Grice e Ferrando: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di CORIOLANO, ovvero, la filosofia – scuola di Roma -- filosofia
romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Ferarndo; for one,
he is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he
philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of
Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca
Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il misticismo, il
transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista
s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e Coleridge, Carpenter (“La
creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi”
(Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni. È inoltre studioso
di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora con SALVEMINI (si
veda) alla propaganda anti-fascista e firma il manifesto di Croce. Espatria a
New York, dove continua la sua attività anti-fascista, insegna filosofia e
sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adotta la figlia Vasanti. Contribue
più a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento
more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove l’studente impara dal
tutore *come* pensare, non *cosa* pensare". RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY,
CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND. Fe. appointed Chairman of italian dept. Vassar Miscellany
News, Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” -- Coriolano politico e Generale
dell'Antica Roma Lingua Segui Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius
Coriolanus, generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens
Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i
Volsci. Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin.
BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come
semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per
il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo
in battaglia un altro cittadino romano. Secondo Livio e Plutarco a Gneo Marcio
fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di
Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri
storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città
stessa. Q. Marcius, dux
Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit
iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum
miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem
petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe
venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic
secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset. Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato
Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti
contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da
Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati
per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre
Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E
questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria
patria.» (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita) L'Eroe della presa di
Corioli Consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per
quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era
ritirata sul Monte Sacro. La situazione era poi resa oltremodo complicata
dalla necessità di definire un nuovo trattato (Fœdus) con i Latini, compito che
fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Fœdus
Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si
decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console
Postumio Cominio. Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando
l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata.
Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula,
Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con
l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Livio annota: L'impresa di
Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini,
concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso
a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che
Postumio Cominio combatté contro i Volsci LIVIO Ab Urbe condita. Dai contrasti tra
patrizi e plebei all'esilio. Intanto a Roma la prima secessio plebis e la
conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la
necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino
e Aulo Sempronio Atratino, Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del
prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio. In effetti la
contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e
patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione
dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione.
In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più
oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente
alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato
violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco
che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea. «...A
questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve
consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato
condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo
immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»
(Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine fu
citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di
Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in
giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo
fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo
Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al
ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i
commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna
fu quella dell'esilio a vita. La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio
scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio,
eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita
nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte
battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente
motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il
desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Marcio e Tullo
discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare
la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano
trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un
armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto,
annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o
falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto.
Plutarco, Vite parallele, Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine i Volsci
decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio
Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti si risolsero a
dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire
che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana,
evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la
discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere
ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e
senza aver subito alcun attacco dai Romani. Successivamente, mentre Attio
proteggeva con il proprio esercito la città, Coriolano volse il proprio esercito
contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il
montare della discordia tra i due ordini. Alla fine a Roma si decise di
arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per
proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni
dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la
rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese
Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium, senza
che i Romani portassero aiuto a queste città. Quindi Coriolano si accampò
a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, dove fu
raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò
Marco Minucio Augurino, senza però riuscire a far desistere Coriolano dal
proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero
Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti
con i Coriolani. Leggermente diversa la versione di Livio: Quindi
conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente
sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina
tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio,
Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse
Cluilie, a cinque miglia dalla città» (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita
libri) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava
il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del
Quadraro), mentre i consoli, Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzano le difese
della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della
moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a
desistere dal proprio proposito di distruggere Roma. «....Coriolano saltò
giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla.
Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di
abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se
nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.» (LIVIO
(si veda), Ab Urbe condita libri) Morte LIVIO (si veda) riporta come non ci è
concordanza sulla morte di Coriolano. Secondo parte della tradizione, è ucciso
dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto
le mura di Roma. Secondo Fabio, muore di vecchiaia in esilio. Plutarco e
Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano è ucciso da una congiura,
capitanata da Attio Tullio, mentre si sta difendendo in un pubblico processo ad
Anzio, dove è stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza
aver combattuto, da Roma.Poi, però, è dimostrato che l’azione non è affatto
condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di
Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il
sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono
onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è
vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10
mesi. CICERONE (si veda), nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne
accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati
dalla patria.Critica storica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano
rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte
dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre
che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono
giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un
condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La
circostanza che Coriolano non appaia tra i fasti consulares aumenta il dubbio
che si sia trattato di un personaggio storico (cf. Grice, “Vacuous Names”). Plutarco,
Vite parallele, Vita di Coriolano, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite
parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco,
Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Plutarco, Vite parallele, 6.
Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Livio, Ab Urbe condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Appiano, Storia romana, Livio, Ab Urbe
condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio
Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane CICERONE (si veda), Laelius de amicitia CICERONE
(si veda), Brutus. Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele,
Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita (che lo chiama Quinto) Ispirata
pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (in do min.),
composta per la tragedia teatrale omonima di Collin. Gens Marcia Volumnia
Veturia Coriolano, tragedia di Shakespeare Coriolano, Gneo Marcio, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Coriolano, Gnèo
Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Gneo Marcio Coriolano
Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Guerra Portale Politica Sesto Furio
Medullino Fuso politico romano Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio
Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio) CORIOLANO
Tragedia Note di Raponi. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello d’Alexander
(Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London), con qualche variante
suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la
“Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione
dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon. Alcune
didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la
migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è
essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono
introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo;
giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano
“entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si
trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni
“Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto,
intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere
della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu”
(i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del
dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in
atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata,
spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a
cominciare da Rowe. Li si riproduce come figurano nella citata edizione
dell’Alexander. CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite
parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa
Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini
politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in
guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive
nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica;
Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena
liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per
contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il
nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo(1);
Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico,
disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato
e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima
nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da
sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe
fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici
più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le
città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati
capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma
pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e
onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori, con i loro
derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia.
Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di
convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima
dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua
tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e
colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la
rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di
Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad
Alcibiade, che parla studiando l’avversario, per saggiarne i punti deboli e,
prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo
questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere,
l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica
che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza
volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di
matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del
Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto
guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”.
Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.
CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella
guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO
GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un
araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale
dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due
sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano
VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e
volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio
ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a
Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio.
PERSONAGGI Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con
mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare
avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti,
piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo:
ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio
Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano
al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti!
SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai
patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a
lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro
tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione
che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo. La macilenza
che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un
inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il
lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei
rastrelli, ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto
per sete di vendetta! SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse
prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un
vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia,
quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche
contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso
con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico
che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe
tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità
l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la
propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu
gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte
della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no,
ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà. Di difetti ce n’ha di
sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son
queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo
qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. -
Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon
Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.
PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO -
Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e
di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane
che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro
dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo
forti pure mani e braccia. MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti
miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già
siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente,
che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che
vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le
vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso
seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che
non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla
carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli
dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi
fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar
così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di
voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci!
Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i
magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon
solo gli strozzini; abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo
tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per
impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a
sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete
ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi
di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura. L’avrete già sentita,
ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più
trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con
un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un
tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco,
così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo
tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con
l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso
intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi
sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti
e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh,
sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per
dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne
affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso
farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere,
provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo
ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori
perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco...
Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore,
consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia,
la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e
piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti
insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla
addosso! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ...
dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco, ch’è la fogna del corpo...
MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto
si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io,
se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO
CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico...
Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario
dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo
tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia
così dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto
il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del
sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,
e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della
persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me
regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed
anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a
ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche
se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla
resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior
fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO
CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate
conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra
ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure,
digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e
troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non
vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu
che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO
CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più
schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a
tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie
da caporione sol per trarne vantaggio personale! Impugnateli pure i
vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua
cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra
CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo)
Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la
scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT.
- Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te,
chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete,
cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli,
l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che
siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No,
si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio,
che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è
punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha
punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre
simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va
desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse
dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse
l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?...
Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco
prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe. E adesso che
v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie
agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con
l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché
sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!...
Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel
che succede in Campidoglio: chi può andare più in alto, chi ci sta con buone
prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano
alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe
rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in
abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e
lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di
migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO
- Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti;
perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure
abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria.
MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato
sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i
cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini
soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza
esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha
esaudito una lor petizione... una richiesta assurda, da spezzare il più
generoso cuore, e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a
urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai
corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO -
Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei
cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più. Ma, sangue
degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva
scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere
legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una
insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla
folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO
MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio,
è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo
sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo. Ma ecco i nostri
più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi
GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto
ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano
Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo
valore, e se fossi altro da quello che sono, vorrei essere lui, e nessun
altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà
del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla
mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a
cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio,
unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio.
MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in
faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO -
No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra
come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue
romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si
trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A
Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi
la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile
Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano
anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a
rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha
buone prospettive. Seguiteci, vi prego. (I popolani si disperdono) (Gli altri
escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più
arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci
elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi? SICINIO
- No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le
staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda
luna. BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo
strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere
così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e
pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a
piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui
palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo
migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo
il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo,
abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto
gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se
l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce
della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio
d’ogni merito. BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a
Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma
muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come
intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO -
Andiamo. (Escono) SCENA Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni
SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a
conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo
pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad
effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche,
meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio...
Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual
destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande,
“e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il
vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un
romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione,
dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in
allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da
Roma ci sarebbe venuta la risposta)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una
follia creder che i vostri piani di battaglia avessero a tenersi sotto
chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29);
invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa
brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte
città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT.
- Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi
di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze
per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro
di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa.
Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e
soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo
incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI
- Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. -
Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una
parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e
VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno
mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio
sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore, che averlo a
letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere.
Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la
sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una
madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe
fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della
gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse,
sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero
felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse
incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno
col capo cinto di foglie di quercia. Ti dico, figlia, che di tanta gioia non
sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio,
quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA -
E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei
serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei
ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici
figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio
buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della
patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle
fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria,
per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei
ritirarmi. VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire
qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in
terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui
come bambini alla vista dell’orso... E vederlo che pesta i piedi a terra, così,
e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma!” e
asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar
pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il
campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?...
Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio
dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano
Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante,
schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che
siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA
- Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui,
che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo
piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno
a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti.
VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro: che
ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti
ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire
tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il
figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad
osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo
punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò,
poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e
giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse
urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana.
E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA –
È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA -
Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la
parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA
- Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no,
perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia
tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu
t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica
che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto e le
sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA
- Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca
affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che
tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir
di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il
tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago!
Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò.
VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di
tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne.
VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA -
Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore.
Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con
una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono
accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e
concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque
avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa,
mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto. VOLUMNIA
- Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che
rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora,
arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia)
Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non
insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio.
(Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA
L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con
un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa
loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati.
LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO -
D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro
generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma
scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro.
LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per
cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città. MARCIO -
(Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e
mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio
della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla
svelta qui, sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor
fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua
squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due
SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città?
PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno
che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano
a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in
trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano
sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da
sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è
là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro
dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore
sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle
mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una
sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli
scudi, all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a
spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia!
All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò
per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di
battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce
combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco
di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi
ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi
possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime
d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a
un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di
sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le
facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi,
scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi
combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo
alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati
alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani
hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino
alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni
inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a
gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO -
(Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da
folle, io non lo seguo. SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la
porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola,
sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso,
generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che
fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la
porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega!
Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti,
se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura
luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso!
Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e
tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido
della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il
mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante,
inseguito da soldati volsci PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma
quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui!
(Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V -
Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle
spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa
roba me la porto a Roma. SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO
SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso
per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO
MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati
con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo.
MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per
costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini,
cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le
portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo
a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti,
senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo,
Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di
Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti
servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di
farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile
Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO -
Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di
sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a
Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna
innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te
le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non
meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna decide di
portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’,
recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della
città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono)
SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in
ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti!
Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza
vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo,
di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri
dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come
speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti,
incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di
ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di
Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e
Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro
trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio
così. Da quanto tempo sei venuto via? MESSAGGERO - Da più di un’ora.
COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco
si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a
percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle
mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a
fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei
recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è
laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio!
L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo
tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di
quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo. MARCIO -
(Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta
tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti
abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia
ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le
fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i
guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad
emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi
accettando il prezzo del riscatto, con chi indulgente, con chi rigoroso;
tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da
lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel
miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva
ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare.
T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli
han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati
più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per
spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare,
padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora,
Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati
di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il
loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è
dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più
affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti
supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che
insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi
trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad
attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di
spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia
condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite; ma non saprò
giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti
nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti.
(Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui
piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se
c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa
che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più
che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla
come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir
Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio
sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate
una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale
di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al
grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi
debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa,
quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in
bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi.
COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete
sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e
di bottino. (Escono marciando) SCENA Davanti alle porte di Corioli TITO
LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per
recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri
soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate.
Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle
centurie in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per
poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla.
LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e
chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci
fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA - Il campo di battaglia. Allarme
d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con
nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore
spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più
della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un
solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in
eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre
abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo
ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto
quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è
mio. Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu
vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa
progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci
accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi
soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto
m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA Il campo romano Squilli di tromba
come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di
ritirata Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO
con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che
t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo
riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad
ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro
increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti
d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi
tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a
malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza
dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già
mangiato a sazietà. Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver
inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il
cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi
visto!... MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha
il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi,
mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi
animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato
con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me.
COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto
vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento
peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata
sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della
realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che
tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro
esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare.
COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine,
curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam
catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo
ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente
prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non
potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco per pagar la mia
spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto
tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti
gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio
restano a capo scoperto) Questi strumenti che voi profanate non risuonino
più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di
battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di
genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la
seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta,
basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol
ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han
fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle
stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a
vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di
menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama
che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace,
però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad
uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi
sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti
qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa
sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto
il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha
compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido,
si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano) Di questo titolo sii sempre
degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio
Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso poi che
l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi
ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome
che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero.
COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare,
scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che
torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene
loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi
cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un
principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo.
COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più
d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese.
L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in
quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto
la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E
bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe,
come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio?
CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente
affaticata... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo,
vieni. Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo,
adesso. Vieni. (Escono) Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO
tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO
SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano
vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone
condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé
dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu
m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante
volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se
accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il
mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo
di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o
l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È
il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio
valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per
causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né
santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre
preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato -
ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e
dell’usanza che ancor li sostiene. Dovunque me lo trovi innanzi agli
occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia,
contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore...
Tu ora va’ in città, informati in che modo è presidiata e chi son quelli
ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu
non ti muovi? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego
(è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io
possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così
sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO e
i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa
sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da
piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure
agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a
chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per
sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei. BRUTO -
Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive
tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo.
I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio,
che voi due non abbiate in abbondanza? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di
tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di
boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è
buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo
a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo
giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non
andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco
male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)...
Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi
umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi,
accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo
lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi
che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi
perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia! Ah,
poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare
un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO
- Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e
tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce
n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto...
MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale
piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di
cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che
prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della
notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla
bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non
posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa
ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie
vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un
concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete
uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre
facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla
mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di
conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre
miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di
conoscerti abbastanza! MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi
stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di
misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera
mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana e un venditor di zaffi,
per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se,
mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte, v’accade d’esser
colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle
marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia
aspettare, e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel
mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima; col risultato che la conclusione
che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver
chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E
tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che
come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio!
MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se
son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca. Quel che
sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre
barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da
imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un
basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che
Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri
antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra
coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario.
Ma buona sera alle eccellenze vostre; ché a star ancora a discuter con
voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le
cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e
VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le
mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse
terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi?
VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci
andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì,
Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO
- (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi
il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA -
Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il
Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua.
MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto
a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho
vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di
salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina,
la ricetta più eccelsa di Galeno è uno specifico da ciarlatano! Peggio d’un
beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le
altre volte. VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed
io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo
grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA -
Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col
capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere?
VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è
scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto,
io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta
custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A
Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon
meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito!
VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite
questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?...
(S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio le
salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser
superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al
braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici da scodellare al
popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo
nel cacciare Tarquinio. MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e
fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata
questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca
la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con
clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta
innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta
di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui
colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e
TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi
ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto,
lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome:
Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo.
Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto,
illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO -
Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel
mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su!
Marcio mio nobile, mio degno Caio... ora che t’hanno dato un soprannome
in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!,
ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto!
Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere,
ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a
Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E
ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria)
Oh, mia gentile signora, perdonami. VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A
Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO -
Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son
triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il
cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta
Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli
selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro
dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo
sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio.
CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A
Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di
ritirarmi in casa nostra(92), debbo rendere omaggio ai senatori dai quali
insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta
fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca
solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO -
Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere
loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al
Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO -
Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si
procurano occhiali per vederlo. La balia, per pettegolar di lui, lascia il
proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la
sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa e per
vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre;
su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma,
tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato
di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un
posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un
velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino,
espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98):
un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia
insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina.
SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console. BRUTO - Allora sì che il
nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato!
SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà
col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il
popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà,
alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà
lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia
nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a
console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare
la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne
i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui
piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa
richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non
desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in
conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora,
come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se
no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al
popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per
lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio
i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor
capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al
mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol
perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto
quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va
ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il
colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi
stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro
un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie
stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO -
(Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in
Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per
vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro
guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti;
i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol
tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose
mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore
pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono) SCENA II -Roma, il
Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori
PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a
concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad
ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come
nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son
ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in
simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è
così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque,
riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano
in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere
ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero
non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi
in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio
più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione
perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO
USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non
è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e
premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza
aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene
a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta,
che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si
renderebbero certo colpevoli di una forma di nera ingratitudine. Così
come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi
da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con
sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo
luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i
SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti
sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta
in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di
richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda
di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha
combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e
saggi maggiori, a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa
dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta
esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale
siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a
tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la
parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir
prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra
repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a
voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo,
chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la
vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà
qui deliberato. SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una
materia che trova tutto il nostro gradimento; e siam di tutto cuore favorevoli
ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E
tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il
popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato.
MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a
stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO -
Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento
di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro
popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto.
Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e
fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO
SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te
ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi
scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad
ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio
sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole
spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate
sarebbero riuscite a trattenermi. Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le
parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per
quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei
restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse
l’allarme di guerra, che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i
miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi
adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro
canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora
visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio
a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi
mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104).
Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la
possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari
al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva
già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo che voglio ricordar
con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e
ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a
gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre
nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in
ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto
recitare una parte di donna sulle scene, si dimostrò il miglior soldato in
campo meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia.
Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è
venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a
ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura
di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha
fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco
quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto
d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e
cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque
s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo
punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città,
segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne
sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un
fatal pianeta. Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il
lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il
suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di
stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa,
fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai
più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la
città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo
al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno
degli onori che abbiamo in animo di conferirgli. COMINIO - Ha respinto
con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di
valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la
stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il
compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo
scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un
ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO
- Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO -
Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al
popolo. CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io,
quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo
della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie
ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la
sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO
- (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza
nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti
quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a
recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A
parte, a Sicinio) Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a
vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai
indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per
guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso!
(Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra
delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello
console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano!
(Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due
tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il
popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a
sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano
loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto
è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un
gruppo di CITTADINI SCENA Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede
il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì;
basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci
manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci
spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua a
quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar
le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa
gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi
ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo
parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far
ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò
un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte
teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa
fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma
son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io,
per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un
sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e
il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di
volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali. SECONDO CITT. - Così
pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO -
Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa
com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe
filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per
andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata
con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a
te, per aiutarti a sceglierti una moglie. SECONDO CITT. - A te la voglia di
sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO -
Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no,
non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un
po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che
viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica
dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non
restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a
tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi,
singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la
propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate.
TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far
così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te?
CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non
me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie
ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei
compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri
tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori
tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te.
CORIOLANO - Di me... Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari
si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i
preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di
parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di
lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il
TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai
il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci
porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO -
Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo
volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera
gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare
che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio.
CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al
consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E
gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da
mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon
voto, amico. Che mi dici? TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio.
CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho
intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene)
TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo
di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini)
Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di
grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi il fatto
ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla
consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non
bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi
nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la
povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto
più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato
nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio
grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo
per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor
saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora
innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata.
Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo, che
elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico,
fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti
diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite
per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor
conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e
così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità,
te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che
dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una
mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo,
in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei
quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in
tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato
mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si
formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi
impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte
del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me
disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato
la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO
Ma ecco altri voti. (Ai due) I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho
combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di
me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato diciotto
fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte
importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben
portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. -
Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene
al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile
console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e
BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto
del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della
carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO -
Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato
in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì,
Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO -
Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me
stesso. Poi andrò al Senato. MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi
che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo.
SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo,
e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno
portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo?
(Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque
preferito lui? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO -
Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È
quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava
il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei
fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No,
lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir
così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le
ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro.
TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto,
sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato; e col
berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice -
esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri
voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del
vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i
vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa?
SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto
ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo
ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun
potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre
contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e
adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad
essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere
per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le
sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui
aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che
l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico
vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste
scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste
forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al
peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di
assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così
perder le staffe, avreste poi potuto trar partito dalla sua collera, per
non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di
disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E
come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale
malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun
cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto,
contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel
passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed
ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li
ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO -
Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto.
SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci
su questa nota. PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici
in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi
vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni
diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare,
e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più
serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e
sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale
aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto
stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,
memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo
comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui
conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri
Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero
ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per
conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le
vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad
esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto
ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a
noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi
abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come,
ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi
negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente
“marciana”, da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a
Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione
di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel
Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per
voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e
onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati
noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver
bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del
passato, avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e
gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non
sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi
avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi
tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non
c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che
tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per
questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla
rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa
sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca
tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro
iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno.
(Escono) ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO,
MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio
sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì,
Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo.
CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso
appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile
che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento.
CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto
salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano
ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha
parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto?
LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada;
che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre
che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così,
senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E
vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì. CORIOLANO - Come vorrei che
mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo
odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO
Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare
bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità
contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar
oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre.
Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che
succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO -
Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora
quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare.
Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole.
SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge,
eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno,
e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la
loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad
aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo! CORIOLANO - (Ai Senatori)
È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei
nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di
governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il
popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché
quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad
alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro
parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili.
CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di
loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi,
io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO -
Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma
certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo
di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu
porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme
raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno
spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser
console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.
MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato.
Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita
davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del
suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto
allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No,
Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la
mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia
voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si
specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di
assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione,
dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi
stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a
noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei
pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo.
CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza
aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino
a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo
d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli
del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e
non un uomo affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il
popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO -
Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei
sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve
rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!...
Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo
“deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O
buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete
permesso qui a quest’Idra di scegliersi un suo proprio magistrato che con
questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro non si fa
scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la
vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un
tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate
dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non
comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur
sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già
ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il
tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo
è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro
un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto
questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa! E mi
sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella
contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può
infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro,
dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far
distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche
volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO -
(Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il
popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la
disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare
il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le
mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il
grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun
servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il
cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le
porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da
meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno
parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova
- oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile
motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde
accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come
questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre la cortesia che gli ha
fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro
parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per
paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia
di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual
ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor
v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile. MENENIO - Via, basta!
BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto
sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui
giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione,
disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e
saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il
“sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe, è costretto per forza a
trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili;
talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a
proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni
saggezza - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché
dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite
una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato,
destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa
lingua dal corpo dello Stato, ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è
anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione rende monco ogni sano
giudicare, priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la
sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa
di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha
parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO -
Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con
queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si
sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li
hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma
soltanto la forza era la legge. I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica
che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor
potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui?
Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli
Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in
comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto
come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano!
T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei
accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me,
vecchio caprone! SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui.
COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù
le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci!
Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO
- Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla
folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO -
Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi!
L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori!
Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi
un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla
rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A
Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia...
Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla,
parla, parla! SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che
avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu
invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in
questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il
popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per
loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali
resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la
via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle
fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane
d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra
autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo
eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è
meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che
aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla
sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO -
Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico. EDILI - (Alla folla)
Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete
apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò
che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO -
Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un
veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti,
impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO -
(Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi
che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel
che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un
momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto!
Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte!
(Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A
Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena.
UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro!
Siamo, amici e nemici, in pari numero. MENENIO - S’ha da arrivare a
questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti
prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO
- Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi
curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei
che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a
Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al
portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la
tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo. CORIOLANO - (Senza
ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei
farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma
qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia
quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare. È meglio
che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai
è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli
argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che
incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico
spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede.
Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.
COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO -
Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO –
È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo. Mai
s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in
bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il
cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori
da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei
saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine,
però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e
SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe
di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO -
Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani
inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà
concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente
disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca
del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO -
(A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla) Silenzio, olà! MENENIO
- Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in
modesti confini. SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai
favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del
Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che
console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI
- No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e
vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad
ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene
parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci
subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già
rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti.
Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte.
MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre
Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata
nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie
creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No,
Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è
facile. Che male ha fatto egli, a Roma, per esser messo a morte? Il
sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è
assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato
per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che
gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo
permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del
mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il
contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese,
il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non
s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza. BRUTO - Basta
con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua
infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora
una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà
qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi
di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se
volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla
grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così
fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo
assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili?
Aggredito noi stessi?... Andiamo, via! MENENIO - Considerate questo che
vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una
spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato.
Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar
da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma
ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È
questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe
via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene,
allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla)
Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di
nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio,
procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia
consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il
peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II
-Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi
facciano crollare il mondo addosso, mi minaccino morte sulla ruota, o
trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra sulla Rupe
Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso
di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti
rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre
non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente
servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute
poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate,
bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del
mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo
appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera
natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che
sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi
indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia
andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di
ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi
esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere
di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad
impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi
SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi
ripresentarti a loro, e rimediare. PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o
la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne
prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un
cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto,
nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a
questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come
un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura,
con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO -
Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti
di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno
con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo
altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un
nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire
sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici
inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal
seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO
- Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri
onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere
i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di
valore, accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le
cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo?
VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo
la tua ispirazione, o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate
a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto
con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che
ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili
paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di
fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione
a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in
gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal
frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili;
e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a
far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor
simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO -
Nobile matrona! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole
acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma
rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti
scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo
gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre -
in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti
son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo
come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per
l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro
che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai
quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di
usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora
in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in
te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come
lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo
chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla.
VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo
nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco
piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO -
Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene
accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto
furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se
saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che
sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia
zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e
comandargli di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol
di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome
Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al
Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo.
COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego,
hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e
questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo
farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una
puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti
nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della
verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino
accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto
m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una
lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo
sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato
l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me
stesso, e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima
una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più
vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E
lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per
questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della
morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato da
me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego.
Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per
conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai
tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando.
Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà
fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio.
(Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con
calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai
più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è
la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per
quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E
come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA
III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua
mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo
comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non
è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene? EDILE – È qui che
sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi
che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli
abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me,
completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in
assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia,
per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a
pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”,
se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura
l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li
informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare,
ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto
sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran
numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto.
BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio)
Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se
contraddetto: una volta scaldato, non ha più freni alla moderazione,
spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il
destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO,
con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano)
Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per
i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte)
Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti
seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi
l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le
nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE
con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate
i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va
bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre
accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se
intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi
rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le
colpe che saranno a tuo carico provate. CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo
sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare
giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite
che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO -
Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate
poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere
il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi
vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato
e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per
qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi
leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il
vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me
rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento
di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse
vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO -
Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa...
CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io,
traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi la morte
ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella
tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce
dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO -
(Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO
- Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto,
udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha
resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che
devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che
la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma...
CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco.
CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa
fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper
altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad
andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di
fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a
comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà
a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,
bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni
ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo,
cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa
s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve
amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo
bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser
precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel
nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da
Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei...
Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno
fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero,
più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia
cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò
s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare.
BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico
di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO -
Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria
d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante
l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da
me! E qui restate coi vostri orgasmi! Che ogni minima voce metta a tutti
in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume, vi
piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando
a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla
impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi
facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una
nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia
città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce
con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è
partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti,
gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla
porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col
quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una
guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla
porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i
nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono) ATTO QUARTO SCENA I
-Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA,
VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla
moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala
bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque
l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi
prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa
sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si
mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i
colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le
ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il
cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO -
No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e
muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno.
Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi -
ricordi? - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle
sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti
contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela,
malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più
salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi. (A
Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a
viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che
piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne.
Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’
certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa
temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede,
questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo
col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai,
figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi
che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul
cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così
potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e
tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria,
non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere
il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di
chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano
ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura
per il mondo con uno che ce la può far da sé. Accompagnami solo per un pezzo
fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil
tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego,
andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non
saprete mai nulla di me se non di quel che sono sempre stato. MENENIO -
Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente
lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe,
ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia.
Andiamo. (Escono) SCENA Roma, davanti a una porta della città Entrano i due
TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che
procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte,
abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti ci conviene
mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile)
Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è
sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua
madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio.
BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti.
Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più
schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini possano
ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte
mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso...
(A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi
dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate
uomini? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire,
pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la
volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato
più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì,
colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che
ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio
si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù.
SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta
la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo,
con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO -
Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non
avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto... BRUTO - Ah,
sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio
voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i
meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo!
BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella
prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il
Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di
costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta
tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a
sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due
Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi
altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi
due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato
dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente,
ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il
mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò
di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio
io, di rabbia, alla maniera di Giunone. Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia)
MENENIO - Vituperio, vituperio! (Esce) SCENA La strada fra Roma e Anzio
Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi
NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi
sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di
te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i
Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio
lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la
voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo
volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino.
NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in
rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”.
Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi
apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle
lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una
scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del
prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni
potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico,
e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito! NICANOR -
Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua
informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre
udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha
litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in
gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in
disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una
fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia
missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena
avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici.
Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito!
Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello
Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR -
Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello
che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque,
amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le
parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene,
incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio
Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella
città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho
udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere.
Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le
lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve,
amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta
di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a
casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua?
CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il
Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da
sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le
ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero
stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in
tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore
dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con
l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia
d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto
il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città che mi è stata
nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se
m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V -
Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e
traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi
paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO -
(Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra
CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io
non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi,
amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce)
CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior
trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti,
amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come
te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria,
sparisci! CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci
fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un
TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno
strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo
via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci
fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in
piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO -
Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero.
CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego,
scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO -
Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli
dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non
vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha
dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano)
Dove stai di casa? CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO
SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto
baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi. TERZO SERVO -
Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora
alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al
servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che
far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver
a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo
tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO
col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando
Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho
fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e
Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che
vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO -
(Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a
guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO -
Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica agli orecchi dei Volsci, e
soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo
nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il
tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà.
Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora
dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome.
CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a
tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome:
Coriolano, che m’hanno dato a Roma. Il gravoso servizio militare, i pericoli
estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente
patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo
soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il
rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le
crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han
lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso
ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo
di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza -
non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e
c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per
rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi
nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la
vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non
esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia: usala in
modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti
dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli
d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove
sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a
te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti
soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre
botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo
completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno
al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue
m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da
quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a
lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un
abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò
cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece
stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto
nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo
valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo
sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con
più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima
volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte,
che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta
m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di
perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra, tu m’hai piegato, e da
allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due
avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro
per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla,
solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua
cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta,
e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo
su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a
stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo
ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O
dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo
amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e
decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu
conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio,
cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella
periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per
prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii
dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato,
Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e
il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva
metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di
cacciarlo a bastonate... Però dentro di me lo sentivo che il suo abito
non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro
con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola.
SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una
tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva
un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci
aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo
stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto
al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di
lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO
- Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non
esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in
coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro
generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco.
Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che
notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra
tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come
una condanna a morte. I DUE - Perché, perché? TERZO SERVO - Perché quel
Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con
noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO -
“Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere.
SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un
osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo
duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una
braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur
cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO
SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di
Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande,
s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta
come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a
sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il
nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso
quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice,
a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni
cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed
è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo
farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici
non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre
lui è in discapito... PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO
- ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran
fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli
grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito.
Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse
l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi
s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un
po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere
il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me,
dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è
migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è
piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda,
insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida
uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un
verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti.
PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico:
perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la
guerra a me va proprio a genio! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi
l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO -
Dentro, dentro, sbrighiamoci! (Escono entrando nella sala da pranzo)
SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui
non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono
spuntate... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita.
Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi
amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi,
vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i
nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam
puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO -
È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute,
amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere
molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene
in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con
lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo
aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so
nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano
alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro) Gli dèi v’assistano sempre,
tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO -
Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli,
a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente!
BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la
premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE
TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi
più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le
strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato
certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé...
SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della
repubblica, senza collega. MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a
quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse
salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui
assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi
tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo
dappertutto la notizia che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son
penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo
ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che,
avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha
mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma
combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile)
Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da
romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può
essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che
fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la
vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da
far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no,
non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione,
stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È
tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti.
L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no!
Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile!
SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche
diverse - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a
Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando
una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più
vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar
negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO -
Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son
due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra
un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al
comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori,
travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé.
Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto!
MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio
dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche
il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre
mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare,
incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie
e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO
- Insomma, che notizie sai? Ti prego! (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho
paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti?
Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida
come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più
capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di
noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che
inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a
macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed
i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto
della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la
farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole,
scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro!
BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire
che non l’è, dovrete divenir pallidi morti. Tutte le genti gli aprono le porte
sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono
da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i
vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti
spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla?
I Tribuni? Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui
merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se
costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe
l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo
nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me
l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti
scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro
artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai
fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra.
MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da
nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando
l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno
urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel
mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica
di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due
sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il
branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli
avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole
vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna,
e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi
tutti: farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in
aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci
mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo
meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per
parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva...
SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece
così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se
pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO -
Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro,
voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio?
COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO
- (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là appartengono a una
parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno
finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO
POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che
facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per
questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani) BRUTO - Brutte
notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio,
se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO -
Prego, andiamo. (Escono) SCENA - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano
AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)?
LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno
sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor
discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in
ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento
non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare
i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi
mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in
ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile
correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso
interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi
da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata
solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che
dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui.
Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli
occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà e dimostri d’avere
buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un
drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una
cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il
mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che
pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località
s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è
tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo
non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo
quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani
quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della
natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di
mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio -
che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza
di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente
in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente
inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero
al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la
pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi
difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al
massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti
temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che
annulla ogni difetto al solo dirlo. Ma le virtù degli uomini, si sa,
soggiacciono alla stima del momento; e il potere, in se stesso
pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò
che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro;
così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra
forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il
più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono) SCENA Roma, una
piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci
vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante
e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con
ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda, un
miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è
dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come
se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel
passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia
amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome
“Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla,
un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un
nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai
Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia
di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a
buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di
ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto.
ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso
stesso aveva castigato. ATTO QUINTO MENENIO - Benissimo! Poteva dir di
meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più
cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un
mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar
qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi
il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di
frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo
figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i
granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita,
che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati
a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti
rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci
almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di
lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro,
come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No,
non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che
cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo
legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro,
senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?
Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare?
SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non
ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata.
MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene
quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto
Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non
fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle
vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo,
siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece,
abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si
canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri
digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto
ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la
strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire.
MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci
sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO -
Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto:
se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col
solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184) è il carceriere
della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena,
in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha
congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel
che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così;
non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua
sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò
muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono)
SCENA - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due
SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati!
Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra
licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a
Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si
passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a
SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con
Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il
vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille
contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio. 1a
SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta
niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale
tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose
imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’
gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre
bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette.
Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un
fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta
falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare.
1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie
per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se
fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per
favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato
partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere,
come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di
lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra!
MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima
ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro
generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto
l’odia lui. Come fate a pensare che dopo aver cacciato dalle porte colui
che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo,
possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di
vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre
figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come
puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui
fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila,
tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti
condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono.
MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi
trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno
sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che
vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non
vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta.
Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento!
Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla
sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo
superiore! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di
sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano.
Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la
forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare e poi svieni,
per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso
ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo
vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco
qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui
da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro
all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato
spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei
supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian
cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella)
che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO
- Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li
conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto
mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia
stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la
pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre
suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi.
Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una
lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non
starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti:
eppure tu lo vedi, Aufidio. AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante.
(Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è
Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la
conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver
bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire,
secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo!
Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete
al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di
morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro
generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli
anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA -
Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il
nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli
soffino contro. (Escono) SCENA -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO,
AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito
proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai
sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata
avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini e sei rimasto
pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato
colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare.
CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a
pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui
ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome
dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una
seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan
rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui
che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio,
d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli
amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi
tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò.
Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra
sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma
prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue...
Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del
sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me
gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma
oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi
s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e
il mio ragazzo ha un’aria così supplice ha un’espressione così
supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di
no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma,
e rompano col vomere l’Italia! Non sarò così insulso da cedere alla forza
dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso
ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO -
Questi occhi non son più i miei di Roma. VIRGINIA - È la grande afflizione che
ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da
cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!...
(Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte,
perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi
nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo
lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la
gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e
vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando
senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di
Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una
devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati,
figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a
te su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se
stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il
rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa
questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte
da te rimproverato? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie
dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro
il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo
facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio
guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria)
CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il
ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di
Diana... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la
tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà
maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso
del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove
ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al
disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al
mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono!
VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo
figlietto! (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su)
VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre,
siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se
qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che
giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le
concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla
plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con
più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta,
basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo
che da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo
chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla
tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite;
perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che cos’hai da
chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza profferir
verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che genere di vita
abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che donne
sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se il
sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di conforto
i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di dolore, e
far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre che
strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra
divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri. Ché
almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per causa
tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo per la
nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua
vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria,
nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo
incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo
augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto
attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di
questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e
dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione
d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non
potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto
che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai!
- muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il
ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha
partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO
MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma
poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non
vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo
ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio,
non lasciarci così! Se il nostro chiedere mirasse solo a salvare i Romani
e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come
avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un
lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani:
“L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu
sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come
incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti
Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato,
sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così
d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però
l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed
il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai
sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar
gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare
la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo...
Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla
memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché
delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo.
Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a
dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua
madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua
madre non hai avuto mai in vita tua un tratto di filiale gentilezza; per
lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre
accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e
carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con
disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare
questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre...
(Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù!
(S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni!
Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà
per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a
Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che
non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi,
sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel
respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una
Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A
Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in
silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche
parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre
mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi
a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per
Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma
esponendolo a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia!
(Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà.
Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio,
avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono
commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i
miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi
concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti
prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie!
AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra
pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna.
CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete
riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un
documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a
noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio: tutte le spade che sono in Italia e
i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA. Roma,
una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra
lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora? MENENIO - Ebbene allora
se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che
le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non
c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il
boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un
uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è
stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha
messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era
molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso
si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa.
Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando
cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si
raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi
di campana a morto, e borbotta come una sparatoria. A vederlo seduto sul suo
scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito
prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio,
l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo
ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà
ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre
maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi
misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo
per loro alcun rispetto quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora
che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un
MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno
preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le
matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo
linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie?
SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno
sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno
alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio
sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora
che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con
l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le
porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci,
alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e
tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno)
MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo
lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come
te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete
aver pregato bene: stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle
vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno)
SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai
portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di
far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la
città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro
incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso
la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con
VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE
- Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata
le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali!
Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che
mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando
tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone,
benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA Corioli, una
piazza Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai
senatori ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La
leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io
fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa
accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo
nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono
alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti!
1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato
dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO -
Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai
voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran
pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori
del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il
contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per
quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su
solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà
l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli
con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha
piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa,
indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,
quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO
- Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia,
presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel
comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci
sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio
perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato
a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io
stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la
parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado,
ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se
fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta
sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran
bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui
concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è
costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro
lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed
io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e
trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua
città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed
ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E
questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli
si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento
giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della
spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai
così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO -
Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad
Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili
signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO
SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui
commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile
ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio
beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro
carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso...
tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È
qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in
marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a
voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la
mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla
vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo,
e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi fino davanti
alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno
un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto
onorevole pei Volsci quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il
documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi,
munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite
piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri
che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio!
CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi
forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a
Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato
con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì,
dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e
alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta
tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle lacrime
della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la nostra
vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze dell’esercito(203)
e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio, sbalorditi.
CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio, piagnucoloso
ragazzotto! CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro! CORIOLANO -
Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore! “Piagnucoloso
ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta in vita mia
che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi, sarà
smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che porta
stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella tomba
le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per
ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed
ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e
ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane
bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci
dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i
vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso
ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo
maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi
vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra
vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì,
facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me
il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze!
Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome abbraccia tutto l’orbe della
terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo
legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO -
Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e
tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente
canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e
uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I
COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi!
Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE
- Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione
sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo
corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete
conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato)
qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia
stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi
davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra
giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il
cadavere. Si prepari per lui un funerale con la solennità che si conviene
ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2°
SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora
ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora,
tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una
mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu,
batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città
molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da
noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono
portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo). Sapeva,
come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere,
ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte,
“Memorabili”, citato da Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi,
Melchiori, “Shakespeare”, Laterza, Bari “Il préférait l’opportunitè aux
principes” (Romilly, “But they think we are too dear”: frase d’incerta
interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così
come siamo”, cioè magri. “Ere we become
rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello”
(“as lean as a rake”). “I need not be
barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. Il testo
gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad
smelling”, “fiato che puzza”. “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha
il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”.
(9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra.
“Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua
sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso
la propria stizza. “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei
mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II” “Light vanity,
insatiate cormorant”). Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”:
“... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. “... and fit it is”: “is fit”
ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore
avversativo. “The one side must have the bale”: la
frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di
scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole,
quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia
persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore
principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa.
L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta
sono il suo magistrale coronamento. “The one affrights you”, letteralm.: “L’una
vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il
disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”:
“to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se
necessario, con la forza”. In realtà il Senato romano non si riuniva in
Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso
il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è
il centro politico della Roma antica.
“... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500
era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. “Convinti”, cioè, a
desistere dalla sommossa. “What says the
other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha
detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. Il testo, come spesso
in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla
generosità”. Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis”
nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si
sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono
soltanto due, Bruto e Sicinio. Per Coriolano, rappresentante della classe
guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e,
insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty
superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. È il primo tratto, dopo le
sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo
carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua
rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. “.. his
lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. La luna come divinità era impersonata da
Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato
anche in senso lubrico. “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer
us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a
risponderci”. Cioè al momento della loro messa in atto. Plutarco - ch’è la
fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i
Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o
perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o
perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero
sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”). La guerra cui
accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di rientrare
a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini. Questa immagine nella
mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella polvere,
presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che
schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico
presagio all’inverso del destino di Marcio. “You were got in fear, though you
were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene
siate nati a Roma”.“It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo”
era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore
appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in
voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero
d’oro. Cioè conquistare la città di Corioli assediata. “Amongst your cloven
army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano,
l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo
Aufidio. “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo
essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante,
“Inferno”: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad
immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). “A carbuncle entire”: “entire” è
qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica
dalla sua luce. In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma
Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi.
Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse
bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a
Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio
che gli farà più sotto Cominio. “their honours”: si accetta la lezione
“honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours”
dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per
costoro...”). “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono fasullo
e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che
Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. Il boia aveva il diritto di
appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. “The general” è,
s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e
mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. La traduzione
letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il
tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio
da quello di qualsiasi altra”. Cioè:
“Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma
se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”. “O me alone, make you a sword of me”: è uno
dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire
da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai
soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”;
chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura
(Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare
Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla
battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni,
anche la più poetica. “... dispatch
those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce;
forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste
accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle
sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. “Fear not out care,
Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”. “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui
piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”.
“Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama
Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad
intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù
guerriera. Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la
“Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. Senso: “Eppure a questo
banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu
non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già
fatto (a Corioli)”. Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte
pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che
parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per
l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di
partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo
una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia.
E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa
intendere. “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”:
in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per
corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. La didascalia ha
“Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano. Perché la
loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. “Let him be
made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di
“ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase,
sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato
da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino
“vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia
ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di
duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a
“parasite” del verso precedente. Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è
tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che
giustifica le manette). “... that Caius Marcius wears this war’s garland”:
letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa
guerra”. D’ora in poi, il personaggio
sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. Questo
episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli
chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco
psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però
l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor
man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è
stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune
umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (Melchiori,
“Shakespeare” Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui
ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è
avvelenato. Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della
cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati)
impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo
in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni
religiose o sacrificali. A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che
chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno
all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il
quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente
machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che
disprezza e insulta la soldataglia romana che pensa più a far
bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento
smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli
occhi degli assedianti. “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad
Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una
città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non
saperlo. “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di
“povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non
avrebbe senso. “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di
Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata
ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. “... for a very little
tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “...
perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”.
Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare
sproporzionatamente irascibile e intollerante”. “One that loves a cup of hot
wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per
“caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso in
Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole. Licurgo, il grande uomo politico greco,
divenuto esempio di saggezza politica. “... I find the ass in compound”:
letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. Il
testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. Menenio parla qui come
se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è
storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso
classico di persone investite di pubblica carica. “...(you)... set up the bloody flag...”: la
bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città
assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa. “... against all patience”: cioè non
curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche
intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. Il testo ha: “... the more
entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra
udienza”. “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso
di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. Con
capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche
palle da tennis. Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè,
progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età
del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione
costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli
unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando
sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da
Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. Galeno, il
padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore
di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo,
dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! “... is but empiricutic”:
“empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave comico-
dispregiativa, di “empirical”. “... and
not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia
pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al
popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò
s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. “God save your worships!”: “God”
al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana.
I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). Coriolano aveva partecipato
alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto,
figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione
della Repubblica. Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura
non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare
l’ingresso in scena del corteo dei vincitori.
“My gracious silence, hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa
contiene una tale carica di poetica tenerezza, che comunque tradotta
diversamente dalla sua lettera, si perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita
sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo
stesso! “And live you yet?”: letteralm.:
“E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è tutt’altro che un
saluto. Si scusa con Valeria per non averla vista prima. “A curse... at very
root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”, come intendono molti; il
vocabolo, nell’inglese aveva lo stesso significato di “bane”, termine che
esprime tutto ciò che distrugge fisicamente, fino a far morire; perciò
“cancro”. “By faith of men...”: espressione da intendere non altro che come
semplice esclamazione derivata dalla più usata “By my faith”, che riecheggia il
francese “ma foi”. Non credo si possa intendere “Per la mia fiducia negli
uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto senso, specie in bocca a
Menenio. “Ere in our own
house I do shade my head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla
vista degli altri”, “to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. “The good patricians must be visited”: qui, come
altrove, Shakespeare chiama “patricians” i membri del Senato. Altro
smaccato anacronismo: nella Roma di Coriolano gli occhiali non esistevano
(furono inventati intorno al 1300 dopo Cristo!). “... her richest lockram”: il “lockram” era
un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia,
dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è
indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). I Flàmini (“Flamines”) sono sacerdoti
incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”,
sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano
attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana
(filamen). “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in
luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come
verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella
circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”.
Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di
vestire “rich, non gaudy”. Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia
del sole che avevano le dame inglesi, e non andavano velate per proteggere il
viso dai raggi solari. Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”) era consuetudine
che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo
nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà”
(“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e
dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite
riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale;
ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la
coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con
l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. “Most reverend and grave
elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano
i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile.
“We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per
una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare
Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su
un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. “Ti ascoltiamo” non è nel testo. “I had
rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso:
“provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie
gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi
massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di
guerra”. Il che è tutto dire. “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus /
Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di
Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”.
Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito
dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della
nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso
necessario. “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora
imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca,
e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute
labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. Al tempo di Shakespeare le
parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne
essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di
Coriolano. “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente
un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte
fatalmente su uomini e cose. “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli
non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”,
“adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che
include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia
“Measure for Measure”. “... and is
content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza
ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come
riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il
tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha
una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la
prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a
completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile,
della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e
indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione
e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. Il candidato che chiedeva la
carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il
suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè
con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine
non codificata, è necessario. “... to all the point of the compass”: “... per
tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata
inventata nel Medioevo! “If it may stand with the tune of your
voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti”
ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. “... you have been a rod to her friends”:
“rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. Altro
bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You
have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone
(“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma
significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo
essere stato nei due sensi. “... and so trouble you no farther”: c’è chi
intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per
andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe
inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal precedente
“will”. Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol
fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano
aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto,
ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a
reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”.
Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e
della sposa davanti alle mura di Roma. “... battles thrice six I have seen and
heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto
diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il
condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come
ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli. “... have you chose this man?”: si ricorderà
che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a
scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. Secondo una prescrizione
d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato
alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del
popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”,
doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”,
l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. Il testo inglese gioca ancora
sul doppio senso di “voices”. Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia,
è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza
datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non
poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui
posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Caio Marcio Rutilio,
detto il “Censorino”; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto
dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore. “... this Triton of the
minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande
solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è
il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. Il mitico
serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste
rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte
teste” è frequente in Shakespeare. “... being but the horn and the noise o’ th’
monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo
strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare
per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. Questo discorso di
Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe
ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di
Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo
dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante
dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi,
la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica. “... by yea and no of general ignorance...”:
“general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a
“belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”). “Therefore beseech you / You that will be
less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che
volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano,
insopportabilmente artificiosa. “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo.
“Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto
dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe
ambiguo. “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del
popolo. “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.:
“... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare
per imposizione”. Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di
custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e
di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano si chiamavano
“aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili
della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano
in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti
“curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le
magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi.
“One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”.
S’è dovuto tradurre a senso. “When it stands against a falling fabric”: s’è
reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con
“s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un edificio
che sta per crollare. “His nature is too noble for
the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche
“state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). “Where you should but hunt with modeste warrant”.
Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”.
L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di
esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. Questa
battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio,
con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione
del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire
forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in
conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio
al contesto. Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe
di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. “Let them pull all about
mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel
senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su
qualcuno, e simili. La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva
legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava
girando. “Wollen vassals”: le robe di
lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è
“umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. “To buy and sell with
groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino
medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8
di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era
il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Greene
“A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari
scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di
Shakespeare). “I would had you put your power well on / before you had worn it
out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da
indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso
(“worn out”). “Figlio mio” non è nel testo. “Not by your own instruction”:
“instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato
dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento
(“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si
è trovato termine più proprio. Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la
seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di
Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente
MACHIAVELLI (si veda) (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe
che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere
“gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”); l’arte politica che
richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e
serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino.
Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno
la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo
indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too
absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice. Il “cappello in mano” in segno di ossequio è
immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano
altro copricapo all’infuori dell’elmo. “Must I go show them my unbarbed
sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo
andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio
significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed”
significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato
figurato si attaglia perfettamente al discorso. “I will not do’t lest I
surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non
voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. Il senso di questa
richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di
Coriolano”): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni
sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in
questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore,
veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non
avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano
le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma
secondo il censo. “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza
di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo. Le piume dei loro cimieri, s’intende. Di
quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per
questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di
Roma. La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima. “... with precepts that would make
invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre
nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il
“dovevano”. “Ti ricordi?” non è nel testo. Il testo ha “... with one / that is
umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo
(di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. Il testo ha
“Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our
power”). “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta
di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe
anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun
testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna
avrebbe capito l’allusione. Giunone è il simbolo dell’ira femminile
vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito,
Zeus (cfr. VIRGILIO (si veda), “Eneide”: “saeve memorem Junonis ob iram”).
“Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”,
“unfamiliar”. “I have deserved no better entertainement / in being Coriolanus”:
“Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare
grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua
di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). “Under the
canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare,
tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento”
(il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si
attribuisce la regalità. Che cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è
incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una
figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo iBradley - in tutto il dramma
di accostamento della Natura a uno stato d’animo. “Then thou dwells with daws too”. Doppio
senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato
familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. “Che m’hanno dato a
Roma” non è nel testo inglese. I servi sono introdotti qui quasi in funzione di
coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno
spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo
rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un
accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in
Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in
Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza
che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa. “Whilst he’s in directitude”: sta
verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”,
strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi
personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. “The wars for my money”: l’espressione colloquiale
“for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I
desire”, “this is my choice”, eccetera. “His
remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente,
a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che
egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di
lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di
“means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a
senso. “And affecting one sole throne
without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza
collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. “You and your
apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il
distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né
cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”: “Where is thy leather
apron?”). Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per
ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago
Ladone. “... and you’ll look pale before
you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare
che non è vero”. Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e
Menenio testé usciti. “Do they fly to
th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che
contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una
certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi
soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino
di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma.
Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco,
che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo
colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo, tortuoso,
teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta. “... as
the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente
attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di
ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. La
frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi
sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è
chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma
per venire da lui. Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio
prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio,
si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la
colpevolezza dei tribuni.“A noble memory!”: è come se Menenio dicesse:
“Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero
il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta
ridotta a carbone. “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio
d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica
fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle
tinte del dramma. “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria
(da lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da
lui il minimo moto di pietà”. “Thoug it were as virtuous to lie as
to live chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che
significa “mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale). “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta
lascia intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano.“Col tuo superiore”
non è nel testo. È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio,
della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha
bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di
Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale
dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà
ineluttabilmente perdente. Si confronti questa esclamazione con quella di
Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/
of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe. Cioè “io ti vedo in una luce diversa da
quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La
battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. È uno dei
frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del
teatro. La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei
suoi drammi. “To your corrected son?”:
frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma,
col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la
seconda. Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a
Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è
Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. Indica Valeria. Così nel testo: “thy wife and
children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che
in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove
Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio. Testo: “... will be dogged with curses”: “...
sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella
traduzione, la bella immagine venatoria. Plutarco, unica fonte di Shakespeare
per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di
Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della
patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse
rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna
muliebris”, sulla Via Latina. Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente,
non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone.
È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. Alcuni di questi strumenti -
come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un
altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di
Shakespeare. Plutarco (“Vita di Coriolano”) pone questa scena e tutti gli
eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è
tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra
tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you
entered”, e da quelle dello stesso Aufidio: “Though this city he hath
widowed...”. Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”. “Pages”: il termine
sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso
maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le
“ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. thou has made my
heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto
diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene. Keywords: CORIOLIANO,
ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The
Swimming-Pool Library. Guido Ferrando. Ferrando
Grice e Ferranti:
implicatura conversazionale, ragione, deutero-Esperanto – e lingua universale –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Roma. Collo pseudonimo d’“ingegnere Filopanton,”
presenta il “simplo,” ispirato al progetto di PEANO (si veda), nel saggio
“SIMPLO INTERNATIONALE LINGO: CONTRIBUTO AL STUDIOS DIL INTER-NATIONE LINGO PEM
SIMPLIGITE FONETICE-GRAFICE SISTEMO”. Lo scopo è quello di creare un SISTEMA in
grado di rendere l'apprendimento della lingua internazionale facile e veloce,
tramite l'abolizione delle desinenze, dei suffissi e dei prefissi e un rapporto
intuitivo tra idea e parola. Per F., idee tra loro collegate devono essere
espresse da parole tra loro simili; per esempio, aventi la stessa radice.
Keywords: system, sistemo, lingua, lingo. Refs.: Grice e Ferranti” Mario
Ferranti. Ferranti.
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