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Wednesday, January 1, 2025

GRICE ITALO A-Z G GI

 

Grice e Girotti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della curva – la filosofia nella storia d’Italia – il caso Gentile – filosofia veneta – scuoa d’Adria -filosofia italiana – Luigi Speranza (Adria). Filosofo adriase. Filosofo veneto Filosofo Italiano. Adria, Rovigo, Veneto. Grice: “I like Girotti; for one, he has explored the idea of ‘beauty,’ which Sibley should, but did not!” Si laurea a Padova, sotto SANTINELLO (si veda) e BERTI (si veda). Pubblica Filosofia (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua storia storica della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica” “Società Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi” (Polaris, Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso sui metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo, Sapere, Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere, Pensa multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che vogliamo?, Il Giardino dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità, Diogene Multimedia, Bologna; Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia, Bologna; GENTILE; Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e la giustificazione del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da Atene a Delfi dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene Bologna; Comunità di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani,  La collana si chiama Briciole di Filosofia “una storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’; infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione, quella che G. definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico. G. distingue la fenomenologia come metodo e lo spirito metafisico come oggetto. Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso mostra. Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofostoriografo ritroverebbe l'oggetto o topico della sua ricerca, cioè il fatto spirituale.  È su questo fatto spirituale che G. refina Gouhier in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello storico della storia storica della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione bergsoniana, ammessa anche da Gouhier. Cf. Grice on the longitudinal history of philosophy. “We should treat those who are dead and great as if they were great and living – it’s a matter of introjecting into his shoes, or sandals!” -“La distillazione filosofica”  GENTILE nasce a Castelvetrano, provincia di Trapani, ottavo di dieci fratelli, due dei quali erano già morti quando egli vide la luce. Suo padre, che si chiamava anche lui Giovanni, era farmacista; sua madre, Teresa Curti, maestra elementare.  Da quel poco, o non molto, di autobiografico che, sempre restio alla confidenza e all'effusione dell'animo, pur si deduce dagli scritti e, in particolare, dai carteggi con i suoi maestri pisani,  Jaja ed Ancona, risulta che il rapporto con i genitori fu intenso, nutrito di forti affetti; sebbene, per altro verso, travagliato, a causa soprattutto, oltre che della morte del fratello Gaetano, delle disavventure professionali del padre. Le quali derivarono dal forte e alquanto anarchico convincimento di non dover sottostare, nella gestione della farmacia di cui era proprietario e titolare, alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria emanata dal governo di F. Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la farmacia, che si trovava a Campobello, e ritirarsi con la famiglia nella vicina Castelvetrano, quindi di riaprirla tornando da solo là dove quella si trovava e subendo un nuovo processo per il reiterato suo rifiuto di sottostare alle nuove regole.  È probabile che nell'animo sensibile, e più impressionabile forse di quanto il G. fosse disposto ad ammettere, del giovinetto che intanto attendeva agli studi scolastici, si formassero, nei confronti della terra siciliana, ossia di un luogo così fortemente segnato da dolori e umiliazioni, sentimenti contrastanti. Non che per le sofferenze che involontariamente aveva inflitto al padre, egli prendesse allora a odiare, o anche soltanto a disistimare, il siciliano Crispi, al quale sempre invece guardò come a un grande personaggio, l'unico degno di rappresentare sul serio, nella decadente Italia di fine secolo, lo spirito autentico del Risorgimento, nelle cui battaglie era stato protagonista.  Ma nei confronti della piccola, e pur amata, patria siciliana, i suoi sentimenti furono in effetti misti; e abbastanza presto si sublimarono, assumendo forma intellettuale, in quelli che, se lo si legge con attenzione, si colgono al fondo del libro che, quando era professore a Pisa e insegnava dalla cattedra che era stata del suo maestro Jaja, egli dedicò a Il tramonto della cultura siciliana (Bologna). Libro singolare, in effetti; che, riboccante di passione e di affetti, concerne un "tramonto" atteso e auspicato di "cose" che, profondamente radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola, meritavano, a suo giudizio, di "tramontare" per sempre risolvendosi in assai più ampio e comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella Sicilia "moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se non materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai quali la Sicilia era rimasta ferma.  Nell'isola il G. non rimase se non il tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando, finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che approdava alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di quella. Il positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni possibile traccia.  Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo con il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità che lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la trasfigurazione risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e l'altra, antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V. Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura italiana di Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche oltre. Fu forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che il G. venne positivamente in contatto con la questione del "fatto"; che certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza, trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello, l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma, oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione".  Non s'insisterà mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora v'incontrò, Volpe e Pintor, Congedo, Salza, Radice.  Anche qui, per altro, avrebbe torto chi semplicemente ritenesse che al fuoco dell'idealismo professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria positivista e rapidamente acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe stata la sua. È vero invece che la dicotomia determinatasi in lui quando, in Sicilia, per un verso si accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori civili da lui rappresentati e per un altro si piegava al culto reverente dei fatti, in qualche modo si ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche qui perché alla filosofia senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja corrispondevano la storia e la letteratura senza filosofia che gli provenivano dall'esempio di D'Ancona e di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve sorprendere, perché a predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con il congiunto metodo storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana Jaja costituiva, in quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la regola.  La produzione scientifica in cui, senza abbandonare la rivista Helios, che si pubblicava in Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò infatti a non far mancare la sua collaborazione, allora si impegnò appare nettamente scissa fra l'erudizione pura, da una parte, e la filosofia, altrettanto pura, da un'altra (anche se, nel ricercare e commentare i testi di quest'ultima, il giovane G. mostrava chiari i segni del metodo che aveva appreso d’Ancona e dal Crivellucci, e che dette del resto chiara prova di sé nella dissertazione accademica Delle commedie di Grazzini, detto il Lasca, pubblicata negli Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Le cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna a conclusione del suo periodo pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e Gioberti, discussa con Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la più breve indagine su La filosofia di Marx.  Di questi due libri, il primo costituisce il documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine condotta nel segno di Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla relazione intercorrente fra il pensiero italiano e quello europeo, fra A. Rosmini e V. Gioberti, da una parte, I. Kant e Hegel da un'altra. Il secondo è invece il documento della capacità dimostrata dal giovane studioso di cogliere il carattere, che a lui sembrava nel fondo idealistico, della filosofia di K. Marx, e altresì di entrare con autorevolezza in uno dei dibattiti - quello concernente la "crisi" del marxismo - fra i più vivi che allora si accendessero nella cultura dell'Europa contemporanea.  Lo studio dedicato a Rosmini e Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il conseguimento della laurea in filosofia, che il G. ottenne con il massimo dei voti e il diritto alla stampa. Quello dedicato a Marx fu composto per la tesi di abilitazione all'insegnamento che egli conseguì l'anno successivo e gli dette la possibilità di un ulteriore periodo di perfezionamento da trascorrere presso l'Istituto di studi superiori di Firenze, dove fu per un anno e dove ebbe modo di entrare in contatto con gli illustri professori che allora vi insegnavano e che, fra gli altri, si chiamavano Villari, Vitelli, Rajna. Fra questi era anche il professore di filosofia, il neokantiano F. Tocco, con il quale i rapporti non furono né semplici né facili, ma con il quale comunque conseguì un nuovo titolo, discutendo una tesi sulla filosofia italiana del periodo che da Genovesi va fino a Galluppi, e che poi divenne un volume, pubblicato, nelle edizioni de La Critica, da Croce (Da Genovesi a Galluppi: ricerche storiche, Napoli).  Fu, anche quello trascorso a Firenze, un periodo importante; e se il rapporto con il Tocco fu, malgrado asprezze e incomprensioni, proficuo perché lo mise comunque in contatto con un Kant diverso da quello di Bertrando Spaventa mediatogli dall'insegnamento di Jaja; se quello con Villari fu alquanto burrascoso, dei grandi filologi, classico il primo, romanzo il secondo, Vitelli e Rajna dovette conservare per sempre un grato ricordo, se è vero che ancora negli ultimi anni progettò di ristampare, del secondo, il libro su Le fonti dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti più insigni della vecchia scuola del metodo storico.  Con l'anno trascorso a Firenze, nell'estate 1898 i suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che seguirono furono non facili; anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per lui imperiosa di trovare un lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio, era pari a quella che egli avvertiva non meno viva e urgente di non interrompere gli studi filosofici, nei quali aveva già realizzato un'impresa notevole, con quei tre lavori, così ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza di proseguire senza nocive interruzioni la intrapresa carriera dello studioso implicava l'altra che l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana provincia meridionale e lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale, dalle università e dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu allora, in particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola dalla quale era partito anni innanzi: sì che quando ebbe la sede di Campobasso, con l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté dirsene del tutto scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto Napoli, dove la frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al liceo Umberto e, sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in contatto quando ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano dalla solitudine alla quale era invece, per il resto del tempo, costretto.  Del resto, non fu quello di Campobasso un periodo che si protrasse nel tempo. E la fortuna girò in suo favore, perché G. poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio Emanuele di Napoli: il che gli dette la possibilità di rendere veramente intrinseci i legami intellettuali con Croce, ossia con il già illustre studioso che, in quello stesso anno, concluso il periodo degli studi soltanto eruditi, giunto al termine della discussione intrapresa con i testi di Marx e dei marxisti, era tornato alla filosofia e aveva dato all'estetica la sua prima sistemazione.  A ragione, e del resto non è un'osservazione peregrina, è stato detto che, se senza Croce non s'intende G., altrettanto è vero per l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe dirsi e ripetersi che, se si prescindesse dalla collaborazione, stretta, intensa e anche conflittuale, che subito si stabilì fra il libero studioso Benedetto Croce e il giovane ex normalista siciliano, poco o niente si capirebbe della cultura italiana che nel bene (secondo alcuni), nel male (secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata dalle loro personalità e dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre nel segno prima della concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile decidere chi fra i due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro nella forma più decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male, perché, se è vero che da G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero che si veniva formando in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle nel segno dell'unità, se è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata dal giovane studioso alla formazione della filosofia dello spirito non avvenne senza che egli ne traesse grande giovamento per le tante idee con le quali veniva in contatto e la non comune dottrina storica e letteraria con il cui carattere venivano al mondo, anche è vero che in questi bilanci del dare e dell'avere c'è sempre qualcosa di angusto, di gretto, di meschino: e conviene perciò, dalle parole generali, passare di volta in volta ai fatti determinati.  Sta comunque di fatto che, mentre il carteggio fra i due si faceva tanto intenso e frequente che non c'era, si può dire, giorno senza che uno scambio intervenisse a proporre osservazioni, suggerimenti, informazioni e, magari, contrasti; mentre l'amicizia si approfondiva nella collaborazione, la diversa indole dei due ingegni ne riusciva non soffocata, ma in qualche modo persino potenziata. E, come si è detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non si pensi, anche i contrasti, anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma ferme.  Se, per esempio, nella questione concernente il materialismo storico (una filosofia, per il G., e non, come per Croce, un semplice "canone empirico": una filosofia della storia, fondata per altro sullo scambio del trascendentale e dell'empirico), il dissenso rimase senza soluzione, la discussione, che in buona parte si svolse per lettera, su forma e contenuto nell'estetica condusse i due filosofi a un accordo sempre più stretto; e anche qui è, non solo alquanto meschino, ma sopra tutto difficile chiedersi, e quindi rispondere al quesito, se a condurre il gioco fosse piuttosto G., o se invece fosse Croce che, via via che veniva impadronendosi dell'intero territorio dell'estetica, suggeriva il tema e controllava lo svolgimento.  Intanto, la realizzazione del progetto di una rivista letteraria, storica e filosofica, che si chiamò La Critica (il primo numero uscì il 20 gennaio), dette a Croce, e a G., lo strumento attraverso il quale la loro collaborazione potesse rendersi visibile e concreta in risultati specifici, attraendo altresì su di sé, fra consensi e dissensi, l'attenzione del mondo culturale italiano e non soltanto italiano, perché l'anno precedente era uscita la prima edizione dell'Estetica crociana e il successo travolgente del libro, andato al di là di ogni previsione, non poteva non ripercuotere sulla rivista appena agli inizi la sua positività.  La Critica divenne così, velocemente, un severo luogo di ricerche, di studi, e anche, spesso, di impietosi esami critici; e, con il diverso accento caratterizzante lo stile del direttore e del suo principale collaboratore, svolse un'opera della quale sarebbe vano voler disconoscere l'importanza. L'oggetto della "critica" era costituito dalla cultura positivistica, che era bensì in declino quando la rivista iniziò la sua battaglia, ma non tanto, tuttavia, che se quell'urto violento e sistematico non si fosse prodotto, avrebbe trovato così presto la via della sua risoluzione. Al contrario, si direbbe: perché, malgrado la non eccelsa qualità dei suoi pensatori, e certa loro tendenza a dividersi fra un alquanto volgare materialismo e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche", il positivismo aveva, nella sua forma di "metodo storico", non soltanto prodotto alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in profondità nella cultura e nel costume dei professori e della classe dirigente del paese. E "positivista" era in sostanza il pensiero democratico e altresì, malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con maggiore o minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano, gli stessi Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano compiuto i primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia antipositivistica, esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e magari deplorata da altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una battaglia che giorno dopo giorno i due filosofi amici condussero contro quel loro "sé stesso" che di essere emendato nel senso della nuova filosofia avesse avuto necessità. E molte cose della vecchia "fede" certamente furono lasciate cadere, che qui non occorre elencare. Ma alcune no; e, per fare qualche esempio, certo si deve anche alla severa disciplina erudita appresa alla scuola dei maestri del metodo storico se, come nessun altro ai suoi tempi, Croce esplorò gli angoli più riposti della "regione" seicentesca, e scrive il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari), e il G. non disdegnò le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò ai grandi quadri d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per scrivere il bel libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono.  Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di renderlo sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il che, trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la parte più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che toccava il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e persino le identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo rovesciamento nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio conoscere a entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i due ne uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista, rafforzati nell'amicizia. Ma la polemica epistolare, e rimasta perciò privata, sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva già, sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura portante dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo consenso alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di vecchio hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S. Maturi; e questo G. non l'aveva gradito.  L'amicizia per allora rimase salda, e anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e la scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non risentì e non mostrò il segno.  La collaborazione che essi vi svolgevano e realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si aggiunga che allora Croce fu impegnato, fuori della Critica, nella costruzione della Filosofia come scienza dello spirito; e che, per parte sua, mentre svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i progressi filosofici del suo amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei primi anni la tendenza a restare in disparte.  Avvertiva, e in una lettera del 1908 inviata al Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse dovuto esprimere intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce sarebbe giunto allo scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva di sapere, che, svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero avrebbe dato luogo a conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora ricavando dalle sue premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore qualità filosofica di quelle era altrettanto convinto come della necessità che per allora non convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale frutti copiosi la cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la cautela del G. e la sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con Croce non potevano esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico, sebbene non dichiarate, le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente avvenne quando G. scrisse (e per allora non pubblicò) la prolusione al suo corso libero di filosofia teoretica nell'Università di Napoli.  Da Napoli, dove nell'insieme trascorse un sereno periodo (aveva sposato Erminia Nudi, una maestra conosciuta a Campobasso), quasi per intero consacrato all'insegnamento - aveva ottenuto la libera docenza che esercitava nel corso libero di filosofia teoretica presso l'Università e dal 1904 aveva assunto anche un incarico di filosofia e pedagogia presso l'Istituto superiore di magistero Suor Orsola Benincasa -, alla riflessione filosofica, allo studio, G. passò a Palermo, perché nel frattempo - dopo che un primo concorso per la filosofia teoretica lo aveva visto soccombere per l'ostilità dimostratagli da Tocco, e anche a causa della debole difesa fattane da A. Labriola, gravemente ammalato e quasi impossibilitato a parlare - aveva vinto la cattedra di storia della filosofia per quella Università. Così, senza averlo sul serio desiderato, era di nuovo approdato alla sponda siciliana; e meno che mai lo aveva desiderato Croce, che non solo vedeva interrotta una consuetudine di vita, di collaborazione e di lavoro che doveva a ogni costo essere difesa, ma anche temeva che il nuovo ambiente potesse distrarre in vario modo l'amico e, sotto diversi punti di vista, allontanarlo da lui.  Il timore di Croce non aveva allora nessun altro fondamento che sé stesso e l'intuizione di cui si alimentava. Era infatti qualcosa come una congettura, una supposizione. Ma la congettura, la supposizione, e il timore, non si rivelarono tuttavia per intero infondati; perché, come forse era inevitabile, nel nuovo ambiente G. non poteva non ottenere la posizione preminente e da protagonista che non solo il prestigio di cui godeva, ma anche e sopra tutto la forte personalità della quale era dotato, non potevano non assicurargli. La sua posizione divenne preminente nell'Università e, quindi, nella Biblioteca filosofica che, per le iniziative di G. Amato Pojero che ne aveva la cura principale, divenne un centro vivo di dibattiti, nel quale l'idealismo attuale definì per la prima volta sé stesso e vide la luce. Anticipato in modo più che parziale con il breve saggio che G. dedicò a Le forme assolute dello spirito e, senza presentarlo in altra sede, incluse nel volume su Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia come sua ideale premessa (e conclusione), l'idealismo attuale trovò la sua prima espressione nella memoria, letta presso la Biblioteca filosofica su L'atto del pensare come atto puro (Palermo), quindi nell'altra su Il metodo dell'immanenza, e ancora nelle pagine consacrate a La riforma della dialettica hegeliana e a Spaventa che l'aveva avviata, nonché nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, il cui primo volume contiene in effetti una sorta di teoria generale dello spirito sotto specie pedagogica.  Un volume, questo, che quando lo lesse in bozze Croce giudicò con qualche severità, perché gli parve che non solo il G. si fosse espresso con nettezza contro la possibilità che tra le forme dello spirito potesse darsi la "distinzione", ma anche che, senza nominarlo e perciò con tanta maggiore asprezza, avesse polemizzato proprio con lui che nella distinzione aveva fatto e stava facendo consistere il criterio supremo dell'intelligenza della realtà. Da queste dichiarazioni di autonomia e di indipendenza, che, implicitamente (ma in modo per altro trasparente), contenevano qualcosa come una sfida, Croce non poteva non essere preoccupato; e tanto più in quanto il senso di indipendenza e di autonomia era confermato da quel che scrivevano gli allievi siciliani del G.: Fazio-Allmayer e Omodeo, Saitta e Albeggiani; e anche Ruggiero, che siciliano e residente in Sicilia non era, ma attualista sì, anzi ultrattualista, come ci teneva a dichiararsi e come aveva del resto dimostrato con la memoria, pubblicata anch'essa nell'Annuario della Biblioteca filosofica, su La scienza come esperienza assoluta.  La pubblicazione degli scritti attualisti del G. e le varie manifestazioni che allora innegabilmente si ebbero del formarsi di una scuola che in quella forma d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa e, perciò, possibile, non potevano non provocare prima o poi la reazione di Croce. Il quale aveva bensì fatto il possibile perché G. tornasse a Napoli come professore nell'Università, convinto che in tal modo la collaborazione sarebbe tornata alle vecchie forme senza le perturbazioni provocate dalla "scuola" e dagli spiriti non sempre positivi che, in effetti, vi si formano o tendono a formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe, com'è noto, successo, perché forti e insormontabili furono le resistenze che l'ambiente accademico napoletano dimostrò all'accettazione della sua proposta. E così accadde che, persa quella battaglia nella quale aveva speso molto del suo prestigio e delle sue energie, quando una grave sciagura privata gli dette il senso che tutto ormai, nella sua vita dovesse giungere all'estremo chiarimento, Croce decidesse di rendere pubblico il "dissidio" filosofico che lo divideva dall'idealismo attuale; e scrisse, per la Voce di Prezzolini, un articolo in forma di lettera, nel quale i termini del dissenso erano definiti con amichevole fermezza. La scelta della Voce significava, nelle intenzioni crociane, che la disputa non riguardava La Critica, ossia il luogo della loro comune opera culturale; e si svolgeva, per così dire, al margine di questa. Ma la decisione di mettere in piazza il loro dissenso ferì in modo particolare G.: anche se, decisa nella sostanza e orientata non a sanare, bensì a ulteriormente precisare, il dissenso, la replica che anche lui affidò alla Voce, si presentasse come la risposta amichevole a un'amichevole richiesta di chiarimenti teoretici. Il dissenso era comunque stato dichiarato; e non mancò di suscitare molta impressione: tanto più che, replicando a sua volta, con fermezza, Croce prese atto di un divario che concerneva non la periferia, ma il centro stesso delle loro filosofie.  Il periodo siciliano fu comunque fecondo di molto lavoro. E oltre ad aver gettato le basi dell'idealismo attuale, G. svolse infatti e approfondì alcuni essenziali aspetti della scolastica e del Rinascimento; e scrisse di Bruno, di Telesio, di Vico, mentre la collaborazione alla Critica continuava con il consueto ritmo e, dopo la tempesta teoretica, nei rapporti con Croce era tornata la calma. Deve anzi dirsi che, malgrado varie traversie di natura familiare e qualche apprensione per la sua salute, fu quello un periodo nella sostanza sereno, sebbene non possa escludersi che egli lo considerasse provvisorio e in cuor suo non desiderasse una sede diversa e migliore. Quando infatti a Napoli e a Roma si liberarono due cattedre, la prima università fu subito scartata, perché vivo era ancora il ricordo della sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la seconda no; e fu invece presa in seria considerazione. G. riteneva infatti che l'opposizione di Barzellotti, titolare della cattedra di storia della filosofia, potesse essere in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo risultò errato: a Roma per allora non fu chiamato; e dopo un tentativo, esperito senza troppa convinzione, di essere chiamato a Torino, città molto amata da Croce, che non avrebbe visto male un suo trasferimento colà, ma assai meno da lui, che la considerava lontana, fredda ed estranea ai suoi gusti e alle sue abitudini, scelse infine di andare a Pisa, dove sarebbe succeduto a D. Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza, anche avrebbe ritrovato la Scuola normale, luogo e fonte inesausta di cari e intensi ricordi.  A Pisa tornò con un piglio e una convinzione ben diversi da quelli con i quali vi era approdato, giovane e sperduto studente siciliano, tanti anni prima. Vi approdò con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di sé e delle sue forze, sente di dover svolgere una missione non solo filosofica, ma anche, lato sensu, civile e politica. La forte accentuazione teoretica che nei precedenti anni aveva conferito alle sue pagine, anche di storia della filosofia, non aveva mai spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione spaventiana che ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse in realtà contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del Risorgimento, riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la corruzione letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata con lo splendore delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda che a Jaja era rimasta sostanzialmente estranea, ma non ad Ancona, ebreo e fervente patriota risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, a Crivellucci. Del resto, la prolusione pisana è; e con gli avvenimenti che lo caratterizzarono e con quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno fatale avrebbe ben presto provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti, abitudini, costumi, ad accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in superficie, altre volte in profondità, a rendere esplicito e visibile quel che per l'innanzi fosse rimasto chiuso nel segreto delle coscienze.  A Pisa, per altro, G. non stette a lungo, perché egli passa all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di storia della filosofia, dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe passato a quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino Varisco.  Ma, a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce politiche che li caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i risultati filosofici innanzi tutto, che G. vi conseguì. Fu allora, infatti, che, dopo averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi nelle memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee della Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola e pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali, espressione suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella sua dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra potesse operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i distinti. Ma a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica come teoria del conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della quale scrisse il primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce e dovette attendere per avere il suo compimento nel secondo volume, dedicato alla logica del concreto.  Agli anni di Pisa appartiene anche, con sicurezza, Il tramonto della cultura siciliana, un libro del quale si è già avuto modo di accennare come presenti un duplice carattere, di condanna della cultura siciliana positivistica, materialistica e, deteriori sensu, illuministica; e di speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo attuale, nato nell'isola per virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed entrasse a pieno titolo nella civiltà moderna.  Gli anni pisani furono quelli del primo conflitto mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia, dopo la cui conclusione niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con passione, fra esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto, della sua condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto convincimento che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che quella di entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro gli Imperi centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del destino risorgimentale della nazione. G. non è nazionalista, e meno che mai era disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze sanamente irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica, sconvolgendo i suoi concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e vario sensualismo, così frequenti allora nella "cultura" italiana e non soltanto italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici furono rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui, allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o, peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie.  Di qui, anche in questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle passioni, delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei "brividi", la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora, giorno dopo giorno, si venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo era stato contrario alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di Giolitti e di quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra avrebbe comunque rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche aveva dichiarato che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano se all'improvviso i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero schierati dalla parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere. Anche nei confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi consapevoli che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia aveva scelto per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai diverso. E Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile della natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e dell'arte.  Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che perciò si inducesse a passare il segno e a farsi, come Croce diceva, "l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una grande occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno di una tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto meno sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si placassero e depurassero, G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni, si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia.  Il sistema filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi, caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità, l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo G.) ma astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva, fosse perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e dunque come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce) la questione dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì celebrato nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli si rivelavano a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il suo opposto, ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure dissolvendolo, il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a idealmente passare. Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo essere, non, come tante volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel porsi come una sintesi, attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter rinunziare - donde l'ambiguità - a trattare gli opposti come gradi, e cioè come diversi o distinti: nell'essere insomma una teoria dell'unità che in eterno supera la distinzione, e della distinzione che, proprio perché è in eterno superata, non può veramente uscire dal quadro e si rivela come la condizione insostituibile della sua possibilità.  Verità del concreto, dunque: ma anche dell'astratto; che nelle opere del secondo attualismo, e cioè nel Sistema di logica e oltre, si rivela non, quale all'inizio era, come natura, immobilità, impenetrabile assenza di coscienza, ma come circolo e mediazione, punto semovente che parte da sé e per fare ritorno a sé: come circolo, e perché no, dunque, come esso stesso logo concreto? Come logo concreto; e perché no, dunque, come logo astratto, se questo è mediazione e coscienza, e niente più di questo il logo concreto può essere?  A Pisa, negli anni della Grande Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica che gli stava dentro come assopita; e assunse perciò una dimensione che non era più soltanto quella del professore che parla dalla cattedra e magari fa conferenze, ma era bensì quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al grande pubblico attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in effetti, assumendo una consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel tempo), mantenuta fino alla fine della sua vita, G. allora prese a collaborare: tanto che quando, a guerra finita, raccolse in un volume che intitolò Guerra e fede (Napoli) quanto aveva scritto durante il suo corso, il libro risultò tutt'altro che smilzo, e comunque più consistente di quello che lo seguì, e nel quale, con il titolo Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò gli articoli composti nei due anni iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico dopoguerra. Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente G. cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come Salvemini l'aveva in precedenza definito, della malavita, ma l'artista di ogni cosa che fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei cieli della grande politica.  Furono, questi, mesi drammatici, che egli visse in uno stato d'animo teso e agitato, e nel segno di un'attività senza soste, che dette a tratti l'impressione di essersi risolta in frenetico attivismo. Che certo non si placò quando Croce è chiamato da Giolitti a ricoprire nel governo la carica di ministro dell'Istruzione pubblica e dette la sua opera alla riforma della scuola media e introdusse sia l'esame di Stato, sia l'insegnamento della religione. Alle cose della scuola G. aveva, per parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo: ossia fin da quando, giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso conto di quante manchevolezze l'affliggessero. E poi aveva pubblicato il Sommario di pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario dell'Istituto femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo nel Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi).  A Croce, del resto, G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e incondizionato. Almeno nei risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che occorreva trarre da alcune generali premesse, i due filosofi amici concordavano senza riserve. E nel sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse costituire materia d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di Croce se non per il modo e per la diversa posizione che alla religione egli riserva nel sistema dello spirito. La sua idea era insomma che, come per pervenire alla pienezza del suo sé nella filosofia, lo spirito passa attraverso le fasi ideali, e contrapposte, dell'arte (soggetto) e della religione (oggetto), così anche nella scuola questo ritmo dovesse trovare una sorta di trascrizione temporale o fenomenologica, quasi che, per giungere alla filosofia, anche lì si dovesse percorrere la regione del mito di cui le religioni s'interessano. Ma la religione della quale il progetto ministeriale prevedeva l'insegnamento era quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per G., di tutte le religioni quando, appunto, proprio nella forma assunta dal cattolicesimo la si fosse considerata. Era, questa, della perfezione cattolica, un'idea che G. aveva sostenuto quando, nei primi anni del secolo vigorosamente aveva polemizzato con i modernisti cattolici. E, per questo riguardo (oltre che per quello concernente la struttura dello spirito), il suo accordo con Croce era piuttosto sulle conclusioni che non sul metodo. Che è poi quello stesso che si dà a vedere nell'idea che presiedette all'introduzione dell'esame di Stato, perché se, nel propugnarlo, G. vi implica il concetto secondo cui in esso lo Stato realizzava una delle dimensioni della sua eticità, Croce non vi vedeva se non uno strumento di controllo e a questa luce ne interpretava la necessità.  La cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più stretto si rivelava il legame dei due filosofi impegnati in una importante impresa pratica, il loro dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a complicarsi con quello politico generale, perché nei confronti del fascismo la reazione di Croce fu bensì, agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in quel movimento egli non vide nemmeno una piccola parte delle idealità che G. riteneva gli fossero intrinseche e immanenti.  Del resto, dopo due anni che era salito sulla cattedra romana, G. fondò, assumendone la direzione, il Giornale critico della filosofia italiana: una rivista di sola filosofia che anche per questo suo carattere non si contrapponeva in ogni senso alla Critica, ma in un certo senso sì, anche perché nella nuova rivista gli scolari che subito si erano stretti intorno al nuovo professore, e in lui vedevano il sole della filosofia mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E questo, come si sa, era il punto che Croce meno apprezzava ed era disposto a perdonare.  Il momento decisivo della vita del G. venne quando, caduto il governo del Giolitti nel quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e succedutogli uno presieduto da Bonomi con Corbino all'Istruzione pubblica, egli ebbe modo di riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo politico e parlamentare sempre sarebbero state opposte a ogni tentativo che si fosse fatto d'introdurre nella scuola una seria riforma. La disistima che, in linea generale, già da molto tempo G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava così, nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti, nuovo alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a guardare con sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con politica indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua azione.  I documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto, riflettendo sulle recenti esperienze, G. allora si persuadesse che, nella questione della scuola come, in generale, in quella concernente il governo del paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti altri egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso, aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità in segnato che la politica è un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo.  Come che sia, l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli si erano formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di formare il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto da L. Facta, MUSSOLINI scelse infine come ministro della Pubblica Istruzione proprio Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel governo come indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma tecniche, il G. accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto accettare da Giolitti e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione. Ma, sebbene egli non avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al fascismo, e fascista ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che quel che pensava di Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non gli avrebbe forse consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali nutriva disprezzo, e non stima. Nel governo in cui entrava G. poteva infatti contare sugli ampi poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso a Mussolini, che governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità poteva aggirare le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli si giovò con larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era andato con l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era deciso.  Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza. Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e, comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano, corrispondevano quattro distinti ruoli sociali; e altresì prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata, per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola industriale e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi avesse inteso proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze formative di queste professioni, insieme con una scuola magistrale, proseguibile in un magistero universitario, per certe parti analogo alla facoltà di lettere e filosofia.  Le critiche che a questo modello di scuola, qui sommariamente descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il carattere conservatore, statico e anche classista di una struttura a cui faceva in effetti riscontro l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri politici ed economici. E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve avanzate circa il ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle due lingue classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue moderne e, nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a quella fatta alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche rivolte all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche della matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva antiche abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente dedotto da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di rendere filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi che la riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato veniva a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi pure che la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti i cittadini dello Stato italiano.  Accanto alle molte critiche, occorre tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il nodo che, per parafrasare ALIGHIERI, tiene al di qua di ogni ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di spirito ritenga che la difficile questione si risolva col "democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e abbassarne il livello. L'esigenza che G. (e questo non può essere negato) cercava di realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti didattici inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che "cultura" significa, in primo luogo, la grande difficoltà che s'incontra nel tentativo che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a buon segno soltanto se ci si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici, storici, linguistici, filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del sapere non dischiude i suoi tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che tende a tornare insoluto dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo, occorre non insistere.  All'apparenza con una decisione improvvisa, che non fu comunicata se non a Mussolini, che doveva essere informato, e della quale nemmeno Croce fu messo al corrente, G. si iscrive al PARTITO NAZIONALE FASCISTA. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era ministro, a compiere questo passo, che certo non era privo di gravi conseguenze, si è molto discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a prendere questa decisione, che rese contenti i suoi allievi romani, ma non altri che ne rimasero invece alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due diverse, ma convergenti, persuasioni.   La prima, che quello fosse l'esito necessario non tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in quanto tale poco aveva in comune, quanto piuttosto della riflessione da lui condotta nei passati anni sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il fascismo aveva nelle mani di reintegrarne in unità le secolari scissioni e lacerazioni, la politica imbelle e la letteratura vuota, compiendo il Risorgimento. L'altra, immediatamente pratica e politica, che la riforma sarebbe stata meglio difesa, e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale che egli era, ed era considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve la convinzione mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un freno, alle critiche che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era circondato.  In ogni caso, il passo che doveva decidere il destino di G. era compiuto. Ed è quanto meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la riforma dalle forze che l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione, quel passo servisse veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio di Matteotti, e che videro quattro giorni dopo le sue dimissioni dal governo, furono drammaticamente segnati da gravi difficoltà, a superare le quali non bastarono né il tattico appoggio datogli dal capo del governo, né gli inviti alla resistenza provenienti dai suoi scolari e amici romani, né il sostegno deciso di Croce che, malgrado il sempre più netto incrinarsi dei loro rapporti e la frattura che entrambi sapevano, in cuor loro, inevitabile, non glielo fece mancare e, nella sua impresa di ministro, lo sostenne. Le dimissioni dal governo non furono un atto di autonomia, di distacco dal fascismo che si era macchiato di un gravissimo delitto, di opposizione alla sua politica. Furono, infatti, da lui motivate con pure ragioni di opportunità politica e nell'interesse sia del governo, sia di colui che lo presiedeva: ossia con l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali la sua riforma era da tempo l'oggetto potessero diventare un pretesto per colpire Mussolini o avessero comunque, pretesto o no, a indebolire la posizione politica di lui che, all'improvviso, era venuto a trovarsi in una situazione obiettivamente molto difficile.  Accusato apertamente dalle opposizioni di essere il responsabile e il materiale mandante del delitto, MUSSOLINI è allora non solo in pericolo, ma sembrava altresì aver perduto la sicurezza e la spregiudicatezza che, in momenti non altrettanto gravi, erano sembrate la dote precipua del suo essere un politico nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e alle infinite mediazioni della prassi parlamentare. E, proprio perché sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli ebbe allora, in lettere private, a formulare critiche precise - nonché il timore che quello smarrisse la via e naufragasse -, proprio per questo il proposito di rendergli il più possibile sgombro di ostacoli il cammino dovette sembrargli l'unico che un seguace fedele dovesse preoccuparsi di tradurre in comportamenti conseguenti.  Al fascismo, dunque, con quel gesto il G. non tolse il suo consenso, ma piuttosto lo rinnovò in un momento in cui non mancarono, fra i suoi allievi, quelli che, delusi dall'indecisione mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida effettiva, e cioè politica, del fascismo in crisi. Furono quelle settimane drammatiche, perché, oltre gli elementi obiettivi che rendevano tale la crisi, a coloro che, nel campo fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si contrapponevano gli amici che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli davano il consiglio opposto: non di rimanere nel partito di MUSSOLINI, ma, decisamente, di uscirne, mettendo in salvo una volta per tutte il suo "nome onorato". Drammatiche sono, in questo senso, le lettere che allora gli scriveno Radice, collaboratore fedele e amico fraterno, e Omodeo, uno degli allievi prediletti della scuola palermitana. Furono giorni, settimane, mesi molto difficili anche perché il dissidio con Croce, che, come si è detto, mai si era sul serio ricomposto e, come il fuoco la cenere, sempre aveva seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse allora, finalmente, alla sua definitiva espressione. E quali, a determinare la rottura che in sostanza si consumò, possano essere stati gli episodi e le circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle cose a rendere grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non fosse appunto stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità, potuto avere un esito diverso.  Sulle ragioni profonde che la determinarono e misero fine a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose si dissero allora, molte sono state dette poi, quando parve che il distacco cronologico consentisse la serenità necessaria alla formulazione del giudizio. E questa non è la sede dove la questione possa essere analizzata in ciascuno dei suoi aspetti, filosofici, politici, psicologici; e si può ben dire che, per quanto attiene al suo concreto e determinato delinearsi e decidersi, essa risulti definita dalle due lettere che G. e Croce si scambiarono: essendo tuttavia quest'ultimo che, di fronte alla dolorosa meraviglia espressa dall'altro nell'apprendere che certi suoi comportamenti avevano seriamente messo in pericolo la prosecuzione, non solo del loro sodalizio scientifico, ma, addirittura, della loro amicizia, obiettò che al dissidio mentale nel quale da tempo si trovavano se n'era aggiunto un altro, di natura pratica e politica; e che le cose dovevano perciò fare il loro corso necessario, fino alle estreme conseguenze.  Le dimissioni che il G. presentò e che Mussolini accettò, nominando al suo posto il liberale, e grande amico di Croce, A. Casati, segnarono nella sua vita una svolta importante. Nella sua vita, s'intende dire, pubblica e politica; e non nei suoi sentimenti e convincimenti politici che, a quanto risulta, fino all'ultimo dei suoi giorni rimasero quelli che lo inducenno a chiedere la tessera del PARTITO FASCISTA. Non nei sentimenti e nei convincimenti, dunque. Ma nella vita pubblica e politica, sì. Al governo infatti G. non torna più. E alla politica del paese partecipa bensì, nei primi tempi, come presidente della commissione dei quindici (divenuta poi dei diciotto), il cui compito fu di svolgere una revisione costituzionale in senso autoritario dello Stato. Partecipò bensì come vicepresidente del consiglio superiore della pubblica istruzione: una carica importante, questa, che gli consentiva di vegliare sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti avevano interesse a intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in senso stretto, dalla politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua partecipazione alla vita del regime fascista si realizzò nelle istituzioni culturali (per esempio, l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di cultura fascista) delle quali ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali e nelle riviste politiche alle quali normalmente collaborava non perse occasione per dire il suo parere su ciò che più da vicino lo toccava, l'argomento prescelto fu quasi sempre culturale, anche se mai egli mancò di collocarlo nel quadro costituito della sua fede fascista e della sua fedeltà al regime mussoliniano.  Almeno su due episodi occorre tuttavia, non essendo possibile in questa sede un più largo discorso, soffermarsi. E di questi uno era bensì di natura anche filosofica e culturale, perché implicava in modo preminente l'idea che da anni ormai egli aveva elaborato della filosofia e dello Stato che, identico alla filosofia, rappresenta il vertice stesso dell'autocoscienza; ma anche era di natura politica, e persino diplomatica, coinvolgendo direttamente l'azione del governo e del suo capo. Si allude al concordato con la S. Sede. E G. lo avversò in un pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche perché sulla via concordataria MUSSOLINI è deciso ad andare fino in fondo, e l'opposizione del filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse seguitare ad agire dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse rinverdire dentro di sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta la vita polemizzò con i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli ambienti dell'Università cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con Gemelli, che egli trattò con la mano rude che riservava a certe sue battaglie culturali e filosofiche.  L'altro episodio è costituito dalla battaglia che egli sostenne perché ai professori universitari fosse imposto il giuramento di fedeltà al regime fascista. E a parte le modalità con le quali e attraverso le quali si svolse; a parte il nesso con le vicende della replica che, per iniziativa di Amendola, e a nome di tanti e tanti intellettuali, Croce dette al Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da G.; a parte le tragiche ferite che questa imposizione apriva nella coscienza di tanti che innanzi a sé videro o la prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai dettami dell'etica, c'è qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato. E questo è il singolare concetto della "concordia" a cui, com'era accaduto persino nei giorni cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti (e come ancora sarebbe accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica sociale), anche in quel caso G. si appella per sostenere che, se l'opposizione resa evidente e, anzi, drammatizzata dal conflitto dei due manifesti, il suo e quello di Croce, fosse stata superata da un formale atto di fedeltà al regime, l'unità sarebbe stata ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più avuto alcuna ragione d'essere nei confronti di dissenzienti che non erano, ormai, più tali. E la cosa singolare è che, nell'argomentare così, non solo egli mostrava di credere che, se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del dissidio politico che ai suoi occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute meno; ma addirittura riteneva che potesse essere e definirsi unità autentica quella che fosse stata conseguita per la via della coercizione e non per quella, da lui tante volte definita come l'unica possibile, della libertà, mediante la quale lo spirito costituisce sé stesso.  Quella dell'enciclopedia è l'impresa alla quale G. dedica la parte più viva della sua energia di grande organizzatore culturale. La parte più viva, e anche la più grande, la più impegnata e costante, quella con la quale il suo "tutto" quasi per intero giunse a coincidere. Quasi per intero; perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non dimenticare l'altro grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale superiore di Pisa, della quale ècommissario, quindi direttore, e che nella sua stessa persona difese dall'attacco mosso da Vecchi di Val Cismon che, divenuto ministro dell'Educazione nazionale, gli mostra intera la sua ostilità, giungendo anche a destituirlo. Il provvedimento del ministro è presto ritirato perché, sollecitato da G., nella controversia intervenne direttamente il capo del governo, che rimise al suo posto il filosofo; che poté così continuare la sua opera di potenziamento e di ammodernamento della Scuola, e rendere assai più agevole il soggiorno, e migliori le condizioni di studio, agli studenti interni. Dai quali dovette sopportare non poche manifestazioni di antifascismo, perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani professori, e in primo luogo di Calogero, Pisa era diventata un centro assai vivo di opposizione al regime fascista.  Il consenso del quale questo aveva goduto fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo quando, con la guerra di Spagna e poi, con le leggi razziali, si ha netta l'impressione che l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe avuto per conseguenza la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E, ancora una volta, il G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e penoso, con i giovani che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non poco, comunque, avevano ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche orali, che rimangono di quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento incerto fra paternalismo e autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise durezze. Un atteggiamento, questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso tempo, incapace di comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di ben altra drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di "sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che avevano dovuto lasciare la loro terra perché ebrei (Kristeller, Löwith, Rubinstein, per citarne solo tre), la medesima questione gli si presentò, per gli ebrei italiani, in seguito alla promulgazione delle già ricordate leggi razziali. Anche in questo caso, infatti, quanto fu benevolo e comprensivo nei confronti dei perseguitati, altrettanto il suo atteggiamento fu debole nei confronti di chi di quella persecuzione si era reso responsabile. E se niente egli disse in quegli anni in difesa di provvedimenti che non potevano non ripugnargli profondamente, in pubblico non se ne dissociò.  Ma si diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la quale, nel dirigerla, nell'avviarla alla sua realizzazione, G. seppe altresì formare, nella sede romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto particolare, segnato in profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo senso della libertà della scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile equilibrio fra il censore ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo più garantire agli studiosi che vi collaboravano e che, se non certo in maggioranza, in buon numero erano antifascisti o non fascisti.  Si pensi, per fare qualche nome, a Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare anche dopo che, per non aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al regime, aveva dovuto rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a Calogero, a Giusti, a Malfa, a Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano propriamente ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui si possono, per esempio, fare i nomi di Chabod, di Sestan, di Maturi.  A proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se il G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al fascismo, o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era convinto che quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento dell'unica, ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se l'enciclopedia, quale il G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza della chiusura e dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco disposta a concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio che queste avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve rispondersi che, certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo, l'Enciclopedia appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma fascista non è nella concezione, perché esplicitamente il G. sostenne il suo carattere in primo luogo scientifico, culturale e non politico. E fascista non è nel contenuto, perché, oltre a essere scritta da molti che fascisti non erano, e anzi al regime erano avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero per lo più da studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre distinguere e mantenere le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa all'altra questione) che, come non fu fascista nella concezione, così nemmeno fu "idealistica" nel senso vulgato, per il quale si dice "idealismo" e s'intende qualcosa come un oltraggio recato alla scienza. In realtà, come accanto a studiosi idealisti tanti altri vi scrissero che idealisti non erano affatto, così non sarebbe giusto dire che in generale le scienze vi fossero depresse, e che le relative voci non fossero affidate a studiosi di provato e, spesso, di grande valore.  Il lavoro svolto nelle Università di Roma e di Pisa, l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di Milano, l'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di studi manzoniani (di cui G. è stato nominato commissario, e che è affidato alle cure sapienti di Barbi e del suo collaboratore Ghisalberti) non resero però meno intensa la sua attività di studioso. Certo, venne meno in G. la possibilità e, con questa, anche l'interesse, di coltivare la ricerca storica nelle forme che questa aveva assunto, presso di lui, negli anni precedenti. Ma nel 1931, rielaborazione di un corso tenuto nell'Università di Roma, dove (come già si è ricordato) era succeduto al Varisco sulla cattedra di filosofia teoretica, il G. pubblicava La filosofia dell'arte, documento di aspra polemica anticrociana, ma anche, nello stesso tempo, rielaborazione dell'idealismo attuale dal punto di vista del sentimento, interpretato ora come una sorta di grande Grundakkord, presentante tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita spirituale. E quindi pubblicava l'Introduzione alla filosofia, raccolta di scritti concernenti l'esame dei concetti fondamentali della filosofia, studiati e prospettati dal punto di vista conseguito dall'idealismo attuale. E senza la pretesa di ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia occasione, che egli allora compose e con i quali fu presente nel dibattito e nella vita culturale del paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti dedicati ai poeti, e cioè, in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma; Il Purgatorio, Firenze), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato, e quello altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della critica letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano; Commemorazione di Leopardi, Roma; Poesia e filosofia di Leopardi, Firenze).  Se la si osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve periodo seguito alle battaglie per la riforma della scuola, contro il concordato, per l'istituzione del giuramento da imporre ai professori delle università, la vita di G. sembra, come si è detto, svolgersi prevalentemente all'interno delle istituzioni culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le luci e le ombre di queste molteplici attività, che lo condussero anche all'acquisto della Sansoni, si ha quasi l'impressione che il personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado la sua spesso ingombrante presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di irriducibile, con il quale egli era forse il primo a non voler prendere, fino in fondo, contatto.  L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come si è detto, ma anche deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che qualcuno spingesse, o provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di quella spessa corazza attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose di quante amici, nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri penetrasse nel suo animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad aprirlo perché egli stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla "critica" di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza perciò che un moto di stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva qualche ricerca, dal suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla questione della morte, ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale, insidioso fin quasi al limite dello "scandalo" (filosofico).  Da qualche altro indizio documentario può desumersi che se la fedeltà che lo legava al FASCISMO non venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini e inconcussa la fiducia in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo il G. mostrò tutt'altro che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli impedì di accettare senza discussione alcuna la guerra che coinvolse tragicamente anche l'Italia. Nei tre anni successivi - in quei tre anni così gravi di disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di dolorosi lutti familiari, mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla patria si spezzava, perché la difesa di questa non s'identificava più, per molti, con la difesa della libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni G. scelse il silenzio; che fu rotto solo in poche occasioni: quando esaltò in un articolo il Giappone guerriero, che, nei modi noti era entrato in guerra attaccando gli Stati Uniti d'America; e quindi con il famoso discorso agli Italiani del 24 giugno 1943.  È difficile dire come, dentro di sé, G. valutasse il dissenso politico sempre più vivo nei confronti del regime, e che egli non poteva non cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a Pisa, aveva frequente contatto: anche se è indiscutibile che di quel dissenso, di quell'avversione, del progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in questo avevano creduto e riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo sentimento di fedeltà come in una fortezza della quale convenisse non abbassare, bensì, piuttosto, tenere ben alzati i ponti levatoi. È questa, come si sa, la ragione per la quale egli accettò l'invito rivoltogli dal segretario del partito fascista, Scorza, di pronunziare dal Campidoglio un discorso che si rivolgesse agli Italiani, impegnati nella terribile prova della guerra e che, da qualche settimana avevano ormai il nemico in casa, fortemente attestato nella terra siciliana. Accettò l'invito che altri, interpellati prima di lui, avevano declinato. Salì sul Campidoglio, e pronunziò il suo discorso, che alcuni lodarono per il coraggio che aveva dimostrato e per il rischio al quale aveva in tal modo esposto la sua persona, e altri invece fortemente deplorarono e criticarono, cogliendovi come il segno della sua perdizione, del suo ribadito essersi reso estraneo a quel suo più profondo "sé stesso" dal quale non pochi avevano tratto una lezione di libertà. Certo, con quel suo discorso, così teso, così eloquente e così, politicamente, ingenuo, G. mostra intero il dramma, anzi rivelò la tragedia nella quale, forse al di là della sua stessa consapevolezza, si dibatteva.  Poi vennero la caduta di Mussolini e del fascismo, le umiliazioni che egli dovette subire quando il suo antico segretario al ministero della Pubblica Istruzione, Severi, divenuto a sua volta ministro nel governo formato da Badoglio, rese, senza alcuna seria ragione, pubbliche tre lettere che gli erano state da lui privatamente indirizzate a proposito, sopra tutto, di questioni concernenti la Scuola normale superiore di Pisa. Il che provocò giudizi aspri su di lui sia da parte dei fascisti che lo ritennero pronto a mettersi al servizio dei nuovi governanti, sia da parte di non pochi antifascisti uniti ai primi, in questo caso, da un non diverso giudizio.  Poi venne l'8 settembre, la cui notizia il G. apprese mentre si trovava a Roma, dove si era recato uno o due giorni prima, per affari personali, da Troghi, un piccolo paese sito a pochi chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di campagna messa a disposizione sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni, aveva trascorso i mesi estivi, occupato a scrivere Genesi e struttura della società, il suo ultimo libro, estremo frutto di un corso di lezioni tenute all'Università di Roma. E le settimane successive furono quelle in cui, liberato Mussolini, e formatosi, con la proclamazione della Repubblica sociale, un governo fascista con sede a Salò, egli ricevette, tramite Biggini, divenuto ministro dell'Educazione nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro con il capo del governo, il "vecchio amico" al quale, ancora una volta, non poté non concedere quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato presidente dell'Accademia d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu sistemata a palazzo Serristori. E qui, dopo che il "commovente" incontro con l’amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di non starsene in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli riprese il lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i pochi soci che vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia, cercando di riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette vita e autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi richiederebbe qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine era stata in parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E riprese ancora a collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne un'altra si aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si potesse non far di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità.  Era un suo vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico teatro che era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita all'assassinio di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto ai professori universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo che circondavano la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido, ancora più tragico. G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia fascista, forte lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a esistere come soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle ideologie e qui, in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e identità di Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse tale, si comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel tragico inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora una volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un verso sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e identità dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle ideologie, dal fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era la Repubblica sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo ideale.  Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle che, nel loro contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile dimensione tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà mantenuta usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più volte elevò contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei fascisti, con torture, uccisioni, gravi violenze.  La sua morte, avvenuta per mano di un commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della Villa Montalto al Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole, nella tarda mattina, al suo ritorno a casa dopo la mattina trascorsa al lavoro a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte violenta. E suscitò molta emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto e mai avevano perdonato a lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà, la scelta fascista, cui era rimasto fedele.  Due domande, semplici, ovvie e altrettanto inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della sua ultima scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di ucciderlo. E la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto semplice di quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il G. aderì per le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di scegliere di nuovo, ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta fatta vent'anni innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in crisi questa decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto puro, e quel che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore, niente. Alla seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi documenti interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora impediscono di vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e allora si vedrà fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva rinnovato il suo legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche valutazioni politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S. Croce, in Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua sepoltura.  Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze. L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal G., e cioè: Opere sistematiche; Opere storiche; Opere varie alle quali due si aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste cinque partizioni si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari, nella quale sono apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile del manoscritto della traduzione di Diels), a cura Cavallera, premessa di Adorno, Firenze 1996, e La filosofia della storia. Saggi e inediti, a cura di Schinaia, premessa di Garin. A parte questi due ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere complete sono quarantanove, perché ancora in preparazione risulta il XXIX, dedicato a Spaventa; e aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione comprendente i Carteggi, alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello con G. Calogero, a cura di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di M. Simoncelli.   Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo della voce le principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa; La filosofia di Marx, ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari; I problemi della scolastica e il pensiero italiano; La riforma della dialettica hegeliana, Messina; Sommario di pedagogia come scienza filosofica, I, Pedagogia generale, Bari; II, Didattica, ibid.; Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa; I fondamenti della filosofia del diritto, ibid.; Sistema di logica come teoria del conoscere, La logica dell'astratto, La logica del concreto, Bari; Le origini della filosofia contemporanea in Italia,, Messina; Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze; La filosofia dell'arte, Milano; Introduzione alla filosofia, ibid.; Genesi e struttura della società, Firenze.   Fra i carteggi, quello con Croce, comprendente le sole lettere del G., è raccolto in Lettere a B. Croce, cur. di Giannantoni, Firenze (il testo di riferimento è Croce, Lettere a Gentile, a cura di Croce, con introd. di Sasso, Milano). Ma sono anche usciti: G. - Jaja, Carteggio, a cura di Sandirocco, Firenze; G. - Omodeo, Carteggio, a cura di Giannantoni; G.  - Maturi, Carteggio, a cura di Schinaia, Gentile - Pintor, Carteggio, a cura di E. Campochiaro, Fonti e Bibl.: Tre sono le biografie fin qui dedicate a G.: Lalla, Vita di G., Firenze; Romano, G.: la filosofia al potere, Milano; G. Turi, G. G.: una biografia, Firenze. Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di Gentile: G.: dal Discorso agli Italiani alla morte, Firenze; Ricordi e affetti, Firenze. Sulla uccisione di G., v. Canfora, La sentenza. Marchesi e G., Palermo, dove si trova l'indicazione della precedente bibliografia relativa a questa pagina non ancora definitivamente scritta. Cfr. anche Sasso, La fedeltà e l'esperimento, Bologna. La bibliografia su G. è assai ampia: per gli scritti di G. ci si deve ancora servire della Bibliografia degli scritti di G., a cura di V.A. Bellezza, in G.: la vita e il pensiero, Firenze, e anche di Il pensiero di G. Gentile. Atti del Convegno, Roma. Per gli scritti, si veda: Bonechi, Croce - G.: bibliografia Giornale critico della filosofia italiana. In questo ambito per un primo orientamento si può innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e sul G. è stato scritto dai principali discepoli delle sue due scuole, la palermitana e la romana, e cioè da V. Fazio-Allmayer, da Omodeo, Albeggiani, Ruggiero, e quindi Spirito, Volpicelli, Volpicelli, Calogero, Chiavacci, lo stesso Carlini, ecc. in ciascuna delle loro opere, e quanto invece al pensatore siciliano è stato dedicato con esplicita intenzione storiografica. Non sempre agevole da rispettare, la distinzione può tuttavia essere di qualche utilità; e qui si indicheranno gli scritti appartenenti alla seconda classe (mentre per la storia "filosofica" dell'attualismo, può vedersi Negri, G. G., Firenze; cfr. anche A. Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari). Sono, innanzi tutto, da tener presenti gli studi raccolti nei quattordici volumi della serie G.: la vita e il pensiero, Firenze. Si veda quindi: G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, Bari; U. Spirito, Il nuovo idealismo italiano, Roma; Id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze; La Via, L'idealismo attuale di G. G., Trani; Sarlo, G. e Croce. Lettere filosofiche di un superato, Firenze; Calogero, Il neohegelismo nel pensiero contemporaneo, in Nuova Antologia; Holmes, The idealism of G. G., New York Carabellese, L'idealismo italiano, Roma; Guzzo, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Roma, Ciardo, Un fallito tentativo di riforma dello hegelismo: l'idealismo attuale, Bari; E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari; Harris, The special philosophy of G. G., Urbana, IL; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova Spirito, G., Firenze, Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano; Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma; Noce, G. G.: per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Negri, L'inquietudine del divenire. G. G., Firenze, Sasso, Filosofia e idealismo, G., Napoli. Armando Girotti. Girotti. Keywords: la curva, la curva della bellezza, la linea, la linea della bellezza, storia storica, non filosofica – unita longitudinale – longamiranza, distillizione filosofica – Gentile, il Gentile di Girotti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gitio: la ragione conversazionale e a setta di Locri -- Roma – scuola di Locri – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Locri, Calabria -- According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Grice e Giudice: la ragione conversazionale al rogo -- l’implicatura conversazionale di Bruno – filosofia napoletana – scuola di Napoli – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo Italiano. Napoli, Campania. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust in the worth of the longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed some philosophical minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on ‘Atteone,’ which are jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno is interesting: it’s not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and usually the heretics had a better philosophical background – into what the Italians called the lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford in pre-lib days!” -- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the Italians prefer ‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the full surname – if it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth the origin of philosophy in the Eleatic school. Si laurea a Napoli e studia BRUNO e la filosofia del rinascimento. Fonda la Societa Bruno. Altre opera: “BRUNO” (Marotta e Cafiero Editori, Napoli); “La coincidenza degl’opposti” (Di Renzo, Roma); “Bruno, Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo, Roma); “Due Orazioni. Oratio Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo, Roma, “La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo, Roma); “Il Dio dei Geometri” quattro dialoghi, Di Renzo, Roma); “Somma dei termini metafisici”; “Tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo, Roma, “Io dirò la verità. Intervista a Bruno, Di Renzo, Roma, “Contro i matematici, Di Renzo, Roma, “Il profeta dell'universo finite” – “Epistole latine, Fondazione Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore).  BRUNO, Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). Nacque a Nola, nel Regno di Napoli, figlio di Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa Savolino: è battezzato con il nome Filippo. Della città natale, dove trascorse l'infanzia e iniziò i primi studi, conserva poi sempre un ricordo nostalgico. Si reca a Napoli per studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il Sarnese (COLLE (si veda)), filosofo di tendenze averroiste, e fra' Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da allora in lui l'interesse per la mnemotecnica. Con una incipiente formazione laica, entra come chierico nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano (forse in onore del domenicano fra' Giordano Crispo, maestro allo Studio) e quel nome ritenne poi sempre, salvo che per una breve parentesi. Mal compatibile, per carattere e prima formazione, con la regola conventuale incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il culto di Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne allora stracciata dal maestro dei novizi).  Con cautela va accolta la notizia da lui in seguito fornita (Doc. parigini) di un invito a Roma per mostrare la propria abilità mnemonica a Pio:va però notato che allo stesso pontefice il B. dichiarò di aver dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di argomento morale (Dialoghi italiani).  Ordinato suddiacono e poi diacono, venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i ventiquattro anni, e celebrò la prima messa nella chiesa del convento domenicano di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di teologia: il curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte della Summa tomista) e un corso morale (seconda parte della Summa,alternabile con il quarto libro delle Sentenze di PLombardo esposte da Capreolo). È da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e quelli di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles" e "Verum est quicquid dicit Magister Sententiarum" (Doc. parigini).  Tali studi, se da una parte suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per l'opera d’AQUINO (si veda), d'altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per "les subtilitez des scholastiques, des Sacrements et mesmement de l'Eucharistie" (Doc. parigini,), con il conseguente disinteresse per la problematica teologica manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, più tardi, in sede processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro interesse per opere estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i "libri delle opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di Erasmo" (Doc. veneti). Ciò che, unitamente all'espressione dei propri dubbi circa il dogma della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana, portò all'istruzione di un processo a suo carico da parte del padre provinciale (con l'occasione venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già distrutto): in una scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come sospetto di eresia.  Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò ad abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello stesso mese dové giungere a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria sopra Minerva, confidando forse che il proprio caso passasse ignorato tra i disordini che turbavano la città. Egli stesso venne però coinvolto in tali disordini e imputato di "aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi credette lui che l'avesse accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I): imputazione infondata (come è mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle successive vicende processuali), con tutto che un secondo processo contro di lui venne istruito dall'Ordine dei predicatori. Dopo i primi mesi di quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani erano stati rintracciati a Napoli, B., deposto l'abito, abbandonò Roma, raggiunse GENOVA e si trattenne a insegnando la grammatica a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini (Doc. veneti). Da NOLI passa a SAVONA e quindi a Torino; di lì, non avendovi trovato trattenimento a sua satisfazione", si recò a Venezia, dove si trattenne non più di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare qualcosa, "un certo libretto intitolato De' segni de' tempi", da lui fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera pur questa smarrita. A Padova fu persuaso da alcuni domenicani a indossare l'abito pur quando non avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che il B. fece dopo essersi recato, per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, lasciò l'Italia attraverso la Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferì a Ginevra, dove fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese Gian Galeazzo Caracciolo di Vico.  A Ginevra, dimesso nuovamente l'abito, il B. si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla immatricolazione universitaria autografa, quanto da un processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la Faye, istruito contro di lui dal concistoro: B. venne riconosciuto colpevole e virtualmente scomunicato. Dopo un debole tentativo di difesa, egli si riconobbe colpevole, pregò di essere riammesso alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio (che avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica anticalvinista) determinò la sua partenza da Ginevra.  Recatosi questa volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo un mese e si recò quindi a Tolosa, che era proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò che dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti), non gli impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti), nonché di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi anni continui, il testo del LIZIO De anima ed altre lezioni de filosofia". Da accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire che il suo insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane. Risale a quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato mnemotecnico-lulliano rimasto inedito e smarrito.  Si delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare Tolosa "a causa delle guerre civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi a Parigi, vi intraprese "una lezion straordinaria", cioè un corso di trenta lezioni su altrettanti "attributi divini, tolti d'AQUINO (si veda) dalla prima parte, che alcuni vogliono costituisse l'operetta inedita e smarrita "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali" (Doc. veneti). A Parigi non poté accettare un lettorato ordinario per l'obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la messa; tuttavia conseguì tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come ebbe a dichiarare egli stesso, "il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per scienza" (Doc. veneti): episodio che ben si comprende tenendo conto del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come Perron e Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di riforma culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero durati, direttamente o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano altresì sul piano ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra l'equidistanza bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la posizione mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo cattolico dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti.  Durante questo primo soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a noi pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera mnemotecnica e lulliana stampata da Gourbin, da B. dedicata ad Enrico III, il quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica stampata da Gilles e dedicata, per conto del B., da Regnault ad Angoulême, fratello naturale del re, essendo B. stesso "gravioribus negociis intentus" (Opera); quindi il De compendiosa architectura et complemento Artis Lullii (Gourbin) dedicata dal B. all'ambasciatore veneto Giovanni Moro.  La prima parte del De umbris rielabora materiale lulliano e mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica che presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo ideale; la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui il B. attinge in particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa nell'Ars memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si inseriscono nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando l'intento gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta un'applicazione concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza un'intenzione satirica che sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa architecturarielabora gli elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire uno strumento gnoseologico per cui l'ordine universale risulta riflesso nello schema simbolico. B. terminava la composizione dell'unica sua commedia, il Candelaio, stampata prima della fine dell'anno (anteriormente forse al De compendiosaarchitectura) da Guillaume Julien figlio. Sul frontespizio l'autore si definiva "Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis.  Il Candelaio, scritto in un volgare popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione burlesca rinascimentale (Aretino, Berni, ecc.) accanto a moduli parodici della retorica classica, riflette sul piano morale il momento di rottura con l'Ordine, né è da escludere che la composizione ne fosse stata iniziata prima dell'allontanamento dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana B., personaggio napoletano di non sicura identificazione, la commedia, di ambientazione appunto napoletana - la cui azione si svolge vicino al seggio di Nilo" - investe satiricamente tre materie principali e l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedanteria di Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del principio bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti nell'uno. Fin dalle pagine preliminari si notano del resto motivi che, riallacciandosi alla base teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica delle operette latine, anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi filosofici ("Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi...").  Dalla dedica del Candelaio si sono desunti due titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli pensier gai e Il troncod'acqua viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova citata un'ottava ("Don'a' rapidi fiumi in su ritorno") di un "poema" inedito e smarrito, cui appartiene forse anche l'ottava "Convien ch'il sol, donde parte, raggiri" citata tre anni dopo negli Eroici furori.  L'ambasciatore inglese a Parigi, Cobham, inviava un preoccupato messaggio al primo segretario del Regno d'Inghilterra, Walsingham, informandolo dell'intenzione del B. di passare in Inghilterra: la preoccupazione concerneva l'ambigua posizione bruniana in fatto di religione. L'arrivo del B. in Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III per il proprio ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel de Castelnau (cui era affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria di Scozia presso la regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B. poté essere indotto a lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero" (Doc. veneti) - o più esattamente per il delinearsi di quella reazione cattolica che due anni più tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di pacificazione con i protestanti -; d'altra parte non è da escludere che il suo viaggio in Inghilterra potesse rientrare in un piano dei moderati francesi inteso a mobilitare la corrente politique inglese ai fini di una distensione politico-religiosa in Europa. Ma non è certo da trascurare la personale urgenza bruniana per una sua affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i tentativi compiuti a Tolosa e a Parigi.  Al suo arrivo in Inghilterra B. prese dimora nella casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva altro, se non che stava per suo gentilomo" (Doc.veneti). Fa una visita a Oxford, al seguito del conte palatino Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori designati, sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare con il teologo Underhill, richiamandosi alla logica aristotelica in polemica con le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da ritenere che indirizzasse allora la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Academiae Procancellarium, clarissimos doctores atque celeberrimos magistros (allegata ad alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la quale faceva istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene dai registri universitari non risulti che B. abbia tenuto un corso formale in quella sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera" (Dialoghi italiani: vedi Doc. parigini, I, e Opera), risulta confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol, da cui si apprende che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò nel corso della stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l'altro, la teoria copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare che tale corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il medico Martin Culpepper, guardiano di New College, e Matthew, decano di Christ Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De vita coelitus comparanda: ciò che può essere inteso con riferimento ai prestiti ficiniani nella terminologia bruniana). Interrotto il corso dopo la terza lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e insieme antiumanistica.  A Londra il B. condusse la propria polemica culturale e speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli paraccademici di corte, sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal pubblico universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra è un volumetto contenente l'Ars reminiscendi, l'Explicatio triginta sigillorum (preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio e per la lettera è possibile precisare l'officina tipografica, che è quella di Charlewood, dalla quale sarebbero uscite tutte le rimanenti opere londinesi.  L'Ars reminiscendi è, con lievi varianti, una riproduzione dell'ultima parte del Cantus circaeus. Gli scritti che seguono portano la dedica all'ambasciatore francese, con parole di riconoscenza per la familiare ospitalità. L'elencazione dei triginta sigilli mostra che questi rappresentano la sintesi formale dei segni ovvero ombre delle cose e delle idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio appare manifesto il presupposto gnoseologico del complesso simbolismo mnemotecnico bruniano. Nel Sigillus sigillorum si manifesta la fede del B. nell'unità del processo conoscitivo, cui corrisponde, sul piano ontologico, la fondamentale unità dell'universo. Alla innegabile utilizzazione di elementi propri alla tradizione platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di preoccupazioni e tendenze d'ordine mistico-religioso: il carattere "speculativo" del Sigillusfa di quest'opera il legittimo antecedente della serie dialogica italiana.  Il mercoledì delle Ceneri, B. venne invitato a illustrare la propria teoria sul moto della Terra nella "onorata stanza" di Greville, a Whitehall, in compagnia di Florio e del medico Gwinne, essendo presenti due dottori oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere di nome Brown (in sede processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta invece in casa del Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio causato dalla intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato, il B. si licenziò dall'ospite e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della Cena de le Ceneri (stampata nello stesso anno).  Tramite il resoconto della sfortunata discussione, il B. enuncia in questi dialoghi la propria cosmografia: movendo dall'eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente a una concezione originale dell'universo che per molti rispetti sembra anticipare i postulati della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del B. in Inghilterra, la corrente scientifica distaccatasi dalle università e sostenuta dalla corte elisabettiana (Recorde, Dee, Field, Digges) aveva mostrato un certo interesse per le teorie copernicane: è in questa corrente appunto che si inserisce ormai l'attività inglese di B., sia per le istanze "scientifiche" (elaborazione di una moderna teoria astronomica), sia per quelle letterarie (ripudio del latino e adozione del volgare per trattazioni scientifico-speculative) e perfino politiche (adesione alla moderata fazione puritana capeggiata da Dudley, conte di Leicester, nei contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano Cecil: ciò che ci è rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo II della Cena).  Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore francese, la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte contrasta il geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende l'eliocentrismo copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi nell'universo infinito (non senza la suggestione implicita della definizione ermetica di Dio, come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non si trova in alcun luogo): sul piano teologico ne deriva l'affermazione dell'infinito effetto della causa infinita, nonché l'interpretazione prammatica di quei passi delle Scritture che concordano con la concezione vulgata dell'universo.  L'impostazione polemica dell'opera investe, nel dialogo II, tutti gli strati della contemporanea società inglese mediante una rappresentazione vivacemente realistica. B., pur adottando la forma dialogica della tradizione speculativa rinascimentale, la piega alle esigenze della propria polemica, accostandosi non di rado alla maniera parodica della tradizione aretiniana: onde non manca la satira della pedanteria grammaticale oltre che di quella peripatetica.  Gli attacchi contenuti nella Cena alla università di Oxford e alla società inglese suscitarono una forte reazione negli ambienti accademici e cittadini: reazione che coincise con una serie di offese, anche materiali, del pubblico londinese contro gli addetti all'ambasciata francese e contro, la stessa sede diplomatica. Nell'emozione del momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di quella reazione anticattolica: è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena gli fece perdere molte di quelle simpatie che era riuscito ad accattivarsi a Londra. Di qui l'esigenza di premettere ai già composti quattro dialoghi speculativi De la causa, principio et uno, un dialogo "apologetico" che si risolse però, caratteristicamente, in un ribadimento della propria polemica, salvo un riconoscimento esplicito della validità della tradizione speculativa oxoniense anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi conosciuti a Oxford (in particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La pubblicazione dei nuovi dialoghi, dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di poco quella della Cena. Il primo dialogo della Causa si distingue dai rimanenti quattro anche per i diversi interlocutori (tra questi Elitropio è Florio, mentre Armesso sembra identificabile con Gwinne); notevole, tra gli interlocutori dei rimanenti dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson Arelio (nativo di Errol), discepolo londinese del B. e autore di un'opera mnemotecnica, De umbra rationis et iudicii ispirata al De umbris bruniano: l'opera era stata attaccata da William Perkins, ramista di Cambridge, il quale non mancò di accomunare i nomi di B. e del Dicson nella sua riprovazione del metodo mnemonico classico considerato in opposizione a quello ramista. La presenza di questo interlocutore, insieme con l'attacco frontale a Ramo nel dialogo III, può valere a farci considerare la Causa come opera di letteratura militante nell'ambito della contemporanea polemica ramista (per l'aspetto politico non va dimenticato che l'attività del Dicson era in linea con il programma politique).  I quattro dialoghi più propriamente speculativi della Causa concernono la definizione dei tre termini enunciati nel titolo: "causa" e "principio" sono intesi, rispettivamente, come la "forma" e la "materia" che, indissolubilmente unite, costituiscono l'"uno", cioè il "tutto". Movendo dalla critica dei postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso alle formulazioni di stampo neoplatonico ed ermetico, B. giunge in tal modo a fornire una originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte enunciata nella Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito.  Il motivo della satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza polemica alle posizioni culturali delle due università inglesi.  Il ritmo serrato con cui alla pubblicazione della Cena e della Causa segue quella dei dialoghi De l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la bestia trionfante si spiega tenendo conto del fatto che B. doveva aver elaborato buona parte del materiale confluito poi nei tre dialoghi cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al Castelnau, mentre lo Spaccio è dedicato a sir Philip Sidney, nipote del Leicester, mostrandoci in tal modo la portata dei contatti letterari, oltre che politici, dal B. avuti in Inghilterra.  Nei cinque dialoghi De l'infinito, in polemica con la fisica aristotelica, il B. rigetta la teoria della divisibilità all'infinito e ribadisce la propria teoria della infinità dell'universo e della pluralità dei mondi. In questa opera risulta enunciato il pensiero bruniano sul rapporto tra filosofia e religione conforme alla teoria averroista esposta dal Pomponazzi. Tra gli interlocutori figura Fracastoro, tracce delle cui dottrine sono reperibili nel dialogo; discutibile rimane l'identificazione di Albertino con Gentili (da B. certamente incontrato a Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano.  La nuova concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti "morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di Niccolò Franco.  Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta - della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella Cena.  Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con l'intransigente Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare all'interpretazione il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino cillenico, in cui l'"asino", identificabile con la "bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né sembra possibile supporre che la Cabala sia posteriore, data della bolla con cui Sisto scomunicò il re di Navarra.  Al di là del possibile significato politico-religioso, la Cabala interessa sia per l'accentuata satira morale rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi (quali il problema del rapporto tra le anime individuali e l'anima universale, risolventesi nella negazione dell'assoluta individualità delle anime) che valgono a meglio illuminare questa fase del pensiero bruniano.  L'operetta è scherzosamente dedicata a un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della stessa famiglia materna di B. cui pure appartiene l'interlocutore Saulino presente già nello Spaccio. Il B.ebbe a dichiarare in seguito, di aver soppresso questa opera in quanto non piacque al volgo e ai sapienti "propter sinistrum sensum": essa è infatti la più rara tra le superstiti opere a stampa di Bruno.  Il soggiorno inglese del B. non poteva concludersi in maniera più degna che con la pubblicazione dei dialoghi De gli eroici furori, dedicati a Sidney, in cui risultano poeticamente esaltati i principî fondamentali della filosofia bruniana esposti nei tre dialoghi cosmologici, mentre vi si sviluppa e precisa la portata della satira morale contenuta nei due dialoghi etici.  I dieci dialoghi De gli eroici furori hanno come tema il conseguimento della consapevolezza dell'unione con l'Uno infinito da parte dell'anima umana. La terminologia di estrazione ficiniana (risalente a Platone, Plotino, Dionigi l'Areopagita, lamblico, Proclo, ecc.) rischia di far perdere di vista il carattere "naturale e fisico" del discorso bruniano, quale dall'autore stesso enunciato nella dedicatoria. La stessa adozione dei moduli platonici ("ente, vero e buono son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata") va in realtà ricondotta a una sfera etica in cui si risolve ogni apparente residuo di trascendenza: infatti "le cause e principii motivi" sono "intrinseci" e la divina luce è sempre presente"; "ogni contrarietà si riduce a l'amicizia, "le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte.  Notevole nei Furori l'esposizione della poetica bruniana che, movendo dalla critica delle poetiche rinascimentali nella loro interpretazione normativa della poetica aristotelica, approda a una concezione della poesia come letteratura applicata: di qui il ripudio della tradizione lirica petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di rime intonate al gusto del tardo petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal Tansillo e dalla Cecaria di M. A. Epicuro).  Gli interlocutori sono tutti nolani, ovvero, come il Tansillo, amici della famiglia del Bruno. Notevole, come dato biografico dell'infanzia, la presenza di due figure femminili: Laodamia e Giulia.  B. rientrava in Francia al seguito dell'ambasciatore Castelnau: il quale ai primi di novembre si trovava già a Parigi; durante il viaggio la comitiva era stata vittima di una grassazione. Al suo rientro a Parigi B. veniva a trovare un clima politico mutato (nel luglio Enrico III aveva revocato gli editti di pacificazione e nel settembre era stata pubblicata la bolla contro il re di Navarra): di qui forse il suo tentativo infruttuoso "de ritornar nella religione" (Doc. veneti) tramite il nunzio apostolico Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese Bene, abate di Belleville, la Figuratio Aristotelici physici auditus, esposizione mnemonico-mitologica del pensiero aristotelico; entrò in contatto con gli italiani di Parigi, tra i quali Botero, stringendo amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definì "piacevol compagnietto, epicuro per la vita" (cfr. Yates), e prese a frequentare l'abbazia di St. Victor, dove quel giorno prese a prestito l'edizione di LUCREZIO (si veda) curata da Giffen e confidò al bibliotecario Guillaume Cotin (il cui diario ci conserva le notizie fornitegli da B.) l'intenzione di pubblicare l'Arbor philosophorum, del quale nulla sappiamo a parte il titolo lulliano.  Due episodi clamorosi neutralizzarono in quel tempo il residuo d'appoggio in cui il B. poteva ancora sperare presso il partito politique. Dopo aver assistito a una pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato dal geometra salernitano Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B. acconsentì a divulgare in latino la scoperta - parendogli atta a dimostrare il limite fisico della divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia -: pubblicò infatti i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione (seguiti dall'Insomnium), presso Chevillot: opera ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il B. rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii interpretatione,dedicati al Del Bene e fatti stampare insieme con i due precedenti dialoghi mordentiani. B. veniva così ad attaccare apertamente un cattolico fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai vacillante protezione politique. Atale imprudenza si aggiunse una disputa da B. tenuta al Collège de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux, sulla base di Centum et viginti articuli de naturaet mundo adversus peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto il nome del discepolo Hennequin. Secondo il Cotin B. non avrebbe preso la parola, neppur dopo che allo Hennequin ebbe risposto Callier, giovane avvocato politique (il B. venne dunque sconfessato dal suo stesso partito), e, riconosciutosi battuto, avrebbe abbandonato Parigi. Secondo Corbinelli, il B. "s'andò con Dio per paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo al povero Aristotele", mentre il Mordente decideva di ricorrere al Guisa. Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania; toccata Magonza e Wiesbaden, veniva immatricolato all'università di Marburgo come theologiæ doctor romanensis (Doc. tedeschi). L'insegnamento bruniano si dovette mostrare incompatibile con l'aristotelismo ramista di quella università: gli fu infatti negato il permesso di leggere pubblicamente; a una protesta formale B. fece seguire le proprie dimissioni. Nella stessa estate passò a Wittenberg, nella cui università venne introdotto da Gentili e immatricolato come doctor ITALVS (Doc. tedeschi. Per circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra l'altro, l'Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria lulliana - commentario dell'Arsmagna - cui premise una lettera alle autorità accademiche mostrandosi riconoscente per la liberale accoglienza. Seguì la pubblicazione del De progressu et lampade venatoria logicorum, sorta di compendio della Topica aristotelica, dedicato a Mylins, cancelliere dell'università. Allo stesso anno risale il suo corso privato sulla Rhetorica adAlexandrum (pubbl. post. da H. Alstedt: Artificium perorandi, Francofurti, come il frammento delle Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum, amplificazione dell'Arsmagna lulliana post.: negli Opera, con cui si conclude la trilogia delle "lampade". L'anno seguente, per i tipi di Zaccaria Cratone, uscì nella stessa città una seconda edizione dei Centum et viginti articuli (ridotti a ottanta, con le relative rationes), con un discorso apologetico di J. Hennequin: Iordani Bruni Nolani Camoeracensis Acrotismus. Allostesso periodo, sembra, risalgono i commentari aristotelici ai primi cinque libri della Fisica, al De generatione et corruptione e al quarto libro Meteorologicon (pubblicati negli Opera postumi: Libri physicorum Aristotelis explanati. B. si accomiatava dall'università con una Oratio valedictoria stampata dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto era morto prima dell'arrivo del B., e che il successore Cristiano I favorì progressivamente il calvinismo, giungendo a proibire, ogni polemica a questo contraria; di qui la rinnovata precarietà della posizione di Bruno.  Partito da Wittenberg, B. giunse a Praga e vi si trattenne fino al principio dell'autunno, attrattovi forse dal mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il cui cattolicesimo moderato poté sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque se fu registrato all'università. A Praga B. ripubblicò, presso Nigrinus, il De lampade combinatoria R. Lullii preceduto dal De lulliano specierum scrutinio: nuovo commentario dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo don Guglielmo de Haro; con dedica all'imperatore, presso Daczicenus, gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, in cui riprendeva la propria polemica contro l'interpretazione meccanica della natura (già anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta nel De minimo):notevole, nella dedicatoria, la dichiarazione della religio bruniana, interpretabile come teoria della tolleranza religiosa e speculativa.  Ricevuta in dono dall'imperatore la somma di "trecento talari" (Doc. veneti), B. si recò a Helmstedt, attrattovi dalla "Academia Iulia" (fondata dal duca protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato e dove lesse l'Oratio consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la morte del duca. B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico Giulio, con "ottanta scudi de quelle parti" (Doc. veneti), ma non gli mancarono seri fastidi: fu infatti scomunicato dal sovrintendente della locale Chiesa luterana, Voët, per motivi che B. definì di natura privata in una sua lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che avranno avuto giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque significativo che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista ginevrina si aggiungesse ora la scomunica luterana). Il B. rimase tuttavia nella città. Durante l'anno e mezzo ivi trascorso lavorò alle opere poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere magiche stampate postume negli Opera, De magia e Theses de magia (concernenti la magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora inedita nel codice di Mosca), De rerum principiis et elementis et causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità dell'utilizzazione pratica delle forze naturali occulte. Intervenne a una disputa tenuta dal dottor Heidenreich e avendo riscossi a Wolfenbüttel 50 fiorini assegnatigli dal duca - si accomiatò dall'università con l'intenzione di passare per Magdeburgo (dove risiedeva W. Zeileisen, zio del discepolo norimberghese Besler, di cui si era servito come copista) allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore del duca. La partenza fu ritardata: ed è probabile che il B. si recasse direttamente a Francoforte sul Meno (allo scopo di farvi stampare la trilogia poetica latina, sua opera di maggior rilievo dopo i dialoghi londinesi), dove giunse al più tardi nel giugno. Il Senato della città rigettò una sua richiesta di poter alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale tuttavia gli procurò alloggio presso il convento dei carmelitani. B. attese soprattutto alla pubblicazione dei tre poemi: i Detriplici minimo et mensura... libri V e il De monade, numero et figura liber unito ai De innumerabilibus, immenso et infigurabili... libri octo, opere dedicate al duca di Brunswick, per le quali B. curò la stampa e intagliò i legni, salvo che per l'ultimo foglio del De minimo a causa di un repentino allontanamento dalla città (per cui la dedica relativa fu composta dal Wechel. Stampati il De minimo fu posto in vendita nella primavera; il De monade con il De immenso,nell'autunno.  Nei poemi francofortesi - composti alla maniera di Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico la propria concezione della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De minimo sicontiene la definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia, minimum fisico assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La discontinuità degli atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante con tutto che B. riconosce l'esigenza di una materia che agglutina gl’atomi. Se l'atomo è l'elemento materiale insecabile, il minimo è l'essere o la figura minima in un dato genere, mentre la monade è l'unità di un genere determinato: l'atomo, che è di forma sferica, è anche minimo e monade. Gl’atomi sono infiniti essendo infinita la materia. In tale concezione non v'è posto per una forza esteriore che regoli o determini le combinazioni materiali. Nel De monade B. dà una spiegazione aritmologica delle diverse qualità degli oggetti sensibili, i cui elementi vengono mossi - come già sostenuto nella Causa rispetto alla materia infinita - da un principio intrinseco. Così l'atomismo dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo dei dialoghi londinesi, dei quali il De immenso riprende esplicitamente l'esposizione cosmologica, con una aderenza a tratti letterale (tanto che il Fiorentino fu indotto a riportare al periodo inglese l'inizio della composizione del poema). In quest'ultimo il B. ripercorre il cammino della propria speculazione, rinnovandone la polemica contro la fisica aristotelica e ribadendone il superamento intuitivo dell'eliocentrismo copernicano.  Applicato l'ordine di estradizione del Senato francofortese B. riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia scolastica raccolte e pubblicate poi da Egli (la Summa terminorum metaphysicorum a Zurigo; la Summa con la Praxis descensus seu applicatio entis a Marburgo. Ritornato per breve tempo a Francoforte, B. pubblica presso Wechel i De imaginum,signorum,et idearum compositione ad omnia inventionum,dispositionum et memoriae genera libri tres, dedicati a Heinzel, patrizio di Augusta da lui conosciuto a Zurigo. Durante il secondo soggiorno francofortese B. è raggiunto da lettere del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché gli "insegnasse l'arte della memoria ed inventiva" (Doc. Veneti. B. giunse a Venezia.  I motivi soggettivi dell'imprudente rientro in Italia sono stati variamente definiti: imponderabile è la componente nostalgica, mentre è ormai da escludere il proposito di una azione di riforma religiosa con l'ausilio delle proprie nozioni magiche (con tutto che l'accessione del Borbone al trono di Francia e la presenza del mite Gregorio sul soglio pontificio ravvivavano allora le speranze conciliatrici in Europa); sul piano contingente, più che dell'occasionale invito del Mocenigo, va tenuto conto delle aspirazioni magistrali dal B. non mai dimesse nel corso dei suoi soggiorni francesi, inglese e tedesco.  Infatti, soffermatosi qualche giorno a Venezia "a camera locanda Doc. veneti, B. prosegue per Padova, dove già si trovava al principio di settembre e dove si trattenne, con brevi interruzioni, per almeno tre mesi. Qui impartì lezioni "a certi scolari tedeschi", tra i quali sarà da includere Besler, che era allora procuratore degli studenti tedeschi (Besler gli trascrisse, e la Lampas triginta statuarum, il De vinculis in genere, abbozzato l'anno precedente, e il non bruniano De sigillis Hermetis, inedito e smarrito). All'insegnamento patavino vanno riferite le Praelectiones geometricae e l'Ars deformationum, lezioni, rinvenute solo piu pardi, in cui B. illustra geometricamente postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività del B. a Padova induce a ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse alla vacante cattedra di matematica, che è assegnata a GALILEI (si veda).  Rivelatosi infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio dell'inverno il B. si trasferì a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo in contrada S. Samuele, presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il ridotto Morosini, sul Canal Grande, dove, in un clima di "civile e libera creanza", si disputava di cose che avevano "per fine la cognizione della verità" (F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida. Nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, confide al domenicano fra' Domenico da Nocera il proprio desiderio di quetarsi e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente, con lo scopo ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi "accapare forsi alcuna lettura Doc. veneti: programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale e dalla contemporanea esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo di far stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle sette arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste al Papa Doc. veneti, B. chiede licenza al Mocenigo. Costui, deluso dall'insegnamento ricevuto, la notte lo fece arrestare dai suoi e presenta una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa di B. e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali", nonché i nomi di due contesti: i librai Ciotti e Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da Saluzzo: la sera stessa B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle carceri di S. Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo, che si doveva concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma.  Gli episodi principali del processo veneto sono i seguenti: denuncia del Mocenigo; denuncia (B. era complessivamente accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la "distinzione in Dio di persone", di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all'arte divinatoria e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti, di essere già stato processato a Roma, di indulgere al peccato della carne); interrogatorio dei contesti (favorevoli a B.) e primo costituto di B.; costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di eretici vivendo alla loro maniera); interrogatorio sui capi d'accusa (a proposito dei propri saggi B. dichiara: "io ho sempre diffinito FILOSOFICAMENTE e secondo li principii e lume naturale, non avendo riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto, Doc. veneti; interrogatorio di Morosini e deposizione di Ciotti, favorevoli a BRUNO; 30 luglio: ultimo costituto veneto del B. (ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al tribunale) e trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore supremo in Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella causa); richiesta formale di avocazione della causa a Roma: consenso del tribunale veneto; trasmissione della richiesta romana al Collegio presieduto dal doge; parere sfavorevole del Collegio trasmesso al Senato; comunicata a Roma la risposta negativa; rinnovata richiesta al Collegio motivata con precedenti; comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato. BRUNO usce dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, fa ingresso nel carcere del S . Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente processo, sarebbe uscito sette anni più tardi per subire l'orrendo supplizio. Gli episodi noti e salienti del processo romano sono così riassumibili: grave denuncia da parte di fra' Celestino da Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto che Cristo peccò mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato; di aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell'Ordine); interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò, Francesco Vaia, Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità bruniane e nuova accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio del conteste Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Otto costituti bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero processo) e conclusione del processo offensivo.  Il B. mantenne la linea difensiva già adottata a Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno, Cristo, i propositi sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò il significato di "magia" con riferimento a Mosè, e la propria opinione, ritenuta "filosoficamente" e ipoteticamente, circa la metempsicosi; negò l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando il proprio interesse per l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami ripetitivi dei testi (Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate nel complesso le precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi poté far differire la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia da parte del Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus); estate 1594: sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su quella relativa ai Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di Maria; sporse denunce contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi concarcerato a Roma); BRUNO presenta una difesa scritta, non pervenutaci. Si stabilì che una lista dei libri bruniani fosse presentata al papa.  BRUNO è raggiunto nel carcere da Pucci, Campanella e  Stigliola. La Congregazione stabilì una commissione con lo scopo di censurare le proposizioni eretiche contenute nei libri. BRUNO è ammonito di abbandonare la sua teoria della pluralità dei mondi. Si stabilì inoltre che egli è interrogato stricte (forse con applicazione della tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo costituto, circa la Trinità e l'incarnazione (BRUNO precisa il carattere speculativo dei dubbi passati), nonché la pluralità dei mondi (che BRUNO persiste a sostenere). Ha luogo, forse oralmente, la risposta del BRUNO alle censure, otto delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo: "circa rerum generationem"; circa il principio che a causa infinita debba corrispondere effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e anima individuale; circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe; circa il moto della terra; circa la definizione degl’astri come angeli; circa l'attribuzione di un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa l'affermazione che l'anima non è forma del corpo umano (due altre censure, rilevabili da una lettera di Schopp Doc. romani, concernono l'identificazione dello spirito santo con l'anima mundi, e la credenza nei pre-adamiti. A istanza di Bellarmino, venneno sottoposte a BRUNO, per la sua dichiarazione di abiura, otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, de hæresi Novatiana, e la settima, estratta dal De la causa, ubi tractat an anima sit in corpore sicut nauta in navi. Il ventesimo costituto BRUNO si dichiara disposto all'abiura incondizionata; ma torna a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. In mancanza della prova giuridica della colpevolezza, i consultori si dichiararono in favore dell'applicazione della tortura, che tuttavia non è approvata da Clemente. BRUNO si dichiara disposto all'abiura (costituto), ma con un memoriale al papa, rimette in discussione le proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio di Vercelli perveniva una delazione dovuta, sembra, a un reduce dall'Inghilterra con cui BRUNO è di nuovo accusato di irriverenza verso il papa, lo Spaccio, e di aver lasciato fama di ateo in Inghilterra. Il tribunale ordina il termine per il riconoscimento degl’errori. Ventiduesimo costituto, BRUNO rifiuta la ritrattazione. Vano è l'intervento del generale e del procuratore dei domenicani. Il papa ordina che BRUNE è sentenziato come eretico formale, impenitente e pertinace, e consegnato al braccio secolare. Un estremo memoriale di BRUNO al pontefice venne aperto ma non letto dal tribunale. BRUNO viene condotto dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona, dove la sentenza gli è letta pubblicamente. Dell’imputazioni contenute nella sentenza, risultano accertate quelle concernenti la transustanziazione, la verginità di Maria, la vita eretica, lo spaccio, la pluralità dei mondi, la metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo, Mosè, le Sacre Scritture, i preadamiti, Cristo, i profeti e gl’apostoli.  Riconosciuto eretico impenitente pertinace ed ostinato (Doc. romani), BRUNO è condannato alla degradazione dagl’ordini, all'espulsione dal foro ecclesiastico e a essere consegnato alla corte secolare per la debita punizione. I suoi saggi sono bruciati in piazza S. Pietro e le opere tutte incluse nell'indice. BRUNO ascolta in ginocchio la sentenza. Quindi, levatosi in piedi, esclama rivolto ai giudici. Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam Doc. romani. Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora da teologi e confortatori, è condotto a Campo di Fiori, dove, spogliato nudo e legato a un palo, è bruciato vivo Doc. romani.  La portata speculativa della vicenda bruniana è implicita nella storia del moderno pensiero europeo. Per il lato culturale e biografico, pur dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al vaglio della filologia contemporanea.  Fonti e Bibl.: Per la biografia bruniana le fonti sono costituite dalle opere e da una serie di documenti coevi. Edizioni complete delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine Conscripta: Facsimile - Neudruck der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und anderen,Neapel und Florenz Drei Bände in acht Teilen, Stuttgart-Bad Cannstatt da integrare con le seguenti pubblicazioni: Zubov, Rukopisnoe nasledie Džordano Bruno, Moskovskij Kodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im. V. I. Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva Bruno, Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: Idiota triumphans, De somnii interpretatione, Mordentiu, De Mordentii circino, cur. Aquilecchia, Roma con Errata-corrige stampate a parte; Id., Prælectiones geometricæ e Ars deformationum: Testi inediti, cur. di Aquilecchia, Roma; Le opere italiane di G. B., cur. Lagarde, Gottinga, edizione para-diplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: Bruno, Candelaio: commedia, a cura di V. Spampanato, Bari; Id., Dialoghi italiani: Dialoghi metafisici e Dialoghi morali stampati con note da GENTILE (si veda) cur. Aquilecchia, Firenze; Id., Lacena de le ceneri, cur. di Aquilecchia, Torino (da tenere presente  Tissoni, Sulla redazione definitiva della Cena de le ceneri, in Giorn. stor. della letter. ital. Pregevoli le sillogi antologiche in Opere di BRUNO e di Campanella, cur, Guzzo e Amerio, Milano - Napoli, e in Scritti scelti di BRUNO e Campanella, cur. Firpo, Torino. I documenti coevi in Spampanato, Documenti della vita di BRUNO, Firenze suddivisi in Documenti napoletani Documenti ginevrini Documenti parigini Documenti tedeschi Documenti veneti Documenti romani da integrare con Elton, Modern Studies, London, Harvey, Marginalia, cur. Smith, Stratford-upon-Avon; Sigwart, Kleine Schriften, Freiburg i. B. Mercati, Il sommario del processo di BRUNO, Vaticano, Firpo, Il processo di BRUNO, Napoli Yates, BRUNO: some documents, in Revue internationale de philosophie, XVI  1951], 2, pp. 174-199; G. Aquilecchia, Un autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., Id., Un nuovo documento del processo di BRUNO, McNulty, B. at Oxford, in Renaissance News, XIII 1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un autografo inedito di G. B. in Polonia, in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche... in Napoli, Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La Ragione, Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Bruna, in Euhemer.  La biografia più estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V. Spampanato, Vita di G. B. con documenti editi e inediti, Messina Biografie sintetiche recenti sono dovute a Garin, B., Roma-Milano, e a G. Aquilecchia, G. B., Roma da cui dipende la presente voce.  La bibliografia bruniana è vastissima: va fatto riferimento a Salvestrini, Bibliografia di BRUNO, a cura di Firpo, Firenze: opera monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi essenzialmente, Quanto ai titoli, con l'appendice bibliografica alla citata monografia di Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento, rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (Tocco, Troilo, Gentile, Namer, Garin, Corsano, ecc.), e per saggi più recenti, che propongono un ridimensionamento della problematica bruniana conforme a diverse metodologie (Badaloni, Michel, Yates, Gorfunkel', Nowicki, Papi, ecc.). Guido del Giudice. Giudice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords: l’implicatura di Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti, matematici – rinascimento – scintilla d’infinito” --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giudice: la ragione conversazionale, l’esperienza, e l’implicatura conversazionale di Telesio – filosofia foggiese – la scuola di Lucera -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucera). Filosofo lucerese. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Lucera, Foggia, Puglia. Grice: “Riccardo del Giudice is a philosopher; he wrote an essay on Telesio.”  Allievo e collaboratore di GENTILE (si veda), si laurea in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali, che, insieme ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica formano il suo principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e l'accuratezza nella scrittura, è parlamentare di chiara fama nella  Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare preparazione filosofica. Insegna a Roma.  Intestazioni: Sindacalista, politico, SIUSA. Iscrittosi al movimento nazionalista mentre frequenta nell'ateneo romano i corsi di GENTILE (si veda). Si tessera al Partito fascista, del quale apprezza l'interesse per le questioni sindacali. È appunto nell'organizzazione fascista dei lavoratori, diretta da Rossoni, che muove i primi passi nella politica militante. Nominato responsabile dei sindacati in provincia di FOGGIA, distinguendosi per la dura opposizione nei confronti dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore Caradonna. Espulso dal partito viene nominato da Rossoni Segretario della Federazione sindacale di Torino. Passato nella Federazione di Bari si oppone allo sbloccamento dei sindacati. Si occupa di studi sulla legislazione del lavoro e sul corporativismo, partecipando attivamente alle riunioni del consiglio nazionale delle corporazioni e viene nominato presidente della confederazione fascista dei lavoratori del commercio. Dopo una intensa attività nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con SPIRITO (si veda) sul rapporto tra sindacato e corporazione - è nominato sotto-segretario al ministero dell'educazione nazionale, allora retto da Bottai. Si occupa soprattutto di sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro, seguendo le indicazioni contenute nella carta della scuola di Bottai. Lasciato il ministero in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è nominato presidente dell'ente nazionale per l'oganizzazione scientifica del lavoro, Enios. Non adere alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato nel campo di concentramento di Padula dove scrive le memorie. Epurato dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di diritto della navigazione, poi di diritto del lavoro, presso l'ateneo romano.  Complessi archivistici prodotti: G. (fondo). Il fondo archivio conserva le carte del dirigente sindacale e collaboratore di BOTTAI ed e costituito da documentazione riguardante la politica sindicale FASCISTA, da una vasta raccolta di materiale e stampa sulla POLITICA CORPORATIVA, da documenti sulla POLITICA SCOLASTICA del regine negl’anni della guerra e da un ricco epistolario con personalita della FILOSOFIA, della politica, dell’economia, e della cultura. Bibliografia: PARLATO, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla caduta del regime, Roma, Bonacci. G. PARLATO, G.: dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Spirito, G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino. Sindacalismo fascista Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni La neutralità di questa voce o sezione sugli argomenti fascismo e politica è stata messa in dubbio. Con sindacalismo fascista si intende quel settore del sindacalismo improntato sui principi della dottrina fascista del lavoro. Filippo Corridoni con Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915 a Milano. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sindacalismo rivoluzionario.  Fontana sulla cui lapide marmorea era scolpito il discorso che Mussolini pronuncia presso lo stabilimento di Dalmine, in occasione dell'autogestione operaia. Il sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo sindacale dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nelle sezioni più agguerrite del sindacalismo interventista, in particolare l'attivissima sezione milanese retta da Filippo Corridoni, nate in seno all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui saranno espulse già nel 1915, per incompatibilità con i principi antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2]. Numerosi, pur con alcuni bassi, sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari. In Italia non sarà possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito Socialistanon sarà abbattuto. Corridoni a Malaparte SICKERT (si veda) a Milano poco prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame è quello con la Unione Italiana del Lavoro, da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta inizialmente da Rossoni. La nuova formazione sindacale, nel fermento dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano, combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le teorie di imperialismo operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di Mussolini, pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe per difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti all'interno del comune interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL portava però già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a concludersi più tardi, durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella tra la visione di un sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata principalmente da Rossoni, e quella indipendentista di Ambris. Primo sfogo di queste evoluzioni avvenne al Dalmine, dove si verifica la prima occupazione con autogestione operaia della storia italiana, organizzata dai sindacalisti rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore fu però soprattutto la continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica produttivista che aveva acquisito il movimento: gli operai autorganizzati continuarono infatti il lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore nazionale. Due giorni dopo lo stesso Mussolini è in visita agli stabilimenti: Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini. Mussolini, Discorso del Dalmine, in "Tutti i discorsi) In un primo momento la posizione di De Ambris e della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920 una forte convergenza tra i due, con il secondo che sostenne apertamente la UIL dalle colonne de Il Popolo d'Italia[11 ed il primo che dette un apporto considerevole al programma dei FASCI ITALIANI DI COMBATTIMENTO, costituiti e dai quali prenderà spunto il fascismo durante la fase governativa. Il nucleo iniziale Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sansepolcrismoe Squadrismo.  Benito Mussolini a Dalmine con gli operai dello stabilimento autogestito. Grandi. È da questo connubio che, infatti, si costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e squadristi.  Fra i maggiori esponenti di questo sindacalismo squadrista, che affianca i sindacalisti puri Balbo, Bianchi, Baroncini ma, soprattutto, Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de "L'Assalto", portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di sinistra, basato particolarmente a Bologna sulle rivendicazioni contadine, l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al concetto de "la terra a chi la lavora. L’armonia tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in conseguenza della grave sconfitta elettorale, Mussolini operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e, staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che diventeranno poi la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacalifasciste dirette da Rossoni. La crisi tra i due movimenti si attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni libertari ed autonomisti, concependo la nazione come identità e sostanza storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe esclusiva. Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario. Masotti) Rossoni e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali fasciste Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali.  Edmondo Rossoni.  I quadrumviri e Benito Mussolini(da sinistra a destra: Bono, Bianchi, Mussolini, Vecchi e Balbo). Il primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Si tenne il  I Convegno sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni principali, già emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei sindacati nei confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito PARTITO NAZIONALE FASCISTA. Si scontrarono quindi la visione "autonomista" di Rossoni e di Grandi e quella "politica" di Rocca e Bianchi, tra le quali sarà vincente la seconda.  A Bologna vennero inoltre affermati i principi basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, una nuova formazione antisocialista ed anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno piu tardi) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica con il dovere imprescindibile del cittadino verso la Nazione". La nazione, sintesi superiore di tutti i valori materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei superiori interessi nazionali.»  (Articolo 4 della Carta dei principi delle corporazioni) Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche negli ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro, contesta il titolo alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e, quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però accettata, e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza interruzioni nel rinnovo del mandato. In sede congressuale Rossoni dichiarò l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo rivoluzionario, il sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune intendimento del concetto di rivoluzione che, al di là dell'aspetto della rivolta popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il significato di sopravvento di superiori capacità produttive; inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il proletario (nell'accezione negativa del termine) al rango di lavoratore inserito a pieno titolo nella vita nazionale. Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro e sostituire al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore ed all'altro, di padrone, la parola dirigente, che più alta, più intellettuale, più grande. Rossoni, Congresso dei Sindacati intellettuali fascisti) Nei mesi successivi, in concomitanza con il termine del biennio rosso e l'avanzata dell'offensiva militare del fascismo imperniata sulle squadre d'azione, ebbe luogo lo sfondamento politico in campo sindacale, con il passaggio di interi settori operai dalle strutture del Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali contava 800.000 iscritti. Ciò evidenziava il successo dei progetti di Rossoni, che aveva pensato di creare da una parte una base contadina potente ed affidabile che appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo, dall'altra di fare del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato fascista. Con la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo fascista fu quasi definitiva e l'inizio della costruzione del nuovo Stato portò quindi una relativa tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso che, con il termine degli scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi sul proprio sviluppo culturale e la propria evoluzione politica. Rossoni così ne spiega definizione e scopo principale:  la salvaguardia della salute spirituale del popolo. Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei. Noi rivendichiamo la concezione italiana del Sindacalismo alle corporazioni italianissime che sono nate ancor prima che la parola 'sindacalismo' fosse pronunciata.»  (Edmondo Rossoni, La Marcia su Roma e il compito dei sindacati, Napoli) Caratteristiche principali, che evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto a quello socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e perseguimento di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un determinato tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare, ma tentando sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27]  Questo clima non portò fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che gli stessi vecchi sindacalisti rivoluzionari come Rossoni, Lanzillo, Panunzio e Olivetti, discutevano e si dividevano spesso e volentieri tra loro. In tutti però un'evoluzione era avvenuta: il sindacalismo non era più considerato propulsore del libero mercato ma, aderendo al concetto di nazione come unità organica d'intenti, ritenevano che il sindacato - come gli imprenditori - dovesse trovare il suo limite nel superiore interesse della patria, rigettando il concetto di libero mercato stesso e giungendo al tal punto da definire che "la nazione è il più grande sindacato. Le prime forti tensioni con i conservatori ed il padronato Farinacci.  Renato Ricci con la sua squadra d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello sgombero delle macerie del forte di Falconara. Immediatamente dopo l'apice della Marcia su Roma si accese però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i settori più conservatori dello Stato. Avvennero alcuni episodi chiave:  la creazione dei gruppi di competenza, da parte di Rocca, limitanti lo spazio sindacale della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali; il tentativo di bloccare il corporativismo da parte di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti alla minaccia di Rossoni di assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori fascisti; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da parte di tutta la sinistra fascista nazionale, compresi Bianchi e Farinacci; il lancio del sindacalismo integrale da parte di Rossoni, che puntava ad inglobare nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le rappresentanze sindacali dei datori di lavoro); la creazione della Federazione italiana dei sindacati agricoltori e della Corporazione dell'Industria e del Commercio da parte di Rossoni; i primi tentativi di trasformare le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto in organi di diritto pubblico da parte di Casalini; il patto siglato tra Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e Confindustria a Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di classe. Sia il Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati. L'appetito all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista è per la collaborazione ma con gli industriali che si impuntano e dicono comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai lavoratori il posto degno nella vita della nazione»  (Edmondo Rossoni, adunata al Teatro Regio di Torino) In questo periodo di tensioni tra industriali e sindacati fascisti, difficile per l'attecchimento della collaborazione di classe vagheggiata dal fascismo per il mondo del lavoro, assurgono agli onori del sindacalismo fascista le personalità di Mario Gianpaoli, sindacalista e federale del PNF di Milano, e di Domenico Bagnasco, segretario dei sindacati fascisti di Torino. Organizzatore e combattente di piazza, Bagnasco fu deciso a prendere di petto gli industriali, accusando il padronato di "spietata intransigenza antioperaia". Spesso i sindacalisti fascisti di questo periodo pagarono con la fine della propria carriera politica l'attivismo sfrenato, a causa di un fascismo ancora non abbastanza forte da poter far fronte ad uno scontro con la grande industria, appoggiata dai molti uomini del precedente regime ancora posizionati nelle istituzioni dello Stato. Essi ebbero però il merito di infondere risolutezza in molti sindacalisti di periferia. La seconda fase del sindacalismo fascista  Monumento a Razza.  Corradini. Si entra quindi in quella che viene chiamata "la seconda fase del sindacalismo fascista, durante la quale il sindacalismo e tutte le componenti della sinistra fascista tornarono all'attivismo ed alla tensione del periodo rivoluzionario. Panunzio ricominciò a tuonare a favore della ripresa dell'anima rivoluzionaria del fascismo e del recupero del programma, esprimendosi per la creazione di una Camera sindacale e del lavoro e di un Senato politico. Cadde la Confagricoltura, inglobata dalla fascista Federazione italiana sindacati agricoli, riunendo in un'unica corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli proprietari agricoli. Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista, dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini. Al termine dello sciopero si ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di lavoratori per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il padronato. Si tenne a Roma il II Congresso nazionale delle corporazioni. Qui venne messa momentaneamente da parte la strada della collaborazione di classe, per riprendere quella della lotta in difesa dell'unità dei lavoratori e dell'istituzionalizzazione delle corporazioni, quest'ultimo aspetto chiesto a gran voce durante tutto il congresso dalla maggioranza degli esponenti, soprattutto quelli rappresentanti i sindacati agricoli provinciali, come Mario Racheli. Nei riflessi della politica economica non v'è chi non afferri l'utilità nazionale di rendere responsabili le organizzazioni sindacali e di creare discipline contrattuali garantite dalla legge.»  (Edmondo Rossoni, intervento al II Congresso nazionale delle corporazioni) In questo quadro ha luogo, come in altri casi era avvenuto, un'avversione crescente nei confronti dell'inerzia e dell'inattivismo di Mussolini verso la situazione generale, legato alla fase ed alle operazioni di consolidamento del potere del fascismo all'interno della formazione statale. Ciò generò, in diversi casi, il concepimento e la presa di decisioni autonome da parte dei capisquadra, dei leader sindacali e dell'ala movimentista e la messa in evidenza della natura anticapitalista che permeava il fascismo provinciale nei confronti di quello cittadino, dove il movimentismo si scontrava coi circoli conservatori. Questa natura emerse visibilmente e prepotentemente con lo sciopero carrarese organizzato da Renato Ricci, capo delle squadre d'azione della Lunigiana. In tale frangente lo sciopero fascista portò ad una radicalizzazione estrema dello scontro con "i baroni del marmo", imperanti nel carrarese, da portare all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle industrie di lavorazione, ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse con una vera e propria vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della nascita di una corrente di dissidenti all'interno del fascismo ufficiale. Ha luogo il discorso alla Camera con cui Mussolini si prende carico della responsabilità politica della vicenda Matteotti.  Il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito Nazionale Fascista si riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi da risolvere per valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro inserimento a pieno titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del giorno in cui si autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla "lotta economica" contro industriali e capitalisti, rei di "colpevole incomprensione" dei fini e della prospettiva sociale e nazionale del fascismo. Ciò determina, insieme all'entusiasmo per l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini, l'instaurazione di un clima da "seconda ondata", rimettendo nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra e accendendo nuovamente l'entusiasmo del fascismo movimentista. Avviene quindi l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M. di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta, abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto, gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi. Le agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri argomenti, estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il sindacalfascista Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta minaccia e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla possibilità di combinazioni politiche unitarie impreviste. Dopo lunghe trattative le agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli industriali, che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli operai tramite i sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i cui rappresentati si spostarono in massa nelle Corporazioni. Per ben tre anni l'esistenza di un sindacalismo fascista, cioè di un movimento sindacale guidato da fascisti e orientato verso le idee del fascismo, fu ostinatamente negata. Ci voleva, per dissuggellare gli occhi dei ciechi volontari e fanatici, il fatto clamoroso: lo sciopero che mettesse in campo le forze sindacali del fascismo e che desse in pari tempo allo stesso sindacalismo fascista una più risoluta nozione della sua forza e delle sue possibilità di azione.»  (Benito Mussolini, Fascismo e sindacalismo, a seguito degli scioperi metallurgici organizzati dai sindacati fascisti in Nord Italia) Altro commento che rivela il momento infuocato fu quello di Corradini, sindacalista nazionale:  «Il superamento del socialismo, non la dispersione, non la distruzione dell'opera socialista. Questo è buono affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti. Vi è fra socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica. Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera continua. Corradini, Il Popolo d'Italia. La trasformazione in organi di diritto pubblicoModifica  Edmondo Rossoni in Piazza del Popolo (Roma) annuncia la promulgazione della Carta del Lavoro. Spirito. La conseguenza principale di questi avvenimenti furono però gli accordi di Palazzo Vidoni, in cui venne riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e da Confindustria la reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale. Va però evidenziata soprattutto la legge: con questa legge vennero infatti, tra l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati fascisti e legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori con la nascita della contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a significare che le Corporazioni divennero organi di diritto pubblico dell'amministrazione statale, con "funzioni di conciliazione, di coordinamento ed organizzazione della produzione". All'interno di questa legge era inoltre presente l'articolo 42, che prevedeva una direzione comune tra le associazioni di categoria delle due parti, contenendo in nuce il progetto corporativo a sindacato misto che verrà realizzato piu tardi. Dopo questa vittoria, per Rossoni si ebbe la redazione della Carta del Lavoro, testo fondamentale della politica sociale fascista in ottica di eliminazione della dicotomia tra le classi sociali ma, dall'anno successivo, con Farinacci non più alla segreteria nazionale del PNF, ebbero sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle corporazioni sindacali, che venne smembrata dai circoli conservatori, capeggiati da Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle corporazioni) ed Augusto Turati(nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni di sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo, disperdendolo in strutture più piccole e limitate. Il secondo Convegno di Studi sindacali e corporativi Nel periodo che intercorse da questo momento alla legge, istitutiva delle corporazioni, si ebbe uno blocco totale dell'azione nel settore, in cui intervenne positivamente soltanto il II Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara, nel quale emerse il concetto di corporazione proprietaria proposta da Spirito, nei confronti della quale il sindacalismo fascista si trovò su posizioni contrastanti a causa di un arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste nel passaggio dal socialismo eterodosso al fascismo, molti degli esponenti pre-rivoluzionari del sindacalismo fascista (Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il progetto di annullare il sindacalismo nel corporativismo come un progetto reazionario, rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno scontro benefico per gli interessi individuali e nazionali. L'incapacità di accettare la proposta di Spirito da parte dei primi sindacalisti fascisti, ma anche i "nuovi" come Razza e Capoferri, fu dovuta quindi essenzialmente al rigetto totale della visione statalista che andava formandosi nel fascismo ed al cui finalismo erano sempre stati avversi: per loro "la corporazione è il sindacato, e dire Stato corporativo è come dire Stato sindacale. L'esaurimento del sindacalismo fascista nelle CorporazioniModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Corporativismo.  Sede dell'Opera Nazionale Dopolavoro. Viene approvata la creazione dello Stato corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e l'abolizione del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro alle corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro. In ogni caso il cambiamento di assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del lavoro, non pregiudicarono i risultati effettivi che il sindacalismo fascista aveva ottenuto negli anni. Tra le più importanti si possono elencare:  ferie pagate; indennità di licenziamento; conservazione del posto in caso di malattia; divieto di licenziamento in caso di maternità; assegni familiari; diffusione delle casse mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro(ad es. centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico, manifestazioni teatrali, etc). È Mussolini stesso a rivendicare alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso, inserendosi nel solco della Rivoluzione continua:  «È nella corporazione che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta. Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità del sindacalismo è assicurata. Mussolini, discorso inaugurale del Consiglio Nazionale delle corporazioni) Maggiori esponenti ed ispiratori Corridoni Corradini Ambris Panunzio Olivetti Dinale Lanzillo Grandi Fontanelli, G.,  Bianchi Baroncini Cianetti Rossoni Razza Racheli Bagnasco Bramante Cucini Capoferri Landi Aimi Riviste La Stirpe Il Lavoro Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il Lavoro d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il Lavoro I Problemi del Lavoro NoteModifica Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo Bonacci, Roma, Breve storia dell'Usi di Fedeli Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De Donato, Bari, Malaparte e Suckert, Malaparte, vol. 1, Ponte delle Grazie, operante e senza legami con la UIL attuale. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Roma e Bari, ristampa Firenze, La Nuova Italia, Nel cui sottotitolo cambiava, in questo periodo, la dicitura da quotidiano socialista in quotidiano dei produttori ^ Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, Corridoni (a cura di Andrea Benzi), ...come per andare più avanti ancora - gli scritti, Milano, Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Roma, Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. Torino, Einaudi, Sacco, Storia del sindacalismo, Torino, Olivetti Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, Bonacci, Corridoni, Casa editrice Carnaro, Milano, Anche per via del cambiamento di schieramento di Grandi: Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. Torino, Einaudi, Haider, Capital and Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, Allio, La polemica Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle corporazioni fasciste nell'ILO, "Storia contemporanea", Bologna, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale, Feltrinelli, Milano"Il Giornale d'Italia", Il Mondo", Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, Cordova, Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, Ancora forti rimanevano i sindacati socialisti (CGdL) e comunisti soprattutto tra metallurgici e metalmeccanici del nord-ovest e lo rimarranno fino allo sciopero fascista della OM di Brescia, espansosi poi in tutto il nord Italia. In Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Settimo Sigillo, Roma, Le idee della ricostruzione. Discorsi sul sindacalismo fascista, Bemporad, Firenze, Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla vigilia dello Stato corporativo, Bonacci, Roma, Con l'eccezione di Lanzillo, che continuò pericolosamente a portare avanti idee liberiste anche durante il regime. Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Editrice Rivista Nazionale, Milano, Deliberazione congiunta del PNF e del Gruppo parlamentare del partito Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, Espressosi esplicitamente, in particolare, nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo occupatasi dell'analisi dei problemi sindacali. In questo ambito Michele Bianchi definì "dittatoriale" la "procedura introdotta dal sindacalismo fascista", mentre il sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la doppia organizzazione, cioè quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, allontana ogni pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e l'influenza delle organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di classe". In Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Settimo Sigillo, Roma, Corriere della Sera, Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, contrassegnata da un parziale ritorno alla teoria e alla pratica del conflitto di classe", in Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo Laterza, Bari, Il fascismo è una dottrina, una fede, una civiltà nuova. Riemerge ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo. Il Fascismo deve immediatamente tornare, non per opportunismo, ma per necessità storica, al programma L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre, il Sindacalismo Nazionale, la cui formula Mussolini lanciò prima, prima di Vittorio Veneto". In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il Popolo d'Italia, Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, Il Mondo, Rossoni sta, nel suo intervento, illustrando le future battaglie del sindacalismo fascista sui contratti collettivi di lavoro. In Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, In questo periodo continuarono ad affiorare, in seno al sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso Mussolini e il partito, la cui sorte pareva a molti gravemente compromessa" in Alberto Acquarone, La politica sindacale del fascismo ^ Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il regime fascista, Il Mulino, Bologna, Che rientrò poi in breve tempo nell'alveo della sinistra fascista ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. Uva, La nascita dello stato corporativo e sindacale fascista, Carucci, Assisi-Roma Gerarchia Acquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, Arata, Decennale della Carta del Lavoro - Sul piano dell'Impero, su "L'Italia", Milano, Felice, Mussolini il fascista. L'organizzazione dello Stato fascista Einaudi, Spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra - La dottrina corporativa di Spirito, Firenze, in Belfagor Parlato, Spirito e il sindacalismo fascista, Il pensiero di  Spirito, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Settimo Sigillo, Roma, Susmel Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. BibliografiaModifica Testi in lingua italiana Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, Critica Fascista, antologia a cura di De Rosa e Malgeri, Landi, San Giovanni Valdarno, Aquarone, La politica sindacale del fascismo. Alberto Aquarone e Vernassa (a cura di), Il regime fascista, Il Mulino, Bologna, Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, Allio, La polemica Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle Corporazioni fasciste nell'ILO, "Storia contemporanea", Bologna, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale Feltrinelli, Milano, Bocca, Mussolini socialfascista, Garzanti, Milano, Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Vallecchi, Firenze. Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Roma e Bari; ristampa Firenze, La Nuova Italia, Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere, Torino, Einaudi, Felice, Mussolini il fascista. L'organizzazione dello Stato fascista, Torino, Einaudi, Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, Felice, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti, Bergamo, Minerva italica, Gentile, Le origini dell'ideologia fascista, Laterza, Bari. Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De Donato, Bari,  Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra - La dottrina corporativa di Spirito, Firenze, in Belfagor, Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo Laterza, Bari, Parlato, La sinistra fascista: storia di un progetto mancato, Il Mulino, Parlato, Spirito e il sindacalismo fascista, in AA. VV., Il pensiero di Spirito, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma,  Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla caduta del regime, Bonacci, Roma, Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo Bonacci, Roma, 1988. Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, Sacco, Storia del sindacalismo, Torino, Salvemini, Scritti sul fascismo, Feltrinelli, Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, Susmel, Opera Omnia di Mussolini, La Fenice, Firenze. Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Roma, Haider, Capital and Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, Lowell Field, The Syndacal and Corporative Institutions of Italian Fascism, Columbia University Press, New York, Roberts, The Syndacalist Tradition and Italian Fascism, University of North Carolina Press, Chapel Hill, Camera dei fasci e delle corporazioni Carta del Lavoro Corporativismo Corporazione proprietaria Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Collaborazione di classe Fasci Italiani di Combattimento Interventismo Leggi fascistissime Politica economica fascista Politica sociale (fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista Squadrismo Sindacalismo rivoluzionario Sindacato fascista dei giornalisti Portale Fascismo   Portale Politica   Portale Storia d'Italia Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista e politico italiano Oliviero Olivetti politico, politologo e giornalista italiano  Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali. Riccardo Del Giudice. Giudice. Keywords: l’implicatura di Telesio, Telesio, polemica con Spirito su la distinzione tra sindacato e corporazione, le corporazione nell aroma papale, I diritti dello stato pontificio, il diritto della navegazione, contratto, gentile, la scuola al lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” --  – la tesi di telesio – consiglio nazionale delle corporazioni.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giudice: all’isola – la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- corpi ed espressioni – filosofia messinese – scuola di Messina – la scuola d’Antillo -- filosofia siciliana – filosofa italiana -- Luigi Speranza (Antillo). Filosofo messinese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano.  Antillo, Messina, Sicilia. Grice: “Giudice has written an essay that poses a conceptual query for Austin’s conceptual query. It’s “Sull pudore” – “But do we have that in ordinary language?”” – Grice: “Giudice has also written on more standard forms of philosophy of language, and Nietzsche.” Dopo aver espletato studi classici si laurea con la tesi “Ideologia e Sociologia” -- Ricercatore all'Istituto di Filosofia di Messina. Direttore della collana "Filosofia Teoretica". Altre saggi: “La Nuova Filosofia, Messina, Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi del corpo” Verona,Paniere, “Il lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana. Esercizi di lettura, Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle cose più alte, Fedeltà alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza, Pellegrini, “Stare insieme” Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito, Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza, Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione, Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni e cognitività: Un approccio fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul pudore e sull'osceno, Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova filosofia", Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Su Messina e altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi fidarti di te, Milano, Mondadori, Battaglia, Storia e cultura in Popper, Cosenza, Pellegrino, Battaglia, Guicciardini tra scienza etica e politica, Cosenza, L. Pellegrino,,  varie Giovanni Coglitore, Kant: cristianesimo come impegno morale, in Il contributo,  L'Espresso, Studi etno-antropologici e sociologici,.  Fisiologia branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi disambigua.svg Disambiguazione – "Fisiologo" rimanda qui. Se stai cercando l'omonimo trattato antico, vedi Il Fisiologo. La fisiologia (da φύσις, natura', e λόγος, 'discorso', quindi 'studio dei fenomeni naturali') è la branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi, analizzando i principi chimico-fisici del funzionamento degli esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari, animali o vegetali.  L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante prima tappa nello studio della fisiologia. È detta "condizione fisiologica" lo stato in cui si verificano le normali funzioni corporee, mentre una condizione patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono in malattie. Data l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide, fra gli altri, in fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia cellulare, fisiologia microbica, batterica e virale. Il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina è assegnato dall'Accademia reale svedese delle scienzea coloro che raggiungono risultati significativi in questa disciplina.  StoriaModifica  Claude Bernard e i suoi aiutanti. Olio su tela di Leon-Augus Wellcome. I primi studi fisiologici risalgono alle antiche civiltà dell'India e all'Egitto, dove venivano condotti insieme agli studi anatomici, senza l'utilizzo della dissezione o della vivisezione. Lo studio della fisiologia umana come campo medico risale almeno ai tempi di Ippocrate, noto come il padre della medicina. Ippocrate incorpora questa scienza alla sua teoria degli umori, che si basa su quattro sostanze fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco; associate ad un corrispondente humor (bile nera, flegma, sangue e bile gialla, rispettivamente). Ippocrate nota alcune connessioni emotive ai quattro umori, che Galeno avrebbe poi ripreso nei suoi studi. Il pensiero criticodi Aristotele e la sua teoria sulla correlazione tra struttura e funzione ha segnato l'inizio dello studio della fisiologia nella Grecia antica. Come Ippocrate, Aristotele riprende la teoria umorale, che per lui consisteva in quattro qualità primarie: caldo, freddo, umido e secco. Galeno è stato il primo ad utilizzare degli esperimenti per sondare le funzioni del corpo. A differenza di Ippocrate, però, Galeno sostiene che gli squilibri umorali siano situati in organi specifici, o nell'intero corpo. Galeno ha poi introdotto la nozione di temperamento: sanguigno corrisponde al sangue; il flemmatico è legato al catarro; la bile gialla è collegata alla collera; e la bile nera corrisponde alla malinconia. Galeno afferma che il corpo umano è composto da tre sistemi collegati: il cervello e i nervi, responsabili dei pensieri e sensazioni; il cuore e le arterie, che danno la vita; e il fegato con le vene, che sono collegati alla nutrizione e la crescita.[9] Galeno è anche il fondatore della fisiologia sperimentale. Per i successivi 1.400 anni, la fisiologia galenica influenza l'intera medicina. Fernel, un medico francese, ha introdotto per primo il termine "fisiologia". Il fisiologo francese Milne-Edwards introduce il concetto di divisione fisiologica del lavoro, che ha permesso di "confrontare e studiare le cose viventi come se fossero macchine create dall'industria dell'uomo". Ispirato dal lavoro di Adam Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo di tutti gli esseri viventi, animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ... in cui gli organi, paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per produrre i fenomeni che costituiscono la vita dell'individuo." Negli organismi più differenziati, il lavoro può essere ripartito tra diversi strumenti o sistemi (chiamati da lui appareils). Lister studia le cause della coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue scoperte portano all'implemento di antisettici in sala operatoria, con conseguente diminuzione del tasso di mortalità degli interventi chirurgici. La conoscenza fisiologica ha iniziato a crescere ad un ritmo rapido, in particolare grazie alla teoria cellulare di Schleiden e Schwann, nella quale si afferma per la prima volta che gli organismi sono costituiti da unità chiamate celle. Le scoperte di Bernard hanno portato al concetto di milieu interieur (ambiente interno), che sarà poi ripreso e definito "omeostasi" dal fisiologo americano Walter B. Cannonnel. Con omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento di stati stazionari nel corpo e i processi fisiologici con cui sono regolati. In altre parole, la capacità dell'organismo di regolare l'ambiente interno. Va notato che, William Beaumont è stato il primo americano ad utilizzare l'applicazione pratica della fisiologia.  I fisiologi del XIX secolo come Michael Foster, Max Verworn, e Alfred Binet, sulla base delle idee di Haeckel, elaborano il concetto di fisiologia generale, una scienza unificata che studia le cellule, ribattezzata biologia cellulare nel 900. Nel XX secolo, i biologi iniziano ad interessarsi agli organismi diversi dagli esseri umani, e nascono i campi della fisiologia comparata ed ecofisiologia. Più di recente, la fisiologia evolutiva è diventata un sotto-disciplina distinta. La fisiologia opera su diversi livelli, occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di cellule e organi, come pure dell'integrazione delle funzioni d'organo negli organismi complessi.   A seconda dell'ambito specialistico, la fisiologia si avvale delle conoscenze di numerose discipline, oltre alle già citate chimica e fisica, alcune branche della biologia quali: biochimica, biologia molecolare, anatomia, citologia e istologia e costituisce anche la base fondamentale per numerose discipline mediche quali la patologia, la farmacologia e la tossicologia.  Esistono diversi metodi per classificare la fisiologia  In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali. Fisiologia umana: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli esseri umani Fisiologia microbica e virale. In base al livello di organizzazione: Fisiologia cellulare: studia i meccanismi associati al funzionamento delle cellule e le loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia molecolare: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni delle molecole Neurofisiologia: studia il funzionamento del sistema nervoso sia a livello cellulare che sistemico Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica Fisiologia integrativa In base ai processi che causano variazioni fisiologiche: Fisiologia ambientale: studia le reazioni e l'adattamento dell'organismo sottoposto a differenti ambienti (temperatura, altitudine, inquinamento, ecc..). Fisiologia patologica: studia le modificazioni delle funzioni in seguito ad una patologia. Fisiologia dello sviluppo: studia i meccanismi e le fasi che conducono un organismo alla maturità riproduttiva. In base agli obiettivi finali della ricerca: Fisiologia applicata: studia la capacità umana d'interagire con l'ambiente esterno. Fisiologia comparata: studia le somiglianze e le differenze delle diverse specie animali. Fisiologia dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano l'attività motoria e sportiva e come migliorare le prestazioni con l'allenamento. Prosser, C. Ladd Comparative Animal Physiology, ambientale Environmental and Metabolic Animal Physiology Hoboken, NJ: Wiley  Introduction to Physiology: History And Scope, in Medical News Today Hall Guyton e Hall Manuale di fisiologia medica Philadelphia, Pa .: Saunders / Elsevier. Burma; Maharani Chakravorty. From Physiology and Chemistry to Biochemistry. Pearson Education. Zimmermann. The Jungle and the Aroma of Meats: An Ecological Theme in Hindu Medicine. Motilal Banarsidass publications. Selin, Medicine Across Cultures: History and Practice of Medicine in Non-Western Cultures, Springer Science et Business Media, Physiology - humans, body, used, Earth, life, plants, chemical, methods, su scienceclarified. URL Boeree, Early Medicine and Physiology, su webspace.ship.edu. URL Galen of Pergamum | Greek physician, in Encyclopedia Britannica. Stanley C. Fell e F. Griffith Pearson, Historical Perspectives of Thoracic Anatomy, in Thoracic Surgery Clinics  thorsurg.. Wilbur Applebaum. Encyclopedia of the Scientific Revolution: From Copernicus to Newton. Routledge. Cervello. The Pulse del modernismo: fisiologici Estetica a Fin-de-siècle Europa . Seattle: University of Washington, Milestones in Physiology Archiviato il 20 maggio 2017 in Internet Archive. Brown e Elizabeth Fee, Walter Bradford Cannon, in American Journal of Public Health, Brain, The Pulse of Modernism: Physiological Aesthetics in Fin-de-Sicle Europe, University of Washington  Feder, ME; Bennett, AF; WW, Burggren; Huey, RB New directions in ecological physiology. New York: Cambridge University Press. Jr T Garland, P. A. Carter, Evolutionary Physiology Moyes, C.D., Schulte, P.M. Principles of Animal Physiology, second edition. Pearson/Benjamin Cummings. Boston, MA, lemma di dizionario «fisiologia»  fisiologia, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Fisiologia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Opere riguardanti Fisiologia, su Open Library, Internet Archive. Fisiologia, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Portale Biologia: Biologia scienza che studia la vita  Storia della biologia Equilibrio idro-salino. Santi Lo Giudice. Giudice. Keywords: corpi ed espressioni, corpo, espressione, pudore, osceno, l’osceno nella Roma antica, l’osceno nella italia antica, fisiologia, fisiologico, natura --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: corpi ed espressioni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giulia: la ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale – la scuola d’Acri -- filosofia calabra – scuola d’Acri -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Acri). Filosofo calabro. Filosofo italiano. Acri, Cosenza, Calabria. Grice: “Julia was more of a poet than a philosopher; but then for Heidegger, philosophy IS poetry and vice versa!” -- essential Italian philosopher. Studia a Cosenza sotto FOCARACCI (si veda). Direttore di Telesio, periodico. Stringe grande amicizia PADULA (si veda). La temperie culturale in ambito locale vede la difficoltà della Calabria a integrarsi nella nuova entità politica. Area essenzialmente contadina, la regione ha una classe dirigente che preferisce assoggettarla al clientelismo e alla sua arretratezza piuttosto che metterla al passo con zone del paese più avanzate e progredite; perciò il mondo intellettuale d'avanguardia, deluso dalle speranze e conscio del sottosviluppo, si volge verso il positivismo e il socialismo. Vive tra il tardo romanticismo e l'affermarsi delle innovative correnti costituite dal naturalismo e dal verismo, nella scia di CARDUCCI (si veda) e VERGA (si veda). Le contraddizioni della sua epoca lo formano come un intellettuale spiritualista che rifiutail materialismo e in parte il mondo contemporaneo, e d'altra parte un sostenitore degli ideali socialisti, del riscatto delle masse disagiate e della glorificazione del passato della Calabria a partire dall'assedio degl’Aragonesi e dei suoi conterranei coevi illustri, fra i quali Miraglia, Padula, Quattromani, Tocco, oltre a CAMPANELLA. Accostatosi in un primo tempo al misticismo di Gioberti, si converte al verismo, alla ricerca del pragmatismo e di un modello di poesia di alto civismo che lo stesso G. proclama nei suoi Sonetti e liriche. Parte dai miti popolari e dalle ballate della tradizione romantica per marcare orgogliosamente la storia della sua terra. Considerato il padre della letteratura calabrese, si interessa alle origini della cultura letteraria della regione analizzando anche alcune opere a lui precedenti. Il suo impegno regionalistico si concretizza in uno studio su Selvaggi, nel quale si individua un collegamento fra Galeazzo di Tarsia e le produzioni romantiche. Vi fu poi un saggio su Padula e un esame delle liriche riferibili all'Accademia Cosentina. Sa però spaziare oltre i confini delle sue terre, fino a richiamare Milton nel suo scritto dedicato a Padula. Oltre a uno studio su Monti, produce dei lavori anche su Mazzini, Poerio, Correnti, legati dall'attenzione alle tematiche relative al Risorgimento e perciò in convergenza con il proprio pensiero, che dal punto di vista della poetica si richiama ai modelli che il letterato individua in Leopardi, Berchet e Giusti, oltre che in Prati.  Piromalli, La letteratura calabrese, Pellegrini, Cosenza; Monografia su calabria o, su calabria. Digital Storytelling su G. a cura degli studenti del Liceo G. di Acri, CS. Ovvero delle famiglie nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al libro d'oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che gioccano un ruolo nelle vicende del Sud Italia. Famiglia G. A cura di Dodaro  Socio Corrispondente dell’Accademia Cosentina, Arma: d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata nel capo da un destrocherio di carnagione tenente un uccello di nero e in punta da un albero radicato al naturale. Titolo: Nobile d’Acri. Arma Famiglia  La famiglia G., in origine nota come de “Giulia”, figura fra le antiche e nobili casate d’Acri, Cosenza. I G. godettero sempre nella locale società di un buon livello di prestigio sociale come testimoniato dalle alleanze matrimoniali contratte con diverse famiglie patrizie fra le quali ricordiamo le seguenti: Benincasa, Candia, Capalbo, de Simone, Dodaro, Falcone, Fusari. Simbolo della condizione privilegiata della famiglia è il grande palazzo sito tra il rione Casalicchio ed il quartiere Piazza. Tale edificio, al cui interno si conserva la ricca biblioteca di famiglia, è abbellito da un portale lapideo sul quale spicca un mascherone sormontato da un’antica riproduzione in pietra dello stemma del casato. Il suddetto blasone è timbrato dalla classica corona a cinque punte che identifica i Julia come nobili. Acri, Palazzo Julia, portale  con atto del notaio Gaudinieri, il sacerdote Nicola Maria J. fonda una cappella privata sotto il titolo dell’Immacolata Concezione all’interno della chiesa di San Nicola di Bari in Acri situata nel rione Casalicchio. Fabrizio J. vende a Sanseverino un terreno dove e edificato l’imponente complesso del palazzo acrese dei principi di Bisignano, permutandolo con la casa e il fondo Macchia. Dal matrimonio fra il dott. Raffaele e la N.D. Giuseppina Capalbo nacquero Salvatore ed Antonio dei quali il primo è rinomato avvocato mentre Antonio viene ricordato come “Medico illustre” che “in età provetta, in pochi mesi, studiò leggi presso il Focaracci e ne apprese quanto ne anno i più maturi; onde s’incentrarono in lui il medico e l’avvocato. Fra i personaggi celebri di questa famiglia ricordiamo il citato Raffaele, Governatore di S. Giorgio e Vaccarizzo. La figura cui si lega maggiormente la fama del casato è quella di G., FILOSOFO. Allo stesso è intitolato il liceo – LIZIO -- d’Acri. Svolge gli studi presso l’istituto Molinari di Acri ed il seminario di S. Marco Argentano. Frequenta il seminario di Bisignano dove ebbe come insegnante il Canonico acrese Francesco Saverio Benvenuto, quest’ultimo colto latinista nonché teologo, filosofo e parroco maggiore di Santa Maria in Acri.  Intraprese gli studi giuridici e per alcuni anni esercita la professione di avvocato poi accantonata a favore dell’insegnamento di materie filosofiche. Quanto alla sua produzione filosofica questa e quella del poligrafo (letteratura, filosofia, storia, cultura calabrese) inoltre. Nei suoi studi predilesse la valorizzazione e la riscoperta di figure regionali poiché gli pareva che la Calabria fosse dimenticata e poco apprezzata dopo la raggiunta Unità. Fra le sue opere ricordiamo: Saggio sulla vita e le opere di Gravina, Saggio di studi critici su Selvaggi e la Calabra poesia, ROVERE e i suoi dialoghi di scienza prima, FIORENTINO filosofo, Lettere al figlio Antonio su Cesare, SANCTIS in Calabria, Monti. Muore in Acri. Telesio, rivista codiretta da J. Antonio J. figlio di Vincenzo, avvocato e raffinato poeta sposa, in prime nozze, Mariantonia Dodaro, figlia dell’avv. Giovanbattista e di Cristina Benvenuto. Il loro è un matrimonio felice e allietato dalla nascita di Maria Gabriella, Vincenzo e Antonietta.  Antonio G. e sua moglie Mariantonia Dodaro  Antonio G. è legato da sincero amore a sua moglie e quando questa prematuramente scomparve, riversò il suo dolore in alcuni toccanti componimenti poetici che rappresentano una struggente testimonianza del suo dramma interiore e assieme della sua spiccata sensibilità d’animo. AL CROCIFISSO DEL SUO LETTO Non più le sue lucenti Pupille a te si volgeran la sera; non più per le dolenti mie stanze echeggerà la sua preghiera. O tu, che pendi ancora, mistico Iddio, sul vedovo mio letto, volgi le luci ognora sovra i miei figli e sul paterno tetto! Dimmi che ancor le rose Olezzano per te, vigile Iddio, le parole amorose che a te rivolse, ne l’estremo addio. Dimmi che ancor tu senti La voce sua, ne l’ombre de la sera, e che, in soavi accenti, mormora pe’ suoi figli una preghiera! Gli smalti dello stemma J. sono noti grazie ad una raffigurazione del blasone in oggetto riportata dallo storico acrese Capalbo in un suo lavoro inedito sull’araldica delle famiglie nobili d’Acri. Nella riproduzione del blasone dei G., visibile ancora oggi sul portale del loro palazzo in Acri, il destrocherio appare vestito. (2) - Per approfondimenti si rimanda a CHIODO, L’Archivio Privato della famiglia G. di Acri - Inventario sommario, in “Archivio Storico per le Province Napoletane. Per un elenco completo delle famiglie patrizie di Acri si vedaCAPALBO, Memorie storiche di Acri, S. Giovanni in Persiceto (BO), Edizioni Brenner, CAPALBO. Quest’ultima, appartenente a una famiglia originaria di Rogiano Gravina, sorella di Balsan,  letterato e deputato del regno d’Italia nonché preside del liceo Telesio di Cosenza. Lo stesso figura tra i maestri del nipote PIROMALLI, La Letteratura Calabrese, Cosenza, Pellegrini. Per approfondimenti su alcune vicende storiche che interessarono la famiglia Fusari si rimanda a CAPALBO,- G. vincenzo. atavist. Alcuni anni dopo il decesso della prima moglie, si unirà in matrimonio con Maria Beatrice Antonietta Romano di Acri. Poi sposatasi con Carlo Giannice Andata successivamente in sposa a Giuseppe dell’Armi A. G., Momenti, S. Maria Capua a Vetere, Casa ed. Della Gioventù, Si veda anche il componimento intitolato “Alla Vergine della Sua Stanza”. Questo egregio, su cui fondiamo, a buon dritto, non pic cola speranza, per le diverse prove del suo nobile ingegno fin'ora dateci, coltiva con forte, inteso amore le filosofiche discipline, tutto solo rannicchiato in piccol paesuccio delle Calabrie, Acri. Egli, da quello n'è sembrato, predilige la filosofia di quel sommo torinese filosofo, che col suo primato Civile e Mormale D'Italia fanatizzò tutti isuoi connazionali per la dupla autonomia del loro paese, Libertà ed Indipendenza; e con l'Introduzione allo studio della Filosofia, la Protologica ed altre opere speculative ispira nei cultori di questa no bilissima scienza l'amore delle nazionali dottrine. J. a dunque è un giobertiano, un ontologo, e per lui quindi sta che l’ente, il primo essere, Colui che dà l'essere a tutte cose, non però spezzandosi, non diffondendosi, nè emanandole dal suo seno, come il ragno il ragnatelo; ma liberamente creandole; per lui dico sta, che l'Ente, l'ASSOLUTO reale, non astratto, quale il pose, il proclama Hegel, è il Primo Filosofico, cioè a dire è non solo il primo essere o primo ontologico; ma anche la Prima Idea o Primo Psicologico. Sicchè non solo anno le cose tutte da Dio l'essere loro, ma anche la loro intelligibilità. Verità già insegnata dal fondatore dell'Accademia, il divino Platone, il quale dice che l'idea del DIIVINO è pel mondo intelligibile quello che il sole è pel mondo visibi le, e che l'essere assoluto dà alle menti nostre l'esistenza e spande su loro e sugli obbietti della scienza illume della verità« detí v 8.& Tlothuns oùoxv xai adnocías» come il sole, che non solamente rende visibili le cose, ma dona loro eziandio il nascimento, l'accrescimento e la maturita -- τον ήλιον τοϊς ορωμένοις ου μόνον, οίμαι τήν του οράσθαι δυναμιν παρέχειν φήσεις, αλλά και την γένεσιν αυτών όντα. Quindi per J. sta quel metodo detto deduttivo, o sillogistico, che dai principii va alle conseguenze, ma non come pretende il fondatore del Peripato del LIZIO, il qua le fa il sillogismo posteriore all'induzione, ed il cui scopo non consiste in altro che in applicare i principii alle cose particolari a meglio rifermarle. J. ha capito bene che l'induzione non può darci punto tanto i principii proprii a ciascuna scienza, quanto i principii comuni ed assolutamente universali. I principii sono ontologici ed originalmente presenti alla intelligenza, secondo dice il divino Platone, e non già puramente logici ed astratti, secondo dice Aristotele, che li vuole prodotti la merce dell'intelligenza con gl’elementi fornitici della sensazione. Nè debbe dirsi che J. neghi l'induzione. Ei l'ammette, e nel senso di venir essa provocata, sostenuta e guidata in noi dal lume di certe idee generali sempre presenti all'anima nostra, essendo un impossibile elevarsi da qualche fatto individuale e variabile all'idea della legge generale e permanente, senza averci di già nella mente, almeno in una maniera vaga e confusa, l'idea di ordine, di generalità e di stabilità. Laonde dice Laforet nella sua storia della filosofia antica, in parlando del LIZIO. Comment s'élever de la perception de faet contingents et relatif à l'idée de principes nécessaires et absolus, si le necessaire et l'absolu sont entieremant étrangers à l'intelligence? Dunque pel J., come per ogni giobertiano, si deve partire di Dio per costruire la scienza filosofica ossia dalla idea somma ed improdotta, perché è quel principio supremo che illumina e rende conoscibili gli altri principiimeno generali e senza di cui non potrebbe aversi quella sintesi obbiettiva, che argumenta di necessità nel suo moto organico la gerarchia dei principii scientifici; e deve radicarsi in un principio assoluto, supremo, universale, immutabile, il quale, reggendo colla sua virtù ogni singolar passo del procedimento razionale, accorda ed unifica tutti imomenti del discorso ideale, e tutta insieme 1.umana enciclopedia. Laonde dice saviamente nel suo dotto di scorso intorno al Panteismo Attanasio, nella La Carità di Napoli. Sintesi senza gerarchia di principii io non intendo nell'ordine dell'idee, come non vedo nell'ordine umano sociale e nell'ordine fisico di natura. E ingradamento di gerarchie che ponga in atto una sintesi universale torna impossibile a concepire pur col pensiero senza un principio supremo, essenzialmente uno ed immutabile, che sia il centro immoto che governi i moti del multiplo e del diverso e tragga a sè ed accordi il multiplo e dil diverso». Laonde, lasciando chel'induzione non conduca ai principii, a ciò che è universale, sia che dessa fosse positivista o come la intende il positivismo, siache fosse anche nel senso di Aristotsle, ci facciamo a lodare J. per avere ei scelto quel sistema, che parte dall'idea dell’ASSOLUTO reale per costruire la scienza, non sipotendo, per tante e tante ragioni dette e ri-dette, porsi per primo conoscibile ciò che non è prima cosa; per chè sarebbe, seguendo questa via, un turbare l'armonia della scienza filosofica; giusta che vien fatto dai psicologi, i quali partono dal contingente, ed oșano spiegare l'assioma degl’assiomi, la verità prima con la verità seconda, e separare l'ordine di esistenza da quel lodi conoscenza, il primo psicologico dal primo ontologico, dando questo per primo filosofico. Di qui non potremmo esserer improverati che atorto, se dicessimo che iseguaci del PSICOLOGISMO di Aristotele -- non però di quelle d’AQUINO (si veda) ch'è ben altro -- siam lontani da una vera scienza; perché la scienza è con la sintesi, e la sintesi co'principii, e la gerarchia dei principii scienziali nel principio sommo, Dio, radicata. Siechè scienza sull'ANALISI è scienza effimera, è scienza di nome, essendo disgregazione, e tale è la filosofia di Aristotele, siccome è conto da quei due principii ammessi da lui. Nihilest in intellectu,quod prius non fuerit in sensu --  e che l'anima nostra si rassomiglia ed una tavolarasa -- Δείδ'ούτως ώσπερεν γραμματειωώ μηθένυ πάρχει εντελεχεία γεγραμένον. È quantunque fosse vero che il LIZIO ammettesse l'intelletto attivo profondamente distinto dalla sensibilità, essendo quello che opera 83 $¢%su ciò che ci vien porto dalla sensazione, per tirarne od indurne avec lemonde intelligible; sun intervention n'apportedo nerien de now eri veau à ce qui est déposé dans l'àme par suite de la perception des 0C sens, il ne peut qu'exercer son activité et travaillier sur ce qui est racu dans l'intellect paseif. L'intellect actif d'Aristote nous semble jouer, redans la formation de la connaessance,un rôle exactement samblable à 1021"celui que joue la reflexion de Locke; ni l'un ni l'autre n'ajoutent ta rien à l'objet fourni par la sensation, toute leur action seborné à éla:) doaborer cet objet Dunque nonpuò farsi ammeno di ammettere col ret. J. e la scuola giobertiana l'apprensione diretta ed immediata, din cioè l'intuito dell'assoluto, e ritenere essere questi la prima idea, la l'oprima conoscenza, che, per la via di un primo guardare, viene al. into: l'intelletto umano nello stato d'intenebramento, che la riflessione di in poi, la quale èun secondo intuito od un ripiegamento dello spirito e sopra il primo intuito, chiarifica e fissa, e non già che la si acqui isti e conosca in forza del raziocinio, passandosi dalla cognizione a iilistratta, ottenuta per la via dell'induzione, a quella concreta del V e on& ro Assoluto, avendo ben dimosorato altrove, che i psicologi si tro fost vino in grande errore, credendo ed insegnando, che Dio siccome ve fosesrità assiomatica, essendo universale, necersaria ed immutabile, debba 18 essere astratta,e che vi bisogna di forza indispensabilmente il ra ley ziocinio per ascendere, mediante essa verità astratta, al vero primo buik ed assoluto, mentre, siccome facemmo notare in proposito di Milone. Insomma, senza menarla piùinlungo, della insignescuola on anda tologica è J., siccome l'ha mostrato co'suoi vari scritti di ar veratgomento filosofico e conquello, veramente stupendo, Discorsointorno alla vita ed alle opera di Balsano, in cui, prendendoa consi ost: der ar e questo disgraziato dotto Calabrese, divenuto vittima del pugnale di un assino, e, considerandolo non solo quale oratore egregio ed acuto critico,ma anche qualeillustre cultore delle scienze filosofi cincche, e forte amatore del sistema ontologico, palesa a chiare note i suoi O. pensamenti in fatto di filosofia, che sono indubitatamente quelli del Pladiotonismo, cristianizzato d’Agostino, ammirato d’AQUINO (si veda) e d’ALIGHIERI (si veda), divulgato da Gioberti, ed abbracciato dalla th, maggior parte de'pensatori nostrani. La FILOSOFIA di J. che ci avemmo in dono da lui medesi i mo, palesa ad evidenza non solo la scuola filosofica cui appartie ne; non solo la lucentezza delle idee, ond'è corredata sua mente; e non solo l'affetto per la patria grandezza quanto a politica, governo e civile, scienze, lettere ed arti; ma dàanche prova della perizia che l'universale ed elevarci sino alla concezione dei principii; pure non to bisogna dimenticarci che nella teoria dello Stagirita è desso affatto et vuoto, senza alcun rapporto diretto col mondo intelligibile, da potersi pelo dire che nella conoscenza eserciti l'ufficio nè più nè meno della riostruflessione di Locke. E dice bene Laforet. Dans la theorie du Stagirite l'intellect actif est tout a fait vide et n'a nul rapport direct Profilo Bibliografico pubb. nella Rivista Itoliana di Palerino ela:Anno IV,N. 11, nonci ha cosa più chiara, che essa verità assio -artormatica primitiva è obbiettiva in sommo grado,appunto per le sue veritacaratteristiche di universalità, necessità ed iminutabilità. COSS me adal tile. // ne  84 ha ei nell'idioma nazionale. Sicchè è a rallegrarci con lui dei buoni studi, dell'amore delle nazionali dottrine dell'eccellenza del sistema che ha adottato nelle scienze speculative, anteponendo (fra i due sistemi che veramente possono dirsi i più perfetti, essendo ambo sin tesisti, cioè a dire razionalo-empirici od empirico-razionali) l'ontologismo al psicologismo, e, fuggendo, quelloche è più, gl’eccessi del razionalismo e dell'empirismo, e quei tali sistemi erronei, idealismo e positivismo, pei quali delirano i filosofi, da cui camminando si di questo passo, non ci possiamo attendere, se non un ar venire sventurato. Prosegue J. i suoi studii filosofici, e ci offra lavori speculativi di maggior lena, per poterlo vie meglio ammirarlo, e rallegrarcene con lui.  Delle dottrine filosofiche e civili di Gravina per Balsano, con saggio sulla vita e sulle opere del Gravina per J.   Cosenza, Mgliaccio. Gravina è considerato dai più come poeta e letterato segnatamente pel suo trattato della Ragione poetica,e come insigne giureconsulto, specie per lasua opera De ortu et progressu juris civilis. Ma eglime rita,sotto un certo rispetto,d'essere altresi considerato come filosofo e per le dottrine speculative che professava e per quei sommi principii a cui s'informano i suoi SAGGI DI FILOSOFIA, dovendo le scienze particolari e d'applicazione, quali sono appunto le discipline giuri diche e pratiche.esser precedute ed illuminate da una scienza speculativa più alta ed universale, cioè dalla Filosofia propriamente detta. A nostri giorni il calabrese Balsano si pro pose di far meglio conoscere le dottrine filosofiche e civili di Gravina, studiando accuratamente e con intelletto d'amore le opere del suo grande concittadino. Ma Balsano, non che pubblicarlo, non potè compiere il suo lavoro, perchè trafitto dal pugnale dell'assassino! J. ha raccolto la sacra eredità del suo venerato maestro, dettando un'eru dita ed ampia monografia sulla vita di Gravina, e pubbli candola insieme al lavoro inedito del Balsano. In questa vita  e   troviamo uno specchio breve ma fedele dei tempi di Gravina, specie riguardo agli studii; la pittura del carattere morale del pensatore rogianese, un cenno de'suoi numerosi scritti e de'suoi meriti letterarii. L'opera del Balsano, dettata in una forma quanto castigata altrettanto elegante ed elevata, contiene una larga esposizione dei pensamenti di Gravina diretti a coordinare tutte le sue meditazioni di filosofia speculativa e di morale, di religione e di diritto, di estetica e d'insegnamento, di politica edi civiltà. È divisa in due libri. Nel primo si ragiona delle dottrine civili. Quanto alla filosofia, da Balsamo si cerca dimo strare che Gravina, studioso della TRADIZIONE DELL’ANTICA FILOSOFIA ITALICA,si attenne specialmente alla dottrine platoniche (come apparisce anche dall'Orazione sua De instauratione studiorum), armoneggiandole col progresso della civiltà cristiana, delle scienze particolari e massime del Diritto, egli che aveva meditato le opere dei sommi giure consulti romani, e che aveva piena la mente ed il petto della grandezza di ROMA antica. Le dottrine platoniche da lui professate gli fecero innalzare la mente ai principii sommi del Diritto, a meditare la riforma delle dottrine civili, ed a comprendere la sintesi el'armonia delle parti principalidel sapere. Difatti, Gravina vedeva la scienza umana come un'armonia e ricordava la piramide in cui egli dice espressamente avere gli antichi savi simboleggiato la scienza umana e la natura delle cose: il che significa che per lui l'ordine della scienza risponde a quello della natura, l'idealità alla realità; e come il primo vero è l'idea divina nota da principio all'intelletto creato, così il primo essere è Dio creatore della scienza e della natura. Tutto l'ordine dei contingenti reali ha sua causa efficiente nell'ASSOLUTO che licrea; tutto l'ordine delle cono scenze empiriche ha sua origine nell'idea eterna, presente sempre all'intelletto umano e norma o tipo a cui si riscon trano le cose finiteapprese per esperienza sensibile. E sotto questo aspetto può dirsi che Gravina precorresse a Gioberti, che in cima del sapere e dell'essere doveva porre Dio creatore. Adunque il contemporaneo di VICO (si veda) non segui le dottrine del Locke, ma invece quelle più elevate di Pla- [Disp.] tone e del Cartesio, quantunque non și mostrasse sempre giusto verso il LIZIO. Ma se a Gravina non può negarsi un certo valore filosofico, i suoi veri meriti risguardano, più che la FILOSOFIA ela Letteratura, la Giurisprudenza. Preceduto da Gentile, da Bacone e da Grozio, Gravina non solo ricercava l'origine del Diritto e ne indagava iprogressi (De ortu et progressu juris civilis), ma sapeva altresi elevarsi alle idealità o ai principii supremi del Diritto. Quindi è che a lui debbono molto la Storia del Diritto, specie, di quello romano che insegna in Roma stessa, e la FILOSOFIA. Gravina, esaminando l'origine e la natura del Diritto, non lo separava dalla Morale come oggi fanno taluni, perchè nella legge morale,da cui scaturiscono tutti i doveri umani, trova pure il suo primo e vero fon damento il diritto. Egli precorse al Savigny da un lato, al VICO e Montesquieu dall'altro, interpretando con larghezza di veduta la storia civile e giuridica di ROMA. Balsano si è proposto di ritarrre ilGravina non solo qual eminente giureconsulto, sì ancora qual filosofo civile, mostrando com'egli additasse le norme eterne d'ogni società umana (che ammetteva come un portato della natura) nella vita privata e pubblica, nell'ordine privato e politico. Ma ripetiamo, Balsano non potè compiere l'opera sua; la quale del resto, merita di essere conosciuta e studiatadai cultori della Filosofia, benchè ci sembri scritta con entusiasmo soverchio verso il proprio concittadino risguardato come filosofo. DISCORSO Recitato nella sala dell'Accademia Cosentina). Piansi,o Signori, nella mia pensosa solitudine, la morte immatura del caro Fiorentino, che mi fu amico e fratello!; vengo ora a glorificarne l'ingegno nel tempio della scienza, innanzi al simulacro del vecchio TELESIO, al cospetto di dotti Accademici, di fervidi giovani, dieletti ingegni, di distinti Professori, che meglio di m e, nato e cresciuto nelle montagne, potrebbero valutarne i forti studi e la vasta intelli genza. Parlerò con franchezza, senza adulazioni rettoriche, senza intemperanze di lodi; dinanzi ad uomini gravi ed austeri le apoteosi e la rettorica sono un fuordopera. La parola mendace è un insulto alle ceneri di Fiorentino, uomo sovero ed aperto, che disdegnò il lenocinio e le bel lezze oratorie, sa dire con schiettezza di calabrese la v e rità ad amici e nemici, e fu audace demolitore del vecchio mondo; inesorabile agl'ipocriti ed ai ciarlatani. Nella rioca personalità del Fiorentino grandeggia il filosofo ed il pensatore; lascio,per ora,ad altri di me più competenti, esami nare il letterato, lo scrittore, ed il cittadino; io vi parlerò soltanto dell'Autore di BRUNO;del Saggio Storico sulla Filosofia; di POMPONAZZI e di TELESIO; quat tro titoli di gloria, che basteranno a rendere immortale il nome di Francesco Fiorentino. [Vedi il saggio su Fiorentino da J. pubblicato nell'Avanguardi, riprodotto dalla Gazzetta Calabrese e dal Calabro in Catanzaro; dal Corriere del Mattino e dall'Ateneo, in Napoli. L'Italia, o Signori, fu scossa nei principi del secolo, dopo la grande Rivoluzione dell'ottantanove, dalla parola del nostro GALLUPPI, che il Gioberti chiama il Nestore della sapienza italiana. Senza mistiche intemperanze, senza voli metafisici, ei richiamò, nuovo Socrate, la mente degl’italiani ad indagare il me e la coscienza; a scrutare profondamente ilsubbietto umano; e, rigettando lequiddità scolastiche ed il sensismo di Condillac e di Tracy, contribui à rinnovare presso di noi il metodo naturale, e fu salutare reazione all'esorbitanze speculative del secolo decimottavo, Conscio dell’esigenza storioa del secolo decimonono, Galluppi inizia presso di noi lo studio della storia della filosofia; indovino, pur combattendola fieramente, l'importanza speculativa della sintesi a priori, che in parte accetto; e, benchè avesse trascurata la Rinascenza, Telesio, Bruno, Campanella, può dirsi, IL VERO EDUCATORE DELLO SPIRITO FILOSOFICO IN ITALIA. La Calabria, terra delle grandi iniziative e delle magnanime audacie, si elevò con Galluppi all'altezza del pensiero moderno, e fu, sarei per dire, la squilla settimon tana di CAMPANELLA, che risveglia in Italia il pensiero laicale ed umano, il pensiero puro ed universale. FIORENTINO studia Galluppi, ne comprese l'indirizzo storico, o gli piacque la nuova e socratica spe culazione, che un modesto filosofo inizia nella estrema Calabria, sulle rive di quei mari, che ripetono ancor l'eco delle armonie pitagoriche. Galluppi, con le sue serene e casalinghe meditazioni, non bastava ad appagare il libero ed irrequieto ingegno di Fiorentino, aquila delle montagne, che volea spezzare le pastoie del vecchio mondo e della speculazione galluppiana. In mezzo a queste ansie intellettive sopravvenne Gioberti a scuotere le menti dei meridionali con la magica parola; ed Fiorentino, assetato di ideale e di patria, come tutti i forti ingegni di Calabria, accettò anch'egli la mistica speculazione giobertiana, o è idealista platonico ed ortodosso. E chi potea, pria del sessanta, resistere al fascino di Gioberti? Chi rinnegare la p a tria, ch'egli glorificò nelle pagine immortali del Primato? Guerrazzi chiama Gioberti scintilla piovuta dal Vesuvio sulla cima delle Alpi: veramente ci è in lui l'audacia, la fiamma profetica, la divinazione geniale del Mezzogiorno; ci è VICO e Campanella, AQUINO o Bruno; ci è la fede dei credenti, lo spirito ribelle dei tempi nuovi, l'ome rica fantasia di Platone, l'austero sillogismo di Aristotile. Nei dolori dell'esilio, egli scrive la Teorica del Sopranna turale, ch'è l'apoteosi della vecchia ortodossia ; riassunge nella Introduzione tutto il passato teologico e tradizionale, rinnovò il realismo del Medio-Evo, sposandolo al pensiero moderno; risuscitò nel Primato, con l'entusiasmo del pro feta, i titoli della nostra grandezza, e lanciandosi col volo dell'Aquila alpigiana nel grembo dell'essere, credette di averne interrogate le profondità, ringiovanito il vecchio Dio della Scolastica, e sciolti tutti i problemi con la formola ideale e con l'ente creatore. Gioberti non arrestossi a metà; e, ringagliardito da nuovi studî, ingegno audace e progressivo, com'era, accettò gran parte della speculazione moder na, e, spastoiandosi dal vecchio teologismo, dalle utopie del Primato, inaugura la nuova Italia col Rinnovamento; la nuova Scienza con la Protologia, e la nuova chiesa con la riforma cattolica, e con la filosofia della rivelazione; sebbene non interamente emancipato dalla vecchia ortodos sia. Ai tempi che Gioberti pubblica il Rinnovamento, ed Massari le Opere postume del suo grande amico, le Calabrie erano chiuse dalla muraglia cinese, ed ilnuovo pen siero laicale di Gioberti non potè penetrare nei nostri boschi. È ancora innamorato del misticismo e della formola ideale; gl’eroi della Rinascenza non sono ancora conosciuti tra noi; o SPAVENTA, esule a Torino, dove pubblica i suoi stupendi Saggi Critici su Bruno e Campanella, e quasi ignorato in Calabria. Fiorentino, non bisogna nasconderlo, avea subito an. Scrisse allora a Napoli Bruno, un Saggio, come schiettamente confessa l'Autore; composto in tutta fretta nelle vacanze, e disteso in soli ventotto giorni. Quel Saggio, benchè imperfetto, segna il primo momento della critica evoluzione del nostro in filosofia, il passaggio, cioè, dal dommatismo giobertiano alla speculazione libera e laicale dei tempi moderni. Nello studio del passato Fiorentino trova la spiegazione dei posteriori sistemi; e, poichè non poteva valutare le teoriche di Bruno, senza risalire alle origini, guarda la dialettica nelle scuole di CROTONE e VELIA, e ne rilevò con sa gace giudizio l'importanza speculativa nel gran dramma del greco pensiero. Si occupa, egli il primo, presso di noi, della stupenda Dialettica del cardinale di Cusa, e ne indaga i le gami col sistema del Nolano, dove causa e principio sono una medesima cosa, e la esteriorità della causa e la inte 1 Leggeva i SS. Padri in una cella di monaci: ne trascrisse molto; e ne pubblica alcuni saggi a Messina, voltandole in italiano. Cusani; Aiello; Re; Salvetti; Gatti; Spaventa e Spaventa; Imbriani; Meis; Tari; Savarese; Perez; Mancini; Sanctis; Marselli; Trinchera; Turchiarulo; Zio; Quercia ed altri. pensiero germanico, diffuso nel mezzogiorno dai più forti ingegni del Napolitano; indovina la grandezza speculativa della Rinascenza, e si sentì attratto dall'eroica figura del Nolano ch'egli l'influsso dei Santi Padri, e, principalmente, come dicemmo, del filosofo torinese, che da lui studiato profon damente in gioventù, non fu dimenticato nella età matura, in mezzo ai più splendidi trionfi del suo ingegno. Venne però il sessanta, con le sue titaniche audacie, e con le sue immortali demolizioni a svegliare Fiorentino dalla sua fede dommatica e dal suo sonno ortodosso; e, benchè non ancora emancipato da Gioberti, si volse a studiare il riorità del principio si ricongiungono nell'Uno, ch'è insie me causa e principio. L’uno nel sistema del Nolano, è totalità assoluta; vale a dire che come principio della forma zione dello cose è minimo,come totalità perfetta ó massimo; come identità del principio e della fine piglia il nome di uno, ove tutto si assorbe, come in vasto ricettacolo; ove il pensiero e la realtà si confonde in una identità suprema. In ciò consiste il panteismo di Bruno, che Fiorentino rigetta, soggiogato da Gioberti, confutando l'eccletismo poco omogeneo, gli ondeggiamenti e le contraddizioni del Nolano, che fonde insieme la Causa dei Pitagorici, l'Uno di VELIA, ed il Principio degl’alessandrini. E pure, ad onta delle prevenzioni ortodosse e giobertiane, Fiorentino non disconosce le novità laicali, di cui è ricco il sistema del Bruno; la maggioranza del pensiero, la menta lità, che splende come intelletto divino, mondano, partico lare,ed ilconcetto direlazione, ch'è tanta parte della Protologia del Gioberti, e costituisce il verace assoluto; l'assoluto, cioè, della moderna speculazione. Dallo oscillare di Bruno tra la Scolastica e la Rinascenza deriva che il finito ora è una vana parvenza, ora la massima realtà; ed il Nolano ondeggia tra Eraclito e Parmenide di VELIA, tra il flusso c o n tinuo e la rigida immobilità. Fiorentino mette Bruno in relazione con Spinoza e Schelling, ne nota col solito acume le differenze e le somiglianze, o conclude che i tre filosofi si rassomigliano nella prospettiva generale del sistema, hanno il medesimo intendimento di unificare la scienza e d'immedesimarla col mondo; cercano fuori del pensiero il centro della loro unità, e costituiscono quella serie di Panteisti, che si dicono obbiettivi; l'Uno, la Sostanza, l'Assoluto sono tre creazioni parallele. Fiorentino analizza del pari la dialettica di Hegel e di Gioberti, monumenti immortali della moderna speculazione, e nota che in Hegel e Gioberti contrastano due tradizioni, due filosofie, e due nazioni; la filosofia della creazione e la filosofia della   identità, il cattolicismo ed il razionalismo, l’Italia, patria d’AQUINO o d’ALIGHIERI, e la Germania, patria di Lutero e di Göthe. Fiorentino, senza sconoscere la importanza della filosofia tedesca, glorifica la vecchia formola giobertiana, il cattolicismo e la rivelazione; rigetta quasi il pensiero moderno, desidera il rinnovamento della antica filosofia italiana, e, collocando sugl ialtari il Gioberti della Teorica e della Introduzione, chiude il Saggio con queste parole. Sogna che il nome di GIOBERTI suonerebbe terribile sui campi di battaglia, e venerando tra le arcale della Università. Quel mio sogno giovanile si è avverato in gran parte e la indipendenza e l'unità della « mia patria,propugnata da quel grande statista, è presso a compiersi; mi sarebbe ora assai dolce il vedere una « scuola ed un'accademia iniziarsi, diffondersi, giganteggiare in quel nome si caro ad ogni italiano, con quella « formola,che assomma la scienza e la fede dei nostri padri. Da esse soltanto noi potremo sperare, compagni di quelli che combatterono a Curtatone, e cacciarono gli’austriaci da Varese e da Como. Bruno porta Fiorentino ad uno studio più accurato della greca filosofia, di cui è anche specchio e ri produzione, in buona parte, la Rinascenza italiana, della quale il Nolano è l'eroe ed il martire. Professore straordinario di Storia di filosofia a BOLOGNA, Fiorentino si da a studiare alacremente e con tenacità di calabrese Aristotile e Platone. Si fatti studii, come racconta egli stesso, gli apreno nuovi orizzonti, gli allargano la vista intellettiva, o gli fanno scorgere il difetto fondamentale della filosofia giobertiana. Fiorentino si allontano da Gioberti, non col cuore, si bene con la mente, ch: i forti amori non possono dimenticarsi. Rude e franco calabrese, intelletto austero, Fiorentino si emancipa dalla scuola filosofica ortodossa, quando si convince che il mito e la leggenda prevalevano sulla pura speculazione, sul pensiero libero o laicale. La critica, che Aristotile fa di Platone, a cui GIOBERTI si rassomiglia, fece schivo il Nostro dal mescolare immagini ad idee, e lo inimicò con le metafore filosofiche la severa, m a ineluttabile critica di Aristotile; non i tedeschi lo convertirono alla nuova filosofia, degna dei tempi moderni, si bene il rigido, inesorabile Aristotile Fiorentino scese, CALABRO ATLETA, nella arena della greca filosofia, e ardente è trasportato lungo le sponde dell' Ilisso, tra gl’alberi fragranti, che ne ombreggiano il margine; sotto il bel cielo d’Omero, tra le dispute di Socrate, i simposî platonici, e le austere meditazioni dell'Accademia. Sa egli fondere ed accordare insieme l'idea greca all'idea calabra, rappresentata nei tempi antichi da Pitagora, e tutte e due al nuovo pensiero laicale del Rinascimento, rappresentato presso di noi da Telesio e Campanella. Ringiovani così il pensiero, irrigidito nelle ferree strette della Scolastica e di Gioberti; e farfalla, ch'esce a poco a poco dal suo involucro; montanaro calabrese, che si trasfigura man mano sotto il soffio dei nuovi tempi, si sentì umano ed universale nei Dialoghi di Platone e nella Metafisica di Aristotile. La Grecia è infatti la terra dove sboccia il fiore dell'Arte, e germoglia il seme dell'umana ragione; è la patria del pensioro speculativo, della Dialettica, e della Categoria, a cui metton capo ipiù vasti sistemi dell'antica e della moderna filosofia. Fu lapatria di Platone, che per genialità e divinazione speculativa, per universalità di pensa menti, per movimento drammatico, per colorito artistico e finezza di dialogo, grandeggia su tutti i filosofi; egli fonde in sè l'eloquio facile e maraviglioso d’Omero e l'attica bellezza di Sofocle. La vecchia Grecia s'idealizza e si trasfigura nel gran discepolo di Socrate; la speculazione diviene arte e dramma, ed il pensiero, chiuso nei c ancelli di Talete e di Eraclito, abbraccia ilmondo, si fa universale ed umano, an- [Vedi Filosofia Contemporanea in Italia, Napoli] ticipa il Cristianesimo e preludia all'età moderna. Egli fonde, come disse bene FERRAI FERRARI (si veda), in una grande unità isofisti e i politici, gli artefici e i guerrieri; uomini, donne, vecchi, fanciulli, schiavi e liberi, e in questo mondo in azione ti si fa duca e maestro, innalzandoti, migliorandoti, affinando le tue facoltà, spesso spirandoti nell'anima un sacro entusiasmo per il buono, per il vero; quell'entusiasmo, aggiungo io, che crea i grandi fatti della storia, e quei capolavori del l'arte, che si chiamano Convito ed il Fedro, ove si specchia tutto il sorriso dell'Ionio mare, l'apollinea bellezza dei Greci, il fascino di Diotima e di Aspasia; la morbida poesia dell'Attica e l'arguta ironia di Socrate ; divina bellezza, m u . sica arcana, che rende unica la Grecia tra le nazioni più civili e più artistiche del mondo. Non volendo abusare della vostra bontà io m i restringo per ora a Platone; che ci porterebbe assai lungi il voler discorrere completamente del Saggio Storico sulla filosofia Greca ; discutere ed esaminare Aristotele e quanto altro riguarda le Categorie ed i problemi della filosofia moderna, di cui si occupa il nostro nel suo stupendo lavoro. Fiorentino scrutò con animo libero e spassionato la vec chia speculazione ellenica; la Grecia anteriore a Socrate,ove campeggiano le grandiose figure di Talete, di Senofane, di Eraclito, di Parmenide, d’Anassagora; o dove si elabora a poco a poco l'idea platonica e la categoria aristotelica. È un quadro ricco di pensiero, ed anche di poesia,che con vivi colori ci tratteggia Fiorentino con quella sua ge nialità, con quella lucida esposizione, che tanta grazia a g giunge ai suoi lavori speculativi; incantevole lucidezza, che ritrae i limpidi Soli diffusi sui patrî vigneti e sulle marine di Cotrone CROTONE. Il Saggio Storico sulla filosofia sarà sempre, secondo il nostro debole parere, l'opera più bella, più geniale del Fiorentino; ci è il profumo e l'entusiasmo, ci è la vita artistica, anche in mezzo alle severe meditazioni del pensatore; quella vita, che solo può dare la Giorn.Napoli] gioventù, nella sua più rigogliosa fioritura ed espansione. Ciò nonostante, spassionati estimatori dell'ingegno del nostro amico, riconosciamo in quel saggio lacune ed imperfezioni, che l'autore medesimo, uomo schietto e leale,vi riconobbe, ricco di nuovi studi sulla lingua, sulla filosofia, sulla letteratura greca; dotto nel tedesco e conoscitore profondo dei moderni lavori alemanni su Platone ed Aristotile. Intanto facciamo notare che il cardine fondamentale della critica di Fiorentino sono le idee platoniche e le categorie aristoteliche, che sono e saranno sempre le colonne e le pietre granitiche dell'umano pensiero. La critica platonica (come nota Chiappelli nel dottissimo studio sulla interpetrazione panteistica della dottrina platonica) si è a giorni nostri ri fatta da capo; e la quistione si aggira sui fondamenti di tutto il platonismo, valeadire, sul genuino valore della dottrina delle idee, che forma il centro del sistema dell’ACCADEMIA. Dalla interpetrazione di codesta dottrina dipende quella di tutto il resto del sistema; è il presupposto, da cui, come tanti corollarii, scendono tutte le altre parti di questo monumento immortale del genio greco, che scosso dalla potente critica dal LIZIO d’Aristotile, travisato dal Neo-platonismo, rivive anche oggi, dopo le vicende di tanti secoli. Varie e con traddittorie in ogni tempo sono le interpetrazioni delle idee platoniche. Sono scambiate, ora con gl’ideali estetici, che vagheggia l'artista, ora ritenuti come generi logici e concetti intellettivi, ed ora come gl’eterni paradimmi del divino artefice, modelli esemplari delle cose, e quindi esistenti per sė; la quale interpetrazione, che si trova diffusa tra i neo-platonici, tra i padri della chiesa, ed in tutto il medio-evo, anche oggi è sostenuta da valorosi critici. È certo poi che le idee in Platone sono trascendenti, immobili e separate dalla materia, e che carattere principale del Platonismo è la irreconciliabilità tra l'idea e la materia, tra l'intelligibile ed il sensibile: Le più ingegnose interpetrazioni dei critici moderni, e massime di Teicmuller, che fa dell’ACCADEMIA un Panteista, non han potuto colmare l'abisso, che nel greco filosofo separa l'idea dal cosmo, l'elemento intelligibile dall'elemento materiale. Relegate, come sono, le idee in un mondo inaccessibile, non possono esercitare nessuna influenza, nè sul l'essere, nè sul divenire delle cose sensibili, nė spiegare il formarsi delle cose medesime. Anche la relazione delle idee col divino, osserva Fiorentino, rimane indefinita. Le idee non hanno causalità, perciò la causa efficiente deve trovarsi accanto a loro, o concorrere con loro alla formazione dei mondo. L’ACCADEMIA non tenta neppure di conciliare il divino con le idee; perciò accanto alla speculazione tu trovi ancora il mito, non come semplice ornamento, ma come elemento integrale del sistema. Solo è certo che l'altissima idea è per Platone quella del bene; la quale ora s'immedesima con la ragione divina, ora è quella, a cui guardando il demiurgo dà forma al mondo; se non che non si può risolutamente affermare che il bene s’immedesimi col divino, ch'è un dato della tradizione piuttosto che della filosofia, ed in Piatone non essendo chiara quella immedesimazione, non riesce perfetto il collegamento tra le idee e la mente divina, ed il sistema delle idee riesce poco coerente, e sempre ondeggiante ed incerto. Fiorentino nel Saggio storico rigetta la interpetrazione delle idee dell’ACCADEMIA come riminiscenze di una vita anteriore, come modelli e paradimmi del mondo, come pensieri divini; e ritenne che Platone non è sempre lo stesso ne'suoi dialoghi; filosofo da poeta, senti bisogno di spiegare la scienza, e ricorre alle idee; negli ultimi anni adotta il linguaggio pitagorico a proposito delle idee, e le considera come numeri. La dottrina delle idee platoniche, trattata davvero scientificamente, consiste per Fiorentino nei Dialoghi il Teeteto, il Sofista, ed il Parmenide. Il Sofista prepara il Parmenide, a cui dà il fondamento ed il principio; ed il Parmenide sostituisce alla me- [Manuale di Storia della Filosofia, Napoli] tessi ed ai simulacri la relazione, ch'è la vera natura e la vera condizione di tutte le idee; è la loro vita e fecondità. Fiorentino, austero intelletto e libero pensatore, prefere alla lirica del Fedro e del SIMPOSIO, alla epica narrazione del Timeo ildramma ideale del Parmenide. Fiorentino scruta profondamente i tre dialoghi platonici, o ne rileva il vero significato. La scienza, egli dice, non è sola sensazione e sola opinione, come vogliono i Jonici, ed ecco il significato del Teeteto; la scienza non è la sola cognizione dell'uno, come pretende Parmenide di VELIA, e ne anco dell'essenze immobili ed irrelative dei megarici; ed ecco il significato del Sofista. La scienza è l'una e l'altra opinione e cognizione, relazione di entrambe; ed ecco il risultato ultimo del Parmenide  da VELIA; tanto vero che, senza la relatività delle idee, il Parmenide da VELIA rimarra sempre un enimma, il sistema di Platone un leggiadro tessuto di favole, di reminiscenze oltre-mondane ed assurde, e di sperticate idealità. Scrutando meglio il Sofista ed il Parmenide di VELIA, Fiorentino asserisce che il principio da cni muove Platone nel Sofista, ossia l'ente, e quello da cui muove nel Parmenide, ossia l'uno, sonolostesso principio; se non che l'ento è rigido, immobile, indeterminato, e l'Uno è determinato, e produce i molti. L'uno è il medesimo e dil diverso del Molti; come viceversa il molti si può dire medesimo ed altro dell'uno; tanto che, a parere del Fiorentino, abbiamo nel Parmenide esplicito il diverso e l'altro; sebbene rimanga in Platone nell'ombra la causa della estrinsecazione della idea, e l'apparire della materia. Platone non colse la vera natura dell'altro, che non può essere nè un'essenza, nė un'idea; sì bene una relazione; egli perciò oscilla dall'uno all'altro di questi due termini, per trovarvi la materia, ed, irresoluto, la fè credere una volta essenza, ed un'altra idea. Pare che in tutte queste sottili ed ingegnose interpetrazioni di Fiorentino entrasse un po il sistema e la critica moderna dell’Hegel, sempre caro al nostro, come quegli che è la sintesi più stupenda del pensiero laicale tedesco, da Lutero a Kant. TOCCO (si veda), di cui tanto si onorano le Calabrie, nelle sue dotte Ricerche Platoniche, esplicitamente osserva che Fiorentino interpetra il Parmenide di Platone alla maniera di Hegel, e che, ad onta delle argute considerazioni sulle stonature della Dialettica platonica, non tenne in conto il fare negativo di tutto il dialogo. Il trapasso, dalla teorica della metessi e degl’influssi a quello della dialettica assoluta, è un salto così smisurato, che difficilmente puo farsi da un uomo, per vastissimo ingegno ch'egli ha, sopra tutto nel tempo, in cui la speculazione è ancora sul nascere, ed i sistemi filosofici sono appena abbozzati. E ingiusto per ciò, conchiude Tocco, il raccostamento della dialettica platonica all’egheliana, e non bisogna interpetrare con Hegel Platone, e trasportare il mondo antico nel mondo moderno! Alla origine e natura delle idee è intimamente legata la DIALETTICA dell’accademia. Essa non è altro, se non che la legge dell'intreccio ideale, il modo come si forma il Logo, o la Ragione universale ed assoluta. Il ritmo della dialettica vera dell’ACCADEMIA, secondo la interpetrazione di Fiorentino, è nel Parmenide; il contenuto del quale si risolve in una trilogia, di cui la prima parte presenta la idea solitaria dell'uno, e l'annulla. La medesima idea appaiata con quella del l'essere, e con essa in contraddizione; la risolve la con traddizione nel momento, ch'è il diventare; momento e divenire, che sono mutuati dalla dialettica hegeliana, e rendono infide e soverchiamente moderne le interpetrazioni di Fiorentino. Egli è convinto, quando scrive il saggio storico, che la dialettica hegeliana è modellata sulla platonica, e che le prime tre categorie del filosofo alemanno, l'essere, il non essere, ed il divenire ricordano l'uno, l'ente, ed il momento del Parmenide da VELIA. La Dialettica platonica, monumento grandioso dell'umano pensiero, ispira in ogni tempo gl’Artisti ed i Filosofi; e Fiorentino conchiude che Goethe v'im  [Catanzaro. Lo studio della filosofia greca fa rientrare Fiorentino nel mondo moderno, ch'egli avea sfiorato col lavoro di Bruno; il greco pensiero, che più degli altri è pensiero umano ed universale, ricondusse il nostro alla Rinascenza, la quale, se inizia l'epoca moderna con le ribellioni speculative di Bruno, di Telesio e di Pomponazzi, usufrutta con TELESIO e con BRUNO la parte viva ed immortale della greca filosofia, il concetto della natura, autonoma od assoluta, e l'idea dell'infinito generante. FIORENTINO, ingegno fecondo e progressivo, accetta i pronunziati, gl’ardimenti, o, le ribellioni della rinascenza. Nelle fresche correnti della natura ei sente ringiovanirsi, ed il suo pensiero divenne più ampio ed umano. L'epoca della rinascenza è, o Signori, un'epoca gloriosa, battagliera, o titanica. La scolastica è assottigliata. La cavalleria ed il feudalismo se ne vanno. La teocrazia perde il suo prestigio, e la sua universalità. La poesia si emancipa dai terrori mistici. Alle fosche pitture succedono i freschi colori del Tiziano e del Correggio. Nasce lo stato laicale, e Machiavelli crea la storia moderna. I filosofi rappresentarono in questo gran dramma una parte gloriosa, e specialmente il mantovano POMPONAZZI, che per audacia speculativa, per energia di carattere è uno degli eroi più spiccati del rinascimento italiano. FIORENTINO, che come fiero calabrese e libero pensatore, è naturalmente attratto verso i grandi precursori ed apostoli, si mette a studiarlo con coscienza di filosofo e pazienza di critico; sgobba sui polverosi volumi in folio, si chiuse come un anacoreta nella sua cella di BOLOGNA; ed affronta con leonino coraggio l'intolleranza e lo scherno degl'insipienti, le beffe dei gaudenti, che senza forti stupara la movenza del Dialogo; Hegel il severo ragionamento; VICO vi attinse lo schema della Scienza Nuova; SERBATI il principio del nuovo saggio; ed a quell'opera immortale bisogna ricorrere ogni volta, che si vorranno scandagliare davvero le origini dell'umano pensiero senza accurato lavoro vogliono, con la veduta corta di una spanna, giudicare gl’uomini serî ed austeri, gl’uomini che sacrificano tutto sull'ara del pensiero e della scienza ; indomiti o tetragoni nei loro propositi ; Capanei, che muoiono e non si arrendono. POMPONAZZI insorse fieramente contro la scolastica, e contro la greca filosofia; e nello spiegare la natura dell'anima, ed il processo del conoscere non ha esitato punto, nè riprodotte, come altri fecero, le incertezze del LIZIO. Sgombrate tali perplessità, il filosofo mantovano si libera dall'intelletto separato di Averroè, dell'intelletto agente dello Afrodisio, senza però emanciparsi del tutto dagl’influssi e dalle intelligenze superiori; ondeggiante ancora, come tutti gl’uomini della rinascenza, tra la scolastica ed il mondo moderno; tra AQUINO (si veda) e BRUNO (si veda). Strema, è vero, POMPONAZZI (si veda) la trascendenza in filosofia; considera l'intelletto umano come sviluppato dalla potenza della materia. Ma non volle attribuire all'intelletto dell'uomo la concezione dell'universale; e disconobbe la vera mediazione, che l'uomo fa tra le cose eterne e caduche. Egli scruta insistente i più ardui problemi metafisici, religiosi e morali, la provvidenza, il fato, la libertà, la predestinazione e la grazia; e porta in tutte queste discussioni la novità e l'audacia, proprie dei filosofi del rinascimento; piega più dalla parte della determinazione fatale del PORTICO ROMANO che da quella della vuota determinabilità dell’Afrodisio; che l'arbitrio non può essere primo movente; e l'aver compreso il difetto della dottrina della libertà, come è in Alessandro ed in LIZIO; l'aver intravveduto nel fato del PORTICO ROMANO maggior ragione volezza costituisce uno dei massimi pregi della critica di POMPONAZZI (si veda) Disconosce inoltre il valore assoluto delle Religioni; ne spiega con ragioni naturali l'origine, il fiorire, la decadenza; le riconosce portato dello spirito, eterno ed irrequieto viaggiatore, che tutto rinnova e distrugge. Con questa divinazione Pomponazzi è anche precursore dei nuovi tempi, e della scuola moderna; se non che mancogli la perfetta coerenza nelle dottrine, e non si solleva al concetto profondo dello spirito, come lo intendono i moderni. L'ingegno di POMPONAZZI (si veda), benchè novatore e ribelle, non si era completamente spastoiato dal vecchio mondo scolastico ed del LIZIO aristotelico; ei non puo ai suoi tempi cancellare del tutto il divino di Agostino e d’AOSTA (si veda); non puo scartare intieramente la provvidenza oltre-mondana, non puo combattere a viso aperto le tradizioni della fede ortodossa. Ei però intravvede che al divino estra-mondano, collocato fuori la coscienza, dovea fra poco succedere il divino intimo e vivente; che la vecchia forma religiosa dovea ringiovanirsi e al motore immobile di LIZIO dovea succedere l'infinito di BRUNO (si veda). È questo il merito precipuo di POMPONAZZI (si veda), che a buon dritto deve chiamarsi il precursore della riforma e del mondo laicale moderno; e l'averlo saputo rilevare con sagacia di critico coscienza di storico è gloria di FIORENTINO (si veda). Ciò segna un altro momento importante nella evoluzione critica e speculativa del nostro; la quale ha il suo compimento ed il suo massimo splendore in Telesio, e negli studii sulla idea della natura nel risorgimento italiano. TELESIO (si veda) infatti costituisce l'ultimo e più splendido momento speculativo e storico di FIORENTINO (si veda), il quale rappresenta perciò in Calabria il più alto grado, la più alta manifestazione della critica storica, ed il completo svegliarsi presso di noi della coscienza laicale ed umana; rappresenta la continuazione della rinascenza, ingrandita, però, trasformata e divenuta pensiero europeo ed universale coi Saggi critici di SPAVENTA (si veda). È primo SPAVENTA (si veda) in Italia a dare la debita importanza a BRUNO (si veda) ed a CAMPANELLA (si veda), ed a tutta la filosofia del rinascimento, rivendicando gl’eroi della nostra filosofia, ed i martiri obbliati della ragione. L’Italia, dice Spaventa, apre le porte della civiltà moderna con una falange d’eroi della filosofia. Pomponazzi, Telesio, Bruno, VANINI, Campanella, CESALPINO (si veda) paiono figli di più nazioni. Essi preludiano più o meno a tutti gl'indirizzi posteriori, che costituiscono il periodo della filosofia da Cartesio a Kant. VICO (si veda) è il vero precursore di tutta l'Alemagna -- Prolusione alle Lez.di fil. nap. Le austere parole e i forti ragionamenti del filosofo abruzzese eccitarono il potente ingegno di FIORENTINO, e come il nostro schiettamente confessa, lo fa orientare in quell' arruffio, ch'è la speculazione della rinascenza, e lo innamorarono di quel periodo filosofico, che prima si contenta di ammirare, senza averne perfetta e matura cono scenza, piuttosto, perseguire i facili lodatori che per vederne realmente l'importanza coi proprii occhi. Educato dalla critica nuova e poderosa di Spaventa, Fiorentino percorso da padrone e da maestro il campo glorioso della rinascenza italiana, e v'impresse orme da gigante. Gli uomini nuovi od audaci; i martiri dell'idea piacquero tanto a Fiorentino, ed ei s'immedesimò loro, aspirandone l'immortale profumo, ed il soffio. La Calabria, che, senza conoscersi, spesso si vilipende e si schernisce, non è per lui barbara c selvaggia, covo di briganti, e nido di cannibali; è invece terra di filosofi, di critici, di poeti; culla di martiri e di eroi, terra artistica ed originale, a cui, ultimo tra gl’ingegni calabresi, consacrai tutto me stesso, e per la quale non cessa di combattere, finché avrò forze, finchè in Italia vi saranno uomini senza coscienza storica e senza carità di patria. La Calabria (e perdonate questo amore indomabile alla mia patria nativa, alle mie care montagne) sa anch'essa indovinare e comprendere i tempi nuovi, uscire dal fondo de'suoi burroni, e mettersi a paro coi più grandi eroi della Rinascenza italiana. La Calabria sa anch'essa combattere con la sua selvaggia vigoria lo impero, la scuola, ed il potere teocratico. Il calabro pensiero, che ancora si accusa di angustia e municipalità, è, com’io dimostrai, un pensie ro, non solo nuovo ed originale, ma eziandio italiano, europeo ed umano. Universale in filosofia, inizid con Telesio lo studio dellanatura, sconosciuta ai padri nostri, velata per tanto tempo dalle ombre del Medio-Evo; nel tetro carcere della Vicaria crea col SERRA la scienza economica; con GALEAZZO usci dal cerchio della poesia provinciale, e fuse nel calabro Sonetto la vigoria d’ALIGHIERI e la musica di Petrarca; pre corse con Campanella a Descartes; e con GRAVINA anticipa Vico e Montesquieu, o crea la nuova critica italiana. Fiorentino, che, com'egli stesso canto, avea Saldo il voler ne le virili imprese, E indomita la tempra calabrese, innamorato della vecchia Calabria, fa rivivere con magiche tinte le belle ed eroiche figure dei padri nostri, PARRASIO, Telesio, il Martirano, il Quattromani, il Tarsia, Cornelio, Severino, Schettini ecc.; filologi, poeti e critici precursori, che usciti dal fondo dei nostri boschi illustrarono le prime università, e danno un potente i m pulso al rinascimento italiano, col fondare e promuovere quella stupenda accademia dei cosentini, segno in tutti i tempi di odio inestinguibile e di amore indomato, la quale è tanta parte del dramma grandioso della rinascenza; da all'Italia grandi latinisti da emulare Poliziano, Sannazaro, Fracastoro, e sorpassarne altri con Coriolano Martirano; porta scolpito il fatidico motto: Donec totum impleat orbem; decrescit numquam, nec fulmine læditur; e servi di modello a tutta Europa con Telesio per la scoverta del vero metodo naturale. Sotto questo doppio aspetto la vide l'occhio sagace di Fiorentino, e stupendamente la illustra, sollevandola a quel posto, che merita, e meriterà sempre, finchè le tradizioni del pensiero laicale ed umano rimarranno vive in Calabria, e ne trasformeranno la vita, l'arte, e la speculazione; finchè vi saranno uomini insigni come il Presidente Scaglione,ed il Segretario Greco, che ne accresceranno le glorie e l'importanza, continuando l'esempio dei loro illustri a n tenati, che noi, gaudenti e borghesi, abbiamo dimenticati, sconosciuti, e fino scherniti. Fiorentino, che il dotto canonico Scaglione avea precorso con lo studio su Telesio, pubblicato negli atti dell'Accademia, studiando a fondo, al lume della nuova critica, le opere del filosofo cosentino, proclama che Telesio inaugura i tempi moderni, ritiene la natura, come il principio universale delle cose, il ricettacolo di tutte le forme, e, come schietto naturalista, rigetta il LIZIO d’Aristotile e la Scolastica, la Teosofia, e la Magia. Telesio, evitando la contraddizione del Lizio aristotelica, che rompe l'unità della natura, parte da una materia primitiva ed unica, e da una contrarietà universalissima, il caldo ed il freddo, nature agenti, dalla cui azione sulla materia nasce la generazione e la corruzione. Telesio, pur ritenendo la necessità di un'opposizione universale e di un'unica materia, il che è anche ammesso dal LIZIO d’Aristotile, ne ha profondamente modificato il valore. La forma del LIZIO aristotelica, ch'èsempre assoluta ed estra-naturale, non gli parve principio naturale, e la sbandì, e la rigetta dalla sua filosofia, con la rude franchezza del calabrese. In una parola, la natura non ha mestieri per essere spiegata di principi, che non siano naturali. E così è vinto e sor passato il medio-evo, e la filosofia delle scuole. Il soffio fresco delle nostre montagne spazza lo nebbie scolastiche, e Telesio, meditando gl’arcani della natura nel suo ameno podere, sito sulle rive pittoresche del fiume Coraci, è veramente il precursore di Bruno e di Galilei, l'uomo nuovo ed audace, che scrolla il vecchio mondo medievale, ed inaugura l'epoca moderna. Telesio, rigettando l'entelechia del LIZIO aristotelica, vi sostitui una sostanza sottile, mobile, lucida, che per lui costituisce il principio della vita; semplifica inoltre il sistema del naturalismo, tolge il dissidio immenso, che è nel medio-evo tra la natura esterna e l'organismo vitale, e fuse insieme nel suo novello sistema la fisica e la biologia. Fiero ed inesorabilo calabrsse, rovescio tutto, non diè quartiere al LIZIO d’Aristotile ed alla scolastica, o combattė senza ipocrisia, ed a fronte scoverta; da una nuova teorica dell'anima, sorpassando il Fedone dell’Accademia, e l'intelletto universale del Lizio d’Aristotile; FONDA SUL SENSO LA CONOSCENZA, ed ammise il mondo etico come un effetto e risultato naturale. Nel vasto dramma telesiano, che Fiorentino stupendamente tratteggia, brilla di nuova luce il martire di Nola, il quale, ebbro del nuovo divino, dell'Infinito generante, e della Natura, allarga e feconda i concetti del filosofo cosentino, ed accetta pienamente il naturalismo. Il vero assoluto rimane però in lui un punto oscuro, dove i contrarii si affondano e spariscono; il nolano, più che cogliere con l'atto intellettivo l'assoluto, vuole trasformarsi in lui, e divenire il divino. E l’eroico furore, che lo trasporta in grembo dell'infinito, non il sillogismo speculativo, e la serena meditazione; l'ebbrezza dell'amante, che lo trasfigura in grembo alla divina Anfitrite. Bruno, uomo del Mezzogiorno, nato presso il Vesuvio, ha scosso in ogni tempo la mente dei pensatori, ed il cuore dei poeti. Eroe leggendario del pensiere, cavaliere errante della scienza, mistico o ribelle, inesorabile flagellatore dei cucullati pedanti, egli che veste la bianca tunica di Domenico, Bruno percorse, si può dire, da un capo all'altro l'Europa disputando, combattendo, affrontando il vecchio LIZIO d’Aristotile, la ciarlataneria delle scuole, e l'infallibilità dei dottori. Vilipeso e adorato, schernito glorificato, ora debole innanzi a'suoi carnefici, ed ora sublime; il tutore tradito a Venezia da Mocenigo, suo pupilo discepolo ed ospite, è consegnato al Sant'Uffizio, dissacrato e condannato a morte. Quando in Roma gli è letta la sentenza, Bruno, con calma eroica e tremenda ironia, ha il coraggio di profferire innanzi ai giudici queste memorande parole. Maggior timore provate voi nel pronunciar la sentenza contro di me, che non io nel riceverla. L’eroe della verità, e del pensiero laico è legato come un volgare malfattore ad un'antenna, e, bruciato vivo in Campo di Fiore, imperterrito Bruno non manda nè un sospiro,  nè un lamento. Le fiamme sono la sua apoteosi; e benchè le sue ceneri fossero state disperse al vento, correno l'Europa come polline fecondatore, e vi propagarono i semi del libero pensiero, e della filosofia moderna. Fiorentino, pensatore e poeta, che dopo più maturi studî avea accettata in tutta la sua pienezza la Rinascenza, ritorna su Bruno, e lo vede nel Telesio sotto un nuovo punto di vista; e se lo avea rigettato come pan-teista ed anti-mistico, ora lo guarda, e lo ammira come il vero eroe del pensiero, l'araldo e il martire della nuova e libera filosofia; degno, come dice Spaventa, di avere un posto accanto a Prometeo ed a Socrate. Quel che FIORENTINO scrive di SPAVENTA, permettete, o signori, che io lo riferisca al nostro fiero concittadino. Il grande ideale del filosofo per Fiorentino è Bruno; pari forse avrebbero avuto il fato, se fossero vissuti nella stessa età. FIORENTINO guarda il rogo con lo stesso coraggio; BRUNO avrebbe disprezzato con la stessa serenità, non il rogo, ma qualcosa di peggio, quella rete sottilissi. ma di cabale, onde la turba ignara circonda gli animi alteri; che tentano slacciarsi da maltesi agguati: non il rogo, ma la calunnia divota: dopo il Torquemada ilTartufo: siamo ben progrediti noi. Il vecchio divino della Scolastica si assottiglia in Bruno. In lui si fondono il divino e l'Universo; la creazione è sviluppo del divino stesso, processo necessario, che rende cono scibile e reale l'attività del divino. In una parola, il divino del Nolano non vive se non per la natura, e nella natura. Fuori e senza di lei sarebbe un'astrazione ed un fossile. La necessità della creazione, che BRUNO insegna a viso aperto, lo mette di accordo col futuro naturalismo spinoziano, e lo fa precursore della moderna filosofia alemanna. La filosofia del rinascimento, incarnata in TELESIO ed in Bruno, per avere considerato l'assoluto, come natura, ha preparato il grande avvenimento dello spirito, la cui speculaziane incomincia con la coscienza cartesiana. L'infinita natura, iniziata da un sofo di Calabria, è la gran parola della rinascenza e dei tempi moderni! Telesio e Bruno preparano inoltre la vasta speculazione di Campanella, indomito frate, che sopporta, con la fiera costanza del calabrese anni di carcere, ed un giorno intero di torture. Permettete, o Signori, ch'io m’inchini al martirio di Campanella, ed al rogo di Bruno; martirio e rogo, che sono LA GLORIA DEL MEZZO GIORNO, e del libero pensiero; la condanna più eloquente dei feroci persecutori dell'umana ragione. CAMPANELLA, che sublima alla dignità di principio speculativo la divinità latente di Bruno, è il vero tipo dell'uomo calabro, ricco d'ingegno e di cuore, intemperante, battagliero, audace, iniziatore. È uomo originale e contraddittorio; fa l'apoteosi della teocrazia e della Spagna, della scolastica, del Medio-Evo, e poi scrive la Città del Sole, e vagheggia la democrazia ed il socialismo, la sovranità del libero pensiero, e lo stato laico moderno. Ei fonde in sè due età di verso, la età della fede, e l'età della ragione; Platone ed Aristotile, Telesio ed il Cusano; l'austero sillogismo del pensatore, e le vaporosità dell’astrologo; le apocalittiche visioni dell’abate Gioacchino FIORE (si veda), o la fredda sottigliezza di Machiavelli; l'ossequio alle somme chiavi, e l'audace ribellione di Lutero. Campanella, stupendamente tratteggiato da FIORENTINO, ritorna, come metafisico, a Platone, ed al Medio-Evo. Come sensista e psicologo, anticipa, nella teorica del senso e della cognizione, Cartesio, ed il mondo moderno. Ei proclama la identità del pensiero e dell'essere. Se non che sì fatta unità non acquista la forza di vero principio, e Campanella, ad onta delle sue stupende divinazioni, ondeggia ancora tra lo schietto naturalismo ed il sistema delle cause finali. Alla filosofia naturale, che tolse in prestito ed usufruttua dal nostro Telesio, CAMPANELLA aggiunge una metafisica, che ne rimane staccata; mettendo ogni sforzo per levarsi alle categorie supreme della natura e dell'essere, non seppe applicarle alla natura, e con tutta l'energia poderosa d’assurgere all'unità, resta nella opposizione, ch'è il carattere principale del naturalismo. Il solo naturalismo, chiarendosi con Campanella impotente a spiegare la genesi della natura, non potė, esso solo, sciogliere il gran problema del mondo moderno, e conciliare l'universale col particolar; ricomprendere il senso in una forma di pensiero più larga, dove l'opposizione riapparisse trasformata ed unificata in una sintesi suprema e dialettica. Tale è il progresso apportato nel naturalismo, o nella filosofia moderna da GALILEI (si veda) e Descartes. Tali sono le glorie del nuovo pensiero, anti-mistico e laicale, iniziato da due filosofi, nati tra i selvaggi burroni delle nostre Calabrie. Fiorentino, dopo aver richiamato alla memoria degl’taliani. Cornelio, e Severino, glorie dell'università napoletana, e filosofi telesiani. Dopo aver valutato la importanza di Galilei e di Bacone, si arresta con Descartes alla soglia della filosofia moderna, lieto che la speculazione filosofica si stacchi dalle scienze naturali, preliminare, per altro, necessario nella evoluzione del pensiero moderno, e si posi nel cogito cartesiano. La natura si emancipa, il pensiero si scioglie, e diviene più libero e più snello; lo spirito, che tutto ringiovanisce e trasforma, fondo ed armonizza Telesio e Bruno, Campanella e Galilei, Bacone e Descartes, e la silvosa Calabria entra co'suoi filosofi, e coi suoi profeti, co’suoi martiri, e co'suoi precursori nel dramma glorioso del mondo moderno. Vi rientra sotto l'impulso di Fiorentino, che, nato presso Stilo, tocca di nuovo la squilla dimenticata di Campanella, annunzia ai calabresi l'aurora di nuovi giorni, la completa emancipazione dalla scolastica e dal medio-evo; la risurrezione del pensiero della magna Grecia, fuso, ingrandito, trasformato nel pensiero moderno. La Calabria e l'Accademia Cosentina non potranno dimenticarlo. Non potranno disconoscere l'austero filosofo, che ne illustra stupendamente le glorie, e con magico pennello ne ritrasse gl’apostoli, e gl’eroi, rivendicando i padri nostri al cospetto di un secolo banchiere e borghese. La morte lo colge sulla soglia del tempio del Rinascimento; gloria al virile sacerdote della scienza, che muore, adempiendo il suo dovere, mentre si folleggia, deridendo gl’eroi del pensiero, i modesti operai del mondo moderno, e sigitta lo scherno sulle ossa dei grandi precursori della nuova filosofia e della nuova critica. Io ho fede che i calabresi, così ricci d'ingegno e di cuore, cosi amanti delle patrie glorie, hanno un culto per gl’uomini, che muoiono sulla breccia, martiri della scienza e della patria; per le anime generose, che non curano le amarezze della vita, l'esilio, la povertà, la carcere, ed accettano, fino le torture di Campanella, fino il rogo di Bruno. Ho fede che la Calabria si rinnovi nel lavacro della rinascenza e negli studii virili del passato, e la gentile e dotta Cosenza, riccaperme di care e dolorose memorie, prodiga di tanto sangue alla patria, di tanto contributo d'ingegno alla storia del pensiero italiano, s'ispiri nell'austera figura del più grande dei suoi figli, il cui busto parla tra il verde degli alberi la gran parola del risorgimento ai calabresi. Ho fede che l'austera parola del filosofo di Sambiase non suoni più nel deserto, e la sua tomba, su cui piansero amici e nemici, è un'ara dove le novelle generazioni attingano i forti propositi, e, quel che più ci preme, la serietà della vita, l'abnegazione, il sacrifizio, ed il libero pensiero. Così,o gio vani, non sarò costretto a ripetere gli amari versi dell’austero poeta di Recanati. Oggi è nefando stile Di schiatta ignava e finta Virtù viva sprezzar lodare estinta. Vincenzo Julia. Julia. Keywords: implicatura, filosofia calabrese, Campanella, Telesio, Sanctis, Leopardi, Mazzini, Garibaldi, Gioberti, Spaventa, Hegel, Aligheri, Serra, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giulia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giuliano: la ragione conversazionale e la filosofia di Giove -- Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “When I think Giuliano, I think Donizetti – and Poliuto’s lions!” -- Flavio Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli), filosofo. L’ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tenta, senza successo, di riformare e di restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo. Sometimes known as ‘the Apostate,’ Giuliano was a Roman emperor, who died in battle at the early age of 32 exclaiming the infamous “Galileans, ye won!” as the arrow penetrated in his breast. A naturally gifted scholar, Giuliano stuied philosophy under Massimo di Efeso and had many philosophical friends and acquaintances, including Saturnino Secondo Salutio, Prisco, and Imerio. Although his philosophical outlook was what he described as ‘generally eclectic,’ he had a special fondness for the Accademia, and a particular hostily to the Cinargo. Keen to eliminate the Galileans, as he called the sect originated after the death of Gesu di Nazareth, in fact he left them rather ‘to their own devices,’ although removing some of their privileges. His letters and speeches survive – many on deep philosophical issues (‘What is universal about worshipping a man born in Galilee who claimed to be the son of God – and born of a virgin?’). Grice: “There are various Griceian problems when approaching Giuliano from a Griceian perspective. It all reminds me of my father, a non-Conformist, in a household comprised of my High-Church mother and Catholic convert aunt! At Oxford, and in fact, before then, at Clifton, I learned that religion has nothing to do with i. Nobody believes that Giove raped Ganymede – it’s a tale! Giuliano has been unjustly treated counterfactually. Historians, seeing that Giuliano’s fight was useless, dismiss it. But this is a weak argument. I might just as well dismiss Mussolini’s plans because we English bombed Milano! Giuliano read too much of what the Hebrews call ‘the Holy Writ’ – but his propositions should be taken separately, one by one. In a way reminiscent of Arnold (in his Ebraism and Ellenismo), Giuliano proposes to us an examination of things like ‘Jesus was the son of God, therefore he was God.’ Aeneas was divinized by Virgil, so the Romans shouldn’t count as good critics here. A nice story involves Giuliano and Arete, a philosopher to whom Giamblico di Calcide dedicated one of his books. It seems likely that she was one of his pupils. Her neighbours (presumably Christians) tried to get her thrown out of her home, but the emperor Giuliano himself went to Phrygia to help her. Giuliano. Keywords: pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giuliano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giuliano:  la ragione conversazionale e la gnossi a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Eclano). Filosofo italiano. A follower of (of all people) Pelagio.  As a result he was prompty deposed from his position as ‘vescovo’ of Eclanum. He appears to have led an unsettled life thereafter. His works survive in the use made by them by Agostino in “Against Giuliano, the defender of the Pelgagian heresy, and the so-called ‘Incomplete work against Giuliano’ – left unfinished by Agostino. Giuliano strongly opposed Agostino’s convoluted doctrine of the original sins (he said there were many). By contrast, Giuliano entertained a totally positive conception of human nature. Giuliano.

 

Grice e Giulio: la ragione conversazionale e la filosofia sotto Giulio Cesare  – Roma – filosofia italiana – l’anima di Cesare – il discorso contro la penna di morte a Catilina -- Luigi Speranza. (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Si lo è voluto collocare G. Nel GIARDINO ROMANO perchè, nell’orazione che, secondo SALLUSTIO (si veda), tenne in senato per opporsi alla condanna a morte dei complici di Catilina, NEGA l'immortalità dell’anima -- e le pene dell’oltre-tomba. Però non sappiamo se e fino a qual punto rispecchi la sua filosofia quell’orazione, che, in ogni modo, mira a impedire l'uccisione dei catiliniani. La divinazzione di G. La stella raccontata di OVIDIO (si veda). OTTAVIANO (si veda) interpreta la stella di altro modo. Allorche nella congiura di CATILINA (si veda) il console pronunzia il primo contro i congiurati l’opinione sua per la pena di morte, G., il quale desidera ne’ suoi fini di salvare loro la vita, nell’orazione che recita in senato, riferita estesamente da SALLUSTIO (si veda), non tratta gia come ingiusta o crudele la pena di morte, ma disse anzi che per coloro, che condur devono una vita misera ed infelice, la morte NON È UNA PENA, MA UN BENEFIZIO, che li libera avventurosomente dai mali che sofirone. Ne CICERONE (si veda), ne CATONE (si veda), ne alcun altro de' senatori contraddissero punto in questa parte al sentimento di G.. Anzi, Cicerone ne parla come d'un sentimento vero e giusto. G., dic’egli, considera che la morte non e stata dagl’iddi immortali stabilita come una pena, ma come il fine de’ dolori e delle miserie. Le catene, massimamente le catene perpetue, sono, a parere di lui, la pena che merita l'orrendo attentato, di qui si tratta. Egli lascia a questi empil uomini la vita, la quale, se venisse loro tolta, liberati verrebbero ad un tratto da tutte le pene dell'animo e del corpo. Omnis homines, patres conscripti, qui de rebus dubiis consultant, ab odio,  amicitia, ira atque misericordia vacuos esse decet. Haud facile animus verum  providet, ubi illa officiunt, neque quisquam omnium lubidini simul et usui paruit. Ubi intenderis ingenium, valet. Si lubido possidet, ea dominatur, animus nihil  valet. Magna mihi copia est memorandi, patres conscripti, quæ reges atque populi ira aut misericordia inpulsi male consuluerint. Sed ea malo dicere, quæ maiores nostri contra lubidinem animi sui recte atque ordine fecere. Bello Macedonico, quod  cum rege Perse gessimus, Rhodiorum civitas magna atque magnifica, quæ POPVLI ROMANI opibus creverat, infida et advorsa nobis fuit. Sed postquam bello confecto de  Rhodiis consultum est, maiores nostri, ne quis divitiarum magis quam iniuriæ causa  bellum inceptum diceret, inpunitos eos dimisere. Item bellis Punicis omnibus,  quom saepe Carthaginienses et in pace et per indutias multa nefaria facinora  fecissent, numquam ipsi per occasionem talia fecere: magis quid se dignum foret,  quam quid in illos iure fieri posset, quærebant. Hoc item vobis providendum est,  patres conscripti, ne plus apud vos valeat P. Lentuli et ceterorum scelus quam vostra  dignitas, neu magis iræ vostræ quam famæ consulatis. Nam si digna poena pro  factis eorum reperitur, novom consilium adprobo. Sin magnitudo sceleris omnium  ingenia exsuperat, his utendum censeo, quæ legibus conparata sunt. Plerique eorum, qui ante me sententias dixerunt, conposite atque magnifice  casum rei publicæ miserati sunt. Quæ belli saevitia esset, quae victis adciderent,  enumeravere: rapi virgines, pueros; divelli liberos a parentum conplexu; matres  familiarum pati quæ victoribus conlubuissent. Fana atque domos spoliari. Cædem,  incendia fieri. Postremo armis, cadaveribus, cruore atque luctu omnia conpleri. Sed, per deos inmortalis, quo illa oratio pertinuit? An uti vos infestos coniurationi  faceret? Scilicet, quem res tanta et tam atrox non permovit, eum oratio adcendet. Non ita est, neque quoiquam mortalium iniuriæ suæ parvæ videntur, multi eas  gravius æquo habuere. Sed alia aliis licentia est, patres conscripti. Qui demissi  in obscuro vitam habent, si quid iracundia deliquere, pauci sciunt, fama atque fortuna eorum pares sunt. Qui magno imperio præditi in excelso aetatem agunt,  eorum facta cuncti mortales novere. Ita in maxuma fortuna minuma licentia est;  neque studere neque odisse, sed minume irasci decet; quæ apud alios iracundia  dicitur, ea in imperio superbia atque crudelitas appellatur. Equidem ego sic  existumo, patres conscripti, omnis cruciatus minores quam facinora illorum esse. Sed plerique mortales postrema meminere et in hominibus inpiis sceleris eorum  obliti de pœna disserunt, si ea paulo severior fuit. D. Silanum, virum fortem  atque strenuom, certo scio quæ dixerit studio rei publicæ dixisse, neque illum in  tanta re gratiam aut inimicitias exercere. Eos mores eamque modestiam viri cognovi. Verum sententia eius mihi non crudelis – quid enim in talis homines crudele  fieri potest? Sed aliena a re publica nostra videtur. Nam profecto aut metus  aut iniuria te subegit, Silane, consulem designatum genus pœnæ novom decernere. De timore supervacuaneum est disserere, quom præsertim diligentia clarissumi  viri consulis tanta præsidia sint in armis. De pœna possum equidem dicere, id  quod res habet, in luctu atque miseriis mortem ærumnarum requiem, non cruciatum  esse; eam cuncta mortalium mala dissolvere; ultra neque curæ neque gaudio locum  esse. Sed, per deos inmortalis, quam ob rem in sententiam non addidisti, uti  prius verberibus in eos animadvorteretur? An quia lex Porcia vetat? At aliæ leges item condemnatis civibus non animam eripi, sed exilium permitti iubent. An quia gravius est verberari quam necari? Quid autem acerbum aut nimis  grave est in homines tanti facinoris convictos? Sin quia levius est, qui convenit  in minore negotio legem timere, quom eam in maiore neglegeris? Maiores nostri, patres conscripti, neque consili neque audaciæ umquam eguere;  neque illis superbia obstabat quo minus aliena instituta, si modo proba erant, imitarentur. Arma atque tela militaria ab Samnitibus, insignia magistratuum  ab Tuscis pleraque sumpserunt. Postremo, quod ubique apud socios aut hostis  idoneum videbatur, cum summo studio domi exsequebantur: imitari quam invidere  bonis malebant. Sed eodem illo tempore Græciæ morem imitati verberibus  animadvortebant in civis, de condemnatis summum supplicium sumebant. Postquam res publica adolevit et multitudine civium factiones valuere,  circumveniri innocentes, alia huiusce modi fieri cœpere, tum lex Porcia aliæque  leges paratæ sunt, quibus legibus exilium damnatis permissum est. Hanc ego  causam, patres conscripti, quo minus novom consilium capiamus, in primis magnam  puto. Profecto virtus atque sapientia maior illis fuit, qui ex parvis opibus tantum  imperium fecere, quam in nobis, qui ea bene parta vix retinemus. Placet igitur eos dimitti et augeri exercitum Catilinae? Minume. Sed ita censeo: publicandas eorum  pecunias, ipsos in vinculis habendos per municipia, quæ maxume opibus valent. Neu quis de iis postea ad senatum referat neve cum populo agat. Qui aliter fecerit,  senatum existumare eum contra rem publicam et salutem omnium facturum. Tutti gli uomini, o senatori, che deliberano intorno a fatti dubbi, debbono  essere liberi da odio e da amicizia, da ira e da misericordia. L’intelletto non può  discernere facilmente il vero, se quei sentimenti 1’offuscano, e nessuno mai può  obbedire contemporaneamente alla passione e al proprio interesse. Se tendi  l’arco dell’intelletto, questo ha forza; se sei preda della passione1, questa domina e  la mente non ha più vigore. Potrei, o senatori, ricordare molti e molti esempi di  re e di popoli che spinti dall’ira o dalla pietà presero funeste deliberazioni; ma io  preferisco dire ciò che i nostri antenati, trattenendo l’impeto delle loro passioni,  fecero con senso di rettitudine e di giustizia. Nella guerra Macedonica, che noi  combattemmo contro il re Perseo, la città di Rodi, grande e magnifi ca, che aveva  accresciuto la sua potenza con l’aiuto del popolo romano, ci fu infedele e nemica;  ma quando, terminata la guerra, si dovette deliberare intrno alla sorte dei Rodiesi,  i nostri antenati li lasciarono impuniti3, affi nché non si dicessse che si era intrapresa la guerra per impadronirsi delle loro ricchezze piuttosto che per l’offesa ricevuta. Allo stesso modo in tutte le guerre puniche, benché i Cartaginesi, durante gli  intervalli di pace e le tregue, avessero commesso molte azioni crudeli, i nostri non  approfi ttarono mai dell’occasione per fare delle rappresaglie; cercavano di agire sempre secondo la loro dignità piuttosto che, infi erire contro di quelli, anche se a  buon diritto. Così pure voi, o senatori, dovete tener conto di voi stessi, affi nché  presso di voi non possa di più la scelleratezza di Publio Lentulo e degli altri che la  vostra dignità, e non pensiate maggiormente alla vostra ira che alla vostra buona  reputazione. 8. Infatti se si può trovare una pena adeguata al male da loro compiuto, io approvo anche un provvedimento eccezionale; ma se la grandezza del misfatto supera ogni umana credenza, io penso che si debbano applicare quelle pene che  siano stabilite dalle leggi. La maggior parte di coloro che hanno espresso il loro  parere prima di me, con un linguaggio forbito e brillante, hanno commiserato la  sventura dello Stato. Hanno enumerato le crudeltà della guerra e i mali che toccano ai vinti, vergini e fanciulli rapiti, fi gli strappati dalle braccia dei genitori,  madri di famiglia costrette a subire le voglie dei vincitori, case e templi spogliati,  stragi, incendi, infi ne in ogni luogo armi, cadaveri sangue e lutto Della pena posso dir questo, che è pura verità: nel lutto e nelle miserie la  morte è il riposo dagli affanni; non è un tormento, anzi dissolve tutti i mali umani  e non schiude né angosce né gioie. Ma, per gli dèi immortali, perché non hai  aggiunto alla tua proposta che i congiurati fossero sottoposti prima alla fustigazione? Forse perché lo vieta la legge Porcia? Ma ugualmente altre leggi dispongono che ai cittadini già condannati a morte non si tolga la vita, ma si conceda  l’esilio. O forse perché è più duro essere fustigato che ucciso? Quale pena è  grave o troppo aspra per chi risulta colpevole di un tanto delitto? Se poi è una  pena troppo leggera fustigarli, come può darsi che si tema la legge per fatti poco  importanti, quando è stata violata per più gravi? Ma invero, chi potrà criticare  una sentenza di morte contro traditori della patria? L’occasione, il tempo, la fortuna, che dominano a loro volontà tutte le genti. Qualunque cosa accada, essi  l’avranno ben meritata; però, voi, o senatori, rifl ettete bene6  che ciò che deliberate  non ricada su altri. Tutti gli esempi di illegalità nascono da casi in cui quell’illegalità fu giusta; ma quando il potere passa nelle mani di cittadini incapaci o meno onesti, quel nuovo esempio di illegalità, applicata contro chi l’aveva ben meritato, viene rivolto contro cittadini incolpevoli e innocenti. Quando la repubblica s’ingrandì e la moltitudine dei cittadini accrebbe la  forza dei partiti, si cominciarono a opprimere gli innocenti e a commettere arbìtri  di tal fatta; allora fu approvata la legge Porcia e con essa altre leggi con cui si concedeva l’esilio ai rei di pena capitale. Io, o senatori, ritengo che questo motivo  sia di grandissima importanza perché non si approvi l’innovazione che ora si propone. Certamente ebbero più virtù e saggezza coloro che costruirono con  forze modeste un così vasto impero che non noi, che a malapena sappiamo mantenere ciò che così bene essi hanno creato. Allora si debbono mettere in libertà  costoro e mandarli ad accrescere l’esercito di Catilina? Niente affatto. Ma ecco il  mio parere: si confi schino i loro beni, si tengano i rei in prigione affi dandoli ai municipi che posseggono i migliori presìdi; per l’avvenire intorno a costoro non si  facciano più proposte in Senato né discorsi al popolo; se qualcuno trasgredisse, il  Senato deve dichiararlo nemico dello Stato e della salvezza pubblica.Giulio Cesare. Tutti gli uomini, o senatori, che deliberano intorno a fatti dubbi, debbono  essere liberi da odio e da amicizia, da ira e da misericordia. 2. L’intelletto non può  discernere facilmente il vero, se quei sentimenti 1’offuscano, e nessuno mai può  obbedire contemporaneamente alla passione e al proprio interesse. 3. Se tendi  l’arco dell’intelletto, questo ha forza; se sei preda della passione1, questa domina e  la mente non ha più vigore. 4. Potrei, o senatori, ricordare molti e molti esempi di  re e di popoli che spinti dall’ira o dalla pietà presero funeste deliberazioni; ma io  preferisco dire ciò che i nostri antenati, trattenendo l’impeto delle loro passioni,  fecero con senso di rettitudine e di giustizia. Nella guerra Macedonica, che noi  combattemmo contro il re Perseo, la città di Rodi, grande e magnifi ca, che aveva  accresciuto la sua potenza con l’aiuto del popolo romano, ci fu infedele e nemica;  ma quando, terminata la guerra, si dovette deliberare intrno alla sorte dei Rodiesi,  i nostri antenati li lasciarono impuniti, affi nché non si dicessse che si era intrapresa la guerra per impadronirsi delle loro ricchezze piuttosto che per l’offesa ricevuta. Allo stesso modo in tutte le guerre puniche, benché i Cartaginesi, durante gli  intervalli di pace e le tregue, avessero commesso molte azioni crudeli, i nostri non  approfi ttarono mai dell’occasione per fare delle rappresaglie; cercavano di agire sempre secondo la loro dignità piuttosto che, infi erire contro di quelli, anche se a  buon diritto. Così pure voi, o senatori, dovete tener conto di voi stessi, affi nché  presso di voi non possa di più la scelleratezza di Publio Lentulo e degli altri che la  vostra dignità, e non pensiate maggiormente alla vostra ira che alla vostra buona  reputazione. 8. Infatti se si può trovare una pena adeguata al male da loro compiuto, io approvo anche un provvedimento eccezionale; ma se la grandezza del misfatto supera ogni umana credenza, io penso che si debbano applicare quelle pene che  siano stabilite dalle leggi. La maggior parte di coloro che hanno espresso il loro  parere prima di me, con un linguaggio forbito e brillante, hanno commiserato la  sventura dello Stato. Hanno enumerato le crudeltà della guerra e i mali che toccano ai vinti, vergini e fanciulli rapiti, fi gli strappati dalle braccia dei genitori,  madri di famiglia costrette a subire le voglie dei vincitori, case e templi spogliati,  stragi, incendi, infi ne in ogni luogo armi, cadaveri sangue e lutto. Della pena posso dir questo, che è pura verità: nel lutto e nelle miserie la  morte è il riposo dagli affanni; non è un tormento, anzi dissolve tutti i mali umani  e non schiude né angosce né gioie. Ma, per gli dèi immortali, perché non hai  aggiunto alla tua proposta che i congiurati fossero sottoposti prima alla fustigazione? Forse perché lo vieta la legge Porcia? Ma ugualmente altre leggi dispongono che ai cittadini già condannati a morte non si tolga la vita, ma si conceda  l’esilio. O forse perché è più duro essere fustigato che ucciso? Quale pena è  grave o troppo aspra per chi risulta colpevole di un tanto delitto? Se poi è una  pena troppo leggera fustigarli, come può darsi che si tema la legge per fatti poco  importanti, quando è stata violata per più gravi? Ma invero, chi potrà criticare  una sentenza di morte contro traditori della patria? L’occasione, il tempo, la fortuna, che dominano a loro volontà tutte le genti. Qualunque cosa accada, essi  l’avranno ben meritata; però, voi, o senatori, rifl ettete bene6  che ciò che deliberate  non ricada su altri. Tutti gli esempi di illegalità nascono da casi in cui quell’illegalità fu giusta; ma quando il potere passa nelle mani di cittadini incapaci o meno onesti, quel nuovo esempio di illegalità, applicata contro chi l’aveva ben meritato, viene rivolto contro cittadini incolpevoli e innocenti. Quando la repubblica s’ingrandì e la moltitudine dei cittadini accrebbe la  forza dei partiti, si cominciarono a opprimere gli innocenti e a commettere arbìtri  di tal fatta; allora fu approvata la legge Porcia e con essa altre leggi con cui si concedeva l’esilio ai rei di pena capitale. 41. Io, o senatori, ritengo che questo motivo  sia di grandissima importanza perché non si approvi l’innovazione che ora si propone. Certamente ebbero più virtù e saggezza coloro che costruirono con  forze modeste un così vasto impero che non noi, che a malapena sappiamo mantenere ciò che così bene essi hanno creato. Allora si debbono mettere in libertà  costoro e mandarli ad accrescere l’esercito di Catilina? Niente affatto. Ma ecco il  mio parere: si confi schino i loro beni, si tengano i rei in prigione affi dandoli ai municipi che posseggono i migliori presìdi; per l’avvenire intorno a costoro non si  facciano più proposte in Senato né discorsi al popolo; se qualcuno trasgredisse, il  Senato deve dichiararlo nemico dello Stato e della salvezza pubblica. Giulio Cesare.

 

Grice e Giulio: la ragione conversazionale e l’attaco a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. A philosopher who was killed during an attack on the city. Giulio Giuliano.

 

Grice e Giunco: la ragione conversazionale dell’andreia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The author of a philosophical dialogue about the three ages of man. The son-in-law of Tito Vario Ciliano. The models for the three ages of man are his father in law, himself, and his own son, as models. He argues that the middle age is the best. Grice: “But he was biased. In fact, in my lectures on reasoning, I give this as an example of biased reasoning!” – Giunco.

 

Grice e Giunio: la ragione conversazionale dell’accademia al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Appartene all'Accademia -- cioè effettivamente all’eclettismo con tendenze stoiche di Antioco d’Ascalona -- che, appunto, accetta dottrine derivate dal portico.  In Atene fa studi di filosofia, e in questa ha maestro Aristone.  Nella guerra civile parteggia per Pompeo e combatte a Farsaglia. Ottenne di riconciliarsi con GIULIO (si veda) Cesare. Forma stretti rapporti con CICERONE, che gli dedica varie opere: "Brutus", "Paradoxa", "Orator", "De finibus", "Tusculanae", "De natura Deorum." A CICERONE, dedica il "De virtute" (Andreia). Legato pro-pretore nelle Gallie, pretore urbano, partecipa alla congiura contro GIULIO (si veda) Cesare e e uno dei suoi uccisori. Sconfitto a Filippi d’OTTAVIANO, si uccide. Uno dei maggiori rappresentanti dell’atticismo è oratore insigne. Scrive lettere (VIII a Cicerone ci restano nella corrispondenza di questo), poesie e tre opere morali. Nel "De virtute” difende la teoria dell’auto-sufficienza della virtù. In "Sui doveri" da precetti al fratello sulla sua condotta. (Grice: “He never followed them!”). Nel "De patientia," tratta di questa. Marco Giunio Bruto il Minore. Giunio. The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giunio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Porch, and one of the senators who opposed NERONE. Giunio Maurizio

 

Grice e Giuniore: la ragione conversazionale e la geografia filosofica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher who wrote, or edited, a short work on geography, comprising the whole of Rome, and some of the shoreline outskirts, including Ostia. Giuniore.

 

Grice e Giussani: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’amicizia – il comune,  fraternità, liberazione – la scuola di Desio -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Desio). Filosofo lombardo.. Filosofo italiano. Desio, Monza, Lombardia. Grice: “I like Giussiani; of course at Oxford he would be a no-no, being a Catholic; but he understands the pragmatics of conversation!” Ricevette la prima introduzione dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile; il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista. Entra nel seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso dove frequenta i primi quattro anni di ginnasio. Si trasfere a Venegono Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequenta l'ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolge i successivi studi di filosofia.  Ha come docenti, fra gli altri, Colombo, Corti, Carlo, e Figini. In quella sede conosce i compagni di studio Manfredini e Biffi. Si interessa di Leopardi e delle chiese ortodosse.  Riceve l'ordinazione da Schuster.  Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale, specie sugli slavofili, della teologia protestante e della motivazione razionale dell'adesione alla Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario per quello nelle scuole superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle scuole a Milano dove e suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si tennero con il nome di Gioventù Studentesca, che fonda insieme a Ricci e che fa parte dell'Azione Cattolica.  Inizia anche un'attività pubblicistica volta a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la voce "Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica.  Sotto  Colombo continua gli studi di teologia protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano. Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. G. s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il consiglio generale.  Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la Fraternità di Comunione e Liberazione e G. ne guidò la Diaconia Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare. Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani, l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza religiosa.  Dopo la morte, sono stati dedicati a G.:  Desio: nel paese natale di G., la piazza retrostante il municipio e un monumento opera di Cristina Mariani a Milano: parco G., in predenza parco Solari Trivolzio: il piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla chiesa parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale Ligure: l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo di Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e Liberazione, che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un largo presso la rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno: la scuola primaria e dell'infanzia "G.". Portofino: la piazzetta del faro Kampala (Uganda): la scuola secondaria G. Pozzolengo: il parco comunale adiacente al castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera dell'artista riminese Ceccarellia, sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini: la rotonda davanti al Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera dove si sono svolte le prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari: un tratto del lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo Trento Cinisello Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il centro sportivo della frazione di Redecesio Strade comunali sono state intitolate a don G. a Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre, ecc. La maggior parte delle opere deriva dalla trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante raduni, convegni, esercizi spirituali. I suoi libri sono stati pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli ha iniziato a rieditare i testi di G. in nuove edizioni aggiornate dotate spesso di un nuovo apparato di note e di nuovi contenuti editoriali e a volte con titoli diversi. Rizzoli ha anche pubblicato le opere inedited e volumi antologici di conversazioni precedentemente disponibili sotto forma di fascicoli pro manuscripto o di redazionali per varie riviste. Volumi di inediti o di riedizioni di  testi sono poi usciti anche per altri editori, tra i quali Marietti, San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni di conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di Comunione e Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti ai Memores Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o allegate come fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come CL-Littere Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni nella Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato in volumi antologici.  -- è iniziata la catalogazione sistematica dei testi e degli scritti di Giussani. G. Scritti, curato dalla Fraternità di Comunione e Liberazione, inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei testi. Ha diretto la collana editoriale I libri dello spirito cristiano per la Biblioteca Universale Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di G. e di Comunione e Liberazione. Ha diretto la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di «introduzione alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota introduttiva di G., una scheda storica sui compositori o sui musicisti e una guida all'ascolto. Saggi: “Il senso religioso: all'origine della pretesa cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold Niebuhr, Jaca Teologia protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno del cristiano nel mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo cristiano, Jaca Dalla liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il rischio educativo, Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione per l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori, BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano, Jaca  Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca,  Il senso religioso, Per Corso, Jaca Rizzoli, All'origine della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano, BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?, BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca, Il tempo e il tempio, BUR Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino, Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?, San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità, Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil, BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana Quasi Tischreden "Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella carne, BUR Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo, BUR Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia alla presenza  BUR Rizzoli, Certi di alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli,  Interviste Comunione e Liberazione. Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino, colloqui con Farina, Milano, Rizzoli. Il fondatore: Comunione e Liberazione. CamisascaC’altro Sessantotto", da "L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia S.p.A.Area Internet, Il mistero di don G.. Rivelato dai suoi scritti, su chiesa. espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in Archivio Il Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce, Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica » politica » Milano, i funerali di G., su repubblica Milano, profanata la tomba di don G., Corriere della Sera su corriere. Chiesta l'apertura della causa di beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Passo avanti verso la beatificazione di don Giussani, in Tempi, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi G., fondatore di CL, nominato monsignore, in Avvenire, Don G.: vince il premio della cultura cattolica, in Adnkronos, Mia giovinezza, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, Premio Isimbardi Città metropolitana di Milano.Tettamanzi, La famiglia a scuola, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello StatutoEdizione Sigilli longobardi, su Consiglio Regionale della Lombardia. Desio, rinasce il monumento per don Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il Cottadino,  Il parco Solari sarà dedicato a G., in Il Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri, in La Provincia Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona  News, Castronno, intitolata a Don G. la nuova rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano intitolata una scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, G. faro di Portofino, Il Giornale, Uganda. La G. High School inaugurata a Kampala tra i canti delle donne del Meeting Point, su AVSI, Pozzolengo, raid vandalici nei parchi, in qui Brescia, Un bassorilievo per  G. a San Leo, in Rimini Today, Rotatoria del Palacongressi dedicata a G., in Altarimini, Chiavari, lungoporto G. per il fondatore di Cl, in Il Secolo XIX, In Borgo Trento giardini intitolati al fondatore di CL, in Verona Notte, Melati, Jaca Santa editrice della rivoluzione, in Il Venerdì di Repubblica, L'Espresso SpA, Le opere  di Comunione e Liberazione. Chi siamo, su G. Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione.  Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco, G., Torino, Elledici, Bedouelle; Graziano Borgonovo; Clément; Olinto; Ries, Gli uomini vivi si incontrano: scritti per G., Milanok, Camisasca, Comunione e Liberazione: Le origini Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo Camisasca, Comunione e Liberazione: La ripresa, Cinisello Balsamo, San Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero sorgivo, Marietti D Perillo, Caro G.. Dieci anni di lettere a un padre, Piemme, Camisasca, Comunione e Liberazione: Il riconoscimento, Appendice, Cinisello Balsamo, San Paolo, Farina, G.. Vita di un amico, Piemme,  Farina, Maestri. Incontri e dialoghi sul senso della vita, Piemme, Ceglie, G.. Una religione per l'uomo, 1ª ed., Cantagalli, Gamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Camisasca, G.. La sua esperienza dell'uomo e di Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, Savorana, Vita di G., Milano, Rizzoli Editore, Savorana, Un'attrattiva che muove, 1ª ed., Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, G. e Guardini. Una lettura originale, Milano, Jaca, Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Studium, Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù Studentesca, fotografie di Elio Ciol, Milano, Mondadori Electa, G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e Tombolini, Giussani. Il percorso teologico e l'apertura ecumenica, Siena, Cantagalli Eupress FTL. Scritti di  G., su G. Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Giussani su Comunione e Liberazione, Fraternità di Comunione e Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani. Keywords: dell’amicizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giusso: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’eroi – filosofia fascista --  il mistico dell’azione – filosofia campanese – filosfia napoletana – la scuola di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Giusso: he has explored philosophers from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole ‘tradizione ermetica nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and especially “Dutch,” i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio Giusso e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, G., uno dei fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia a Napoli sotto ALIOTTA (si veda). Segue con passione l'attualismo gentiliano e proprio il suo carattere passionale lo porta anche nel campo filosofico ad un tipo di critica scenografica, così come fu definita. Le sue frizioni con Croce, inizialmente orientate su temi politici, presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente orientata contro l'idealism. G. si richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a causa di quest'ultimo, oltre che per la sua interpretazione della Scienza nuova vichiana (che si attirò una severa recensione dello stesso Croce, G. è criticato dall'ambiente crociano. G, critico e storico delle idee s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui vicini per temperamento ed interessi come Bruno, Vico (dall'analisi degli scritti del quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo, Bacchelli, Barilli, Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto ispirò la sua composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a Montecavallo meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui molto presto si distaccò (come TILGHER (si veda), che egli difende e mostra di apprezzare) assumendo posizioni eretiche e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler e Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa ed altri ancora.  Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede cristiana. Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare la filosofia della Roma antica e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di BRUNO (si veda). Di ritorno da un viaggio nella sua adorata Spagna muore. A Napoli gli venne intitolata una strada.  Saggi: “Le dittature democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida); “Idealismo e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie” (Firenze, Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze di Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “VICO fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo” (Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue: saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano, Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca,  “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,. Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Croce, "Gerarchia",  "La Critica", rist. in Nuove pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in Bruno, Napoli Roma, Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di metafisica, F. Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero; Toffanin, Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico letterario, Diz. della letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiano.  L’Illuminismo oscuro  G., autore e studioso multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata produzione intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal mondo accademico contemporaneo.  Stefano Chemelli  10 articoli  G. è studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui invece parco multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Allievo d’Aliotta e BATTAGLIA (si veda) è critico letterario, si laurea, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica e morale ma insegna. “Tafferugli a Montecavallo” pubblicato da Cappelli uno studio sul barocco romano e Bernini, “La tradizione ermetica nella filosofia italiana”, le straordinarie conversazioni radiofoniche di “Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a una sterminata produzione redatta nel breve arco di cinquantasette anni.  Sodale di Unamuno e Ortega con i quali ha condiviso amabili conversari, G. si occupa a fondo di Goethe, LEOPARDI (si veda), Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij, Freud, Dilthey, Simmel, Bergson, GIOBERTI (si veda), VICO (si veda), BRUNO (si veda). Inoltre fu di Spengler uno dei primissimi esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava anche il grande Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si trasformava in spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per intuire la rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura che poteva reggere l’impulso filologico di un Croce. Dona un’analisi storica poderosa in “Le dittature democratiche dell’Italia”, all’ascesa del fascismo, seguito dalla prima raccolta di scritti letterari che ne connotano le capacità di “viandante” nei diversi giardini del sapere; “Il ritorno di Faust” è, “Figure di Capri”, a ruota seguono le pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e soprattutto lo studio su Leopardi.  Copia de "La tradizione ermetica nella filosofia italiana"Copia de “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” Stendhal e Nietzsche non escludono l’impegno anche poetico che troverà sfogo in tre raccolte che molto dicono del Giusso più segreto (“Musica in piazza”, “Cadenze di Sigismondo nella torre”, “Elegie del torso della saggezza mutilata”). “Spengler e la dottrina degli universali formali” restituisce in forma autonoma un approfondimento più volte ripreso da Giusso nel decennio dei trenta che costituisce la decade dell’approfondimento filosofico più intenso (Dilthey e Ortega tra gli altri) e preparatorio al grande volume “Filosofia e immagine cosmica” dedicato a GENTILE. Due traduzioni spagnole coinvolgeranno gli studi di G. rivolte a Vico ma sarebbe urgente dare attenzione alla tradizione ermetica, magari per scoprire che GARIN (si veda) l’ha sicuramente letta e ripresa molto più tardi. Kulturkritiker universale lo definì Buscaroli, allievo devoto a Bologna quando G. strabilia un manipolo di arditi fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai avrebbero rinunciato alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater bolognese, fugacemente ospitati.  Un grande romantico della ispecie dei Kleist, degli Hoederlin, dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che trova negli articoli, nelle corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite suggestioni, il tono di un G. confidenziale e descrittivo vicino al lettore non specialista ma disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce chiara e tersa di un respiro curioso sino al dettaglio minuto.  Filosofia ed imagine cosmica; Filosofia ed immagine cosmica; Pubblicati recentemente i quaderni spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite le pagine tedesche e austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei quali uomini e cose sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e la magnificenza della scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza né l’astrazione, G. è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo ignorato, noi italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre l’amatissima Spagna. Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese, spagnolo, tedesco…), in VICO e Spengler. Tilgher, Alvaro, Toffanin, furono amici veri, fidati, ammirati di un uomo al quale era sconosciuta l’invidia e al contrario era profferta a piene mani una generosa e prodiga liberalità in nome di una poetica propensione al dialogo di un sapere trasversale, comunicativo e incantato nella magia della parola libera, circostanziata, esatta.  Una studiosa di letteratura italiana ha affermato che il più bel libro di G. è il quaderno spagnolo, ed ha pure aggiunto che quaderno spagnolo e autoritratto spagnolo coincidono. Spaini, ma pure Buscaroli che con Rispoli di G. sono stati tra i conoscitori più profondi di G., difficilmente concorderebbero. Le pagine spagnole, tedesche, austriache servono a entrare nel mondo giussiano, consentono di accedere a una dimensione della cultura che non conosce omologazioni di sorta, schieramenti, posizionamenti di rendita. Permettono di sorridere a fronte di un esteta armato solo di una generosità speciale: cogliendo l’anima dell’umanità in una minuzia necessaria a ritrovare un sentiero precario, attraverso il quale condurre a una visione più ampia, senza dimenticare la poesia della vita. Gioberti come uomo del risorgimento – serie: Uomini del risorgimento. “U= IL FASCISMO di Croce” Gerarchia – “Croce contro Croce” – da CRITICA FASCISTA – “Gentile, mistico dell’azione, tratto da “Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La Nazione” .  Nacque a Napoli, in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, ne era stato sindaco).  Gli studi di G. a Napoli (dove è allievo, fra gli altri, di ALIOTTA (si veda)), coronati dalla laurea in lettere e filosofia, si svilupparono in molteplici direzioni. Pur destinato a diventare prevalentemente filosofo e storico della filosofia, i suoi non dilettanteschi interessi spaziarono dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla filosofia, secondo un percorso eclettico ed estroso, fondato sull'istinto piuttosto che sul metodo, che lo portò a una conoscenza approfondita ed estesissima nei settori più diversi.  Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui molto presto si distaccò (come TILGHER (si veda), che egli mostra di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare, in una fase iniziale, Spengler e Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario, che lo avrebbe allontanato da Napoli, G. avvia una copiosa pubblicazione di saggi, collaborando con numerosi quotidiani italiani come autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori. L'attività giornalistica si sviluppa particolarmente quando G. inizia a collaborare con L'Idea nazionale, Il Popolo d'Italia e Il Secolo, quindi con Il Mattino, come critico letterario; fu poi autore di articoli di viaggio, per il Corriere della sera, e tenne un diario critico per Il Resto del Carlino, pubblicando sulla terza pagina di molti quotidiani italiani (Il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa e altri ancora), anche se il lavoro propriamente giornalistico rallentò quando prevalse quello universitario. Ottenne la libera docenza in filosofia a Napoli, dove l'anno successivo insegnò filosofia morale; le principali tappe del suo percorso universitario - molteplice anche per le numerose discipline di cui si occupa - furono: Cagliari, dove insegna come professore incaricato, ricoprendo, secondo un percorso abbastanza inconsueto e irregolare, le cattedre di filosofia teoretica, letteratura italiana e francese, storia delle religioni; quindi, Bologna, dove, sempre come incaricato, insegnò lingua e letteratura spagnola, infine Pisa. La carriera universitaria del G. non si limitò, comunque, all'Italia: insegna letteratura italiana a Monaco, a Nizza, a Breslavia, a Debreczen in Ungheria, a Madrid, dove è accademico d'onore, e a Barcellona.  Proprio al ritorno da un viaggio in terra spagnola venne colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte.  G. muore a Roma.  Oltre all'attività come giornalista e saggista, G. pubblica anche alcune raccolte di poesie: Musica in piazza (Napoli) e Don Giovanni ammalato, una rifusione, accresciuta, del primo volume; Cadenze di Sigismondo nella torre, Modena; e, infine, Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano: d'intonazione prossima ai crepuscolari le prime, percorse dal senso di una discrepanza tra la piattezza della vita quale ci è data e il desiderio di viverla in modo più libero e pieno; maggiormente legate all'estetismo dannunziano, e insieme non dimentiche del clima d'avanguardia in cui era avvenuta la prima formazione di G., le ultime due.  Saggista acuto, ottimo conversatore, spirito brillante e fortemente antiaccademico, caratterizzato da un sapere enciclopedico, G. non si lega ad alcuna scelta politica, non appartenne a nessuna scuola di pensiero e non ebbe maestri diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo di interpretazione della cultura moderna non si può trarre una dottrina unitaria ma soltanto il profilo di un cammino variegato e intenso, che trae origine dalla ricerca di una visione totale dell'esistenza nel fondamentale intento di realizzare un ideale di vita, problema con cui G. non smise mai di misurarsi, secondo una prospettiva antirazionalista (e implicitamente antidealista).  Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal crocianesimo imperante nell'ambiente napoletano, il primo interesse di G. è per i protagonisti dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il pessimismo cosmico di Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli; Leopardi, Stendhal, Nietzsche; Tre profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y Gasset; Leopardi e le sue due ideologie, Firenze); in tempi diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei personaggi che più lo avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura contemporanea, Milano).  Nell'ambito di una ricerca più propriamente FILOSOFICA, i principali autori di riferimento di G. - che costituirono anche l'oggetto dei suoi studi – sono Dilthey (Dilthey e la filosofia come visione della vita, Napoli; Dilthey, Simmel, Spengler, Milano); i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli), Spengler (Spengler e la dottrina degli universali formali, Napoli), e Gasset.  Il rapporto tra razionalismo e irrazionalismo (e il superamento della loro opposizione) e quello tra scienza e filosofia e vita sono il tema di fondo di quella che probabilmente rimane una delle sue opere più significative, Filosofia ed imagine cosmica (Roma), in cui, in diretto riferimento a Vico (si veda anche: Vico tra umanesimo e occasionalismo, Roma; La filosofia di Vico e l'età barocca), egli delinea una genealogia della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire dalle istanze vitali e concrete dell'uomo. In VICO (si veda), secondo G., non c'è una filosofia intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale perché i sistemi filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale del mondo in rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze e le tecniche non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni dell'uomo sociale, rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo legame, non specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo.  Nel dopoguerra, approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua intenzione realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Bruno (Scienza e filosofia in Bruno, Napoli-Roma).  Tra le opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le dittature democratiche d'Italia, Milano; Idealismo e prospettivismo, Napoli; Lo storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma; Bergson, Milano; Gioberti; Spagna e antispagna: saggisti e moralisti spagnoli, Mazara del Vallo; La tradizione ermetica nella filosofia italiana, Trapani; Tafferugli a Montecavallo, Bologna; Origene e il Rinascimento, Roma: Autoritratto spagnolo, a cura di A. Spaini, Torino; Necr. in Corriere della sera, La Fiera letteraria; Giornale di metafisica, Bruno, L. G., in Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos; Falqui, Di noi contemporanei, Firenze, ad indicem; Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia; Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero; Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia; Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in L'Osservatore politico letterario; Diz. della letteratura mondiale del '900, sub voce.  Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il panteismo (πάν = tutto e θεός = Dio, vuol dire letteralmente "Dio è Tutto" e "Tutto è Dio") è una visione del reale per cui ogni cosa è permeata da un divino immanente o per cui l'Universo o la natura sono equivalenti a Dio (Deus sive Natura).  Definizioni più dettagliate tendono ad enfatizzare l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo (la somma di tutto ciò che è e che sarà) siano rappresentati nel principio teologico di un 'dio' astratto piuttosto che una o più divinità personificate di qualsiasi tipo. Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo dal panenteismo e dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando elementi panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e pandeiste. Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una concezione non-teistica della divinità». In senso lato, con "panteismo" si intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di Dio-Uno-Tutto si presenta in due versioni: quella "cosmistica", la quale afferma "Dio è nel Tutto", e quella acosmistica (il termine è di Hegel), la quale afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo caso, come nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua parte; nel secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte rifluisce e si scioglie in Dio, quale Uno-Tutto.  Storia del panteismo Modifica Il termine "panteista" (dal quale la parola "panteismo" è derivata) è usato propriamente per la prima volta da Toland nella sua opera Socinianism Truly Stated, by a pantheist. Comunque, il concetto era stato discusso già al tempo dei filosofi della Grecia antica, da Talete, Parmenide ed Eraclito. I presupposti ebraici del panteismo possono essere ricercati nella Torah stessa, nel racconto della Genesi e nei suoi primi materiali profetici, nei quali chiaramente gli "atti di natura" (come inondazioni, tempeste, vulcani, etc.) sono tutti identificati come "la mano di Dio" attraverso idiomi di personificazione, così spiegando gli aperti riferimenti al concetto, sia nel Nuovo Testamento, che nella letteratura cabalistica.  Sorge una consistente controversia tra Jacobi e Mendelssohn, che infine coinvolse molte importanti persone del tempo. Jacobi affermava che il panteismo di Lessing era materialistico, per il fatto che considerava tutta la natura e Dio come una sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che il risultato della devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe condotto all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il panteismo era teistico.  Il Panteismo di Eraclito Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un componente della dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è in tutte le cose ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione porta a identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi l'Unità di tutti i contrari, il Fuoco generatore.  Il Dio-tutto di Eraclito ha in sé tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi alla teoria della cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è simile a un insieme di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà sviluppato in seguito dagli Stoici.  Il Panteismo del PORTICO ROMANO Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: IL PORTICO ROMANO. Il panteismo stoico è una delle più compiute espressioni di esso, dove il divino è la ragione e l'intelligenza che lo determina e lo permea. Il divino del PORTICO ROMANO, quindi, non si identifica con l'universo, ma lo permea come suo fondamento e ragion d'essere.  Il Panteismo di Plotino Si è parlato spesso impropriamente di panteismo in Plotino. In realtà, secondo Plotino, Dio non è solo immanente, ma anche trascendente. Come ha evidenziato anche Reale, l'Uno, il Dio plotiniano, pur permeando di sé ogni realtà, ne è superiore. Plotino dice infatti chiaramente che l'Uno, «in quanto principio di tutto, non è il tutto. Con questa affermazione egli sembra prendere in contropiede, quasi le prevedesse, le interpretazioni immanentistiche e panteiste del suo pensiero.  Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bruno. La visione di BRUNO (si veda) può essere considerata un panteismo del divino-Infinità ed ha alcuni caratteri del panpsichismo. Nella filosofia di Bruno, i cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i princìpi della realtà naturale.  Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale, il quale «empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie».  La materia è il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesima che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di sgabello, e così via discorrendo, tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la materia».  Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Nella sua concezione, anche la Terra è dotata di anima.  Egli in De l'infinito, universo e mondi scrive:   «Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello. Bruno, Dialoghi metafisici, Firenze, Sansoni Il Panteismo di Spinoza  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Spinoza e Monismo panteistico. La tesi centrale del pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o, meglio, immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa convergono i temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, la teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes.  Spinoza concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:   «Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo: dunque Dio esiste necessariamente.»  (Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è:   «Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente. Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo. Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi; e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e agire in un certo modo, e non si dà nulla di contingente.»  (B. Spinoza, Etica, Questa concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma non meno quello del PORTICO ROMANO), per qualche filosofo contemporaneo, risulti essenzialmente un impersonale Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà come persona divina tipica dei monoteismi.  Descrizione Tipi di panteismoModifica Si possono distinguere tre gruppi di panteisti:  panteismo classico, che si esprime attraverso l'immanente Dio del Giudaismo, Induismo, Monismo, neopaganesimo e delle dottrine New Age, generalmente considerando Dio come personificazione o manifestazione cosmica; panteismo biblico, che è espresso negli scritti della Bibbia; panteismo naturalistico, basato sulle, relativamente recenti, visioni di Baruch Spinoza (che potrebbe essere stato influenzato dal panteismo biblico) e John Toland (che coniò il termine "panteismo"), così come sulle influenze contemporanee. La maggioranza delle persone che possono identificarsi come "panteiste" appartengono al tipo classico (come gli Indù, i Sufi, gli Unitaristi, i neopagani, i seguaci della New Age, etc), mentre molte persone che identificano se stesse come panteiste (non essendo membri di un'altra religione) appartengono al tipo naturalista. La divisione tra le tre branche del panteismo non sono completamente chiare in tutte le situazioni, rimanendo dei punti di controversia nei circoli panteisti. I panteisti classici generalmente accettano la dottrina religiosa secondo cui ci sarebbe una base spirituale per tutta la realtà; mentre i panteisti naturalisti generalmente non concordano, piuttosto intendendo il mondo in termini più naturalistici. La confusione tra i concetti di panteismo e ateismo è un problema antico in linguistica. GL’ANTICHI ROMANI si rifereno ai cristiani come atei e le spiegazioni di questo fenomeno semantico possono variare.  Metodi di spiegazione Una caratteristica spesso citata del panteismo è che ogni essere umano, essendo parte dell'universo o della natura, è parte del divino. Uno dei problemi discussi dai panteisti è come possa esistere il libero arbitrio in un contesto simile. In risposta, qualche volta è data la seguente analogia (particolarmente dai panteisti classici): "stai a Dio come una tua singola cellula sta a te".  L'analogia sostiene anche che, sebbene una cellula possa essere cosciente del suo ambiente e abbia persino qualche scelta (libero arbitrio) tra giusto e sbagliato (uccidere un batterio, divenire cancerogena o non fare semplicemente niente), ha presumibilmente una comprensione limitata dell'essere più grande, di cui fa parte. Un altro modo di comprendere questo tipo di relazione è tramite la frase indù tat tvam asi - "quello che sei", in cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa medesima di Dio o Brahman. Nel contesto indù, si crede che il singolo debba essere liberato attraverso l'illuminazione (moksha), in modo da sperimentare e capire pienamente questa relazione: la parte diventa non dissimile dal tutto.  Non tutti i panteisti accettano l'idea del libero arbitrio, dato che il determinismo è largamente diffuso, particolarmente presso i panteisti naturalistici. Sebbene le interpretazioni individuali del panteismo possano suggerire certe implicazioni per la natura e l'esistenza del libero arbitrio e/o determinismo, il panteismo non implica il requisito di credere in entrambi. Comunque, il problema è largamente discusso ed è presente in molte altre religioni e filosofie.  Dibattito Alcuni sostengono che il panteismo è poco più che una ridefinizione della parola il divino per definire esistenza, vita o realtà. Molti panteisti direbbero che, se fosse così, un tale cambiamento nel modo in cui pensiamo a queste idee servirebbe a creare una nuova e potenzialmente più perspicace concezione sia dell'esistenza, che di Dio. Forse il più significativo dibattito all'interno della comunità panteistica è quello riguardante la natura di Dio. Il panteismo classico crede in un Dio personale, cosciente e onnisciente e vede questo Dio come unificante di tutte le vere religioni. Il panteismo naturalistico crede invece in un Universo non cosciente e non senziente che, sebbene sacro e meraviglioso, è visto come un Dio in senso non tradizionale e non personale.  I punti di vista compresi all'interno della comunità panteista sono necessariamente diversi, ma l'idea centrale, che vede l'Universo come un'unità onnicomprensiva e la sacralità sia della natura che delle sue leggi, è comune. Alcuni panteisti sostengono, inoltre, un fine comune di natura e uomo, sebbene altri rifiutino l'idea di un fine e vedano l'esistenza come esistente di per sé.  Concetti panteistici nella religione Induismo  È generalmente riconosciuto che i testi religiosi indù sono i più antichi conosciuti in letteratura contenenti idee panteistiche. Nella teologia indù, Brahman è la realtà infinita, immutabile, immanente e trascendente che è il Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo e che è anche la somma totale di tutte le cose che sono, sono state e saranno. Questa idea di panteismo è rintracciabile in alcuni testi più antichi come i Veda e gli Upanishad e nella più tarda filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya degli Upanishad, in un modo o nell'altro, sembrano indicare l'unità del modo con Brahman. Upanishad dice Tutto in questo Universo in realtà è Brahman; da lui esso procede; all'interno di lui è dissolto; in lui respira, così lasciate che ognuno lo adori tranquillamente". Inoltre dice: "Tutto l'Universo è Brahman, da Brahman a una zolla di terra. Brahman è la causa efficiente e materiale del mondo. Egli è il vasaio da cui si forma il vaso; egli è la creta con il quale è fabbricato. Tutto proviene da Lui, senza perdita o diminuzione della fonte, come la luce irradiata dal sole. Ogni cosa è unita entro Lui ancora, come le bolle che esplodono si uniscono all'aria, come i fiumi sfociano negli oceani. Tutto proviene e ritorna al divino, come la tela di un ragno è fabbricata e ritratta dal ragno stesso, Negli inni del Rig Veda, una traccia di pensiero panteista può essere riconosciuta nel libro decimo. Questa concezione di Dio lo vede come l'unità, con gli dei personali e individuali aspetto dell'Unico, sebbene differenti divinità siano viste da diversi fedeli come particolarmente adatte alle loro preghiere. Come il sole emana raggi di luce che provengono dalla stessa fonte, lo stesso avviene dagli sfaccettati aspetti di Dio emanati da Brahman, come più colori dallo stesso prisma. Il Vedānta, specificatamente l'Advaita, è una branca della filosofia indù che pone grande accento su questa materia. Molti aderente vedantici sono monistio "non-dualisti, vedendo le molteplici manifestazioni di un solo Dio o della fonte dell'essere, una visione che è spesso considerata dai non induisti come politeista.  Il panteismo è la componente chiave della filosofia Advaita. Altre suddivisione dei Vedanta non sostengono in maniera peculiare le stesse istanze. Per esempio, la scuola Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia il Dio esterno personale Vishnu, laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il Panenteismo.  Ebraismo Il senso radicalmente immanente del divino nella mistica ebraica (Kabbalah) si ritiene abbia ispirato la formulazione del panteismo da parte di Spinoza. Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata recepita dall'Ebraismo ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il panteismo spinoziano fosse una conseguenza della lettura di Malebranche da parte del filosofo olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che osserviamo è in Dio stesso. Ciò equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa di ancor più oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non solo vediamo tutto in Dio, ma Dio è anche l'unica attività, sicché le cause fisiche sono mere occasionalità (Ricerca della verità,. E così qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di Spinoza che pare abbia appreso più da Malebranche che da Descartes. (Schopenhauer, Parerga e paralipomena, "Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e del reale"). Inoltre, Eliezer, fondatore dello chassidismo, aveva un senso mistico del divino che può essere definito come Panenteismo.  Secondo l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è basata sulla Torah (legge) della natura. Pertanto la Torah originale non è rinvenibile negli scritti di Mosè, bensì nella natura stessa. "Interpretare" la Torah della natura equivale ad "interpretare" la Torah della rivelazione e teoricamente alla fin fine coincideranno l'una con l'altra [come si dimostra ad esempio con la scoperta del Big Bang. L'ortodossia rabbinica considerando questa posizione come una discrepanza, allo scopo di porre la Torah scritta al di sopra di quella data per prima in natura, ha sostenuto che la Torah scritta precedette la creazione, infatti a partire dalla Torah scritta che Dio ha parlato nella creazione. Questa posizione non è accolta dai panteisti biblici.  Maimonide, benché Ortodosso, nei suoi scritti sulla riconciliazione fra le sacre scritture e la scienza, accolse l'opinione dell'equivalenza fra la Torah della natura e la Torah delle scritture e trovò la sua logica come inevitabile. Queste tesi, senza dubbio, servirono da sfondo per lo sviluppo delle teorie di Spinoza.  Cristianesimo Vi è un certo numero di tradizioni minori nell'ambito della storia del Cristianesimo secondo le quali le origini del loro credo panteistico sono da rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre correlate tradizioni ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è rintracciabile a partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino ad arrivare alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale e del protestantesimo liberale. Altre fonti includono la  Teologia del processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito, altri ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto, per qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo.  Alcuni Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta personifica se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che il Padre è al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri, lo Spirito Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per benedire la gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali si ritiene che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo. I panteisti di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una formulazione per il Cristo come verbo di Dio e per l'unità del Monoteismo.  Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo richiamo verso questo sistema di credenze.  I panteisti cristiani sostengono che la definizione cattolica del divino è pesantemente influenzata da fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il neo-Platonismo, che considerano il divino come qualcosa che esiste fuori dall’esistenza, pertanto la definizione del divino si riferiva ad un qualcosa che non esiste, cioè, ad un Dio non-esistente. È proprio questa basilare definizione neo-platonica di non-esistenza che i panteisti cristiani ritengono biasimevole e contraria alle scritture. Agostino rigettò il panteismo per i seguenti motivi: Ma c'è un motivo che, al di là di ogni passione polemica, deve indurre uomini intelligenti o comunque siano, perché all'occorrenza non si richiede un'alta intelligenza, a fare una riflessione. Se Dio è la mente del mondo e se il mondo è come un corpo a questa mente, sicché è un solo vivente composto di mente e di corpo ed esso è Dio che contiene in se stesso tutte le cose come in un grembo della natura; se inoltre dalla sua anima, da cui ha vita tutto l'universo sensibile, vengono derivate la vita e l'anima di tutti i viventi secondo le varie specie, non rimane nulla che non sia parte di Dio. Ma se questa è la loro tesi, tutti possono capire l'empietà e la irreligiosità che ne conseguono. Qualsiasi cosa si pesti, si pesterebbe una parte di Dio; nell'uccidere qualsiasi animale, si ucciderebbe una parte di Dio. Non voglio dir tutte le cose che possono balzare al pensiero. Non è possibile dirle senza vergogna. come pure:  Riguardo allo stesso animale ragionevole, cioè l'uomo, la cosa più banale è ritenere che una parte divina prende le botte quando le prende un fanciullo. E soltanto un pazzo può sopportare che le parti divine divengano dissolute, ingiuste, empie e in definitiva degne di condanna. Infine perché il dio si arrabbierebbe con coloro che non lo onorano se sono le sue parti a non onorarlo?[5] Nel Vangelo secondo Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani), Gesù disse:  Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là mi troverai. Tuttavia questa è un'affermazione dell'onnipresenza di Dio, non in senso panteistico, ma in armonia con l'insegnamento che ogni apparenza fenomenica è riflesso della luce divina. informazioni Questa voce o sezione sull'argomento religione non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La maggioranza dei Musulmani condanna il concetto di panteismo e lo considera come un insegnamento non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto dai musulmani contenere insegnamenti panteistici.  Il Sufismo può essere suddiviso nelle seguenti categorie:  Sufismo originario - Sincretico: Mescola insieme dottrine e concetti dell'Islam con credenze e pratiche religiose locali dei paesi Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi non-Islamici. Sufismo ḥadīth - Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle forme ortodosse della spiritualità e del misticismo Islamico. Essenzialmente ortodosso e considerato prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici. Sunniti o Sciiti. Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto scritto nel Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth come altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come una forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico. Ha subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del Protestantesimo. Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth. Il concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti è panteista, o per essere più precisi, Panenteista.  Gli scritti di Seth e il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come presentati dalla medium Roberts. Seth, l'"entità" cui da voce la Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa energia mentale è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose; la coscienza di Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio è onnipresente. Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che è" e diceva che "Tutte le facce appartengono a Dio". Seth descriveva Dio come una forma contenente tutti gli individui al suo interno; inoltre aggiungeva che Dio si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun individuo. Tuttavia, questo insegnamento ha molto in comune con il correlato concetto di panenteismo, dato che pone in risalto la personificazione di Dio e quindi si trasforma in un teismo.  Altre religioniModifica Molti elementi panteistici sono presenti in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e Teosofiainsieme a molte variabili denominazioni. Si veda anche la Neopagana Gaia e la Church of All Worlds.  Molti Universalisti si considerano panteisti.  Il filosofo Carus si define un ateista che ama Dio. Egli critica ogni forma di monismo che cerca l'unità del mondo non nell'unità della verità bensì nella unicità di una logica supposizione di idee. Carus define tali concetti come henismo. Il Taoismo propugna una visione panteistica. Il Tao potrebbe essere paragonato al Deus-sive-Natura di Spinoza.  Concetti connessiModifica PanenteismoModifica Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma non coincidono: il primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come parte di Dio. Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre per il panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo).  Per alcuni tale distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero essere descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile per il panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla sola natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo si rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e Shri Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista.  CosmismoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e World Brain. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Mentre questo termine è raramente usato, e molto spesso è solo un sinonimo di Panteismo, l'insolita filosofia da esso indicata è stata utilizzata in modo piuttosto differente, ma in ogni caso con essa si vuole esprimere il concetto che Dio è un qualcosa creato dalla mente umana, forse rappresenta uno stadio finale della evoluzione dell'uomo, raggiunto attraverso la pianificazione sociale, l'eugenetica e altre forme di ingegneria genetica. Wells diede vita a una forma di cosmismo, che denominò World Brain (cervello mondiale), rifacendosi a un saggio da lui in cui viene tra l'altro descritta la creazione di una biblioteca-enciclopedia. Tale idea venne ripresa nel libro God the Invisible King, in cui l'autore consiglia all'umanità di istituire un sistema socialista, strutturandolo sui dati statistici sociali ed eugenetici, sull'istruzione e l'eugenetica, in modo che un giorno idealmente possa essere alla pari e possibilmente anche fondersi con la stessa divinità panteista, e anche in alcuni paragrafi di Outline of History, che richiamavano tali credenze dell'autore e le sue ricerche sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste idee vengono riprese nel suo libro Shape of Things to Come e nel film da esso tratto nel Things to Come; in essi viene descritta l'umanità che, sopravvivendo ad una guerra apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si unisce per dar vita ad una utopia collettivista.  In Israele, il Cosmismo è stato oggetto di studio da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi ideologi del Movimento Laburista Israeliano e docente presso l'Università di Beit Berl. Secondo questo autore Dio è qualcosa che non esisteva prima dell'uomo, ma era una entità secolare. Infatti fu la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ad avere un ruolo nell'"invenzione" di questa entità.  Nel XX secolo, lo statunitense  Pierce, un nazionalista bianco iscritto nel Partito Nazista Americano e, a sua volta, fondatore del movimento Alleanza Nazionale, utilizza il termine cosmismo. Per Pierce (così come per Wells), Dio sarebbe il risultato finale dell'eugenetica e dell'igiene razziale. Si veda: Nazismo, Galton e Teosofia.  La noosfera descritta da Vernadsky e Chardin puo essere considerata come la descrizione di una divinità Cosmistica, come anche la coscienza collettiva di Émile Durkheim e l'inconscio collettivo di Jung. Clarke fa un possibile riferimento alla Noosfera Cosmista nel suo libro Childhood's End o Le guide del tramonto, riferendosi ad essa come la "Overmind", una mente alveare interstellare. Il Pandeismo è una specie di Panteismo che include una forma di Deismo, sostenendo che l'Universo è identico a Dio, ma anche che Dio precedentemente fu una forza cosciente e senziente ovvero una entità che progettò e creò l'Universo. Diventando l'Universo, Dio divenne inconscio e non senziente. A parte questa distinzione (e la possibilità che l'Universo un giorno ritornerà ad essere Dio), le credenze Pandeistiche sono identiche a quelle del Panteismo. Secondo Schopenhauer, nel panteismo non vi è etica. Il panteismo, nel suo complesso, naufragherebbe a fronte delle inevitabili esigenze etiche e quindi non avrebbe risposte sul male e sulle sofferenze del mondo. Se il mondo è una teofania, allora ogni cosa fatta dagli uomini, ed anche dagli animali, è da considerarsi parimenti divina ed eccellente; niente può essere giudicato più censurabile e più meritevole rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è etica. (Il mondo come volontà e rappresentazione, Tuttavia, alcuni panteisti sostengono che il punto di vista panteista è molto più etico, evidenziando che ogni danno arrecato all'altro è come fare male a se stessi, perché arrecare danno ad uno è come arrecare danno a tutti. Ciò che è bene e ciò che è male non dipende da qualcosa al di fuori di noi, ma è il risultato di come ci rapportiamo gli uni con gli altri. Il fare bene non si deve basare sulla paura di una punizione da parte di Dio, bensì deve scaturire da un reciproco di tutti verso tutto.  Le forme tradizionali e le varie definizioni di panteismo, comunque, rinviano ai loro testi sacri e ai loro maestri per le definizioni di ordine etico. Levine, Pantheism: A Non-Theistic Concept of Deity, Londra e New York, Routledge, Il Panteismo. Una concezione non-teistica della divinità, Genova, ECIG, Constance E. Plumptre, General Sketch of the History of Pantheism, Londra, W. W. Gibbings, Chandogya Upanishad 3-14 traduzione di Monier-Williams ^ La Città di Dio, La Città di Dio, Testo del Vangelo secondo Tommaso God the Invisible King Voci correlateModifica Dio Monismo Monoteismo Teismo Deismo Pandeismo Panenteismo Naturalismo (filosofia) Panpsichismo Panteismo naturalistico Panteismo classico Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su panteismo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su panteismo Collegamenti esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Panteismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Appleton Mander, Pantheism, Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Tanzella-Nitti, Panteismo del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Portale Filosofia   Portale Mitologia   Portale Religioni Monismo (religione) Panenteismo scuola filosofica  Panteismo naturalistico. Lorenzo Giusso. Giusso. Keywords: gl’eroi, il vico di giusso, la tradizione ermetica nella filosofia italiana, nazionalsocialismo, bruno, panteismo, leopardi, occasionalismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giusso” – The Swimming-Pool Library. Giusso.

 

Grice e Giustino: la ragione conversazionale e la gnossi a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Giustino is cited by Ippolito di Roma as the originator of what Ippolito describes as a pagan form of gnosticism in which a wide variety of disparate elements are brought together.

 

Grice e Giustino: la ragione conversazionale e la setta di Napoli -- Roma – filosofia campanese – filosofia napoletana – scuola di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo campanese. Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli, Campania. He studies various schools of philosophy with his friend Trifone, but could not decide. He shows his scepticism in a letter to Antonino Pio. He irates Crescente, who has a mob kill him. Grice e Giustino. Giustino.

 

Grice e Givone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei fanes – la scuola di Buronzo -- filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- Givone (Buronzo). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Buronzo, Vercelli, Piemonte. Grice: “I like Givone, especially his two essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more controversial, ‘eros and knowledge.’ Si laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato a Perugia, Torino e Firenze. Alcuni suoi lavori riguardano la poetica e l’estetica all’ombra del nichilismo. Da questa riflessione nasce anche la sua ricerca sulla “Storia naturale del nulla” --  e sulle implicazioni sullo tragico. In sua estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il malinconico, ‘l’ibrido – Saggi: “La storia della filosofia secondo Kant” (Milano, Mursia); “Hybris e malinconia: Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano, Mursia); “William Blake. Arte e religione, Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo, Milano, Mursia, Dostoevskij e la filosofia, Roma, Laterza, Storia dell'estetica, Roma, Laterza, Disincanto del mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore,  La questione romantica, Roma, Laterza, Storia del nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos, Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi,  Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi,  Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi dell'amore ferito, Firenze, Olschki,  Sull'infinito, il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice: “I like Givone; he philosophises on ‘eros,’ but fails to notice that for Butler there’s self-love and other love; instead, Givone prefers to contrast ‘eros’ with ‘ethos’!” “His ramblings on Phanes are fun, though!” – Grice: “Not satisfied with metaphysics, Givone goes to criticize Marinetti’s hybris, or superbia, i. e. lack of moderation. His ottimismo notably contrasts with the decadentismo of the croposcolaristi.  Futurismo movimento artistico, culturale, musicale e letterario italiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua. svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento arte è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Il Futurismo è stato un movimento letterario, culturale, artistico e musicale italiano dell'inizio del XX secolo, nonché una delle prime avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati Uniti d'America e in Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione: la pittura, la scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica, l'architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione del movimento si deve al poeta italiano Marinetti.  Boccioni La città che sale, bozzetto, Museum of Modern Art, New York OriginiIl manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro (qui evidenziato in giallo) Il Futurismo nasce in Italia, in un periodo di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologichee di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando" fra loro i continenti, creando nuove connessioni.  Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le biblioteche" in modo da non avere più rapporti con il passato per concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luci artificiali, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro e velocità sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare a una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione. Severini racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se aderire o meno al Futurismo parlò anche con MODIGLIANI (si veda), che egli avrebbe voluto nel gruppo, ma il pittore declinò l'offerta perché come scrisse:   «Queste manifestazioni non gli andavano, il complementarismo congenito lo fece ridere, e con ragione, perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi in quelle storie; ma io avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre ero, e sono sempre stato pronto ad accettare l'avventura. Severini, Vita di un pittore Primo Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…»  (dal Manifesto dei pittori futuristi) Una scazzottata futurista A seguito di una serie di articoli critici di Ardengo Sofficisu La Voce vi fu una reazione violenta dei futuristi: Marinetti, Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a Firenze e lo aggredirono mentre sedeva al caffè delle "Giubbe Rosse" in compagnia dell'amico Medardo Rosso. Ne nacque una grande pubblicità e un grande tumulto rinnovatosi alla sera, alla stazione di Santa Maria Novella, quando Soffici, accompagnato dagli amici Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e Alberto Spaini, volle rendere la contropartita.   «Fu una vera spedizione punitiva, che mi fu raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici. I futuristi appena arrivati a Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevano di trovare Soffici, Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori della Voce. Boccioni domanda ad un cameriere: «Chi è Soffici?»; sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e senza spiegazioni gli appioppa un paio di schiaffoni; Soffici per niente smontato si alza risponde con una scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole seggiole per terra, bicchieri rotti e questurini che portano tutti al commissariato. Per fortuna caddero in un commissario intelligente che capisce con chi aveva a che fare; visto che Soffici e quelli della Voce non volevano far querela d'aggressione, li rimandò tutti fuori come se niente fosse stato. I futuristi, vendicate le ingiurie, andarono alla stazione dove un treno, pressappoco a quell'ora, doveva riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado si fossero ben difesi, non erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta anch'essi alla stazione. Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro incontro, e un altro violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi futuristi. Ma fecero in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma soddisfatti. Severini, Vita di un pittore Nel Manifesto Futurista, pubblicato inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di Napoli, la Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di Verona) e, definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le Figaro, Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a Milano i pittori Boccioni, Carrà, Balla, Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie (bollate con l'etichetta di passatismo, tra cui figura anche il Parsifal di Wagner, che cominciò a essere rappresentato nei teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria, il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come "sola igiene del mondo. Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra. La prima importante esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune. All'inaugurazione della mostra erano presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. L'accoglienza iniziale fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento suscitò un certo interesse divenendo presto oggetto di attenzioni internazionali tanto da favorire la riproposizione della mostra anche in altre città europee come Berlino.  La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione dell'amico Palazzeschi. Infatti, Soffici e Papini uscendo da La Vocedecisero di fondare la rivista Lacerba appoggiando così il movimento futurista.  Alla morte di Umberto Boccioni, Carrà e Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da Milano a Roma, con la conseguente nascita del secondo Futurismo. In prima fila Depero, Marinetti e Cangiullo con panciotti "futuristi" Il secondo Futurismo fu sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava due anni dopo la morte di Boccioni, e fu caratterizzata da un forte legame con la cultura post-cubista e costruttivista; la seconda invece,  fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si concluse attraverso il cosiddetto "terzo Futurismo", portando anche all'epilogo del futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Colombo, Prampolini, Sbardella, Diulgheroff, Tulli ma anche Sironi, Soffici, Rosai, Testi e la moglie Stagni. Se la prima fase del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica (in pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la seconda stagione ebbe un effettivo legame con IL REGIME FASCISTA, nel senso che abbraccia gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di speciali favori.  I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo e al bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi ritenuti principali è fagocitato dal FASCISMO. Anche se la gerarchia fascista riserva ai futuristi coevi una sotto-valutazione talvolta sprezzante, l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del Futurismo sono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze dall'ideologia fascista (Carrà, ad esempio, abbraccia la metafisica). Altri ancora, come il giovane pittore maceratese Tulli, mantennero costantemente un approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con L’ESTETICA FASCISTA, anche nelle successive esperienze di pittura informale. Goncharova Il ciclista, Museo russo, San Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era stato pubblicato a San Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e Gončarova e Larionov, che in patria verrà definito il padre del Futurismo russo, furono i concreti iniziatori del movimento in Russia. Il pittore Malevič, il compositore Matjušin e lo scrittore Kručënych redassero il manifesto del Primo congresso Futurista russo. Al movimento, conosciuto anche come Cubofuturismo o Raggismo, aderirono personalità come il poeta e drammaturgo Majakovskij.  Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal movimento d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione due importanti avanguardie artistiche, il Costruttivismo e il Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita di Marinetti. Altri invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il temperamento e le declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma Marinetti tentò invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič, Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti. L'ultima "mostra futurista" si tenne a Pietrogrado.  In Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei futuristi italiani, criticato da Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica idea di pace e libertà, sia individuale dell'artista, sia collettiva del mondo, che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al bolscevismo. Dopo la rivoluzione d'ottobre molti futuristi confluirono nel cubismo e nell'astrattismo.  Futurismo francese In Francia il Futurismo non si organizzò mai come movimento, ma ebbe almeno due nomi degni di nota: Apollinaire e Saint-Point.  Apollinaire scrive il manifesto L'antitradition futuriste, pubblicato su Lacerba solo dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi Calligrammes rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista sul poeta francese.  Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine, scrisse il Manifesto della donna futurista, con il sottotitolo “Risposta a Marinetti”, in un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a Milano. è il Manifesto futurista della lussuria.  Orientamenti artistici Nelle opere futuriste è quasi sempre costante la ricerca del dinamismo; cioè il soggetto non appare mai fermo, ma in movimento: ad esempio, per loro un cavallo in movimento non ha quattro gambe, ne ha venti. Così la simultaneità della visione diventa il tratto principale dei quadri futuristi; lo spettatore non guarda passivamente l'oggetto statico, ma ne è come avvolto, testimone di un'azione rappresentata durante il suo svolgimento.  Per rendere l'idea del moto nelle arti visive tradizionali, immobili per costituzione, il Futurismo si serve, nella pittura e nella scultura, principalmente delle “linee-forza”; poiché la linea agisce psicologicamente sull'osservatore con significato direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e diventa forza centrifuga e centripeta, mentre oggetti, colori e piani si sospingono in una catena di contrasti simultanei, determinando la resa del “dinamismo universale”.  PitturaJoseph Stella Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras, Yale. A Milano gl’artisti d'Italia avevano pubblicato i manifesti sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del dinamismo plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla passò dallo studio delle vibrazioni luminose (divisionismo) alla rappresentazione sintetica del moto. Boccioni, Carrà e Russolo esposero a Milano le prime opere futuriste alla "Mostra d'arte libera" nella fabbrica Ricordi.  Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni artistiche legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere letterarie e teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata capacità espressiva.  Le radici del fermento che portò alla declinazione del Futurismo nell'arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già nella Scapigliatura - corrente tipicamente milanese e borghese della seconda metà dell'Ottocento - laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l'attenzione dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale, sulle fabbriche.  Dal punto di vista stilistico il Futurismo - in particolare quello boccioniano - si basa sui concetti del divisionismo che però riesce ad adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di simultaneità: è grazie ad artisti come Segantini e PELLIZZA da Volpedo che, pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti come La città che sale.   Opera futurista di Emma Marpillero Corradi Dal punto di vista concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di essi sulla tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione esclusivamente spaziale (il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone ogni aspetto), il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione temporale, il movimento.  Altrettanto interessanti sono i rapporti stilistici tra il Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Delaunay.  Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche. Equiparare, infine, la ricerca futurista dell'attimo con quella impressionista, come è stato fatto in passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è vero infatti che gli impressionisti fecero dell'"attimalità" il nucleo della loro ricerca - loro scopo era fermare sulla tela un istante luminoso, unico e irripetibile - la ricerca futurista si muoveva in senso quasi opposto: suo scopo era rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale.  Come conseguenza dell'"estetica della velocità", nelle opere futuriste a prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge infatti l'oggetto e lo spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni, degli aeroplani (Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle azioni quotidiane (del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona, della bimba che corre sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e pennellate che mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La costruzione può essere composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche da pennellate lineari, intense e fluide se il moto è più armonioso.  Tra gli epigoni più interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e del costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei due manifesti sulla pittura.  Due tra i principali esponenti del movimento pittorico, Boccioni e Balla, furono presenti anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definita "simbolica": il dipinto La città che sale, per esempio, è una chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per rendere il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è il caso del posato Bambina che corre al balcone.  Scultura Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, New York, Museum of Modern Art L'artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella plastica.  Lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere considerato Forme uniche della continuità nello spazio: l'immagine, applicando le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo spazio circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo in sé stessa.  Anche in L'Antigrazioso o La madre, immediatamente precedente, sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella continuità dello spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di plasticità derivanti da influssi naturalistici.  MosaicLa tecnica del mosaico, basata sull'utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata molto bene a esprimere i modi e il dinamismo intesi dall'arte futurista.  Enrico Prampolini e Fillia eseguono l'importante mosaico dedicato al tema delle Comunicazioniall'interno della torre del Palazzo delle Poste di La Spezia.  Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato,.  ArchitetturaMagnifying glass icon mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio: Architettura futurista. «Il problema dell'architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane: ma di creare di sana pianta la casanuova, costruita tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…»  (Antonio Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo Nuove Tendenze)  Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della Città Nuova. Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. Arnaldo Dell'Ira lampada "a grattacielo Pettazzi  Stazione di servizio "Fiat Tagliero", Asmara. Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande influenza sulla formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di Varese. Sant'Elia pubblica il Manifesto dell'Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al centro dell'attenzione c'è la città, vista come simbolo della dinamicità e della modernità. Tutti i progetti creati da Sant'Elia si riferiscono a città del futuro: in contrapposizione all'architettura tradizionale, vista come inadeguata, le città idealizzatedagli architetti futuristi hanno come caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte, un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è impregnata di dinamicità.  Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei progetti futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa.  Le teorie futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano espressione di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a metodi formali e tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni dell'architettura e della città che saranno proprie del Movimento Moderno.  A causa della guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia il movimento futurista in Italia perse il suo slancio. L’originaria proposta futurista dei primi tempi è raccolta piuttosto dai costruttivisti russi. Il movimento razionalista italiano cercherà di proporre gli scenari della Città Nuova delle utopie futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi privilegiando un monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione Sovietica con il sopravvento del regime totalitario.  Tra i grandi esponenti dell'architettura da ricordare Chiattone, che visse con Sant'Elia a Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando straordinarie visioni di città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e abbandonare la militanza. E infine Marchi, che operò anche come scenografo.  Al Secondo Futurismo appartengono le architetture di Mazzoni, autore di notevoli edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in funzione in diverse città italiane.  CeramicaPer le sue possibilità espressive, anche la ceramica interessa il movimento futurista. In particolare i ceramisti dell'ISIA espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Sulla Gazzetta del Popolo a firma Marinetti ed Albisola viene pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica. Il centro propulsore della ceramica futurista italiana fu Albissola Marina.  Musica Modifica In campo musicale gli unici rappresentanti di rilievo sono Pratella e Russolo, pittore, musicista e scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori. L'arte dei rumori è considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti nell'estetica musicale del XX secolo. A Russolo si deve l'invenzione dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni dovevano essere sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che permettevano di controllare la dinamica e il volume.  Letteratura Modifica  Da sinistra: Palazzeschi, Carrà, Papini, Boccioni, Marinetti, Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo Tommaso Marinetti. Marinetti invia il Manifesto del Futurismo ai principali giornali italiani, ma è la pubblicazione su Le Figaro a garantirgli risonanza europea. Sulla rivista fiorentina Lacerba, comparve il "Manifesto tecnico della letteratura futurista. è il volume Zang Tumb Tumb, miglior esempio delle futuriste Parole in libertà.  Poesia. I poeti futuristi si riuniranno attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche anno prima. Nei componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e delle sensazioni forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti, oltre al Marinetti, sono: Palazzeschi, autore della raccolta poetica L'incendiario (che include "La fontana malata", "E lasciatemi divertire" e "La passeggiata"); Soffici, autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici; Paolo Buzzi, autore di Aeroplani. Canti alati. Anche Quasimodo aderì, in gioventù, al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera d'estate. A un successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene l'Aeropoesia.  Teatro Modifica Magnifying glass icon mgx2. svLo stesso argomento in dettaglio: Teatro futurista. I futuristi perseguirono la rifondazione del concetto stesso di comunicazione teatrale. Promossero un teatro «sintetico, atecnico, dinamico, simultaneo, autonomo, alogico e irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al pregiudizio della teatralità, soddisfare la primitività delle folle, curarsi della verosimiglianza, voler spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si rappresenta, sottostare alle imposizioni del crescendo, della preparazione e del massimo effetto alla fine, lasciare imporre alla propria genialità il peso di una tecnica che tutti possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel vuoto della creazione totale».  I futuristi, infatti, possedettero una «invincibile ripugnanza» per il lavoro studiato a tavolino, a priori, sostenendo l'improvvisazione, il teatro come «serbatoio inesauribile di ispirazioni».  «Tutto è teatrale quando ha valore»  (Il teatro futurista sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra) Il teatro futurista promosse anche la commedia e la farsa, anziché la tragedia, o il dramma borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era inusuale vedere il pubblico adirato a causa di spettacoli fatti di azioni deliranti. Le cronache dell'epoca riportano notizie relative agli attori futuristi che sfuggono all'ira degli spettatori, spesso provocata ad arte secondo gli intenti espressi nel Manifesto futurista del teatro di varietà.  Cinema Magnifying glass icon mgx2. svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista. Venne pubblicato il Manifesto della Cinematografia futurista, firmato da Marinetti, Corra, Ginna, Balla, Chiti ed Settimelli, che sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di "viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo "antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come un retaggio vecchio.  I futuristi, per allontanare il cinema dal passato, ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di Firenze.  Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la tragedia Tahïs di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del comico Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta tutta raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi rintracciabili su YouTube).  Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Il cuoco francese Maincave adere al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di nuovi sapori ed elementi fino ad allora separati senza serio fondamento. Questo comprende accostamenti come filetto di montone e salsa di gamberi, noce di vitello e assenzio, banana e groviera, aringa e gelatinadi fragola.  Marinetti pubblica il Manifesto della cucina futurista sulla rivista Comoedia. Secondo Marinetti bisognava eliminare la pastasciutta, così come forchetta e coltello e condimenti tradizionali, e incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi.  Scrive Marinetti:  vi annuncio il prossimo lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi principi, l'abolizione della pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra parte patriottico favorire in sostituzione il riso.»  Nel suo tempo È normale che il Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto molteplici contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato dalle "tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli ed Annunzio) i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e alla raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi suddetti richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti: esse rientrano appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Secondo i futuristi, questi poeti devono essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro ingredienti intellettuali che il Futurismo vuole abolire:  la poesia morbosa e nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la passione per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la corrente crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il Futurismo l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita completamente diversa:  i futuristi inneggiano alle innovazioni, i crepuscolari sono avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi sono prepotenti, dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi, pacifici e malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi città, i crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo gusto", gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono sempre protesi verso un domani esaltante, i crepuscolari guardano al passato e alle piccole cose quotidiane.  Scultura futurista  esposta a Milano in Piazzetta Reale per il centenario del movimento Nelle arti figurative invece si presenta il confronto con le altre avanguardie, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo, Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata da propri temi e propri linguaggi espressivi. L'opera futurista è in evidente contrasto per alcuni temi con molte delle altre avanguardie sebbene condividano tutte l'intuizione di trasmettere attraverso l'arte un impulso di trasformazione della società e di rinnovamento. Aspetto specifico del Futurismo è quello di non limitare la propria azione alle espressioni artistiche (come il Cubismo o la Metafisica), ma di prospettare la re-invenzione dell'intera vita, in ogni suo aspetto (e uno dei manifesti maggiormente rilevanti fu infatti "Ricostruzione futurista dell'universo" di Balla e Depero).  Tra i contemporanei dei futuristi che criticarono il movimento ricordiamo Giandante X, che a Milano, all'apertura dei festeggiamenti per il ventennale del Futurismo, contestò apertamente Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che "l’uomo si deve affrancare dalla macchina ed è un errore lasciare sussistere lo scombinato movimento artistico"[20].  Nella critica del dopoguerra Il Futurismo ha influenzato tutta l'arte d'avanguardia del Novecento. Gli artisti futuristi che sopravvissero alla morte di Marinetti e alla seconda guerra mondiale caddero in disgrazia come tutto il Futurismo, con l'accusa di aver fiancheggiato il fascismo.  Nel secondo Novecento nuovi studi di Luciano De Maria, Mario Verdone, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia Salaris, Giordano Bruno Guerri hanno parzialmente corretto l'accusa di collusione fascista, rilanciando l'interesse artistico-sociale verso il futurismo. Studi sul futurismo di sinistra (i contatti con gli ambienti anarchici, e persino comunisti) mostravano contemporaneamente che l'avanguardia futurista italiana era stata troppo sommariamente giudicata.  Nel corso del tempo diverse sono state le esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia rilevanza è stata quella del 2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il centenario del movimento. La mostra si intitolava Futurismo 1909-2009 Velocità+Arte+Azione. Il Futurismo italiano, con una grande esposizione retrospettiva fino al 1944 al Guggenheim Museum di New York a cura di Greene, è tornato alla ribalta internazionale. Il centenario del Futurismo ha anche contribuito al rilancio internazionale degli studi sulle artiste del Futurismo e sulla visione della donna nel Movimento.  è stato pubblicato il Manifesto del Fumetto Futurista redatto da Bonura e uno dei primi, se non il primo, fumetti futuristi programmatici, cioè seguente esplicitamente uno schema scritto e definito, dal titolo "Il brutto anatroccolo. Ma che Wow!!" di Gnoffo, a significare l'importanza che il movimento futurista ha avuto come influenza nel delineare nuovi stili d'arte di rottura e sperimentali. Principali esponenti del futurismo Futuristi italiani Marinetti Allimandi Asinari Asinari Antonio Asturi Azari Baldessari Balla Benedetto Boccioni Bodini Bonetti Bot, pseudonimo di Barbieri Bragaglia Bruschetti Buzzi Cangiullo Cappa Carli Carmassi Carta Carrà Carramusa Caselli Castagnedi Cavacchioli  Ciacelli Chiti Conti Corona Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio Crali D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici Mino Delle Site Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba EVOLA (si veda), Farfa, pseudonimo di Tommasini Fillia, pseudonimo Colombo Folgore Gesualdo Frontini Funi Gambini Giardina Ginna, pseudonimo di Ginanni Corradini Governato Govoni Jannelli Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele Leskovic Licini Lucini Magnelli Mai Mainardi Michetti Marasco Marchesi Emma Marpillero Masnata Mix Sante Monachesi Marisa Mori Munari MUSSOLINI (si veda) Mussolini (si veda) Notte Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello Voltolina Pippo Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Papini Pepe Diaz Peruzzi Piscopo Prampolini Pratella Preziosi Quasimodo Righetti Romani Rosai Rizzo Rognoni Ronco Rosso Russolo Sanzin Sartoris Sant'Elia Sbardella Severini Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni Stella Sturani Tavolato Tedeschi Thayaht, pseudonimo di Ernesto Michahelles Tulli Ungaretti Vann'Antò Ruggero Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Landsmann Vucetich; Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna Gončarova Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič Aleksandr Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr Burljuk Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Léger Jules Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková Futuristi ungheresi  Béla Kádár Lajos Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del movimento attraverso le riviste Orpheu e Portugal Futurista Guilherme de Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista Futuristi spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de Andrade Futuristi argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali manifesti Manifesto del futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" Marinetti Uccidiamo il Chiaro di luna, Marinetti Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910), Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto tecnico, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista, Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi futuristi, Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, Pratella La musica futurista-Manifesto tecnico, Pratella Manifesto della Donna futurista,, Valentine de Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, Boccioni Manifesto tecnico della letteratura futurista, Marinetti L'arte dei Rumori, Russolo Distruzione della sintassi. L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà,, Marinetti L'Antitradizione futurista, Apollinaire La pittura dei suoni, rumori e odori, Carrà Il Teatro di Varietà, Marinetti Il controdolore, Palazzeschi Pittura e scultura futuriste, Boccioni Manifesto dell'Architettura futurista, Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra, Settimelli, Marinetti La ricostruzione futurista dell'universo,, Balla, Depero La Scenografia futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema futurista, Marinetti, Corra, Settimelli Manifesto della danza futurista, Marinetti Manifesto dell'Aeropittura futurista, Manifesto della Fotografia futurista, Tato (pseudonimo di Sansoni), Marinetti Manifesto della cucina futurista, (1931), Marinetti. Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica, Filippo Tommaso Marinetti e Tullio d'Albisola Opere principali Pittura Umberto Boccioni, Tre donne; Boccioni, La città che sale; Carrà, Notturno a Piazza Beccaria Boccioni, La risata Boccioni, Stati d'animo, gli addii Carrà, I funerali dell'anarchico Galli; Umberto Boccioni, Materia; Balla, Ragazza che corre al balcone Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio Balla, Lampada ad arco; Umberto Boccioni, Elasticità Severini, La chahuteause Russolo, Dinamismo di un'automobile Carrà, Cavaliere rosso; Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce Severini, Ballerina in blu; Fortunato Depero, I Cavalieri.  Futurismo, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il pensiero futurista si richiama evidentemente a varie ideologie dell'azione e della violenza: il "vitalismo" del "superuomo" (oltreuomo) di Friedrich Nietzsche, l'anarchismo di Max Stirner, la "violenza" di Georges Sorel (Considerazioni sulla violenza), lo slancio vitale di Henri Bergson(cfr. "Futurismo" nell'Enciclopedia "Il Sapere", De Agostini editore). arengario.it, arengario.it/ futurismo specimen-tonini- manifesti.pdf. 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Portale Arte   Portale Italia PAGINE CORRELATE Carlo Carrà Pittore e docente italiano  Manifesto dei pittori futuristi Manifesto futurista pagina di disambiguazione di un progetto, Esaminerò i temi principali del mio saggio, intitolato “Eros ethos”: la contraddizione, la violenza, la domanda di salvezza, che è poi la domanda di senso, il silenzio di Dio. Ma, effettivamente, questi temi fanno da sfondo, perché “ Eros ethos”, questo nesso su cui dobbiamo riflettere, riguarda piuttosto le cose prossime che non le cose ultime come la domanda di senso, la domanda che appunto ruota interamente intorno a ciò che era al principio. Che cos’era il principio? Era il senso, era il logos, o non era piuttosto come Nice, in modo sprezzante, ma anche polemico e profondo, ebbe a dire: “ in principio era il non senso”? Ecco, cos’ hanno a che fare queste domande sulle cose ultime con le cose prossime? Eros ethos: che cosa c’è di più prossimo alle esperienze che noi facciamo, che questa? Esperienza erotica ed esperienza etica. Questo è il quadro, questo è l’orizzonte problematico dentro il quale vorrei insieme con voi procedere per alcuni passi, e allora incomincerei col dire che, davvero, la domanda da cui partire è la domanda sull’origine: una domanda che ai non filosofi può sembrare di scarsa rilevanza. Perché la domanda sull’origine? E che cosa vuol dire domanda sull’origine? Vuol dire, se la vogliamo tradurre, interrogarsi sul da dove veniamo, da dove il male, la violenza che patiamo. “Unde malum?” questa è la domanda sull’origine. Ma a questa domanda sull’origine, così perentoria e così grave di implicazioni, come risponde il pensiero contemporaneo? Il pensiero contemporaneo risponde rimovendola, come se non esistesse, meglio come se non la potessimo, né la dovessimo porre. E questo perché? Perché alla domanda ha già risposto la scienza. Sappiamo da dove veniamo, di chi siamo figli: siamo figli del caos, e se è vero che leggi che possono essere accertate scientificamente governano questo caos, del caos noi siamo figli, o, se non del caos, di quel suo riflesso che è il caso. Siamo figli del caso. La violenza è un fatto. Certo che c’è violenza nel mondo, ma c’è come c’è quell’ultimo orizzonte che non possiamo trascendere. Ci appartiene la violenza, è in noi, sempre di nuovo la evochiamo, basta un niente ed ecco esplode, come se un fondo sub umano ci abitasse, come se da questa brutalità naturale noi provenissimo, come se appunto questo fondo sub umano, questa brutalità naturale, sempre pronta ad esplodere, costituisse un orizzonte intrascendibile. Non è forse vero che veniamo di lì, non ci dice la scienza che veniamo dalla “selva antiqua?” Dallo stato di natura? E che cos’è lo stato di natura se non lo stato in cui la violenza ci fa simili, anzi identici, a quegli esseri che abitano la natura e l’abitano inconsapevolmente, producendo la violenza appunto come produzione inconsapevole di quella volontà di vivere che abita tutti gli esseri naturali? Sembra essere questa la grande parola della filosofia moderna e poi contemporanea, perchè troviamo in essa quasi un vero e proprio ritornello: il risalimento all’origine è precluso, la filosofia pensa a partire da una situazione, da un trovarsi ad essere in un certo modo, a partire da cui soltanto il pensiero è pensiero. Che cosa significa risalire alle origini, ipotizzare fondamenti ultimi? Tutto questo appartiene all’ontoteologia cioè alla pretesa appunto di ragionare ricostruendo il fondamento, la ragione ultima di tutte le cose, in una parola l’origine, quell’origine che non è, o meglio non è se non nella forma che ci è data, e di cui noi facciamo esperienza sapendo di essere quello che siamo, ossia esseri naturali che dallo stato di natura provengono e che nello stato di natura trovano una sorta di ultimo orizzonte, di estremo confine intrascendibile, assolutamente intrascendibile. Da questo punto di vista abbiamo la parola di Hobbes da una parte( lo stato di natura), e la parola di Rousseau dall’altra( lo stato di natura come 1   stato di pura violenza che si tratta di controllare attraverso un patto, i cui contraenti autolimitano la propria libertà in nome del controllo di ciò che è dato: lo stato di natura). Da una parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra Rousseau dicono la stessa cosa anche se sembrerebbero dire due cose completamente diverse. Che cosa dice Rousseau? Dice che lo stato di natura non è il regno del Leviatano, il regno della violenza, è il regno della gioia, è il regno della libertà, è il regno della giustizia. Eppure dicono la stessa cosa. Che cosa? Dicono che quello, lo stato di natura, è un orizzonte che non possiamo trascendere. Lì ci troviamo a vivere. Che questo stato di natura sia uno stato di violenza, o che questo stato di natura sia uno stato tornando nel quale noi ci liberiamo dalla violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa, perché è questo stato, questa condizione intrascendibile, e non possiamo affacciarci, per così dire, sulla soglia, su questo stesso orizzonte, e guardare al di là e chiederci: “ Ma noi da dove veniamo? Chi ci ha gettati qui?” O nella lotta o nella gioia edenica: domanda senza senso. Risalire non è possibile. L’orizzonte è chiuso. La violenza non è nient’altro che questo, quella violenza di cui ci parlano anche le cronache, ma che noi conosciamo anzitutto in noi stessi, perciò della violenza non resta che prendere atto come qualche cosa che è connaturato, stato di natura appunto, e che non ci resta che controllare. Sempre di nuovo l’uomo ricade nella violenza, sempre di nuovo l’uomo deve, se non liberarsene totalmente, elaborare delle strategie di controllo. Auschwitz non deve più accadere e invece è accaduto e probabilmente sempre di nuovo accadrà. Questo lo sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni violentissimi, crudelissimi. Su questo non possiamo chiudere gli occhi: sul fatto che Auschwitz sempre di nuovo accade, che sempre di nuovo l’uomo cade dentro quello stato di natura dal quale proviene e dal quale non può evadere. E’ la parola più dura della filosofia contemporanea, nascosta spesso dentro strategie di pensiero molto sofisticate, molto raffinate, ma che questo dicono: l’intrascendibilità della nostra provenienza, dell’orizzonte dal quale proveniamo, tanto è vero che sempre di nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte. Difficile immaginare, appunto, una risposta più cupamente ateistica e nichilistica di questa, ma anche più vera, con una sua verità che sembrerebbe difficilmente controvertibile. Non è forse vero che la violenza è in noi, che veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in noi ci sono forze che se non teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque di noi, il peggiore dei delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità negativa e terribile? Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma per i casi che la vita ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i genitori, il mobbing tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente male, che cos’è questo se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo naturale, maligna, ma in questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica, perché appunto è lo stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale sempre di nuovo ricadiamo in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo sia detto nei termini di Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a partire da Hobbes si elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che l’uomo ha per tenere sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si elaborino invece teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno alla natura, però questo ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’ una tesi che ha mille sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi della intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto, che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che cos’è? E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in un animale 2   è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante, anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace, la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera), sempre ha questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di sottolineare questo valore aggiunto, irridendo il nemico. Questo è nell’Iliade, come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri. Nell’Iliade, quando Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di straziarlo sotto le mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel di più, ecco ciò che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente umano. Nel soldato che aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico vinto, stuprando la sua donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice espressione pulsionale di qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco, c’è invece il desiderio di segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore simbolico), c’è il bisogno di umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità di ricadere nella quiete della violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora, se la violenza dell’uomo non è assimilabile alla violenza della natura, se questo valore aggiunto fa sì che la violenza dell’uomo riveli una sua irriducibilità all’ordine naturale delle cose, allora non è vero che lo stato di natura non può essere trasceso, non è vero che non è possibile affacciarsi sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da dove vengo io?” Allora non basta dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e dalla sua brutalità, io vengo da un altrove”. E’ una contraddizione, perché, se vogliamo dirla con una formula filosofica, la intrascendibilità dello stato di natura chiede di essere trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono impastato di quella pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono forze brutali, bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non soltanto la mia provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non so che cosa sia, che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare. Non mi basta riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento fa cenno, sia pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io fossi caduto, come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento potesse spiegare il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi, di due grandi filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della intrascendibilità dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi filosofi della modernità i quali sostengono quello verso cui sto cercando di condurvi e cioè che l’intrascendibilità dello stato di natura è contraddittoria. Certo l’uomo, con le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò di cui dispone, non può uscire dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma patisce, soffre, vive questo suo trovarsi in un orizzonte che è come un carcere per lui, appunto come un essere cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi guardo intorno, e tutto è confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace ( il silenzio di Dio), e non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente silenzioso, e il silenzio degli spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se voglio in questo orribile 3   caos muovermi e sopravvivere? Che cosa mi resta da fare? Prendere atto che le cose stanno così, seguire le leggi del mio paese. Già, ma le leggi del tuo paese sono esattamente l’opposto delle leggi del paese accanto. Che fare? Questa è appunto la prova del caos in cui versiamo. Ma il mio sovrano mi ha ordinato di uccidere quello che sta al di là del fiume. E perché? Perché sta al di là del fiume. Ma è una ragione questa? Eppure lo devo fare, perché, se non mi attenessi alle leggi del mio paese, cadrei in un disordine ancora più grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto: l’unica forma di sopravvivenza è quella garantita dall’accettazione dello status quo. Dice: “ Ma io mi guardo intorno. Questo è giusto, che cosa è sbagliato? Nulla è giusto, nulla è sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è atto, non c’è gesto, non c’è comportamento umano, anche il più abietto, che non abbia trovato il suo altare. Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è stato messo l’omicidio, sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un orribile caos, è quello nel quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi: intrascendibilità dello stato di natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco il passo in più che fa Pascal: l’intrascendibilità dello stato di natura è inaccettabile, l’intrascendibilità dello stato di natura non può essere vissuta se non come una condanna, e quale maggiore condanna che quella di chi vede che ogni atto, anche il più nefasto, il più delittuoso, ha trovato il suo altare? Quale condanna peggiore di chi constata che è costretto a compiere atti profondamente ingiusti e tuttavia giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?” “Perché il tuo sovrano te lo ordina”. Ed è giusto così, o meglio giustificato così, pena un disordine ancora maggiore. Questa è una realtà che non si può non accettare, una realtà che ci dice il nostro essere vincolati ad essa, l’intrascendibilità dello stato di natura, ma una realtà nello stesso tempo vissuta come iniqua, come inaccettabile: non la posso che accettare, ma è inaccettabile. Ecco la contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente, dovremmo dire: “l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo trascendimento”. Da dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così tanto all’interno di una situazione per la quale non vedo via d’uscita? L’intrascendibilità chiede di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la filosofia non può che aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come vedete, ben diversa da quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce da Pascal una filosofia religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una filosofia irreligiosa. Le fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in questione, ma è profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza c’è e non resta che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di là”. E’ una filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza c’è perché c’è la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che inquina, con gli apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci da tutto ciò, e ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo: filosofia, in entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a Marcuse, oppure da Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava, attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico, che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo, ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia l’illusione che “ omnia Iovis plena”, che gli alberi siano dei, che tutto gli parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4   sulla base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero? E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione, l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?” C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa eros ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros ed ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza, diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci, e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza, eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata, vita che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti, tutti figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il bene e il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è il contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la contraddizione dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima opposizione sia in eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi separata delle due forme di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica, che capiremo come l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e capiremo come la contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”, così prossimo a noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e che cosa se non eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa prossimità. Ma lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme. Perché c’è opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come espressione di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros è trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato morale: no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di trasgressione nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un movimento teso a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una fenomenologia che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior, questo superare il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello che è. Cosa c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un intimo dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo di fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5   sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice, come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé, bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto, molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci? Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante altre. Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa accensione si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente sorgiva, che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è assolutamente iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un unico punto, per così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode, e questa esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo, a partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore, che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due. Dentro questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di eros. Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è pura forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in sé, nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci, sono infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle varie forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il tremendo che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si scindono in due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea dell’amore, che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della felicità, della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea al di là del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma Afrodite è anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero che lo stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di più bello che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più innocente, di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un atto di sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido seminale, stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite che cosa dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco? Gli opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo innocente è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona pace dei teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato: “Liberatevi dai tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio dire che non ci si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più complicate: la liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte( antitesi) di qualche cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga sul fatto, sul rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi di fronte a 6   questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna pensare come hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo forse meno cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la figura della donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato ( che è un tema iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica dell’India ), della donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma volge lo sguardo, e questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che lascia: siamo fatti di una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è necessario gettarsi, raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la dinamica della trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che abbiamo perso, che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E questo che cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del tutto contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco come eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos è in sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo, che io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos (da cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un modo solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta, e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa, ma un po’ diversa . Se scritta con la eta, ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da cui abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi importa, lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un sapere demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio carico, costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se fosse solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe cosa tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto quell’altro: abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la società alla quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente e in base a dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a essere deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’ etica della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto nascostamente, bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto l’etica, la casa della comunità di appartenenza, della polis, dello stato, potrebbe non essere un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già, ma come fanno a stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la ipsilon? Come far stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene Antigone, e le leggi della città? Le leggi di coloro che stanno sotto la luce del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto? Contraddizione, la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra questo discorso con la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo visto, e mi avvio alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura, anzi, è la natura che è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato di natura: è quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui proveniamo, che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e contemporaneo, e abbiamo visto che non basta dire questo. Le cose non stanno così, perché qui c’è una contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla affermazione che la violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo accomuna alla bestia feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende irriducibilmente diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica la non trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere vissuta come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno stato che io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto Heidegger. Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi come gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove sono gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo valore simbolico. Lo dice bene Pascal. Tutto è simbolo, quella natura caotica, così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio mondo, è il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e l’infinito, e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente, di costruire un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e l’origine. Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è stato gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di eros e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia: Abbandonati; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza, la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a trascendere, trascendere me stesso. Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos; phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla, unelongated history of negation;  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library.

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