova del caos in cui
versiamo. Ma il mio sovrano mi ha ordinato di uccidere quello che sta al di là
del fiume. E perché? Perché sta al di là del fiume. Ma è una ragione questa?
Eppure lo devo fare, perché, se non mi attenessi alle leggi del mio paese,
cadrei in un disordine ancora più grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto:
l’unica forma di sopravvivenza è quella garantita dall’accettazione dello
status quo. Dice: “ Ma io mi guardo intorno. Questo è giusto, che cosa è
sbagliato? Nulla è giusto, nulla è sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è
atto, non c’è gesto, non c’è comportamento umano, anche il più abietto, che non
abbia trovato il suo altare. Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è
stato messo l’omicidio, sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un
orribile caos, è quello nel quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi:
intrascendibilità dello stato di natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco
il passo in più che fa Pascal: l’intrascendibilità dello stato di natura è
inaccettabile, l’intrascendibilità dello stato di natura non può essere vissuta
se non come una condanna, e quale maggiore condanna che quella di chi vede che
ogni atto, anche il più nefasto, il più delittuoso, ha trovato il suo altare?
Quale condanna peggiore di chi constata che è costretto a compiere atti
profondamente ingiusti e tuttavia giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?”
“Perché il tuo sovrano te lo ordina”. Ed è giusto così, o meglio giustificato
così, pena un disordine ancora maggiore. Questa è una realtà che non si può non
accettare, una realtà che ci dice il nostro essere vincolati ad essa,
l’intrascendibilità dello stato di natura, ma una realtà nello stesso tempo
vissuta come iniqua, come inaccettabile: non la posso che accettare, ma è
inaccettabile. Ecco la contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente,
dovremmo dire: “l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo
trascendimento”. Da dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così
tanto all’interno di una situazione per la quale non vedo via d’uscita?
L’intrascendibilità chiede di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la
filosofia non può che aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come
vedete, ben diversa da quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce
da Pascal una filosofia religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una
filosofia irreligiosa. Le fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in
questione, ma è profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza
c’è e non resta che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di
là”. E’ una filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza
c’è perché c’è la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che
inquina, con gli apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci
da tutto ciò, e ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo:
filosofia, in entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a
Marcuse, oppure da Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella
dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente
religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava,
attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico,
che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo,
ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e
la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia
l’illusione che “ omnia Iovis plena”, che gli alberi siano dei, che tutto gli
parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva
antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non
è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una
epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può
trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e
non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di
cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una
menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4 sulla
base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le
istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero?
E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello
stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere
ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione,
l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da
dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono
ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo
moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?”
C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo
cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati
ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del
nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci
troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che
è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso
di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con
questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di
quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere
precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa
eros ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros
ed ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la
contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si
oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza,
diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette
ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci,
e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza,
eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata,
vita che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti,
tutti figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il
bene e il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è
il contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il
dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei
confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore
che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera
e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita
immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia
il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei
confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano
dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la contraddizione
dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima opposizione sia in
eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi separata delle due forme
di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica, che capiremo come
l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e capiremo come la
contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”, così prossimo a
noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e che cosa se non
eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa prossimità. Ma
lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme. Perché c’è
opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come espressione
di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros è
trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato morale:
no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di trasgressione
nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un movimento teso
a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una fenomenologia
che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior, questo superare
il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello che è. Cosa
c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un intimo
dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo di
fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5
sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che
l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice,
come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé,
bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La
filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da
tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto,
molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci?
Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose
che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a
dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma
non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante altre.
Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes
Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che
viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di
figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa
accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes
Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale
profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa
accensione si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente
sorgiva, che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è
assolutamente iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un unico
punto, per così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode, e
questa esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo, a
partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di
ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a
seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes
Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore,
che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due.
Dentro questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di
eros. Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è
pura forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in
sé, nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci,
sono infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle
varie forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il
tremendo che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si
scindono in due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea
dell’amore, che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a
personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea
della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della
felicità, della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea
al di là del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma
Afrodite è anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero
che lo stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di
più bello che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più
innocente, di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un
atto di sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido
seminale, stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite
che cosa dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco?
Gli opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé
stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là
del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo
innocente è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona
pace dei teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato:
“Liberatevi dai tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio
dire che non ci si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più
complicate: la liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte(
antitesi) di qualche cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga
sul fatto, sul rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi
di fronte a 6 questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna
pensare come hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo
forse meno cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la
figura della donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato (
che è un tema iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica
dell’India ), della donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma
volge lo sguardo, e questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che
lascia: siamo fatti di una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è
necessario gettarsi, raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la
dinamica della trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che
abbiamo perso, che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E
questo che cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del
tutto contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco
come eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos
è in sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono
questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo, che
io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos (da
cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un modo
solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri
esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta,
e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire
un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa, ma un po’ diversa . Se
scritta con la eta, ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che
cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da
cui abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe
cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo
modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati
accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei
comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a
essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos
come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me
stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così
via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che
appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi
dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è
accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi importa,
lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un sapere
demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio carico,
costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se fosse
solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe cosa
tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da
medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos
fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto
quell’altro: abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la
società alla quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente
e in base a dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a essere
deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’ etica
della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il
diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di
rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è
giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto
quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni
erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto
nascostamente, bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto
l’etica, la casa della comunità di appartenenza, della polis, dello stato,
potrebbe non essere un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già,
ma come fanno a stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la
ipsilon? Come far stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene
Antigone, e le leggi della città? Le leggi di coloro che stanno sotto la luce
del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto? Contraddizione,
la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra questo discorso con
la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo visto, e mi avvio
alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura, anzi, è la natura che
è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato di natura: è
quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui proveniamo,
che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e contemporaneo, e abbiamo
visto che non basta dire questo. Le cose non stanno così, perché qui c’è una
contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla affermazione che la
violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo accomuna alla bestia
feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende irriducibilmente
diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica la non
trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere vissuta
come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno stato che
io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto Heidegger.
Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi come
gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove sono
gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta
all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile
questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo
valore simbolico. Lo dice bene Pascal. Tutto è simbolo, quella natura caotica,
così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio mondo, è
il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e l’infinito,
e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente, di costruire
un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e l’origine.
Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è stato
gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la
religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la
contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo
potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a
qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di
prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che
cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti
fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di
eros e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa
intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia:
Abbandonati; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi
con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in
cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire
scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è
assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza,
la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed
ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria
perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma
dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di
parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a
me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a
trascendere, trascendere me stesso. Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos;
phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla,
unelongated history of negation; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library.
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