Grice e Fedro: la ragione conversazionale a Roma
antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. The philosophy teacher of Cicerone at Rome. He follows the doctrines
of The Garden, and succeeds Zenone as the head of the school.
Feliceto
search.
Grice e Ferdinando: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dela masculinità, il
maschio e la tarantella – scuola di Mesagne – filosofia brindisese – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosof
italiano. Mesagne, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Ferdinando; for one he
describes himself as a ‘philosophus,’ which is good – second, he deals with
‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’ which is good, and third he
follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”,
studia grammatica, poetica, greco e latino sotto RICCIO (si veda), intimo amico
di Paolo e Aldo MANUNZIO (si veda). Si trasfere successivamente a Napoli dove
studia FILOSOFIA. Si laurea in filosofia. Ha dieci figli. Tra le saggi principali
di F. grande rilievo assumono i “teoremi filosofici”, dedicati alla sua amata
città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del tarantismo
e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o Casi Medici,
raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico nella sua
vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e appassionata
analisi della storia di Mesagne. Dal punto di vista culturale, l'opera di
riferimento per eccellenza del F. è fuor di dubbio Centum Historiæ, dedicata a
Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore è medico di fiducia,
intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li conduce a Roma dove F. conosce
Clemente, medico di Paolo V ed è contattato, per la sua fama, da noti
scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Severino, con cui ebbe una
disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della salvatella, la
vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del mignolo e si
connette con la vena ulnare. Profondo conoscitore dei classici e seguace non
solo delle teorie d’Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da MERCURIALE
(si veda), Eustachio, Falloppia e FRACASTORO (si veda), attento alle tradizioni
della sua terra, propone un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto
del malato, in una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua
applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza è richiesto non
solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i
concittadini per la sua bontà d'animo, cura anche senza compenso somministrando
farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si concentra sull'importanza
delle analisi del sangue valutandone consistenza, opacità, densità e colore e
ritene centrale per la terapia attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i
suoi pazienti si serve non solo di salassi, purghe e clisteri, secondo la
prassi ordinaria, ma prepara anche dei farmaci di origine vegetale ottenuti
miscelando quantità variabili d’erbe mediche a seconda della terapia. Nella sua
vita si occupa anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico,
descritti nei particolari nelle Centum Historiæ, e nutre anche uno spiccato
interesse nei confronti del tarantismo e della musica come terapia certissima.
Grazie alle sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra
con quella storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti
che mantenne con i medici napoletani, è uno dei più importanti intermediari fra
la cultura medica napoletana e quella di terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto F.,
si sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere
venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo
morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la musico-terapia somministrata
al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e
soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una
funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo
modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene
assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il
malato dopo essere stato morso dove espellere il veleno scatenandosi a ritmo di
musica, ma non di una qualunque. Il tema musicale dove essere scelto in base al
colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che
testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis
redatto, presumibilmente da Marra da Padova, nel pontificato di Urbano V. Il secondo
a documentare per esperienza diretta questa connessione è F.. Nelle sue Centum
Historiæ analizza, tra gl’altri, il caso di un suo concittadino, tale Simeone,
pizzicato mentre dorme di notte in un campo. Il medico crede fermamente nella
musica come terapia certissima criticando chi sostene che il tarantismo non è necessariamente
scatenato da un morso tanto reale quanto velenoso. Inoltre, è il primo a
proporre come metodo di cura per i tarantati morsi da tarantole le malinconiche
(nenie funebri). Kircher riferisce nel
suo Magnes un episodio accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da
destare ragionevoli sospetti su quanto sta alla base di questa terapia. Come il
veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua
eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai
creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei padri ricordati, che son
degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito è tenuto un
esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri padri,
e di tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto
questo ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta
una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto
colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento
la taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi,
allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la
bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle
zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il
tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il
ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella
circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i
suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo
anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò
per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la
cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti
il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici
citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le
diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano
vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle
saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata
dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo
esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla
cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto
terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita
proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum
Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste
Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De
coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu
tarantolae.” Martino La terra del rimorso, Milano, Est, Magnes sive de arte
magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da: Mario Marti e Domenico Urgesi, F., medico e
storico. Atti del convegno di studi, Besa, Nardò, Altre fonti: Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus
tripartitum, Martino, La terra del rimorso, Est, Milano, Portulano Scoditti,
Distante, Alfonsetti, Poci. Assessorato alla Cultura Città di Mesagne, Mesagne,
Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, Scoditti e Distante, La
peste, traduzione del De peste aureus libellus, Scoditti e Distante, F. Le
centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di MesagnM. Luisa Portulano
Scoditti e Amedeo Elio Distante, F., De Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione
del De Vita Proroganda seu juventute conservanda, Napoli, Scoditti e Distante,,
Atti del Congresso della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne. Grice:
“Ferdinando says that tarantella proves that the aspects of reason are not
sufficient, since the dance is irrational – Churchill liked it though and he
thought his bronze of the male dancer in his garde reminded him of his
adventures in Southern Italy when he would dance nude in the hills!” Keywords: mito,
taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferdinando” – The
Swimming-Pool Library. Epifanio Ferdinando. Ferdinando.
Grice e Fergnani: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del gesto e la passione
– la scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo
lombardo. Filosofo italiano. Grice: “I love Fergnani; especially his “Il gesto
e la passione,” which I apply to them extravagant Victorian male-only
interactions!” Si laurea a Milano sotto BANFI (si veda). Insegna a Crema e
Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”, “Rivista di filosofia”, “aut
aut”, “Rivista critica di storia della filosofia” e “Nuova corrente”. È figura di spicco nell’esistenzialismo. Si
dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács, Althusser, Heidegger,
Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona); “Un critico di se stesso”;
“More geometrico” (TET, Torino), “Prassi di GRAMSCI (si veda)” (Unicopli,
Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La dialettica dell’esistere”
Feltrinelli, Milano); L'essere e il
nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre” (Farina, Milano), “Sartre
sadico” (Farina Milano); “Esistire” (Farina, Milano); Kierkegaard (Farina,
Milano); “Il gesto e la passione” Farina, Milano, “Merleau-Ponty”, Farina,
Milano. “L’Esistenzialismo” Farina,
Milano, “Sartre” (Farina, Milano); “Jaspers, Farina, Milano); Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”,
Corriere della Sera. La lezione di F.",
in Materiali di Estetica, Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino,
Papi. Fisiognomica interpretazione del
carattere di una persona sulla base del suo aspetto esteriore Lingua Segui disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando l'album di Battiato, vedi Fisiognomica
(album). La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina pseudoscientifica che
attraverso la fisiognomia o fisiognomonia pretende di dedurre i caratteri
psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai
lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche
physis(natura) e gnosis (conoscenza). Questa disciplina godette di una certa
considerazione tanto da essere insegnata nelle università. La parola
fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi per distinguerla dal
termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato simile ma più generico. Esempi
di fisiognomica di criminali, secondo LOMBROSO (si veda): "Rivoluzionari e
criminali politici, matti e folli". Tutto il sapere umano si basa infatti
sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia estetica della realtà. Ovverosia
dal dedurre, attraverso i sensi e l'osservazione morfo-genetica della natura,
la sua intrinseca legge del divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia
" in cui rientrava pure l'uomo quale cosciente parte della legge
naturale. Descrizione Esistono due principali tipi di fisiognomica:
la fisiognomica predittiva assoluta, che sostiene una correlazione assoluta tra
alcune caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti
caratteriali; queste teorie non godono più di credito scientifico. la
fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche correlazione statistica tra
le caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali a
causa delle preferenze fisiche di una persona dovute al comportamento
corrispondente. La correlazione è dovuta al rimescolamento genetico. Questo
tipo di fisiognomica trova fondamento nel determinismo genetico del carattere.
La fisiognomica nell'antichità Riferimenti a relazioni tra l'aspetto di una
persona e il suo carattere risalgono all'antichità e si possono rinvenire in
alcune antiche poesie greche. Le prime indicazioni allo sviluppo di una teoria
in questo senso risultano nell'Atene dove un certo Zopyrus si proclamava
esperto di quest'arte. I giovani che volevano entrare nella scuola
pitagorica a CROTONE nella Calabria doveno dimostrare di essere già istruiti
nella fisiognomica (ephysiognomonei). Il filosofo Aristotele del LIZIO si
riferiva spesso a questo tipo di teorie anche con citazioni letterarie.
Aristotele stesso è d'accordo con queste teorie come testimonia un passaggio di
Analitici primi. È possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si dà
per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati assieme da influenze
naturali. Dico naturali perché se forse, apprendendo la musica, un uomo fa
qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di quelle influenze che
sono per noi naturali. Piuttosto faccio riferimento a passioni e desideri
quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è accettato e anche il
fatto che per ogni cambiamento c'è un segno corrispondente, e possiamo
affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni specie di animale, saremmo in
grado di inferire il carattere dalle sembianze. (Jenkinson) Il primo trattato
sistematico sulla fisiognomica giunto fino ad oggi è il Physiognomica
attribuito ad Aristotele ma più probabilmente frutto della sua scuola nel LIZIO.
È diviso in due parti e quindi probabilmente in origine sono due saggi
separati. La prima sezione tratta soprattutto del comportamento umano
sorvolando su quello degl’animali. La seconda sezione è incentrata sul
comportamento animale dividendo il regno animale in maschile e femminile. Da
questo vengono dedotte corrispondenze tra l'aspetto umano e il
comportamento. Dopo Aristotele, i trattati più importanti sono:
Polemo di Laodicea, de Physiognomonia, in greco Adamanzio il Sofista, Physiognomica,
in greco Anonimo LATINO, de Physiognomonia, La fisiognomica moderna. Tipica
illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a sinistra: profonda
disperazione; a destra: collera mischiata con paura) La fisiognomica, in quanto
studio delle particolarità del volto umano in grado di rivelare peculiarità
caratteriali, è piuttosto diffusa nel Rinascimento ed è risaputo che VINCI (si
veda) ne è appassionato, come pure BUONARROTI (si veda). Nello stesso
passo, Condivi accenna all'intenzione di BUONARROTI (si veda) di scrivere un
trattato di anatomia con particolare riguardo ai moti e alle
"apparenze" del corpo umano. Esso evidentemente non si fonda sui
rapporti e sulla geometria, e nemmeno è strato empirico come quello che avrebbe
potuto scrivere VINCI (si veda). I termini "moti" (che fa pensare
alle "emozioni" oltre che ai "movimenti") e
"apparenze" fanno invece ritenere che BUONARROTI (si veda) insiste
sugl’effetti psicologici e visuali delle funzioni del corpo (Ackerman,
L'architettura di BUONARROTI (si veda), Torino.Il trattato di GAURICO (si veda)
intitolato De Sculptura, pubblicato a Firenze presenta questo tipo di
conoscenza nei termini seguenti. La fisiognomica è un tipo di osservazione,
grazie alla quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità
dell'animo. Se gl’occhi sono piuttosto grandi e con uno sguardo un po’umido,
mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose,
ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono
che è Alessandro il Macedone. Se vede un naso pieno, solido e tozzo, come
quello dei leoni e dei molossi, lo considera segno di forza e arroganza. La fronte quadrata, che ha la lunghezza
quanto l'altezza, è indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza,
animo splendido (Estratti citati da Koshikawa, Individualità e concetto. Note
sulla ritrattistica, in Rinascimento. Capolavori dei musei italiani. Roma
catalogo della mostra di Roma, Scuderie Papali del Quirinale, Milano,Skira. Gli
studi di fisiognomica influenzarono artisti come Anguissola (Fanciullo morso da
un gambero) e Galizia (Ritratto di Paolo Morigia) nell'interpretazione
dell'emotività del soggetto ritratto. Il principale esponente della
fisiognomica pre-positivista è stato il pastore svizzero Lavater che fu amico,
per un breve periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu
pubblicato per la prima volta in tedesco e divenne subito popolare. Venne poi
tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti
principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli
scritti di PORTA (si veda) e del fisico e filosofo Browne del quale lesse e
apprezzò Religio medici. In questo lavoro Browne discute della possibilità di
dedurre le qualità interne di un individuo dall'aspetto esteriore del
viso: nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra
anima (...).» (R.M.) In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla
fisiognomica nella sua opera Christian Morals: Poiché il sopracciglio spesso
dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama il
cuore e le inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti della
fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni
simili. Su questo si basa la fisiognomica. A Browne è accreditato l'uso della
parola caricatura in inglese, sulla quale si cercò di basare con fini
illustrativi l'insegnamento della fisiognomica. Browne possedeva alcuni
scritti di PORTA (si veda0 tra cui Della celeste fisionomia nel quale egli
sosteneva che non sono gli astri ma il temperamento ad influenzare sia
l'aspetto che il carattere. In De humana physiognomia. Porta usò delle
xilografie di animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I
lavori di Porta sono ben rappresentati nella libreria di Browne ed entrambi
erano sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in
natura come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative
o firme delle loro proprietà medicamentose. La popolarità della
fisiognomica, nonostante precursori come Chambre, crebbe. Trovò in particolare
nuovo vigore negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano LOMBROSO
(si veda), il quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella
criminologia forense e nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la
pena capitale come unica soluzione contro la tendenza criminale innata e
pertanto non educabile con la sola pena detentiva. La fisiognomica
influenzò anche altri campi al di fuori della scienza, come molti romanzieri
europei tra i quali Balzac; nel frattempo la Norwich connection' alla
fisiognomica si sviluppò attraverso gli scritti di Opie e del viaggiatore e
linguista Borrow, inoltre fra molti romanzieri si diffuse l'uso di passaggi
molto descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in particolare
Dickens, Hardy e Brontë. Questa dottrina è stata da più parti tirata in
campo a supporto di ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza. La
frenologia era pure considerata fisiognomica. È creata intorno dai fisici t
Gall e Spurzheim e si diffuse in Europa e negli Stati Uniti. In sostanza
la fisiognomica moderna subisce nel tempo una serie di modificazioni
strutturali che la specializzano in varie discipline (dai primi rudimenti di psicanalisi
alla antropologia criminale di LOMBROSO (si veda))). Essa infatti è
proporzionale alle conoscenze del periodo, ma ancor più alle metodologie
impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna, si invade un campo
vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche di mirabolanti
imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità intellettive
umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai fratelli
Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di volontari
indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un monumento
alle buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso prove
scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista David
(La vera storia del cranio di PULCINELLA: le ragioni di LOMBROSO (si veda) e le
verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il
piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto
umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo
dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti
indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia,
tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che
siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che
magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo
meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare
comportamento e sembianza. Per Lust questa scienza non ha nulla di
pseudo-scientifico; egli osserva, per il rigoroso metodo naturopatico che
sviluppava in quegli anni, che quando la gente guariva, cambia anche in volto.
Eliminando le scorie e le tossine, il viso diventa più "snello": il
doppio mento scompariva, torna a vedersi il collo in quei volti che prima lo
avevano "sepolto" sotto strati di tessuto adiposo, anche i capelli in
alcuni casi erano più folti. Per tutto questo comincia a sviluppare un
sistema di diagnosi all'inverso, ossia: se le modificazioni, una volta che la
gente guariva da un determinato male sono costanti, allora significa anche che,
quando e quanto più quelle caratteristiche facciali sintomatiche sono presenti
in una persona, tanto più la persona è anche affetta da quel determinato male
specifico di cui le alterazioni nel viso sono soltanto un sintomo.
Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano alla voce corrispondente.
fisiognomonìa o fisiognomìa, in Enciclopedia generale Sapere.it De
Agostini.Vocabolario Treccani alla voce "Fisiognomia" Aulo Gellio,
Noctes Atticae Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella, Edizione
Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane Paolella, Porta e l'astrologia: la Coelestis
Physiognomonia, in Montanile, Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del
teatro e l'opera di Porta", Salerno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e
Poligrafici internazionali, Porta, Humana Physiognomonia / Della Fisionomia
dell'uomo libri sei, in Paolella, Edizione Nazionale delle opere di Porta,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane Paolella, L’autore delle illustrazioni
delle Fisiognomiche di Della Porta e la ritrattistica. Esperienze filologiche,
in "Atti del Convegno La “mirabile” Natura. Magia e scienza in
Porta", Pisa-Roma, Serra Paolella, La fisiognomica di Porta e la sua
influenza sulle ricerche posteriori, in "Atti del Convegno Porta, Piano di
Sorrento, Roma, ed. Scienze e Lettere, Paolella, Die Physiognomonie von Della
Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in Morgen-Glantz Zeitschrift
der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst.
Wege und Motive der Rezeption von Porta in Europa - Akten der Tagung der
Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie
Zeller und Laura Balbiani Voci correlate Lüdke, la più celebre vittima della
Antropologia Criminale di Lombroso. Emanuel Felke, studioso di naturopatia,
applica l'omeopatia, l'iridologia e la fisiognomica Benedict Lust, utilizza la
Fisiognomica nella sua diagnosi medica e ne sviluppa una vertente tutta sua.
DisciplineModifica Frenologia Patognomia Caratterologia Personologia
Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiognomica» Fisiognomica, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale
Antropologia Portale Sociologia Frenologia teoria
pseudoscientifica Lavater scrittore, filosofo e teologo svizzero
Porta filosofo, scienziato, alchimista e commediografo italiano Wikipedia
Il Nudo eroico concetto dell'arte classica Lingua Segui Il nudo eroico o
nudità ideale è un concetto dell'arte e della cultura classica che si propone
di descrivere l'utilizzo del corpo umano nudo soprattutto, ma non solo, nella
scultura greca; con esso si vuole indicare che il soggetto umano apparentemente
mortale raffigurato nella scultura è in realtà un essere semi-divino, ossia un
Eroe. L'Apollo del Belvedere attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo
eroico-divino dell'antichità, al Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha
avuto il suo inizio durante il periodo della Grecia arcaica ed in seguito
adottato anche dalla scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto
ha operato sia per i ritratti di figure maschili che per quelli di figure
femminili (nei ritratti di Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni
esempi romani ci ha potuto portare alla strana giustapposizione tra un gusto
iper-realistico (difetti fisici o elaborate acconciature femminili) con la
visione idealizzata del "corpo divino" in perfetto stile greco.
Il Galata morente. Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita
con altri tipologie di nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio
la nudità (che richiama al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in
battaglia dai nemici barbari, come il Galata morente. Dopo essere
scomparsa per quasi tutto il Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte
moderna quale esempio di Virtù (il vero, il bello e il buono) incarnate dal
corpo umano maschile nudo. Questa metafora ha rappresentato la perfetta
raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero incarnare
il più alto status esistenziale. Riapparso con grande vigore soprattutto
durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui l'eredità classica
ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta: molto famosi sono i
nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la figura del suo David) o
quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che tiene in mano la testa di
Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore, per fare solo due esempi
tra i tanti). Un principe seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo
nazionale romano. Statua eroica di un generale romano con la testa
di Augusto, al museo del Louvre. Statura romana con la testa di
Marcello (da un prototipo greco). Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore
di Canova, all'Apsley House a Londra. StoriaModifica Leonida alle
Termopili di David Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità.
Achille in assetto da battaglia, rilievo ateniese La nudità maschile era di
norma socialmente accettata entro certi contesti sportivi e militari
dell'antica Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo della cultura
ellenica. A quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la nudità fu
praticata per primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari e da loro
in seguito introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre fonti invece
sostengono che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse la gara di
corsa durante la V olimpiade il quale a metà percorso si liberò della fascia
che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei movimenti. La
studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse servire ad uno scopo
magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il simbolismo fallico e
l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma della sua introduzione,
la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e dalle arti in una sua
idealizzante formale e concettuale, generando una prolifica ed influente
iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in dipinti di navi e numerosi
kouroiarcaici. Nel V secolo a.C., quando appaiono le prime palestre o
ginnasio di atletica, la nudità atletica era già diffusa: la stessa parola
ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che significa nudo. Trajanic woman as Venus (Capitoline
Museums), su indiana.edu, Indiana University. Hallett Sorabella, "The Nude
in Western Art and its Beginnings in Antiquity", su Heilbrunn Timeline of
Art History, metmuseum.org, The Metropolitan Museum of Art Colton, Monuments to
Men of Genius: a Study of Eighteenth Century English and French Sculptural
Works, NewYork University Spivey, Greek Sculpture, Cambridge, Osborne,
"Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art", in Gender et History
Stevenson, "The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portrait in
Late Republican and Augustan Rome", in Greece and Rome, Stevenson,
"Nacktleben", in Dominic Montserrat (a cura di), Changing Bodies,
Changing Meanings: Studies on the Human Body in Antiquity, Routledge, Bonfante,
Etruscan Dress, The Johns Hopkins University, Hallett, The Roman Nude: Heroic
Portrait Statuary Oxford, Casana, The Problem with Dexileos: Heroic and Other
Nudities in Greek Art, in American Journal of Archaeology, vOsborne, Men
Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art, in Gender et History, Tom
Stevenson, The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portraits in Late
Republican and Augustan Rome, in Greece et Rome, Nudo artistico Altri
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immagini o altri file su nudo eroico Portale Arte: accedi alle voci
di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di InternetArchiveBot
Storia della nudità Storia degli atteggiamenti sociali delle varie culture
verso la nudità Apollo di Piombino Perizonium Wikipedia Il contenutoGrice:
“Napoleon, an Italian, thought he was French, but he was a Corsican – “No, I
don’t know Corsica” – however he thought he was an emperor and as such, as
every student at Milano laughs at, that he should convince Canova to go nudist!
Nelson tries but Vivian Leigh opposed!” Keywords: il gesto e la passione, exist,
Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ – E-committal – Peano on ‘existent’ –
esistono – es gibt, there is/there are, some, or at least one, il y a, c’e,
Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori romani nudita eroica! Fisionomia – porta ----
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fergnani” – The Swimming-Pool Library. Franco
Fergnani. Fergnani.
Grice e Ferrabino: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale della terza Roma – la base mitologica del latino –
scuola di Cuneo – filosofia cuneana – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cuneo).
Filosofo cuneano.
Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Cuneo, Piemonte. Grice: “I like
Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a
philosophical historian – and a Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla
Gibbon!” “Si compie il mio ottantesimo
anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di
magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente
m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto.” Figlio
di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino,
funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee
agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compe il
primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di
intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia
dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrive a
Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi
con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare
troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore è Graf. Verso il terzo anno iniziò
a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni
di SANCTIS (si veda), sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegna a a
Torino, Palermo, Napoli, e Padova. È rettore dell'ateneo fino al anno in cui
ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la moglie, F.
conclude il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi
battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con
la quale si stabil a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La
Cittadella d’Assisi" diventando grande amico di ROSSI (si veda), fondatore
di “Pro Civitate Christiana” e “La Rocca”. Ad Assisi, F. prende l'abitudine di
trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive
alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la democrazia
cristiana e rimane al Senato. Divenne presidente dell’ENCICLOPEDIA ITALIANA,
incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico. Èstato intanto
incaricato di presiedere al Consiglio Superiore dell’Accademie e promosse il
Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le
informazioni bibliografiche diventandone il presidente. Divenne corrispondente
dell'Accademia del LINCEI e corrispondente nazionale della stessa e presidente
dell'Istituto italiano per la storia antica.
Presidente della Società Nazionale "Dante Alighieri" e insieme
a Cappelletti (si veda), fonda "Il Veltro". Pubblica sull'Italia romana, l'età dei
Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: “Calisso: la storia
di un mito” (Bocca, Torino) – with a
section on the myth among the Latins, and a later section on the
treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea federale” (Monnier,
Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire and impero
ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather
than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella Grecia antica” (Milani,
Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “GIULIO (si veda) Cesare” (Unione
Tipografica, Torinese); “La vocazione umana”
(Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana” (Libreria Draghi,
Padova); “Le speranze immortali” (Società per Azioni, Padova); “Trilogia del
Cristo” (Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana, Brescia); “Le vie della storia
romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e cultura” (La Scuola, Brescia); “Storia
dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Pro Civitate Christiana, Assisi); “L'essenza
del Romanesimo” (Tumminelli, Roma); “L'inno del Simposio di S. Metodio Martire”
(Giappichelli, Torino); “Storia di Roma” (Tumminelli, Roma); “La filosofia
della storia” (Sansoni); “Trasfigurazioni” (Martello, Milano); “Pagine
italiane, Il Veltro, Roma);
“Misticamente” (Stamperia Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina” (Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e
Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario
Enciclopedico Illustrato, Jannaccone,
Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Treccani, Roma, Nel
Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione
in Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider,
Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di Matteo) II: Il figlio di Dio (nella
testimonianza di Giovanni) III: Il
risorto (nella testimonianza di Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario
biografico degli italiani. Roma è il sogno de' miei giovani anni,
l'idea-madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la
sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma è -
ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma
escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta,
uni- tà morale all'Europa!. Così, MAZZINI (si veda) ricorda il proprio ingresso
nella città poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a
ciò, ribadiva l'importanza che Roma aveva nella sua visione politica, secondo
la quale l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione
universale di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma
religiosa. Dopo la Roma dei Cesari – GIULIO (si veda) Cesare -- e la Roma dei
Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Popolo,
centro della nuova religione dell'umanità. Si trattava di una. concezione
peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura
dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della
particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica
riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per
le idee di libertà e di repubblica. È indicativo che anche in un uomo dalla
cultura piuttosto approssi- mativa come Garibaldi avesserolargo spazio concetti
fon- dati su reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torità
moderatrice del pontefice; inoltre il «primato» italiano veni- va fatto
dipendere proprio dalla presenza di quella Roma «cattolica e poqtificale» che
Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare
inscindibilmente Roma all'Italia. Non era sempre stato così. Nei primi decenni
del secolo - ha scritto Chabod. Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua
vece, entusiasmi e affetti s'eran riversati verso l'Italia medievale, l'Italia
dei Comuni, di Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio
VII e di Alessandro II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale
s'eran visti gli albori della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del
1849,invece, il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza
nazionale, per l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per
il particolare ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i
democratici. Ma l'importanza di quel richiamo dipende, in fondo, dalle
peculiarità stesse dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita
su richiami al passato e alla tradizione culturale che ben difficilmente
avrebbero potuto prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrive
Garibaldi nelle sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur
così lontano dal profetismo mazziniano come Cattaneo. Anche Cavour ebbe a
riconoscere quel nesso strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'-
sodel25marzo1861che<< Roma sola deveessere la capitale d'ItaLlia. .Dopo
la spedizione tentata da Garibaldi, Romao o morte divenne la parola d'ordine
de~~e~ E~.!:!c~i), I~trog~) Verni che parevano loro dimentichi àel
comploo-supremodi riCongIunge- re la città all'Italia. Gli uomini della Destra,
in realtà, eranoimpe- gnati ad affrontare le grandi e gravi questioni legate alla
costruzione del nuovo Stato e, per la soluzione del problema di Roma, confida-
vano soprattutto nel formarsi di condizioni internazionali favorevo- li (ciò
che avvenne appunto nel 1870). Anche i moderati tuttavia, benché estranei alla
concezione eroicizzante della politica comune a tanta parte della Sinistra,
erano partecipi a modo loro del mito di Roma. La presenza nell'Urbe, in quanto
centro della cattolicità, di un'idea universale induceva infatti, nei
democratici come nei mode- rati, la convinzione che da Roma italiana avrebbe
dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870
al 1896, Bari, Laterza, Treves, Videa di Roma e la cultura italiana del secolo
XIX, Milano- Napoli, Ricciardi, Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D.
Cantimori, Torino, Einaudi, TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area
di influenza del mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti
neoguelfi, sullascia del giobertiano Primatomoralee civile degliItaliani.
Certo, quest'opera si collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno
mazziniano: contro l'idea di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti
proponeva una confederazione «sotloTiìu- 'Mazzini, Note autobiografiche,
Milano, Rizzoli, messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione
dell'umanità f p r MazzInl, la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato
e Chie- sa) per molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero
pensiero e della scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo
quanto auspicavano soprattutto gli esponenti della Sinistra5. I sogni d'una
missione che la nuova Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciare àl-morido-stndèvano' piùes'
eÌnéntecon1a reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta
caratura internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse
presto, e analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si
irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale
centro universale di scienza.Tuttavia, Roma avevarappresentato un «mito
animatore» dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Volpe) 6,era ormai
troppo connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente
evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a
«dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a
Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se
stessi e il proprio paese. i I Ii I I ~ j guerriera e con,qui~tatrice,cara
soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro anChe al fascino che
emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e anticlericale cdebrata da
democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre. Ma proprio questo è una
conferma della pervasività dd tema, dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub-
blico dell'epoca. Ciò non toglie che nelle evocazionidd mito di Roma (e di
molteplici e diversi miti, anzi) ci fosse molto artificio e un sen- tore,
spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo non dipendeva però - come a molti è
sembrato - da una co!maturata propensione degli italiani agli eroismi verbali e
alla retorica magniloquente, ben- sì dall~particolare storia dd nostro paese rlSenzagli
ideali «romanh> non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato
la storia dell'Italia unita; <<ma, probabilmente - osservava Rosario
Romeo-, non ci sarebbe stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei
miti romani dipese anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga
misura di impronta carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd
diffon- dere gli ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per
ciò stesso, nd tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali
erano inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi,
mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto
alimentòilriferimentQa Roma come base di un confronto tra la viltà dd presente,
da un lato, e, dall' altro, l'antica gran-, dezza e l'eroismo romano degli
uomini dd Risorgimento. In sostanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia un
giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse
andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea
risibile dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche.
Mazzini riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e
diseredata d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di
Dio, l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione
tra 1'aspirazioneitaliana a rinnovare la gloriadi Roma e la realtà meschirtadiunan
UOVB!lisanzio. Così,nd MITO DI ROMA rivisitato da Carducci, si materializzavaun
demento di fondo della cultura politica dell'Italia unita, una specie -
potremmo dire - di bovarismo nazionale, c.onsistente nella difficoltà
acommisurareimezziaifini,nd rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella
oscillazione perenne tra sentimenti di superiorità e un senso amaro di
inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi Cavour, Bari, Laterza.Note autobiografiche, (da
una lettera). Nell'ultimo tratto dell'Ottocento, cioè nell'epoca
dell'imperialismo e deIcolonialismo, ~Q~~ venne invocata a giustificazione ! di
un particolare diritto italiano all'espansione e della necessità che
il..n.1JQv~'. Regengouagliassela grandezza dei suoi progenitori roma- ni.
Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in gioventù era stato mazziniano. E in
effetti di questo spostamento dd mito della terza Roma dalla emancipazione dei
popoli alla espansione della propria nazione si trova qualche traccia già
nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871 come, nd
<<motoinevitabilechechiama l'Europa aincivili- re le regioni Mricane»,
Tunisi dovesse spettare per contiguità geo- graficaall'Italia. Esullecimedell'Adante-
proseguiva- svento- lò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il
Mediterra- neo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta
quella regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi
non l'abbiamo»7. Certamente, nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero
vari, e spesso opposti significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I,
Su tutto ciò resta fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, Mazzini,
Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, Volpe,Italiamoderna F,irenze,
Sansoni, Galeati. Ricerca Terza Roma
concetto storico Lingua Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione
che ha due accezioni. Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano
d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso
per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la
città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o
Impero Romano d'Oriente. Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla
terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale
d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella
della Roma dei papi. Uso del termine per Mosca. Uso del termine in Italia.
L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il
Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della
«Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere
contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui
fare da modello all'Italia e all'Europa intera. L'ideale mazziniano sarà
ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime come
Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una nuova
civiltà. Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato in Campidoglio,
profetizzava una nuova era per Roma che avrebbe visto il territorio dell'Urbe
espandersi fino ad approdare a uno sbocco sul mare.[3] Una lunga
citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata del Palazzo degli
Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano Minucci:
«La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume
sacro sino alle spiagge del Tirreno» La costruzione del quartiere
dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in questa
direzione. Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel quartiere EUR di Roma
Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo. Parallelamente
in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo Reich. ^ Discorso
pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo Governatore di Roma.
Utopia e scenario del regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, Antica Roma
Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Terza Roma, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Italia Portale
Russia Portale Storia PAGINE CORRELATE Costantinopoli capitale
dell'Impero romano d'Oriente Milion Successione dell'Impero romano. Pl€°Ifl
ffRMBIKOjI. % H. ^>M- Z%!^-'^^J1'V, j^i;»-' AL bO
FLRRABI MO Kf\\ypso PIC BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB
EDIT. KALYPSO F. KALYPSO Saggio d'una Storia del
Mito TORINO BOCCA. KALYPSO. STORIA. La storia del mito . È
necessaria e legittima Il suo triplice valore. Caratteri. Il genio mitopeico. Kalypso.
Andromeda. Prima di Euripide, Euripide, Dopo Euripide, La Demetra d'Enna Il
mito siculo, Il mito greco. Il mito siracusano. Il mito contaminato. L'abigeato
di Caco. Presso gli Indiani e i Greci. Presso i Latini. I poeti. Gli storici. I
razionalisti. Cirene mitica 11 sostrato storico. L' " Eea, di
Cirene e d'Aristeo. Cirene in Tessaglia. Cirene in Libia. Euripilo ed
Eufemo. Gl’Eufemidi e Batto. Kalypso. L'intuizione mitica. Le manifestazioni mitiche,.
L'evoluzione della mitopeja letteraria, Il flusso e riflusso delle saghe, La
fine, - INDAGINE. Andromeda „ Il
racconto di Ferecide Perseo. Acrisie, Preto, Polidette, Ditti. Atena e la
Gorgone Medusa. Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I miti etimologici
presso Erodotoed EU ani co (frr. 159. 160), I frammenti dell'* Andromeda
„ di Euripide, Euripide nel 412 Il culto di Demetra inEnnajart. La
questione. I caratteri del culto ennense nell'età storica. Il
primitivo probabile nucleo siculo, Le versioni greche
del nitto di Kora,L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420 11
problema, Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio ; Properzio. Livio e
Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi, Cirene mitica Bibliografia e
metodo, La ninfa Cirene, Apollo Carneo. Aristeo, La ricostruzione dell'Eea di
Cirene. Euripilo ed Eu- femo, Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito
di Cirene. Esegesi novissima STORIA La Storia del Mito, nitto di Kora.
L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420 Il problema. Il valore del mito
indiano. Vergilio e Ovidio. Properzio. Livio e Dionisio. I particolari
etiologici del culto. Gli eruditi. Cirene mitica. Bibliografia e metodo. La
ninfa Cirene. Apollo Carneo. Aristeo. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo
ed Eufemo. Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi
novissima, STORIA. F. Kalypso. La Storia del Mito. È
necessaria e legittima. Non esatta, anzi può dirsi fallace la
nozione del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta sullo scoglio
al mostro marino; la ninfa Cirene, domatrice di leoni ; Cora di Demetra,
rapita da Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza d’Ercole piegò
annientandolo. Tali persone e vicende, come l'altre il cui insieme
assunse presso noi nome di MITOLOGIA greca e LATINA, inducono,
ciascuna, al pensiero un racconto, non pur definito ne’termini e preciso ne’particolari,
ma costante nel contenuto, si da valere (usando espressioni proprie
a fenomeni differenti) per E cosi rispettivamente ogni volta chC; Nel saggio si
allude a uno fra questi quattro miti. classico o canonico, da
apparire quel mito. Né il prevalente costume, a pari di molti, è
senza motivi: già che si ricollega per un lato ai modi che, nel
concepire ed esporre miti, tennero i compilatori alessandrini, quando
miti non più s’inventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e
a scopo di conservazione erudita ciascuno si ordina secondo uno schema
principale, ne’margini sol tanto apposte discrepanze minori e facili a
obliterarsi. Si ricollega esso costume per altro lato al vezzo, malo
quanto diffuso, suffragato dall'ignoranza, pel quale la saga chiude
in sé una sostanza di verità, in ispecie storica; si che, la verità non
potendo esser che singola, unico similmente sarebbe l’'intreccio della FIABA
onde è compresa. Ora, poiché i criterii de’gramatici in nessun
modo possono essere più i nostri; e né meno è più nostra, per ciò che
non sodisfa la riflessione né il senso storico, una tanto facile fede
nella veridicità del RACCONTO MITOLOGICO. Bisogna risolutamente farsi a
considerare qual via puo divenire la buona non che la nuova. Sùbito
sgombra la mente di assai equivoci e di troppe astrazioni il porre, con
precisione storica, i materiali grezzi della mitologia. Ilmito di Cirene,
dimostrano questi, non esiste. Meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le
odi pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno di
Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscrizione di Rodi. Dopo ciò, e dopo
tutto che è andato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e che di
conseguenza ignoriamo. In altre parole, l'indagine concreta non conosce se
non un complesso di componimenti letterarii, manufatti artistici, riti
cultuali; e sente entro ciascun componimento, ciascun manufatto, ciascun culto,
in sé e per sé, IL MITO. All'infuori, questo può tuttavia sussistere.
E per vero in due modi risulta da quelli, sia per ordinata compilazione,
sia per alterazion fantastica. Ma è allora diverso e nuovo, UN ALTRO
MITO [cf. Grice on ‘myth’ – “Meaning Revisited”] a pena affine a
qualunque l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii componimenti
manufatti culti e spiega i singoli stadii e i singoli trapassi. Ma in tal
caso è divenuto, non la forma canonica o classica, bensì LA STORIA DEL
MITO. L’artista clie ci ripete una fra le molteplici fiabe pagane,
prosegue, e non termina, una serie di vicende, cui sottostò quella FIABA già
nel passato. Egli, insomma, elabora UNA FIABA NUOVA, la quale può essere per
certe analogie di casi e identità di nomi avvicinata a talune
antiche meglio che ad altre, ma non diviene per questo la fiaba
di quei nomi e di quei casi. Questa in qualclie modo ci dà,
solo, lo storico, comprendendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze
della FAVOLA e organandole geneticamente ed evolutivamente. Chi vuole IL MITO
di Andromeda, ne legga LA STORIA. Se non che, ond'è nato il concetto
di racconti principi nella mitologia pagana? Da due radici: UN FATTO,
e una tendenza. Riandando storie di miti accade di avvertire, chi anche
sia grossolano osservatore, quale e quanta rete d’interessi politici, di
orgogli civici, di odii regionali, di vanti principeschi, di rivalità
religiose, ricopra, musco boschivo, il crescente tronco della LEGGENDA. Indi,
la preferenza decisa vien concessa, in certo luogo e in certo momento, a
quella tra le forme esprimenti LA SAGA, la qual contenga il
particolare simpatico, L’ANEDDOTOfavorevole, o (che basta) si atteggi
nella luce che più appaga. Un fine pratico, per conseguenza, può CANONIZZARE
i miti altre volte, l’ala d' un poeta, la vigoria d'uno storico. O,
infine, il più fortuito caso. Sempre, tuttavia, a canto di questa
preminenza d'una fra le forme mitiche, valse a traviare il pensiero,
l'abito, ch'è talora il vezzo, dell'astrazione, sovente inopportuna. E
perché, comparati tra loro DIVERSI RACCONTI D’UNA SAGA, parte
coincideno, e pareva il più, parte differano, e sembra il meno. Si ritenne
lecito prescinder dalle differenze per insistere su le coincidenze,
e di queste costituire la saga, e quelle giustaporre in guisa di varianti
secondarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque testi di cinque
autori intorno alle vicende, poniamo, di Cora, legittimavano la creazione
arbitraria d'un FITTIZIO MITO di Cora. Grossolano errore contrassegnato
di superficialità. Difatti, oltre le minori discrepanze notate, pure
sotto l’uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii testi alcunché,
men ponderabile forse, ma altrettanto reale: LA COMPLESSIVA INTONAZIONE DEL
RACCONTO. Il paesaggio medesimo, certo; ma incombente la luce di tramutati soli.
L'artificio è cosi palese che stupisce potesse ingannare e
diffondersi. E pure condusse più oltre: a fìngere, dopo IL MITO di ciascun
personaggio – e. g. GANIMEDE, ENEA, EURIALO, NISO, ROMOLO, REMO, CORIOLANO --, IL
MITO IN SÉ, quasi ENTE SEPARATO, capace di influssi attivi e passivi;
senza che diviene tosto palese, come cotesto ente non sussiste se non col
suo predecessore logico; come quest'ultimo sorga d’una contaminazione di
varie forme letterarie artistiche cultuali; come quindi uniche esse forme
costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo
con franchezza; per asserire, e lo asserimmo dianzi, che conoscerle
significa giustificarne le vicende. Ossia: per affermare che SOLO
STORICAMENTE SI PUÒ CONOSCERE IL MITO. Ma dopo tale asserto, e dopo
scoperti i motivi reconditi dell’equivoco consueto, rimane ancor dubbio,
se o no è legittima LA STORIA DEL MITO. Difatti chi sa d’aver innanzi
espressioni multiformi, cui sono mezzo le più disparate materie, DALLA
PAROLA AL COLORE, DAL BRONZO AL GESTO SACERDOTALE, può sospettare a
ragione che trasceglier quelle espressioni, connetterle in serie, narrarle in
istoria dove accadere per nessi, non intimi, ma estrinseci: per identità
di nomi di figure d’imprese; mentre tempi lontani, fibre tanto varie
d'uomini, caratteri cosi mutati d’ambiente, sembrerebbero permettere, o
comandare, la distinzion più recisa. Sospetto lecito, questo -- ma
specioso. Non importa che certa temperie (dico, ad esempio, l'epoca d’OTTAVIANO,
o il magistero di OVIDIO) accosti molto fra loro due saghe di soggetto
diverso; là dove lontananza d'anni e di spazii separan spesso saghe
dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci ajuta, a informarci dell'epoca
augustea o di Ovidio, e del posto che LA MITOLOGIA prende in quella
o presso questo. Ma è d'altra parte irrecusabile che ciascuna espressione di un
mito, in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle precedenti da
un vincolo più profondo e più intimo che l’argomento: le conosce, ciò è, e
le ri-elabora. Disposte quindi in serie cronologica coteste
espressioni, ciascuna è materia greggia rispetto alle successive, ed è
sintesi originale (anche negativamente originale, si capisce) a
confronto con le anteriori. Ne segue che la storia ha buon diritto di
farle scaturire l'una dall'altra: essa, co’suoi criterii di tempi e di
luoghi, con tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a costruirne
quasi una genealogia; della quale i rami e i gradi son segnati da
reciproci influssi più o meno profondi, da modelli più o meno diversi,
sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. Del resto, il resultato
medesimo o, se piace di più, il medesimo soggetto di questa, che
diciamo, STORIA DEL MITO ne legittima, dopo gl’argomenti or ora
esposti, la esistenza. Giunge essa a costruire sopra VARIANTI FORME FAVOLOSE un
individuo organico e definito: individuo ch'è, come mostrammo, LA
LEGGENDA. Ma quali sono per essere i modi di tale istoria? Il suo
procedimento è chiaro. Raccolte, supponiamo, le espressioni del racconto su
Cirene o su Cora, sia per notizie tramandate sia per industria di
congetture ne è, quasi sempre, presto determinato l’ordine cronologico, se
non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti. Solo di poi
s'inizia un più arduo lavoro. Il pensiero, insomma, prende a conoscere quelle
espressioni. Di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi. Ciò
sono I PARTICOLARI DELLA SAGA, e quanti ne sieno espressi, e quali, che
scene e che episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il punto
di veduta onde i particolari le scene gli episodii furon guardati: per
ultimo, discerne ove consiste o se esista la forza sintetica che i
par- ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò, fuse.
Triplice processo: valevole come per un carme, cosi per una pittura e,
checché sembri, per un culto. Giusta poi le risultanze di questa
nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in- torno a Cirene o a
Cora, si raccolgono, quasi per sé, secondo nessi ed influssi, sino a
costruire lo schema delle lor geniture. Allora lo scopo è
conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra specie di conoscenza si
avvia: non più dubitosa, qual si conviene alla ricerca, e faticosa di
controversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane incerto è delimitato;
quel che può essere certo, è posseduto; si che le lacune e il ricolmo si
distinguono nette. Altrui giudizii su la materia son superati con
l'approvarli o respingerli o modificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel
quale lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine, diviene poi
quasi base; e sovr' esso si erige, pei suoi muri maestri nei suoi archi
di commessione co' suoi travi intelajati, 1’edificio definitivo. Il
mito ha la propria storia. Il mito è, da questo momento, vera
ricchezza nello spirito nostro. Si obietta che è acquisto mal
certo, però che sieno per pensarsi o seriversi ancora, nell'avvenire come nel
passato, di quella stessa leggenda storie molto o poco di- verse
con asserzioni contradittorie alle prece- denti e con intelletto nuovo.
Il clie ridonda in parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-
nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla discordia dei pensieri
individuali. Ma né l'una né l'altra verità scema l'importanza
dell'acquisto. E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-
mandate o è cosi fatta che impedisca la storia o pure solo qua e colà la
fiacca. Se l'impedisce (e son taluni casi), il danno è davvero
grave. Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol- teplici che
non perseguiamo qui), la jattura può variare di entità ma si riduce
tutta, in ultimo, al fenomeno comune della individuale memoria e,
traverso questa, della memoria collettiva; si riduce, quindi, alla
condizione imprescindibile della nostra conoscenza intorno al passato. In
se- condo luogo, il differire degli storici intorno a una saga, se
dimostra che nessuna storia deve a nes- suno parere domma, prova insieme
che ciascuna è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero per
indursi ad accettarla, e poi difenderla, con agile freschezza e cura non
intermessa ; attesta quindi di ciascuna l'importanza, assidua
perchè dinamica. Nell'uno e nell'altro luogo, poi: quello spirito
che ha conosciuto la storia d'una leggenda, o di per se o con assimilare
1' opera altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra- mutando
in organismo il tutto insieme inorga- nico delle fonti; sia impregnando
della propria essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto
armonia del discorde, e reso personale l'alieno. Quindi, l'acquisto, come
non dubbio, cosi è anche materiato della più alta virtù di pensiero.
Dura come una fatica ; splende come una vittoria. Che se di poi
mutazioni intervengano e pentimenti, non se ne scema, ma più tosto se ne
innalza, superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-
nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non immutabile, certo
personale, in tutta la serie co- nosciuta di determinate espressioni
mitiche, lon- tane e disperse. Il mito è, dunque, da quel
punto viva ric- chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare tal
verità, sottile è però discernere i valori di- versi della conoscenza in
quella guisa procurata. Ma è necessario, per farla più conscia.
Lo storico si è, durante i successivi momenti della saga,
uguagliato a' successivi artefici di essa. Un ignoto cantor popolare vi
trasfuse il suo sogno? Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli
occhi di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre- tarsi in
quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ? Pindaro? Claudio Claudiano? Uno
appresso al- l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto- rico
e questi con loro, fin quando similmente a ciascuno la materia si sublimi
in arte. Tuttavia, in si fatte individuazioni, o mischianze con
gl'in- dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo vantaggio.
Nell'atto d'intuire la saga il poeta o il pittore muovono dalle sue forme
anteriori, che conoscono, verso la nuova espressione, che igno-
rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in- telligenza dello
storico, deve muovere tanto dalla loro espressione quanto dall'altre
precedenti, e quella conosce, e queste conosce del pari. Si che là dove
l'artista si trova di fronte a un che di imprevisto, in cui l'
impreveggibile è determinato dalla potenza della sua energia creativa ;
per contro lo storico si trova sùbito a conoscere, traverso l'opera
compiuta, appunto quella potenza dell'artista e può ponderarla e
giudicarla. L'effetto è che non solo egli si è identificato con una
delle espressioni nelle quali la saga visse, ma anche l'ha valutata.
L'attimo di possesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico non si
considera pago né pur di questo giudizio che già di per sé lo eleva sopra
l'artista intuente : vi avverte un valor m omentaneo e, tenendo l'occhio a ben
più alto segno, vuole e può assurgere a quell'intuizione sintetica della
saga, da cui appajono giustificate le intuizioni singole degli
stadii e delle forme come dallo scopo il mezzo. Tale pregio, che è della storia
del mito, può quindi esser detto pregio intuitivo. Ce n'è un
secondo: scientifico. Non poche discipline difatti van di continuo preparando
al pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera sua: attinenti
ai linguaggi dell' antichità, agli scrittori co' lor caratteri e con la
misura in cui sono attendibili, ai culti con le fogge che divennero
consuetudinarie, ai popoli con le credenze e i pregiudizii, con le superbie le
ire e le menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse, quelle che
cotesto discipline ci offrono, né tanto meno impongono ceppi
all'intelligenza. Sono, più tosto, formule in cui l'esperienze
vannosi condensando; consigli, che risparmino fatica individuale o
suppliscano a irrimediabili ignoranze. Costituiscono il tesoro comune,
cui possono tutti riferirsi, che è stolto trascurare, né si può
senza fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumulate lungo gli anni
da tanti sforzi concordi, convergono nella storia della leggenda; e
quanto più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole l'ossatura, e
permettendole o promettendole consenso più vasto e interesse più vario.Fra
tutte, precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza dell'antico
e recente, vicino e lontano, favoleggiare : maraviglioso sempre, di rado
inconsueto. Cento numi agresti si rinvengono fra cento popoli, dagli
Urali alle Ande, dall'Islanda all'Equatore. E i riti, le danze, i canti, i
vestimenti, le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo
insieme, vario concento sopra un ritmo unico: che ogni gente reca il suo
contributo. E cielo, monti, acque silvestri marine lacustri, paschi
pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide, biade che la zolla e il
Sole indorano, notti illuni, meriggi piovosi, silenzii delle cime,
fragori delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fenditure del suolo
: l'immenso respiro pànico, che penetra pei sensi ed abbacina l'anime,
ritoma costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre lontane.
E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo. Ond'è che son opere in cui questa
varietà speciosa è ricercata con amore intento, disposta con cura e
scrupolo in chiaro ordine (1). Ivi (1) Cito ad esempio W.
Makshardt Mythologische Forschungen (Strasburg); H. Usexer Sintfluthsagen
(Bonn); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V Spirits ofthe corn
and of the wild (London 1912); W. v. Bau molte leggende sono
narrate, molte cerimonie descritte, quelle che gli uomini dicono e compiono
da quando sorge il lor Sole a quando tramonta, e quelle anche che la notte
conosce. Ma ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito pel suo
modo; anzi, non a pena ripetuta l'una, tracciato l'altro, si distrugge
tosto l'individuazione, perché si vuole, badando al generale ed al
comune, conseguire identità spirituali contro distanze di tempi di luoghi
e differenze di forme. Vi si fa propedeutica; non storia. Cosi in
altre opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti obliqui di
interessate invenzioni che non è lieve scoprire ; o vero su i traviamenti
della intelligenza che tenta le cause del fenomeno ignoto, ma s'abbaglia
di fantasmi. Avvertono, queste, come un nome frainteso generasse talvolta
un popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come Scaevola
connesso con l'aggettivo che significa " mancino „ determinò il
racconto dell'intrepido Muzio e della destra bruciata. Insegnano
che per dar ragione al nome di una città (Roma?) s'inventò pari
pari un eroe o un nume (Romolo?). Spiegano che un culto greco fra culti
romani parve agli antichi giustificato col narrare qualmente al dio
stesso fosse piaciuto recarsi da l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine,
di segnare in classi i fatti; e creano alle classi fin la denominazione
discorrendo di " miti etimologici „ per i primi casi ; di "
miti etiologici „ per l'ul DissiN Adonis und Esmun (Leipzig); E. S.
Haktland The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). timo (1).
Tutti bisogna che lo storico sappia, per sviscerare gli stadii della sua
saga, senza equivoco grande né troppe dubbiezze. Di tutti, quindi, è
conscia la storia di una leggenda. La quale leggenda nel tempo stesso cbe
ne riesce definita, si da impedir confusioni con altre pur simiglianti, si
allaccia poi tutta, o quasi tutta, con le formule della propedeutica
confermandole in presso che ogni sua vicenda. Non che in tal modo
scemi la singolarità sua propria; e allora perché farne storia? Né manco
che non aggiunga tal volta materia alla propedeutica medesima; già
che questa non è mai conchiusa, e di continuo si accresce, per l'appunto come
la esperienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi la storia di un
mito ha questo pregio scientifico: mentre è impregnata, come più
latamente può, del sapere collettivo intorno alla propria materia; mentre
è dissimile da quel sapere, ed esiste per la sua dissimiglianza ; è
pronta a contribuirvi con tutta sé medesima, per quanto contiene di insolito, e
per quanto riafferma del consueto. Terzo pregio è un altro, fors' anche
maggiore. Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (Torino), ove
in polemica è chiarito assai bene anche con esempii il contenuto di
quelle due denominazioni. Chi poi voglia avere rapidamente un'idea su la
vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può per gli anni
1898-1905 consultare la intelligente rassegna di 0. Gruppeìu "
Jahresbericht tìber die Fortschritte der klassischen
Altertumswissenschaft „ Supplementband. Filosofico, si riferisce a un' alta
visione del jiassato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce di lui,
or come nebbia da piani pigri, or come da lago ninfea. Le vicende della
luce la iridano durante un giorno, e le compongono varia bellezza, fin
che la tenebra giunga. Ma il motivo delle trasfigurazioni luminose come
del sopravvenir tenebroso, è secreto dello spirito umano. Secreto
dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi piedi sul suolo tenace, e vede
intorno a sé la meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli
astri, purezze nivee e dentate di vette inviolabili, scompigli di chiome
arboree nello squassar dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana
opera finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli acri fumi ;
vede, e conosce, mentre un empito indicibile gli urta su la fronte le
tempie, illudendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza ineffabile
lo gitta prono nello stupore che paventa ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo
che con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli, la maschera
fosca del suo rivale, ad apprenderlo ed eluderlo ; e con occhi scaltri
studia nel moto i muscoli e gli artigli della belva silvana, per
farla sua preda o imitarne il destro miracolo ; e poi, con occhi ebbri di
sogno, nelle improvvise forme che la natura plasma tra cielo e terra,
nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque, ammira il volto del
suo nimico o la violenza della fiera. Appresso, su la prima trama
esigua, quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si consuma la
dolorosa fatica dei posteri ; che l'invenzione originaria non si perde, ma,
serbata tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte per
caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer lento e difficile dei
travagli clie martellano Fumanità nei secoli e le rodono il cuore
invincibile. Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri,
forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende, s'esalta delle cose
salienti, supplica, spera, esorta, rampogna. Il suo intreccio si foggia
su i meandri dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca le
potenze dell' espressione ; stimola 1' energia onde si crea il diafano
contesto verbale o si plasma nella dura materia il moto o si finge l'ansito
nel colore; e con lei genera creature d'ale e di fiamma, o per lei si
corrompe in miserevoli mostri e deformi. Far quindi la storia del
mito significa spremerne cotesto succo occulto, il quale si mischia
col nostro più profondo pensiero su la vita e saggia le nostre idee sul
bello sul buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua visione, e
la forza della sua espressione, e il suo lungo cammino. Idee che
costituiscono d'altro lato lo scheletro stesso della storia d' un
mito. Del quale il trapasso di forme può venir concepito geneticamente,
l'una determinando l'altra ; o staticamente, i nessi essendo privi di
forza generatrice; o in rapporto all'evolversi complessivo dello spirito
; o in altre maniere, di cui ciascuna dipende da una teoria filosofica.
Persino chi per orror metafisico mai abbia voluto impacciarsi di problemi
si fatti, porterà la sua avversione nella storia e ve ne lascerà i segni,
non giova dire di quale specie. Onde la conoscenza del mito di Caco o di
Andromeda, pur contenendosi nei termini di un limitatissimo fenomeno, pur
fermando nel pensiero una porzioncella minima del grande moto di cui
tutto il passato è pieno nella memoria degli anni, tuttavia impegna
con sé un'idea di quel moto e del nostro pensiero: la stimola e la
cimenta. FILOSOFIA: senza cui, il breve mito sarebbe assai poco ;
con cui, diviene moltissimo. in. Caratteri. Che
se a quest'ultimo i3regio filosofico pensiamo ora aggiunti in perfetta fusione
di Storia gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare sùbito
qual sia la lega comune onde tanto compatto è il resultato. Ma lega si rivela
l'intelletto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle discipline
propedeutiche, e le idee elaborate dal pensiero meditante, s'illuminano
di luce nuova nella vita dellintuizione, quando vengono esposti
all'attrito della realtà testimoniata. Di più non può dirsi: che ha da
restare intatto il mistero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede come
larghissima parte della intelligenza vada a imprimere la storia d'una
semplice saga; come quindi questa storia sia, anzi tutto,
soggettiva. Né forse è detto ciò senza stupore di molti ; perché
prevale oggi il principio della oggettività storica, tanto che il
riconoscimento del contrario nell'opera di chi che sia suona quasi a
rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a cercarvi le parole
della certezza assoluta, allettandoli con un equivoco ch'è quasi una mistificazione.
Si proclami dunque chiaro e alto. Nel racconto delle vicende storielle per
cui un mito si svolse sono le stimmate d'una personalità; né solo,
ma il valore di quel racconto è in queste stimmate ; in quanto la
personalità, non pure assomma, si anche fonde e ritempra, com'è necessario,
quelle cognizioni dottrinali, quella teoria filosofica, quella geniale
potenza intuitiva, che si riconoscono indispensabili alla
costruzione d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre, dalla
misura di esse cognizioni teoria potenza e del loro commettersi, dalla
misura, in breve, della personalità medesima, è segnato il pregio
del contesto narrativo. Dal qual evidentissimo principio si
definisce anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di chi ha
scritto. Non accettazione sùbita ; né reverenza ad autorità indiscussa :
invece, ragionevole assenso, ora parziale ora totale, ora nei particolari ora
nella sintesi. E sempre, al di là degli uni e dell'altra, valutazione del
pensiero che è solo responsabile e che, scoprendosi con arditezza,
accetta onestamente d'essere imputato. Compito arduo, adunque, è il
leggere non meno che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che
quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più, solo per il lato si
adempie che costituisce l'interesse onde mosse la lettura ; e da quel
lato soltanto sogliono originarsi le censure, le più modeste e le
più burbanzose. E a volta a volta la storia della saga di Cirene deve
soddisfare le pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato,
il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più lieve a tutti costoro
l'opera di critica rielaboratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, almeno;
non costumava cosi Tucidide, né Machiavelli ; con pena della moderna
indagine) mostra, in una qualunque parte del suo lavoro, i mezzi di
cui si è valso e le vie che ha seguite; onde ne è pronto il riscontro
(1). Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto della
soggettività fin qui rilevata. Quando l'artefice medesimo scinde, pei lettori
critici, l'opera propria ; allora, sopra le testimonianze e le formule e
i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan concrete ed esteriori le sue
idee e intuizioni, si cristallizzano in materia nuova su la materia
che vedemmo preesistere allo storico. Accade perciò, da tal momento, che
si possa misurare quanto ciascuna individuazione sia piena di
realtà, cimentandola con tutti gli elementi, divenuti esteriori e concreti, di
cui nella intimità e fluidezza dello spirito creativo essa si era nutrita.
Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto, vaglia, in qualità di
scienziato di filosofo di individuatore, tutti questi elementi, scissi
prima, organati poi; e valuta il pregio dei singoli e della
mischianza loro. Cosi, quel che fu già emanazione viva d'una vivente persona;
imponderabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e definito, per
tanto, '' soggettivo „ : diventa passibile di metro, di scandaglio e di
analisi; definito, per tanto, " oggettivo „. Sempre, per opera
dello storico la leggenda assume la finitezza della persona e i
caratteri dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.
(1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.
una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio e un termine, per
conseguenza un culmine ; v'è quindi un nascimento e un corrompimento,
fra cui si tocca la maturità. La storia d'una saga sarebbe dunque
una ^ storia catastrofica,, e sul suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a
risuscitar la creatura morta, ma pretensiosa di balsamarla? (1). Si
risponde: è catastrofica; già che si chiude col dissolversi di quel che
al suo inizio si compone : non è elegiaca ; però che, pur lamentando, se
crede, la morte avvenuta, ne indaga i motivi e prociu-a comprenderli col
pensiero senza stingerli col sentimento. Ma entrambe queste risposte esigono
d'esser più ampiamente delucidate. Qualche pagina innanzi fu
provato (per quanto io credo) che non solo è necessaria la storia
del mito per conoscer il mito, ma è in tutto legittima, perché opera
sopra un individuo preciso il quale ha una reale e non disconoscibile
esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'individuo risulta da una serie di
stadii, e ciascun d'essi non può star solo, ma è in intima attinenza coi
precedenti e coi successivi. Ora possiamo specificare meglio : che ciascuno
stadio rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco o di molto
momento, vi è immancabile l'attività (1) Contro le storie
catastrofiche ed elegiache si pronuncia Benedetto Croce in Questioni
storiografiche [" Atti dell'Acc. Pontaniana]. Egli muove, s'
intende, dalla sua identificazione della storia con la filosofia. d'un
artefice che ha segnato di sé medesimo, con grande o con piccola
impronta, la materia leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta
speciali energie e del mito sviluppa potenze che o vi giacevano celate o
n'erano state mal svolte. Per conseguenza, astraendo si possono considerare,
in un qual siasi stadio leggendario, tre elementi : la manifestazione,
senza cui non sarebbe ; la sostanza del mito desunta dagli
stadii anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di qui, son
possibili varie evenienze: o che a un certo momento ogni manifestazione
cessi, per qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza ancora
negli spiriti e nel mito; o che la manifestazione appaja inadeguata alle
precedenti e per ciò monca e non bastevole ; o che, in fine,
l'energie dell'artefice apportino alla sostanza della saga violenze che
la rinneghino. Nel primo caso, la catastrofe è sùbita e tronca un
rigoglio; nel secondo è preceduta da uno scadimento, che la
prepara; nel terzo, da una corrosione, che la vuole ; i quali due ultimi
è evidente che debban spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte,
è sempre. E la storia, in quanto storia, deve narrarla, come narrò il
nascimento ; ed essere, inevitabilmente, catastrofica. Non è,
dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza dubbio, se lo spegnersi d'una luce non
significasse, fra gli uomini che hanno assiduo il fermentar delle forze nello
spirito, l'accensione di un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi
ardito di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi ceppi si
spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è motivo a sconforto sol tanto per
chi brami, come meglio, la distruzion del tutto. Rimane, per altro,
legittimo, se non lo sconforto, il senso del danno. Lo stampo di Caco
s'infranse, e qual egli era stato concepito, quale gli artefici l'avevano
formato, ninna potenza terrena può ricrearlo indipendentemente: un individuo
insostituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo perdiamo. Molte saghe
venner create con bell'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte,
non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni dei poeti, i bronzi degli
statuarii, i gesti sacerdotali; non molte, poche divennero nell'epoca del
pili adulto pensiero classico, quando per contaminazioni la ricchezza del
numero si fu assottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova morte
sminuisce quella dovizia di una unità, scema questa bellezza di grande
efficacia : quel che sottentra è copia e grazia dello spirito
umano, della mitopeja classica non più... Una maggior individualità,
dunque, è minacciata dalle morti di questi minori individui mitici.
Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si squassa. Il genio
mitopeico.Quella individualità maggiore è oramai embrionalmente posseduta dal
nostro pensiero. Quando siasi letta la saga di Andromeda, e
poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora; appresso, non si conoscono
pure quattro vite di saghe, come fossero di eroi o di santi o di statisti;
ma è già vivo, se anche non maturo, nell'intelletto un nuovo sapere. La ancor
recente esperienza, rotti i termini entro cui si è formata, tenta di
organarsi in altro stampo, infrange l'intuizione del singolo per disporsi,
in che ? come ? Per la risposta, da principio ingannano due parvenze,
contradittorie nella forma, entrambe erronee. La prima
parvenza è brevemente questa. Con l'ajuto delle cognizioni acquisite
nello studio di quattro miti si possono perseguire due compiti
differenti. Uno, più modesto, consiste nel raccogliere tutti i fatti
constatati durante lo studio e nel disporli con altro criterio che il cronologico
e genetico : nel guardare, in breve, il medesimo mondo, nei medesimi
margini, ma da altro pimto di veduta. H secondo compito, in vece,
costringe a trascendere i limiti segnati dalle quattro saghe, fino ad
affermare di tutte le saghe qualcosa che per le quattro soltanto
venne sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto
l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa quello. Entrambi i
compiti hanno natura e scopo pratico ; come quelli che servono a
concludere ordinatamente sotto la specie di leggi (nel secondo caso) o di
formule (nel primo) esperienze compiute storicamente sotto la specie
delFindividuo. E sono, perché pratici, utilissimi ; né giova, secondo
piace a taluno, predicarli ridevoli o in altro modo spregiarli. Non
mostrano, tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il nostro
pensiero, elaborato che abbia un certo numero di storie su fiabe. Non può
esistere un soggetto vivo cui attribuire quelle formule e quelle
leggi, si cke gli aderiscano come i caratteri all'uomo ; ond'è che ci appajono
e le une e le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbitrarie le
formule, perché incardinate su criterii che non sono immanenti al loro
soggetto, ignoto e irreale, ma che vengono dal di fuori imposti
alla massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè temerariamente
affermano più del conosciuto, impegnando in sé, insieme con il già intuito, il
non mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà viva onde
germinano, incadaveriscono in freddo schema e, come schema, lasciano
straripare oltre di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle
quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando tal vita nella stessa guisa,
non sodisfano i^oi affatto un intelletto veramente avido di sapere
concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora insufficienti.
Fallita la prova di questa parvenza, l'altra vediamo qual sia, e
]Derché non appaghi. Dove fu avvertita mancanza d'un soggetto che
sostituisca nella nuova opera i miti, soggetti delle singole
storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea uno difatti, f)ur che
si astragga un poco come suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o
spirito, cui competano tutti i caratteri dei varii intelletti che influirono,
di stadio in stadio, su l'uno o su l'altro dei quattro miti
storicamente appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo e
fede, scettico scherno e dubbio religioso, preoccupazione sociale, sensualità
voluttuosa e i)regiudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni virtù
in una sintesi superiore alle contradizioni apparenti. Cotesto ente o
spirito avrebbe, forse. esso pure una evoluzione, e certi stadii
lungo i quali si disporrebbero le sue energie e i suoi attributi.
Parrebbe, per tanto, assai bene passibile di storia. Ma l'artificio più
palese l'ha origina to. Difatti, mentre chi narra la storia di un
mito opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé congiunti, e che
senza nesso non sono né pure compiutamente intelligibili ; i caratteri in
vece e le energie di quel pseudo spirito vengono solo per caso
delimitati, avvicinati e graduati : già che unico motivo per cui quel
falso ente si afferma con alcune qualità, e non altre, con alcune
vicende, e non altre, è la scelta, precedentemente fatta con criteri! estranei,
di quattro miti, e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli
attributi muterebbero numero, specie e successione. Segue, che è necessario
guardarsi dall'insistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si
voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e svantaggi teorici in cui
trascinano formule e leggi. Vinto l'errore, la salute appare
spontanea. Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero e non
artificiato, intuibile dallo storico e soggetto vivo delle nostre esperienze
anteriori, limitate per qualità e per quantità. Ora, se è (come dicemmo)
arbitrario determinare un individuo mitopeico valevole per quattro miti,
perché è introdotto dal caso, ossia dalla nostra anterior ricerca, il
numero di quattro : sopprimendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un
reale individuo, allo spirito greco-romano in quanto elabora saghe, o al
genio mitopeico dei Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito effettivamente,
di certamente vivifìcabile, di indùbitabilmente storico. Qui il pensiero si
ritrova a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la realtà
proteiforme ; qui formule e leggi vanno a confluire nella materia ignea,
rimettendo di lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incandescente. E
conquistato una volta questo certo soggetto, si comprende d'un tratto
come tutto che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe
conosciute vale ed è esatto per il genio mitopeico, ne è la storia ; è, sol
tanto, incompiuto e insufficiente : perché lembo di un tutto ;
lembo casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza di questo
tutto, ha importanza, dev'essere affermato, e può assumere, esprimendosi, un
tono generale. La medesima sua incompiutezza poi è solo in parte
insufficienza. E, in quanto oltre alle quattro fiabe cónte altre assai
sarebbero a disposizione del pensiero che volesse conoscerle in
istoria e attribuirle poi al genio mitopeico. Non è, quando si avverta
che, i)ur conoscendo tutte le fiabe, quel genio mitopeico
risulterebbe per noi sempre, dalle fortune del caso e dal decorso del
tempo, privo di qualche sua saga, e quindi scemo di talune energie, per
guisa che dovrà in ogni maniera venir intuito traverso molte si ma
non tutte le sue manifestazioni ; non dissimilmente dall'indole degli
uomini che la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli
istituti che remoti echi ci tramandano irregolari. Quattro miti son dunque poco i3er possedere,
nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo leggendario dei Pagani ;
tuttavia il loro insegnamento è certo, se bene incompiuto; insufficiente, non
arbitrario. Cosi le storie di quattro miti conducono alla storia
della mitopeja. La quale pertanto non può consistere nell'insieme
inorganico di quelle quattro singole storie, se si mantenga incompiuta,
né, se voglia integrarsi, nell'insieme inorganico delle storie su le varie
saghe conosciute. Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del nome
e dei libri: che noi vedemmo dianzi la esigenza di quella più larga
istoria emergere a punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non
sodisf acimento) di taluni racconti men larghi. Come, per analogia, le
biografie di cento individui non souD la storia della nazione cui appartengono,
e che li comprende in sé e in sé li distrugge. Flutti nel mare, le
molteplici saghe non s'individuano che a patto di delimitar volta
per volta il total genio mitopeico in margini che non sono i suoi proprii. E a
quel modo che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se non nella
umanità ; il Mito non sviluppa tutte le sue virtù se non se nella
mitopeja. E tutte non si conoscono, che spezzando in un testo più
ampio i termini in cui si conchiusero le conoscenze dei singoli. Evidenza pari
ha, o dovrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a questo. Dianzi,
giustificandosi legittima la storia di un mito, nell'atto di mostrare
come le molteplici manifestazioni leggendarie potessero aggrupparsi in tanti
cespiti quanti sono i nomi e le fondamentali vicende che accomunano talune
fra esse ; disegnavasi pure, come possibile, l'impresa di ridurre quelle
manifestazioni molteplici più tosto sotto le rubriche delle diverse
epoche e dei differenti luoghi, per comporre, con criterio cronologico e
geografico, la storia della mitopeja pagana lungo i secoli e
traverso le regioni del mondo classico. Età per età si vedrebbero gli
spiriti, informati da quella determinata temperie, intervenire su tutto
il patrimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue predilezioni nello
scegliere i soggetti e le sue attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo
una tale opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito temporale e
regionale dei Gentili, come se sia stata ristretta in taluni confini di
paese o di momento, è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?
o pure, anche da essa deriva allo spirito un bisogno più alto? Senza dubbio, un
paragone con l'insieme inorganico delle singole storie di miti
sarebbe a sproposito. In questo secondo caso difatti v'è organicità :
ogni epoca influendo su la susseguente dopo che la precedente su
essa aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani
riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe altro, o in senso
negativo o in positivo. Ma, a parte tal rilievo, è certo che il bisogno
sussiste tuttavia. Sopra le differenze più o men notevoli fra regioni e
tempi, colpisce in tutt'e due i casi la costanza con cui talune energie
dell'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle, influiscono su le
saghe: siano la fede e Tamor patrio, il senso naturalistico e l'acume
psicologico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale. Colpisce che,
come più si risalga nei secoli, meno fra esse intervengono nella
mitopeja, fin che alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che,
come più si discenda nei secoli, non solo si accrescono per numero ma quasi si
succedono per dignità, tramandandosi tal volta nel corso la
fiaccola, umanamente. Si comprende che son le potenze del genio pagano in
officio di mitopeja ; s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,
cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti nominativi, un'armonia ch'è ancora
imprecisa ma merita indagine; e si desidera cercare questa armonia
e quelle potenze. Concetti empirici, dunque, tali potenze? arbitrio
di astrazione a scopo pratico? Non cosi. Il tono generico è solo
esteriore ; nell'intimo, chi ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol
indicare qualcosa di assai individuo e concreto : altr' e tante energie
spirituali che, in certi momenti della storia, e in determinati punti
della terra, hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora
iridandola di sfumature, ora riardendola fin nell'essenza : altr'e tanti fatti
passibili di storia, e solo per storia conoscibili. Le carità patrie
di Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dionisio e di Luciano ; le
religioni d'un esiodeo e d'un latino : fatta breccia nei confini onde storicamente
son racchiusi entro un'opera e un temperamento, si compenetrano,
ricalcano l'un l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le
differenze, quelli e queste ordinano in sintesi: fino a divenire, in
diverso contesto storico, la carità patria, il razionalismo, la religione
del genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi non compiuto,
ma pm- sufficiente ; generale e individuato a un tempo. Generale, rispetto alle
singole saghe: individuato, rispetto al genio mitopeico.,— Di che può aversi
riprova. A quel modo che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, l’interesse
più attento soverchia il cerchio breve del palco ove poche persone son
mosse in non molte vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice
di quel moto ; del pari, per l'interesse più attento, anche gli
amor patrii di Vergilio e di Euripide, e i razionalismi di Dionisio e di
Luciano, competono fin da principio, dopo che a Vergilio a Luciano a
Dionisio ad Euripide, alla mentalità pagana di cui son pregni, alla vita
de' Grrecoromani nella quale immersi son trascinati subendo e reagendo, come
massi che il fiume ha composti e disgretola poi con la medesima
forza. Si che, a rigor di discorso, già i successivi stadii d'un
mito superano il mito, e si proiettano, in altra serie, su lo sfondo
comune, dove li dispone non più affinità di nomi e di casi, ma di
potenze spmtuali. Però a questa disposizione nuova manca tuttora
l'ordine della successione : che è, anche, l'ordine secondo cui la
mitopeja si evolve. Non può valerci più, adesso, il criterio cronologico
: atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto del tutto a
decider, con certezza che non sia di pallida congettura o non nasca da
arbitrio di pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza
delle sue acque nel mito prima che l' analisi psicologica vi gitti i suoi
dati. Interrogata al proposito, ogni saga darebbe una propria risposta,
diversa secondo vicende casuali o necessarie (1). Qualcuna persino mostrerebbe
contemporanee le manifestazioni in apparenza più Sul valore di queste
es^pressioni LA STORIA DEL MITO disparate o in sostanza più
contradittorie. E, per tanto, necessario sceglier altro mezzo allo
scopo di vedere il genio mitopeico vivere, com'è d'ogni individuo
definito, evolvendo le sue speciali energie. Ora, esso ha, tra i Pagani,
alcune espressioni che ci richiamano senza dubbio alla sua origine ;
altre, che ci riportano quasi con certezza al suo termine. Basta dunque, jier
graduare ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, compararle o alle
qualità originarie o agl i ultimi corrompimenti. Ma perché più certe
appajono le prime, a esse la com[)arazione va riferita. E tanto più
si sente, allora, tarda (nell'essenza) quell'energia che, acquisita allo spirito
mitopeico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per essa, in vero, lo
spirito procede, nel tutto suo insieme, a una tappa nuova ; si che il
momento della conquista è ben paragonabile all'oscillazione d'una
lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora. Una storia compiuta dovrebbe
però seguire il mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il punto
in cui dopo la precedente essa confluisce nella saga a nutrirla e
deformarla, e precisando il modo del deformare. Una storia, per
contro, incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i suoi
raffronti, mantenersi entro gli argini della sua incompiutezza, col
tratteggiare senza disegnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due
vedrebbero, oltre l'assiduo rinnovellarsi delle forme e il disordine
scapigliato in ciascuna saga introdotto dall'insita sorte, la vasta e
chiara armonia del complessivo progresso geniale, le cui pietre
miliari hanno nome dalle potenze dell'animo e dalle forze del
pensiero. Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa armonia,
apparirebbe la constatazione che tutte quasi le saghe, le quali la storia
può scegliere a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di fronte a
noi, in lavori di arte letteraria e manuale o in riti di culto, quando oramai o
per intiero o in buona parte lo spirito onde sono elaborate ha
acquisito le sue virtù: pel che quest'ultime possono manifestarsi od
occultarsi, secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco grado,
ma dalle vicende della fiaba. Succede, in somma, nei singoli miti, un
perpetuo rinnovarsi di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un diverso
stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che non è senza evoluzione ma con
evoluzione diversa dall'originaria. Condizioni di ambiente fanno si che
in una sola età, l'augustea, la leggenda di Caco si manifesti infusa di
x^atriottismo e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di
scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso Dionisio ; ma, contro
questa contemporaneità cronologica, non esitiamo a proclamare più vetusta
l'una forma a petto dell'altra nel riguardo della complessiva mitopeja.
Tal certezza si conforta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde
appare VergiKo attingere a più antica sorgente che Dionisio ; certezza
dovrebbe durar tuttavia anche quando il riscontro non fosse
possibile per qual siasi motivo. Com'è del mito di Andromeda, il quale è
già scaduto in un tentativo di travestimento storico allor che Euripide
lo solleva al culmine della sua vita penetrandolo di passione
patria e di pensiero religioso. Crii è che la mitopeja ha oramai il
possesso sicuro di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in volta
ne fa uso secondo richieggano sorti diverse. Spetta all'occliio dello storico
separare, caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio acquisto:
per decidere se lo stadio di una fiaba sia evolutivo solo rispetto agli
stadii anteriori di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo
nel progresso del genio mitopeico. Va perduto cosi l'impetuoso
rigoglio di forme, per cui le figure si moltiplicano disponendosi
l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i
casi si ripetono e s'intrecciano simiglianti e differenti ; e si dispongono in
racconti svariati, che ciascuno possiede, quasi nome personale, una
peculiare orma, né confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dall'arte,
ha destino qualche volta non perituro. La storia della mitopeja per
contro diviene scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza
creativa, la limitatezza fondamentale della manifestazione : il sottostrato di
potenza definita, di là dalla superficie delle creazioni che si tramutano
lungo serie senza termine e fogge senza numero. E né meno qui, in
quest'altro ufficio, essa si converte in scienza astraente e classificante.
Quando vengono disegnate le vie che la mitopeja trovò per le sue
creature, si adoperano certo concetti empirici e partizioni; quali
fra letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto, per cui il
filosofo userebbe termini ben diversi. Ma i medesimi concetti
intervengono nelle storie dei singoli miti, insieme con altri, e non impediscono
che quelle storie concretino individui ben precisi e reali. Si che a ogni
modo la loro presenza non può decidere senz'altro contro la natura
storica di un' opera. Difatti, ancor questa di cui parliamo lata storia
mitopeica fonde leggi categorie e formule nello scoprire: in primo
luogo, i confini entro cui tutte le manifestazioni favolose son racchiuse; in
secondo luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte; onde riesce
a precisare una risposta a questo problema, ch'è denso di realtà storica
: con che mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito pagano
mitopeico si manifesta ? Il badile
ed il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le pagine ove
Tincruento travaglio campestre e la sanguinolenta strage hanno diffuso
riflessi dolci e selvaggi. Ma poi che questa diversa istoria
del genio mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle sue
potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi compiuta, e non ancora
conchiusa, riapparirà a sua volta catastrofica e non elegiaca :
segnando, senza sconforto, la fine della mitopeja pagana. Non senza
rimpianto però, ch'è differente cosa. Non vediamo pili Centauri scender
galoppando dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera il
Sole muove verso l'ombra a combattere mostri marini e piegare tracotanza
di violenti. Quella cecità e questa negazione sono stati il prezzo
con cui pagammo altri spettacoli ed altre certezze. Ma il prezzo duole, nel
fondo del cuore, alla nostra avarizia di uomini, a questa cupidigia di
opulenza spirituale. Sin qui tentammo della mitopeja e della sua
storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che si forma nella pratica
degli studii e della vita, e si rafforza di esigenze, estranee bensì
alle fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un motivo
interviene spesso a ridurre le indagini e le ricostruzioni del mito nei
confini di una sol tanto fra le maniere dell'espressione mitica:
nei confini della letteratura. Certo, il genio letterario dei Grreci e
dei Latini ha saputo rendere immortale il tessuto de' suoi sogni mitici
con l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia concesso
senz'altro esser la letteratura di gran lunga preminente rispetto e alle
altre arti e ad ogni diversa forma del significare le saghe (1).
Non cessa però che di queste ridurre la storia nell'ambito di pur una fra
le loro espressioni è compiere una arbitraria amputazione.
Lealmente riconoscendola, questa colpa è grave. Né
medicabile. Si può palliarla: come suole lo storico dell'arte richiamarsi
per accenni alla storia civile e alla letteraria ; e cosi in reciproca
guisa. In ispecie quando, per le lacune che sono ampie e non rade nel pur
ricco patrimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più stadii d'un mito
sieno costituiti da nessuna forma di letteratura, bensi da prodotti
scolpiti o dipinti o in altro modo artisticamente lavorati dall'attrezzo
e dalla mano. Allora la storia monca deve a forza integrarsi di quella
sua parte che un caso rende ben necessaria e come vitale. Con
simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cultuali, e le formule de'
sacerdoti le litanie dei fedeli si cercano, farmachi preziosi, a supplire
e lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine non è se non
nell'intreccio del tutto ; e i riferimenti, fìngendola, tradiscono il
vuoto. Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con la
incompiutezza cui limitate esperienze entro esiguo numero di miti
costringono il ritratto del genio pagano facitore di saghe. Permane
: la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si che non è
pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal volta. Onde avviene che dinanzi
la storia insufficiente cosi della singola favola come della total
mitopeja antica, la nostra insoddisfazione si cresce del diffìcile sforzo
per rimanerne sgombri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso di
amarlo, con promessa di rendergli " senza vecchiezza né morte per sempre „
la vita, Odisseo, da la rupe a fronte del mare, piangeva la patria
lontana. L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Euripide fece
rappresentare in Atene una sua tragedia intitolata Andromeda^ alla quale
forniva materia un episodio del mito di Perseo. Ma se l'opera
dramatica aveva tratto dalla saga la sostanza a nutrire la sua compagine,
nell'opera la saga viveva una vita altra da l'anteriore: però che
lunga già e complessa ne fosse stata, innanzi, l'evoluzione.
Antichissimamente, negli anni cui corrispondono, eco affievolita, i più
vetusti canti della epopea e poche mal certe tracce, una assai uber
ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II cap. I; di
cui si citano i §§ nelle note successive. tosa terra di Grecia
aveva fecondato di sé un semplice racconto (1). Si narrava in
Tessaglia, e in ispecie nella pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide
poi, di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico), molto potente ma
triste. Vecchio, difatti, e non lontano da morte, egli era tuttora senza
prole maschile, unica essendogli nata una figlia a nome Danae.
Ansioso per l' avvenire di sua schiatta, si sarebbe recato a consultare
in Delfi l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta, non
essergli per nascer maschi se non da Danae, ma dovergli il nipote
togliere e trono e vita. Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura
fu posta a che la vergine restasse dal generare, contro la sorte.
Ma Preto, fratello del re Acrisio, riusci occultamente a renderla madre
d'un bimbo che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle tener
celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa vendetta del re impaurito, il
quale decretava che la giovine e il neonato fossero, come Preto per
altra parte fu, cacciati, e derelitti in balìa della violenta natura e
delle intemperie. Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e pervennero in
Magnesia: ove per loro fortuna li accolse un pescatore, Ditti, che li
ospitò di poi nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino
crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra i coetanei valente in
giuochi ginnici ove nerbo di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi
di braccia si rivelassero. Allora piacque al caso (1)
Cfr. § II e III. che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima
gara pubblica e che all'agone partecipasse l'adolescente Perseo e assistesse il
vecchio Acrisio ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile,
che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva sfuggire: il disco
venne dalla mano di Perseo lanciato, opera d'un nume! contro le deboli
membra del nonno, che ne fu morto. L'oracolo per tal modo compiendosi, il
nepote riconosciuto si ebbe il trono e la dignità dell'avo. Una tal fiaba
parrebbe germogliata, semplice e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù
aria, frutto non insolito d'un seme a più altri simigliante: ove la
stessa sua trasparenza non ne scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in
quel breve racconto, lo spunto originario della morte inflitta dal
giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio progenitore, che il
passato ha curvo e fiacco : dal Sole, ciò sono, nascente circonfuso
di purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole occidente verso
il bujo, circonfuso di pm-pureo sangue, dopo aver rischiarato il jeri.
Durante la notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e l'astro
giovine regna in luogo dell'antico, nato da una Danae (donna di quei
Danai che nella leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e
sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case sotterranee
diPolidette ("l'accoglitoredi molti „ sovrano dell'oltretomba). A
cotesto schema rozzo, cui è il mal grato biancore di ossa a pena
commesse, diedero nel principio veste di muscoli e colori i nomi locali,
che tante reminiscenze di bellezza e di rigoglio traevano con sé e
richiamavano a tanti concreti particolari della realtà : le pianure d'Argo
Pelasgico ; Larisa ; il venerando oracolo di Delfi; le montagne della
Magnesia in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima la luce
su i pascoli, e che dalle grotte temibili, disagiato ospizio di
fuggiaschi, recavano al mito un brivido tra di paura e di pietà.
Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù venne foggiandosi in
forme di plastica umana, s'innestò una di quelle novelle, simili tra
loro come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle quali il
popolo par condensare, con la propria esperienza, la propria filosofìa
della vita, i^erché vi fissa gli esempli tipici delle consuete
vicende (per lo più, familiari) e le sembianze caratteristiche delle
figure che sospinge la sorte comune. Traverso la fantasia delle masse,
come traverso un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei
pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle virtù che in genere
presso quelli si riscontrano, si affina in una selezione di cui è vano
cercar le leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio
tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il pastore, dico, o il
pescatore soccorrevole e onesto che come suo alleva, dopo averlo
accolto ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo schema della
fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e che l'ira del padre discaccia
per pena. Grracili virgulti quello e questo ; cosi fatti però che improvvisa
linfa vi rifluisce non a pena s'immettano sopra una determinata leggenda : cui
recano, per altro, non esiguo contributo in compiutezza e bellezza.
Nella Pelasgiotide appunto impressero alla fiaba tutta una diversa vivacità
romanzesca e forza dramatica. Non fu tuttavia sovrapporsi d'uno strato a un
altro, cosi che il più recente prevalesse sul più antico fino a ridurlo
in oblio: fu, come mi espressi, innesto; onde l'essenza solare di Perseo,
la sede orientale del bujo Polidette, permasero a costituire il
volto significativo del mito durante tutto questo primo stadio,
tessalico, della sua formazione. Il che fu chiaro in sèguito (1).
L'Argo Pelasgico o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo
poi, venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli scambi!
mitici fra i varii popoli della Grecia, con altro Argo, che sorgeva a
offuscar in gloria e potenza il più antico, ed era situato in un conchiuso
piano del Peloponneso fra monti e mare, nell'oriente della penisola. I
due Argo furon quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi il
peloponnesiaco; per guisa che a questo si riportarono via via le leggende
che a quello si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la nostra
di Perseo: il quale divenne adunque, se pm" nipote dello stesso
nonno, rampollo di schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popolazione
argolica assimilò ben presto la saga tessala con i suoi particolari e le sue
figure: persino l'accenno a la Magnesia, che quanto mai disconveniva alle
sedi mutate, si serbò in solco profondo ; persino, e specialmente, la morte
di Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e di mare separava
dal Peloponneso, si mantenne non alterata. Al conservarsi contribuirono
due motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per mezzo del suo
eponimo Magnete, che si fìngeva padre di Polidette e Ditti: facile quindi
sottrarre al nome della persona ogni valore di riferimento al luogo
geografico e ripeterlo fuor d'ogni attinenza concreta, A Larisa poi durò
alquanto un sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro perno
adimque, che nemmeno la nuova leggenda poteva facilmente
trascurare. Ma col proceder degli anni tutto che nel mito non
fosse o compatibile senz'altro con la mutata sede o ineliminabile per
cause intrinseche fini con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove
Ditti figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il padre di Perseo
vennero corretti e adattati: né è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più
antico ; ma si vede bene quale è per essere il più importante. A Preto
fu, nella seduzion furtiva, sostituito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da
cui si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo : già che forse
piacque cosi adombrare quel Preto che in Argolide doveva riuscir meno
noto, e che aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto
naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della Magnesia, pur permanendo
Magnete, fu sostituita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai
costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo. Perché quell'isola fosse
la prescelta, s'ignora; notevole a ogni modo è che per essa un
lembo di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata fra Eoli e
trapiantata in Argolide. Da Argo fra tanto il mito si diffonde: attinge
Micene, penetra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica, che s'inventò
come Perseo, ucciso il nonno, avesse onta di rientrare in Argo e
preferissenceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino Megapènte
figlio di Preto. Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno
Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in territorio jonico: si
prepara all'evoluzione futura una base duplice in cui son contenuti
potenzialmente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devolvono nel fatto,
simiglianti tra loro per sostrato e valore, e paralleli in modo che non è
riuscibile lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro. Era
leggenda fra i Joni (1) che la dea Atena, cui molto culto si tributava e particolar
reverenza, recasse sopra il suo scudo la testa di un mostro pauroso e
ricinto d'ombre : Medusa, una delle Gròrgoni dimoranti al limite estremo
dell'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare e si profonda nel
bujo. Su lo scudo quel capo significava trofeo d'una vittoria conseguita
dall'iddia avverso la protervia nefasta di quella figlia di abissi
marini. La leggenda era antica, traccia della natura xDrima ond'era
informata Atena, divinità della luce solare, nume del temporale, in cui
più vivo è il contrasto fra le forze luminose e la potenza delle tenebre.
E del Sole per vero un altro attributo si riferiva, tra i Joni,
alla dea Pallade: il possesso d'una cappa, lavorata nella pelle canina,
onde si dissimulava il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei
di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce agli occhi umani per
molte ore vestendosi di oscuro. C'erano adunque, in racconti
embrionali tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le quali, se
si accoglievano bene nella figura di Atena, non formavano ancora intorno
alla sua persona una veste cosi aderente, che non fosse possibile
separamela in parte con lievi alterazioni. Si direbbe anzi che la vittoria
contro la Gròrgone e la proprietà della cappa invisibile si
riportavano assai meglio al sostrato naturalistico della Dea che non al
suo individuo, alla folgorante luce che non alla sostanza corporea della
effigie umanata. E perché Perseo quando pervenne in Serifo, e come in Serifo in
Atene in Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo essere
dall'energia naturale (la veemenza del Sole) di cui era forma e onde era
nato, e poteva pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a
Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero e l'impresa contro
Medusa e il cappuccio canino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio
se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu quasi una contaminazione
delle due leggende in una; ma di due leggende non indipendenti né
ciascuna distinta per sé, si di due che si originavano da una medesima
intuizione delle forze naturali, e aggeminate si erano dopo che
aspetti simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto in luoghi
distinti doppio nome di Atena e di Perseo. Il racconto che ne
nacque, come prese a vivere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni
materia vivente in organismo : si accrebbe. La fantasia che plasma le
leggende ha certi suoi modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali
va foggiando analoghe le sue opere : essa imprime del suo segno
terreno il racconto di quegli spettacoli della Natui'a cui aveva già dato
volti e gesti umani : prende una seconda volta possesso della sua
materia. Cosi non concede essa all'eroe, e sia pur grande d'assai più
che l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. facile e pronto il
conquisto; vuole sia arduo: preparato con forza ed astuzia. Ecco imaginati
talismani senza cui l'opera non può compiersi e per i quali trovare si
richiederanno altre fatiche : ecco pensata, prima dell'impresa,
un'awentui'a preparatoria, ch'è mezzo non fine, ma non è
dispensabile : e all'avventura apparecchiati i personaggi. Qui, furono le
figure in cui la novella fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle
Graje, canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un occhio solo
vicendevolmente, masticanti, tre, con un dente. Esse, si narrò, sapevano
la sede di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non era
concesso ad uomo trasvolar fino al limite dell'Oceano presso le Gòrgóni,
e dalla bisaccia (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo
spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò dunque ma non ottenne né
quelli né questa se prima non ebbe con violenza privato le tre vecchiarde
dell' occhio e del dente, esigendo a compenso della restituzione i due
oggetti cui mirava. Gli fu agevole poi, auspice Atena,
conseguire lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce. Ermes glie
l'avrebbe donata, nume in particolare diletto, se pur non quanto Atena,
agli Ateniesi; il quale, avendo allora già assunto rilievo di
dio luminoso, era affine a Perseo e dicevole soccorritore contro i mostri
bui. Cosi erasi d'assai allargata la saga. A concliiuder la
quale non rimaneva oramai se non motivare l'impresa strana del
fanciullo cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.
Cronologicamente essa non poteva cadere ciie nell'intervallo fra l'ordine
iniquo di Acrisio e il ritorno del giovine sul trono avito.
Logicamente la causa dell'avventura e del pericolo aveva a
connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Polidette. E poiché non certo
l'originalità è più ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor
qui un comune motivo leggendario, stracco per quel che parrebbe a
noi, non tuttavia si sterile da non riuscire ad arricchii'e la fiaba di
quei tramiti episodici onde abbisognava. Come contro la Chimera fu spinto
Bellerofonte da chi ne desiderò la morte; come Q-iàsone in Colchide venne
inviato perché perdesse nell'arduo cimento la vita; cosi Perseo avrebbe
assunto il rischio medusèo per stimolo di Polidette, che innamorato
di Danae bramava toglier di mezzo il giovine difensor della donna.
Oramai il racconto era compiuto : armonico, organico, uno: vibrava
d'una forza sintetica dalla quale eran fusi i diversi elementi
confluitivi da parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetrazione, lata
e i)rofonda, nel suolo jonico a traverso strati naturalistici e nove] listici
aveva dato alla fine il suo bel frutto maturo. Analogo al
processo d'evoluzione mitica per cui il nucleo tessalo-argolico della
saga s'era accresciuto d'un episodio e di due campeggianti figure,
Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso terreno preparò novella
sixnigliante (1). Ma, a un tempo, incomparabilmente più complesso
ed inviluppato: tanto che l'indagine riesce a ricostruirlo non con la
fondata probabilità ch'è concessa all'esame del mito di Medusa, ma con incertezze
non jDOclie, e con grande cautela. Se l'ipotesi non erra, due personaggi
costituirono i X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è
Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta con i mostri tenebrosi
; l'altro è Cassiepèa o, come il suo
nome significa senza dubbio, la " millantatrice „; tipo popolaresco
della donna orgogliosa troppo di sua bellezza che osa competere in gara
ineguale con le Dee, e n'è punita per fiere pene nella sua prole. Due
perni adunque di essenza diversa, che l'uno è naturalistico,
novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un comune carattere precipuo:
l'attitudine, cioè, a commettersi con più altri elementi, a
raccoglierli intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi da
allacciare in maglia e in rete più trame mitiche distinte. Per essi si
formarono due compagini leggendarie che insieme li contenevano e n'erano
quindi accostate fra loro. L'una.
Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in particolare, un re mitico Càfeo o,
in altra forma, Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere e
attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo dell'Arcadia ; e che veniva
creduto signore di popoli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra.
Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli Etiopi, arsi appunto dal
Sol nascente e dal tramontante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi
nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli Etiopi reggeva il suo
popolo in quelle stesse lontane regioni, o in tutt'affatto conformi,
nelle quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso cui come a
simili mete muovono in awentm'a i simili eroi solari. Che anche fra gli
Etiopi nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a pena
bisogno, quindi, di dire. Per scopo fu scelto non an mostro specifico,
quale Medusa, ma una vagamente indicata belva che sorgesse da
l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soccorrevole, nell'officio di Atena
contro la preda gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine,
strenua in combattere, ignara di mollezze feminee, il cui maschio nome istesso
rendeva imagine di possanza non muliebre si virile: l'Andromeda. Qual motivo in
fine si ritrovasse alla impresa ignoriamo; ma possiam senza errore
fìngercene uno non dissimile da quel che apprendemmo nell'altro episodio, cosi
concorde con questo per contenuto forma e valore. Si ottiene un
mito modellato sopra i medesimi schemi su cui è foggiata l'impresa fra i
Joni ; nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma tutte le tinte
sarebber identiche se non fosser d'alquanto più sbiadite, e tutti i
particolari invariati se non apparissero scemi al paragone. Un
arricchimento però venne ad esso mito quando Cassiepèa vi fu introdotta.
E consistette non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione. si
più tosto nel trasformarsi profondo del significato complessivo che
quell'acquisto ebbe a preparare. Due avventure di Perseo contro mostri
delle tenebre non potevano non venir avvicinate prima, e dissimilate
i)oi. Si tramutò Tuna, la minore e più svigorita. E fu iDer un
evolversi, si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di
Andromeda. La " Maschia v, si andò raggentilendo fin che si transfuse del
tutto nel tipo novellistico della fanciulla che l'eroe libera di
prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco nella lotta, in gara
aveva lanciato i sassi contro il ketos avanzante dal mare, e un vaso
del secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del lancio, constringendole
e movendole le membra l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode,
premio insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, divenne
indispensabile giustificar la cattività della fanciulla, motivar la lotta
di Perseo contro il mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo
scopo. n vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese
punito nella vita giovine e florida della figlia, Andromeda fu tramutata
in sua figlia, sarebbe appunto stato la
causa prima del pericolo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo tutto
l'aspetto originario dell'episodio è alterato, nel profondo. La seconda
forma possiede la vita che non la prima. E individuata come non la
prima. Da l'una a l'altra segna il passaggio Andromeda
trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo che con lei si evolve. Ma se
questi sono di tal mito i personaggi caratteristici, i fondamentali
sono Perseo e Cassiepea. Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra, in
un'altra leggenda differente di origine. Protagonista è qui Fineo : divinità
del fosco settentrione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti opposti.
Benefico e malefico egli può esser difatti : secondo che dietro lui muova
il rigente turbine del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che
la freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ricacciando a mezzodì
gli affocati avversarli che il Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo
carattere fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli
sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle Arpie, mostruosi uccelli,
mossegli contro da Elios ene sarebbe perito senza l'intervento
de'fìgli di Bòrea i quali respinsero le moleste e perseguitarono a
ritroso fin là dond'erano venute. In tutto parallelo al formarsi di
questo mito delle Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il formarsi
della nostra saga intorno a Fineo. Contro di lui il Sole non si sarebbe
levato col maleficio deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con
la forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per vincerlo, non per
esserne sopraffatto. Non l'autunno sopravviene, nella nostra leggenda, a mitigare
le ardenze della riarsa estate ; si la primavera a dissipar le brume e i geli
foschi dello inverno. Ora l'eroe solare che trionfa del re
nordico fu, sembra, appunto Perseo, in singoiar duello. E cotesto
embrionale racconto, cercò, e trovò, un motivo in Cassiepea : ancor una
volta pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar la sorte
inferiore di Fineo, suo figlio : figlio per vero alla donna ce lo
testimonia l'epica che si dice da Esiodo. Col che si ottenne
anche di fornire compiutezza romanzesca alla favola, quando il
significato naturalistico ne andasse smarrito. C era dunque la materia,
idonea a produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé il
levame opportuno, un mito pur esso dramatico né meno denso di bellezza poetica.
In vece, prima ancora che riuscisse a comporsi in opera ben
delimitata, fu travolta e assorbita in diverso complesso. Però che i due
intrecci di Andromeda e di Fineo, ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea
apparivano non pure nell'identità de' nomi ma e nella analogia degli
uffici, non potevano rimanere distinti: e tanto meno potevano se, come
non è provato ma è forse da ritenere, un medesimo suolo li generava. Si
com penetrarono difatti fin che divennero una narrazione sola in cui gli
elementi delle due generatrici sussistevano tuttavia presso che integri, là sol
tanto alterati ove fosse parso inevitabile alla logica della
commessura. Rimase il duello fra Perseo e Fineo; rimase la discendenza di
Andromeda da Cassiepea: ma, e fu
il segno della connessione fra le 'due saghe indipendenti, la causa della lotta fra i due eroi, fu
rintracciata non più nel supposto vanto d'una madre, ma nella
stessa precedente vittoria di Perseo contro il ketos e nelle successive
nozze. Fineo, si disse, sarebbe stato il promesso sposo di
Andromeda avanti la venuta del giovine liberatore: cosi ignavo
prima a soccorrerla, come presuntuoso poi nell'accampare diritti di
precedenza. Inascoltato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato con
l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa fiaba di doppia
scatuiigine : senza che nulla dei due miti che vi si fusero (su Cefeo
l'uno e Andromeda, su rineo r altro) andasse perduto, tranne il nesso di
maternità fra Cassiepea e Fineo. Chi confronti ora da un lato
l'avventura medusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed Ermes, e
l'impresa d'altro lato avverso il ketos con il premio della vergine e il
contrasto con Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei due
episodii, senza indagarne il significato recondito ; non vi trova pili tracce
di quella simigliali za che le saghe della "Maschia,, e della
Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li avverte dramaticamente diversi,
materiati entrambi di moti sentimentali ma or verso la madre Danae
or verso la liberata Andromeda; di cimenti perigliosi ma ora contro Medusa
spietata ora contro la famelica belva ora contro l'imbelle
ostinato. La cosi ottenuta diversità formale, permise a chi volle
aggruppare intorno al nome di Perseo tutte le vicende di lui, di comporre
queste due in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la
uccisione del nonno Acrisio. Un'opera siffatta fu compiuta da Ferecide,
il quale ci trasmise tutto il mito, nel suo insieme organico, e divenne
per tanto la base prima d'ogni ricerca costruttrice (1). Ne possediamo un
sunto per opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è necessario
integrarlo col testo del ben più tardo Apollodoro. Non ridaremo qui la
trama disadorna. Essa non è più per noi, nella forma con cui ci pervenne,
il corpo, plasmatosi dopo la lunga gestazione per effetto della sintesi
narrativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla nascita misteriosa
vediamo Perseo compiere, dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue avventure,
la medusèa e l'etiopica, per ritornarsene in Serifo a impietrar Polidette e in
Larisa a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi in Tirinto
il suo regno, che Argo gli era divenuta infesta. Ma effetto dell'esser stata
raccolta in sintesi la serie delle gesta eroiche di Perseo non fu solo di
fargli attribuire per arma contro Fineo il capo della Gorgone o di
condurre sul trono di Argo Andromeda regina; ma fu, più tosto e meglio, di
sottraiTe all' episodio del ketos ogni vita autonoma : valse esso
qual momento d'una complessiva azione ed ebbe valore di conseguenza da
un lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto, doveva dal tutto
ricever sua norma e sua importanza: fin che al meno non ne fosse mutato il
sostanziai contenuto; e l'essenza sua romanzesca, gradita a' novellatori,
tanto più quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di
particolari le vicende, di gesti le figure, non si trasformasse in
essenza diversa. Nel molto che andò perduto eran certo forme
varie di cotesta indispensabile trasformazione. Una ne ravvisiamo
tuttavia appresso gli storici del secolo quinto (1). Per essi la favola
di Perseo e Andromeda acquista una importanza nuova di reliquia fededegna
serbata a traverso gli anni. La cagione è un avvicinamento verbale : uno
de' consueti di cui si compiacque la fantasia degli anticM nel conato e
nella pretesa di farsi pensiero critico : fra Perseo e i Persiani. L'
analogia non etimologica ma fonica indusse a ritener quello capostipite di
questi: non direttamente però, si bene per mezzo d'un figlio suo di cui
fu coniato il nome " Perse „ per più di verisimiglianza. A dar
poi un aspetto anche meglio credibile alla congettm^a fu addotto il nome
d'impronta ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani, "
Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ; quello, posteriore, tolto
dall'eroe e dalla sua discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal
fine, sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli Etiopi, sudditi
di Cefeo nella più antica saga: però che essi si riconoscessero, in
quell'epoca, or mai identici a reali " Etiopi „, situati al
sud dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Cefèni „
desumendoli, come traspare, dall'appellativo medesimo del re. E si pensò che
a Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio di Andromeda e
Perseo ; che Perse, guidando i Cefeni, li conducesse a sottometter gli
Artei ; e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui si
denominasse Persiano. La garbata ricostruzione critica non fini in questo :
perché, difatti, i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi gli
Artei? La risposta si trovò combinando questa congettm:"a con
un'altra. Oltre ai Caldèi semiti che avevan sede intorno a Babilonia,
eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto, presso i Mariandini e i
Paflàgoni; e il gruppo esiguo di questi si riteneva un ramo da
quelli staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre sul Ponto la
leggenda delle Arpie affermava abitar Fineo fratello di Cefeo e principe
per tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni avevano
abbandonato la regione loro, allor quando da Babilonia i Caldei eran
mossi verso il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la
trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si diparte una schiera di Caldei ad
occupare la terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ; che
si spingono verso gli Allei, li sottomettono e insieme divengono il popolo de'
Persiani. Se non che questa mitopeja di eruditi pur riuscendo
a staccar l'episodio di Andromeda in singoiar guisa dalla leggenda di
Perseo, infondendogli una essenza nuova dissonante dal resto della fiaba,
finiva però in una soppressione dell'avventura. La venuta di Perseo fra i
Cefeni, la lotta col ketos, le nozze con Andromeda, il duello con Fineo, sono
un niente a petto della conseguenza precipua su cui ogni altro
fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le premesse non hanno più vita
artistica; le conseguenze, ne hanno una storica. Una pseudo realtà nasce;
ma la bellezza muore. Per tanto, se le gravi lacune del nostro patrimonio
letterario troppo non ci traggono in inganno, l'episodio di Andromeda, che
nacque dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii» emergenti a
lor volta su da rigide abitudini mentali e in mezzo a consueti aspetti
della fantasia mitopeica, non solo perde presto la sua autonomia
col commettersi ad altre vicende, ma indugiò a svincolarsi da F impaccio,
e a circoscriversi in forma e colore : a bastanza, perché il senso
critico lo adulterasse e, un poco, lo vituperasse. n. Euripide.
Fu sorte della tragedia dare a esso episodio di Andromeda il
contenuto nuovo : che non fu né romanzesco né storico ; ma psicologico.
Di altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euripide possediamo i
frammenti bastevoli a ricostruire il drama, se non ne' suoi particolari
di arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo nelle sue
linee maestre (1). Era consuetudine ferrea che la tragedia
nei suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale modo i tragedi
pervenissero all' elezione del tema e alla scelta dell'argomento non è
possibile dire, per la oscurità imperscrutabile de' processi artistici tal
volta inconsci, e per la penui'ia I frammenti, naturalmente, son
citati e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^ (Lipsia
1889). delle notizie tradizionali. Sol tanto si può con qualche
chiarezza intendere come il problema di arte si presentasse al poeta
allor quando si accinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andromeda ; come, in
somma, lo spirito di lui prendesse possesso, nell'impeto creatore, della
materia leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi, come
ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi distinti : e l'uno era il
divino, palese nel potere singolare della Gorgone e nel volo miracoloso
traverso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per consenso di Dei ;
e l'altro era l'umano, sensibile nell'amore dell'eroe con la fanciulla,
nel corruccio di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nuziale di
Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano la loro unità in un terzo, che
è, in somma, del mito il carattere eroico e la forma romanzesca.
Euripide adunque ebbe, dinanzi al suo pensiero, l'umano, il divino, l'eroico.
Di questi, uno suscitava spontaneamente il suo più vivo interesse. Non
solo difatti egli staccava nella tragedia l'episodio mitico dalla serie
narrativa sua I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta
la dramatica greca, di appassionare non la fantasia bensì il sentimento degli
sf)ettatori; e lo sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio e
forza intrinseci non per smaglianza esteriore di tinte. Le menti in cui
il mito ora si accoglie, come sono ben lontane da quelle che
l'hanno creato dinanzi la natura e complicato in novella, cosi son
anche più mature dell'altre che ne han goduto, con puerile compiacenza,
lo straordinario e l'impossibile. Per certo le più antiche e le
moderne cerca van tutte nella saga una verità ; ma la verità naturalistica
e la verità eroica non appagavano ora quei cittadini di Atene che
vi desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto spostarsi
dell'interesse mitologico, il colorito romanzesco che un tempo riusciva
opportuna o indispensabile commessione fra i due diversi elementi
della fiaba, sopravviveva adesso, insieme col divino, quale materia in
apparenza superflua. In qual maniera difatti allivellare sopra un
piano medesimo una gesta miracolosa, un affetto terreno, un intervento di
Dei? E ovvio però che il poeta non vide, come qui criticamente si espone,
il suo problema; ma che lo intui da artista. A punto per questo egli
non ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le sue opere; ma
il genio gli soccorse, or peggio or meglio, di volta in volta, e a
seconda dei casi in guise diverse. Poiché ci sono rimaste
nella loro integrità V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel
medesimo 412 da cui V Andromeda si data, intrawediamo a bastanza la vita dello
spirito euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte tentava il
nodo mitico di Perseo. Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra
tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed Oreste che, contro ogni
vincolo di stirpe, per (1) L'analisi, che segue, del
pensiero religioso e sociale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo
(edizione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed emana da
quello. Di più cfr. § Vili. vendicare il padre uccidono la madre ; clie
odiano fino a darle la morte la donna da cui nacquero, ma le sono
tuttavia carnalmente congiunti, cosi che col sangue di lei scorre nelle
lor vene una indicibile virtù di amore e rispetto : protendono da la
scena una dolorante maschera umana ; fraterna con la grande pallida
faccia intenta dagli scanni del teatro. E quando Menelao reduce da Troja
naufraga su le spiagge d'Egitto recando con sé la riconquistata Elena ; e
vi s'imbatte nell'Elena vera, quella che gli Dei recarono celatamente in
Egitto, mentre un vuoto simulacro fuggiva con Paride e presedeva
alla decennale guerra; e la gioja irrompente per la ritrovata sposa
s'urta nello spirito del principe con lo sconforto per i travagli
sopportati in vano e la vita gittata in vano da centina] a di prodi
: allora con la sua s'agita la sorte di tutte le creature terrene, cui
piacere e sofferenza giungono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno
nell'altra.— E in queste situazioni palese l'immergersi dell'artista nella
sostanza dei personaggi, nella correntia delle vicende, con un oblio completo
di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un sistema filosofico applicato, co' suoi
postulati generali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso, dal
profondo, con la freschezza d'una polla cui s'apra nel terreno la via. Ma
di qui non è possibile indurre riferimenti con l'ambiente storico del
poeta o, peggio, conseguenze intorno allo stato psichico di lui in quegli
anni; ma solo intorno al consueto modo della sua forza d'arte.
L'animo di Euripide si rivela più in là. In quello anzitutto che dalla
tradizione egli accettò. ANDROMEDA Giacché nei miti di Clitemestra
uccisa e di Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non
poteva respingerené poteva non alterare. Tali l'oracolo delfico di
Apollo, che avrebbe imposto a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e
l'ordine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto Elena in Egitto e un
simulacro inviasse a Troja, permettendo sperpero immane di energie e valore.
Cotali interventi divini eran la premessa indispensabile dell'azione ;
divennero per Euripide radice di nuova tragicità : però che, tanto più
gli parve orribile il delitto di Elettra, in quanto era ineluttabile ; e
in quanto voluto dal Dio sommo, tanto più spaventoso il vacuo
scempio di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto adunque le
parti divine della tragedia si connettono per lui strettamente con il
travaglio umano ; ma costituiscono una forza cieca e buja contro
cui bisogna urtare : simile al peso corporeo che non s'evita con gli
slanci dello spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime
con i trovati dell'ingegno. Onde il poeta accettò l'oracolo di
Apollo ; ma chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose non
savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... taccio:
certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non rispose.
E anche si domandava, e fece suo interprete il Coro, " perché o Dioscuri,
essendo Dei e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non
distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi (1)
Elett. vv. 1245-6. rispondere con una parola ch'è poco o molto,
àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito s' è formato un
concetto alto della divinità : giusta, la pensa, e misericordiosa; da
essa non può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia, né
alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro
le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato gli manda.
Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non
decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata
col prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza.
Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta
nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima
per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di
conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che nella
realtà si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di
Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol
salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra
tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case
olimpie,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene
fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar
cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo
Febo... taccio: certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ (1) :
o sia non rispose. E anche si domandava, e fece suo interprete il Coro, "
perché o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa ch'è morta
Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi
(1) Elett. rispondere con una parola ch'è poco o molto,
àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito s' è formato un
concetto alto della divinità : giusta, la pensa, e misericordiosa; da
essa non può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia, né
alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro
le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato gli manda.
Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non
decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata
col prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza.
Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta
nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima
per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di
conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che nella
realtà si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di
Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol
salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra
tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case
olimpie,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene
fedele al marito lontano e sopp orta paziente l'ignominia che cade
sopra lei incolpevole, confusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teoclimeno,
ajuta lei nel proposito, non il fratello (1) Elett. vv.
1298-1301. ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto,
cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii sarebbero d'assai più
piccini, nell'animo, che i terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche
qui il problema si formula ; ma nulla lo risolve ; nessun raggio
fende il cumulo nero nel cielo. Osserva il Coro (1) : " Chi è dio,
chi non dio, chi semidio? qual fra i mortali, anche spingendo molto
lontano la sua ricerca, dirà di saperlo? quale, dopo aver visto l'opere
divine or qua or là balzare con contradittorie e inaspettate
vicende?,,. Nessuno risponde. Questo silenzio è una tragedia a sé.
Non si svolge materialmente su la scena, accanto i personaggi sé moventi,
ma è nello spirito del poeta, ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la
seconda tragedia, più che la prima. Non di compassione, di simpatia geniale
verso la sofferenza d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e
strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La quale nasce ad Euripide
nel seno medesimo della sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo
pensiero di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai la
concezione omerica e infantile degli Dei, non vi crede ; l'ha sostituita
con una più matura. Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo
mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama. Poeta, sente l'urto
fra le due idee; se ne tormenta : ripete a chi l'ode la favola bella
degli antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo (1)
Elena tv. 1136 sgg. sofia ; questa e quella compone,
senz'accordo logico, entro il suo affanno. Ma oltre
agl'interventi divini, che la tradizione postulava nel mito, ed Euripide
accetta travagliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche hqW Eìena^
giunte che il poeta solo volle e in cui espresse il pili personale tra'
suoi aneliti ; intrusioni sgorgate da un animo che, non pure
assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella saga si profonda e si
abbandona, anche con quelle forze e ricchezze che le sarebbero
estranee. Tale s'originò nel drama di Clitemestra la figura
del contadino, povero e rozzo, ma pur squisito di sentimenti e schietto
di azioni : VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta in
sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli se nati da nobile genitore.
Egli, come apprese la condizione della fanciulla che gli veniva destinata
e gli scopi della regina, fece rinunzia a' suoi diritti coniugali, pur
continuando ad ospitare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo, per
eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando aijpare su la scena verso
l'alba e l'ultime ombre son vinte da le prime luci, fanno sfondo i
campi arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la Terra, la
grande generatrice di frutti buoni e di forze sane. Dopo, ogni suo gesto
è virile e sobrio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela
semplice perché diritto : e mentre Elettra ed Oreste si laniano di
x^assioni, di odii, di paure, egli va crescendo in valore fino a
superarli nella sua persona salda e nel suo fermo polso. Né basta.
Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama gli sguardi su la sua
creatura : e ad Oreste fa A. Feekabino, Kalypso. 5
esclamare con maraviglia un poco attonita: "Ahimé! Non v'ò
criterio alcuno a distinguere la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli
uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di padre generoso; e
rampolli onesti di genitori perversi ; la penuria nello spirito d'un
ricco ; la magnanimità in un corpo povero. C'ome orientarsi ? secondo il
danaro ? mal fido criterio questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la miseria
è una malattia, cattivo maestro è il bisogno : secondo l'esercizio dell'armi ?
ma cM risguardando a la lancia giudicherebbe qual sia il virtuoso ?
Meglio sembra lasciare indecisi codesti problemi. Costui per esempio
grande non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne per rinomata
schiatta : è uno dei molti : e pure si rivela ottimo „. Ottimo si che la
sua onesta figura divien quasi di maniera e par disegnata per
dimostrar una tesi o attingere uno scopo. Quale tesi o quale scopo si
propose Euripide nel concepirla e nello stagliarla? Non meno
larga che neìV Elettra è nelV Elena la novità introdotta. E anzitutto nella
scelta medesima della favola : un mito secondario che risale a
Stesicoro (2) e che, a lato della principal leggenda di Menelao e Paride
a Troja, sembrava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il tragico lo
preferi per motivi ch'è vano indagare; che forse si assommano nel
desiderio di met (1) Elett. vv. 367 sgg. (2) Cfr. Bethe
Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclopàdie, VII (1912) pag.
2833. terne in risalto il singoiar contenuto. La donna bellissima
che, secondo la tradizione diffusa, sarebbe stata causa unica di ire e guerre
per un decennio, di sventure ed errori per altri dieci anni di poi
; la donna su cui pittarono tutti gli strali dell'ironia del sarcasmo e
fin dell'odio i poeti misogini ; è di colpo trasformata nella più
pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha giurato a Menelao di
" morire ma non mai violare il letto „ (1) ; né ha giurato in vano, che
di morire è sul punto, e attiene la parola, ed è beata di cadere, dice
al marito, " vicino a te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse
troppo) il coniugale amore di Menelao ; che le afferma " Privo
di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più li preoccupa di scomparir
degnamente cosi " da acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di
affetti traverso anni e vicende acquista il suo più vero significato
quando venga contrapposta all'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone,
di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa difatti e V Elena le attinenze sono
indubbie, non pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe più,
spiritualmente : su la fine difatti di quella prima viene annunziato e
svolto in breve il tema della seconda (5). E le attinenze divengono
palesi quando le due cognate si paragonino fra loro e le due sorti. Clitemestra
non è presso Euripide se non la malvagia donna : tale la condanna
Elettra che le rinfaccia il lusso e i (1) Elena v. 836. (2)
Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840. (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg.
vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella bensì
rimproverando ad Agamemnone l'uccisione di Ifigenia ; in vano : " la
moglie bisogna che, s'è savia, tutto consenta al marito „ (1); non è
giustoj per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne nell'Eliade
(2). No, osserva sdegnata Elettra, tu nascesti cattiva (3) : " tu,
prima che fosse decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena
da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio le bionde trecce
della tua chioma „ (4) : e " la donna che, assente il marito, adorna
la sua bellezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato amico di
cotesta non buona, figura Egisto, non prode, non nobile, ma ambizioso
della sua grazia corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle
donne. C'è dunque nelle due tragedie il riscontro fra due coppie :
riscontro a base morale, ma introdotto dall'arbitrio dell'artista in miti
privi d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perché introdotto? perché
l'arbitrio? Alla domanda che per la seconda volta in breve
esame ci si presenta non si deve rispondere se non dopo aver rilevato un altro
particolare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il simulacro d'Elena e
ridursi in nulla sforzi durissimi e sacrifìzii immensi, si accende di
sdegno contro gl'indovini che, prendendo parte all'impresa, non scorsero
la verità, non svelarono il comune abbaglio, né evitarono vittime
inutili. Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere Elett. V.
1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061. (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib.
vv. 1072-3. degli auguri sono stolte e menzognere!... Calcante non disse
né rivelò all'esercito vedendo gli amici morire per una nuvola ; e né
pure Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse, che un Dio
non volle. E perché allora ci rivolgiamo agli auguri ? agli Dei basta far
sacrifizio invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii : furono
inventati ad allettaménto della vita, ma nessun ozioso divenne ricco per
gl'ignispicii. Il senno e il buon consiglio sono l'augure migliore „ (1).
Per contro è nella tragedia personaggio, non pur dramaticamente notevole,
ma anche moralmente insigne, Teonoe sorella di Teoclimeno, la quale
dagli Dei possiede la virtù di saper tutte quante cose avvengono ; è
quindi invasa da una potenza profetica analoga alla magia d'un
Calcante o d'un Eleno. Ma ella è buona, ella è giusta, ella è savia : sa,
ove occorra, tacere al fratello gli avvenimenti più vicini affinché
trionfi la fede amorosa di Elena e Menelao. Perché aver creato questo contrasto
? Che non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi per bocca del
Nunzio come per bocca de' Dioscuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i
casi il suo più soggettivo pensiero. In questo suo pensiero
sta di fatti la ragione e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e
della purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme di
vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia, di cui quelle son le
forme momentanee ; è morso (1) Elena vv. 744
da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono gl'indizii
occasionali. Egli appare un moralista. Ecco i personaggi per
cui parteggia con simpatia : una moglie onesta, un marito fedele,
un'indovina equa ; la figura che crea con compiacenza paterna : un
lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che avversa acre e violento : un
bellimbusto galante, una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un
lato coloro che rientrano nel suo concetto del bene e del giusto ;
dall'altro quelli che appartengono al suo concetto del male e
dell'iniquo. Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul principio
che regola la sua morale ; solo la espressione può venirne
discussa. Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo ci
s'accorge che quel bene e quel giusto egli vuole a prò dello Stato, che
VavtovQyóg egli reputa degno e capace di governare la pubblica cosa, che
di mariti e di mogli simili ad Elcna e Menelao gli piace constituita la
polis a scopo di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che il
suo occhio mira più in là d'una teoria morale: mira, fiso e intento, ad
Atene, alla patria. Mentre scrive, navi e uomini ateniesi sono in
pericolo in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K a poco
in disastro immane. I Dioscuri si affrettano a conchiuder V Elettra perché
debbon " salvare le prore nel mar siciliano „. Il Peloponneso
minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte non volge migliore. E
all'interno ? E peggio. La democrazia non dà buoni frutti dopo la
morte di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel potere
con quello degli estremi : ed è tale la EURIPIDE 71
sfortuna di Atene che gli uni non attingono il governo se
non quando le disfatte han dimostrato rinettitudine degli altri, e non son
per per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano a lor volta.
Ogni mutamento è una esperienza; ed ogni esperienza, fruttifera di tosco
(1). Sopra tutti, male comune nell'inettitudine comune, si stende
la piovra della cupidigia, la sete del guadagno a ogni costo e in ogni modo.
Corrono massime cui ciascuno informa l'opere se non le parole : '
beato chi è ricco ', ' la ricchezza è potenza ', ' il ricco è libero, anche se
schiavo ; il povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è il
danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno in una lotta, ove il pregio
morale non conta, la forza intellettiva non importa più che il
tesoro cumulato ; forse meno. Aspra e grovigliata situazione adunque
; difficile a risolversi. Che per risolverla bisognava superarla ; piegar
la realtà possedendola sino al fondo, conoscendola in ogni forma ed
esigenza. E difatti voci di riforma e tentativi d'un rivolgimento
costituzionale serpeggiavano e fermentavano all'oscuro : si preparava la rivoluzione
dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta la materia sociale toccò
Euripide ; il suo spirito ne fu macerato e sconvolto : però che contro
l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ineriva il suo ideale con i
pallidi sogni. Egli non Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik
(Leipzig 1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui è
veduto con gli occhi di Euripide. segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu
in vece con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli adxovgyoi
della sua fantasia, con l'Elene e i Menelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza
politica, che il suo genio d'artista non poteva né doveva
sodisfare, in esigenza morale: spostando i problemi dalla sfera pratica a
quella etica. E divenne malinconico di speranze deluse e rinascenti. A canto
alla tragedia religiosa sussistette nel suo spirito quest'altra: di
patriota, di statista, che è a bastanza acuto per vedere i problemi, troppo
poeta per saperli risolvere.Tragedia flebile, nella quale confluiscono, opportunamente,
tutte quante le quistioni minori della vita sociale e familiare ; le
contese minute su questa legge o quel decreto : le spine sparse
lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invettiva contro gli auguri,
secondaria piaga dello Stato ateniese e di tutte le poleis greche,
che repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di filosofo
evoluto, alla sua coscienza di cittadino probo ; e il riscontro di Teonoe
in cui il vero dono divino si rivela appunto pel modo del suo uso e
la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „ corruccio ancor questo:
che favore di auguri aveva secondato l'infausta spedizione
siciliana. Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nell'animo del poeta
per tal via: melanconico spiraglio alla più intensa vita. Mirabile
di intuito psicologico nell'elaborar la materia umana del mito ; pensoso
su' dubbii della Tucidide VII 50; Vili 1.religione e della filosofia ;
preoccupato dalle sorti politiclie e dalle condizioni sociali della
sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto di due interiori
tragedie. Crea, dopo V Elettra e con VElena^ V Andromeda. Il
suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i particolari minori e grinciampanti
aneddoti della saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel
pensiero di chi imaginò la lotta di Perseo col ketos la tragedia era nel
combattimento delle due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto.
Nel pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la leggenda dell'eroe
argivo e ne divenne mitografo, la bellezza era constituita dal numero e
dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del poeta di Atene, il
pregio consistette nell'amore di Perseo e di Andromeda : il congiungersi
dei due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in cui novellamente
l'antico mito viveva. Ogni altro elemento si dispose intorno a questo :
dal quale ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il primo
flusso del nuovo sangue infuso nella vecchia compagine: fu vigoroso ancor
pili che non sembri. Come dichiarano i frammenti, a l'inizio
della tragedia appariva la fanciulla sospesa a una rupe, in abiti
di cerimonia festiva, mestissima e piangente. I lamenti di lei Eco ripete
da lungi; non lontano è il mare onde la belva vorace verrà al
selvaggio convito ; sono li presso, in Coro, fanciulle etiopi, le eguali
di Andromeda, che tentano vani conforti a la tremenda sciagm-a. E notte.
All'alba il ketos deve sopravvenire. E nell'animo degli astanti la
deprecazione del male imminente lotta con la tormentosa ansia pel
greve indugio : l'attesa gravita su i capi come un mostro informe. "
sacra notte, qual lungo cammino con i cavalli percorri, reggendo il tuo
cocchio su gli stellanti dorsi del divino etra, traverso il santissimo
Olim^DO ! „ (1): tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore
si ribella contro l'asprezza del fato e la trista disparità del dolore : "
loerché più larga parte di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è
presso alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta il
conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre sente alleviato
il suo male, se del pianto fa parte con altri „ (3). La sofferenza che
sta nel petto, senza sollievo, con la durezza della materia minerale, e
non prorompe se non per voci d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha
inteso il moto compassionevole delle compagne, si discioglie nella
rievocazione lacrimosa di tutta la vicenda : la vanità f eminea e il
puntiglio divino onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla
pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di forza narrativa, si di
spasimo lirico : che si assommano nel presente pianto della figlia punita, e di
quel pianto s'impregnano. Ve su la scena, nell'ambiente creatovi
dall'arte, un'amara voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una
insistenza : non sposa a nozze, e delle nozze avrebbe diritto pel fiore
della sua giovinezza, ma vittima a sacrifizio la fanciulla è
recata; non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi
(1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119. e tra il compianto virgineo
(1). Ma a rompere Tuniformità di questo tormento, giunge a traverso
l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal rischio di morte incontro a
Medusa: il capo ne reca in Argo (2). E radioso della sua recente
gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce prima : "" Dei !
a qual terra di barbari col veloce sandalo siam giunti? (3) Che
vedo? Timagine d'una vergine, come scolpita da mano sapiente
tra i rupestri rilievi! „ (4). Si fa poi sollecito. E richiede l'avvinta. Ma
invano. " Tu taci „ la persuade " ma il silenzio è inadeguato
interprete del pensiero „ (5). Non senza rancuna son le prime parole di quella
: " ma tu chi sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore
la tradisce e senz'altro, per la veemenza del soffrire, non definisce
audace colui che persiste nel voler sapere, si comx)assionevole : "
ma tu chi sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine, ho
pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni freddezza si dissipa. Quel che
d'ostile era ancora nelle parole della fanciulla si placa. Quel che di
vago era nell'animo dell'eroe si concreta. Fr. 117, 121-122. Convengo col
Bethe " Jahrb. des Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa
scena, nei particolari esteriori, è rappresentata sul cratere del
Beri. Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, però,
ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura a sinistra
di Ermes. (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124. Fr. 125,
parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127. (7) ibid. Inverto l'ordine dei due
versi ipoteticamente dato dal Nauck. La frase dell'uno
accende quella dell'altra ; si susseguono rincalzandosi per armonizzarsi
in un concento unico di vivace simpatia vicendevole. E alla fine la
generosità dell'eroe, la quale si forma adesso assai più nell'inconscio
secreto del cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli forti e
pronti, erompe in promessa : " vergine! s'io ti salvi, mi sarai
grata?,, (1), Egli si è traditela sua prodezza non vuole compenso per solito
; la gloria gli è premio valevole. Ma quel che ora chiede è più che
una gloria : è il possesso magnifico, Andromeda intende ; se non che il
suo animo troppo è ancora tenuto dall'imminenza mortale per
abbandonarsi alla fede: teme d'illudersi : e lo dice " Non m' esser
cagione di pianto, inducendomi speranze! „. La risposta, che nasce
da l'immensità del suo soffrire, può parer dura al generoso offertore;
l'istinto femineo se ne avvede e la spinge a soggiungere : non per
colpa di te " ma molto può avvenire contro l'aspettazione... „ (2),
La speranza di campar la vita non è nata o almeno non è del tutto
salda; è nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome del suo
passato di vittoria, della sua strenua energia, dell'animo bramoso che lo
incende e gli moltiplica le forze, riesce finalmente a trascinarla con sé
nel sogno, a persuaderle certa la liberazione prossima. E Andromeda
allora lascia ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa onde
è dato al giovane, oltre l'avanzante mostro oltre la minacciata morte, su
la rupe triste sul (1) Fr. 129. (2) Fr. 131.
mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero ! e tu conducimi,
come tu vuoi, sia ancella, sia moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che
soffro tutto; mi sciogli dai vincoli! Perseo combatterà difatti il ketos
sorgente da " l'Atlantico mare „. E gli s'affollerà intorno "
tutto il popolo dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando
una tazza d'edera colma di latte, chi succo di grappoli „. I principi,
" in casa, a torno la tavola del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog,
la coppa del salvatore (2). Sùbito profondo si manifesta, in
questa ch'è la fondamental intuizione psicologica della tragedia, il
progresso rispetto al mito ferecideo. In quello Andromeda non è più, nel
suo intrinseco valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo
offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fanciulla è mezzo nelle loro mani ;
come è vittima nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta:
meglio, l'anima non le è data. Euripide per contro ne fa il centro della
scena : plasmandola d'una sostanza indipendente, la costituisce di
sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in una persona non
comparabile con altre, la crea fuor dalla materia ove si giaceva informe.
Ella gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura mesta le si
accoglie d'intorno nel compianto di Eco. Ella contrappone il proprio
forsennato desiderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol morta ; e
ogni volto, dal cielo dalla terra dal mare, la guarda. E quando il
giovine eroe giunge, (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr.
145-148. la divinità di lui si menoma e si abbassa dinanzi la
sventiu'a di lei: ella è chiusa in una corazza dura di dolore, ed egli
supplica. Poi, tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie
Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia Andromeda si piega in lacrime, e
il giovane venuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di sé, ch'è
per affrontare il ketos, tutta la luce. Ma è parvenza fallace. La vergine
lancia al fervido desiderio del prode il grido della sua dedizione,
e si afferma per tanto di nuovo, vivace, nella sua libertà che dalla
passione forma il volere, del volere compone il proprio decreto. La
" Maschia „ che nel primitivo antichissimo mito ajutava d'opera e di
consiglio Perseo contro la belva, era più vigorosa corporalmente;
non era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella tragedia
euripidea, una tanto geniale innovazione doveva sembrare anche anarchica
urtando contro le consuetudini legali e morali della vita ateniese;
e per ciò senza dubbio si dovette velare e temiDcrare agli occhi dei cittadini.
E chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo, o prima o dopo, a
simulare la sanzione paterna, e a ricomporre nello schema giuridico la
mossa ardita della figlia. E fine si manifestava forse, in questo,
l'arte del poeta. Ma s'ignora. L'intervento, tuttavia, di Cefeo non
fu senza effetti. L'amore della vergine che prima della lotta
trionfale era come offuscato di paura e di speranza egoistica se ben legittima,
dopo si velò di malinconia contrastando con gli affetti filiali.
" Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ? Lontano : in Ai'go, in
Serif o. Ma ell'era unica al vecchio padre canuto : e la dipartita ne
diveniva grave, aspra la lontananza : era svèlta ancora (da un
eroe, sia pure, non dalla morte) alla vecchiezza di lui. Accanto al padre, la
madre : colpevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel doloroso
contrasto levasi l'appello al dio che travaglia, a Eros, il quale
dovrebbe soccorrere i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di
uomini e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle o ajuta
benigno gli amanti che penano pene di cui tu sei l'artefice ! E, per tal
modo facendo, onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo
stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia di che ti onorano „ (1).
Calda invocazione che tanto piacque al pubblico perché nella veemenza dell'amante
incontro al Dio della sua passione traspare il profondo gaudio, onde, pur nel
soffrire, non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a tollerarlo.
Eros soccorrerà nel fatto : l'amore vince. Era ancor questa
una giunta di Euripide al mito. Ma secondaria: un che di
convenzionale la gravava ; non improntandola il segno del pensiero
innovatore, ma parendo scaturir ovvia dalla situazione medesima. Per ciò
lo spirito dell'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue quel
dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto e dirizzarlo a scopi diversi,
più profondi o più larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psicologica
queir ansia pregna di preoccupazione Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5.
Cfr. § VII. politica, quel travaglio complesso di meditazione
sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due tragedie soggettive al
poeta e tutta l'opera magnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui
crede di aver esaurito per una via la materia psichica del dramma, una
nuova senza indugio gli s'apre : cessa di toccare la più schietta
ma generica umanità del suo pubblico, per eccitarne peculiari moti
e destarne i singolari interessi. Parlava all'uomo : parla all'ateniese.
E, al solito, l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro alla
difesa della giovinezza e della passione, da lui concette e atteggiate
sotto la piti seducente specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere
il pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cassiepea spetta di
combatterlo. Qualunque sia la quistione giuridica o sociale o politica di
cui è per far cenno, dalla sola impostatura dei termini si comprende che
Euripide, anche una volta, aspira a risolvere una difficoltà empirica col
criterio non dell' utile e del pratico ma del buono e del bello.
La quistione poi non è sola, si consta più veramente di due. I genitori
della vergine s'armano oltre che dei proprii diritti sentimentali, di
sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento degli esseri si trasforma in
un contratto economico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto da la
pietà ospitale, ha troppo palesemente la peggio di fronte a le ricchezze
dell'unica figlia del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : "
Oro io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche se schiavo,
onorabile è l'uomo ricco ; il libero, bisognoso, a nulla riesce : l'oro
riconosci causa della felicità! „ (1). Che importa forza di
gioventù, ardimento di cuore ? clie importa la gloria immortale, per cui
" già morto, già sotto la terra, sii venerato ancora „ ? Nulla :
" è vano : fin ch'uno viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta
obiettargli, con l'esempio recente, che si può per ricchezze
fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3). Risponde, al ricco anche
la sventura esser più lieve che al povero: già che quello non
soffre se non del presente ; questo " ogni giorno spaventa il
futuro, che non sia dell' attuale il dolore avvenire più grande „ (4). Il
dissidio fra la fiducia idealistica e il materialismo gretto si assomma
in una sentenza : " questa delle ricchezze è la maggiore : nobili
nozze contrarre „ (5). Euripide ha torto ; la ragion pratica lo deve condannare,
se pure lo asseconda il sentimento. Ha torto tanto più quanto che egli ha
lo sguardo non al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla
plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale dei suoi concittadini. Ma
se il fine propostosi dal tragico non vien conseguito, un altro lo è,
più dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare la piaga, di
stimolare i cuori. La memoria è recente della sconfitta tócca in Sicilia
; è vivo il lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie di
Siracusa gli urli de' suppliziati giungono ancora in Atene ; ognuno interroga
l' imminente destino; ma le risposte scavano inutili l'aria torbida
d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr.
§ VII. (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137. A.
Ferbabiko, Kalypso. cader la sua massima morale il suo rigido e
teorico principio, se non insegna una via, disgusta del presente cammino.
Nel male generico poi rocchio di lui scorge, e rileva, un difetto
specifico. Nel 451 a. C, quarant'anni
circa prima deìVAndromeda^ Pericle aveva proposto e fatto votare un
psèfisma, secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i nati da
genitori di cui l'uno fosse non cittadino. E tale legge era durata in
vigore di poi fino ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Aristofane.
In verità se si pensa agli scambii continui fra Aliene e gli alleati e gli
stranieri, ci s'avvede subito in qual forte numero gli Ateniesi dovevano
veder diseredati i x3roprii figli e decaduti a un grado inferiore, solo
per aver contratto unioni con donne straniere. Pericle stesso fu colpito
a causa di Aspasia da Mileto. Né solo il sentimento coniugale e l'affetto
paterno urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte le esigenze
politi clie gli eran contrarie. Se né pure la cittadinanza dello sposo
poteva far ateniese, per esempio, una donna nata in città della Lega
marittima, dura e perigliosa barriera si rincalzava fra gli alleati ed
Atene, la quale pur del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la
loro fedele assistenza doveva contare specie durante le guerre infelici. Onde
il largo spirito euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse
la società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo etnico che la saga
conferiva ad Andromeda per riproporre al suo pubblico il quesito scabro.
Ad Andromeda difatti diceva il padre, o la madre : " Non
voglio che tu n' abbia figli illegittimi ! che, ai legittimi in nulla
essendo inferiori, soffrono per legge: da questo è necessario che ti
guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi fatto mònito è pari alla
profondità del problema toccato. Perseo accoglie su di sé le simpatie non
pur dell'autore si del pubblico, per la sua generosa attitudine verso la
vergine. Ch'egli proprio sia la eventual vittima della dura legge ;
che la ragion giuridica stia con il cattivo genio della tragedia
avverso il buono : trasporta l' uditorio intiero contro il decreto e gli
strappa, non per raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo.
Aristofane muove a riso se un suo cotale perde l'eredità a causa del
psèfisma periclèo. Eurij^ide indigna se fìnge Perseo offeso non nell'
avere ma, dopo un estremo rischio, nel giusto compenso d' amore. All'
architettura passionale la scenica doveva corrispondere per modo che
non s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né dell'irrazionaUtà (2), di
cui qualche mediocre spirito potrebbe menare grande scalpore.
Anacronismo e irrazionalità era difatti mostrare Perseo ed Andromeda
sotto l'aspetto che so ? di Pericle e
Aspasia : l'arte forse non se ne avvide, certo non li discoperse. Ma
restano essi indizio d'un' alterazione del mito ben più profonda ed
esiziale di quella operata dalla genialità iDsicologica : ch'era tuttavia un
modo di (1) Fr. 141. Cfr. § VII. (2) Mi piace
qui ricordare l'arguto e acuto studio di G. Fraccaroli su L'irrazionale
nella letteratura (Torino 1903). rivivere il mito, di serrare e
appalesare i tramiti fra la nostra essenza umana e le favolose vicende.
Invece, una volta intrusi fini di riprensione politica e di biasimo sociale
sopra la trama della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita.
Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del ketos, affronta problemi
proprii dello statista, non prosegue se non l'opera del mitologo che, al
medesimo proposito, finse l'amore di Andromeda e il vanto di Cassiepea :
quegli immette nel mito la società, questi l'uomo ; e tutt'e due
sviluppano r antropomorfismo contenuto nel primissimo germe. Si
assiste cosi a una penetrazione successiva e graduale del fenomeno solare
nella sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento procede, tanto
meno il mito serbasi, qual era, mito di maraviglia cui si presta la fede
non razionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta in paradigma d'una
teoria logica, in schema di una tesi politica. In vero, dopo che Perseo è
divenuto pretesto a un problema giuridico, egli è per diventare l'esempio
aggraziato d'una fra le possibili soluzioni : segno che già
l'intelletto si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla
vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono però le sue prime
rigogliose radici. Mentre da questo lato la leggenda si
profonda verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pensieri. Il
religioso spirito di Euripide non mancò di agitare, anche per Andromeda e
Perseo e le vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.
Quanto e come, è impossibile dire: solo per barlumi s'intravvede alcunché :
" Non vedi come la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno ri
EUKIPIDE 85 volge l'un qua l'altro là Quegli era
felice ; lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega la
vita, piega la fortuna con lo spirar dei vènti „ (1), " Non v' è
mortale che nasca felice, senza che in molto l'assecondi il Divino „
(2). E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di Zeus e
seder presso ai falli degli uomini „ (3). Né manca un moto d'ira contro
la divinità che ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è
espresso in forma accorta e velata : non avverso a Posidone e alle
Nereidi, si a Cefeo che ha ubbidito loro. " Spietato è quegli „ dice ad Andromeda
il Coro " che dopo averti generata, o afflittissima fra i mortali,
ti concesse all'Ade in favor della patria ! „ (4). Di questi
frammenti il principale, da cui traggono luce gli altri, è intorno
a Dike, la Giustizia : e si compie esso con un suo analogo, rimastoci
della Melanippe incatenata (5). " Pensate voi che le colpe balzino
su con le ali presso gli Dei? e che poi qualcuno vi sia per inscriverle
entro le tavolette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda giustizia ai
mortali? L'intiero cielo non basterebbe, se Zeus volesse annotare i peccati
degli uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esaminarli e
aggiudicare le pene. Aprite gli occhi : Dike [non è là su: ella] è qui
basso, vicino a voi,,. Dunque Euripide ha un concetto di giustizia
(1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel secondo, Tòv
al V. 1. (2) Fr. 150. (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non
TifioìQlag. (4) Fr. 120. (5j Fr. 506. a cui non vede
rispondere né l'opere né i decreti divini, a cui gli pare meglio s' addica
la condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo fra Zeus eDike:
questa non può seder presso quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e
pene: queste mal rispondono a quelle né sempre presso al "
fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità: un re felice è tramutato
in infelicissimo per l'ambizione di talune iddie ; un eroe
vittorioso non ha la gioja del premio e deve superare nuovi
contrasti; la figlia è punita per la madre. E pure tutto ciò vogliono gli
Dei dall'alto. Che cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio?
La domanda angosciosa, l'eterna del dubbio tragico, - ritorna, e
accompagna, in tono minore, il concerto delle passioni eroiche e dei problemi
sociali. Ma cotesto non è più mito. E critica del mito : in
quanto esso contiene un ricco elemento religioso. Critica singolare però : che
è insieme atto di negazione e atto di fede. Euripide accetta la
leggenda, la narra senza alterarne il lineamento essenziale. Solo dopo si
domanda s'essa riveli un legittimo procedere della divinità. E la
sua risposta ha un sottinteso profondo. Egli potrebbe difatti negar di
credere al racconto per le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al contrario,
perché le sente, dopo averle psicologicamente vivificate, umane e, come umane,
verisimili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo. E una maniera di
sceverar, nella fiaba, la incorruttibile verità, il dolore l'amore la
morte, dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti e le forme
divine. Se non che essa verità caduca non è morta, ha vita in assai spiriti ancora:
quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo svilupparsi da' suoi
impacci è un travaglio. E il tentativo di ripossedere totalmente il
mito fallisce; una rocca resta inespugnata. Cosi fu adunque, dal
genio artistico di Euripide investito il problema che la leggenda eroica
di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero. Della leggenda la
sostanza umana fu la più riccamente rielaborata : quella in cui lo
spirito creatore si profondò con la sua potenza d'intuito da un lato, con
le sue preoccupazioni di politica da l'altro; quella per cui l'animo si
compiacque della finzione antica, e la godette ricreandola. L'elemento divino
fu contemplato con occhi di esitazione, accettato quasi rassegnatamente.
Al di sopra si conservava intanto la patina eroica, lo splendore delle
avventure, la maestà delle figure e dei gesti. Perseo giunge a
volo.; reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro orrendo : v'è
quanto basta perché chi s' appaga dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra
specie, immensamente lontano. Non si sa se nella tragedia avesse luogo, come
nel racconto di Ferecide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due
rivali: certo questo fu, se mai, un fatto di più, non un sentimento
nuovo: rientrò insomma nella sfera estrinseca eroica della tragedia. Ma
sostanza umana, elemento divino, vernice romanzesca non trovarono
la loro sintesi se non nell'unità dello spirito euripideo : sintesi che
non è concordia logica, né armonia estetica ; si bene vita in angoscioso
travaglio ; nel quale l'intuito psicologico e l'affanno politico e il dubbio
religioso si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo, la sorte
di Perseo assommano in un solo vivo vertice le divergenti passioni dell'
intera tragedia. Per comprender questa nella sua forma poliedrica, per
ravvisarla una, oltre le superfìcie molteplici, bisogna aver ricostruito
l'animo del poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui potè
identificarsi anche il popolo d'Atene: una sola volta: quello stesso anno
412 onde nacque e in cui fu rappresentato il drama. Preoccupato del pari,
aveva sotto gli occhi uguali spettacoli, sentimenti simili ne scaturivano.
Agli spettatori come al poeta il fato travaglioso dell'eroe, audace
generoso e mal soccorso dagli Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike,
si tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più sorda di
spavento : chi avrebbe retto e vigilato, da l'alto, le infortunate
vicende della grande Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende
argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi gl'inconsci
risguardanti, da quando un psèfìsma di Pericle viene opposto al suo
amore; si è quasi fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da
quando il suo impulso ideale vien premuto dalla material cupidigia.
L'incerto futuro che lo elude ha la maschera ambigua dell' avvenire che
attende, lontano, la Città confusa. A lui definisce la sorte Atena,
apparendo a predirgli le nozze con Andromeda, il ritorno in Argo,
l'assunzione in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tramutati in
constellazioni. I problemi umani della sua vita sono tronchi da un
intervento divino : non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascoltanti
il timore per le imminenti sorti della patria; s'accresce il senso vivace
del mistero che regola le fortune terrene. Se non che
Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico del mito compaginati negli
spiriti di Euripide e del primo suo pubblico, non significa che si
fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione può, nello spirito,
comporsi per il dolore medesimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio,
disarmonica la forma estetica che la esi^rimeQuindi l'unità è momentanea, non
stabile. Le diverse materie della leggenda si serbano disgregate e
inorganiche. E, non potendosi nel tempo, se non per via di critica,
riprodurre identico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'età che fu
sua, le innovazioni che al mito ne erano derivate non accolgono simpatie
e non trovan cultori. Ond' è che il drama nella storia della fiaba
rappresentò una pausa senza echi. Dopo Euripide. Si assiste,
nell'ulteriore vicenda del mito, a un lento ma spiccato impoverirsi della
sua vita. Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece, di
arricchimento; la tendenza verso una poliedrica complessità: onde naturalismo e
novelHstica s'eran da prima complicati insieme, avevan avuto giunta dal
romanzesco, per attingere il sommo della pienezza nel dramatico
travaglio del pensiero religioso e politico, il vertice dell'altitudine
nella fine intuizione psicologica. Dopo Euripide, la parabola discende
sino ai confini d'una più consueta mediocrità: si che par nel
principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi se non il midollo
originario della fiaba, ma si mostra poi ch'esso medesimo è presso che
inaridito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza alle fogge
giovanili, acerbe più che esigue; si bene lo spirito che negli inizii
verso lei convergeva intiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo
allargarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si immerge in altre
creazioni. L'impoverirsi della leggenda di Andromeda è parallelo al
formarsi del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un nuovo
stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a
foggiarsene e riempire un altro : maggiore. Il lamento ch'è solito
allo storico del mito si deve ripetere ancor qui: assai fu perduto che
ci avrebbe di molto giovato nello studio di cosi fatta decadenza
mitica. Non son più che quattro gli autori, in cui ci ritorni il racconto
del ketos; ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa
caratteristica. Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con
l'altre ancor questa favola, si riconnette a Ferecide : muove ciò è, non dalle
forme eh' essa aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua
origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più, pio ti) Dal numero è
escluso Igino Fav., come quello che contiene varianti di particolari, ma
non imprime d'un propi'io segno la fiaba. coli insignificanti
particolari; qua e colà, quasi in margine, ferma la notizia d' una
tradizione alcun poco diversa dalla ferecidea. Chi legga distratto
vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi abbia intenti d'investigazione
erudita : nel che si appalesa dunque la caratteristica di questo
strato evolutivo. All'autore che la narra la leggenda è morta: è cadavere che
egli ricompone fra bende, con qualche cautela, a fin che poco di
quelle membra che furono organismo vada disperso. E vi sono ragioni
pratiche per cui, nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo
compilatore ; presso il quale è già armonia di contesto e compiutezza di
termini. V'è, inoltre, una ragione più alta, intima alla logica
dello sviluppo storico, onde Euripide dev' essere taciuto : la singolare
opera di lui non ha vinto, e la volgata con tutte le sue piccole e grandi
varianti è oltre; più sopra o più sotto, non importa ; è distinta e
prevale. Quindi ben fa chi compila a lasciar quella in oblio: le compete
luogo fra le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche
della mitopeja; già che la distinzione deve valere, se mai per alcuno, per il
mitografo tardo. Se non che tale aspetto non fu del solo Apollodoro.
Anche di un poeta. Ovidio mosse del pari, se pure non nell'atto materiale
del suo lavoro, certo nella sfera fantastica della sua mente, da Ferecide
: o sia da quelle che in Ferecide erano le fondamentali intuizioni della
saga. Ciò sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ; la
ricchezza dei gesti e dei movimenti nei personaggi ; il pathos sobrio dell'
idillio fra i due giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa
e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol tanto entro i loro
limiti il poeta si concede di imitare altre fonti, sia pure Euripide.
Il romanzesco imprenta tutto quanto il compatto manipolo degli esametri
tra la fine del quarto e il principio del quinto libro nelle Metamorfosi.
Sottinteso costante e necessario è il miracolo della potenza oltreumana:
dal volo che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del capo
gorgoneo che termina l'episodio. In apparenza però Ovidio non se ne compiace
con la maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di comprimerlo in
termini di umanità. E fallacia. Certo, il ketos avanzante al feroce
convito vien paragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il confine mostruoso. E
Perseo gli piomba di sopra con l'empito discendente dell'aquila: non
insolito spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simiglianza di cignale
fra cani in torma : scena cui è abitudine nella vita comune. E lo
scoppiar degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria dell'eroe
richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri. In realtà, queste similitudini
umane riescono una più sicura esaltazione dello stupefacente: necessarie
perché le intuizioni si concretino, escano dall'indefinito ferecideo, e
conseguano una plasticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il
riscontro consueto e terreno : utili, di più, per creare, di là del
riscontro, il contrasto fra lo straordinario e il normale. Si compie qui,
accanto a un magistero d' arte più evoluto che vede i particolari e li
esprime non li accenna, uno sforzo per accrescere la distanza di cui separasi
la terra dal cielo, la creatura dal semidio. Gli corrisponde il rombo del
verso. A che fine? Per la metamorfosi che conchiude, in due riprese, il
racconto. In quella il romanzesco si dissolve, come in sua foce : il capo
di Medusa che impietra in coralli le verghe del mare e converte lo
stuolo dei congiurati in affoltata marmorea di statue danno una sanzione
estrema a l'inverosimile che precede. Non in egual modo, a dir vero
; che ciascuna di quelle trasformazioni ha importanza speciale, né può valere
se non congiunta con la prima o la seconda delle scene in cui il
racconto si divide. La prima è intorno alla venuta di Perseo,
al duello con la fiera, alla vittoria (1). Novamente da l'una
parte e da l'altra egli si avvince con le penne i piedi ; della curva spada sì
arma : e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e di
sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte etiopiche e i campi
cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva ingiunto che l'incolpevole Andromeda
della materna lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,
avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non avesse agitato i
capelli né gh occhi stillato un tepido pianto, opera di marmo l'avrebbe
creduta. Ignaro ne avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto
dell'apparsa (1) IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H.
Magnus (Berlino 1914). bellezza dimentica quasi d'agitare le penne
per l'aria. Si ferma. "0 tu dice degna non di queste catene, ma di
quelle che serran fra loro i cupidi amanti, il nome a chi '1 chiede
rivela della terra e di te, e perché porti legami „. Si tace ella da
prima né osa parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi
il volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, e poteva, di
sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più spesso, svela, perché
celar non sembrasse delitti suoi proprii, il nome della terra e di sé, e
quanta fosse stata fiducia della materna bellezza. Ancor non
compiuto il racconto, l'onda risuona : avanzando, la belva a l'immenso
mare sovrasta, e molta sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine.
Doloroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri entrambi, più
giustamente questa. Non recano ajuto con sé, ma, come vuole il momento,
pianti e lamenti, e si serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla :
" Di lacrime molti giorni vi potranno restare ; a porger salvezza è breve
l'ora. Questa s'io vi chiedessi, Perseo nato da Giove e da quella che
rinchiusa Giove fé' pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della
Gorgone anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali volatore
ardito, sarei qual genero a tutti, per certo, anteposto. A tante doti io tento
di aggiungere un benefizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio
valore salvata, sia mia, fo patto,. Accettano (chi avrebbe per vero
esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote il lor regno, i
genitori. Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro
le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale la fiera,
spartendo con l'empito del petto le onde, tanto dalla rupe distava,
quanto del cielo interposto possa Balearica fionda col piombo vibrato
varcare : allorquando d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la
terra, alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque fu
vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista ombra la belva. E come
l'uccel di Giove, vedendo che nel campo sgombro un serpe al Sole le
livide terga concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca
non torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea; cosi
con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della fiera fremente oppresse
le terga, nel fianco destro l'Inachide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo
(1). Laniata da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora
si asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di fiero
cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno spaura. Egli causa con
l'ale veloci gli avidi morsi ; adesso le terga soprasparse di cave
conchiglie, adesso dei fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda
si termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella con la
spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti misti con purpureo
sangue. Le penne asperse s'appesantiron madide : né Perseo osando più oltre
affidarsi a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo
vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate. A quello
poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i gioghi estremi, tre
quattro volte inferisce la spada nei fianchi colpiti.
D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le superne case de' Numi.
S'allietano, lo salutano genero, ausilio della schiatta e salvator io
proclamano, Cassìope e Per avere una idea precisa della " spada
ricurva, " falcata „ di Perseo e per comprendere il v. 720
{curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon d. Gr. ti. R.
Mythologie III 2 (Leipzig Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la
vergine, della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta
purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda l'arena il capo
gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno, virgulti distese nati nel mare,
e sopra vi pose la testa di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal
succoso midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al contatto di
questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse rigidezza inusata. Ma
sperimentan le ninfe del pelago il mu-abile fatto in più verghe e con
gaudio lo vedon ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser
su l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta, che dal
tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era verga nel mare, sopra il
mare sasso diventi. Seguono le scene di festoso tripudio cui s'abbandonano
con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti. E si termina, col libro quarto, il
primo episodio, per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo,
deve soffermarsi sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra
Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sentimento attorno cui Ferecide
aveva trovato raccolta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sordina. Un che
d'ignoto par che l'attenui come d'un velo. Cosa non senza maraviglia,
giustificandosi tutto il successivo evento appunto dal sorger dell'amore
in Perseo e dalla promessa del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è
il vertice avventuroso del racconto, questa scena a l'inizio
dovrebbe esser il perno sentimentale o, meglio, umano. Ora in ciò a punto
è la causa del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo senso
d'arte l'avverti che questo poteva divenire "iin elemento
disgregatore, una disarmonia nell'opera: e la passione tramutò in accordo nuziale.
I due protagonisti impiccioliscono visibilmente: ella s'induce a rivelare allo
straniero il perché di sua xDOsitura " a fin clie non sembri
celare colpe sue proprie „, e accusa la madre: egli sciorina dinanzi ai
piangenti genitori, mentre la belva avanza e il terror tragico martella
i cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene onorevole
genero al re. I più generosi appajono, poveretti, quei due vecchi che di
tutto cuore danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista fu, in
questo argomento, volubile ; né gli soccorse alcuno di quei fini tratti
di psicologia di cui è capace in altri casi. I soli accenni più
appropriati toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente Perseo
per l'aria, e il pudore silenzioso della vergine. Ma deliba a pena il
calice, e l'ampiezza numerica della forma cela l'esiguità della intuizione.
Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma un poco anche guasto la
vita. Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti a
banchetto nuziale il re e la regina con la figlia e il genero nuovo, si
fa innanzi Fineo. E l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già fidanzato
con Andromeda ; il quale non ha avuto il coraggio di liberarla col
proprio rischio ; ma tenta ora di riaverla quando il ketos è ben
morto. Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' imprese (1)
l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie (1) Le
precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. una turba fremente ;
sorge un clamore, non di canti alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce
contesa. E i conviti mutati in sìibiti tumulti potresti
assomigliare a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la
fervida rabbia dei vènti. Primo Fineo tra quelli, temerario
autore della contesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,
" Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della carpita sposa. Né a me te
le penne, né sottrarrà Giove in falso oro converso „ (1). A lui clie
tentava scagliare, Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge
infuriato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ? con questa
mercede compensi la vita di lei ch'è salvata ? La quale ritolse, se tu cerchi
il vero, non Perseo a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il
cornìgero Ammone, ma quella belva del mare che veniva per farsi
satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu, quand'era a morire. Se
non se, crudele, ciò stesso tu brami, che muoja, e t'allieti del nostro
dolore. non basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo
soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli che fu da taluno
salvata, e gli carpisci il premio ? Questo se a te grande paresse, da
quegli scogli dov'era affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli
il qual lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si
porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi come lui s'antepone
non a te, ma a una morte sicui'a „. Non cede Fineo a' consigli del
fratello, anzi (1) È forse inutile ricordare che, secondo il
mito, Zeus avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal soffitto
in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae. comincia il combattere. E
il racconto si distende lungo per circa due centinaja di versi : che
la battaglia è seguita ne' suoi particolari con abbondanza di nomi di
persone di gesti. Il tumulto è grande (1). " Le congiurate
schiere d'ogni lato combatton per la causa che impugna inerito e fede.
Per questi il vanamente pio suocero, e con la madre la nuova sposa, son
favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma prevaleva il suon
dell'armi e il gemito dei caduti „. Per poco ancora dura la lotta. "
Però quando alla turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi
che mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico.
Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il capo della
Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti commuovano! „ esclamò
Tèscelo; ma, mentre con la mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale,
in tal gesto rimase statua di marmo,. All'ultimo è prostrato, dopo assai
altri come Tescelo irrigiditi dal mostro meduseo, lo stesso Fineo. E
implora : " Vinci, Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo
impietrante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego. Non odio
ci spinse a contesa, né brama di regno ; per la sposa movemmo le armi ;
migliore fu la tua causa per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di
cedere. Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a me! tuo
il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né risguardare ardiva quello
cui con la voce pregava, rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo,
concederti posso, ed al vile è dono ben grande, lascia il timore. ;
la parafrasi è dei vv. 150 sgg. ti
concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi vo' darti un monumento
che duri perenne ; e sempre, nella casa del suocero nostro, sarai
guardato si che la mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto
„. E lo impietra. Cosi la vasta e agitata folla che nel
principio commoveva la scena si tramuta in un popolo rigido di
statue, di cui ciascuna serba, nella fissità, un gesto di vita. Ed è qui a
punto il cardine del secondo episodio mitico: efficace trapasso per il quale la
compiacenza ferecidea verso la riccliezza del movimento e
l'ampiezza dell'azione si sublima in motivo di armoniosa bellezza.
Che è quasi esclusivamente merito di Ovidio; come di quello che,
sviluppando a sé tutta la seconda parte della leggenda, la equilibrò con
l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento e la metamorfosi. Ma non fu pago a
tanto. Inserì nella sua materia anche la nobile fede di Cefeo che
si oppone al fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia ultima di
Perseo non priva di malignità né di un grossolano sale. Se bene già
questa non era una giunta che compiesse, si più tosto una intrusione che
alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le
vicende della contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; cadendo
nella più stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pletorico : non
diverso, si bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su
l'inizio e su la fine, senza garbo né acume, tracce d' umane passioni.
Della cui banale mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario
all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' immenso piano
uniforme dello sfondo. Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il
verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nell'insieme, sopra un
ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e
rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci
apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialità psicologica
accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo è nella sua radice. Nell'un caso e
nell'altro il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha, da
quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo
respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu
estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse la
tentò con approcci successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora
piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agitazione
bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai
però, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno
amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze
uno spirito stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma
ancora. In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove. Un
secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è molto lungi. Ha nel trattare il
mito una grazia nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei
Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan
celebrando ; il ketos è a pena morto. In non si sa qual recesso del
mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di
donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà le notizie ;
l'altre gli si fanno attorno, e ov'è la bellezza dei volti? con moti
curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto
ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più recenti fatti, e l'amico
li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una
lontananza. Ma la terra è presente (1). Tritone e le Nereidi.
Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia
di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla fanciulla come credete,
ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. Da chi, o Tritone ?
forse Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attendendolo
in agguato con molti guerrieri ? Trit. No. Ma voi conoscete, credo
o Ifianassa Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare
nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che per compassione
di loro voi avete salvato. Ifian. So di chi parli: suppongo che ora
sia un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. Egli
uccise il ketos. If. E perché, o Tritone ? non questo
compenso per vero egli ci doveva. Trit. Vi dirò tutto, come
avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ;
dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. Come, o Tritone ? solo ?
o conduceva compagni? che altrimenti la via è difficile. Testo del
Jacobitz (Lipsia, Teubner). Tbit. Traverso l'aria : Atena lo aveva
fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimoravano, esse
dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a Medusa e scapparsene
a volo. If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o
pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di esse. Trit. Atena
col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi
ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa
su lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora egli aflPerrata
con la sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine, recise con la
falce nella destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destassero
volò via. Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già
basso su la terra volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente
rupe, infissavi, bellissima, o dèi !, sciolta le chiome, seminuda assai
sotto i seni : e da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava
la causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava
pure che uscisse salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il
ketos avanzava pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli
di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli
mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida
in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i
vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre
scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le
nozze nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della
morte ella trovò un marito, e non comune. Ir. Io già
dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia
se la madre menava vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. Ma
in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua.
If. Non rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara
ciarlò un po' più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata
per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la
terra è presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini
mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con
perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più
semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : è il primo ingresso
dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a
una regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via è
difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : nuova
maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la
guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può
continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso,
improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché Perseo fu
" preso da amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava
salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in
esso quella non è causa sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'artificio
del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la salvezza della
vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è la stessa che
avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali è
rilevato come stromento mitopeico perché Perseo potesse recarsi in Libia
; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefìciato ad eliminar in Medusa quella
medesima nefasta efficacia che le si soleva attribuire Dunque, è
deduzione implicita, ci fu una interessata volontà, la qual condusse con
varie furberie il giovine in Libia e contro Medusa e fra gli
Etiopi. Dunque il mito è favola che imaginò taluno. Passo a passo i colpi son
recati, fin che la leggenda non ha più una base di fede, si una di
scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore
crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero da
cui sono animate è, non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma
largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime parole la larghezza si accresce d'un
contenuto morale, estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte : non
era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che
Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; né dovrebbe importare a Dee la
gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si,
ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di
Euripide; ma la tragedia manca, né può sussistere adesso. La fiaba è
stata svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo
tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso
dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione
retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito
delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza
vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel
tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel
quale l'intellettual sorriso della critica è tuttavia indizio di un
sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio
per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina né pure con
la luce della sfera più alta le tenebre deir ormai superata. La conversione
dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta a troncare
ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il raccónto si
diparte : le è anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente
all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva
trovato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si che qui si misura, con
precisa esattezza, il regresso dell'efficacia leggendaria. Né
Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per ciò si connettano con il
tragico che, forse, non gli aveva
trovato luogo nel drama, non è a dirsi. La natura del tema, in
entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro né
ebbe attinenze col ketos. Per contro è notevole che non essi, come non
Apollodoro né Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per
chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel
mito, scompare di (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der
romischen Litteratur^ (Miinchen) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo
scemarsi della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel
sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa leggenda, sta
adunque una singolare originalità ch'è in contrapposto ad un tempo con
gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza
psichica, che dell'originalità è la causa diretta. Enna:
nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare, non lungi
a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella
antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso
l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le pupille bevono,
oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi, la dorata
luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia
(1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di
cui nelle note successive si citano i §§. La descrizione d'uno straniero :
0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA
d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni
di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui talune cerimonie eran
riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo
da Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna vi
lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la famiglia ed i
campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: però elle di là
la Dea, la quale è nume ad un tempo del matrimonio e delle spighe,
sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa,
gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano vantava,
nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine antichissima
: ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'età vetuste le case
dei numi ed i riti sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da
ogni popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non sussisteva, in
Sicilia, ove al santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi,
con un profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii
rendevano più intimo e sentito. Né la memoria secreta del popolo o
il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, forse, la
Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni che
s'ignoravano allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla
credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se
bene diffìcilmente serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano
pregnanti religione e mito. CicER. in Verr. IV 106. IL
MITO SICULO. È probabile che gli avvenimenti seguissero cosi (1).
Enna, nella sua forte positura montana, è da presumere fosse uno
dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a
cercar rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti
l'èra. Le coste, più agevole sede, eran divenute mal fide per
l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse riuscibile
la resistenza. Sotto l'irrompere dei violenti s'era per alcun tempo spostato
verso l'interno il processo evolutivo che, non senza influssi esterni e
tal volta notevoli, durava fin dall'età eneolitica. E sulle vette dei
monti si stratificava fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi
; tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche il pensiero
religioso, con la leggenda divina che n'è, fra gli Arii, foggia consueta.
Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio
informati su gli oggetti delle più vetuste necropoli e su gli stili loro, che
non su la maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di questa
tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza
atta a fermare una caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la
quale valga a contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli
affini nel Lazio e nella Grrecia. L'affinità concede bensì
volontieri l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a linee
sommarie e incompiute. Per ciò la congettura ancor che acuta
lascia intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che
insieme ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli
dell'istituto familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei
dividendosi recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e
famiglia, vie meglio possedute e costituite col cessar del nomadismo,
avevano per sé più e più secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano,
con la loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella
vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le
medesime divinità della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinità
delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer
non averne compreso il profondo valore e la non palese bellezza, circondava
di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i corpi di
uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a
ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra sé
lontane. Il naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la
zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo
spirito del sasso e la potenza del seme ; il più maturo pensiero che, in fine,
riesce a foggiarsi di tutta la terra una divinità sola o di tutte
le biade: ci riassumono, nei loro gradi più recisi, e nelle loro
sfumature assai meno formulabili, la storia sintetica del Nume agreste,
il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina
intorno al suo proprio culto. È un'ascesa dalla pianta al dio, dalla terra al
cielo : è un germogliare della credenza su da quel suolo cui si
richiama. Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio
padre, che è morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorità
su le mogli e i figli ; ed è morto lasciando nella dimora le cose tutte che già
furono segnate del suo possesso e cedendole ai successori insieme con le
vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando con
l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i
suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta
con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché l'ombra di lui
non debba venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto.
E quando, anche qui, la intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri
delle diverse famiglie si accostano si penetrano si fondono nella simiglianza
della lor figura, la divinità del Padre è prossima a precisarsi.
Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il
matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali
presuppongono però sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e
squisiti tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che
s'era sminuito tra l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo
proprio sepolcro; e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare.
Ed è processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli
affetti che lo precedono; ma è comparativamente vetusto se si pensa alla
non piccola serie di alterazioni cui già è andato soggetto in poemi
antichi come gli omerici. Ma, se la formazione originaria
degli iddii agresti su dalla natura è diversa da quella dei
A. Febeabino, Kalypso. 8 familiari su dalla morte, non
mancano, tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto
de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicendevolmente, è ben noto. Ma nel
caso speciale anche più efficace influenza vi doveva essere. Però
che la terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed
i figli, la famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son
la ricchezza; perché sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e
delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha
gittato il seme e ha fatto che s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto,
perché protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana
dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami
gli agricoltori. Antica accanto a
questa, ma anche maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la
nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in seno alla
terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,
se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la
rinnovazione perenne di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza
più seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide,
Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco „: e intende
il talamo maritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto :
una figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realtà,
deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303,
Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale
assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto
umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria, è padre della pioggia, e i campi
hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme
questa appare certo antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra
tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla
importanza, tanto della generazione umana, quanto della produzione
terrestre : e perché è contraddistinta da una elementare
semplicità, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a
bastanza involuto. E ad ogni modo, come principio ad effetto, forma
anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti, come gli
uomini, in famiglie composte da genitori e figli, da parenti ed
affini. Or come per un lato le divinità dei campi e della
famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi
della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la
terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per
lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici gli alberi, e ve le
abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere una
quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra
sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del
pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che
inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso, di
cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della spiga, ad esempio,
matura e granita, che s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e
ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e
ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco
l'attinenza fra i due, diversi. Quanto però sono facili
rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché
l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il
peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste
reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1)
eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò
il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo
incipiente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni
che si accennarono Una sintesi su la religione degl’arii e sull’antichissima
romana, in SANCTIS (si veda), STORIA DEI ROMANI
I (Torino) capp. Ili e Vili. è ormai ricca la
mente, le fiabe che possono esserne conteste sono molteplici, e solo il caso
o la preponderante importanza di taluno tra i fenomeni riesce a far
prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla
golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla siccità o squassato
dai vènti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il bestiame calpesta
e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e
l'abbondante capellatura delle arèste ; la seminagione e il riposo invernale:
posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a
foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno
o per T altro modo agli Dei del cielo e delle tenebre. Ma principalissimo
è senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la
pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe
matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne
ad elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui avevan parte le
nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiamò in una delle
forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la potenza delle
sotteiTanee ombre, e il ratto le attribuì. Disse il lamento della Madre biada
cui la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento delle madri
umane. Alla scena disegnò lo sfondo delle selve che circondavano il lago
di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio
inferno. A questo poco si limita quel che nella probabilità storica
la congettura può affermare della originaria saga sicula. Però che troppo
esigue tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da
nuove vicende, e non fermata, quel che più importa, in canti che il
pregio dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i
sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col
suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e dopo
Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun
particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo;
quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di più
ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli
mistici. Oggi è, e resterà, nelle tenebre. E certo tenebre
graverebbero del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia,
ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli
stadii per cui in Grecia trapassò la leggenda furono, secondo è
verisimile, a un di presso quei medesimi che si possono tracciare
in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i
due popoli, da intima parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dissimili
certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non che quando l'arte,
almeno nella più vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il
mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto uno sviluppo maggiore,
che non toccasse i)robabilmente nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico
a Demetra^ il quale è da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1),
la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme
durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicità costante con
cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi
dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre
il singolo momento. La figlia pertanto è tolta prima, poi
ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad intervalli determinati
a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda
alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto
è cercata, com'è ovvio, nell'essersi ormai consumato tra la rapita e il
dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel simbolo di
questo, il gustato frutto del melograno. Oltre poi a rivelare
cotesta sostanziale maturità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche divenuta più
ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo è da
scorgersi nella presenza di Ecate " bendata di luce,, e di
Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali, giusta l'Inno,
rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo nove giorni
di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la
Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa
chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente
(1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns (London
1904) pag. 10 sgg. i pili arcaici personaggi entrati su la scena accanto
ai protagonisti : però che essi fossero i più adatti (ognun lo nota) a
informare la " Madre „ su la " Figlia „ perduta, essi che son
gli occhi diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor valore è
al tutto obliterato nel carme; se bene non vi permanga senza
alterazione. Di più, altro segno di compiutosi progresso
mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché risponde a un modulo
sancito, e il poeta possiede con sicurezza una teologia e una teogonia.
Ciascun Dio è figlio di un certo, padre di un altro e fratello, ha
caratteristiche sue, un passato ben suo. Le due principali Dee del
racconto, le divinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La Madre,
la Signora delle biade " Demetra „, ha profondamente evoluto la sua
duplice essenza agricola e familiare : è delirante nel suo dolore
di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradimento ; è d'altra parte padrona
della vita degli uomini, che può prosperar per il dono gramiminaceo di
lei ed esaurirsi senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua
natura umana e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco "
Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'alimenti da sangue nostro, su
tutti i campi ov'è vegetazione, e le grazie della sua feminea giovinezza
cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì
seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è
bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. Presso agli
agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sotterranei,
addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra. L'infero Nume
rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la
vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non
gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e
i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo
cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede
Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e
truce fra le xDallide larve. Dal cielo le potenze luminose,
gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto
in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a
Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio;
Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la
recente conquista. Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si
stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei
campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra :
Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli
che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche
non potevano congiungersi in parentela, perché s'elidevano l'una con l'altra,
Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E
poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo,
il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si
ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati,
e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui
tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e
religiosa che ne scaturì tenne delle due onde fu composta, ma risultò
armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e
austerità fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque
ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben più ricca che
la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi più precisi e
raccolti in gruppo organico. Vi apportò in oltre la sua arte che addusse
la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non
senza raccoglimento religioso né senza coscienza, al meno complessiva,
del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una
creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe
potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del
vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la
fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla
allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di
espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro
ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra
la tela dei secoli lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in
un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito
siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle
creature mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo
racconto, diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome del
rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi
e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „,
assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del
Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie:
attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando,
l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo
di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia
la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo
Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalità
; onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra
cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virtù
sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta
Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo.
Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la Madre delle
biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e
Polissèno i secreti del suo culto. A spiegare, appimto, il culto
che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra è dunque
indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi
nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso
etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che
quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e soffio
d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito
ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno
della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea
agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e
di episodii, rivestendo un venerando colore di antichità sacra. Ma anche
per altro rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la nostra
attenzione (1). All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale
che importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui
Cora è rapita da l'Ade, gli uomini conoscono già l'uso del grano, come
si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi cagiona un
temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano
trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo
sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per
fiera fame periva „ (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona
alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno „
ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in
Eleusi è contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera
all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza
conservato il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti Demetra
è la biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e risorgere
culmo, è giusto che le biade esistano prima del ratto sotterraneo,
scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus
giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi
agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanità siasi trasfuso nel racconto a
velarne il significato primitivo, questo permase non corrotto; si che la
leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la diremo
protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che,
per essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda
concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto,
esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade è causa,
oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli
uomini la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo :
nome che ricorre già nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo
re in una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro
che appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte
letteraria plastica pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con
l'officio di maestro nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro
definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la
triade recente spezza lo schema anteriore ricostituendone un altro. Nel quale,
dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma
acquista un valore riflesso : perché il rapimento di Cora diviene, meglio
che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio
storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano
coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con
importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del
fuoco ; bensi sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verità non avrebbe
più modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di
Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch'è
acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di
agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo
diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé tutta la seconda
parte della leggenda, la equilibrò con l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento
e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inserì nella sua materia anche
la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a
giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignità né di un
grossolano sale. Se bene già questa non era una giunta che compiesse, si
più tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle perseguir fin
nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il duello
in una battaglia omerica; cadendo nella più stucchevole prolissità.
Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba
sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine, senza garbo né acume,
tracce d' umane passioni. Della cui banale mediocrità s' intende quindi
il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un qualche
rilievo da 1' immenso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui or là, la
perizia tecnica foggia il verso con eleganza; e varia musicalmente il
ritmo. Nell'insieme, sopra un ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d'
esser profondo deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E
ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile
superficialità psicologica accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo è nella
sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del
mito, né ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non
avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba.
In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo
interesse la tentò con approcci successivi, e di ciascuno rimase
una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza
dell'avventura, ora l'agitazione bellicosa; in parte fu possibile imitare
Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun punto, l'interesse divenne
simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte
le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che reagisce pigramente se
ben non dorma ancora. In realtà lo spirito è distolto ; vive
altrove. Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è molto
lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, '' lucianesca „. Ecco il
quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo
e Andromeda si stan celebrando ; il ketos è a pena morto. In non si sa
qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro
ciance. È un mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato.
L'uno dà le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, e ov'è la
bellezza dei volti? con moti curiosi: ora questa ora quella alza la voce
; le compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare de'
più recenti fatti, e l'amico li ha appresi origliando. L'eco della terra par
muovere da una lontananza. Ma la terra è presente. Tritone e
le Nereidi. Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste
contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla
fanciulla come credete, ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. Da
chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed
uccise, attendendolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. No. Ma
voi conoscete, credo o Ifianassa Perseo, il bambino di Danae, che fu
cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno
e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian. So di chi
parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello di
aspetto. Trit. Egli uccise il ketos. If. E perché, o Tritone ?
non questo compenso per vero egli ci doveva. Trit. Vi dirò
tutto, come avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re
quest'impresa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. Come, o
Tritone ? solo ? o conduceva compagni? che altrimenti la via è difficile.
(1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner). Tbit. Traverso
l'aria : Atena lo aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove
dimoravano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a
Medusa e scapparsene a volo. If. Ma come le guardava ? sono difatti
inguardabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di esse.
Trit. Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli
raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere
l'imagine di Medusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :
allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre riguardando
nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di lei, e prima
che le sorelle si destassero volò via. Come poi giunse a questa
spiaggia d'Etiopia, già basso su la terra volando scorge Andromeda
esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,
sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima,
compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a
poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la
fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava
pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli di sopra,
e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli mostrò la
Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida in molte
membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli della
vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre scendeva in punta de'
piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le nozze nelle case di
Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò
un marito, e non comune. Ir. Io già dell'avvenuto non mi
sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre
menava vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. Ma in tal modo,
come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. Non
rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarlò un po'
più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la
figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra è
presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini mentali
degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia
finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più
semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : è il primo ingresso
dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a
una regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via è
difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : nuova
maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la
guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può
continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso,
improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché Perseo fu
" preso da amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava
salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in
esso quella non è causa sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'artificio
del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la salvezza della
vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è la stessa che
avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali è
rilevato come stromento mitopeico perché Perseo potesse recarsi in Libia
; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefìciato ad eliminar in Medusa quella
medesima nefasta efficacia che le si soleva attribuire Dunque, è
deduzione implicita, ci fu una interessata volontà, la qual condusse con
varie furberie il giovine in Libia e contro Medusa e fra gli
Etiopi. Dunque il mito è favola che imaginò taluno. Passo a passo i colpi son
recati, fin che la leggenda non ha più una base di fede, si una di
scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore
crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero da
cui sono animate è, non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma
largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime parole la larghezza si accresce d'un
contenuto morale, estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte : non
era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che
Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; né dovrebbe importare a Dee la
gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si,
ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di
Euripide; ma la tragedia manca, né può sussistere adesso. La fiaba è
stata svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo
tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso
dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione
retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito
delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza
vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel
tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel
quale l'intellettual sorriso della critica è tuttavia indizio di un
sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio
per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina né pure con
la luce della sfera più alta le tenebre deir ormai superata. La conversione
dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta a troncare
ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il raccónto si
diparte : le è anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente
all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva
trovato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si che qui si misura, con
precisa esattezza, il regresso dell'efficacia leggendaria. Né
Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per ciò si connettano con il
tragico che, forse, non gli aveva
trovato luogo nel drama, non è a dirsi. La natura del tema, in
entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro né
ebbe attinenze col ketos. Per contro è notevole che non essi, come non
Apollodoro né Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per
chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel
mito, scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen
Litteratur^ (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi
della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel sommo
della parabola, che segna lo sviluppo di questa leggenda, sta adunque una
singolare originalità ch'è in contrapposto ad un tempo con gli
stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza
psichica, che dell'originalità è la causa diretta. Enna:
nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare, non lungi
a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella
antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso
l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le pupille bevono,
oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi, la dorata
luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia
(1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di
cui nelle note successive si citano i §§. (2) La descrizione d'uno
straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA
DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano
negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui talune
cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte fin
da Panòrmo da Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna
vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la famiglia ed i
campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: però elle di là
la Dea, la quale è nume ad un tempo del matrimonio e delle spighe,
sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa,
gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano vantava,
nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine antichissima
: ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'età vetuste le case
dei numi ed i riti sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da
ogni popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non sussisteva, in
Sicilia, ove al santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi,
con un profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii
rendevano più intimo e sentito. Né la memoria secreta del popolo o
il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, forse, la
Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni che
s'ignoravano allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla
credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se
bene diffìcilmente serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano
pregnanti religione e mito. CICERONE (si veda) in Verr. IV 106. È
probabile che gli avvenimenti seguissero cosi (1). Enna,
nella sua forte positura montana, è da presumere fosse uno dei luoghi ove
gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar rifugio
sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti l'èra. Le coste, più
agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente
di predatori troppo ben armati perché fosse riuscibile la resistenza. Sotto
l'irrompere dei violenti s'era per alcun tempo spostato verso l'interno il
processo evolutivo che, non senza influssi esterni e tal volta notevoli,
durava fin dall'età eneolitica. E sulle vette dei monti si
stratificava fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra
cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con
la leggenda divina che n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavventura,
dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti
delle più vetuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità
mentale, su gli dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci
manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una
caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio
e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma
questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute.
Per ciò la congettura ancor che acuta lascia (Ij Cfr.
§§ 1 e III. 112 III. - intrawedere, se cauta, poco.
Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger il seme
nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto familiare, erano stati il tesoro
comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso le
regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute e
costituite col cessar del nomadismo, avevano per sé più e più secoli di
trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e
importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e
magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinità
della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinità delle tenebre e di quella
morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso
il profondo valore e la non palese bellezza, circondava di ombra nelle celate
viscere della terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.
Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva
formazione, conduce a origini tra sé lontane. Il naturismo che venera
l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;
l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la potenza del
seme ; il più maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta
la terra una divinità sola o di tutte le biade: ci riassumono, nei loro
gradi più recisi, e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia
sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori
accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto. È un'ascesa dalla
pianta al dio, dalla terra al cielo : è un germogliare della credenza su
da quel suolo cui si richiama. Altra via tien la famiglia nel
venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è morto dopo aver in vita
esercitata la suprema autorità su le mogli e i figli ; ed è morto lasciando
nella dimora le cose tutte che già furono segnate del suo possesso e
cedendole ai successori insieme con le vendette da compiere e gli odii da
esaurire; ed è morto spezzando con l'ultimo alito la compagine che si
raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li
legava per la sua difesa : rappresenta con la scomparsa un troppo
profondo evento, j)erché l'ombra di lui non debba venir placata dai nepoti,
e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E quando, anche qui, la
intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie
si accostano si penetrano si fondono nella simiglianza della lor figura,
la divinità del Padre è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a influire
su l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto
estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono però
sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i
diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra
l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro;
e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare. Ed è processo
comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo
precedono; ma è comparativamente vetusto se si pensa alla non piccola
serie di alterazioni cui già è andato soggetto in poemi antichi come
gli omerici. Ma, se la formazione originaria degli
iddii agresti su dalla natura è diversa da quella dei familiari su
dalla morte, non mancano, tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e
il culto de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicendevolmente, è ben
noto. Ma nel caso speciale anche più efficace influenza vi doveva
essere. Però che la terra sola faccia (se fecondata dal cielo)
prosperare il gregge ed i figli, la famiglia, in somma. Il campo dell'erba e
quel delle biade son la ricchezza; perché sono il nutrimento la salute la
vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il
padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indorasse al sole la
spiga; il Padre morto, perché protegga i suoi che lo placano e pregano,
deve tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder
che carestia non affami gli agricoltori. Antica accanto a questa, ma
anche maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei
figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in seno alla terra ;
riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i
primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione
perenne di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più
seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo:
" re, non seminare di figli il tuo solco „: e intende il talamo maritale
(1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una figurazione
dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realtà, deve più
tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici
18. morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel cielo o sulla
terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto
delTaria, è padre della pioggia, e i campi hanno dopo il raccolto un
abbandono puerperale. E tra le forme questa appare certo
antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra tosto
suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza,
tanto della generazione umana, quanto della produzione terrestre :
e perché è contraddistinta da una elementare semplicità, che la
rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E
ad ogni modo, come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che
figura gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da
genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato
le divinità dei campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i
lor nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda richiamano
al pensiero quelli che sotto la terra regnano su i morti. Sotto la terra
sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici
gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è
abbattere una quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra
i fiumi; da la terra sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano
origine, e dissetano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del
suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un
mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la
vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata
prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La
Dea che la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi
forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto
però sono facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché
l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il
peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste
reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1)
eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò
il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo
incipiente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle
figurazioni che si accennarono Una sintesi su la religione degli
Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani
I (Torino 1907) capp. Ili e Vili. è ormai ricca la mente, le fiabe
che possono esserne conteste sono molteplici, e solo il caso o la
preponderante importanza di taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere
qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe
o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla siccità o squassato dai vènti ; il
suo nascer e i primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta
brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e l'abbondante
capellatura delle arèste ; la seminagione e il riposo invernale: posson del
pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto
sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo
agli Dei del cielo e delle tenebre. Ma principalissimo è senza
dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce, del
soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie
sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare.
Richiamò i riti degli uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia
tolta alla madre; le nozze richiamò in una delle forme consuete, il
ratto. Fece salire su la terra la potenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto
le attribuì. Disse il lamento della Madre biada cui la biada sua Figlia è
rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegnò lo
sfondo delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui,
secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A
questo poco si limita quel che nella probabilità storica la congettura può
affermare della originaria saga sicula. Però che troppo esigue
tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da nuove
vicende, e non fermata, quel che più importa, in canti che il pregio dell'arte
e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e
tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col suggello del
segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e dopo Cristo, le donne,
cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun particolare che
ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel del
rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di più ch'è vano e
impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli mistici.
Oggi è, e resterà, nelle tenebre. n. Il mito
greco. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un altro
consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse serbato
ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la
leggenda furono, secondo è verisimile, a un di presso quei medesimi che
si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due
saghe sono strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori
dell'unico ceppo ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro.
Se non che quando l'arte, almeno nella più vetusta espressione a
noi pervenuta, elabora il mito presso gli Eliòni, questo ha già
raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente
nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale è da
attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la leggenda si
preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante l'inverno, ma
ancbe di giustificar la periodicità costante con cui la seminagione
la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi dell'anno : coglie in somma
il fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il singolo momento. La
figlia pertanto è tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto
però cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare nel grembo
della terra, soggiornando con vicenda alterna otto mesi nel sole e
quattro nelle tenebre. La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nell'essersi
ormai consumato tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, più
rettamente, nel simbolo di questo, il gustato frutto del melograno.
Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale maturità mitica, l'Inno a
Demetra palesa anche divenuta più ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico
innesto accrescitivo è da scorgersi nella presenza di Ecate "
bendata di luce,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i
quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo
del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del
rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra
; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini:
sono probabilmente (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The
homeric hymns (London LA DKMETRA d'eNNA i pili arcaici
personaggi entrati su la scena accanto ai protagonisti : però che essi fossero
i più adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „ su la
" Figlia „ perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del
cielo. Né l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se
bene non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno
di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa
perché risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con
sicurezza una teologia e una teogonia. Ciascun Dio è figlio di un certo, padre
di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo.
Le due principali Dee del racconto, le divinità agresti, hanno assunto definito
aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha
profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare : è
delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradimento
; è d'altra parte padrona della vita degli uomini, che può prosperar per
il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in somma al
supremo vertice la sua natura umana e la sua virtù germinativa. La
Figlia, in greco " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'alimenti
da sangue nostro, su tutti i campi ov'è vegetazione, e le grazie della
sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo
valore naturalistico dì seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s'
adombra : è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno
corteo. Presso agli agresti, con uguale individuata determinatezza
appajono gli Dei sotterranei, addotti da quel vincolo di analogia
che vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore è " Ade „ o
" Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta moltitudine degli estinti :
fiero astuto atro ; non gradevole. Balza dalle tenebre alla luce
per preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo cocchio sono
caliginosi: e la corsa del suo cocchio è un vortice travolgente. Sul
trono, al suo fianco, siede Persèfone, regina fra i trapassati
com'egli re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide larve. Dal
cielo le potenze luminose, gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del
dramma : Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e numi;
Iride, messaggera di lui a Demetra per placarne il dolore, se bene vano
le riesca il viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che
induce Ade a cedere la recente conquista. Fra tutti, agresti tenebrosi
chiari Dei, si stringono attinenze come sogliono tra gli umani :
Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello
di Demetra : Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade,
come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del
grano. Uniche non potevano congiungersi in parentela, perché s'elidevano l'una
con l'altra, Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He.
E poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro
modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si
ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati,
e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui
tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e
religiosa che ne scaturì tenne delle due onde fu composta, ma risultò
armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e
austerità fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque
ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben più ricca che
la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi più precisi e
raccolti in gruppo organico. Vi apportò in oltre la sua arte che addusse
la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non
senza raccoglimento religioso né senza coscienza, al meno complessiva,
del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una
creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe
potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del
vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la
fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla
allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di
espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro
ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra
la tela dei secoli lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in
un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito
siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle
creature mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo
racconto, diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome del
rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi
e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „,
assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del
Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie:
attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando,
l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo
di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia
la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo
Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalità
; onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra
cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virtù
sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta
Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo.
Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la Madre delle
biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e
Polissèno i secreti del suo culto. A spiegare, appimto, il culto
che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra è dunque
indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi
nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso
etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che
quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero
e (1) Yv. 91-304. soffio d' artista svolgere e
imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel
primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita
religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la
saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, rivestendo
un venerando colore di antichità sacra. Ma anche per altro rispetto mito
ed etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione (1). All'uno
e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale che importa porre in tutto il
suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli
uomini conoscono già l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le
zolle ; quel momento anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :
che " molti nei campi in vano trascinarono i bovi aratri ricurvi;
molto su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti
uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2). E solo
dopo la sentenza di Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due
terzi del volgente anno „ ritorna in terra la gloria del biondo
cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contemporaneo al danno, e la
sua conseguenza si riduce intera all'iniziazione dei misteri sacri. In
somma, appare qui a bastanza conservato il contenuto originario del
mito naturalistico: se difatti Demetra è la biada il cui chicco scompar
sotterra per germinare e risorgere culmo, è giusto che le biade
esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col
ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma
senza dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di
umanità siasi trasfuso nel racconto a velarne il significato primitivo, questo
permase non corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome
di prisca. E noi la diremo protoattica, in confronto
con un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere del pari
eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il mondo ignaro
di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di
maniera che la violenza di Ade è causa, oltre che de' Misteri e del
giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la seminagione e
l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che ricorre già
nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con
altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso
la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria plastica
pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con l'officio di maestro
nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio
del fanciullo prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema
anteriore ricostituendone un altro. Nel quale, dunque, non si oblitera
tutto il senso naturalistico del mito, ma acquista un valore riflesso :
perché il rapimento di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione
umana della sorte graminacea, l'inizio storico, cronologicamente e
geograficamente inteso, del grano coltivato su la terra. Tal diverso
concetto non sostituisce soltanto con importanza maggiore Trittolemo al
Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi sopprime anche la vendetta
di Demetra, che in verità non avrebbe più modo di attuarsi; e riduce
Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a
quella condizione di misera vita, ch'è acconcia a uomini privi della vera
e primissima fonte di agio. Accetta permase questa leggenda.
Nel suo largo diffondersi subì, è vero, non pochimutamenti, né tutti
soltanto di particolari; giacché, dovunque a Demetra e Cora fosse culto,
divenne costume lecito alterare la saga per adattarla alle esigenze
e ai vanti locali. Ma sul xjullulare di coteste piccole invenzioni essa si
ergeva con l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di un
Comune per attingere gli estremi del mondo colto. Unica può starle a
paro, per intima vìgoria di concepimento, e per potenza espansiva, la
favola composta nell'ambito di quel moto filosofico e religioso onde il
pensiero greco, e specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei
Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di " Orficismo „.
Serbandosi solo le due Dee e Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo intreccio
di casi assunse il mito di Cora fra gli Orfici ; ma non tutti i suoi
particolari ci importano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci
sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna. Però che tutt'e
tre, la proto e neoattica e l'orfica, s'incontrassero queste versioni
greche con la siciliana, tenace per antichità, infantile per
incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo moto di storia.
in. Il mito siracusano. I Siculi, che si erano
ritirati su i monti dell'interno perché incapaci di resistere ai predoni
dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che in Enna avevan con più
insistenza fissato il lor mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH
secolo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare dei nuovi linguaggi
e dell'armi nnove, ornarsi di sedi le quali si trasformavano via via,
divenendo sempre più salde più ampie più belle, in città ricche. E gli
EUeni in quel secolo e nel VII e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé
il terreno, o sgombro facendolo con distruggere e sottoporre
gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a siciliana con tutto agio, fino a
giungere in breve a fiore civile intellettuale e artistico grandissimo in
paragone di quelli, e a distendere sn tutte le portuose spiagge dell'
isola un incancellabile smalto greco (1). Dèi miti templi cerimonie della loro
mentalità religiosa si radicano ivi senza resistenza, e, nel
trapiantamento fuor dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata
vigoria e bellezza. Certo la lor somma di progresso spirituale
e Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Occidente, in HoLM Storia
della Sicilia (trad. ital.) voi. I (Torino 1896) lib. Il; Freeman History
of Sicihj voi. I (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna
Grecia voi. I (Torino 1894). di culto civico, accopj)iandosi con la
congenita irrequieta genialità e l'inconculcabile aspirazione ad
accrescere il possesso, doveva spingerli presto a violare i segreti delle
regioni più interne e a portarvi il soffio della propria opera contro le
resistenze dei Siculi, non restii ad evolversi si a sottomettersi. E forse,
traverso anche i commerci di scambio, a Enna ebbero a pervenire folate di
vento greco fin dal secolo VI. Eorse (1). Ma quante e quali nessuno
direbbe ; perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né fino ad
ora gli scavi archeologici e' illuminano alcun poco. La
palese influenza dei Grreci su Enna comincia nel V secolo e per opera di
Sii^acusa. Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo alleato
Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad Imera circa il 480 a. C. gli
eserciti cartaginesi di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana
e ne fu assorbita. Qual resistenza politica opponesse non importa qui sapere.
Senza dubbio oppose una resistenza riguardo al suo culto e al suo
mito, che non poterono venir eliminati, ma rispettati dovettero essere.
La risultante di queste due forze (la siracusana che assorbiva e la
ennense che non cedeva) fu una leggenda, la quale impropriamente si
direbbe contaminata, perché è più tosto un compromesso di politica
religiosa, una formula felice per conciliare le pretese o, se piace, i
diritti dei due centri diversi. In Siracusa Grelone fu un institutore e un propagatore
zelante del culto delle greche iddie Demetra e Cora (-Persefone). Di
queste il culto aveva, come fu visto poc' anzi, a base il mito del
rapimento. E a quel modo che nelr Inno a Demetra la favola naturalistica,
non spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien ad arte
connessa con un preciso e determinato centro religioso, Eleusi; cosi un'
analoga tendenza doveva indurre i Siracusani, per mezzo dei loro
sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle saghe), a sostituire i nomi
dei lor proprii luoglii alle indeterminate frasi del racconto mitico e
a applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le cerimonie sacre
vigenti nella loro città. Era un moto religioso, tanto spontaneo e
consueto fra Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la
preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce di fronte a un certo
nume. Di qui nascono difatti sovente contese tra regioni ; in particolare
se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto della maggior
fecondità d'un suolo a paragone d'un altro. Né pare che Siracusa
derogasse alla generale tendenza: però che ci sia rimasto indizio, se
bene esiguo, d' una sua leggenda la quale vi s'informa per l'appunto.
^q\V Epitafìo di Bione (1) ch'è del sec. I a. C. non che in altri
testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ; onde Ade sarebbe molto
dicevolmente scaturito, come da una delle bocche dell'Erebo e del sotterraneo
fuoco. Che se accanto a questo parti ci) V. 133. A.
Ferrabino, Kalypao. colare si pone Taltro, secondo cui il
Dio infernale si apre la via del ritorno presso lo stagno di Ciane (1);
si ottengono i due estremi punti topografici di una saga che adatta il
vecchio mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane è una
palude nelle vicinanze della città ; e sulla zona dell'Etna l'influenza
politica e militare dei Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nell'intenzioni.
Ma come tale tentativo mitico prettamente libero da Enna dimostra qual
fosse l'impulso originario del culto instituito da Gelone ; cosi la
penombra in cui permane e la caducità che lo contraddistingue provano
quanto diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra
l'indipendenza contro i diritti di prima occupante che competevano alla fiaba
dei Siculi. La quale s'imponeva difatti tanto più quanto
maggiormente s' era, traverso gli anni molti, radicata nelle coscienze
degl'indigeni rifugiati su i monti, e quanto era più stretta, nel
nucleo essenziale per lo meno, la sua simiglianza con il mito
ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo potevasi rivestir di fogge e definire con
nomi greci ; non asportare dal lago : ove del resto la feracità del
luogo e la credenza, anche greca, che dai laghi o da vicine grotte
sorgessero sovente i numi sotterranei, ne difendevan la vita. E
difatti il ratto rimase. I Siracusani diedero alla divinità delle biade il nome
di Demetra; ne chiamaron la figlia col duplice termine di Cora-Persef one ; il
rapitore con quello V. sotto pag. 131. di Ade o Aidoneo. Colorirono
i loro artisti tutto l'episodio con quei pennelli che gli Elleni
ben sapevano, e con quei particolari che eran divenuti fissi e
tradizionali. Ma sottostettero ai diritti di precedenza. Nel resto si valsero
del campo libero : la palude siracusana di Ciane fu l'apertura per il
ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi aveva da Enna trascinata
Cora-Persefone. A Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge
„ di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi cavalli. E noi non sappiamo
molto di più; ma è facile che altri particolari della leggenda si
connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacerdoti. Suggello poi di questo
compromesso religioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione caratteristica d'un
motivo orfico attinente al ratto di Cora. Questa avrebbe avuto compagne
durante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre le Oceanine,
anche Artemide ed Atena, le dee vergini. Ora Artemide grandemente
importava nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera, città a
Siracusa amica durante le guerre del V secolo specie contro Atene. Per
ciò in uno dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui si vede
costretta a riconoscere che a Demetra doveva esser spettata la signoria
di Enna, attribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di Siracusa ad
Artemide ; introducendo pertanto questi due luoghi per obliqua via a lato
di Enna e, quel che importava, al medesimo livello. Conchiuso
in tal modo il compromesso tra l'esigenze dell'antichissima saga ennense e le
pretese della pili recentemente sopraggiunta saga siracusana, i due
centri dovettero trovarsi concordi nell'adattare a sé la figura e gli uffici di
Trittolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna Cora è rapita mentre coglie
fiori mirabili per vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende
sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra e la figlia prediligono
l'isola e dal suo ombelico la proteggono; Atena ed Artemide,
compagne alla violata, signoreggiano due città siciliane ; il suolo
è opulento di biade come non altrove : certo dunque che in Sicilia, non
altrove, cadde il primo seme, e il primo culmo spuntò da zolla
sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente, diceva l'attico Trittolemo
beneficato primo del grano. Bisognava dunque, da che respinger Trittolemo
non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa ed Enna. E l'adattamento avvenne
non senza garbo (1). Si concedette che un eleusinio, Trittolemo, avesse
avuto il favore di Demetra e comunicato alle terre il dono preziosissimo; si
concedette che ciò accadesse in occasione del ratto di Cora ; e fu
lasciato cosi senza ritocco tutto il racconto. Ma, gli si premise, già
dianzi, avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia produceva
grano, prediletta alle due Dee per la sua fertilità e scelta a loro
dimora. Quindi, si conchiuse, Trittolemo
fu primo rispetto agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una
separazione dunque della Sicilia dal restante paese, onde il ratto
divenne il momento propizio per diffondere al mondo il privilegio siculo. Che
era non poco orgoglio. Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti
senz'eccezione gli elementi per un ben contesto tessuto leggendario che
un poeta potesse far suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Siracusa
offrivano dicevole sfondo, il racconto mitico aveva i suoi punti topografici
fìssi e armonicamente collegati ; il culto preparava salda e e vasta base
per un'accorta serie di invenzioni etiologiche ; gli stessi orgogli delle
singole città s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la
stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche particolare non privo di
attraenza. Né mancarono forse i cantori che la materia non indegnamente
lusingasse. E pure a noi non rimane se non il testo, povero non chiaro e
senza vigoria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo. Perché tutto
vivace si senta il contrasto fra la potenzialità artistica del mito e la
mancata espressione di esso, eh' è a un tempo mancata intuizione,
piace qui tradurre dalla Biblioteca istorica (1), lasciando il racconto
nel suo disordinato svolgimento. I Sicelioti che abitano l' isola
appresero dai loro progenitori la fama, tramandatasi traverso il
tempo nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora; ...
e che le predette Dee in questa isola primamente apparvero ; e che questa per
prima produsse il fi-utto del grano a cagione della feracità del suolo...
(2). A riprova (1) Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des
Westens in Phi lologische Untersuchungen, XIII (1892) pag. 103
sgg. (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim.
adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola e che
mostra chiarissimamente come in questa le Dee soggiornassero e di questa
sovra tutto si compiacessero. Favoleggiano poi che il ratto di Cora
accadde ne' prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla
città, per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno di
vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra che i cani avvezzi a
cacciare perdon le tracce ottundendosi loro la naturai virtù. È il prato
predetto piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso e
rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel mezzo dell'isola : per
che è detto anche da alcuni l'ombelico della Sicilia. Ha vicino boschi e,
intorno a questi, paludi, e un grande speco con apertura sotterranea
rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano che balzasse col cocchio
Plutone a rapire Cora. Le viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon
fioriti miracolosamente per l'intero anno e rendono lo spettacolo pittoresco e
gradito. Favoleggiano ancora che insieme con Cora crescessero Atena
e Artemide, tutt'e tre vergini, e che insieme raccogliessero fioH e
preparassero in comune il peplo al padre Zeus. Per l'intimità e la
conversazione reciproca si compiacquero specialmente di quest'isola; e ciascuna
si ebbe un territorio : Atena dalle parti di Imera..., cosi che gli
indigeni consacrarono a lei la città e il territorio chiamato fino ad
oggi Atenèo : Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per
lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, parimenti alle due predette dee,
anche Cora ottenne i prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che
Plutone, compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio presso Siracusa ; e
che, spalancata la terra, scomparve con la rapita nell'Ade ; e che ivi
fece sgorgare la fonte detta Ciane. Dopo il ratto di Cora favoleggiano che
Demetra, non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei
crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra abitata e beneficò,
donando il frutto del grano, gli uomini i quali meglio l'accolsero. Più
benignamente avendola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti
donò il frutto del grano ; pel che questo popolo più d'ogni altro onora
la dea con splendidi sacrifìzii e coi misteri eleusinii... (1).
Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea ne viene
accennata; pietra a pietra, chi nùmeri, l'edifìcio esiste. Né mancano
(che noi tralasciammo per brevità) cenni etiologici alle feste sacre.
Fece difetto il genio architettonico: e il difetto si tradisce ogni volta
che Diodoro ripete, ed è spesso, quel suo " favoleggiano „. Altri;
non egli: eh' è estraneo a quel che racconta. Modello insigne, questo, del come
possano mascelle di erudito maciullare e rugumare il fiore della
saga. Il mito contaminato. Il mito siracusano di Demetra e Cora,
imperniato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso dei due centri
religiosi, venne accolto nell'ambiente poetico di Alessandria. E fu questo
l'i- DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione. nizio d'una sua
vita nuova. In Alessandria (1) di fatti, oltre alla forma siracusana
della favola, erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma
dell' Inno omerico, insieme con la variante di Trittolemo inventor
dell'aratro : cosi che quella diveniva la fucina ove cotesti elementi,
parte simili, parte dissimili, mossi da origini diverse, avevan da
commettersi l'un l'altro e penetrarsi. E non pur cotesti elementi
precipui ; bensì anche alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fossero
riusciti a trascendere i limiti della mediocrità espressiva e della
ristrettezza geografica, per intrudersi nella letteratura tradizionale.
La mitopeja orfica in ispecie aveva trovato accoglienza favorevole nel
colto ambiente alessandrino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le
differenti e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più antichi
non erano se non una forma, fra l'altre, dell'intuizione naturalistica, e
che il gusto posteriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La storia
per tanto del mito siculo fuor di Sicilia è la storia della sua seconda
immersione nel flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia
del successivo accogliersi intorno ad esso di giunte e di innovazioni via
via più complesse. Si sono smarrite per noi parecchie fra
l'opere dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sarebbe stato
trasparente: dei maggiori alessandrini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta
traccia Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es.,
Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133). e tal volta quasi copia in
autori romani. Con questo valore, ci appare un ampio tratto del
quinto delle Metamorfosi ovidiane (1), in cui appunto si rivela la
contaminazione fra diverse correnti leggendarie. Vige
l'indirizzo siracusano, senza dubbio. Anzi vi si manifesta con talun
nuovo particolare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una tradizione
tutt'affatto sicula, che abbandonarsi a una variazion fantastica, quando
nel luogo di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca affannosa
e dolorante di Cora, il primo indizio del ratto dalla fonte Ciane ; e in
luogo di Elios introduce la ninfa del siracusano lago di Aretusa,
nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti. Se non che questi elementi
siciliani, che al pari di Enna pajono saldati con il concetto
duplice di una Sicilia esperta del grano prima del ratto e di una
umanità esperta sol dopo (si ricordi Timeo), qui invece sono trasfusi in
uno schema diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se non
tutta per buona parte, già ha avuto il dono del seme ; e Cerere del suo
dolore si vendica col privare gli uomini di aratri di bovi di spighe
: dunque, come nel mito protoattico. Ma, come nel neoattico,
Trittolemo, dopo il verdetto di Giove, sparge per segno di pace la
semenza. E i due miti si conciliano nel pensiero che uguale bisogno del
nuovo dono ha cosi la zolla mai colta come quella di cui per la vendetta
divina fu pretermessa la coltura. In tale contaminazione
(1) Vv. 341-661. Cfr. § IV. dei due miti protoattico e neoattico la
saga siciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre la propria terra
fra più altre, prima nel godere le biade, i)oi nel riaverle. Resta il
vanto di fertilità singolare e di fedeltà a Demetra. D'altra parte
il poeta asseconda, cosi per l'attitudine sua mentale come per la natura
del suo tema, con particolar compiacenza l'impulso letterario delle
metamorfosi. Sembra persino che ogni vicenda del mito in tanto gì'
importi in quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti di
forme. Ciane, ad esempio, che solo perché palude era sembrata luogo
dicevole alla scomparsa di Ade come un lago alla comparsa, offre spunto a
una d'esse, quale ninfa tramutata in acqua. E anche. L'episodio di
Cora-Persefone che gusta la melagrana è sfruttato per immettervi un
Ascalafo ; il quale scorge la Dea nell'atto, ne riferisce ed è converso in
gufo. Sovra tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria si
risente in Ovidio per il tentativo di analisi psicologica nei personaggi:
in Cora specialmente, per cui egli giunge sino a finezze troppo cerebrali
per esser vere, sino a farla piangere, non che per il ratto, j)er lo
smarrimento dei fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto l'
antefatto del mito : il ratto è voluto, non da un decreto di Zeus, bensì
da Afrodite cui è sdegno che tante dee si sottraggano al suo potere e che
libero ne resti il medesimo Ade (latinamente Dite). Amore sostituisce cosi,
quando psicologico diviene il racconto, un particolare che, allor
che esso era naturalistico, valeva con tutt' altra importanza: la
fecondante pioggia. Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, inserito
sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite difatti è l'Ericina, che i
Siculi facevan oggetto di culto singolare. Cosi perché pili appaja
la giustizia di Griove e ne risalti la umanità del mito, l'anno è
pel doppio soggiorno di Proserpina con la madre e col marito diviso a
mezzo non più per terzi. Simile attenzione psicologica governa i
discorsi di Aretusa a Demetra, di Demetra a Giove, materiati di accortezza
feminea e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde poi lo
studio dei gesti in ciascuna figura, per toccare di quelli che a ciascun
momento dell'animo competono, là dove tecniche mitologiche più elementari
non cercano se non il consueto e costante attributo del Nume : cosi che
Aretusa, e basti per tutti l' esempio solo, ritrae prima di parlare
i capelli roridi via dalla fronte sino alle orecchie per lasciar nudi la
bocca e il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto omerico
che s'addice alla Dea; il gesto si conviene alla donna. Siamo allo stremo dell'
allegoria agreste. E su la soglia dell'umanità. Non lungi a le mura
di Enna son le profonde aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi
non spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque
corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde è di schermo
alla vampa solare. Frescura, i rami; purpurei fiori dà l'umida terra.
Primavera è perjDetua. Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or
viole or (1) Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino
1914). gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno e
canestri empie e nella raccolta studia superar le compagne ad un punto è veduta
amata rapita da Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con
mesta voce madre e compagne chiamava; la madre più spesso ; e poi che
lacerata dal sommo s'era la veste, da r allentata tunica caddero i fiori
raccolti. Ed ecco anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni puerili,
il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il cocchio, e ciascuno
chiamando per nome esorta i cavalli: scuote su colli e criniere le redini tinte
di ferruggine persa (1). È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo
d'angusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già e dal suo nome lo stagno
ha nome tra le siciliane ninfe notissima, Ciane. Ella fino a sommo il
ventre sorse tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non più
lungi andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il genero
contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi. Che se m'è lecito alle
grandi le piccole cose accostare, me pure Anàpi amava; ma pregata sposa
mi addusse non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le
braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio frenava: i cavalli
terribile esortando, nel fondo del gorgo il vibrato scettro regale con
forte braccio affondò : la terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i
precipiti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane, la rapita Dea
piangendo ed i violati diritti della sua fonte, tacita soffri ferita
inconsolabile e si consunse tutta di pianto. Neil' acque di cui grande
nume già era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi
(1) Omessi i vv. 405-8. l'ossa, la rigidezza perdevano
l'unghie ; le tenerissime parti da prima si sciolser fra tutte, le
cerulee chiome, le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra
in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e le terga ed i
fianchi vanescendo ed il petto in tenui si dissolvono rivi: nelle
tramutate vene alla fine al vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane
che prender si possa (1). Per quali terre la Dea, e per quali
acque errasse, lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava
venne meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove indaga
vagando, a Ciane viene. Tutto le avrebbe narrato, se non fosse mutata; ma
lei che voleva, non ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva
parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre: di Persefone il
cinto, in quel luogo per caso caduto nel gurgite sacro, a fiore
dell'acqua mostrava. Come lo riconobbe, quasi il ratto appena allora
apprendesse, i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più
volte il petto con le sue mani percosse. Dove la figlia si sia
ancora non sa ; ma le terre biasima tutte ed ingrate le chiama né degne
del dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del danno
aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spezzava gli aratri che fendono duri le
glebe, ed a pari morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi
aratori, ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò, ed
i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità del paese è fiaccata:
senza far césto muojon le biade, ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora
di piogge l'ec- Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamorfosi di
Ascalabo. cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi
ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a le piante del
grano e non estirpabil gramigna. Il capo allora da l'elèe onde
solleva Alfèjade e dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae.
Dice: " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice di
biade, cessa da tue immense fatiche e da la violenta ira contro la teiTa a te
fida. Non ha colpa la terra ; la rapina tollerò contro sua voglia. Né per
la pati'ia supplico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide
diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo pili grata m'è
questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per penati, questa per sede : e tu
clementissima la salva ! Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per
tanto grande mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, opportuno,
quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo volto sarà. A me un
sotterraneo varco offre il cammino e, traverso profonde caverne scendendo, qui
il capo sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là
sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri occhi veduta la
tua Proserpina fu. Triste ella per vero, né per anco tranquilla nel
volto; ma Regina, ma nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno
tiranno Sposa potente „. La madre udendo le voci stupisce ed
impietra, ed attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la
grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio ella ascende. Ivi
tenebrosa il volto, scarmigliata i capelli, d'odio riarsa, stié innanzi a
Giove. " Per il mio (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo
sangue ! se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre commuova; né
meno cara preghiamo ti sia perché da nostro parto nata. La figlia che a
lungo cercai ecco rinvenni: se rinvenire tu chiami il perder più
cex-to, se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sopporto
: pur ch'egK la renda : che d'un marito predone degna non è la tua
figlia..., se anche mia figlia non è,. E Giove obiettava : " Pegno
comune e gravame a me con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose
noi vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci sarà
quel genero a vergogna, sol che tu voglia o Dea. Se pur altri pregi non
sieno, qua! pregio è fratello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né
fuor che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai desiderio,
ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto restando che con la bocca là
giù cibo alcuno non abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge
„. Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia. Non
cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il digiuno e, ingenua errando per
gli adorni giardini, dal ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor
da la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti (1).
Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale, il volgente
anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea, di due regni nume comune,
altrettanti mesi è con la madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si
muta ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso
Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole che da gravide
nubi coperto era già e da le vinte nubi riappare (2). A
coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio aggioga, e costringe coi freni le
bocche, e nel mezzo per l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il
lieve (1) Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo
e delle Sirene. (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di
Aretusa. SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte
dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai colto, parte sul suolo
dopo assai tempo rilavorato. Contaminato ma diversamente, ci appare
il racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti libro quarto (1).
Occasione gli è offerta dai romani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali
tien difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo modello). La
mente che ricorda il racconto delle Metamorfosi, pur riconoscendo nel principio
del nuovo carme (2), con la mano del medesimo poeta, il I)aesaggio
siculo del ratto, nota tuttavia un ritegno, quasi una schiva attenzione per
evitar d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invitate da Aretusa; non
quella è la lor sede: né nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al
meno non è detto. Il mito sorto dal compromesso tacito fra Enna e
Siracusa è senza dubbio noto ; ma non usurpa da signore lo schema greco
più antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affannosa della Madre
comincia (" dai tuoi campi, o Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia
Mègara Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri luoghi ancora e
i tre capi Peloro Pachino e Lilibeo, offrono bensì materia alla fantasia
del poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono per ciò a
punto introdotti dal suo solo arbitrio nella leggenda, onde costituiscono
un elenco di (1) Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig
1907). Confronta § IV. (2) Vv. 419-50. nomi regionali, non
già altr'e tanti addentellati mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al
mito siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi sùbito dopo
in abbandono. Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo
del vecchio Cèleo fu il campo. Egli in casa porta le ghiande
e le more spiccate agli spini e le risecche legna pel focolare che
l'arda. La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ; e
nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „ la fanciulla
dice e commossa è la Diva pel nome di madre " che fai in solitarii
luoghi senza compagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio, quantunque il
peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che misero tetto
della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava una vecchia e d'una mitra i
capelli avea cinti. A quello, che insiste, tali parole risponde : "
Salvo tu stia ! e padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la
tua sorte di quanto è migliore che la mia sorte!. Disse, e come di
lacrima che non piangon gli Dei cadde
sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del pari teneri in cuore, la
fanciulla ed il vecchio ; e dopo, del giusto vecchio le parole son queste
: " Se a te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati,
non disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea "
Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai ben saputo ! „ .
E s'alza dal sasso ed al vecchio tien dietro. Alla compagna
la guida racconta, come sia il figlio malato e sonni non prenda ma vegli
pel male. Ella, pria di varcare la povera soglia, soporoso il papavero
coglie lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che ne
gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse A. Ferrabino,
Kalypso. 10 la lunga fame: e perché della notte in
principio ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del
cibo l'apparir delle stelle. Come varcò la soglia, piena di pianto
vede ogni cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel
bimbo. Salutata la madre Metanìra la madre si chiama alla sua congiunger
degnava la bocca puerile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel
corpo: tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è
lieta : la madre il padre ciò sono e la figlia : tutta la casa, quei tre.
Pongon tosto le mense, e cagli stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi
proprii miele dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo, a
bere con tiepido latte dà i papaveri causa del sonno. Della
notte era il mezzo, era nel placido sonno silenzio ; ed ella nel grembo
Trittolemo prende, con la mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : scongiuri,
che non ripete parola mortale. E nel focolare il corpo del bimbo entro la
calda cinigia nasconde, che l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote
dal sonno la madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ?,
e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per non esser
scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni divengon pel timore
materno. Questi sarà bensì mortale; ma primo e con aratro e con seme da le
coltivate terre coglierà premii „. " Disse : uscendo d'una
nube s'avvolse, su i serpenti sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte
„ (1). Qui non è più il racconto dell'Inno con il
(1) Vv. 507-562. mito protoattico ; non è né meno il racconto
di Timeo con il mito siracusano : però che a differenza profonda dal
primo la umanità è presentata ignara di biade e cibata di ghiande prima
del ratto; e a differenza caratteristica dal secondo la Sicilia non ha
privilegio alcuno rispetto all'altre terre. Qui dunque è il mito
neoattico» di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo a Demofonte
nella magia del fuoco, e ha tramutato il semplice istitutore di un rituale
sacro nel giovinetto onde per favore della Dea un inestimabile
benefizio si largiva agli umani. Celeo e Metanira recano identici i loro
nomi, ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è tramutato in
povera capanna: sul desco stanno cagli; nei cuori è ingenua ignoranza.
Cosi pertanto la versione siciliana, dianzi cautamente seguita, è soppiantata,
senz'urti, da una seconda. Ma finisce apjjena questo brano, che un
terzo influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori di Cerere su
la persona del rapitore sono due astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole
(EHos) ; analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non la
Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore che mai non tramonta nel
mare, e per ciò tutto vede, di notte. D'altra parte, dopo il
colloquio fra Cerere e Griove, questi decide di dividere l'anno in
due parti perché Proserpina rimanga sei mesi col marito e sei con la
madre (1). Ora, Elice sostituisce Ecate perché preferita nella consueta
mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso Vv. .575-614. pel mezzo
già ritrovammo nel gusto alessandrino delle Metamorfosi. E sotto la
medesima luce posson venire considerati anche l'idilliaca scena in
casa di Celeo, dal tono dolce dal colore delicato dall'insieme grazioso ; e il
quadro del florilegio in Enna. L'arte però converte la triplice
mischianza in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta che nelle
Metamorfosi, s'indugia solo nel pastorale abbandono di Eleusi, e diviene rapida
nel termine ove più personaggi agiscono e parlano con una stringata
prontezza che culmina forse nelle parole di Ermes " La rapita ruppe
il digiuno con tre di quei grani che le melagrane ricopron con molle corteccia
„ (1). Le varie correnti mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia
di mosaico mitologico; una inspirazione centrale muove tutto il
carme, lo ricollega con qualche sparso accenno a questo o a quel particolare
del culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo solenne del
benefìzio divino, scaturito dal dolore d'una Madre e compiuto nella
capanna d'un misero. La gratitudine verso la Dea si traduce bensì
in sacrifìzii suini e in vestimenta candide, ma non è di origine
religiosa, si più tosto muove da una intima commozione umana, di
simpatia per la sofferenza eterna, per la semplicità primeva, per la
faticosa Terra. Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito
siracusano; ma per compenso è conseguito più alto pregio letterario che
non nell'altro carme (1) Vv. 606-7. ovidiano, ove il
poeta con l'innesto delle frequenti trasformazioni deforma la sua
materia, or riducendola a magrezza or distraendola a rimoti
oggetti. Oltre che elementi siculi proto e neoattici, anche
particolari orfici compose insieme con abbondanza Claudiano nel poemetto
che al Ratto di Proserpina volle dedicare, senza per altro condurlo
a termine. Grli spunti siciliani sono i ben noti: Enna sede del
rapimento, Ciane oppressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le
fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti protoattici dovevano esser
copiosi nella parte del poemetto che non fu scritta e trattava del
soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa di Coleo e Metanira.
Gli spunti neoattici in fine si assommano nella figura di Trittolemo a
cui par probabile che venisse attribuito il dono delle biade (2).
Su questa trama vennero innestati parecchi motivi che si dovevano
all'orficismo. Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva
affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti e ai Cm-eti e che in
loro custodia Cora trascorreva il tempo intenta a tessere un tessuto ove
fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora : che il ratto accadde
si per volontà del Fato {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore
di Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle {pvvófiaifioì) : o
sia Artemide ed Atena. Più tardi cotesta circostanza fu alterata ; da
chi, pare, non (1) III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili
51.s'accorse o non volle accorgersi che il concorso delle due Dee al ratto
non era se non un assecondar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne
che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora, vergine com'esse
erano vergini, soggiaceva a violenza, fosse la lotta contro il fosco
Aidoneo : nelVElena di Euripide difatti (1) elleno gli appajono ostili.
Se non che scemato cosi al ratto il favore di Atena e d'Artemide, a
compenso vi fu introdotto quello, che pareva più dicevole,
d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'antico aneddoto orfico pertanto fu
e rinnovato nel suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase
tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte altre fiabe erano nella
poesia orfica attinenti a Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono
su quella parte la quale nel poemetto sul Ratto non è svolta sarà
qui da tacerne. Oramai difatti sono stati raccolti tutti i materiali che
da triplice fonte il poeta adunò per l'opera sua e che gli bastarono, con
giunte e innovazioni, a narrare del ratto e i precedenti e le primissime
conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito del poeta investisse
quella sostanza leggendaria e la elaborasse esprimendo. Il
suo racconto si spezza spontaneamente in due parti: delle quali la prima
ha termine col ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo di
moglie e ignaro delle dolcezze che la paternità concede. Tanto l'assilla il suo
veemente Vv. 1301 sgg. (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. §
IV. desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso Zeus di
sovvertirgli l'ordine dell'universo e liberare i Titani incatenati, ove non sia
fatto pago. E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in dubbio
intorno alla scelta della sposa, già che nessuna volentieri accetterebbe
marito il tenebroso Re dei morti. Contemporanea a cotesta scena però si
svolge l'altra in cui Demetra, per sottrarre l'unica sua figlia Cora allo
stuolo degli insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeggiano, la reca
in Sicilia ove l'affida alle cure della nutrice Elettra delle Ninfe e di
Ciane (ritornano, come si vede, sott' altra specie, le orfiche Ninfe e i
Coribanti e i Cureti) e la ritiene certa da ogni attentato sotto l'alta
protezione celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi in
Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla fine queste due linee
narrative da quando il Signore degli Dei decide di maritare Cora appunto,
profittando della lontananza materna, a Plutone, e j)repara le nozze.
Connivente Afrodite, egli fa si che la vergine esca con le compagne e Artemide
ed Atena e la stessa dea dell'amore a raccoglier fiori su i prati
smaglianti di Enna e che su quelli, balzando improvviso dal suolo
spalancato in voragine, la rapisca il sotterraneo Nume. Grande scompiglio
ne sorge. Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide tentano
opporsi con l'armi che sono lor proprie. Ma Zeus da l'alto tuona il suo
assentimento. E presto Cora, trascinata dai cavalli
dell'oltretomba, fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove
l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii torvi e le paurose iddie
de' regni flegetontèi. La seconda parte possiede quell'unità di struttura
che manca a questa prima. Il centro naturale dell'azione è offerto da Demetra;
intorno a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre non vive
tranquilli i giorni presso i Frigi: un presentimento vago ma assiduo la
turba con sogni atri che mal si dileguano nel risveglio. Alla fine,
decide di abbandonar le terre di Cibele e recarsi a visitar la figlia fra i
Siciliani. Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi le
appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar Cora ; ma ben presto scorge
deserta e sconvolta la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera
tessile della vergine, e lacrimante in profondo dolore la nutrice
Elettra. Chiede con voce ch'è già di disperazione; e apprende il ratto.
Lo schianto le è però quasi sùbito superato dallo sdegno contro gli
Dei tutti, e Zeus in ispecie, che permisero il delitto, lo lasciarono impune,
non curando se per tal modo si sovvertissero leggi di giustizia e
principii di morale. Giura che non cesserà di percorrere, intenta alla
ricerca, l'universo intero fin che non le sia ritrovata la figlia. E la
ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a sé, per la notte, fiaccole
di due pini recisi presso il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.
Il resto si desidera. Ne importa gran fatto, che poco più
apprenderemmo nel sèguito. Il poeta si era assunto ben grave soma, chi
guardi alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria, ove sempre
la materia poetica è molta, ma sorda ad artefice che non sia di assai
fermo polso; e ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a
rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano vi mancò: non esito a
dire che vi mancò per intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte
della sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giudizio, che la sua
saga è la nostra: abbiam appreso a conoscerla da l'origine lungo la vita
complessa. Non c'illude quindi, e sarebbe facile errore, quella,
che prima colpisce, bellezza formale di particolari, eleganza di scene,
armonia di verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come perfezion
delle parti in un tutto su cui si volge il nostro interesse e l'esame più
vero. Né la perfezione stessa è anche da concedersi intera : guasta per
certa esuberanza, che assempra il vecchio pescatore teocriteo dalle vene
gonfie sul collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta se bene
già troppo a sé indulgente. Ma in ogni modo, sopra le singole pennellate
riuscite e oltre le mancate, com'è composto il grande affresco
? Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti psichici di
cui tutto il racconto è pregno: non diversamente operando, in ciò, da
Ovidio. Le sue dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi numi.
E suo grande compiacimento si fu narrare ora il cordoglio della madre,
ora lo spavento della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plutone, là le
dolcezze filiali di Cora. Se non che in Ovidio tal via era tenuta con due
pregi: la accorta profondità dell'investigazione intima; e,
(1) Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato essay su
Demeter and Persephone in " Greek Studies, (London LA DEMETRA
d'eNNA inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la donna o
l'uomo, figuravan sempre senza stridenza di contrasti la Dea e il Dio. Nel
Ratto per contro cosi quello come questo pregio mancano del tutto. Nulla,
che non sia vieto e grossolano richiamo di motivi abusati, è infuso nell'ordito
passionale; le finezze di certi gesti, le sfumature di talune emozioni
gli sono ignote ; i suoi personaggi, non pur non condensano la loro
personalità per l'arte di lui, si scemano per la imperizia fin quel
vigore e scancellano quella determinatezza ch'era lor impressa dalla
tradizionale teologia. Una madre, una figlia, un marito recente, un giudice un
po' pauroso e a bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non importano
nomi, non colori, non linee. Basta, che per ciascun tipo sono applicati i
luoghi comuni della retorica. Che se poi ci s'avvicina alla
scena, colpisce la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo
di versi circoscrive la Sicilia con un senso di sacro rispetto. Enna,
poco prima che le Dee l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splendor
di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e un contenuto orgoglio
matronali. La Frigia lontana riceve da Cibele, quasi un recondito
balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra svelle i due pini a
illuminare la notte è un lucus Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene,
se pur varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo : non è in
proporzione con la statura degli attori ; o meglio, non con la loro
statura d'uomini, si con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte
il primo contrasto, che par creato a posta dal poeta,
IL MITO CONTAMINATO fra la diminuita materia divina della fiaba e
l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato trasferito al paesaggio
il decoro che avrebbe dovuto essere dei Numi. Primo contrasto
; non solo. Ben presto si nota che nessuno dei consueti attributi è stato
tolto da Claudiano né a Demetra né a Cora né a Plutone né ad Atena
né ad Artemide né ad alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re
dei morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la vergine Figlia ha
intero il suo sèguito di bellissime ninfe; hanno l'armi Pallade e la
Cacciatrice, quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le frecce;
la Madre corre per l'aria su cocchio trainato da draghi e doma leoni. Il
meccanismo oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste. Ond'è
che la vita umana e affettiva vi è poi spirata dentro senza che Fautore
mostri di accorgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è, a volte,
men grave. Ma a volte attinge a dirittura il grottesco e tramuta il poema in
commedia. Quando, gli esempii potrebber essere moltissimi, desunti ogni
cento versi ; basti l'uno più notevole, quando Plutone ha rapito
Cora e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i lamenti
pietosi e le invocazioni alla Madre, si commuove : " Da tali detti
il feroce e dal pianto vezzoso è convinto, e sente i palpiti del primo
amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea tunica, e con pacata voce
consola il mesto dolore (di lei) „ (1). E, questa, una innovazione di
(1) II 273-276. Claudiano : già che le parole che seguono e
che vantano di Plutone i pregi qual marito e re son le medesime che
l' Inno attribuiva ad Elios e Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma
rinnovazione a punto svela a maraviglia a qual grado di risibile pervenga
il poeta nel colorire pateticamente quello spauracchio " feroce „
di Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro a tutte
tremendo. Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere
artisticamente (non dico logicamente, che sarebbe inutile rilevarlo) mal
connesso il mondo divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano
all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra ridiviene di colpo
sorella di Zeus, dopo che il tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia
ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e meschina al pari d'una
qualsiasi siracusana. Ciascun dio sembra supinamente soggetto a
Zeus; ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tremare non a pena
Plutone lo minaccia di far liberi i Titani. Non c'ispirano quindi
reverenza né timore cotesti numi ambigui. E l'invettiva che contr'essi
scaglia la Madre nell'ira non è per nulla sacrilega : ci scende fredda
nel pensiero, perché è vuota cosi di dolore materno come di
ribellion religiosa. Se per poco fosse spinta in là la tendenza del
poeta, i suoi dèi finirebbero con l'apparirci, nella loro scema sostanza
um^ana, e tracotante pompa esteriore, marionette fìngenti per gioco di
fili occulti e virtù di orpelli gravità olimpica, in un consesso di
stolidi e in una famiglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica in
fine culmina in quel solenne decreto di Zeus con cui s'apre il libroni: il
quale vorrebbe mostrare come, col decretar da Demetra il dono del seme,
la suprema volontà sapesse ritrarre un vantaggio agli uomini dalla
vicenda di Cora; ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano ha
deformato il sommo Iddio. Conchiudendo, il poeta è giunto proprio
al contrario di quel che era compito dell'arte: ha dissimilato in
luogo di ordinare in armonia ; ha contrapposto, in vece di avvicinare
senza contrasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già tutti nella
primitiva saga di Cora, e avevan perdurato identici lungo il suo
evolversi. E pure non gli avevamo avvertiti: non so che secreta
forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se adesso adunque si
frangono e s'iu"tano, segno è che non pure s'è svigorita l'arte, ma
l'organismo del mito è moribondo, e si dissolve. Cosi né pur la
contaminazione di motivi, desunti dalle più diverse fonti, riesce a infondere
ricchezza di contenuto alla leggenda agreste. Un più profondo guasto la
uccide, senza rimedio. Onde finisce l'ultima forma di
quell'antichissimo racconto siculo, che una prima volta aveva sentito,
per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso greco, e trovò una seconda
volta, traverso gli AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica
da iDrincipio, gravame in sèguito di mal congesti elementi. Indra e Vritra
si combattono. Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ardore,
Indra teneva le sue smaglianti mucche al pascolo e lasciava vagare
leggère, qua e colà, nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe figura
di serx^e dalle tre teste, né tentarono in vano la sua maligna cupidigia.
Le rapi, e trassele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne secrete.
I ben colorati animali furono avvolti dalle tenebre, celati sotto un'
incupita parvenza uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dall'antro, ove
segregato si stava il bottino, gli (1) Per tutto questo
capitolo v. Vlndagine, in libro II cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle
note successive. giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò e
il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con la sua possente forza la
grotta, di frecce e di clava colpisce più e più volte il mostro
nemico, l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel cielo, onde
lasciano esse scorrere il latte fin sopra la terra. Cosi nel
Rigveda indiano (1) si adombra per noi la vicenda del temporale, i
bianchi cirri sparsi per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che
dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia. L' odio, che un'
anima paganamente infusa nella natura nutre acre contro il velame
dal quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha sentito nelle
nubi gravide d'acqua e di fuoco la presenza di una forza attiva, e nemica
cosi della luce benefica come della fiamma benefica, però che si
compiaccia, in vece, di tenebrori e di vampe distruggitrici. Vampe escono
dalla caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere umane e le
annientano. Il bujo della notte; l'ombra dei secreti abissi sotterranei,
ove occhio non si spinge, e che, quando spiragli appajono traverso
il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra tinta del fumo, che gì' incendii
sprigionano, pregno di odori corrotti, su dai possessi degli uomini
; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco, che s'insinuano avide fra cosa
e cosa, per far di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cumuli ;
l'abbagliante incandescenza del baleno, che acceca le pupille: questi
colori queste (1) Cfr. fino a pag. 163 § E.
PRESSO gl'indiani E I GRECI 161 forme quest' energie si
accostano nel pensiero primitivo, si compongono variamente e
diversi si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però con ritmo
unico il malefìcio costante e il duro danno, in antitesi violenta contro
il dono, in cui è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiammata che
cuoce l'alimento è una scintilla tolta dal Sole per gli uomini : e, come
il Sole, ha virtù di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiammata in
vece che rade una selva è nemica del Sole perché nemica dell'uomo: e, poi
che teme la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bambina non sa che
la tenebra è un modo della luce, e che il fuoco è un solo principio,
distrugga o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli effetti,
delle antinomie fallaci nelle cause. Cosi fatto l'atteggiamento
fondamentale del pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ; e
comuni, se bene traverso le differenze a volte non piccole, sono le forme
di cui si veste e le associazioni psichiche di cui si vale : l'antropomorfismo,
ciò sono, ed i nessi fra la notte e il sotterraneo mondo, fra il bujo e
la fiamma malefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo. E
questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale che sia per esserne il valore
più immediato, permane il riposto senso di allegoria naturalistica. Anzi,
in grazia a punto di essa affinità di concetti, poco importa se la fiaba si
connetta più tosto con la freccia del fulmine che squarcia il perso
involucro dei nuvoli, o più tosto col dente infocato che appare
impro\^iso e avido tra le sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti
con altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale ha narrato
sotto la specie dell'uomo una spettacolosa vicenda della natura, deve esser
stata indotta dalle medesime sue associazioni analogiclie a ripetere,
nelle aridità della concezione, un solo racconto per fenomeni
simili. Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il mito ritorni
bensì presso assai popoli arii, ma presso pochi come là simboleggi il
temporale. Presso gli Eranii tramutato si è, pur serbando parecchie
simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a e Apaosha si combattono ; e a
dirittura rinnovato in altra forma, la quale, per il nesso che nel
pensiero già intercede fra tenebra e male, luce e bene, trasporta il mito
a significare il contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo
Ahriman. Che se, dopo averle spiegate, non grande conto è da
farsi di queste trasposizioni della fiaba da uno ad altro fenomeno ;
molto maggiore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi o al
persistere di taluni particolari significanti. In essi è il segno di
qilanto si accosti o allontani dalla saga originaria il nuovo racconto :
simili a quei tratti caratteristici che permangono a contraddistinguere il
volto di una famiglia nei secoli. E quando del mito si è poi perduto
tutto il senso riposto, restano testimoni veritieri ed irrefutabili
dell'origine prima e dimostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione
innovatrice sul modello più antico. Quando in vece un significato
s'intrude sopra e contro l'originario e lo modifica o lo soffoca, si
perdono insieme i primitivi particolari episodici, come un muro
coinvolge nella sua caduta gli affreschi. o solo tanti se ne serbano
quanti non disconvengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié l'energia
conservatrice insita in quei particolari è costituita, in somma, da una non più
cosciente memoria dell'importanza essenziale clie tutti, in vario modo,
avevano, quando ancora la saga travestiva un reale fenomeno. E
cessa pertanto, allorclié al ricordo incosciente sottentra nel racconto
la coscienza d'un contenuto e d'un fine diverso. Un fine e un
contenuto del tutto nuovi ha assunti il mito primitivo appresso i Greci.
Ed ecco difatti tramutarsi anche la foggia esteriore e l'intreccio dei
casi. Come il furto di buoi perpetrato a danno d'una divinità solare
venisse narrato insieme con la successiva vendetta nelle saghe
antichissime degli Elleni, ignoriamo : e ci sembra inutile pel nostro
assunto la congettura. Certo che in secolo a bastanza antico la
metamorfosi del racconto si rivela profondissima. L'omerico i Inno a Ermes è la
nostra fonte in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso tutto dalla
minore anima greca: quella che baratta e commercia; che ruba con astuzia,
e nega con impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e avvolge di parole
artificiate, di periodi fluenti, di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte
e do li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati,,
la cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Confronta A. Gemoll
Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886) 181 sgg. e T. W. Allen and E. E.
Sikes The homeric hymns (London 1904) 128 sgg. mande coperte,
l'infelice derubato ; che giura invocando i men pericolosi dèi, nella
speranza di averli meglio indulgenti ; che non ignora alcuna furberia, e
si vanta di tutte ; e nessuno più le crede, e ognuno le s'arma di
sospetto, ma ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale
discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per l'aria, incurante se
assai ne cadano a vuoto, certo che giungono in parte al brocco, e
tiene fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse, fissi qua e
là su oggetti che non guarda; il Grreco dei proverbi e dei motti ironici:
vive intiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel ladro di buoi. E
lo ritrae la maggiore anima greca, la virile, cui la cupidigia di
guadagno s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono è anche
bello, e forza indirizzata al suo fine è anche il bene. Ma fra questa
maggiore e la minore anima greca i tramiti non sono affatto tronchi. Onde
una celata coscienza della superiorità di quello spirito che può, se voglia,
rinchiudere in un labii"into di dubbii e di certezze, entrambi
illusorii, l'intelligenza del suo interlocutore, serpeggia per il racconto. E
un sorriso di compiacimento interno lo illumina : il sorriso mal
palese degli aruspici, secondo Catone; il sorriso, dagli occhi assai più
che dalla bocca, con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan accogliere,
pacati d'indulgenza ironica, la dichiarazione frequente dei Peloponnesiaci :
" Grli Ateniesi discorrono troppo bene perché si possa lor credere
„. C è un biasimo tacito del furto ; ma c'è una lode sobria del ladro
abile. E la commedia nasce. Comico, il racconto eh' era stato tragico
allorquando Vritra cadeva sotto la invitta clava di Indra. Perno
del mito diviene adunque l'astuzia clie elude la forza. I protagonisti
sono mutati. Caduti taluni particolari, altri s'improvvisano dal largo
patrimonio novellistico. Lo sfondo è diverso, perchè alla furberia del mortale
compete scena la terra, come alla violenza del mostruoso iddio sede
il cielo. Resta la pascente mandra divina, di splendido aspetto ; e il secreto
del furto ; e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti. Apollo è
il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella sera del giorno in cui nacque,
piccolo bimbo di inverosimile forza e di mente già dotta nelle
oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle ed esigua statura, e il
Dio vigoroso e alto, si svolge la principal scena. Due altre la
precedono. La prima narra il furto. Non è opera di violenza, ma di
scaltrezza. I buoi, cinquanta, pascevano
nella Pieria mentre " con il suo carro e i cavalli „ il Sole spariva
sotto la terra. Ermes, per celare ogni traccia dell' abigeato sul
suolo sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrecciando per sé
accorti e leggeri sandali con vincastri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela
la refurtiva in una grotta " da la volta elevata „. Poi,
ritorna presso la madre, sul monte Cillène. E ha luogo la seconda
scena (1). E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava
in sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con Vv. 142
sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford l'abigeato di caco lui o tra gli
Dei beati o tra i mortali uomini; e non latravano i cani. Ermete, il benefico
figlio di Zeus, obliquo per il serrarne della casa scomparve,
simile a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto
nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi movendo : né così fa rumore
sul suolo. Subitamente entrò nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le
spaUe avvolgendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla balia i
lini scompone coi piedi (1). Ma non sfuggiva l'Iddio alla sua madre Dea,
che gli disse parole. " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde
in ora di notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te
pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno legato, uscir da
queste soglie fra le mani di Apollo, o finir per recarti a predar nelle
valli al pari di ladro. Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti
generava il Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.
Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre, perché
queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo bimbo, che malizie ben
poche conosca nel cuore, e timido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io
un'arte apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei
immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci rimarremo come tu
vuoi. Meglio è per sempre frequentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di
messi che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad onore,
il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come Apollo. E se il mio
padre non me lo dona, io stesso per certo tenterò che posso dei
rapinatori divenire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre
(1) Omesso il v. 153. Omesso il v. 167 ch'è corrotto.
Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio e anche più : mi
reco in Pitóne al saccheggio della grande sua casa, molto da quella
rubando stupendi tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e
vesti di molte. Tu certo vedrai se ti piaccia „. n senso
d'umanità e la sostanza greca che sono divenuti il nucleo nuovo del mito
appaiono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione alla forma indiana
di cui fu veduto. Perché la difesa, che il poeta adorna cosi bene su le
labbra bambine, è un breve mal represso anelito di simpatia per il ladro
perspicace ed ardimentoso, simile a profondo brivido onde nelle fibre
arcane della carne si ax)provi quel che la ragione condanna. Ben altro
era l'odio atterrito per cui, nel Rigveda, il rapinatore trascinava la
sua mole serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste. Là, freme
il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e l'ombra della sua caverna, dalla
quale il mugghio bovino suscita un' eco di sgomento negli animi. Qui, noi
abbiamo ormai preso parte in favor del breve Ermes fasciato, che si
crogiola di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore di quanto ha
compiuto, pronto a difender sé e la i)ropria opera, certo di saperla
proseguire nel futuro. E non v' è dubbio che a Maja piacciano le vesti
che l'arti del figlio le recheranno rapite! Le due spanne onde il
corpicino si misura sono molto piccola cosa di fronte alle cinquanta terga di
tori: e nella grazia furbesca del contrasto, che la onnipotenza divina
giustifica e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra e del
poeta. l'abigeato di caco Come lui (1) scorse di Zeus e di
Màjade il figlio, adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro
la fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere molta brace
di ceppi nasconde all'intorno, tale celava sé stesso Ermes, il
Lungisaettante vedendo : in breve raccolse il capo le mani ed i piedi,
come se per bagno dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando
però. Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì, la
montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo piccino, avvolto dentro
ingannevoli astuzie. Della grande casa i recessi mirando, con la
splendida chiave tre ripostigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita ambrosia
: molto oro ed argento dentro giaceva, molte della Ninfa purpuree vesti e
smaglianti : tutto che dei beati dentro sogliono avere le sacre dimore.
Della grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti parlava ad Ermes
illustre. " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi
: presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra noi. Ti
piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella tenebra triste irreparabile ; né
te la madre né il padre alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra
errerai primeggiando fra i bimbi „. Ed Ermete a lui scaltre parole
rendeva : " Latoide, qual mai aspro discorso parlasti ? e perché
ricercando agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né
d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne premio, né
somiglio ad un ladro di buoi, uomo possente. Non questo è da me, e prima altre
cose mi piacciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia madre, e
attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni. (1) Vv.
235 sgg. Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa, che per
vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe che un bimbo nato da poco
varcasse la soglia fra mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi
nacqui ; i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se
vuoi, su la testa del padre un grande giuramento farò : né io affermo
né io stesso fai causa, né vidi alcun altro ladro dei vostri buoi checché
i bovi si sieno, poi che per fama sol tanto ne odo Cosi
dunque parlò, e di frequente con le palpebre ammiccava, inarcando le
ciglia, e qua e là guardando (1). Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo rispose
: " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo per
vero che spesso per invader le ben abitate case durante la notte, più
c'uno stenderai sul suolo, senza rumore ripulendo la casa : tale tu
parli. E molti nelle valli dei monti molesterai agresti pastori, allor
che, bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in pecore
lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se non vuoi dormire, scendi
dalla zana, o compagno della nera notte. Questo per certo anche poi tra
gl'immortali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo dei ladri
„. Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse Apolline
Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani levato, tutto serio, un
presagio emetteva, ardito servo del ventre, e messaggero impronto. Dopo
esso, starnuti tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo
l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur affrettando il cammino,
Ermes gabbava ed a lui diceva Omesso il v. l'abigeato di oaco
parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus: con
questi presagi troverò pure, alla fine, i capi gagliardi dei buoi : tu, per
altro, m'insegnerai la strada „ . La contesa continua un po', fin
che si decidono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio Zeus per aver
giustizia. Li Ermete giura di nuovo solennemente il falso ; ma poco vale.
Pur troppo Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato ben sa.
Sorride, il gran Dio, e comanda ai due Dei di cercare insieme " con
animo concorde „ i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.
Ubbidiscono. E la commedia finisce come le commedie sogliono terminare: con una
buona pace. Di essa rimangono cardini notevoli l'accortezza del
trascinare le mucche all'indietro per disperderne l'orme e travolger
gl'indizii ; e l'insistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi ad
Apollo ed a Zeus : particolari che, pur appartenendo forse ad antiche trame
novellistiche, sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato
probabilmente a bastanza tardi. Presso i Latini. Le fila
s'intrecciano poi presso gl'Italici, e presso i Latini in ispecie
(1). Né della trasposizione, per cui il mito vien riportato
da un fenomeno all'altro analogo ; né Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e
(in parte) § VI. dell'intrusione, per la quale un nuovo significato
scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'antico, e rinnova per conseguenza i
particolari del racconto : si deve tener parola a proposito della
saga romana di Caco. Altre vicende essa ha subite allor quando ci appare
formata in età di storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da
prima ben radicata nella memoria delle generazioni, approfondita nel sangue
della stirpe ; che vi si cristallizzò in una foggia, la quale non
aveva più il contenuto cosciente della antica, ma dell'antica tutti serbava i
tratti, anche i più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere
ne diveniva veneranda e intangibile. E però allora che r elaborazione artistica
sopravvenne con voce più sicura e lievito più possente, non potè
distruggere per ricreare ; dovette costringersi nella materia, né sorda né
asx^ra, ma irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo
tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari, che furono proprii
della saga primordiale aria e che si rinvengono intatti nel Rigveda,
contraddistingue, senza eccezione, la serie intiera delle vicende che il
racconto attraversa di poi, tanto nei carmi dei poeti, quanto nelle
storie e nelle interpretazioni dei dotti. La presentazione
dei protagonisti. Però che forse la differenza più notevole fra il
racconto indiano e il probabile, d'una probabilità ottimamente fondata, i^rimitivo
racconto latino, consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da
ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un qual siasi spettacolo
naturale si presenta all'occhio ingenuo : e tanto più quanto meno il
pensiero scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per
riportare ciascun parvente alla sola sostanza. Ogni aspetto poi si presta
a tramutarsi, da prima, assai più che in una personale figura di
Dio, in un nome cui risponde una sbiadita ombra divina. Spiccatisi più
tardi dal comune ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione
linguistica da un lato trasforma quei nomi per fenomeni fonetici
appresso le differenti razze; dall'altro, il caso lascia smarrire taluni
di essi, e taluno fa prevalere, addensando di questo il contenuto e
concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fondamentale della fiamma aveva
certo moltissimi termini che le corrispondevano : ma uno ne trionfava là,
ed un altro qui. Onde accade che un solo mito del fuoco possa rinvenirsi
in fogge bensì quasi identiche presso gl'Indiani e i Latini, ma non mai
con identici nomi. La presentazione, adunque, dei
protagonisti. Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e senz'altro
gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le loro leggende ci appajono per
barlumi, in fondo ne siamo all'oscuro, ed è quindi prudenza non
affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo mito indoeuropeo senza
ancora averne dimenticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare i
nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano o Recarano. Di fronte ai
quali la storia si trova in ben diverse condizioni. Non solo il primo
è Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino 1907) 88. ben
certo, là dove il secondo non è né pur formalmente sicuro e varia nei due testi
ove appare sol tanto ; ma quello è analizzabile con un etimo di cui
riflessi si rinvengono pure fra i Grreci, e questo offre difficoltà molto
maggiori. Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio) ("
brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è probabilissimo e consuona
bene alla sua natura ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è
restio a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile comprenderlo fra gli dèi
cui non è di certa analisi il nome. Inoltre a lui toccò di esser più
tardi soppiantato da un altro Iddio, ond'è impossibile definire, quali
sieno gli attributi suoi proprii, e quali al personaggio sieno stati
aggiunti dal secondo attore. Unica certezza, cbe se fu prescelto a
significare la forza della natm-a la quale nel Rigveda esprime Indra, da
Indra non differì forse troppo. E difatti Caco non differisce né pure,
nel tutt' insieme, molto da Vritra. Indubitata è la forma mostruosa ; certo è
l'atto del vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ;
congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un antro immane è sua
dimora, fra le tenebre cupe. AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né
forza gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo circonda.
L'odio invano lo minaccia. Tale sua effìgie ripugnante ed immonda però si
deve riferire ad un secondo stadio del suo evolversi mitico, perché
son tracce palesi d'una sua più vasta comprensione. Egli dovette, ciò è,
nell'inizio, valere come non pur malefico si anche fuoco benefico: e
senza dubbio i due aspetti antitetici erano potenzialmente, più che in
lui, 174 IV. - l'abigeato di caco nel suo nome.
Difatti sotto sembianze piacevoli ed amicali Cacu ritorna presso gli
Etruschi in certi specclii dipinti che ne pervennero unica
reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il culto d'una Caca^ cui
vergini avrebbero con assidua cura vigilato un sacro focolare, non dissimilmente
da Vesta. Eorse il termine non significava da principio se non il fuoco
nell'atto dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due
contrapposte concezioni della fiamma confluirono in esso, e valsero a derivarne
ben due figure divine. Il terzo stadio in fine della sua evoluzione
Caco toccava quando nei posteriori tentativi di genealogie divine divenne
figlio di Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo posto fra
i Numi della fiamma. Dei due protagonisti, il furto e il duello
si svolgeva quasi certamente in modo simile al racconto del
Rigveda. Vi ritornavano il muggito bovino rivelatore dell'inganno; le
frecce e la clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta
della caverna e l'abbattimento del mostro tra il fragore il fumo ed il
fuoco. E tutto il mito latino si esauriva, per quanto ci è concesso sapere,
dentro questi termini : senza né originalità sua propria di particolari e
di figure né smaglianza singolare di colorito formale. Un primo
arricchimento gli derivò dall'avere, in proceder di tempi, localizzato
con più esattezza la fiaba, topograficamente vaga nelle origini, come
quasi ogni altra. Nello spazzo che s'apre su la riva sinistra del Tevere
tra il Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campidoglio a nord, e
dove erano nell'età storica il Foro Boario e il Velabro, trovò la sua
fìssa sede la saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana come
dal cielo cosi dal suo proprio senso naturalistico. Fra i colli romani essa
divenne il racconto di avventure terrene, il ricordo di tempi lontanissimi,
di cui testimoni unici restavano i monti ed il fiume. Prese a
trasformarsi in una leggenda che la pretende a storia accampando una
verità fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu effettiva. Un
particolare locale s'insinua : la caverna di Caco è pensata nel monte Aventino.
E, assai più di quanto possiamo scorgere nelle testimonianze, i luoghi
ove poi saranno le scalae Caci e Vatrium Caci danno contributo di piccoli
nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale si forma pertanto colà in
uno stadio, che è il suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aventino e
i due numi Caco e Garano-Recarano costituiscono i iDerni.
Acquistare una sede significa però per un mito, non pure
raggiungere una consistenza e saldezza maggiori, bensi allargarsi via via
per attinenze nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son radicati.
E un contagio cui il suolo serve di conduttore: e che qui fu invero non
presto, ma fu per compenso profondo. Quando il dio greco Eracle
penetrasse nel patrimonio leggendario latino e sotto la veste di Ercole
venisse definitivamente adottato è e sarà del tutto incerto (1). Senza
dubbio poi alquanto tempo dovette trascorrere innanzi ch'egli potesse fondersi
con gli (1) Cfr. De Sanctis St. d. R. l'abigeato di
caco dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia modo
contigui : prima, dovette divenire familiare, ottenere culto e insediarsi
sugli altari, esser conosciuto anche nei suoi minori attributi, assimilarsi
infine air ambiente. Non presto dunque dall' " Ara massima „ ove nel
Foro Boario gli si faceva sacrifizio, presso al Palatino, sopravvenne ad
assorbire in sé ed annientare la figura di Grarano-Recarano. La quale
difatti non cade in cosi profondo oblio clie non se ne serbino
tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come l'ebbe assorbita.
Ercole prevalse onninamente. Il dio solare poco noto che era di fronte al
dio solare notissimo, impresso di grecità? A entrambi, sembra,
competevano e le frecce e la clava: simboli dei raggi della Stella. E
le lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non erano se non se
i riscontri analoghi del duello fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove
l'uno apparteneva a una religione poco evoluta qual la latina,
l'altre recavano con sé grande maturità religiosa. Una poi di cotesto imprese
di Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente Gerione e gli tolse la
stux)enda mandra, offriva il pretesto per rinsaldare quel nesso fra
Ercole e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza di forma e
contenuto tanto favorivano. Fra Eritia nell'occidente spagnolo, ove
quella fatica avrebbe avuto luogo, e la Grecia, cui doveva
ritornare l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma. Della
positura geografica approfittarono molti facitori di saghe per le loro
combinazioni (1); Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man
per nessuna forse cosi felicemente come per la latina di Caco.
Giacché la vittoria conseguita in Eritia sul Ruggente giustificava, oltre
che la presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso della mandra
che Caco rapisce. In progressione, quanto più Ercole
prevaleva su Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leggenda. Vi si
aggiunsero i particolari sul culto romano dell'eroe nel Foro Boario, e se
ne fece tutto un paragrafo nuovo del racconto, contraddistinto per
profondi caratteri dal resto. Non più il mito della natura; ma l'impasto
non sempre coerente di etiologie, con le quali si tenta di spiegare
l'uno o l'altro aspetto del rituale, un costume, un gesto, projettando il
tutto, senza prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico. Del
paragrafo che cosi accresce la leggenda, uno strato appare, se l'ipotesi
non erra, di unica origine; rispetto a cui sussistono inserzioni
più tarde. Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima
erano in età storica, prima che il servizio vi fosse assunto da pubblici
ufficiali (anno 312 a. C), le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non
che a questi ultimi sembra che non spettasse come a quei primi di
partecipare al banchetto in cui dopo il sacrifizio si consumavano i resti
delle vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la decima, per
consueto, d'un proprio guadagno o CUBO La Urica classica greca in Sicilia
e nella Magna Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola
Normale Sup. di Pisa l'abigeato di caco d'un bottino
conseguito in guerra : e l'offerta era lecita cosi a generali come a
privati cittadini. Il primo fra questi fatti e forse anche il
secondo costituiscono la trama originaria della leggenda etiologica.
Per essa Ercole avrebbe instituito, subito dopo la sua vittoria su Caco,
un altare, l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima del
bottino strappato al mostro: sacrifizio cui sarebber stati partecipi
membri dei Potizii e dei Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo
questi onde non poteron partecipare al banchetto delle viscere. Ercole decretò
allora che tale nei secoli restasse il costume fra le due
famiglie. Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne
erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo, non si pensò che in Roma
Ercole è anche dio della generazione maschile ; ma si disse che le
donne avevano offeso il Nume, in qualche maniera, durante quel primo
sacrifizio. L'etiologia dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei
testi ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta Carmentalis
che ne ha il nome è prossima al Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di
assistere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta in ritardo : ancor
più che i Pinarii ! Per una redazione forse più antica in vece, donne
rinchiuse presso il Velabro pel culto della Bona Dea avrebbero, per mezzo
della loro sacerdotessa, rifiutato al Dio sitibondo di concedergli un po'
d'acqua, per non lasciar violare il sacrario da un uomo : onde la
vendetta di lui. E anche recente è, sembra, il nesso che si strinse fra
Ercole e un'ara, esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi al
Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo è secondario, e per ciò non
da tutti accolto, il particolare che essa fosse eretta da Ercole
per ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il suo padre
Giove. Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii, i
quali si commettono con la figura di Ercole ed il culto di lui nell'Ara
Massima, rappresentano, pur tenendo conto di talune interpolazioni più tarde,
nel complesso un secondo stadio del racconto; un terzo venne di poi a
sovrapporsi. Entrò nel mito la figura di Evandro. Le cause furono, come
per Ercole, due. L'una è identica per entrambi : la contiguità delle sedi
; poiché di Evandro era un altare presso la Porta Trigemina non
lungi all'Aventino e al Foro Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come
per Ercole era valsa la simiglianza di lui con Garano-Recarano, cosi per
Evandro influì la forma del suo nome. La mente non matura che cerca
di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene d'aver tutto spiegato
allor che ha supposto l'etimo d'un termine. Caco ad esempio venne, e forse da eruditi greci, accostato per omofonia
all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale parve del resto convenir
bene al mostruoso ladrone. D'altra parte Euander che volto in greco
divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi fu facile il
riscontro tra il " malvagio,, dell'Aventino e il •' buon uomo „ della
Porta Trigemina. Evandro era, in una leggenda che qui non
l'abigeato di caco accade di analizzare, un signore di Arcadi dalla Grecia venuti
a insediarsi sul Palatino, accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La
sua persona pareva dunque acconcia a esser legata per più attinenze
con quella di Ercole e Caco; e se il racconto lo avesse accolto in età
pili antica senza dubbio troveremmo una volgata concorde intorno a
ciò. L'accoglimento in vece fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono
racconti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è ostile ad Ercole, alla
forma in cui egli ospita Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente
la natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con Caco rende
certo ch'egli dovette in prevalenza figurar contro di questo e a favore
del greco figlio di Zeus. In questo medesimo terzo stadio
venne a confluire, confondendovisi, e innestandosi con Evandro,
un'altra tarda invenzione. Quella Carmenta, di cui era un anticbissimo sacrario
presso la Porta Carmentalis e che già vedevamo usufruita per una
etiologia del racconto, fu in altra guisa sfruttata per accrescere di
solennità la venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tradizioni più
propriamente indigene. Ella avrebbe, cioè, predetto in un suo vaticinio
l'avvento dell'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi rendeva
veneranda la gesta; e la favoletta serviva assai bene a vantare per
antichissimo fra tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata,
che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di L'analisi v. in De
Sanctis St. d. R. Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso Greci, con
quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che si trovò la maniera di unire
all'altra di Evandro» questo facendo figlio o amico della profetessa,
e col ricordo del vaticinio giustificando l'accoglienza di lui al
Tirinzio. Basti di coteste invenzioni, cosi povere e recenti che
anche presso i poeti mal si collegano col restante racconto. E
impossibile dire chi per primo abbia in un testo scritto accolto il
nucleo leggendario più antico, dai successivi stadi! delFetà
volgenti deformato in parte, in parte svolto e compiuto ; chi abbia, bene
o male composto un organismo di quel che era opera, non del tutto
compaginata, d' una lenta e libera evoluzione traverso slanci fantastici
ed erudizieni grame. Sol tanto si può congetturare che Ennio commettesse
nel suo poema la materia come del primo (Caco), cosi anche del
secondo stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta parte. E di
poi un annalista del II sec. a. C. desse adito al terzo stadio (Evandro)
ed alle sue propaggini. La quale ipotesi potrebbe sussistere
parallelamente ad un' altra che giustifica assai bene taluni aspetti del mito
di Caco ax)presso gli scrittori dell'età augustea. E probabile difatti,
la fiaba greca di, Ermes ed Apollo, che l' Inno omerico divulgava
in degna veste d'arte e con autorevole efficacia, non rimanesse senza
influsso su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con fedeltà
maggiore, lo stesso unico spunto allegorico indoeuropeo. E se l'abigeato del
figlio di l'abigeato di caco Maja fu nella mente di talun
culto scrittore, come Ennio, non privo di analogie con l'abigeato di Caco, da
quello questo ebbe forse a ripetere qualche particolare attinente più
tosto all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accorgimento del
condurre per la coda all'indietro i buoi fino all'antro per disperderne
le tracce ; tale anche lo spergiuro del ladro che nega il furto :
questi difatti ritrovammo nella G-recia tratti essenziali della saga
rielaborata. Certamente però, quanto al di là di coteste
innovazioni e giunte s'è conservato intatto il primo profilo del mito,
cosi che i particolari posteriori si sono aggregati ma non
sostituiti ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando la luce
e la prospettiva e se n'è obliterata la coscienza. Chi ricorda più se la
rapina e la vendetta narrino del temporale che il Sole vince o del
fuoco malefico e tenebroso cui la luce è nemica ? Ora, il fenomeno
naturale è lontano : la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leggenda,
non dentro ; la colorano, non la costituiscono. Ora, essa è duplice nella sua
parvenza. Narrata con un certo abbandono della fantasia, con una
cura precisa di non omettere le più vivide tinte, è una fiaba, da
ripetersi perché gradita, da ripetersi con arte per non guastarla,
da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande : il tempo e la bellezza.
E i poeti la toccheranno con il loro tocco più lieve e più esperto. Tramandata
in vece con un ritegno sobrio che la contenga dentro i margini dell'umano
e dell'eroico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il sogno, che la
fiaba muore e non è storia ancora; riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma
non elimina ogni dubbio e non genera certezza di conoscenza. E gli
storici dotati di senso d'arte la riprodurranno guardinghi e pur non
spiacenti. Una fiaba, dunque, presso e il poeta e lo storico. Ma
una, cui quello è pago di ammirare, questo è desideroso di credere. Noi
non possediamo però né i versi degli artisti più antichi né le prose dei
più antichi annalisti che in Roma accolsero il mito : solo li conosciamo
riprodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di Augusto. ni. I
Poeti. Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso il
fulgore della fiaba, già la tecnica aveva polito r esametro e, temprandolo per
la forza» l'aveva reso agile per la grazia delle movenze. La parola
regnava : scelta, limata, contesta, vigeva nel tono quanto nel significato;
aveva un senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Esprimeva, e
aggiungeva. E il mito visse nella parola, che gli divenne fine più che mezzo.
Valse in quella come la congiuntura nella vita: per gli effetti che
produceva, scelto a pretesto o a tema di un carme; per i distici che
l'infrenavano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli aggettivi che
esigeva e i sostantivi ove si distillava. Ond' è che raro il poeta innovò,
sempre quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nell'abigeato di
caco l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle massa
linguistica allo schema rigido e inviolabile : mentre la licenza facilitava
l'opera, il merito splendeva nel difficile. Il gesto della mano che
elegge e soppesa la parola, simboleggia, riguardo a Caco, l'opera e di
Properzio e di Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto non si
attennero là dove altro procedere esigesse il general tema dell'opera
loro, il quarto libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo
dei Fasti. Properzio occupa rispetto agli altri due un posto singolare.
La sua dipendenza da Vergilio, difficile cronologicamente a dimostrarsi,
è anche artisticamente improbabile, cosi che gli sembra più tosto
parallelo. In tal caso, sia che egli attingesse a un modello diverso, sia che
con Ennio non contaminasse altre fonti, sia che infine si ritenesse
lecita una libertà maggiore, il suo racconto non comprende Evandro, il
terzo stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco ed Ercole :
per noi è quindi, qual che ne sia la causa, un esempio della forma che
avrebbe potuto assumere la fiaba senza il mito etimologico sul "
cattivo „ ladro. Pel resto, il racconto è in tutto personale.
I vero tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in qualità di Dio
venerato nel foro boario con rito greco e senso romano. La sua sola
figura campeggia in due quadri, che uniscono egli e il momento del
tempo e la postura della scena. Nel primo combatte Caco in una lotta
brevemente descritta, la quale sembra importare al poeta più nel suo
insieme cbe nei particolari. Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel
mistico culto della Bona Dea, l'acqua che gli negano e ne trae vendetta. Sono
dunque le due sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi a sé
sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con un moto di violenza,
concretate entrambe in prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino,
e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il Velabro, si fanno
riscontro; le tre teste di Caco, e le chiome bianche d'una sacerdotessa.
E l'antichissimo mito della natura si dispone allo stesso piano e nella
medesima luce del recente mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza
di quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgendone una fantasiosa
scena cui rende grata e fresca il murmure d'un fonte. Quando l'Anfitriomade
da le tue stalle, o Eritia, aveva stornato i giovenchi, vincitor venne
agli alti pecorosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli stesso
posò, là dove il Velàbro con la sua propria corrente stagnava, dove su le
urbane acque apriva le vele il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco
salvi non furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno Caco
si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni emetteva per tre bocche
divisi. Egh, perchè non fos-Properzio Elegie IV 9; edizione Phillimore^
(Oxford l'abigeato di caco sere indizi! certi di palese rapina, per
la coda all'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva al Dio: i
giovenchi muggirono il ladro, del ladro le tane spietate l'ira abbatté.
Dalla Menalia clava le tre tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si
parla : " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema
della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte mia preda, o
buoi, ed i campi Boarii con lungo muggito sacrate : il pascolo vostro sarà
nobile Foro di Eoma „. Avea detto, e per la sete ond'è secco
il palato il volto è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida
la terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In ombrosa cerchia
gli alberi un bosco avevan formato, clausura di feminea dea, con venerandi
fonti e sacelli, a maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte
soglie purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso fuoco
splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde un pioppo e cantanti
uccelli densa ombra copriva. Quivi egli corre, con ammucchiata la
polvere su l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta dinanzi
all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del bosco giocate,
aprite, vi prego, allo stanco eroe ospitale il santuario ! Erro una fonte
cercando, e qui intorno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto
nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che il mondo con le
spalle sostenne ? Quegli son io : Alcide la sostenuta terra mi chiama. Chi
dell'Erculea clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense
fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo si diradar le
tenebre di Stige? E s'anche celebraste Omesso il v. [42J.
sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi avrebbe negate la
stessa matrigna. Ma se qualcuno il mio volto e del leone il vello e le
chiome riarse dal libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia,
compii offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida conocchia ; ed
anche a me cinse una fascia morbida l'irsuto petto e fui con le dure mani
garbata fanciulla,. Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma
sacerdotessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche : * Non
riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco; ritirati or su,
abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per temibile legge interdetta ai
maschi, si venera un'ara che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran
danno scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone deposta, le forti
membra lavava! Altre fonti gli Dei ti donino : quest'acqua scorre per le
fanciulle solo, appartata dentro limitare secreto „. Cosi la
vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi battenti : né l'uscio
chiuso all'adirata sete resiste. Ma poi che col ruscello bevuto aveva
placato l'ardore, un triste giuro con le a pena rasciutte labbra
pronuncia. " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati accoglie
: questa terra a me stanco s'apre con pena. La massima ara „ egli dice
" che dai ritrovati greggi è consacrata, l'ara da queste mani
Massima fatta, questa nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta
non resti la sete d'Ercole escluso „. Padre santo salve! di
cui si compiace oramai l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere
benigno al libro mio. Cosi il breve carme assempra il
magistero delle pause musicali, cui si affida più espressione tal
volta che al contesto delle note : giacché l'abigeato di caco
quando il mito vive di forza verbale, la pausa lo costituisce non
meno della parola. Dal complesso della leggenda volgata e nota, che rinchiude
abbozzato nella mente di tutti il lavoro dell'arte, il poeta crea con
pochi tocchi i rilievi e le luci, le ombre e gli sfondi lascia alla memoria
comune ; e nel silenzio di lui vibra il ricordo di tutti. Noi non sappiamo oggi
a pieno ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in parte
l'abbiamo supposto, in parte ci verrà mostrato da Vergilio ed Ovidio.
Intendiamo per tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il carattere
profondo: è eulta. Il mito, nella sua squisitezza formale, è dottrina; e
il compiacimento del poeta è di una garbata esumazione dinanzi a lettori
cui la raffinatezza ha svigorito la forza delle sensazioni. Non il senso
religiosa non l'idea nazionale anima quei distici, se bene dell'uno
e dell'altra vi sieno echi. Li regola un senso fine dello stile e un
gusto aristocratico dell'accenno sapiente, della misurata allusione
mitologica. Nei limiti dell'arte, che non può esser mai volgare,
assai meno aristocratica, ma in compenso atta a una più vasta cerchia di
lettori, è la narrazione di Vergilio: perché l'informano quei caldi
sensi trascendenti, i quali sono Tamor patrio e la santità della fede.
Dentro la cornice del poema, che esalta la nazione nei suoi principi!
primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla leggenda, come a quella onde
scaturisce l'orgoglio del nome romano e si giustifica la gloriosa istoria dei
tempi più vicini; accanto alla I POETI figura del pio eroe Enea, che opera
per volere di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato degl'incombenti
Numi : il mito, cbe narra Tinstituzione del culto erculeo, e celebra età
anteriori alla venuta dei Trojani nel Lazio, non può non essere
circonfuso d'una luce due volte sacra, e ascoltato in atteggiamento
inchinevole. Il libro ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi
estremi: comincia con le lotte cruente di Enea contro Turno; finisce con
l'inno alle mirabili vittorie romane e alla battaglia d'Azio, significate
da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle prime alle estreme gesta, balza
il pensiero senza intervallo in un constante sentimento ; e, nella
compagine salda degli esametri, appajono le divinità di tre Dei, Venere
Ercole e Vulcano. La leggenda si affonda nella realtà; la religione
le penetra entrambe ; e il canto muove dalle radici profonde dei profondi
sentimenti del popolo che diede la fantasia alle fiabe, i soldati
forti alle imprese, al culto i divoti. Per ciò, e il mito di
Caco vien esposto durante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbondante di
particolari. Qui è detto quel che Properzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama,
ma si sostituisce. E la primordiale figura della saga, Caco, non è
svolta meno della seconda, Ercole, né della terza, Evandro: però che
rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa e la divinità bella e un
antichissimo assetto politico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono
edizione Sabbadini' (Torino). l'abigeato di caco cosi
collegate che Evandro, il quale dà il segno dell'epoca, è il narratore, e
nel racconto di lui le due forze divine si combattono. Il combatti-
mento assume, difatti, la parte più notevole perché il canto intiero
suona d'armi e perché nella lotta si rivelano a pieno tutti gli
aspetti dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del tema generale,
il mito adombra quei particolari di astuzia che supponemmo dedotti dalla
Grecia, e lumeggia bene ogni forma di violenza; riconducendoci per
obliqua via alla sua probabile foggia originaria: breve in ispecie
l'accenno allo spergiuro del ladro, che più si accosta al furbo
diniego di Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar
dell'importanza su questo duello ne accresce le conseguenze e, insieme
col pretenzioso sfondo storico, le spinge al di là dell'origine di un
culto. Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la pareggia
alla storia, in Caco con la belva muore la vita selvaggia, e dalla sua
fine principia non sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pinarii,
ma la quiete per gli abitanti del Palatino. E il suo cadavere trascinato
per i piedi empie d'un'avida curiosità le menti e non basta ad
appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto; e i fuochi spenti su
le fauci somigliano un simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con
guerrieri. E sull’Aventino, ove ENEA contempla ancora le tracce del
passato, i contemporanei d'OTTAVIANO (si veda) scorgono marmoree
dimore. Parla Evandro ad ENEA: Guarda da prima questo masso tra le
rupi sospeso: e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la dimora
nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui fu la spelonca,
remota in suo immenso recesso, che il semiumano Caco
di feroce aspetto abitava non tócca dai raggi del sole ; e sempre di
strage recente era calda la terra ed affissi su la soglia violenta pendevano
volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vulcano era padre, del quale atri
fuochi dalla bocca recendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti
il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio. Infatti
vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone ucciso e deUe spoglie
superbo, e i tori ingenti qui vittorioso guidava, e la valle ed il fiume
occupavano i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco a ciò che
nullo delitto ed inganno inosato o intentato restasse dal pascolo quattro di
mirabile corpo tori distorna e altr'e tante di magnifiche forme
giovenche. Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li
trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii, e li occulta
nell'opaca caverna. Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco. Fra
tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto moveva l'Anfitrionìade, e
procacciava il partire, nella partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti
riempion la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci una
delle giovenche rispose per l'enorme antro mugghiando, onde deluse le speranze
di Caco la prigioniera. Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra
bile riarse: con la mano afferra l'armi e la quercia gravata di nocchi, e
a corsa raggiunge l'erta dell'aereo monte. Per la prima volta videro i
nostri occhi Caco pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce
dell'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le l'abigeato di
caco ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno,
che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea fatto cadere le
catene spezzando, e di quello munito le porte rinchiuse : ed ecco furente
nel cuore incalza il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua e là movendo,
e digrignando i denti. Tre volte, d'ira fremente, tutto perlustra il
monte Aventino : tre volte le pietrose soglie in vano tenta : tre volte,
stanco, nella valle riposa. Vera, tra i diruti intorno macigni,
acuminata una roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima
allo sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli. Questa
che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul fiume, verso destra
all'incontro spingendo scrollava; da le profonde radici la strappa e la
svelle ; indi d'un sùbito la scaglia con impeto onde risuona l'etra grandissimo,
sussultano le rive, e si ritira spaventato il fiume. E lo speco, e di
Caco la reggia immane appar scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel
profondo, non diversa che se nel profondo spalancandosi per forza
secreta la terra aprisse le inferne sedi e dischiudesse gl'invisi agli Dei
pallidi regni, e dall'alto l'immenso bàratro si scorgesse, e pel
penetrato lucore tremassero i Mani. Lui, colto improvviso da la
inattesa luce e nella cava rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di
sopra Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e con
rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora (non sopravanza
difatti al pericolo scampo nessuno) da le fauci, mirabile a dirsi, moltissimo
fumo vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi
togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte aduna, tenebre miste
con fuoco. Non sopporta Alcide 'nel cuore, e con precipite salto si
scaglia nel fuoco, là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel
grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre afferra in stretto
nodo Caco, che vani incendii rece, compresso schiacciato gli esorbitan
occhi e la gola si ingorga di sangue. Si spalanca tosto, abbattute
le porte, la nera casa: i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono
al cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi. Non possono
placarsi i cuori mirando gli occhi tremendi, il volto, ed il petto della mezza
fiera, villoso di séte, e su le fauci i fuochi spenti. Da
allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricordarono il giorno ; e primo
Potizio institutore ne fu con la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio
erculeo. Quest'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre verrà
detta da noi, e massima sempre sarà. AVIRGILIO (si veda)
sembrerebbe di poter fare seguire senz'altro OVIDIO (si veda); che lo
imita su questo punto assai strettamente e ne finge anche il senso
religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né l'altro in quei Fasti
ove si rassegnano le feste sacre e nazionali di Roma. In realtà sotto
una superficiale simiglianza si cela ben profonda differenza. La
vita artistica del mito, pregnante in Properzio, rigogliosa in Vergilio,
vi agonizza. Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è esaurita,
che non osa violare il modello i^er rinnovarne le linee e si sforza
imj)otente di mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto piccolo
d'un nuovo vocabolo coniato, allor che -- edizione Petee (Lipsia). l'abigeato
di caco claviger è detto con falsa audacia Ercole; si sminuisce nel
gioco artificioso d'una frase, quando è eletta a costituire un verso
cosi: Dira viro facies, vires prò corpore, corpus Grande;
sorride bolsa nel bisticcio etimologico Cacus non leve malum
Non è più la finezza properziana e la ricca concisione: è il lezio ricercato a
far un poco attonito chi legga. Ciò spiega poi anche la freddezza riposta
di tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Carmentalia dell'll
gennaio, e il legame che alla cerimonia sacra lo congiunge è
rappresentato dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco. Carmenta difatti,
e perché madre di Evandro, e perché profetessa del culto erculeo,
giustifica tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma il legame
è sottile. Carmenta, numen pì-aesens della poesia, ne è lontana dal
verso; e la sua lontananza nell'essenza e nella forma (e
nell'essenza persiste forse anche quando cessa nella forma) sottrae parte
della forza reKgiosa al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se raccontato
a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel 12 agosto. E parte
similmente della sua forza patria la fiaba smarrisce (inconscio il poeta)
per il colore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi non è più, come
in Vergilio, il re che, ormai latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto
di celebrar un sacro rito romano : è lo straniero, l'Arcade, giunto da poco,
nuovo alla terra, foruscito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad
apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone materno. Indi, senza
dubbio, la luce, per coerenza al tema, si addensa su la figura di
Carmenta; ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato, stronca il
vigore nazionale del mito. Non solo : che ^ stabant nova tecta „ quando
Ercole giunse, straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia
proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco terrore ed infamia della
selva aventina. Cosi una inezia apparente ha tramutato la situazione. Ma
l'inezia non sarebbe sfuggita all'artista se il suo sentimento patrio fosse
stato, nei riguardi di questo mito, reale ed efficace. In vece egli
imitò Vergilio nella superfìcie; e all'artifizio di tale imitazione sospese il
suo racconto. Pur nella facile vena del verso, nella sonorità
scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'eleva ad arte. Ecco i
bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe che del lungo orbe ha
misurato il percorso. Mentre lui ospita la casa d'Evandro, incustoditi
vagano pei campi feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno
il Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori. Del tacito
furto non vede, cercando, vestigia; le bestie airindietro aveva tratte
Caco nell'antro ; Caco, terrore ed infamia della selva aventina, danno
non lieve a l'abigeato di caco stranieri e a vicini. Spietato
è del forte l'aspetto, le forze rispondono al corpo, il corpo ha grande.
Del mostro, Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi
ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le belve. Teste
all'ingresso e braccia pendono infisse: la terra squallida d'umane ossa
biancheggia. Con la mal serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne
andavi : diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Accolgo il
richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor per la selva all'empio
antro perviene. L'adito quegli con un masso strappato dal monte aveva
munito, che cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie.
Delle spalle questi si serve anche il cielo v'aveva posato e il peso
immane smuove crollando. L'abbatte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da
la pesante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti alle mani, Caco
combatte, e feroce con travi e con sassi sostien la difesa. Ma poscia che
non n'ha vantaggio, ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vomita
da la sonora bocca. Le quali sempre che esala, crederesti che respiri
Tifeo e che dal fuoco dell'Etna ratto baleno si scagli. Alcide, incalza,
e la vibrata trinocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro volte
percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita il fumo, e batte morendo
col vasto petto la terra. Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il
vincitore, e chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva
quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte dell'Urbe ha il nome
dal bue. Né tace la madre di Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la
terra abbia a bastanza goduto l'Ercole suo. Il gesto più
significante clie insieme compiano Livio e Dionisio (i due storici
dell'età di Augusto, i quali riferirono la leggenda di Caco) è la dichiarazione
con cui rifiutano di accettare responsabilità per quanto raccontano. Cosi si
suol tramandare dice Livio; e richiama tacitamente le parole del
suo prologo: né di affermare né di negare ho in animo. E Dionisio: "
vi sono intorno al nume d'Eracle racconti più favolosi, e
altri più credibili. Il più favoloso è questo. E vero che, nel gesto
comune, Livio crede più di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno
accettato l'opinione che il mito abbia un contenuto
storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette prender
radice col primo insediarsi laleggenda sull'Aventino) ed entrambi si
pongono, e risolvono male, il problema della sua attendibilità.
Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa del problema,
giunsero ad accrescerla. Se avessero riferito il racconto com'è in Vergilio,
né pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo segnala,
avrebbe esitato a respingerlo tra le favole. In vece essi lo trovano attenuato
presso i più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella veste di
fiaba si, ma umana, che vedemmo convenirgli alla fine delia sua evoluzione.
Caco vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E (Ij Su
Livio e Dionisio l'abigeato di caco un uomo malvagio (xaxóg), un
violento, un ladro : uomo. La possibilità terrena informa la fiaba e
non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ; onde le due forze divine
avverse si spogliano del soprannaturale e il valore del racconto
pesa assai più sul furto che su la vendetta. In questa difatti
troppo palese appare la natura mostruosa di Caco, troppo il padre mitico
di lui si rivela nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi in
Livio come in Dionisio, notizia della vittoria d'Ercole. All'offesa serve
la clava, arma d'eroe. Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini
; ma il malvagio lo invoca in vano. Resta, tuttavia, la
fiaba. Il colore la tradisce, i buoi stupendi di Gerione la palesano.
Fuor dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incunaboli di Roma, il
fiume Tevere cosparso le ripe di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente
nella queta ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge
l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ; poi una breve folla
d'uomini vigorosi si accoglie intorno a un'ara, consuma il sacrificio
fumante, il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Carmenta. E
l'aura favolosa si forma, oltre il preciso linguaggio prosastico, nel pensiero
di chi legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia si tinge
d'una gravità un po' paludata, d'una serietà riflessiva, le quali non la
soffocano affatto, si al contrario l'abbellano di un candore
ingenuo. Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel senso
secreto -- edizione Weissknbohn'^ (Lipsia). GLI STORICI Che Ercole in quei
luoghi conducesse dopo l'uccisione di Gerione magnifici buoi e che presso il
fiume Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi a sé la
mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco egli stesso del viaggio e per
ristorar con la quiete e con un buon pascolo i buoi, si suol tramandare.
Ivi, come per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'oppresse, un
pastore di quei dintorni, a nome Caco e di violenta forza, allettato
dalla bellezza dei buoi e volendo stornar quella preda, perché, se avesse
spinto all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte
medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca, trasse per le
code all'indietro verso la spelonca i bovi, quelli insigni per bellezza.
Ercole in sul far dell'aurora come, desto dal sonno, esaminò con gli
occhi il gregge e s'accorse che una parte ne mancava dal numero, si
diresse alla vicina spelonca, se per caso colà conducesser le impronte. Quando
queste vide tutte rivolte al di fuori né altrove dirette, confuso e mal
certo prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo. Ma poi,
avendo alcune delle giovenche sospinte muggito, come accade, per desiderio
delle restanti, il risponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse
Ercole. Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener con la
forza, ma colpito dalla clava in vano invocando l'ajuto dei pastori
cadde. Evandro allora reggeva quei luoghi. Quest'Evandro, turbato
dall'accorrer dei pastori trepidanti pel forestiero reo di manifesta ucsione,
dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa, scorgendo l'aspetto e i
modi dell'eroe alquanto maggiori e più augusti degli umani, gli chiede chi
mai Omesso in parte il l'abigeato di caco si sia. Quando il
nome e la paternità e la patria ne apprese: nato da Giove, Ercole, disse
salve! Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti predisse a me la
madre, veritiera interprete degli Dei, e che a te qui un'ara sarebbe
stata dedicata, la quale un giorno il popolo più opulento della terra
chiamerà massima e venererà secondo il tuo rito. Dando la destra
Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adempiere i fati, instituita e
dedicata a lui l'ara. Ivi allora per la prima volta con una stupenda
giovenca della mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al
ministero e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le
famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato. Ora accadde che
i Potizii fosser pronti per tempo e ad essi venissero imbandite le
interiora, i Pinarii giungessero per i restanti cibi ma già consumate le
interiora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei Pinarii visse,
che non mangiassero le interiora del sacrifizio. I Potizii istruiti da Evandro
furon i capi di quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito
a pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta la
schiatta dei Potizii peri. Tale, nell'insieme, è Dionisio: se se
ne toglie che Caco è per lui non un pastor ma un predone dei luoglii;
che Carmenta è mutata in Temide; che il ladro, interrogato, nega la
sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza un altare a Giove
Inventore; e pochi altri particolari minori su la cui natura e sul cui
valore non è qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra vagliati. Se non
che in Dionisio è, di più, una stanchezza che Livio ignora. Si dilunga
per due capitoli sopra un racconto cui non crede affatto; scrive
ciascun particolare, ma reputa di vedervi adombrato un simbolo che
rivelerà poi, con sicumera da erudito certo di sé e del proprio sapere
(povera certezza in vero!). Eppure non è nervoso; non sorvola né
condensa: insiste e stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si
afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare se non alla fine :
Intorno ad Ercole questo è il racconto favoloso che si tramanda.
Alla fiaba manca l'amore. I Razionalisti. Quando alla fiaba
manca l'amore, essa non può che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra
le stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante
dell'erudizione romana trovarono il fatto loro» come i poeti in Ennio,
gli storici negli antichi annalisti, negli annalisti dell'età dei
Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo. Su la forma precisa del racconto che
si trovava presso l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non
possiamo dubitare su la forma generale. Entrambi, abbandonandosi alla più
rigorosa critica razionalista, concordano nel ridurre il mito a un
gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si l'abigeato di caco
direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto alla redazione
poetica della favola siccome apparve poi in Vergilio ed era apparsa prima
in Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla redazione
storica che con riserve riprodurranno Livio e Dionisio.
Cassio Emina difatti narrava un preteso " racconto veritiero „ ove
Caco appariva in qualità di servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro,
il buono Evandro signore del cattivo servo. Cotesta concezione
fondamentale ci ritorna in due testimonianze, ma un po' diversamente:
presso il commentator di Vergilio Servio e il suo interpolatore ; e
presso uno scritto L'origine del popolo romano^ opera probabile d'un
erudito del IV secolo che compilava con grami intenti storici.
Quest'ultimo solo cita Cassio per sua fonte; il primo sembra contaminarlo
con altre informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio adunque
(e chi l'interpola) Caco fu un uomo, soggetto al re degli Arcadi, che per
l'abitudine malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto
vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome gli venne dal greco xanóg col
ritiro dell'accento^ come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté
ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il racconto di Vergilio resta, ma,
ridotto Ercole a uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è travisato
nella sua essenza. A tale effetto furono bastevoli tre interventi del
razionalismo: l'uno a spiegar e ridurre la natura mostruosa del
ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a giustificarne i
rapporti con Evandro. Più in là si spinge in vece L'origine nell'
attinger forse più compiutamente, certo in modo più esclusivo, a Cassio
Emina. Non solo Ercole è un uomo forte (il suo vero nome è Recarano), e
Caco uno schiavo ribelle; ma il furto è punito per autorità di Evandro
senza duello né lotta. I motivi razionali di questa notevole soppressione
son due : lo scrittore non aveva spiegato allegoricamente il fuoco di
Caco e doveva quindi sorvolare su la circostanza in cui più il fuoco ha
parte ; la qual necessità poi gli servi anche per metter in rilievo la
buona figura di Evandro e la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si
allontana dalla fiaba poetica molto più che non appaja Servio, se bene
come questo la tenga presente. Come però questa di Cassio Emina
doveva essere, rispetto ad Ennio, una considerevole riduzione del mito
fantastico nei termini della realtà possibile, ma, rispetto al racconto
degli annalisti più antichi, non era se non se un lieve i tocco;
cosi su questo racconto altri critici inrtervennero assai più profondamente.
Ridurre il mostro a servo: ecco una trovata buona. Ma m.utare
l'uomo singolo in condottiero di eserciti: ecco uno spunto ottimo per
inquadrare meglio nella storia dei popoli anche la breve favola.
Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo; e da un contemporaneo di lui,
per qual si voglia via, la derivò a sé Dionisio per il suo più credibile
racconto; edizione Jacoby (Lipsia). l'abigeato di caco Quale
capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e comandante d'un numeroso
esercito, Eracle percorse tutta la terra compresa dall'Oceano;
abbattendo, ove c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o
le repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di uomini
dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di stranieri; instituendo in
vece legittimi regni e savie repubbliche e costumanze socievoli e
umanitarie; collegando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli
marittimi con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e
diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando fiumi che
inondavano i piani, aprendo strade nei monti inaccessibili; e l'altre
opere compiendo, per modo che l'intiera terra ed il mare divenisse comune
pel vantaggio di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né conducendo
una mandra di buoi (né di fatti la regione è sulla via di chi si rechi ad
Argo dall'Iberia, né per aver traversato la contrada avi'ebbe meritato
tanto onore); ma guidando numeroso esercito per sottomettere e
dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato l'Iberia: e a colà
permanere più a lungo fu costretto e dall'assenza della flotta phe
avvenne pel sopraggiunger dell'inverno e dal non accettare tutti i popoli
che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui. Quindi è narrata la
sottomissione armata dei LIGURI, non che d'altri ; per
continuare: Fra costoro che furono superati in battaglia, si dice
che anche il favoleggiato Caco dei Romani, un re affatto barbaro e
signore di sudditi selvaggi avesse con Eracle contesa, perché occupando
luoghi forti era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe
appreso Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con apparecchio da
ladrone attaccò in sùbita mossa l'esercito dormiente, e quanto del bottino
rinvenne incustodito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio
dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu ucciso egli stesso
nelle fortificazioni. Abbattuti i presidi! di lui, i territorii all'intorno
presero per sé i seguaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro. Quest'ultima
asserzione rivela quanta libertà il razionalista si arrogasse; fino a far
giunger nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro signore degli Arcadi
che la volgata afferma insediato sul Palatino al momento del duello.
Libertà intesa al servizio del vero " secondo i filosofi e gli
storici come s'esprime Servio, ossia di quella critica, che conduce a
creare, accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e
grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awentm'e cavalleresche, a liberare
gli oppressi, render civili i barbari, pacificar i nemici. Né del
resto sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il " vero „,
né cosi miserandi apparirebber i suoi risultati; se non gl'inquinasse una
mal celata boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva che è
solamente sterile miseria. Su queste rovine pochi poveri racconti
si stremano ancora. Evandro richiama con sé la figura di Fauno di cui era
divenuto un equivalente sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno
attira il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca
suggerisce la storiella che la dea abbia otte- l'abigeato di caco
nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco, suo fratello.
Poi, è il silenzio. Singolare sorte della saga, in verità.
Ricca di densa materia; vissuta traverso il succedersi delle
geniture in una propaggine del vigoroso ceppo ario; maturatasi lentamente
tra il Palatino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II secolo a. C. non pur la
sua forma poetica e la sua foggia istorica, si anclie soffri su quella
e su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per modo, che
sopra il quadruplice schema l'età più possente del pensiero romano,
l'augustea, non seppe se non disporre adorne trame di ben vagliate
parole, ma di poco varii disegni. Onde il mito ebbe preclusa nel sèguito
ogni ulteriore vita : però che dovesse morire intero con l'estinguersi la
potenza alla sua bellezza verbale. Cirene mitica <i). Il
sostrato storico. Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più eletti
stami poeti, tra quanti furono nell'antichità, grandissimi, il mito greco di
Cirene e di Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella storia
reale una sua trama di fatti concreti e in parte sicuri, da cui deriva
direttamente o indirettamente tutte le proprie successive forme e in cui
è da ricercare il motivo appunto di questa evolventesi trasformazione. Se
il Peloponneso, con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tènaro; se
Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set- Per tutto queeto capitolo vedi
Vlndagine in libro II cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i
rispettivi paragrafi. CIRENE MITICA tentrione di Creta; se la Libia,
ferace di gregge e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo
geografico: certo fra questi perni essenziali si svolgono gli
avvenimenti, di cui gli uni trovano nella fiaba un riflesso e una deformazione
immediata, gli altri solo in modo mediato danno impulso a talune vicende,
determinano qualche figura, causano pochi episodi! Grià in tempo
antichissimo, intorno al secolo decimo a. C, sciami di coloni s'eran
condotti fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a quest 'isola
un' incancellabile fìsonomia dorica. Più tardi sol tanto, presso che nel
secolo VI, sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi, a
suggellare della sua particolar impronta il carattere e la storia di
quella breve terra. Ma fin dallo scorcio dell'età precedente una
mano di cittadini Terei abbandonava con ardire la spiaggia patria
per avventurarsi nel mare, oltre Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa
nei particolari procedesse, quali che fossero le fatiche sostenute e gli
ostacoli superati, i coloni non posero in vano il piede su la terra
straniera : la quale divenne per essi fiorente di fiore civile,
prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi si ebbe i suoi Re. Largo
era dunque il volo concesso alla ricordevole fantasia dei discendenti,
perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola Cfr. Beloch Griechische
Geschichte; BosoLT Griechische Geschichte : Malten Kyrene C Philologische
Untersuchungen. a l'isola, dall'isola al continente. E la
lunga vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito; ma quale è la
realtà in cristallo iridato. Però che la memoria fosse alterata da
quell'ampio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il quale è pregio
d'ogni stirpe greca, in diversa misui^a; e giungendo alla s^Diaggia
insueta recassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale possesso di Dei di
Ninfe di Dee : Numi abitatori del cielo della terra del mare. E
allargato, di li a non molto, già nel principio del secolo VI, fu
ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni. Regnando difatti Batto II
della stirpe che prima aveva ivi instaurato il soglio regale, un
notevole flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, pervadendo e
mischiando l' antica massa. Giungevano dal Peloponneso, e tra essi gli
Arcadi distinti per la lor propria dissimiglianza. Griungevano dall'isole
egee, e tra essi i Cretesi, precipui per la loro importante sede.
Rinnovarono la stirpe corrompendone l'uniformità; apx)ortarono un
soffio diverso e molteplice ad alimentare di parole mistiche e di riti i
sacri fuochi accesi dai venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe
locali di efficacia non piccola ; grandissima. Non soltanto perché
apportatori di nuovi elementi al racconto; ma anche perché, numerosi,
costituirono a sé un centro secondario di creazione e diffusione mitica,
in antitesi al principale, cui la casa regnante tribuiva più solenne
sanzione e la priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era,
Ebodoto da questi due distinti gruppi del popolo greco in Libia formato,
quasi per intiero, il sostrato mitico delle leggende cirenaiche.
Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto, sostrato mitico, né
quella, che fu tratteggiata, realtà storica, sarebbero bastevoli a
chiarire, soli, le mature forme della favola di Cirene e Apollo;
ove sfuggisse il centro vero, il proprio crogiuolo, nel quale divenne
creazione viva e vitale, possente d'un suo secreto alito di pura
bellezza, organata in una palese e pur varia armonia, la massa confusa e
diffusa che si sprecava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine. Quel
centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo santuario di Apollo in Delfi, già noto
all'epopea vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica si
tramutò in mito greco: era d'una stirpe, divenne d'un popolo ; era d'una
regione, se ne impossessò l'arte, universale. E l'arte fu in fine
la plasmatrice maggiore di quel mondo fantastico, cui diede
l'espressione con voci perenni. L'epica esiodea, l'ode pitica di
Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di Erodoto, il carme
didascalico di Vergilio intonarono per quell'armonia le note. n. L'
" Bea ., di Cirene e d'Aristeo. D drappello d'uomini terei che
s'insediava primo sulla proda del mare libico recava con sé,
principalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con speciale e insigne culto, uno
il cui doppio nome serbava ricordo di antica vicenda: Apollo
Carneo. Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, venerato di
profondo e rispetto e amore fra i pol}oli dori. Sol più tardi il nume di Febo
Apolline era sorvenuto, in uno slancio di prepotente predominio, a
fondere con sé, come quella che gii era per qualche carattere e
attribuzione simigliante ed afiine, la vetusta divinità dorica. E dalla
mischianza, per nulla inconsueta, eran nati il nome nuovo di termine
duplice, e la figura nuova in cui le linee primordiali sopravvivevano
accanto alle ultimamente tracciate ; senza vero dissidio, a causa della
sostanziale contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi accostandosi al
Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo non fu, nella terra libica,
pretermesso il culto. Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni trovarono
nella patria nuova un'abbondante fontana da cui l'acqua scorreva copiosa
a fecondare il suolo riarso, a quel Nume appunto questa sorgente
ricchezza delle glebe fu piamente dedicata. A torno il " fonte di Apollo
„, nel luogo ove conosciamo la città di Cirene, posò una schiera di
cittadini terei. Fra tanto, rapido era l'accostarsi de' coloni alla
stirpe dei Libi la cui compattezza venivan variegando in un disegno
ellenico: e come alla stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua.
Appresero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal Carneo aveva pure,
nella parlata indigena, un suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde,
presso a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase. E poiché
alla fantasia per abitudine secolare si popolavan di Driadi gli alberi e
di Ninfe le sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine
fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira suonò l'espressione; e
grecamente " Cirene „ (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il
simbolo, e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo indigeno e il
sopraggiunto venivan facendo ; e tanto più doveva apparir cara ai Dori
quanto più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si succedevano.
Era destinata a compaginarsi per impulso crescente con essi ; cosi che
nessuno stupisce di vederla scelta a riprodurre, direi eternare, in sé l'opera
che quelli spesero per adattare il paese e renderlo quetamente
abitabile. Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice (nÓTvia
d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare abbattere un leone: sola, E
nell'atto fu in breve ferma per sempre, irrigidendolo come in uno
schema, fissandolo in un gesto tipico. Rimase. La Signora
delle belve e la Ninfa di Gira era, e per l'uno e per l'altro de' suoi
attributi, insensibilmente e inevitabilmente condotta presso Apollo
Carneo : protettore della fonte ov'ella abitava, e antico Dio del popolo
che simboleggiava ormai ella. Divennero amanti divini ; amanti li narrò
il sogno nuovo. E cosi il nodo l' " EEA „ primo del tessuto mitico
s'era allacciato. In Libia si compievano le nozze ; e Libia,
l'eponima del paese, la divinità che dava al nome della regione una
grazia feminea, fu difatti la pronuba benigna e ospitale, cortese di favori
agli sposi. Il pensiero era in un felice momento creativo
: in uno di quei momenti in cui il volo non si tronca; e non si
perde, e né meno si smarrisce, la spinta prima. In quest'atmosfera
innovatrice, ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo Stato
nascente un diverso patrimonio anche di leggende, fu sùbito còlta
l'analogia fra Cirene, che reprimendo le belve e prodigando l'acque
procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza; Apollo Carneo, la cui
natura solare era, in guisa eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un
giovinetto iddio, il quale in Libia era giunto non sappiamo ben d'onde.
Egli era il caratteristico protettore dei campi ove crescon le messi,
dei pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli aratori e dei
pastori. Tale si venerava in assai regioni greche, e fu presto diffuso
sopra un'amplissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino in
Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro. Nell'isole del mar Egeo
aveva culto ; culto in Arcadia. che dunque dall'isole si spingesse in
Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti all'appello di Batto II ;
egli fu là. E, sia per la natura sua propria assimilantesi, sia per la
legge, onde la fantasia greca è governata, di non lasciar nume
alcuno isolato ; come altrove s'era commesso con Dioniso dalle feraci viti o
con Ninfe indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa
si congiunse, e presto, con la coppia amante; avvicinandosi forse prima a
Febo, a quella guisa che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma
"Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad entrambi tuttavia divenendo figlio
dopo aver accostato l'uno, necessariamente. Portava egli con sé tutt'una
serie di attributi e di nessi, dei quali alcuni gli eran più intimi;
altri più proprii eran di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto
era con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, custode di gregge; con Nò
mio, pastore; x^ersino con Zeus padre. Né il dio delle terre
coltivate poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea. la madre
TeiTa; e alle Ore, le fanciulle variopinte il cui corso regola la vicenda dei
raccolti, e allieta o attrista i contadini a volta a volta :
attinenze indubbie, e antiche certo, ma costituitesi s'ignora in qual luogo
prima. Spiccatamente però egli era tessalico : in Tessaglia è forse
da vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni modo gli venne la
sua più speciale sembianza: dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è
probabile che ivi fosse da tempo unito con il " giustissimo tra i Centauri,,,
Chirone: quegli medesimo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella salutare
arte medica Pèleo, e di questo il figlio Achille, e Asclepio il sanatore
eccellente di ferite. Accanto dunque alla coppia d'Apollo e Cirene, la
quale recava mischiati i suoi caratteri delfici dorici e libici, il dio
fanciullo era a preferenza tessalico. niade Di questa situazione profittò
accortamente chi ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso
letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda in naturai guisa si
riportava a cagione della figura di Febo; sotto il supremo patronato
del quale la favola ricevette un più ampio svolgimento. Ma per ben
comprendere di esso l'origine e i modi, è necessario badare a quella ch'è
dei rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se ben forse
più riposta, caratteristica. Tendono tutti bensì, e in primissima linea,
a rilevar l'importanza del nume Apolline venerato nel locale santuario;
ma e tendono a intrecciare, sotto di lui, le fila di più e diversi miti,
ancor che sieno (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lontane
regioni. Un esempio: per più punti simili, Asclepio di Tessaglia e Apollo
di Delfi, dèi sanatori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel racconto,
e spontaneamente Apollo aveva da soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se
ne trae lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e di Tricca il
dio di Pito. Ardimento anche maggiore permetteva la favola africana: il Carneo
di Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'orditura d'un'ampia tela
fra due paesi lontani e ben separati; la quale filo maestro contenesse
Febo Latoide, identificato già col primo e padre già del secondo; e
come su punti estremi si fissasse su la città di Cirene e su le vette del
Pelio. E tra Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra la sede
dell'amata e la sede del figlio. Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea
„ di Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta di Esiodo.
Due versi ce ne giunsero, unici: " O quale in Ftia, donata di
bellezza dalle Cariti, presso l'acque del Pèneo abitava la bella Cirene
„. Il resto del carme si ricostruisce per congettura. Figlia del tessalo
Ipsèo, re dei Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene
crebbe vigorosa e animosa, strenua in combattere. Durante la lotta con un leone
la sorprese Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone la
profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò sul cocchio aureo in
Libia, ove Libia la ninfa li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il
j)adre recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono e fecero di
lui un immortale simile a Zeus, ad Apollo simile, un Agreo cacciante, un
Opaone custode di gregge, un Nomio pastore. Tale lo schema breve
della fiaba. Ove si riconosce, senz'altro, il corteggio dei numi che nel
racconto penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo Aristeo; e
sùbito si avverte il colorito libico riflessovi da Cirene; e né meno
s'indugia a intender perché, volendo insieme serbar intatto il carattere
tessalico del giovinetto e non cancellare l'episodio della sua nascita in
Africa, venisse alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso
i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar popolosi di leoni
queti piani della Tessaglia; ma qual poeta ha mai temuto d'essere
illogico '? E fuor di questo, la trama era pregevole per molta
armonia ; e sovra tutto per un'intima leggera grazia di tocco che temperava con
l'amore del dio la salvatichezza della fanciulla; per una accorta
sapienza prospettica nel disegnare le scene su lo sfondo di due
feracissime terre, onde senza contrasto si rilevava, ben stagliato,
in gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo senso sacro
in fine diffuso nel carme, traverso le parole di Chirone dal molto senno
e assai venerando, sino a dargli temperatamente un tono
religioso. Che stupenda, del resto, fosse la concezione,
dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti poeti. Fascinati
questi, oltre che dall'aura di sogno emanante fuor della fiaba, anche
dalle lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla dei canti
greci, la Tessaglia, come la nuova fiorentissima colonia dorica, la Cirenaica.
Per l'una il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per
l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato. Ma era inevitabile che
questi due poli, ben armonizzati (all'inf uori della irrazionalità su i
leoni) dall'Eea, attraessero poi in modo palese ciascuno a sé la materia;
e la Ninfa tendesse a divenire di qui quasi totalmente tessala, a ridivenire
di là quasi esclusivamente libica. Due filoni se ne originarono, non
privi né l'uno né l'altro, all'origine, di tracce lasciate
dall'Eea, unica fonte primitiva; ma ben divergenti in processo di
tempo: l'uno che con Aristeo trasporta sul Penco la stabile sede di Cirene:
l'altro che con Apollo rinforza e rincalza i tratti africani di
lei. Su la via per la quale Cirene jDerverrà a stabilirsi in
Tessaglia la prima tappa è compiuta dall'ode pitica nona di Pindaro, nel
474 a C, in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella corsa
in armi La patria del vincitore cui il canto è indirizzato dovrebbe
far supporre che amplissimamente sul racconto pindarico si esercitasse
l'influenza libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve ridursi
a un unico particolare. Ove l'Eea introduceva Libia accogliente gli amanti,
Pindaro che conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda da
valersene nel suo carme (1), non esita a disegnar in vece, nel principio del
carme medesimo, la figura di Afrodite dal piede d'argento: riuscendo a un
doppione. Perché ? Ad Afrodite era dedicato un giardino in Cirene e a lei
si rendeva culto con qualche importanza ; onde fu che la notizia
regionale s' insinuò non pur a modificar la trama del racconto esiodeo ma a
duplicarne un tratto. Accanto a questa ben lieve alterazione può esser posta
un'altra, meno visibile, e dovuta a causa diversa. Apollo era con
Ermes strettamente congiunto nel mito; v'era tra essi quasi un
vincolo che ove Funo stava l'altro adducesse. Quest'attinenza fu il
motivo per il quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non Apollo, ma
Ermes ebbe a recare il recente nato Aristeo presso le Ore e Crea:
ufficio, a ogni modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni
però assai più notabile è la non compiuta audacia con cui il poeta svolge la
profezia di Ghirone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza
religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio eran assegnati attributi
fissi e certi da non violarsi da non obliarsi, ed erano al tutto sconosciute,
riprovevoli, le confusioni le incertezze dei primi canti divini. Già che,
i^er esempio, Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profetante Nume,
troppo illogica e, diciamo, troppo antropomorfica risultava la scena in
cui al Vate da un Centauro vengono vaticinate le nozze. Sùbito lo
vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5 protesta, non totalmente. Dimostra
l'inconsistenza dell'episodio, poi lo accetta con un sorriso ed un
sospiro. Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno riproduce
l'Eea. Splendidamente per vero. Voglio, con le altocinte Cariti
Telesicrate proclamando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e
prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli: Questa un giorno
dai ventosi sonori antri del Pelio il chiomato Latoide rapi ; condusse
Egli su l'aureo cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra
in gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar Edizione
di Schrodeer (Lipsia). la terza amabile fiorente radice del mondo.
Accolse Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine
redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce letto gi'ato diffuse
pudore, in comuni nuziali vincoli l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo
ampio possente: Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da
l'Ocèano seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an- fratti
del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la Nàjade Creusa, nata dalla
Terra ; egli la figlia di belle braccia crebbe, Cirene. La quale, né
de' telai amava l'alterna vicenda, né i gaudii delle danze fra casalinghe
amiche ; ma, con bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide belve uccidere.
E molta per vero e queta pace ella ai bovi procacciava del padre, e poco
spendeva del sonno che, dolce compagno di letto, su le ciglia si stende
verso l'aurora. Sorprese lei un giorno, sola, in lotta
senz'armi con vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia
faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida Chirone: " Lascia
il venerando recesso, o Filiride, lascia ! l'animo d'una donna e la
grande possanza stupisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovinetta
dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le treman gli spiriti ! Chi
lei fi-a gli uomini generò ? da quale schiatta rampollata degli ombrosi
monti abita le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero.. È lecito
l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal letto tondere il fiore
dolcissimo ? ., A lui il forte Centauro, con sopracciglio
benigno chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose : Se Nel V.
19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk. crete alla savia persuasione
sono le chiavi dei sacri amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli
uomini questo del pari è pudore : palesemente il dolce letto la
prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene menzogna, mite
desiderio indusse a parlare queste finte parole. Tu, onde sia interroghi
la schiatta della fanciulla, o Signore? tu, che di tutte le cose
conosci il fine e tutte le vie: e quante di primavera germina foglie
la terra; e quante nel mare e nei fiumi da l'empito dei flutti e dei
vènti sono agitate réne ; e quel che sarà e donde sarà, ben vedi! Ma, se
anche coi profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei sposo venisti
su questa balza ; e oltre il mare devi portarla, nell'insigne giardino di Zeus.
Donna di città ivi la porrai raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha
cintura di piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli accoglierà
l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro ; parte della terra a lei
tosto donando, possesso comune, non spoglia di tutte fruttifere piante né
ignara di belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre
Ermes di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e alle
Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia al piccino di nettare
le labbra e d'ambrosia stilleranno: lui rendendo immortale, uno Zeus, un
pui-o Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone custode di gregge,
un Agreo cacciante, Nomio pastore: altri lui nominando Aristeo „. Nella
pausa che succede a quest'inno, se ne sente inevitabilmente refficacia
anticirenaica. La più bella e la maggior sua scena si svolge fuor
di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici della fanciulla son
rammentati; narrate le sue imprese virginali su le vette ventose del
Pelio; né il suo figlio pure s'indugia su la sponda africana. E tuttavia
non per questi motivi, di per sé valevoli, l'ode pindarica scema IL
SIGNIFICATO PRIMORDIALE di Cirene; si perché, continuando l'impulso
dell'Eea, sanziona in lei, più assai che l'eroina indigena venerata e
creata da un popolo in uno Stato, la comune divinità ellenica sposa
di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e Aristeo tessalico ; e le
dà per tanto, come plinto alla sua statua, l'Eliade; come credenti al
suo culto, gli EUeni. A testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su
l'origine vera della Ninfa resta la sua lotta col leone: particolare di
precipuo sapore africano. E questo pure andò, in progresso di
vicende, eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi Argonauti nel trattar
da erudito la leggenda avverti l'incoerenza di quell'episodio che a due veri
poeti era sfuggita ; e lo soppresse senz'altro. Per lui. Apollo
scorge la vergine in Tessaglia intenta a custodire gregge e di li la
rapisce, senza lo speciale motivo della forza ammiranda di lei, in Libia.
In Libia le ninfe sotterranee (x&óviai vv/i,g)ai) li accolgono: le
quali son, come tutrici, numi del paese e occupano presso il nuovo
poeta sapiente, cui la sminuita fantasia e l'accresciuta dottrina
tolgono d'intuire la bellezza nella personificazione d'una terra, il luogo
dell'eponima ninfa Libia. Apollo poi recherà il nato Aristeo alle
Muse, sue allevatrici: ove delle Muse il concetto è attratto dalla fama
del Latoide qual Musagète. Che più resta della Signora delle belve
e Dea della fontana? L'esiguo accenno alle nozze compiutesi in Libia e al
soggiorno duraturo della sposa colà. La maggior luce è gittata su
Aristeo, su la sua nascita e le sue vicende ulteriori: l'africana, nel
contesto, è un momento. Contro questa general tendenza di Apollonio
non starebbe che la soppressione della profezia del Centauro. Pindaro,
discutendola, l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispettoso,
l'elimina. Ma appunto perché a lui tutta la leggenda si presenta in
un'aura tessala, sente poi il bisogno di non perdere totalmente
questa figura, cosi dicevole al suo pensiero; e la rammenta quindi, in
altro luogo, come partecipe all'educazione del Fanciullo pastore,
insieme con le Muse. Non più grande né più intenso poteva essere,
sembra, l'influsso della patria acquisita contro la patria e prima e
vera. E fu più grande e fu più intenso. Bastò che un poeta,
Vergilio, riprendesse il racconto, imperniandolo, ancor più che i suoi
predecessori, su Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la memore
mente dell'artista (o della sua fonte) è il noto e diffuso episodio
omerico di Achille invocante nella passion dell'ira e dello sconforto
la madre Tetide su la riva del mare. Quando dunque egli ha narrato come
il Fanciullo perdesse il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo
nell'atto dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre Cirene. Di questa
l'Eea diceva padre Ipseo e nonno il fiume Peneo. Con una assai
piccola libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma di questo
; e ottiene cosi di farla abitare nel profondo gorgo paterno e di addurre su la
sponda della corrente acqua il Giovinetto afflitto da eccessivo dolore.
Non oblia Apollo, che a lui fa breve cenno; ma al fantasioso innovatore
del mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo è il talamo
recondito di Penco ove le Ninfe vivono. Aristeo pastore
fuggiva la ralle di Tempe penèa, perdute, si narra, per morbo e per fame
le api. Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto
lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Cirene, madre, che il
profondo abiti di questo gùrgite, perché da preclara stirpe di Dei, se
(come dici) Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o il
tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori celesti sperar mi facevi
? Ecco : fin questi onori terreni, che a me alacre con pena procacciava
solerte custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo per
madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le beate selve ! apporta
il nemico fuoco a le stalle ! distruggi le messi! i seminati riardi! e la
temprata bipenne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese della mia
fama. La madre il lamento senti nel talamo del fiume profondo. A lei
d'intorno lane milèsie le Ninfe filavano, lane di verdastro colore ritinte :
Drimo e Santo e Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i
bianchi colh; e Cidippe e Lieorìade bionda: vergine l'una, esperta l'altra
allora a pena i dolori del Georgiche edizione Hietzkl (Oxford). Omesso il
v. parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine entrambe, entrambe d'oro,
di colorate pelli entrambe fasciate (1) ; ed in fine, le saette deposte,
la veloce Aretusa. Fra le quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica
e l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti annoverava dal Caos
amori di Dei. Or mentre nel racconto rapite devolvon dai fusi i molli
pennecchi, novamente il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne.
Su i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre
sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo capo levò.
E da lungi: di tanto gemito non atterrita in vano, Cirene sorella :
egli stesso, la tua massima cura, Aristeo!, tristemente lacrima presso
l'onda del tuo padre Penco : e te chiama crudele, . Allor percossa
la mente di nuovo terrore la madre:
Conducilo, or su, conducilo a noi; è lecito a lui toccare le
soglie divine,. E insieme, al profondo fiume comanda di lasciar per V
ingi'esso del giovine adito largo. Lui l'onda ricinge, ricurva di
montagna in guisa, e nel vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia.
Già la sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli umidi
regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti boschi ; stupefatto da
l'ingente moto dell'acque tutti osservava i fiumi sotto la grande terra
fiuenti. Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del talamo giunto, e
conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti del figlio ; alle mani danno le
sorelle a vece limpida l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ;
gravan di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli
Omesso il v. Omessi i vv.] altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi, dice,
la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E insieme, prega ella
l'Oceano padre delle cose e le Ninfe sorelle, che proteggon cento le
selve, e i fiumi cento. Tre volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente
; tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto avvampò.
Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo a convincerci d'esser
tuttora dinanzi a una stessa Cirene. In realtà, d'identico non rimase che
il nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una scena singolare, la
Ninfa vincitrice del leone, Apollo ammirato, e il Centauro in atto
profetico ; ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua. Pindaro
piomba su la scena col suo volo rapido di aquila: con Chirone si
corruccia e si trastulla ; par clie debba annientarlo con un colpo
d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece un motteggiatore
ironico del Dio, e ne fa un episodio marginale, quasi comico, e un poco inopportuno
: ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra a fronte; e sopr'essi non
l'amore, non tanto la cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono
unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio montano, e ha da portare
la selvaggia nella terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la protagonista
men palese e più reale del duetto, determina essa sola l'episodio centaureo che
segue, e gli dà, essa sola, quel contenuto da cui è scemato e quasi
annullato il comico inevitabile. Sicché la Pitia addensa la materia vasta
dell'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di quelli che la sorte prepara e
rende decisivi nei secoli. Due Muse austere, di Storia e di Religione, han
toccato le loro ardue corde su l'arpa •ttemplice. VIRGILIO (si
veda), e tanto tempo era trascorso! fu più indipendente nel trasfonder sé entro
il mito. Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole silvane ; e
gli fu nel cuore la bramosia con cui aveva assai volte spinto il viso nei
misteri liquidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il Sole non
giunge. E negli occhi gli fu l'imagine che è nell'acque: la vita delle
rive, capovolta sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevolezza,
l'uomo nel divino. E l'uomo fu il VIRGILIO (si veda) georgico. Quindi bellezze
carnali soffuse di grazia e immerse in un pudico garbo di colori e
di movenze; costumi domestici di fusi e di conocchie, uso agreste di
vivande parche e di sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di racconti,
e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti e facezie. Sovra ogni
cosa, poi, assemprato dallo stillar non triste delle grotte
sotterranee, dall'umidore non nocivo di margini erbosi, sovra ogni cosa,
il pianto, un po' futile, di Aristeo, e le bambinesche imprecazioni, e lo
spavento, non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo, flebile
ancor esso. Questo tono, appunto, flebile, questo sapor non ripugnevole
di lacrime, nel recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito
della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro alla belva, lo nega
nell'origine e nell'intimo, più che ogni variante di particolari o
differenza di luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Mantova; non,
come in Cirenaica, calura di ghibli conscio di ruggiti; non, come presso
Pindaro, impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso. Molle e
prolisso nepote di un avo ferrigno e conciso. Ma è necessario non
dimenticare che di tanto trapasso, se il terreno è lo spirito
vergiliano, la radice è l'aver posto nell'acque, non più della
sorgente Gira, ma del paterno fiume tessalo, colei clie i Dori avevan veduta
sterminare le belve, e procacciar pace agli aratori nel franger
glebe. Ed è, questa, si rammenti anche, l'estrema foce della vena mitica clie,
dall'Eea, trovò in Aristeo la sua origine prima e il fti'inio
motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi la materia mitica
dall'un polo, la Libia, all'altro, la Tessaglia. Narra in vece
Acesandro, storico cireneo vissuto come, regnando in Libia un Euripilo,
da Apollo fosse in Libia trasportata Cirene; e come, poiché un
leone infestava il paese, Euripilo offrisse in premio a chi uccidesse la
belva il regno. Cirene l'abbatté, e ottenne il trono. E press'a
poco identico è il racconto d'un altro storico, Filarco. Entrambi
adunque lumeggiano a preferenza l'aspetto libico della Ninfa. E fin
l'episodio, culminante, della lotta con il leone avviene dicevolmente,
non in Tessaglia, ma in Africa, a difesa del paese e per iniziativa di un
re indigeno, Euripilo. Né cotesta è accorta correzione di eruditi razionalisti.
Il contesto medesimo ci appare difatti negli esametri martellati d'un
poeta cireneo: di Callimaco; segno che la fiaba possiede, come una
non dubbia energia vitale, cosi radici assai vaste e assai profonde nel
territorio cirenaico. Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno
ad Apollo^ rapidamente un quadro che ha per sottinteso un racconto
analogo a quel di Aces andrò. In verità molto fu lieto Febo, quando i
succinti seguaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono, il
sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor potevano alla fonte
di Gira accostarsi i Dori; ma la fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi
riguardò il Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul
colle dei Mirti dove la figlia di Ipseo uccise il leone, infesto
d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza non vide ApoUo mai; né a
città alcuna tanto giovò quanto a Cirene, memore dell'antico
ratto. L'antico ratto è quel medesimo narrato dall'Eea e da Pindaro ; ma
il racconto di Callimaco, come quello di Acesandro, è da l'Eea molto lontano.
Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tessaglia; e il leone rugge da vero su le
sabbie del deserto. Per che modo e traverso che vicenda si
giungesse a cotesta forma della saga, che due Il testo di Callimaco è del
WilamowiTz^ (Berlino). Domina la fontana di Gira. CIRENE
MITICA storici e un poeta indigeno ripetono analogamente, è
indicato, nel medesimo carme callimacheo, dal processo del pensiero
artistico. Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, raccolto in
un recesso ove son palme e allori, gli alberi di Febo Apolline; e nelFaria
sta, grave e dolce, il senso sacro del Dio imminente. Oli quale di
Apollo croliossi la fronda d'alloro, quale tutto il recesso ! Lungi lungi
l'impuro ! Già già a la porta col bello piede Febo percuote. Non
vedi? Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito; il cigno
nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi paletti dell'uscio; da
soli, chiavistelli : però clie il Dio non è juii lontano. Giovini, al
canto ed aUa danza or vi apparecchiate! Apollo non a tutti appare; ai
generosi, pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, piecolo è
quegli. Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non mai saremo esigui.
Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che trascina Callimaco,
alquanto si svolge cosi da prima il fervoroso esordio ; il quale non
è tuttavia vano, ma serve a preparare, animandola della sua vita
illuminandola del suo lucore, la lauda che vi si farà poi del Dio e
l'enumerazione delle bellezze di lui e degli attributi. Egli è Nomio, nei
pascoli. Egli è l'Ecistère, fondator di città. Quadrienne pose le
fondamenta in Ortigia. E Febo anche la mia città ferace
[Cirene] a Batto indicò : corvo,
fu guida al popolo che si recava iu Libia, propizio al colono : e fé'
giuramento di mura donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è
Apollo- La città di Callimaco è dunque fondata, egli dice, dal
Latoide e sotto la protezione di lui restano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e
Cirene una attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino ad ora
conosciuta. Apollo non è lo sposo di una Vergine cacciatrice, ma il
fondatore della città che di quella lia il nome: si che accanto al
nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti, si dispone quest'altro
nesso, diverso. Ed è la prima novità che ci sorprende. Una lunga
parentesi segue poi in cui si rintracciano le sedi del culto di Apollo
Carneo: Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti Clario; ovunque
a te sono assai nomi. Io però Carneo te chiamo : mi è patrio costume
cosi. Sparta, Carneo, fu la tua prima sede: seconda Tera: terza poi
Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo conduce alla colonia Tera; da
Tera te il sanato Aristotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse
un tempio, un'annua cerimonia in città istituendo, in cui molti fan
l'estrema caduta su l'anca per te tori, o Signore. 'l'j 1^ Carneo molto
pregato! i tuoi altari fiori in primavera recano, quanti variopinti le
Ore adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco,
l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la cenere rode carbone di
jeri. Cfr. Erodoto e il sèguito del nostro testo. Traluce qui nella
vicenda del culto al Carneo la realtà storica dei coloni dori mossi da
Sparta a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia: vanno, e li
segue il Dio. Appare qui, di più, quel " sesto nepote di Edipo „ e
quell'Aristotele che avrebbero, a punto, contribuito ai due
trapassi. Ed è la novità seconda. Sùbito appresso vengono dal poeta
indotte, figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul colle dei
Mirti in atto di contemplar, vedemmo dianzi, i coloni Dori danzanti tra
le fanciulle libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui
Cirene è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio dove dal Peloponneso
a Tera e in Libia vien perseguito il culto di Carneo e il trapasso
dei Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi dell'imagini, che
l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe quotato il regno deve essere in
rapporto mitico appunto con quei due spunti favolosi poco prima,
più che svolti, accennati: con la fondazione di Cirene per opera di
Apollo; e con le migrazioni dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera,
in Libia. Comprendiamo che al racconto più prettamente libico su la
Signora delle belve è prefazione una saga su l'origine di essa colonia
cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di quello. Ed è da
ricercare, anche, il motivo per che la coppia di Apollo e Cirene s'aderge
qui, su quel suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non è
la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di fatti genera maraviglia che
in un carme religioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai meno
che in un epinicio quel rispetto austero e insieme divotamente
inchinevole il quale costituisce Tanima della scena pindarica. Eppure
tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo vento che, dal Nume, agita
la palma delia e la fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace
spira, bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso chiunque, e
sia dio, protegge le mura della sua Città e il trono dei suoi Re ; non
del fedele verso (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito
nell'assoluto. Quindi il breve componimento si spezza in due parti
diverse tenute insieme, male, da un elenco dei pregi e degli attributi di
Apollo. La prima di quelle parti è mossa da una contenuta esaltazione
patriottica che si veste, abito non suo, del i^aramento religioso, si
schematizza nella scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che
scarsa armonia di struttura, e abusa di formule innovate sol con sapienza
verbale. La parte seconda, in vece, lascia prorompere la stessa esaltazione
patriottica, ma questa volta verso espressioni sue proprie ed adeguate: ivi è
la glorifìcazion della patria nel suo bel passato. L'artificio si
discioglie in arte. Ma il bel passato della patria Cirenaica è la
leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai, sospettatala, rivivere
tutta. Euripilo ed Eufemo. Regna in Cirene una famiglia, la
quale, per ricorrere in essa il nome Batto e per esser ritenuto un
Batto primo re del luogo, era detta I dei Battiadi. Di quel
primo sovrano si serbava memoria, e accanto al più vulgato si ricordava un
altro nome: Aristotele. Anzi era sorta in qualche maniera a questo
proposito una leggenda etimologica: avvicinandosi cioè Batto al
greco verbo ^atTaQi^o) (balbettare) si raccontava d'una sua
balbuzie dalla quale avrebbe avuto il nomignolo (1). Ma ben più su di lui si
spingeva la genealogia fittizia dei Battiadi ; a simiglianza
difatti d'altre molte case regnanti, sostenevano essi di scendere da un
eroe : un Euf emo, che ritenevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qualunque
valore tal j)retesa avesse e comunque si fosse originata, a ogni modo
raggiungeva lo scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si sa,
non infrequente in fra i Sovrani. E poiché tra la Libia e la Beozia un
nesso era tutt' altro che palese, fu facile lasciar in breve cadere
nell'ombra il particolare della patria di Eufemo o, per lo meno, non
accentuarlo con insistenza (2). Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo,
a fin di compiacere un desiderio che diremo non illegittimo per
regnanti. Bisognava, per rendere più sacrosanta più fatale la signoria
de' Battiadi in Libia, che qualche avvenimento degli antichissimi tempi,
di tempi narrati nelle epoi^ee dai cantori di eroi, non pur la
giustificasse, si anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se
già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana, ben poteva quello essere
il punto in cui il Fato Studniczka Kyrene (Leipzig) 96. ineluttabile
toglieva inizio, e si stringeva il nodo primordiale delle vicende future.
Cosi piacque loro di imaginar la fiaba. Sono questi i due
dati (l'Eufemo capostipite, l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi
tutta la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi seppe
assai opportunamente disporre svolgere e compiere quella fucina medesima
che aveva foggiato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi e risultati
analoghi. Come allora si vide la grezza materia indigena imprimersi di
uno stampo ellenico e assimilare in sua roventezza talun'altra fiaba
estranea; cosi si scorge ora il territorio leggendario dei Greci
spigolato a favore e di Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E
d'Eufemo questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a due
domande: con chi e quando fu in Libia Eufemo, il figlio di Posidone? quali
vicende traversarono e quali vie tennero i discendenti di lui, fino
a Batto, per raggiunger la Libia e compiere il fato? Alla prima
dimanda fu sodisfatto con un antico spunto mitico, assai propizio. Si
racconta che gli Argonauti compagni di Griàsone ìran giunti, in certo
punto del loro viaggio, al [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove
sarebbero stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago 'era
quello ove venne detersa Atena nascente da Zeus ed era riconosciuto poi
(prima indipendente da luoghi concreti) nella palude ch'è presso la
piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo limite occidentale,
verso l'occaso del sole. Quivi sarebbe apparso loro il dio del luogo
Tritone e, placato col dono d'un tripode, avrebbe ammaei strato
gli eroi su la via da tenere fuor dalle strette. Episodio dunque atto
quant'altro mai a favorir qual si voglia racconto di anticM soggiorni
greci in Africa. Quando, ad esempio, lo spartano Dorieo tentò di
colonizzare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a prò di lui cosi:
dopo aver ricevuto il dono e aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che
il tripode rinvenuto da un discendente degli Argonauti avrebbe
determinato presso il lago la fondazione di cento città greche.
Malauguratamente Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tripoli, al
Cinipe, fiume tra le due Sirti: e il tripode non fu rinvenuto perché le
cento città non crebbero. Ora in modo analogo procedette TEea in
grazia dei Battiadi. Per essa gli Argonauti sarebber pure giunti alla palude
Tritònide ; ma a un'altra del medesimo nome: a un lago chiamato
cosi presso l'odierna Bengasi (si pensino i '' laghi salati „), in temtorio
dunque della Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tritone, ma un
diverso nume: Euripilo (2). Il quale è, come la sua denominazione
significa, il Dio della " larga porta,, infernale ; molto diffuso
in vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual divinità
ctonia, presso grotte e antri ove la volta rocciosa s' inarchi su la buja
ombra. Cosi appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca orrida
del Gioh onde le acque profluiscono fuor dalle tenebre alla luce : e chi
vi si avventuri non può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che
Erodoto. ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e v'è al corpo
concreto delFuomo esiguo spazio, molto alle fantasime deirimaginazione
spaurita. I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sentirono ivi
presente il dio Euripilo. Lui dunque addussero al prossimo lago Tritonio
e lui narrarono farsi incontro ai compagni di Griasone in luogo di
Tritone. Con una variazione poi del motivo originario, egli fu fatto
donare una zolla non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eufemo. L'avo
dei Battiadi fu imaginato per tanto Argonauta allo scopo di poterlo far
x)aTtecipare al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei suoi
favolosi discendenti. Non vano dono in vero, né inutile a chi Tebbe tra
mani I però che fosse fatidico e necessitasse molte vicende
av\'enire. D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel lago,
ritorneranno nelle terre di Euripilo. Per quali cammini? Era la
dimanda seconda. Alla risposta forniva argomento anzi tutto la
realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di Tera, la Libia (le tre
tappe storiche de' coloni Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i
tre punti obbligati e le tre tappe della via compiuta dai
discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta ne aggiunse il mito :
poiché Eufemo era divenuto Argonauta, e già l'epopea omerica conosceva, come
sede temporanea di Griasone e dei compagni di lui, l'isola di Lemno, di
fronte a la costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dardanelli).
Accettate e fissate queste come pietre miliari su la strada, ancora
bisognava addurre i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una
all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i motivi dovevano tutti
accogliersi e disporsi intorno alla prima causa e centrale, il dono della
zolla d'Euripilo. Eufemo dunque dalla Libia, rice\aita la piota africana,
si recò con i navigatori iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta
il mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta nuova.
Questa aveva ora da recarsi nel Peloponneso e da toccar quella Sparta che inviò
pure una colonia a Tera; ma perché? A giustificare si disse che nel
Peloponneso era la patria di Eufemo; e poiché Posidone gli era,
nella leggenda, padre e poiché al capo Tènaro Posidone aveva,
coll'appellativo di Greàoco e con valore di divinità ctonia,
rinomatissimo culto, ivi fu asserita la propria sede di quello. Ciò
non era senza incoerenze : al contrario, Eufemo {£v(prifiElv) non aveva
fin allora avuto carattere alcuno di nume sotterraneo, e gli fu tribuito;
era precipuamente beota, e diventò tenario; non godeva di
venerazione presso il Geaoco, e vi venne imaginato. Ma l'incoerenza non
è, com'è noto, affatto l'eccezione non pur nell'arte si anche nel
mito. E qui ben trascurabile riusciva : di fronte al risultato,
raggiunto, di spiegare il viaggio da Lemno al Tenaro come un
ritorno nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per il
vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto le relazioni fra gli
Eufèmidi e Sparta, come con quella ch'era al Tenaro non lungi. Inverati
or dunque questi primi due scopi, era d'uopo con pari arte
legittimar l'approdo in Tera. E qui lo spunto fu favorito da un aneddoto
epico. Odisseo na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni
vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai compagni; dai quali sciolto
l'otre contro il divieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca.
Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba d'Euripilo, ben custodita
dai servi, era poi stata, in un istante di men vigile attenzione,
travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde e le correnti, pervenne
all'isola di Tera. Per ciò, non essendo essa da Eufemo stata recata
sul Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola, da l'isola
non dal Tenaro partirono i coloni. Ma se cosi fatta partenza era voluta dai
fati, il segno ne fu offerto e il momento scelto per opera di
Apollo nel suo santuario delfico. Colà essendosi Batto recato a cagion
della sua mal sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso
di colonizzar quel tratto della spiaggia africana : ove sarebbe guarito
dell'ingrato difetto. Lode dunque, ben meritata, al Dio. Ultima
invenzione questa che rivela il luogo ove la leggenda degli Eufemidi si
elabora e fa d'improvviso su tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che
si riconnette assai bene con la figura del Latoide in qualità di
Ecistere o colonizzatore, siccome già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo
poi genealogico fissava nella quarta generazione dopo l'Argonauta
l'abbandono del Peloponneso; nella diciassettesima la spedizione verso la
Libia. Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea Odissea v.
46. Malte. aveva alla fine assolto anche il secondo tra i suoi due
compiti fondamentali. Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio
dall'apparenza assai più logica che fantastica; ciascuna delle sue
trovate secondarie era indirizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a
un bisogno del ragionamento; al ragionamento ai suoi scopi alle sue
esigenze eran subordinati i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi
e alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di eccellenza poetica.
Queste, che pajono a noi ambizioncelle dinastiche e pretese mediocri ;
questi, che ci sembrano fini pratici non artistici: eran nella
realtà stimoli possenti della fantasia ; la quale, obliando ben jjresto
l'origine delle sue imagini e il termine, spaziava poi nel suo
proprio regno da inconcussa signora. E la bella favola, creata,
ignorava il compenso del suo mercenario creatore. L'accortezza medesima
con cui vi si profìtta di analogie nominali per accostare, ad
esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro; la prontezza con cui vi si
sfruttano i vecchi motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber
essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece funzioni spontanee della mente
ricca di antiche e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nell'ardenza
del fuoco inventivo, come le impurità si distruggono, cosi si avvicinano
i diversi, si mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello
storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea nel disegno
leggendario, incresce al contemplatore della bellezza. La quale riappare, con
tutta la sua unità sintetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto tra
le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao vincente col cocchio. Oggi
bisogna, o Musa, che tu stia presso un valoroso amico, Re dell'equestre Cirene,
a fine di spirare col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta
ai Latoidi e a Pitone. In Delfi un giorno, presso le dorate aquile
di Zeus, presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colonizzatore
della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola lasciata, costrutto una
città di bei cocchi sul risplendente colle e di Medea compiuto, con la settima
e decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa figlia
d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la regina dei Colehi '.
Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode Giasone: "
Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Affermo che da quest'isola (1) battuta
dai flutti, nelle sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo trapianterà
una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di brevi pinne scambiate veloci
cavalle ; le redini coi remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico
segno è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno che su
le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo simile, donante in dono
ospitale una zolla, ricevette Eufemo dalla prora disceso benigno su lui
Cronio Zeus fé' rimbombar un tuono quando gli s'imbattè, mentre
l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce Argo, sospendevano alla
nave. Dodici giorni già la portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala
per i miei (Tera). consigli,
su i deserti dorsi della Terra. Allora solitario un dèmone avanzò, bello
assunto l'aspetto di venerando uomo : con amici detti fece principio,
come ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron da prima.
Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava l'indugio. Disse Euripilo
nomarsi, figlio del Geàoco immortale Enosigèo : riconobbe la fretta :
sùbito allora, con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvisato
dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe, ma balzato su la riva,
a la mano porgendo la mano, ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa,
travolta fuor della nave, galleggia sul mare coi flutti, di sera,
l'umido pelago seguendo: che certo spesso furon esortati i servi, che
allevian le fatiche, di lei custodire; ma gli animi loro obliarono. Ed
ecco in quest'isola l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie
contrade, prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in patria, a
canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul sacro Tènaro, il sire Eufemo
figlio dell'equestre Posidone che un di Europa nata da Tizio generò
presso le sponde del Cefiso, nella quarta generazione allora il
sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i Danai, da la vasta
Lacedemone partitisi da l'Argivo golfo e da Micene. Adesso per contro
nobili discendenti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col
favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un Eroe signore nei
piani di cupa nuvolaglia: a lui nella molto dorata casa Febo, a lui in
epoca futura disceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur .
popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del figlio di Crono. Tali
di Medea le schierate parole. S'impaurirono, immobili silenziosi, gli
eroi simili a Dei, gli accorti detti ascoltando. beato figlio di
Polimnesto, te giusta il discorso di Medea elesse l'oracolo dell'Ape
delfica con spontaneo accento: la quale te, tre volte salutato, dichiarò
fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce interrogante qual rimedio vi
fosse appresso gli Dei! Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col
santuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel mezzo stanno le
vicende di Eufemo e dei nepoti. Le quali sono in altro brano anche più
esplicitamente significate, ancor su la trama dell'Eea: dico nei versi. E
su le distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e tra le mariticide donne
di Lemno furono essi Ivi un giorno
o notti fatali il seme accolsero della raggiante vostra fortuna (o
Battiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata, per l'avvenir sempre
fiori. E mescolatisi di poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'antica
isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi il Latoide concesse di far
prosperare con gli Dei le i^ianure di Libia e di abitare, con savio consiglio
regnando, la divina città di Cirene dall'aureo trono Ma questo secondo sviluppo
del mito, se è più minuto, è anche assai inferiore rispetto al
primo, n quale mostra quanto profondamente l'animo severo e
ascetico di Pindaro consentisse e concordasse con il contenuto riposto della
leggenda cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia e che
sul finire richiama, della Pizia; Faltra, (Batto-Aristotele). (Gli
Argonauti). b svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto
ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi : significano con
insistenza l'unico essenziale e fondamentale concetto del mito, il Fato onde
il regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea con il veggente
occhio lo prevede. La Pizia con la bocca immortale lo attua. Gli uomini
si scemano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi eletti. Se non
che il Fato è non soltanto il nucleo del mito, ma l'intima fede di
Pindaro, che è apx^unto stimolata dalle esteriori circostanze in cui fu
composta l'ode. Aveva egli avuto incarico di indurre il re, Arcesilao di
Cirene, col vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f oruscito
Damofilo; ne era nuovo a tali offici non graziosi e vi si vedeva sovente
'costretto. Di qui un'amara tristezza: non pure pel rimorso
secreto, e qua e là palese, di piegar la sua Musa a compito venale ; si
anche ]3ev un coperto pessimismo umano, onde crollava con uguale sfiducia
il capo dinanzi al forte che aveva vinto la gara come dinanzi
all'opulento che l'aveva pagato. Per lui ricchezza e prodezza vengono
all'uomo dal destino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e per sé lasci
levare in minor tono il vanto, si massimo per i Numi che l'hanno in
protezion benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza fra la
propria fede e il nucleo del mito fu còlta dal poeta con un balzo
magnifico di rapidità intuitiva: Arcesilao vince a Pito; da Pito
muove Batto; ecco il trapasso esterno : un destino solo fa
vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto; ecco il midollo intimo a questo
organismo lirico. Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi obliato
che Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla fine, quand'è
ormai arido e gli si spingon a fior dell'animo i men nobili desiderii e
una certa compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto è divino.
Ma quella che comincia non è l'epopea d'un eroe, né l'inno sacro ad un
Dio: è l'elegia d'uno spirito d'uomo. La strada su cui
Pindaro s'è lanciato non è la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova,
aperta con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe una scena
coreografica ; a quei tempi uno spettacolo dei misteri eleusinii ; sempre, il
basso-rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come le anime, concreti
di evanescenza. Nella notte dei tempi Medea, maga di semplici e vate
del futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la sua profezia. Sono
circa cento kola percorsi da un brivido unico, che culmina alla fine
nell'invocazione a Batto, vibrante di fede. Se non che, su la strada
nuova ed insueta non dura l'imaginazione: già l'episodio di Euripilo apparso
agli Argonauti s'era innestato con diversissima efficienza nel gran
quadro di Medea vaticinante, come quello che vi recava tempere più
pesanti e meno diafane. Con esso episodio si riconnette poi, non
appena cessato l'anelito dell'incombente fato, l'ami^io racconto su i motivi e
sulle vicende onde mosse e per che riusci la impresa degli
Argonauti: ampio racconto che ha tutto una nuova serenità omerica, una
placidezza di lunghi favellari, un indugio molle su i modi delle
vesti e i sussurri delle folle, un tono, in somma, appreso dai rapsodi.
Giasone fermo su la piazza di Fere con le due lance e il
doppio costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti di cinque
notti e cinque giorni, l'accorgimento obliquo del Re contro il giovine,
l'elenco degli eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada,
la carrozzabile Pindaro vi entra franco e libero; lo illude la facilità
con cui la fantasia gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni
dell'attitudine sua di statuario creatore della vita neirimmobilità. Ma a
poco a poco la concision vigorosa scompare; la scena diviene atto,
l'atto dramma; e una imperfetta dramaticità travaglia lo spirito del
poeta per affermarsi, senza riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo.
Egli si distrae troppo, una parola lo devia spesso, gli manca la
sicurezza del ritaglio e il coraggio di sacrificare i trucioli. E continua
cosi, a lungo, faticandosi, irritandosi: l'opera gli riesce un insieme di
momenti, scelti senza acume di tragedo, e cuciti con lungaggini di epico.
Lascia un luogo e un gruppo per correre nell'altro luogo e presso
l'altro grupx30 a cercarvi quel che là non aveva trovato; non si sodisfa;
riprende; e cade senza lena alla fine. Allora grida con sdegno: è troppo
lungo per me seguir la carrozzabile! E sul suo spirito esausto
hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del carme. Termina in
pesce. Falliva adunque l'epopea il dramma l'inno sacro. Eppure
Pindaro è tempora che sa gittare un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ;
né sempre sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma tal volta
li costringe col suo verso in perfetti camagli. Perché, quindi, gli mancò
quell'arte nella quarta Pitica? La risposta è nella natura stessa
del suo errore. Tutta quella ricerca affannosa d'una base ove consistere cli'è
il racconto degli Argonauti è piena di maraviglie oltre umane e di
giustizie divine. Giasone viene a rivendicare appunto il sacrosanto
diritto di sedere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e nel paese dei
Colclii, come già lungo il viaggio, le sue gesta sono insolite non di
coraggio ma di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende, né i
colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che il poeta poteva credersi
avvolto sempre da quell'atmosfera di fatalità grandiosa la quale sommerge in sé
il tereo detto di Medea. Ma s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il
romanzesco della novella, il mirabile della fiaba, dopo essersi
abbandonato, supino il volto, nell'estasi santa. La magia lo deludeva con
una maschera di religione; il cuore non pago pungendolo a irrequetudine.
Cosi la sua arte non propriamente gli mancò, ma più veramente venne
provandosi in vano a molti cimenti sotto cui è una continua
insoddisfazione intima: la insoddisfazione dello spirito che ha aderito
intiero a un impeto di profonda religione e, non accorgendosi a tempo del
transito verso minori sfere, s'agita come per men perfetti gusti.
Ora quella adesione era stata possibile nel cuore di un mito: il
mito dei Battiadi, in cui pulsa, origine e scopo della sua stessa vita, il
senso solenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché poche volte una
saga ebbe più consono poeta; pochissime, un tal inno è rimasto
documento lirico della mischianza dell'uno con l'altra e
dell'elegiaca nostalgia che ne consegue. Una cosi compiuta intuizion del
mito non ha più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta anzi
a svolgere della saga proprio quella parte che Pindaro meno degnava di
cure : dove, difatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento verso
Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argonauti, Euripilo ed Apollo, eroi e numi ;
lo storico è pien di zelo per i discendenti di coloro, }3er gli Eufemidi,
per l'Euf emide preferito Batto, non eroi né numi ma uomini. Il
primo era assorto nella premessa della leggenda; il secondo corre
alle conseguenze. Delle conseguenze Pindaro stesso aveva bensì fatto
cenno, non più nella Pitia quarta, ma nella quinta; gli accadde però per
sbalzi e tratti non connessi, senza organismo, e senza profondità
di attenzione. Vide Batto porre in fuga i leoni africani perché recò loro
una lingua d'oltre mare; vide i Terei guidati da Aristotele fondar
templi e instituir cerimonie: tutto in pochi kola de' quali la lode di
Apollo è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto: a lui la
fiaba, che non è proprio fiaba, comincia anzi dagli Eufemidi e da Lemno ;
quel che precede è avvolto in un silenzio il quale può essere
incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi lo storico comincia a
narrare. Egli narra con Cfr. Malten. una ingenuità dagli ocelli un
poco attoniti e forse un poco sorridenti; molto si compiace
nei particolari minuti; molto più pensa di poter la tradizione degli
Eufemidi connettere con altre indipendenti. Ecco, a suo dire, da
Lemno partono non solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli
Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli accade di giustificar
doppiamente il loro soggiorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lontano dal
Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli non dice) è la sede di Eufemo; a
Sparta, perché i Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go :
ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti X)oi dà il nome di
Minii. Minii e Ai^gonauti son difatti concetti affini (su la cui origine
non è qui dicevole indagare) ben presto uniti e tal volta
identificati. Per spiegar poi la loro partenza da Lemno richiama la leggenda, a
bastanza tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola: i
quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è combinazione grama e non primitiva. In
fine, i Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa, per quale
si recarono in Tera? Esisteva, come un mito cirenaico dei Battiadi, cosi
un mito, ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta nell’isola;
e in esso si parlava di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che
vi avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe dato il suo
nome. Di tal mito trae vantaggio lo storico per far muovere parte de'
Minii insieme con quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe fatto
loro la profferta. Uniti navigarono dunque su tre triacòntori verso
l'isola. Ivi, bisogna supporre, i Minii si serbaron distinti dagli altri
cittadini, al meno come schiatta; laddove il trono fu ottenuto, è ovvio,
dai discendenti di quel Tera. [In proceder di tempo] Grinno
figlio di Esania e discendente di cotesto Tera, essendo re
dell'isola di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'ecatombe.
Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto figlio di Polimnesto, per
stirpe appartenente agli Eufemidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei
clie lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose di
fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo: Ma io, o Signore,
sono già vecchio e pesante nel moto: tu dunque comanda di far queste cose
a qualcuno di questi giovini. A un tempo disse queste cose e accennò a
Batto. Allora tali avvenimenti. Più tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo
non sapendo in qual luogo della terra fosse la Libia né osando
inviare una colonia in un'impresa ignota. Per sette anni dopo ciò non
pioveva in Tera, durante i quali le piante tutte dell'isola tranne una s'inaridirono.
Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia rinfacciò la colonia in
Libia. E poiché non avevano altro rimedio al male, mandarono in Creta
messaggeri per ricercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse pervenuto in
Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero anche alla città di Itano,
nella quale s'imbatterono in un pescatore di porpora a nome Corobio, che
dichiara d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di Libia,
all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero Cfr. Erodoto. a Tera, e
da Tera parti da prima un'avanguardia non numerosa. Avendoli Corobio
guidati a quest'isola di Platea, vi lasciarono Corobio con cibi per
alquanti mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i Terei
intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del convenuto, a Corobio venne
meno ogni cosa. In sèguito una nave Samia, di cui era nocchiero Coleo,
diretta in Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I Samii
appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi per un anno. I Cirenei
e i Terei strinsero a partir da quel fatto grande amicizia coi Samii. I
Terei che avevan lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera annunziarono
d'aver occupata un'isola di fronte alla Libia. Ai Terei piacque
d'inviarvi il fratello sorteggiato in gara col fratello e uomini da tutti
i distretti che erano sette : a loro preposero condottiero e re
Batto. Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea (1).
Questo racconto riesce notevole anche perché vi è taciuta con arte
la balbuzie di Batto senza che al consulto dell'oracolo si sostituisca
altro preciso motivo; e perché vi appare la volontà di attribuire,
oltre che ai Terei anche ai Cretesi e ai Samii qualche parte nella
colonizzazione della Libia. Volontà, la quale risponde, evidentemente, a
una tendenza politica tarda: a giustificar le relazioni e di commercio e
d'altro fra lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora a
xDunto questo facile rilievo addita il luogo Cfr. Eeodoto. Il brano che
riguarda l'ulteriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al nostro
mito. Edizione Hude (Oxford)] onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli
fu verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano, come si dice,
due focolari mitici : l'uno dei primi coloni, l'altro dei secondi venuti
sotto il re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo e avevan
quindi desiderio di giustificar con il mito non pure il regno dei
Battiadi ma anche la loro politica, raccolse la narrazione tradotta
pur ora. Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re e i loro
predecessori attinse un'altra fiaba. La quale non è se non questa
medesima ove Aristotele del LIZIO sia divenuto e balbuziente e bastardo,
e i coloni Terei appajano pochi di numero e cacciati dall'isola per opera
dei lor proprii concittadini. E poiché Creta, per la sua stessa positm-a
geografica fra Tera e la Libia, non poteva facilmente esser soppressa nel
racconto, ne fu tratto con accortezza profitto per far aiDparire
anche di impura discendenza il primo colono Batto. Cosi: Vi è
a Creta una città Gasso nella quale era re Etearco; che, avendo una
figlia orfana, a nome Frònime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in
casa, volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime,
procacciandole danni e macchinando ogni male contro di essa. Alla fine
calunniatala d'insana lascivia persuase il marito che le cose stavano
cosi. Questi indotto dalla moglie concepì un piano infame contro la
figlia. Vi era infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone. II
sostrato storico. Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giurare
che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse. Quando quegli ebbe
giurato, gli consegnò la figlia sua propria e gl'ingiunse di condurla via
e d'immergerla nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno
del giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese la
fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare, adempiendo il giuramento
di Etearco, la legò con funi e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e
si recò a Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece
Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque ad essa un figlio
balbo e di sbilenca voce, cui fu posto il nome di Batto... [A Batto la
Pizia interrogata d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar
la Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un secondo
comando inviarono i Terei Batto con due navi pentecòntori]. Navigando
verso la Libia costoro non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a
Tera. Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che si
avvicinassero alla spiaggia; ordinarono invece di navigare indietro. Essi,
costretti, navigarono indietro, e occuparono l'isola che giace sopra la
Libia, la quale, come fu detto, si chiama Platea. Ma se tal
versione della fiaba aveva il preciso scopo di sminuire i Battiadi, anche
l'altra non serbava più in Erodoto la intima e possente vigoria
pindarica. C'è una troppo spessa pàtina di comune e piatta concretezza
umana, su questa leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la Erodoto. Sono
omesse le considerazioni personali di Erodoto sul nome Batto. loro
statura; le voci, abbassato il tono; i gesti, ristretta l'ampiezza; fin
l'oracolo delfico ha rimesso della sua dignità religiosa, un poco a
pena, e a stento riesce a dargli valore di venerando il sèguito delle sventure
che puniscono la trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol
esser storia con esagerata pretesa: ne ingoffisce ed ingaglioffa
alquanto. E in quell'aspetto della sua evoluzione che permette la esegesi
degli eruditi o la prepara o quasi l'attende. Gruardando ora a
distanza questa tradizione dei Battiadi, se ne distinguono ben chiare
e rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide, di cui con pari
insistenza Pindaro ed Erodoto ripetono l'opera importante nell'impingere
i coloni; Eufemo, capostipite della casata e compagno di Giasone ; Euripilo
infine, nume indigete d'una grotta libica, simbolo, in sembianza
d'uomo e con valore divino, della pili antica vita africana anteriore ai
Greci, strumento per ciò eletto dai Fati a preparare dei Greci l'avvento.
Ma Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di Aristeo, aveva
condotto Cirene dalla Tessaglia in Libia. Euripilo è il nome stesso che
ritorna in Callimaco come d'un re da cui la Signora delle belve ha
il trono. Si profila dunque ora compiuta tutta l'ossatura di questa
compagine mitica. Due Eee stanno a fronte : di Cirene e
Aristeo, luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il contenuto e diversa
leggenda elaborano: della Ninfa, la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma
comuni sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la origine
delfica. Simili dunque e differenti. In forza della lor dissimiglianza
restano in più d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo
tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi tessalico; l'Eea di
Eufemo raggiunge, dall'altro, la maggior sua umana pianezza; senza che
si formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza della loro
simiglianza giungono per diversa via, in uno stadio della lor vicenda, a
compenetrarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nell'altra, da Eufemo si
trasporta a Cirene; e la Ninfa della fontana j)assa a proteggere
(insieme con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle libiche,
la lottatrice solitaria si circonda d'un popolo. Unici restano distinti,
di qua e di là, Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due Eee. Nel
centro, punto del contatto, il carme di Callimaco. All'un fianco, di
Pindaro la Pitia e VIRGILIO (si veda); all'altro, Erodoto e la Pitia
quarta. Lo schema di cotesta evoluzione mitologica è dunque
complesso come un quadro genealogico. E per vero le singole forme della
saga son congiunte da intime attinenze di derivazion vicendevole;
alle quali tutte predomina il nesso fra la Cirenaica e Delfi, nesso che
di tanto vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi
capostipite, la origine prima. Il mito è miracolo. L'occliio
vede il chicco di grano scender fra le zolle, il Sole sparire nel mare,
la luce vincer le tenebre: vede piccole cose ed esigui spettacoli che
appena lo affaticano lo abbagliano lo trattengono, e che UN NULLA BASTA A
SIGNIFICARE. Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza nuova, una
maraviglia ingenua, un acume creato di verginità animatrice, fuor dal
mondo reale il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano la lor
concretezza in trasparenza, sfumano i [In questo capitolo gli esempii
addotti son desunti dai precedenti capp. Ma ci dispenseremo dalle
continue citazioni.] loro contorni in nuove linee: si tramutano in una
specie nuova. Il Sole che tramonta nel mare era il mondo esteriore, vivo
della sua vita secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il
mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il miracolo si è già
compiuto: restio ad analisi nella sua complessa essenza ed inesauribile
ricchezza: figlio del mistero, perché nato da una energia la quale tanto
meglio si cela, quanto più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filosofo,
riflesso dell'età tarde (1), indaga l'opera mirabile, ne scevera taluni
elementi : il più, il fondo vero, il miracolo dello spirito transfigurante,
si perde fra le sue dita incerte. Quindi, il mito solare è di origine
oscura come le vicende, che narra, dell'Astro. E il mito del seme è misterioso
nel suo principio come la fecondazione della gleba. Per ciò
la saga naturalistica vibra tutta d'un afflato lirico. E il canto
dell'anima umana nell'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere
con suggello suo proprio quel che i sensi avvertono. Contiene quasi un ebro
balzar ferigno dall' interno all' esterno ; e pur racchiude insieme un'
illuminata elaborazione intima, un assorbimento dell'esterno nell'interno.
Esulta nello scoprir la natura, e le dà un nome e la umanizza. Cfr. p. e.
la teoria dell'illusione presso Steinthal Einleitung in die Psychologie
und SPRACHWISSENSCHAFT; e quella dell'appercezione (impressione,
associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsychologie (Leipzig) per
avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha segnato diritto il suo
solco, obbedendo al secreto istinto geometrico della stirpe e imponendo
alla Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto con atto
analogo colui che armerà di clava, per assomigliarlo agli umani, il Sole
vittorioso contro il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il
miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta la razza, le dà la sua
anima come una divina coppa cui tutti e attingano e contribuiscano;
è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il prorompente grido della
vittoria, conseguita sopra la sensibile natura dallo spirito scosso
fin nelle radici profonde; è il mortale che, calcando la terra, volge
in breve giro il suo braccio, in più ampio, e pur ristretto, orizzonte il
suo sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'universo dei suoi sensi “ti
capisco.” La malinconia dello scienziato moderno che sa di non
poter dare alla forza ignota, o mal palese in talune forme, che un
nome, e non crede d'aver capito l'essenza quando ha vestito d'un aspetto
umano il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha scoperto tra la
luce e l'uomo un nesso, tra il cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo,
sente, trionfando di felice ignoranza, che ha, allora solo, veduto la
luce il cielo ed il mare. Ma lo spirito umano, nell'atto di
travestir di sé il mare ed il cielo, di foggiar volti all'arcobaleno e
alla fiamma ed alla spiga, e di scorgere nella vicenda delle stagioni un
fatto come civile, non va però si oltre in questo suo bello errore,
da non serbar, della forza immane rivelata da quei fenomeni, del mistero
per cui avvengono e sono ref rattarii all'intervento nostro, traccia
alcuna; né, per serbarla, trova modo più efficace che trasportare il
tutto in una sfera più che la consueta possente e a cui esso
medesimo soggiace. Cosi il mito naturalistico si svolge su la scena
del divino. E il fenomeno mitologico s'intreccia e si compone con il
fenomeno religioso, seguendo con questo una simigliante evoluzione dal
naturismo all'animismo al personismo, per la quale si complica si allarga
si condensa, e giunge ad acquisire diversa bellezza perdendo
l'originaria trasparenza. Si che nel principio ogni mito della natura è
un racconto intorno ad un nume; e sia pur rozzo il racconto e rozzo
il nume. La creazione della saga, adunque, somiglia per tre aspetti
a tre diversi ordini di elaborazion spirituale : perché infonde la vita a
individui che la fantasia par animare di un soffio e la realtà foggiar
a sua sembianza, è analoga all'opera dell'arte ; perché finge i motivi dei
fenomeni e quasi li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben
destro, è affine ai procedimenti scientifici che insegnano le cause dei
fatti ; perché, da ultimo, induce l'animo a reverenza d'un potere più
largo più alto, or solo più forte or anche più buono, rasenta
l'intuito di Dio e il senso religioso. Non può, tuttavia, identificarsi con
alcuno fra quei tre ordini disparati. Anche quello con cui sembra
meglio coincidere è per vero disforme: l'opera dell'arte non è
accompagnata dalla coscienza di certezza e di apprendimento che è
(vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi seguita, come la fiaba, da una
tradizione di rispetto, per cui venga riprodotta e amata traverso
le succedentisi geniture. La fede mistica per contro, quando sente
la divinità vivere e spirare, e la vede risplendere, non si menoma in
individuazioni personificate e denominate, si più tosto in formule ove
all'Essere è congiunto l'attributo. Dalla scienza che mira alle leggi
generali su dai fatti specifici, che raggruppa in classi, riordina in
ischemi, è necessario dir lontanissima la saga? la quale dal singolo
fenomeno trae la sua materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole
farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme scender fra le zolle ; e
soltanto tardi scopre le ripetizioni delle apparenze e le identità fondamentali;
ed è già matura quando narra Cora ritornar ogni anno, con sorte alterna,
alla madre e al marito. Anzi, lungo ciascuno di quei tre ordini lo
spirito si evolve in guisa indipendente; fin che da l'una delle tre mete
sopravviene a deformare o incrinare o addirittura distruggere il
processo mitologico. Quanto l'artista, e specie il letterario, violi con
la sua indomabile licenza la primordial purezza della favola è in
queste pagine segnato con studio. Né qui si tace come anche la
religione scavi alacre nella polpa stessa del mito, fin nel ricettacolo
della sua virtù riposta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle scaturigini
prime. Ma, violento senza pietà, lo scienziato non erige ove non abbia
prima distrutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in pari tempo la
saga. Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che cos'è dunque
il mito? Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfacimento
pseudo-scientifico non è essenziale quanto il resto, ma un poco estraneo.
Forse, dopo aver pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la
specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo torvo e mostruoso, il
pensiero, poveramente critico, si appaga della rappresentazione come di
causa; ed è quella medesima che stimola un senso rudimentale di questa: o
forse, è il contrario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e per
spiegarsi le forze naturali le plasma umanamente e umanamente le fa vivere.
Certo, negli inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di sé
stesso : ma incerto rimane se la ricerca della causa preceda o segua la
trasfigurazione, la determini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si avverano
entrambi i casi, cbé la fragile mente or si chiede, dinanzi al sorgere
della Luna dal mare, perché?; ora con spontaneo moto traveste in
fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque, sia certo l'un modo, o
sia sicuro l'altro, il mito serba il nucleo più vero, là dove è il suo
secreto, intatto dalla pseudo-scienza. Accade un temporale; e un altro; e
un terzo; molti: diversi sx)iriti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si
dimandano il motivo dello scompiglio dei bagliori dei tuoni; ognuno, per
contro, crea una favola differente; a tutti (supponiamo) la favola
creata è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità dell'impulso
iniziale o, se cosi vuol credersi, dell'effetto ultimo iDermane
contradittoria alla varietà delle creature mitologiche. Queste, superando
sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate da una congenita forza eh' è
propria, splendenti d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro.
Più tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii temporali e
si adduce la falsa causa comune; ma allora la saga non deve nascere, si
trasforma in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo clie la
integra, raggiunge una taiDpa del suo evolversi: dall'esterno dunque si
muove questo ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora rapita
sotterra e riapparsa in terra si compie poi del giudizio di Zeus e del
ritorno periodico ; ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine
scientifica non si maturi cosi da non poter più arrotondare la fiaba, ma
da doverla oppugnare e distruggere. Né anche Tintuizione religiosa
però dev'essere senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,
difatti, estremamente varia e vasta; trascendendo la natura e le sue forze, si
nutre anche d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è più
specialmente umano. I primitivi avvertono Dio nella famiglia, e onorano
di culto la dea Madre e il dio Padre; lo sospettano o persin lo
affermano nell'individuo che più sa e più intende, onde inchinano il
Vate. E pure ammesso che primieramente la divinità appaja traverso
la luce del Sole e il risucchio del mare, non si dimentichi che, in quei
casi, l'uomo primevo si pone in contatto con la sovrapotente forza
della Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che, ciò è, egli si
trova in un primo stadio della sua evoluzione religiosa, oltre il quale
deve progredire ed entro il quale non intuisce, a dir vero, se non se la
sola Natura; che, quindi, il mito coincide con il senso di Dio, ma con un
aspetto un momento, transitorii e insufficienti, di quel senso. E
allora è più esatto affermare, la saga contener l'intuito della possanza
naturale rivelata nel fenomeno. Da ultimo, molta luce viene anche
dall'analisi di quelle che dicemmo trasformazioni e individuazioni artistiche:
il vecchio re che cade dal suo trono e cui succede il figlio; la
donna che le rapiscono la figlia per nozze; il duello fra Perseo e
Fineo. Qui sono i tipi dell'esperienza consueta; qui accennano le figure
che jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani di nuovo; i
casi, di cui ha acquistato l'abito il suo pensiero. Le forme della
consuetudine sociale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla fantasia
come una veste indistruttibile. E somigliano ai mezzi espressivi della tecnica
che ogni artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi le
vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha l'esercizio della creta
plasmanda; è sicuro del proprio pollice ; la mano gli vale una certezza
: si che traverso questo possesso egli vede la statua e foggia la
statua. Il poeta sa giacente nel suo scrigno celato la materia ambrata
del Verbo e la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e mezzo
all'imaginare. Il facitor del mito aveva limiti non varcabili alla sua
ricchezza: le parole eran acconce a dire le vicende sociali e a descriver
le forme umane ; la vita arborea non possedeva moto se non per braccia, e
il suo principio non era da esprimersi se non con l'imagine dell'uomo ;
sola la umanità si possedeva dall'interno, immersi in lei; la Natura si
affrontava dall'esterno: a questa quella unica poteva per tanto
fornire linee e procacciar significazioni. Il l'intuiziqne mitica Sole è
lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi; come narrarlo? E un re. Il
seme cresce nella spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è
diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso dall'occliio che lo vede:
come narrarlo? E la creatura tolta alla madre. In progresso di
tempo l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso apparente
del Sole e il trapasso del chicco; non li ha trovati allora. Allora serve
per la Natura l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione
naturalistica. E l'analogia (non identità, si badi) è i3rofonda; come
quella che si regge anche su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra
le diverse intuizioni artistiche e le rispettive tecniche, quanto fra il
fenomeno naturale e le forme umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di
reciprocità, si che queste par violino bensi quello, ma par insieme che
il primo esiga senza scampo il sussidio di tal violazione. Parvenze
entrambe vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Accade quindi che
si possa decidere dell'epoca in cui una saga fu da principio narrata, per
ciò solo, che gli elementi umani e i dati dell'esperienza sociale sono,
nel groppo originario, scarsi o abondevoli. E accadde per converso che
taluni fenomeni non determinassero la loro leggenda, se non quando
li potè assalire e trascolorare una copia maggiore di consuetudini nostre.
Si pensi. Perseo contro la belva ed Ercole contro Caco sono analoghe
manifestazioni dell'urto fra luce tenebra ; ma quella non presuppone che
l'uomo, la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece 3ontiene
già l'uso della mandra, la proprietà, e costume dell'abigeato. Si pensi,
anche: le vicende agresti del seme e della spiga non divengono vicende, o siano
trama narrativa, che a patto di convertirsi in rito nuziale;
anteriormente non esistono, clié non sono intuibili. Come (continua
l'analogia) non esiste per me, ignaro di plastica, la posa statuaria, che
gli occhi vedono senza il consenso dello spirito seguace. Analogia, non
identità. Che il divario è tosto sensibile, non a pena si rifletta alla
rispondenza che è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla
ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale. Le tecniche non esistono
che per l'arti, ne costituiscono la preparazione voluta, né servono ad
altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove che nell'arti. Il
loro progredire è verso un affinamento che permetta di sottoporre sempre
più e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso artistico. E il
loro affinamento esalta sempre più e sempre meglio le arti; non le nega
non le distrugge già mai. La storia della mitologia per contro attesta,
nelle sue pagine severe, che, come sia salita a più grosso valore la
somma delle esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono)
traverso cui il fenomeno della Natura passa trasfigurandosi, incontanente
questo legame s'infrange, si che a due poli estremi la vita sociale e gii
spettacoli naturali si esprimono con indipendenza. L'accresciutasi esperienza
ha tocche le discrepanze superando le affinità; e la perizia
esercitatasi martella, per le discrepanze, fogge diverse da le dicevoli
per le affinità. Si dichiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è una
visione manchevole del mondo esteriore all'uomo, limitata alle crasse sue
simiglianze co^ i jH mondo interiore all'uomo.
Nel mito è, per converso, una vision manclievole di questo ultimo mondo,
ignara del suo contrapposto con quel primo. Quindi fra l'uno e l'altro di
essi un rapporto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla doppia
manchevolezza. Ma perché le due insufiicienti visioni sono le uniche per ora
acquisite, e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul
fondamento delle crasse analogie, il rapporto dev'essere ed è, anche,
necessario e indispensabile; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.
Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un detei'minato
avvenimento naturale intuito come forza so"VT.'apotente e veduto a
traverso l'umano in una mischianza che li deforma entrambi:
come forza sovrapotente e divina; indi il rispetto della tradizione
letteraria, l'onore del culto, e il pregio di motivazione
scientifica; in una mischianza che li deforma entrambi; indi la fine
della mitopeja con l'eccesso della deformazione e l'imxDOssibilità della mischianza.
Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde la morte, sarà detto
appresso. Scaturita, la mitopeja si moltiplica multiformemente e si altera
evolvendosi. Ma immutati Questo nostro risultato storico intorno al mito
contraddice CROCE (si veda) (VICO (si veda)) per cui il mito è
un universale fantastico restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni
e di creazioni, i modi e i mezzi della manifestazione mitica. La quale
quindi è necessario precisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul
viver e sul morire mitopeico. Poi che il fenomeno della Natura dovette,
per affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati d'esser
contemplato come l'umano, in tutti i rispetti; ciò è: quale linea, volume,
colore, moto psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella materia,
dipinto su le tavole, narrato con parole. Poi che d'altra parte il
fenomeno della Natura rimase luminoso della magnificenza divina, richiese
di penetrare nei culti e nei riti in cui ai Numi offrono i terreni
l'olocausto dei loro puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi
categorie espressive; e su i caratteri di ciascuna in generale non è qui
da far cenno, che ne trattano apposite discipline. Qui basta notare come
sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due agl'incunaboli della saga; la
quale quindi le trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua
vitalità impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la crosta
terrestre e scorrendo in lava, ebbe apparecchiati i canali al suo corso
ardente. Che anzi non si sarebbe né meno levato in un respiro
immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte al suo sfogo. Or è certo
che dopo la nascita fu dalla mitopeja tentato di continuo
l'allargamento di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di
svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi verbale, scultorio,
pittorico, religioso. Ma falli, se mai avvenne, ogni prova d'acquistare
alla saga quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora
del ritò LE MANIFESTAZIONI MITICHE primo suo crearsi, e attuali
divennero solo più tardi. IL TERMINE FILOSOFICO, la parola
scientifica (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come si
respingono sostanze non consentanee. E in un dialogo di Platone la fiaba
fu racconto anche se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione: l'astrazione
riuscendo espressa, sia pure inadeguatamente, dalla fiaba; mai questa da
quella, in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i frontoni
d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il ventre d'un' anfora, il tergo di
uno specchio: qui la saga si foggia a rivelare or l'una or l'altra delle
sue congenite potenze, senza dissonare. L'arte. E quello, in cui la
antichissima intuizione della Natura esala uno dei suoi profumi pili
reconditi, e non tra i meno intensi : il culto. Il mito può
esser nel culto. AUor quando su l'Ara massima si sacrificano tori
ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del dio contro il ladrone Caco.
Persino nelle feste di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo
della saga, se non certo, è possibile ; è in parte sottinteso nelle menti
dei fedeli. In Enna non si venera Demetra senza ripetere il ratto
di Cora e, molto più, senza affigurarlo concretamente. Nelle feste
cirenaiche di Apollo Carneo le danze trovan riscontro con i leggendarii
balli dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia. Le forme però di
questa interferenza fra culto e saga sono varie. Nella più tipica, e ad
un tempo più semplice, il gesto del rito ripete la vicenda mitica.
Il cocchio trainato da cavalli bianchi, tra il popolo e i sacerdoti
adunati a Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta alla
Madre; e pretende di fingerla nel luogo istesso ove l'anagoge avvenne. Il
medesimo è del ratto. E ad Eleusi si mostrava la pietra del pianto
che aveva parte non piccola nel culto e su cui Demetra si sarebbe seduta
nel cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo. Ma nessuno di
cotesti esempii è tanto significativo, quanto il dramma greco nel suo
contenuto mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione è cosi
moderna e lo spirito maturo cosi largamente innova, è andato perduto il
carattere peculiare della tragedia o s'è cancellato il segno delle
attinenze antiche fra il lavoro letterario e il culto sacro. Per le
quali, in fondo, il dramma appariva quasi la ripetizione gestita del
mito, il mito riprodotto attorno ad un altare, da persone che ne
affiguravano gli eroi, in vicende che ne rendeno la trama. Appariva, in
somma, una specie di culto in cui il rispetto religioso era ben
presente, ben si sentiva l'ambrosia dei numi; e tuttavia l'azione e il
gesto awiavansi a prendere il sopravvento. Appariva un culto
modellato sul mito. Questa però, se è la più tipica interferenza
tra i due fenomeni umani, perché in essa la saga offre al rituale i
modi i tempi e i luoghi, non è la sola né forse la più consueta. Un'altra
è frequentissima: per cui avviene appunto il contrario. Nel culto, molti
fra gli atti obbligatorii Pindaro Olimpica e lo scolio. e
tradizionali si riportano, idìiì che ad un determinato racconto leggendario
intorno al dio che si venera, agli attributi di quel dio alle sue
mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si invocano in circostanze
favorevoli, si supplicano benigne; o vero si irrogano lontane, si
distornano con offerte e con formule ritenute idonee. Vi hanno
inoltre, pure estranei al mito, atti religiosi sorti in momenti diversi, per caso,
per coincidenze fortuite, per iniziative, anche intenzionate, di
sacerdoti e di governatori. Si danno infine templi e altari elevati,
fuori di un certo mito, per un nume cui il mito fu collegato lDÌd
tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario che esistette innanzi
all'avvento del Tirinzio nella saga di Caco. Ora, tal complesso
cultuale, che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza
contiguo al racconto leggendario, non ne dura a lungo estraneo, ma
finisce col penetrarvi e costituirvi un capitolo interpolato. E questa
la massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a Deìnefra, e che
rinvenimmo a proposito dell'abigeato del ladrone latino. Sempre, in
questi esempii, il contesto narrativo si amplia a vantaggio e ad
interesse della realtà religiosa : fenomeno che attinse il suo vertice in quei
casi, ma non ne appajono in questo scritto, che tutta quanta la
leggenda nasce dal rito. Ebbene. Nella prima delle due interferenze
notate, troviamo la leggenda esprimersi per mezzo del culto. Nella
seconda, il modo opposto. Fra le due non difettano attinenze; né è difficile
decidere intorno alla priorità. I miti etiologici che scaturiscono
dall'esercizio religioso sono senza dubbio, al pari degli etimologici,
alquanto più tardi degli spontanei miti naturalistici e per solito,
a differenza di questi, tristanzuoli. Anche, la prima interferenza
intacca e interessa intiera la leggenda: onde il culto di Demetra
investe tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico tutta la saga
di Andromeda; laddove la seconda interferenza presuppone la leggenda,
l'adotta, non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi, la
diversità non è tanto profonda quanto parrebbe. In entrambi i casi, difatti,
dura un'antitesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito sussiste sempre
qualcosa, che non affluisce al culto, ma lo prepara, lo motiva; permane
un che di non riducibile: fra una scena e l'altra del rituale, fra
un episodio e l'altro del dramma, qualcosa è sottinteso, alcuni
avvenimenti son accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze,
ma si riferiscono a un diverso contesto: nell'intervallo fra il sacrifizio a
Giove Inventore e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve
narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i Pinarii, e quanto è
poscia scritto: nel mezzo tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio
di Zeus insieme con l'altre vicende : prima che Perseo appaja ad
Andromeda avvinta su la rupe e agli spettatori stupefatti, egli ha
compiuto delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ; il che
si deve dire, come in postilla, ma non appartiene più al dramma sacro,
bensi risale al mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni
tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni punti; ma si integra poi
con interstizii d'ombra o con premesse a pena accennate o con parentesi
suppletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi sulla impotenza
espressiva del mito rispetto al culto ; la quale è però fatta più tosto
di abbondanza, ijerché quello per solito trascende questo; consta
tuttavia anche di debolezza. L'avventura mitica di Cirene, invero,
traduce assai poco del culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie
eleusinie 0, in genere, greche in onore di Demetra non sono a
sufficienza chiarite dal solo ratto di Persefone, si debbono venir comentate
col sussidio e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea
spettano in testi estranei a quella saga. Qui, come altrove, il culto
traspare nella leggenda, ma per uno spiraglio solamente. Il
fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico non sono dunque idonei a
esprimersi l'un l'altro. Ciò può sembrare da prima strano, da poi
che si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano invece cessa
di essere, quando si ponga mente (che si disse pure poc'anzi) alla
distinta natura di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con
lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'affinarsi della sensibilità
mistica, cosi che molto si modifica, e si perfeziona di disinteresse, coll'evolversi
del concetto di Dio; l'altro per contro nasce da un'intuizione della
natura che deve permanere durabile, e vive nel suo profondo di vita
indipendente dalla religiosa. Due rami, dunque, bensì dello stesso
tronco; ma rami diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non
accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la costanza dell'incontro
nei casi diversi ; ma per due motivi. 1^ Ci è ben noto, per
l'anteriore discorso, il carattere scientifico che assume la saga o già
prima del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo qual
spiegazione del fenomeno essa tradisce tosto un aspetto di utilità
pratica ch'è quanto mai confacente alle menti primitive (né solo a
quelle). Se il fulmine è la clava immane che un Dio a volto d'uomo
brandisce e agita con braccio più che d'uomo possente, se ne
stornerà la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al Nume dal
cuore d'uomo : venerandolo di offerte, in culto. E della spiga granita,
della messe coj)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori
l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune suona il tripudio, come
comune il lutto per il rapimento: a lusinga, i mortali secondan
pianto e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca, si
appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle nebbie rosate e si converte
nell'egoismo quotidiano, ch'è il pane, il benessere, la vita. Ma l'altro
motivo per cui culto e mito interferiscono sta nella concretezza plastica, che
è di talune cerimonie del culto, e che le assempra all'opera dello
statuario, ossia le avvicina all'arte. Quando di fatti la parola narra
Demetra trasmigrante per le terre con due fiaccole accese su
l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la figura dei sacerdoti agitanti
le tede nelle cerimonie di Eleusi. E quando il ketos apparisse vorace e
si apprestasse alla vettovaglia umana, riescirebbe a rendere nell'atto la
forza conchiusa del racconto. Il paludamento ed il gesto corrispondono
all'elezione e alla disposizione verbale. Ma non vi rispondono a pieno; e
costituiscono anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un volto
contratto nell'angoscia sottintende ma non significa il dolore medesimo
che il poeta piange nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito
crea nella carne vivente la divina maschera di Laocoonte (BELVEDERE).
Per tanto, non pure mito e culto non si sovrappongono del tutto; ma,
anche là dove pajono coincidere, il culto risulta una imperfetta
espressione del mito. Accanto alla quale perdura sempre, e per integrarla
nella quantità e per elevarla nella qualità, la forma primaria e più acconcia: l'arte.
Onde, nel fatto, all'arte aspirano, quasi a compimento ed abbellimento,
le varie forme del culto, come i minerali alle fogge cristalline. E la
statua, il dipinto, il rilievo, insieme con la poesia, emergono, fiori di
alto stelo, su da quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti e
il disadorno ricordo delle generazioni. Tuttavia nell'arte stessa il mito
trova diversa efficienza di espressione. Il vasajo, che affigura la saga
di Andromeda su la materia tornita e preparata alle vernici, si ripete,
traverso la serie dei suoi modelli, ad un'antica forma del racconto
caduta già in oblio nella letteratura ; ed è, solo, sufficiente per indurci
a costruire quella forma, di cui altre tracce non sono rimaste. Ma
sarebbe anche in questo specialissimo caso ardimento soverchio asserire indipendente
l'opera dei colori di lui. Giacché, in tanto lo comprendiamo, e in tanto
ci serve a simboleggiare un intero strato mitico, in quanto la
letteratura possiede gli strati posteriori. Ci fa risalire a una
narrazione ; non ce la narra, per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades
e Persefone seggano sul trono tenendo fra le dita tre spighe,
richiama le nostre cognizioni sul ratto della fanciulla, le conferma; ma
non ce le fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le
esigenze ineluttabili della scultura e pittura. Non possono essere
indipendenti dal racconto parlato quelle arti che non debbono né fermare
l'istante né descrivere il moto. Il momento è la loro misura, ai due
estremi della quale sono invarcabili colonne d'Ercole. L'accenno è il
loro mezzo per rendere una vicenda, per fìngere il moto nella
statica. E né meno costituendo in serie i lor prodotti riescono a
rendersi autonome dalla forma letteraria; che una Via Crucis raffigurata
da un genio non è se non mirabile chiosa agli Evangeli. Non pure,
adunque, il mito è fenomeno, nella sua espressione, a preferenza
artistico; ma anche è precipuamente letterario. La letteratura sola ha
il vantaggio di esprimerlo intiero, di insegnarcelo se l'ignoriamo,
di non abbisognare né di compimenti né di premesse. Cotesto privilegio
però non s'intende tutto, che prescindendo da alquante restrizioni.
Bisogna, in primo luogo, ricordare che il patrimonio delle lettere
antiche ci giunse i guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che,
contro la conchiusione recente, nasce dal ricordo Annali dell'Istituto tav.
Su i rapporti fra arte e letteratura mitopoetica scrisse belle pagine C.
Robert BUd und Lied (Philologische Untersuchungen, Berlin. dell'esame
condotto intorno a quattro notevoli miti. Si comprende difatti allora
che, se le epopee omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser pervenute
nella loro opulenza, il sussidio dell'arte plastica alla Storia sarebbe
ben diverso: non cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia
basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini onde è concbiuso il
concetto di letteratura: non fermando l'occliio pure alla forma eletta,
alla ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma comprendendo
nel vocabolo anche le manifestazioni più povere e grame, il racconto d'un
antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la favola ciarlata fra i
fedeli. Perché, se si considera nella sua ampiezza tutta questa
saliente marea, che si diparte da bassissimi fondi ed espugna ben
erte rupi, pervasa da un assiduo moto di ascesa, insito nell'intimo o
sospeso su le forme come una legge fatale; se si scorge il fremito
creativo trascorrere in corsi e ricorsi da Pindaro all'atleta, da
l'atleta a VIRGILIO (si veda), da l'umile all'eccelso, toccare le donne
di Siracusa e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca di
Diodoro e la corte imperiale di Roma, pervadere l'abitante dell'Aventino e
l'Annalista dell'età travagliose: si appalesa a pieno il dominio,
indipendente e incomparabile, che sul Mito possiede la Parola.
Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime su l'intuizione, se non
in una sintesi, che è sempre originale, com'è sempre imprevedibile prima
del suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo. E un castone
che costringe il diamante ora a smussare una punta ora ad arrotondare uno
spi- f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto e parlato,
ne è una forma nuova che non si può ridurre, senza violenza o astrazione,
a un'altra. In questo, l'arte figurata e il culto, a parte la loro
incompiutezza che si vide, somigliano alla letteratura; ma, anche in
questo, le restano addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e
l'altro, non appena possedutala, una certa forma e una certa versione
d'una saga incidendola per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove
la parola ha una sua duttile mobilità, una sua invitta energia
innovatrice, che si tradiscono nelle sfumature; fino a che l'imitatore,
inconsaj)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si dilunga intorno a Caco
dall'Eneide, della quale vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia
d'una cosi fatta attività di dominio, come distingue tra loro le
forme dell'arte, cosi gradua le specie letterarie medesime, ed è il
criterio del loro pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al
poppante innova bensì, che non s'evita; ma per vero minimamente, a
confronto dello storico e del poeta: l'angolo del prisma è troppo
esiguo, al paragone, e la luce ne devia cosi poco che si trascura.
La personalità della parola è quella di chi narra ; non si annienta mai,
ma o si strema; o si invigorisce: e il mito ne riceve più o meno
] individuate le sue forme. Onde è lecita per comodo di ricerca, se non
esattissima in tutto, la distinzione in due grandi categorie, separate
per; una diversa potenza creativa, dei contesti verbali in cui la fiaba
si esprime: nell'una stanno gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i
vigorosi: fecondatori. Senza traccia, come senza nome e senza
gloria, rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori menni. Non
dispregevoli né pur essi, clie sono la gleba rude, disprezzata ma
indispensabile, senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ripete. Sono
del resto costoro, nella lor supinità passiva, cosi tenaci nel rispettare
per manco di fantasia le fogge tradizionali, come utili a vagliar le
innovazioni, che, diffidando, non accettano se non quando una forza geniale le
imponga, e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col
ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spettatori, dinanzi a cui i tragedi
vedevano agitarsi le sorti delle loro creature, e che si serbavan
fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la selezione e si conserva
la vita. Cosi che quando non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra
il popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben morta, s'anche
l'arte ne tenti con tocco divino la resurrezione. Le radici sono
inaridite. Ma non possono d'altra parte raccogliersi in un solo
tutto i fecondatori del mito: che la energia mitica non è semx)re la
bellezza. Tal volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un
creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che ordisce; esiste il
mitopoeta che contesse ad arazzo. Verità di non poca importanza,
come quella che serve a spiegare, perché il mito duri e s'evolva
anche durante periodi in cui l'arte si tace, o compia anteriormente
all'arte uno sviluppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei carmi
perduti, ritorna nel nostro, pensiero la trasformazione profonda subita
dalla fiaba aria j)i"esso i Grreci prima di vestirsi nell’lnno a Ermes di
begli esametri omerici: o pmi'e il comporsi della saga siracusana di Demetra
avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né senza traccia è rimasta, come
senza nome d'individui, l'opera di cotesti facitori non artisti o, per
dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi. Ai nomi delle persone,
clie mancano e non varrebbero, possiamo sostituire quelli dei centri onde
il moto di elaborazione mosse e si propagò: quali Delfi per la saga
cirenaica, lo spazzo del Foro Boario per il furto di Caco, Argo per
le imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa messe, tra cui
raro langue il ciano e il papavero, e su cui ci vien fatto di gittare obliquo
lo sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di VIRGILIO (si veda) il
racconto di Ferecide. In generale, per conseguenza, la mitopoetica
vigoreggia come un progresso rispetto alla mitologia (1). E tale asserzione
è sempre vera, se intesa a dovere: perocché il progresso può essere istantaneo
e compiersi nell'attimo medesimo della innovazione, ma né pui^e allora
manca. Non sappiamo se l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il
lavoro mitologico di un predecessore o crei esso medesimo la saga che
contamina le pretese dei Battiadi con la spedizione degli Argonauti
al lago Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la Per chiarezza:
mitopeja dico la complessiva elaborazione mitica (letteraria, artistica,
cultuale). Fra l'elaborazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mitologica
dalla mitopoetica che sola ha pregio estetico. verità elude con
volti ambigui i nostri occki incerti. Ma se, come si ritiene meglio
probabile, la contaminazione balza insieme con il ritmo dallo
spirito di lui, è segno che, per fortunata sorte, il gusto estetico
coincidette con la vigoria generatrice. E il caso è, in Grecia
specialmente, non raro; ed è ben motivato dalle premesse nostre.
Quando, difatti, il mitologo preferecideo raccolga in un racconto su
Perseo il mito tessalo e il peloponnesiaco, e li fonda con gli
elementi jonici, che si dissero sopra, stringe membra prima
incoerenti in tale organismo d'intuizione unitaria, che è del tutto
normale, se egli stesso riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer
quello col verso; se appaja egli stesso anche mitopoeta. Sa vedere di
più, e sa dire meglio, che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che
sembrerebbe quasi insolita la contingenza, in cui al più dell'intuizione
non rispondesse il meglio dell'espressione. Insolita certo; ma assai
meno che non sembri, a causa dell'indole propria di ; talune stirpi
e della natura speciale di certe in[novazioni mitiche. Nel fatto, TRA I ROMANI è
[facilissimo che una fiaba si innovi appresso un [arido annalista e che
quindi scada dal carme )opolare allo schema di un rozzo diario:
tale [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco [allorché,
forse, un greco v'introdusse, per con[•asto etimologico, Evandro la prima
volta, pur [senza avere alcun intento, si badi, di rasionalismo. E,
ancora tra i Romani, è probabile 3he il capitolo delle etiologie inerenti
al culto [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda in una
forma regrediente, che non attingeva alcun pregio artistico. Tuttavia
lasciando un necessario margine a simili casi, per solito si varca d'un
salto dalla medesima mente il varco che intercede, non ampio e non breve,
fra la innovazione mitica e la procreazione d'un'opera
d'arte. Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o per maturità
conseguita nel tempo, e attinto il vertice più bello, si apre una serie
nuova d'innovazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle mitologiche.
Ma un facile criterio le distingue senza possibile equivoco. Le une hanno
un fine che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da esigenze
che sono estranee alle altre. Lo scrittore, che altera la leggenda nel
comporre, obbedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non consapevole che
l'obbedienza sia: un istinto, o il suo gusto culto e fine, lo avvertono
di dar quel ritocco, mutar questo colore, adombrare una figura,
correggere la prospettiva ; il pubblico speciale cui si rivolge gli suggerisce,
rimanendogli dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di concedersi certi
accenni e taluni richiami, di sviluppare più ampiamente una parte. Per contro
il mitologo, che è tale prima d'essere artista, tende a una mèta mitica :
pensa al patrimonio leggendario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigorosi
rami, e a quello procura di recar contributo, adunando, intorno a un nome
di eroe o di nume, tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una
mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare le pretese di due
luoghi intorno a una Dea, si chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna;
per esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per comprimere mia
città avversaria, quale Tera; per lodar un oracolo, il precipuo fra
molti, il Delfico. In ogni caso, muove da esigenze che non sono
quelle del suo tema letterario, né consistono nel tono d'un poema su Enea
o d'un canto su le Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indirizzo
mitologico. I due ordini d'innovazioni però, pur essendo
tanto ben distinti nel fine e nell'origine, esercitano, l'uno su l'altro,
continui influssi. E l'imagine che rende la loro reciproca condizione, è
quella della pila voltaica ove il succedersi alternato dei dischi di rame e di
zinco permette lo scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito difatti
non potrebbe entrare in quel componimento letterario ove deve alterarsi,
se per effetto della sua intrinseca evoluzione mitologica non
avesse conseguito già un certo stadio; e per converso, poi. il
colore diversamente sfumato dall'arte la variata prospettiva sono a punto
cause che permetteranno ad altro mitologo l'aggiungere o il contaminare.
Dopo che, nei carmi del popolo, la leggenda di Caco è andata
smarrendo il suo senso allegorico antichissimo, per assumerne, a gradi,
uno storico ben diverso: allora solo, Ercole può sottentrare a
Garano-Recarano, e il gruppo delle etiologie incunearsi nel racconto. E
allora solo la fiaba di Perseo e Andromeda è matura per una interpretazione psicologica
e sociale nella tragedia, quando il mitologo l'ha dissimilata dalla lotta
contro la Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica
l'altro; un passo prepara il susseguente: non importa se i fini del primo
non sieno per l'appunto quelli del secondo. Anzi, perché, come si vide,
l'innovazione mitologica avviene talvolta in una con la innovazione
mitopoetica, lo storico resta esitante, in quei casi, prima di decidere
da quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi la
precedenza, non nel tempo, ma nella responsabilità del nuovo stadio raggiunto
dalla saga. Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in congettura mal certa,
se un poeta o un mitologo abbia, per esigenza d'arte e ritocco estetico,
o per scoilo di chiarezza genealogica e armonia anagrafica,
identificato primo Persefone con Cora. I confini sbiadiscono indecisi, la
sintesi creatrice non ritrova chiare le sue vere cause. Questi casi ammoniscono
lo storico a cancellare ogni categoria empirica allor quando si accinge ad
esporre l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico
pagano. Da due radici trae vigore la mitopéja al suo arricchimento
progressivo e al suo lungo variarsi: dall'elaborare gli elementi
spirituali onde consta negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé
stessa. Curiosità scientifica, senso del divino, intuito dell'uomo
e della natura, immanendo nella saga costituiscono costantemente altr'e
tanti tentacoli, che attirano verso di essa i prodotti del più
maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito di contemplazione
umana e sociale. Ma inoltre l'evoluzione della mitopeja letteraria nuove
energie se le aggiungono; nuove, le quali son sorte non da uno sviluppo
delle primissime antiche, ma da un superamento deciso di
queste. Siffatta opera duplice e immane di rinnovamento si comijie entro
certi ampi limiti temporali. Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto
del medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura, sono sufficienti
impulsi alla creazione d'un mito: nuovo, se pur non profondamente diverso
dal complesso dei suoi analoghi. E il fermentante rigoglio della
giovinezza. E la festa dei frutici che il suolo ferace esprime da sé, per
l'esuberanza della sua forza, in unico impeto con le roveri e i pioppi.
Si che le figure si moltipKcano disponendosi l'una a canto dell'altra,
affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si addensano e
s'intrecciano, uno appresso all'altro, simiglianti e differenti, e si
dispongono in racconti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome
personale, un peculiare suggello. La mitologia indiana serba traccia di
questo pletorico groviglio li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali,
intrecciate Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è
linore: perché già in essa sono sopravvissute [unicamente le forme, in
genere, geniali, cui la [singolarità medesima apprestasse vigoria e
resistenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò stesso meno
individuate, vennero assorbite da pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche
fra gli lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che man
tutti il medesimo sostrato naturalistico, di [Eracle nell'Ade, di Eracle
contro Gerione, di Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gorgone, di
Perseo contro il ketos, attesta l'antichissima fecondità originaria in favole
dissociate per minime differenze, per esigui e mal certi confini, e
prova anche come la mente creatrice da sé e dalla propria stirpe sapesse
a ciascuna derivar notevole forza di vita e non scarsa energia
personale. Di questo periodo di creazione mitica e di
moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio additano gli ultimi,
e non miserevoli, bagliori tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età
difatti, che l'occhio della storia può riguardar sicuro traverso poche
nebbie^ la letteratura mitica si accresce della fiaba duplice di Cirene e
della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi vigorose e determinate
che non possono in verun modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia
né Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi tutto, perché
non escono, se bene adorne poi, dall'arte, di stupenda efficacia poetica
: Pindaro Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne dorate su la loro
cetra, non escono da un bisogno lirico incomprimibile: ma sono posteriori
a un fine pratico, in grazia del quale soltanto sussistono, ma a malgrado
del quale splendono di magnificenza. Per ciò non creano, ma compongono
elementi noti, sfruttando intrecci anteriori. La saga degli Argonauti era ;
conteneva il lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero, e
dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e dei coloni giunti da Tera
sul luogo del dono. Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge
presso la palude Ciane, non sono se non le sosti l'evoluzione della
mitopeja letteraria tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle
forme d'un antichissimo racconto greco. Singolari apparizioni mitiche queste,
adunque : nelle quali si unisce un cotale spirito di riflessione,
un quasi gretto senso di praticità, con una indubitabile freschezza creativa,
un abbandono languido di sogno. Questo permise il loro travestimento poetico, e
cosi grande permise che i razionalisti antichi non s'accorsero punto
dello scopo politico e materiale onde le belle fiabe che gì'
irritavano erano mosse; né se ne accorsero, prima che sorgesse il metodo
critico moderno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono in vece ad
avvertirsene in più disadorni e meno ricchi racconti. Tuttavia, in quel
senso di riflessione pratica è il non dubbio indizio che il periodo in cui si
moltiplicano i miti è per finire. Esso si estenua, per vero, in bolse
invenzioncelle, in genealogie stremate, in giuochi etimologici
trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi in favolette che pochi
eruditi ripetono; rivendica il passaggio di Perseo per Micene ove egli
avrebbe perduto il puntale della spada (ó /ivxt]g); attribuisce a
Trittolemo discendenza argiva; spiega il nome dei Pinarii pel dover
essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù), ho fame). Poi
muore. Entro i limiti di tempo cosi largamente segnati, profondo e
vasto è il rivolgimento. Pausania. Servio Comm. a VIRGILIO (si veda)
Eneide In apparenza, tutti coloro che trattarono letterariamente le fiabe della
nostra ricerca, le considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal
volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di caso in caso, la
celebrazione di una vittoria ginnastica, l'ammaestramento georgico, la metamorfosi
d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza d'una festa, il vanto della
preistoria romana : mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di
Euripide lo scopo vero è altro da quel che la leggenda, in se,
richiederebbe: è scopo comx)atibile con essa, ma ad essa imposto
mutandole il suo contenuto. L'interesse per la saga non è quello
primigenio della intuizion naturalistica onde nacque: è, nei varii
letterati, vario. Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si conferma
con tutti i testi del nostro studio, per non dover essere tenuta in somma
considerazione. Ma ecco che la realtà la contrasta duramente. In tutti i carmi
letti, in tutte le prose, il mito entra non di straforo, si per le spalancate
porte: signore, certo del dominio che nell'interno lo attende. Delle Pitie è il
perno ; la colonna vertebrale della tragedia; la sostanza dell'elegia
properziana. Nel libro d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato
anche in certi j)articolari minuti: ospite sacro che Giove protegge. Dove
penetra, penetra tutto. Non importa che Callimaco sia molto breve
nel cenno alla saga di Cirene: i pochi tòcchi bastano perché gli
elementi essenziali delle due leggende contaminate appajano totalmente.
Fin in Livio. Fin in Dionisio. Si contraddicono, dunque, le cause e
i modi onde la letteratura accoglie il l'evoluzione della mitopeja
letteraria mito: controversia intima a Kalypso. Controversia, da cui derivano e
gli acquisti letterarii della saga e le sue letterarie deformazioni;
clié, violata da interessi nuovi, cui già era estranea, per quanto
con tutta la preponderanza della sua congenita foga imponga le sue forme,
è costretta ad accettare, dalla sede che l'ospita, le luci. Su la
soglia, le si fanno incontro, e prime la intaccano, la novella e
l'etiologia. Ne la novella il popolo par condensare, con la propria
esperienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché vi fìssa gli esempii
tipici delle consuete vicende (per lo più, familiari) e i modelli
caratteristici delle fìgure che muove la sorte comune. Per essa,
traverso la fantasia delle masse, come attraverso un vaglio singolare, il
complesso (ad esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme
delle vii'tù e dei vizii che in genere presso quelli si riscontrano,
affìnansi in una selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi
nella sintesi di un personaggio tradizionale con tradizionali pregi e
difetti: il pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come
suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. La
novella è dunque, per propria natura, pregna della medesima umanità che,
nel mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le creature difatti
dell'una e dell'altro si somigliano a volte come nate da unico ceppo. E
si accordano quindi, sovente e bene, in un medesimo testo: tale il
ferecideo su Perseo. Un'acqua affluisce cosi nella saga che del pari
riflette, da le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non, però,
riverbera simileraente la vampa solare, né vi si specchia azzurro di
cieli e svettar di fronde durante la divina estate: si che il volume
fluviale acquista potenza di voce che s'ode da lungi, vigore di empito
che infrange le sponde ; ma divino di stelle e di selve men vi trova
echi e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito e novella il
principio dell'abbassarsi quello verso pianure terrene e dell'adattarsi a
stature umane : in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del
tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che più sono nostri. E
poiché, d'altra parte, un vago velame d' irrealtà favolosa soffonde pur
la novella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ; accade che essa
ajuti a tenere la saga in un'aura mediana fra il dio e l'uomo; la quale è
dell'eroe. E a questo si deve a punto se di eroi sono i miti.
Quando i lor personaggi non sono stati dal culto salvi e resi intangibili
su l'ara dell'alta e intiera divinità, allora il nume protagonista della
saga, e il vecchio vecchio vecchio che i novellatori esagerando desumono
dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il piano istesso ; fin che
anche il piccolo rito locale, se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce,
non trovando altrove favori, con l'estinguersi o diventare eroico. Vicino
a Larisa di Tessaglia, era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma,
per ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pescatore e le vecchiarde
Graje, il tempio chiamavasi, né si ricordava nome diverso, tempio di eroe
[fjQc^ov). La novella trae cosi a sua società il mito; ed entrambi corteggiano
il popolo illudendolo nella speciosa finzione di maraviglie l'evoluzione
della mitopeja lbttbbaria elle sono sol tanto le trite consuetudini di
lui, ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un meglio:
gocciole di piova che rifrangono il Sole. Nella cortegiania è terza
l'invenzione etiologica, intenta a cercare la causa del fatto
umano. Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in cui è, prima
o dopo, inerente il conato verso la causa del fatto naturale. Caco spiega
il fuoco distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il ritardo
dei Pinarii spiega un costume del rito erculeo nel Foro Boario. Che se i
tentativi scientifici appajono per tal guisa paralleli nei due fenomeni,
anche la semplicità dei procedimenti gli adegua l'un l'altro. Entrambi
ripetono per causa del fatto il fatto medesimo, correggendo solo
uno, o pochi, tra i particolari che lo accompagnano. La fiamma muta contorni
divenendo Caco e serba immutata la sua potenza deleteria. E
l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta, identica, in tempi
anteriori di assai, erculei. La giunta sta nell'episodio umano e abituale
: il costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei Pinarii. Quindi
l'etiologia insinuandosi nella leggenda integra per un lato quel suo volto
che par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue; secónda per
l'altro quella sua tendenza che si origina dalla gloriosa nostra
curiosità di tutto. Questo tributo però non è solo copia. Rappresenta anche una
riserva di potenze e di sviluppi, che si determineranno in varia misura a
seconda dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un poeta,
un romanzatore, uno storico, e i diversi individui entro queste diverse
categorie, ne trarranno spunto alla lor compiacenza differente. E questi
svolgerà l'etiologia in scena compiuta che si disponga a fronte del più
vero e antico nucleo mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per
ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etiologia in ombra a mala pena
schiarita. Properzio, il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in
atto di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. L'effetto quindi
dell'innesto etiologico si misura insieme con il deformarsi della saga
sotto l'influsso dei molteplici interessi cui la fa sottostare il cuore
infaticabile e travaglioso ch'è nostro Cosi il patriottismo adultera il
mito; e per vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo ritocca o
accresce. Poi, gli dà un contenuto storico che gli era estraneo affatto. Caco è
un ladro mostruoso di tempi antichi; Euripilo un re di età lontane
: il lor valore d'iddio del fuoco o della porta infernale è perduto,
perché una storia fallace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato
naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato storico; o fa
prevalere questo su quello, ove si trovino misti. Immutato resta
soltanto, insieme con il complesso dei particolari cristallizzati,
il rapporto tra i protagonisti, però che il favore patrio si
trasporti tutto per l'appunto su l'eroe che qual Dio aveva, nel primo
significato, combattuto le tenebre; e l'odio nazionale si accumuli su la
figura che era stata, nel primo significato, ostile alla luce. Cosi
nell'Eneide. Non muta la leggenda, ma solo il suo presupposto. Anzi,
sotto questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto favorevoli al
serbarsi integro della saga. La psicologica o la sensuale posson compiacersi
del l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA mostro come dell'eroe, a causa
della plasticità e della intelligenza clie li accomunano. La patriottica
no: deve preferire, deve parteggiare: rida al mito un sentimento, lo
riscalda con un calore affettivo che, dopo la sua origine, gli eran divenuti
ignoti. Né anche il senso religioso è cosi efficace : Pindaro coglie,
nell'amore di Apollo e Cirene, assai meno di Callimaco quello che
n'è il nucleo effettivo: la simpatia dei coloni per il Dio e la
Cacciatrice ne' quali si rispecchiano, e la protezione perenne assicurata
dalla coppia divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello
scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua che il patriottismo di
Callimaco crea indelebilmente: la statua del giovine Iddio che accenna,
sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze, onde si compiace, dei
Doriensi fra le fanciulle libiche. Il mito palpita invero nel gruppo
con la vita della sua stessa radice. E quando un brivido di
fervorosa simpatia scosse gli spettatori ateniesi nell'atto di scorgere sul
capo di Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla sorte che in
allora il Fato volgeva su la città marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe,
l'eroe a Dio, Dio, qual era da prima, splendido al pari del Sole. Se
m.ai per lui si creò di nuovo un anelito di innamorata estasi simigliante
a quello che fu verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo mito
s'era originato in una mente ingenua e profonda; se mai si creò, fu
l'anno 412 sopra una scena greca, auspice l'amor della Polis.
Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e di vivezza. Il senso
religioso è, già si vide più volte, intrinseco al mito, che anzi se ne
informa. Esiste fra i due concordia come di gemelli. La quale si
svela però non molto jjrofonda. Le si oppone anzi tutto l'essere il sacro
uno bensì, ma uno solo, fra i caratteri della saga; ch'è ben piti
ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è elle il carme inspirato
alla fede tende inevitabilmente a sviluppare un membro della leggenda a
scapito degli altri, tende a farne vibrare una corda sola. E la
contemplazione del mito da un punto vicinissimo, ma cosi accosto da non
permettere più che una visione unilaterale. Tal incompiutezza è grave; ma
v'ha di peggio. Il mito, dopo che è creato, resta e si
cristallizza; non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua
crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di immutabilità. Somiglia la
formula d'un culto, che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo
l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in vece sono di lor natura
non statici, ma energici d'un moto assiduo e incalzante; sono la
vita stessa in una delle sue sublimazioni migliori. Presto,
raggiungono, se non presso tutti, presso talune menti alte al meno,
presso l'inspirato poeta della fede quasi sempre, uno stadio superiore, e
forse di gran lunga, a quello onde il mito si generò. E allora v'è
contrasto. V'è bisogno di eliminar una figura, di scemar la
crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere umano al cordoglio d'una
dea : si deve informar il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò appresso
Pindaro Chirone esita e sorride e si atteggia a loico furbo, prima di dir la
sua profezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare l'evoluzione
della mitopeja letteraria leggendario rimane, non alterato; ma il
pensiero critico lo discute e ne dubita: che è in apparenza guasto
minore, maggiore in realtà. Per quel modo, difatti, lo spirito cessa di
riviver la leggenda immergendovisi: la projetta lungi e fuori di
sé, se la contrappone: per qualche istante, e sotto certe forme, le
diviene estraneo. Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che ha
indotto Andromeda preda succulenta al ketos. Tuttavia né prevale il
dubbio filosofico né la fede alla saga: il tradizionalismo mitico e il
modernismo religioso scendono a un compromesso: e possono, fin che sono
entrambi avvolti da una atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti
nuovi avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della Chiesa si
rideranno dei miti: e vi rinverranno l'indizio d'una religione povera e
bambina. Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle origini,
nel mito l'elemento sensuale e il psicologico. Poi che i fenomeni della natui-a
si vestivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il mare acquistavano
volti membra ed atti nostri, essi divenivan senz'altro passibili di
figurazione sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel campo
della psiche. Analizzare e graduare i sentimenti di un Perseo non è se non
completar l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro. Perseguir
con compiacenza, nelle particolari movenze di grazia femminea, Cora
mentre raccoglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le brune e
bionde bellezze delle Ninfe adunate intorno a Cirene nelle case cristalline di
Penco, non è che un rinvigorir di sangue, spremuto dalla profonda
voluttà umana, le creature cui KALYPSO da un sesso il mito. Se non
che, anche per questa via la fiaba si trasforma: essa diviene un
modo di dire, una frase efficace per significar un pensiero o una intuizione,
una forma vuota, per sé, di contenuto che si riempie, adeguatamente, a
volta a volta. Perseo, è l'esempio già scelto, può vestire di sé e delle
proprie avventure esteriori un ideal personaggio di Euripide, e potrebbe
vestirne più altri, abito di molti individui. Cora, è l'esempio già
usato, si muove con la leggiadria un po' stereotipa della giovinetta
innocente e pudica, che solo fiori ama e fresche cascatelle e aromi
salienti dalla eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è
penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fittizia, perché non è la prima, antica
e vera. Per ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le compagne di
Cirene da un repertorio di nomi; e non più che nomi, ciascuno dei quali
si riduce a un colore, non svela una persona. Demetra che piange, e
di cui si regola il pianto con magistero di psicologia poetica, è una
madre. Ma ell'era anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce il
bisogno di sminuire, se non proprio sopprimere, Fineo nell'episodio di
Andromeda, di creare fra Andromeda e Perseo una scena novissima, di
plasmar un altro gesto a Cirene: nasce persino la spiacevole inopportunità
dell'intervento di un Nume, in sul finire del dramma, per sciogliere, con
atto oltreumano, una situazione divenuta umana. Accanto a questa, che la
psicologia e il sensualismo gittano sul mito, è singolare la luce che vi
gitta la natura. Su nessuno sfondo, in l'evoluzione della MITOPEJA
LETTERARIA alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura
personificano e di cui con la loro vicenda rendono il fenomeno, dovrebber
trovarsi più agevolmente. In pochi in vece si altera e deforma forse
tanto la saga. La Dea delle biade non domina su la vegetazione
lussureggiante, non vi regna, qual'è, regina: vi s'incornicia,
iDersonaggio del quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra, ma
in mezzo alle messi che significa e possiede: parte d"un tutto che
pur dovrebb'essere rajDpresentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e
che si duole nella valle di Tempe, maravigliosa di rigoglio
verzicante, tiene su i pastorelli un privilegio di nobiltà, che gli vien
solo dagli anni antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è per
altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il passo similemente. La cintura
dei monti lo comprime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attraversare i regni
del nonno, le sedi di cristallo, gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi
recessi ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre ninfa, non
è difatti adunato lo splendore sacro della natura acquatile e pastorale che
af figurano, ma una cosi fatta magnificenza è concretata al di fuori di essi;
li allieta in perpetuo con perpetui doni ; li circonda non li
costituisce. La bellezza e il primato sono altrove che nelle persone
di entrambi: nella Natura, effettiva protagonista, cui convergono lo
slancio del poeta innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si
direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed è vero: ma colà la
Natura riprende il posto che i suoi impersonati rappresentanti le avevano
occupato.E una restaurazione. Dalla sorgente, in vece, è lontanissima
l'erudita sapienza di Properzio. La leggenda diviene, nelle mani di lui,
uno strumento polito da usarsi con un'arte accorta e a pochi nota: unico
esempio, nel nostro studio, di quanto essa possa, senza scemo di
pregio letterario, stremarsi della sua vita prima. Nata sopra un pascuo
giogo di monte si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La qual
cosa non toglie che ivi appunto il rispetto al mito sia cànone più severo
: per crescere al magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa
agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son tramutati i tempi.
Più in là, si ritrova, fra più ampio volume di carte, in una più
chiusa austerità di ambienti, la Storia. Qui l'atteggiamento è senza
dubbio uniforme. Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce
troppo da LIVIO (si veda), Livio da Diodoro. La lor critica e il loro
metodo sono diversamente insufficienti. Ma un intuito comune li induce a
sopprimere, nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di certi
silenzii, pel fine di non arrecare una stonatura sensibilissima nell'insieme
dell'edifizio che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono alle
loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i Minii ; i Gracchi, Caco. Quando
le leggende non hanno ancora una storia per sé, si adattano in quel
letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual le raccorcia, esuberanti
come son sempre. Sopravvivono esse: attestando la loro incoercibile
vitalità. Uomini culti, che posseggono la lingua, conoscono il passato,
partecipan col'evoluzione della mitopeja letteraria scienti al presente del
loro paese, pur avvedendosi del carattere favoloso di taluni racconti,
pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono impossibile dar a quelli
l'ostracismo totale con l'espungerli da gli scritti che compongono.
Livio giunge persino a dichiarare in anticipo che non vuol esser
chiamato responsabile di quanto narra per gli antichissimi tempi; ma
narra tuttavia. Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),
il vero che si cela sotto il velame; ma riproduce tuttavia il velame. Del
fenomeno una spiegazione sola è possibile: il pubblico esige la parola
degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio patrio, ne va della
consuetudine. L'orgoglio : che non ammette si ignorino le origini prime
della propria stirpe, le vicende antiche della propria città, i
nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti; che si sente sodisfatto,
assai piti che dal contenuto stesso della fiaba, dalla sua forma di
bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi meglio della realtà; che
ritiene di non poter conoscere la vita dei padri se non traverso la
tradizione eredata da essi. E la consuetudine: ch'è la forza grande delle
masse; e resiste, sotto la specie del misoneismo, alla ricerca
innovatrice del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'ortodossia, ai
risultati dell'indagine, illuminata da un nuovo pensiero religioso o FILOSOFICO.
Tucidide doveva saper di spiacere quando negava un nesso fra Tereo, del
mito di Filomela, e Tere degli Odrisi signore di Tracia; ma era da lui
l'afTucidide frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di fatti la
vigoria d'una tale niente può bilanciare la resistenza che, per
tradizione patriottica, è insita nella leggenda. Che se parallelo a
tal risultato appare l'effetto dell'amor nazionale sul mito, i due
fenomeni però sono distinti. Il poeta, che canta la saga patria, o
nella saga introduce opportuni accenni alle patrie vicende, serra un
legame, tratto dal cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e
il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato: sospira il presente
nell'antico, e sotto le luci dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe
maestosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del re savio regnante
Evandro: imagina la spada del guerriero cadere, simile alla clava
d'Ercole, contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo storico in vece
accade appunto l'opposto: per lui, il mito emana su su dalla storia, come
una causa su dagli effetti, una premessa su dalle conseguenze: j)er lui
il mito è una preistoria, una motivazione. Il nesso genetico di causa ed
effetto, ch'è insito nella storia ancor quando si manifesta sol
grossolanamente in un nesso di precedenza e susseguenza cronologica,
orienta nel suo indirizzo anche la concezione della saga, e
l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta vede tra il contemporaneo e
l'antichissimo, è per lo storico in vece un dipendere causalmente
del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la lotta fra Ercole e Caco
serve solca spiegare un rito di carattere greco, e la leggenda dei
Minii e di Tera e di Batto è una necessaria e sufficiente premessa alla
storia cirenaica. Per questo valgono : perché giustificano. E il loro
valore di motivi è cosi grande, che si accettano come ipotesi
sostenibili, anche quando è infirmata la fede su la veridicità del lor
contenuto. Si fatta deformazione del mito, per cui il carattere
etiologico di taluni suoi particolari e, qualche volta, d'intieri suoi
paragrafi intacca il nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica,
segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle origini. La saga aveva
avuto negli inizii importanza per sé : stava oltre gli scopi pratici,
riflessi in parte nel culto, e i bisogni scientifici; superavali
entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi un mezzo d'arte si alterò,
serbando tutta volta officio consono alla sua natura; tanto che,
pur connettendosi con etiologie cultuali, mantenne su di esse il
suo primato di bellezza e di forza, presso poeti quali Vergilio ed
Ovidio. Quando alla fine si trasforma nella pura e semplice causa di
fatti, allora si astrae dai suoi termini, cessa dalla sua indipendenza,
acquista un che di cerebrale fra le idee, perde molto d'imaginoso
tra le fantasie. In seno al possente spirito mitopeico letterario, della
cui evoluzione segnammo, con l'ajuto della nostra recente esperienza,
talune tappe ed erigemmo le precipue pietre miliari, s'opera un
continuo nascere maturarsi ed estinguersi di saghe : paragonabile
all'immane vicenda di morte e di vita cui sottostanno gl'individui umani
nel grembo dell’umanità, che s'è originata e deve a sua volta
perire. Tale assiduo flusso e riflusso è libero ; non perché non lo
determinino sempre forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio
è schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo disegno; ma
perché nessun nodo della contessitm'a è prevedibile, prima del suo stringersi,
o analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi è del pari degno
d'istoria; v'accade regresso in rapporto al livello mediano della
mitopeja, e anche progresso: entrambi in diverso modo notevoli. Esiste
tuttavia una fondamentale sorte, ch'è comune a quella ricchezza
divèrsa. Il mito, ciò è, ha due vite; o forse vita duplice. Una è la
sua più propria: e consiste nella capacità di evolversi, di assumer
forme nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in individui
diversi: spirito di molte sostanze. L'altra è la vita di ciascuna sua
forma di ciascun individuo: della Pitia, dell’Eneide, della lirica properziana,
del racconto di LIVIO (si veda). Uno stadio dell'evoluzione non
elimina i precedenti, né li comprende solo in potenza, ma li lascia
sussistere in tutta la loro realtà concreta ; si allinea con essi.
Ciascuna di queste due vite pare uniformarsi a leggi diverse.
La vita seconda, delle singole individuazioni mitiche, è retta da
una forza d'arte. Dalla quale s'informa la "lotta per l'esistenza,,
dei varii componimenti e il sopravviver loro. Onde il carme d'un poeta
non affiora alla superficie che per la strage di numerosi fratelli suoi
minori, cui fu più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche
tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che all'altro il primato,
con decreto che non si discute e che finisce col condur, tal volta, a prevalere
una redazione e col tramutarla in volgata. Fa cosi Pindaro per Cirene, VIRGILIO
(si veda) per Caco, Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in
fuori d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni effettiva
consistenza di strati e importanza di varianti, le narrazioni di pregio
artistico inferiore si aggruppano intorno a quella cui più riser le Muse,
come forme incompiute d'uno stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna
ancóra: di bellezza. E da tutte in selva risplende il mito. Tra
questa folla non è morte, fin che sieno occhi a risguardare ; da questa
sgorga anzi perenne la vita, perché ogni forma è capace d'impulsi, e nella
diversità degli spiriti sono imponderabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il
seme dei sopravviventi miti; e la virtù della razza, che diede la
passione onde nacquero ; e la virtù del suolo del cielo dell'aria
dell'acqua del fuoco, che diede la materia onde si fusero. Di li ritornano
al nostro pensiero, affacciandosi in vetta all'anime come iddìi
giovinetti e belli: fantasmi radiosi ai nexDoti nella veglia
nottui-na. La prima vita in vece non è né cosi varia né
altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa secondo una linea chiara.
Durante lo svolgersi della quale però, ed è sua prima
peculiarità, permangono al mito, quasi irrimediabili stimmate, i segni che
furono del suo nascimento: resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di Cirene,
che sorse imperniandosi su la Libia e la Tessagha, ha da queste due
regioni diverse e lontane la sua sorte ; e par che fino la più
profonda violenza recata al suo schema confermi quel carattere
regionale. Similmente, per essersi formato sopra un compromesso e in una
contaminazione, il racconto siracusano di Cora rapita si mischia, negli
anni, in una sempre più larga massa di favole. E allo sviluppo di Caco
deriva modo storico e religioso, quando prima s'insedia, col suo
nome, la sua memoria nei pressi del Palatino. Anzi, il vero inizio di un
mito, qual forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto
dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo per sempre
caratteristico. Onde la trama di Andromeda non è da vero compiuta, non pure
nei particolari esteriori, ma e nell'essenza più propria, se non allorché
gli spunti novellistici si immettono nel contesto naturalistico, a
preparare per l'avvenire la triplice serie di innovazioni, psicologiche
romanzesche e religiose. Quasi entro gli argini cosi definiti si
muove la corrente del tempo. E di mano in mano che la storia della
paganità procede, che il pensiero pagano si trasforma, anche la saga è
amata sotto aspetti differenti. Demetra e Cora son narrate con intenti di
gran lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspirano Claudiano e
l'età sua. Ogni generazione distende sul mito una propria vernice: che è
un particolar modo di vederlo. A noi poco è j) ervenuto di questo
stratificarsi perché non ogni strato ha lasciato la sua traccia
letteraria (e artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando, in
sintesi rapida, il processo spirituale del mondo antico : a ogni tappa
corrisponderebbe, se la ricostruzione fosse riuscibile nei particolari,
una foggia mitica, e sia pure a pena diversamente sfumata
dell'anteriore, o a pena diversamente disposta della posteriore. Tra
l'una e l'altra di esse, nesso causativo, porremmo la sintesi creativa
per cui l'intelletto comune, innovandosi, si è superato. Il caso opera
poi su talune vicende della saga. Che ad Euripide sia caduto in mente di
trattar l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto il suo
proposito si potesse tradurre in atto ; che non esistesse un grande poeta
quando il mito di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di caso,
perché a volta a volta risulta dall'interf erire di due linee causali la
cui interferenza non consegue da nessuna delle due premesse. Dal caso
pertanto deriva, che non tutti gli strati della evoluzione mitica hanno
" lasciata traccia letteraria (e artistica) „; e che qualche strato ci
ha tramandate tracce più profonde e più varie. Del mito di Cirene
un secolo, il quinto, ci mostra due trame sostanzialmente diverse, la
pindarica e la erodotea; il quarto non ce ne concede alcuna. Del mito di
Caco l'età di Augusto ci tramanda ben cinque quadri con varianti colori e
linee; l'età di Giovenale nessuno. VIRGILIO (si veda) irradia del suo
patriottismo il racconto, Properzio della sua raffinatezza, OVIDIO (si
veda) della sua sonora compiacenza verbale, LIVIO (si veda) della sua
ingenua critica, Dionisio del suo impotente razionalismo; ma queste
luci tutte scaturiscono dall'opere complessive nelle quali esso viene
inserito e dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava che altre
ne potesse assumere e che ancor taluna di queste potesse non aver
assunta.F., Kalypso. Attinenze fra l'evoluzione spirituale complessiva
stratificantesi sul mito, e le forme casuali della leggenda, esistono
visibilmente. Il modo con cui i posteri di Ferecide di VIRGILIO (si veda)
di OVIDIO (si veda) di Callimaco amarono e ripeterono le saghe di
Perseo di Caco di Cora di Cirene deriva, come dalla trasformazione
compiutasi nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle peculiarità
dell'arte con cui quei letterati, dopo che il caso gl'indusse a eleggere
la fiaba all'opera loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra
quella che dicemmo trasformazione del pensiero collettivo, e questa che
potrem definire energia plasmatrice di artisti, esistono riferimenti
quali d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela letteratura
d'una generazione compie su la generazione successiva, non sono se non
alcuni degli effetti che tutta la mentalità della prima compie su
lo spirito della seconda. Vale a dire : il fenomeno mitico-letterario
avvenuto per l'interferenza casuale di due linee causali riprende,
fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa. Indi si spiegan anche,
facilmente, le morti dei singoli miti: quelle pause del loro
evolversi per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano spinti
alla trasformazione né si riprende che tardi, quando oramai è chiusa a
sua volta la mitopeja pagana. Non è dubbio difatti che una saga
qua! siasi continua, più fioco più intenso, il suo respiro fin che il genio
mitopeico è una operosa realtà. Ma per l'appunto quel che diciam caso fa
si che le manifestazioni letterarie di ciascun mito si arrestino a un
certo punto, oltre il quale bruiva forse ancora il susurro, non più
sonò il canto. Prova tipica, che non ve n'ha forse più palmare, è la
storia del mito di Caco: languido già in quel torno di tempo che
segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se bene seguano ad OTTAVIANO (si veda) epoche di culto
intellettuale di esumazione erudita di compiacenza artistica in cui
l'abigeato violento e fumoso avi'ebbe potuto, possibilità vana,
trovar non manchevoli espressioni. Persino i germi dissolutori
insiti nel testo di VIRGILIO (si veda) e, più, d’OVIDIO (si veda) e, peggio, di
Dionisio, tolleravano sviluppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe
mancato, di cui in vece manca fin l'eco. Opposto ammaestramento porge la fiaba
di Cora e la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre sotto il
cielo d'Omero si levavano vie più frequenti i crociati segni di Cristo, tenta
di possedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma il crollo
dell'edificio male eretto non travolge pure la perizia artistica di un
uomo, pare in vece che si ripercuota funereo fra peristilii e celle
dei templi cui men frequente stuolo di fedeli e men pio animo di
sacerdoti rende l'omaggio: già che, allora, la mitopeja pagana sentiva da
l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro. Non il caso terminando, quindi, in
questo secondo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,
l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge, del pensiero collettivo
e delle passioni. In un rosajo si sfanno di molte corolle senza che
scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa pei rami: culmina
l'estate. Ma come giunga il settembre, con cieli più chiari e men caldi,
gli ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cortecce aride su
stecchi rigidi, e odore di dissolvimento è nell'aria: il cespo si addorme
nell'imminenti brume. Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che
non è scomparsa, ma fine di produzione. Cessando d'immortalare afferma la sua
mortalità. L'agonia comincia con un periodo di riordinamento, in cui i
miti non si moltiplicano ma si assommano, e che è già iniziato
quando l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del resto, le
stesse qualità psichiche proprie dei Greci: di ordine di armonia di
chiarezza. Qualità che furono per fortuna, nel principio, assistite da una
levità di tocco e da un rispetto per quanto è bello, i quali impedirono
che le si tramutassero tosto in ruvida villania distruggitrice di fiabe.
L'esempio più notevole ci fu offerto, in queste pagine, da chi raccolse
in unico contesto tutto che si riferiva a Perseo: la novella della sua
nascita, cui è congiunto il fatale assassinio del nonno, la lotta contro la
tenebrosa G-orgone, il duello con la belva del mar etiopico. E
un'attività solerte e diligente, cui poco sfugge, e che ogni occasione
cerca per compiere, compaginando rinsaldando, la sua galleria di
dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo della verginità
comune, Artemide e Atena. Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E
sovra tutto venera e tutela sempre i miti che riordina. Li ama. Per
ciò non distrugge, e non guasta né meno. Al contrario, tal volta crea:
inventando, per unire due leggende, un passaggio accorto ; dissimilando
due fiabe troppo visibilmente sorelle, a fin di poterle narrare Funa appresso
l'altra senza ripetizione uggiosa; imaginando una circostanza, per colmare un
vuoto; innestando un particolare nuovo su altri più antichi. Caca
somiglia troppo a Caco nella forma verbale perché a cotesti ordinatori di
miti non cada nel pensiero di trovarle un posto nel racconto del furto:
ed ecco ch'ella diviene sorella del ladrone, e spia dell'abigeato.
Andromeda è il troppo trasparente riscontro di Atena a canto di
Perseo nella lotta contro i mostri del bujo, perché non abbia a essere (e
con questa altre cause v'influiscono per diversa via) trasformata, e
mutata in amante. Affinché però un cosi fatto procedere si mantenga utile,
è necessario, da un lato, che le varianti da comporre in ordine intorno a un
mito non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili di forma; è
necessario, dall'altro, che l'amoroso rispetto per le fiabe si mantenga
incorrotto. Col cessar di queste due circostanze l'attività assommatrice
prende a divenire impotente, perché il suo compito s'è di troppo
accresciuto, e deleteria, perché i suoi modi si sono inviliti. Per
questo motivo essa si riduce a una compilazione che, come presso
Apollodoro, deve limitarsi a citar le varianti inconciliabili con la
volgata, a ricordar Demofonte per preferirgli Trittolemo, senza riuscire
né ad eliminar quel d'essi che sia soverchio né a superare il dissidio
contaminando e creando. Non anche creando : però che la forza
creativa scompaja in una colla simpatia concorde per le leggende. Quasi
sensibilmente il mito diviene oggetto di erudizione, opera di dotto
lo scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà tenace il
serbarne i modi e i nomi di persone e luoghi. Ora, quando il
mitologo ha esausta la forza inventrice, e s'è ridotto a catalogar la
ricchezza delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla forma
di esse, ai j)articolari, cioè, il cui variare costituisce fogge nuove della
saga, e persino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua credenza si
sposta: non può più, come nel prin-cipio, poggiare suiresteriore, perché egli
non ha una redazione di ciascun mito cui sola presti fede, ma di
ciascuno ne scorge parecchie : deve in vece fondarsi sull'interiore
nucleo, su la sostanza, su quel che, in breve, è comune, oltre ogni
variante. Le vesti si mutano sotto i suoi occhi: gl'importa il corpo. Ma
questo effetto somiglia quello che segue alla deformazione storica
del mito. Quando difatti l'artista non è più intento a perseguir, nei
carmi, di eleganze ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad
eleggere un suono per ciascun colore; quando della fiaba interessa il
fatto ch'ella contiene, per la storia, e il fatto poi vale come
causa: allora le vesti adorne e diverse cadono; importa il corpo. Ed ecco
il razionalismo dare, in entrambi i casi, una veste nuova a quel
corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più seria e dignitosa. Il
mostruoso aspetto di Caco, la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al
pascolo, il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto il cavo
etra, il sussultar delle rive all'urto immane : tutto ciò non conta. Conta il
duello tra due, e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la compiaciuta
furberia del loico intesse un'altra sua trama, imagina gli eserciti, ne
fìssa gl'itinerarii con le norme d'età posteriori, concepisce le tempeste
invernali proibenti il tragitto alla flotta erculea: crea una fiaba nuova
su l'antico scheletro, die resta ed è creduto. Originatosi, cosi,
dalle stanchezze della mitopeja, come un sentiero costrutto su scorie, il
mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita non fosse troppo tarda.
La saga di un Ercole errante per monti e piagge, in imprese di
cavalleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi, non minore forza di
vita che la leggenda dell'eroe solare. Quel che le manca è l'aura
d'intorno: per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non è ancor
morta, quando essa saga si forma; e, rimanendole al fianco, le è assidua
pietra di paragone. Per superarla e sostituirla, la saga deve
difendersi discutendo, far valere palesi le sue origini logiche non
artistiche. Onde il suo vero e mortale scapito: però che la logica
chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa; l'arte, fra gli antichi
in ispecie, d'essere imitata. Quindi è che il razionalismo non genera
figli morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col soffocarle di
greve afa, le sue creature fin dalla cuna. A questa capacità
distruttiva, che il razionalismo rivela a suo proprio danno, non
corrisponde una eguale potenza deleteria per le belle favole: che
diviene esso della fiaba la foggia estrema. Né pure allora si serba
indipendente; vive anzi come un parassita accanto ai testi dei poeti
e degli storici. In tarde età riflessive il lettor di Vergilio o
quel di Pindaro accetta la loro fantasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio
del suo sostrato. Dice: due eserciti si son combattuti nel Lazio,
condotti da Ercole che vinse e da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace
esprimere altrimenti il fatto, approfittando della sua libertà „. pure
dice: Caco era servo di Evandro e devastava i campi col fuoco; questo
significa il vate con frase adorna „. E, se ha sensi di gentilezza,
s'india nell'espressione libera e nella frase adorna. Il razionalismo gli
ha fatto da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito. Ciascuna
leggenda avrà molte di queste giustificazioni; qualcuna ne cercherà in vano;
tutte ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in cui la saga
vive, soccorre, pur nella sua esigua e stentata energia, le forme più
antiche, più belle e da più possente alito nate. Malefica è appena
quando in una mente rozza, distruggendo intorno a sé, predomina
sola. Notevole è sempre perché, ultima, contiene i motivi del morir
la mitopeja pagana. La favoletta pretensiosa del razionalista è tutta contenuta
nell'ambito di una esperienza soda della pratica umana: prova, l'esercito
eracleo presso Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non
possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento umano; non delle
esteriori fogge sociali, ridotte per quello a poche linee sommarie e a
rapporti semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri intimi
all'anima: giacché nelle prime porta il razionalismo una imaginativa più
nutrita e più competente, consona ai tempi progrediti e agli
instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una certa gi'ossezza logica
che se è lungi al sottile acume del psicologo, è sopra, d'assai,
all'ingenua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa sua prestanza su
la leggenda, il razionalista non s'avvede d' una inferiorità che la
compensa: smarrendosi in lui pur ogni traccia del fenomeno naturale come
potenza che trascende, come magnificenza ricca di colori di suoni e
di moti, come mistero pregno d' interrogazioni. Ciascuno di cotesti
aspetti ha, quando il razionalismo regna nella mitopeja, trovato ad esprimersi
nel culto, nell'arte, nella scienza ; può quindi, e deve, venir separato
dalla saga, in cui né anche l'uno dei tre vien più avvertito, se
non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evidentemente, dunque, è venuta
meno la condizion prima ch'era stata già bastevole e necessaria al
nascer dell'attività mitopeica; la condizione per cui lo spettacolo della
Natura, nel punto che lo spirito umano lo assaliva per esprimerlo in
sé, non disponeva per cotale manifestazione se non d'una imprecisa
conoscenza degli avvenimenti umani onde era, nel suo grosso, assomigliato; la
condizione senza cui la spontaneità mitologica si allontana nelle tenebre
d'un pretèrito memorando. Se non che la fine della spontaneità mitologica,
che cosi si spiega, non è la fine dell'interesse spirituale verso il mito,
interesse dal quale trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Vedemmo
fioriture minori di saghe in forza di questo interesse; tanto forte
ancora nelle masse da indurre regnanti e poeti a foggiare e contaminare
fiabe per accrescimento di lor potenza e di favore. Più tardi, se non
induce a creazioni novelle con l'imitare le prische e il ricomporle,
spreme però nelle guise più varie, secondo i gusti più diversi (seguimmo
nei particolari tal opera), molteplici aromi dal mito, a inebriarne
spiriti lontani; e ogni aroma si esala in seguito a una
alterazione, e una alterazione ognuno prepara; e dalla vicenda vasta si
conferma la forza vitale del genio mitologico e del mitopoetico. Ma
lo storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti oltre che nei
modi, da questo adoperarsi dello spirito pagano intorno alle favole
dorate, spiega, deducendo, dopo la fine della creazione spontanea, il
termine della ripetizione devota. Difatti, ogni volta che un nuovo
compiacimento attrae l'antico verso la saga, quando il patriottismo lo
lega ad essa, e la sensualità lo diverte di essa, e la fede se ne turba,
e il senso psicologico la scava; ogni volta, una virtù di quella appare
splendendo, e si esaurisce vanendo: perché, al pari d'ogni passione,
patriottismo fede sensualità, energie indipendenti e non faticabili, non
si arrestano mai su la lor via : ma da ogni letizia si sdanno per
un'altra che sia nuova, e dopo aver succhiato il sangue migliore
degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci vuoti di sostanza o
lerci di dissolvimento. Grli approcci si rinnovano su una su vénti
saghe; le energie si succedono, ad una due, a due dieci; il culmine
si attinge in cui il groppo profondo dell'anima è uncinato dal mito: ma
poi la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse, e canti di
altro suono si intonano in loro servaggio. Nel suo complesso lo spirito dei
Gentili si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene a poco a
poco estraneo e si immerge in altre creazioni ; s'aprono nuovi stadii
spirituali in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a
foggiarsene e a riempirne un altro : maggiore. E il disinteresse
mitopeico: la seconda morte che la storia deve registrare nelle sue
pagine. Non è, né pur essa, senza compenso; però che una
resurrezion i)arziale pare la segua. Quando, e come, e perché, non è qui
luogo opportuno a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi fa
opera d'indagine letteraria nei secoli più recenti e nel nostro raccoglie le
tracce e cumula le testimonianze della terza vita. Qui si elegge la
figura, tocca da melancolia, di Maurice de Guérin, che rivide con questi
nostri occhi mortali il Centauro, avendolo i fragori marini e l'albe di
perla e le sere di ciano educato allo spettacolo insueto. Egli potè dalla
imagine favolosa esprimere nuove bellezze poi che, concordando col mito nella
sensibilità viva della natura, vi seppe scernere làtèbre occulte,
ove languiva la mestizia nata dalla coscienza della propria
debolezza in confronto con le cime sfiorate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi,
il gesto mirabile di Kalypso, ritrovata la spola d'oro. Ma è
miracolo breve, e rado. Un poeta nostro, che sé con vigore asseriva
pagano, vide Ninfe e Driadi egli pure; eran però fuggiasche, e l'anelito
del suo cuore si compose prima in sdegno violento contro la presunta causa
della fuga, Cristo, che in ammirazione amorosa verso le bellezze
virginali. A un altro, vivo e fecondo, Versilia ninfa boschereccia deve
dire, sbucando da l'albero, Non temere o uomo; e il rimpianto strappa
biasimo fiero avverso chi più non vede gli antichi numi italici: vivon
eglino pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi entro le nari. Ma
non è giusto il suo rimproccio; il cuore non si sfa nel petto come frutto
putre. A lui medesimo, che pure vi portava, nuova, la sua sensualità
ferina e torbida e tormentosa, il mito, creatura fraterna alle stelle ed
ai sogni, sembra vanire implacabile, senza che il vanto e le promesse
d'un'arte magnifica e fin troppo cosciente della sua maraviglia
valgano a fermarlo un istante, né meno presso le ruine del tempio antico,
e l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne tronche. Si
allontana melodiosamente Perché? Eumene di Cardia, nell'età dei Diadochi,
sogna, innanzi a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di
Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di una corona spicea. Il di
seguente i soldati si ricingono tutti del segno augurale; e la promessa
divina incita i cuori, come il calcagno i cavalli. Sei secoli dopo,
Costantino annunzia (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione
fatidica in hoc signo vinces; e lo sprone è uguale. Eloquenza del fatto
minore! Nei petti si muta la fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli
le credenze adusate e (è la forma di scetticismo lor propria il
mutare credenza) altre ne accolgono al posto; scompare l'aura benigna in
cui si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il terreno
fecondante ove ne penetravano le radici. E accade che il valore religioso
della fiaba, il valore che sembrava, ed era presso molti, scomparso e
ottenebrato, si riafferma non per ravvivarla ma iDer offrire appiglio alla sua
distruzione. G-li eroi non avevano cessato di essere, nel profondo delle
coscienze, al meno, iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati, di
mano in mano che la Divinità si schiarisce e si eleva agl'intelletti
collettivi: Perseo con Demetra. Il resto opera la scienza. Non la
nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma tutte, le rispettate durante i
secoli come vere e come sole, sostituiscono nelle menti la loro verità e
il loro equivoco alle interpretazioni fantastiche; e sopprimono quei vincoli
fra popolo e mito pagano, che un appagamento della curiosità pel fenomeno
poteva ancor stringere. L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcobaleno
di Noè condannano Caco ed Iride, come Sansone soppianta Perseo. Si che
l'elemento scientifico, insito nella saga (se non intrinseco a lei)
fin dal suo nascer, contribuisce con il religioso al suo perire, quando
l'una e l'altra sete umana, di sapere e di credere, abbian trovato
altr'acqua al loro bisogno. Morta la capacità creativa della
mitopeja, stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, indottesi le
masse per diversi cammini; non restan più, dell'opulenza antica, che i
riti agresti simiglianti per sostanza o per forme ai pagani, e
l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo. Ma i riti agresti
accolgono festoso scampanìo di chiese, e ignorano il nume degli antichi
dèi. E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di quella fresca
e ingenua maraviglia, onde s'originò la saga; volonterosa in vano del
passionato amore, fra cui si svolse; pallida, dinanzi l'ombre crepuscolari
ove si rifugian labili le figure favolose evocate un istante, pallida di
accorata nostalgia. Restano anche le storie dei miti e la
storia della mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte di
nostalgia. Ho procurato che la bibliografia speciale dei successivi
argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo Libro II fosse né
ingombra dell'inutile né monca del pregevole o dell'indispensabile.
Diverso criterio mi parve in vece di tenere per la bibliografia generale
su gl'indirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera degli
studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneutica, su le dottrine che filosofi
sociologi psicologi etnologi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A
raccoglier difatti quest'altra bibliografia un grosso volume mal
basterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte arbitraria,
usurperebbe grandissimo spazio. La omisi dunque presso che intera, salvo
pochi accenni sporadici; né l'includerla sarebbe stato dicevole, per
esser questo Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma storica;
tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte alle varie correnti
e agli opposti principii degli studii mitologici deve risultare, non da
discussioni teoriche e generali, bensì dal giudizio particolare recato
nella indagine e nella storia dei singoli miti. Un ottimo esempio di ciò
che potrebbe farsi è il recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli
Introduzione bibliografica alla scienza delie religioni (Roma):
lavoro che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce
utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo. A. F., Kalypso.
Andromeda. Il racconto di Ferecide. Il problema che si presenta primo
intorno al mito di Perseo e Andromeda consiste nella ricostruzione del racconto
presso Ferecide, del quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno
scoliaste la narrazione della nascita dell'eroe e del suo
soggiorno in Serifo e dell'impresa contro Medusa; ci è pervenuta
anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vicende cui Polidette ed
Acrisio andarono incontro dopo il ritomo di Perseo vittorioso; ma difetta
del tutto l'avventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. = Fee. fr. 26
Mùller ì^/fG'.). Ma la parte mancante del mito in Ferecide può venir
ricostrutta con sicurezza bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro
(Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto il resto della
fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel che racconta Apollodoro son
congiunti da strettissima simiglianza, divien lecito ritenere che il
testo della Biblioteca possa supplire senza errore né equivoco la
lacuna ferecidea. ANDROMEDA Ora, bisogna anzi tutto tener
presente che il mito di Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio
di Ferecide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste, ci resta invece
integralmente nella Biblioteca. È quindi a priori chiaro che in
quest'ultima debba essere qualche particolare pili che in quell'altro. Ma
ciò può anche provarsi ne' singoli casi.In due punti ApoUodoro dà a lato
del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire la paternità di
Perseo a Giove, riferisce senza esplicita preferenza che altri l'attribuivano a
Prete fll 34); dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera
di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gorgone è uccisa da
Atena. Ciò mostra ch'egli aveva presenti racconti un poco diversi ; ma
mostra a un tempo che sapeva serbarli distinti: onde è legittima
l'opinione che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una
fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene in modo aperto. Di
ben lieve natura difatti son le varianti che, senza l'avvertenza dello
stesso Apollod., separano il suo racconto da quello degli scolii citati.
Nella Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa del
capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòaf^eìag T^g Oivofidov ydfiovg;
nello scoliosi parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro che
l'omissione è qui dovuta solo al riassumere, tanto più che in entrambe le
fonti Perseo fa spontaneamente la promessa mentre gli altri promettono
cavalli. Poi in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce che
non gli dà nello scolio: evidentemente chi riassunse omise questo
particolare ; e difatti la falce è menzionata nello scolio medesimo
quando l'eroe è per recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi
quando la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, Steno,
Euriale e Medusa, là dove lo scolio dà sol quello di quest'ultima; quando
Apollod. narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna a
guardar Medusa nello scudo per non esserne impietrato, mentre lo scoliaste
riferisce solo che gli dèi Ermete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv
KecpaÀìjv àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov; quando in Apollod. dal capo
reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso, di cui tace il riassunto da
Ferecide ; quando la fonte più estesa fa rifugiare Danae e Ditti in
Serifo su l'altare, mentre la pili concisa omette a dirittura ogni
accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara in cui Perseo
uccide il nonno Acrisio è indetta da Teutamida re di Larisa in onore del padre
defunto, e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov
iv Tfl Aagioar]. Unica più profonda discrepanza è questa : ApoUodoro dice che
Perseo gareggiò nel pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov
o^jio) ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco
diverse: contro la tradizione che ricordava un pentatlo polemizza lo
scoliaste e la sua recisa negazione fa a sufficienza intravvedere una tesi
opposta e taciuta: la quale dev'essere a punto o la ferecidea accolta da
Apollodoro altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui
uno scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo che
riassume e di cui cita l'autore. Stabilita pertanto la strettissima
attinenza fra Ferecide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse
identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli particolari)
alla versione apollodorea anche l'episodio di Andromeda, del quale gli
scolii di Apollonio Rodio tacciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro
per colmare la lacuna nel racconto ferecideo. Col possesso in
tal modo conseguito di una redazione comparativamente antica del mito di
Perseo e, in particolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie
per cui la critica deve procedere nel suo esame : però che la natura
stessa del racconto orienta l'analisi intorno a Perseo, prima ; ad
Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ; ad Atena e alla Gorgone Medusa, in
séguito ; a Cefeo Fineo Cassiepea, da ultimo. IL Perseo. Le
imprese di questo eroe sono numerose e varie nell'apparenza, ma un occhio
esperto non esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;
decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la madre Danae;
impietra Polidette e quei di Serifo : compie in somma parecchi fra i
consueti atti degli eroi solari. Che il sole nascente sia considerato
l'assassino del sole, suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole
competa la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del Nord dell'estremo
occidente, e contro i mostri tenebrosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo
che può esser per criteri soggettivi negato, ma non deve più esser
ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch. Absch. VI Mythos und
Religion e SANCTIS (si veda), Storia dei Romani Religione primitiva dei
Romani e GL’INDO-EUROPEI IN ITALIA. GL’ARII IN ITALIA. Un eroe solare ritiene
difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech. Mythologie.
Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli, le argomentazioni in
contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.: giacché egli dimentica la differenza
profonda A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria di A.
J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig.: Perseus 'le destructeur' n'est
sans doute qu'un vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée
comme Vakinekés l'était chez les Scythes e sensibile che intercede fra i motivi
naturalistici e gli spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol
ridotto. A questo proposito sarà anzi bene osservare che, per
reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe videro un dio
solare e un fenomeno meteorologico in ogni episodio dei miti, i recenti
indagatori caddero nell'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo naturalistico
e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo significativo di questo
secondo eccesso è l'articolo di R. Sciava in " Atene e Roma. Assai
equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo e la mitologia
comparata Pisa. Ma è notevole che quest'ultimo autore deve lasciar nel
bujo il significato e l'origine della Sfinge; e quel primo,
trattando di BELLEROFONTE (si veda – H. P. Grice, “Vacuous Names”), non
spiega la CHIMERA (Grice, Vacuous Names). Entrambi quindi appajono per
ciò stesso attenti a un aspetto del fenomeno mitologico non a tutti. È
quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel mito cosi al
naturalismo come alla novellistica. Il problema poi intorno alla priorità
dell'uno o dell'altra entro le singole saghe va, in parte, resoluto caso
per caso; in parte è d'indole generale e vien trattato in questo saggio. Qui
diremo solo, in breve, che l'intuizione naturalistica suppone una
grossolana conoscenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già
densa di più larga e più ricca esperienza umana. Comunque, procureremo, dopo
queste premesse, di sceverare quei due elementi, naturalistico e novellistico,
nei varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spezzarsi il racconto
di Perseo. È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. RéviLLK in
" Rev. de l'hist. d. relig. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. Nel
racconto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto dalla
critica, attira fortemente l'attenzione il particolare della fuga di
Acrisie re da Argo in Larisa, dal Peloponneso alla Pelasgiodide tessalica: fuga
con cui è connessa la menzione del re pelasgico Teutamida e di un
ijQipov in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R.). Si son
sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessalica sul mito di Perseo (cfr.
Kuhnert). Ma ben più sembra che se ne possa dedurre ricordando
quanto, dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grandfragen
der Homerkritik, intorno allo scambio fra Argo peloponnesiaca e Argo tessalica
["Aqyos JleÀaayiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in
cui l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare con l'Argo
del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono a questa attribuiti, è
molto probabile che l'Argo di cui è re quell'Acrisio che la stessa
leggenda peloponnesiaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in
origine al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e critici
moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con probabilità scientifica ritenere
che abbiamo in Perseo un nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi
furono già constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti.
Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo alcuni
particolari, a cosi dire, laterali del mito, il cui valore era fin qui
stato in gran parte misconosciuto; particolari i quali son pure, a un
tempo, riprova della verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la
discendenza di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia
Apoll. I 88, in un luogo che non è, come il v., sotto l'influsso di
Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la nascita di Perseo non per
opera di Zeus si di Preto fratello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II
34, che riferisce questa come una tradizione parallela alla
ferecidea, e lo Scoi. A II. S, che fa risalir la notizia a Pindaro. 11
primo di questi particolari lascia chiaramente iutravvedere una forma della
fiaba in cui i due salvatori di Perseo e Danae sono personaggi
tessalici della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pelasgico,
quella ha da essere la forma primitiva della fiaba. Onde e assicurato al
nucleo originario del mito l'intervento di quelle due figure. 11 secondo
particolare poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dobbiamo di
fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus padre di Perseo e quella
che padre afferma Preto : e non possiamo non propendere a riconoscere
carattere argolieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella vita
dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che fin Argo l'eponimo
del luogo, è figlio di lui (Esiodo fr. RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr.
Feeec. fr., MùLLER FHG). La tradizione pertanto che dice di Preto
sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e quindi anteriore a
quella su cui gl'influssi peloponnesiaci son già palesissimi. E poiché col
delitto di Preto si riconnette bene la cacciata di lui per opera di
Acrisie irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche quest'altro
spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus. Il 25, 7 e pili ancora
da Ovidio Metani. versi; i quali riproducono una tradizione già alterata
da elementi estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache,
per cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie
addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto appartenga allo
strato tessalico del mito crea ostacoli il rilievo ch'egli acquistò poi
nelle saghe tirinzie : che potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al
suo trasporto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi la nostra
congettura, ove paja ragionevole, spiega forse anche il valore
naturalistico di Prete, ritenendolo analogo a Zeus, e da Zeus sostituito in
regioni ov'egli era poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi
solo obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, appare anche
nella connessione con i Liei C Luminosi) in cui egli è posto dtiìVIliade
Z. Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono potrebbero
appartenere a uno strato tessalico della leggenda, non sarebbero di per
sé sufficienti a provare di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un
l'altro non dessero modo di trarne un racconto organico e coerente,
che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mitici e novellistici
analoghi. Ora è notevole in vece che, tenendo conto dei materiali
tessalici, espungendo le inserzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama
compiuta d'un mito: serbate le due figure di Acrisio e di Preto di cui
l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è anteriore a Zeus peloponnesiaco e ne
sarà sostituita; serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R.) che
diviene anche più dicevole per la vicinanza e le attinenze fra Delfi e la
Tessaglia; serbati Ditti e Polidette figli di Magnete, onde si acquista anche
sufficiente notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae;
serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei: ne nasce un
racconto che è omogeneo e definito, e si raccomanda quindi tanto per la
sua localizzazione geografica uniforme quanto per la sua coerenza
interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tessalico a
quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire il nome e la figura di
Danae: giacché se il secondo caso fosse il vero bisognerebbe supporre che
essa sostituisse un nome e una figura più antichi. Ora se è certo
che nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae si
riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e caratteristico ceppo
mitico; non è però man certa la presenza di Danaidi in Tessaglia, se si
cfr. Scoi. Apoll. R. e Antonino Liberale. Va pertanto conchiuso che
Danae può appartenere assai bene allo strato tessalico del nostro mito; e che,
se non è dicevole ai fini della ricerca presente il vagliare il problema
mitico di Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi intorno
alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra
ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratificazioni
distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro mito ch'è intorno ad
Acrisio e alla sua morte. Né è difficile stabilire l'epoca approssimativa in
cui la seconda si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è,
come congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete
tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto di Zeus, se ne
deve dedurre che come l'età tarda del passo lascia buon margine alla
leggenda tessalica di Prete, cosi la sua comparativa antichità, giacché
anche le meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abbastanza
vetuste, fa risalire non poco nei tempi l'intervento del Peloponneso. Non
rimane adunque che studiare partitamente l'uno e l'altro
strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato peloponnesiaco come
posteriore al tessalico, il problema critico consiste non tanto nel
cercar le cause singole dei singoli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il
Peloponneso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire passo
passo, fin che è possibile, il processo di penetrazione di quel mito in quel
territorio. (Le testimonianze si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee
Lex.; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha dubbio che al
complesso di piccole saghe esistenti in Micene in Tirinto in Lerna in
Midea e nella stessa Argo non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata
innanzi la diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si
attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta germinazione di
miti secondari sul ceppo del principale dev'essere stata a bastanza tarda
se nella trama vera e propria della leggenda le peculiarità locali non
han potuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo a
Serifo: per cui è a priori possibile cosi che il culto abbia preceduto la
leggenda onde ivi son localizzati Ditti e Polidette, come che sia
avvenuto l'opposto. Nel primo caso sarebbe però da spiegare perché il
culto di Perseo abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra
dell'isole vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza
risposta la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai
mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Argolide, come sede
del salvator di Perseo. Né l'esame della genealogia di Ditti e Polidette
conduce ad alcun che (Febeo, fr. -= Scoi. Apoll. R.), come di
quella la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argolide, non a
Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde Perseo avea da venire per
uccidere Acrisie era senza dubbio indicato, in modo vago s'intende, a
oriente. Più tardi la localizzazione dev'esser divenuta più
esplicita, e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto
dicevole, di cui per altro ignoriamo il nome. E non e improbabile che
questo fosse tale da determinar per analogia a dirittura omonimia la scelta di
Serifo fra l'isole che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponnesiaca.
Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta avesse un motivo
unicamente geografico l'est; ma è ipotesi non sufficiente a spiegar tutti
i fatti se si guarda all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo;
ed ipotesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale supponesse
un intervento di casualità. Il problema rimane ACBISIO, PBETO, POLIDETTE
E DITTI 333 dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo
deve essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè vi
rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché lo stesso è da dire
di Zeus che prende il posto di Preto, bisogna ritenere che questi due
punti fossero ben fissati già quando il culto di Perseo prese a
difiondersi per tutto il Peloponneso. Un momento successivo è
occupato dalla saga di Tirinto (Apoll.). Questa saga non si sarebbe
dovuta creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto
importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, costringendo i mitologi a darne
una giustificazione. D'altra parte se era plausibile che, come si disse
da quelli, dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si vergognasse sls
"Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare la scelta di Tirinto
ch'egli avrebbe fatta in cambio, se a Tirinto s'era radicato e svolto
quel Preto che importato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato
favore nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e
Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano entrambi che i personaggi della
saga tessala attecchirono assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono
poi tutte l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Micene p. e.:
Pads.), che sfuggono al racconto d’Apollodoro, testimoniando per tal modo la
loro recenziorità. La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel Peloponneso,
specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data dai genealogisti.
Combinando Apollodoro (con Ferec. fr. = Scoi. Ap. R.) risulta il seguente
schema che può valere come volgata su questo punto: Linceo
Ipermestra Lacedemone Abante Euridice ACRISIO Prkto Zeus Danae Megapente
PERSEO Andromeda Posidone Amimone
Nauplio Damaatore Pericastore Peristene Androtoe Alceo
Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette Anfitrione Alcmene Euristeo
Ippotoe ERACLE Tafio Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i
punti fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert vi vedeva la riprova che
Acrisio e Preto sono originarie divinità argive (predoriche) cui si vuol
imparentare l'eroe dorico più recente Eracle, non senza che nel
contrasto fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità
dei ceppi. Ma se a Kuhnert si può concedere che tardo sia
l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può consentire in
vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero il posto che essi occupano
nello schema genealogico è ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la
lor origine peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar
sìibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto era
possibile; ma due generazioni dovevano necessariamente intercedere: una, quella
di Acrisio e Preto; l'altra, quella delle Danaidi. Più oscura resta la
presenza della terza generazione: di Abante. Ma non mancano
elementi per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe in
Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo degli Abanti
di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II. B 536, Scoi.
Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431 ha un luogo che merita comento
: oc oh [rò "AQyog tò IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò
zojv QerzaÀ&v 7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov, &ef.tévov
zovvofia ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è,
sùbito evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma è del
pari evidente che un motivo deve aver indotto a sceglier per l'appunto
Abante per attribuirgli l'introduzione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo
non può esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi nella
Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo culto. La quale ipotesi
concorda bene con la presenza di nomi affini a quello di lui in Eubea e
nella Focide: territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se
ciò è probabile, ne deriva che Abante potè essere importato in Argolide
in una con Acrisio e Preto da l'Argo pelasgica e si spiega in fine la
presenza di lui, terzo, fra Danao e Danae. Per Ditti e Polidette non si
trattava in vece che di porli nella medesima generazione di Perseo e
Andromeda, di imparentarli con essi per meglio giustificarne
l'accoglienza: e a ciò valsero nomi come quello di Nauplio, eponimo di
Nauplia, di Damastore, padre dell'argivo Tlepolemo in U., di
Peristene, sposo d'una danaide Elettra in Apoll. Or come lo schema
genealogico studiato fin qui mostra Acrisio e Danae innestati fra Danao
(già anticamente peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente peloponnesiaco.',
cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie di Pelope (le
testimonianze presso Kuhnert) rivelano la analoga tendenza a collegar il
nuovo venuto eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso
che la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II 44 Schone;
Cirillo c. lui.; Agost. de Civ.; Scoi. Totr. IL. Questa dev'essere la leggenda più antica;
l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert) dovè nascere allor che Dioniso
fu più a fondo penetrato in Argolide]. Che se però lo strato argohco
può esser suddiviso in parti cronologicamente succedentisi, il tessalico
offre occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve a
gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta prima sfuggirebbero
nel mito e che sono tutt'afFatto novellistici. Certo esso è, originariamente,
vivo di sostanza naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso,
deve valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G.) della nuvola
nera o di alcun che di simile: e, se bene forse sia eccessivo precisare
di più, in ciascuno di questi casi è chiarissima la ragione per che
Perseo, l'eroe solare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo innegabile
strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca di un nuovo
contenuto. Il motivo invero della figlia o, più latamente, della vergine
che contro un esplicito divieto divien madre e paga il fio di questa sua
colpa insieme con la sua piccola creatura è svolto in larga diffusione
nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo spunto, che si fonda sopra
una primitiva bambinesca intuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto
di Perseo contro il nonno. Ugual carattere novellistico si riscontra
poi in Ditti: il cui nome non è se non il generico appellativo "
pescatore, (cosi che è quasi vana postilla quella di Ferec. fr. òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui natura è
per tanto assimilabile a quella del consueto pastore agricoltore che rinviene
la derelitta ed il figliolo abbandonati alla violenza delle forze
naturali. Potrebbe bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr.
la cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide Lahonische
Kulte e il Gruppe Gr. Myth.). Ma il
contesto della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre che il
caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che cioè l'indubitabile
carattere novellistico offuschi un antico sostrato naturalistico. Certo in ogni
modo che per quel primo carattere non per questo sostrato Ditti
entrò e rimase nel mito di Perseo. Altro è di Polidette: questa
stessa forma verbale si rintraccia difatti in un attributo di
Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios Jbb. Phil. ha creduto di
identitìcar con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipotesi
ci par ragionevole, a patto che si facciano due restrizioni : anzi tutto non è
da credere col Crusius che Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura
dell'Ade- Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma
tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete, è da pensare
invece che originario fosse Polidette, il cui significato trasparente fa
intra vvedere un fondo naturalistico al suo episodio come a tutto il primo
nucleo della saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la
interpretazione da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e
Perseo con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'importanza
del mito su questa, la riteneva simbolo dell'anima che il re sotterraneo
rapisce e Perseo (= Ermes) libera. Se al contrario è vero che Danae è
divinità del mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spiegazione
di entrambi esiste rispetto a Perseo in un concetto unico. Nel fatto l'eroe
solore Perseo si pretendeva nato da Danae come il sole dall'ombra; ma
poi, sopravvenuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un
doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad uccidere Acrisio non
pur dall'onental Magnesia (v. sopra) si anche dall'ombra, dalla regione
sotterranea, onde ogni mattina il sole emerge. La cattività di Danae
presso Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità F.,
Kalypso. ANDROMEDA sostanziale dei due personaggi. In tal caso,
ammettendo la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione ferecidea
che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba spiegare come un
atto unico di elaborazione mitologica per cui dalla Magnesia (per la sua
positura astronomica rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del
padre, e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno. Considerati
nel loro insieme lo strato argolico, di cui vedemmo i successivi momenti,
e il tessalico, di cui tentammo scernere gli elementi naturalistici e
novellistici, costituiscono per un lato una fiaba di schema
consueto e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato appiglio
a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine, continuando, ce ne darà
conferma. Atena e la Gorgone Medusa. Gl’elementi che caratterizzano
la prima avventura di Perseo in quell'intervallo di azione ch'è compreso fra la
sua cacciata da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo
elementi jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci riporta
senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di cui in Atene è culto
notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel suo Lex.); il mostro che combatte e
vince è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade (Iliade);
il luogo onde si muove è Serifo, colonia di Joni. A questi dati fanno
buon riscontro le notizie che per altra via si posseggono intorno al
culto di Perseo in Serifo (Paus., per le monete cfr. Head H. N), in Atene
(Kchnert), in Mileto (Strab. cfr. Erod., Edrip. Elena, Kuhnert): in
Mileto, specialmente, tali da risalire al VII sec. a. C. Da tutto ciò,
poiché anche il mito di Perseo e Medusa non contiene altri elementi
all'infuori di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre
che quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e che
per conseguenza la sua formazione è posteriore ai principii dello strato
peloponnesiaco, del quale appare un effetto. Quanto è
probabile questo risultato tanto par certo il contenuto naturalistico
dell'impresa. Le Gorgoni abitano (presso [Esiodo] Teog.) néQrjv kÀvtov
'Qxeavoìo èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono pertanto
evidenti mostri delle tenebre e della notte che dicevolmente si
contrappongono all'eroe solare in aperto contrasto. Là presso si devono
ritrovare gli Etiopi che abitano dove sorge e dove tramonta il Sole
{Odissea. A Nord, ma con egual significato tenebroso, stanno gli Iperborei
(cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di Rodi appr. Tzetze Chil.). Non è
dunque dubbio, anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si
riconnette pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie
e con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che quando in
territorio jonico il mito di Perseo venne importato e diffuso, il suo valore
era ancor a sufficienza noto e chiaro. E da origine
rintracciabile con probabilità derivano anche i singoli elementi
constitutivi della saga. Che Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa
non è spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in
(Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes (Leipzig 1879).
Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo stesso tema non merita d'esser
citato. (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil.
Unt. Cfr. Knaack Hermes. Su gl'Iperborei v. 0. Schròder "
Archiv f. Religionswiss., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.; Gruppe in
Bubsian-Kroll ' Jahresb. particolar modo di Dea del temporale (Beloch
Griech. Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa
trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose Gorgoni.
Antitesi invero che si serbò sempre, accanto al mito di Perseo, se Eurip.
Jone la ricorda e Apoll. II 46 è costretto a farne menzione. E, ultima
riprova di un fatto già a bastanza palese, anche quando alla Dea si
sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a lei sempre si
attribuisce l'ausilio in favor di Perseo (Ferec. fr. 26 e Apoll. ). Se
non che il capo di Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A
Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch.) si potrebbe supporre
per lui un'antitesi con Medusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Medusa.
Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo della Gorgone diventò ben
presto un costante e diffuso ornamento senz'altro motivo che di estetica
e di tradizione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è coperto,
e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti menzionata per lei in //. E 845
("^'^os KvvérJ. Di natura diversa, e novellistica, sembrano in vece
e i calzari alati e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non
sono mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della
vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché un aspetto
mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene [Esiodo] Teog. 270 sgg.;
Esch. Promet.; Apoll.; TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle
delle altre. Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la paternità
di Forco traviasse i critici; che vollero in gran numero ritener le Graje
personaggi naturalistici (Rapp in RoscHER Lex.). Ma bisognava prima provare
(e la prova manca) che la parentela e la paternità sono originarie nel
mito, e non indotte dall'essersi nella fiaba le tre Graje e le tre
Gorgoni (di diversa origine) trovate vicine. Di fatti delle Graje la
novella approfittò per farne i personaggi di una pre-avventura, la
quale trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni talismani,
che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza nelle fiabe. Ufficio analogo (e analoga origine per
conseguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la falce di lui.
Mentre però le Graje dovevano contrapporsi a Perseo, come quelle che la
notte ricinge, Ermes dove essergli propizio, come quello che quando si
scontrò con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure
(Beloch Griech. Gesch. Mentre inoltre le Graje nel cammino dell'eroe si
trovano solo per motivi novellistici; Ermes si trovava in vece anche nella real
sfera della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo.
Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito di Perseo pare
concepito in territorio jonico; è, nel suo fondamento, senza dubbio
naturalistico; ma coi personaggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si
mischiano gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i
talari); e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche
quei personaggi vi intervengono con offici proprii della novella. V.
Cefeo Fineo e Cassiepea. Gli elementi onde è costituita la impresa di
Perseo contro il x^roy sono di natura e origine assai più incerta che
quelli raccolti intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere
dalla prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai In
quanto al valore originario di Ermes lascio qui intatto il problema e
solo rimando a E. Metek G. d. A. IRicordo anche Roscher Heìines der
Windgott (Leipzig) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes der Mondgott
(Leipzig 1908) che determinò una polemica appunto col Roscher. dati
tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la diffusione di Cefeo
nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la constatata presenza di Fineo in
quei luoghi (v. sotto), inducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il
territorio forse di formazione e probabilmente di diffusione di
quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame delle figure
singole. La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, bisogna a pena
osservarlo, parallela per significato all'impresa avverso Medusa. Sarebbe
quindi già a priori da attender notizia intomo a un Nume che in
quell'avventura compiesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un
cosi fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimologica, da ravvisar
in Andromeda, nel cui nome è non dubbia la radicale di àvfjQ; se a
conferma validissima non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d.
Inst.; KuNHERT) in cui Andromeda appare non legata, vittima
prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico liberatore, ma ritta presso
l'eroe nell'atto di ajutarlo a respinger la belva col lanciar sassi, che
sono raccolti in mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir "
ajutatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né la
comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve stupire: è ovvio che
la stilizzata tradizione artistica dei vasai deve aver serbato in anni
posteriori, quando il mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma
che esso aveva pia anticamente assunta. Questa ipotesi però intorno
al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto evidente da indur meraviglia
che il cratere possa esser stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o,
c. 2020), pone anche il problema su le cause del passaggio da
quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è chiaro che
l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non potevano, nella veste più
arcaica, venir raccontati l'uno appresso all'altro senza che se ne dovesse
notare, sùbito, la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissimilarli.
Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile innesto su quella saga
naturalistica di uno spunto novellistico : la fanciulla cattiva e liberata,
premio al prode che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). Se
non che alla medesima forma vetusta e primordiale dell'episodio non dovevano
mancare gli Etiopi. Fu veduto dianzi come le sedi loro nella concezione
mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E tanto più qui il loro
ricordo era importante in quanto, mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a
sufficienza i luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe stato
indizio locale bastevole. È cosi preparato il terreno a giudicar di
Cefeo. Le testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali
da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più a fondo radicato.
I testi fondamentali di Apoll., di Paus., di Apoll. R. Argoti., che tutti
lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea in Arcadia, e re di Tegea; le
monete di Tegea appunto, in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in
Roschee Lex.: fissano in modo esplicito per l'età storica la sede
prevalente del suo essere mitico presso gli Arcadi. In particolare poi Paus.
asserisce che da Cafeo avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il
problema, che non in questo caso solo si presenta alla critica, fra le
attinenze reciproche de' due nomi non può esser risolto fin che manchino
notizie sul culto di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far
deri- Cfr. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens; che mi sembra però
superficiale. vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo
quelle attinenze non sono da negare. E queste notizie sono non
infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. ove Cefeo è àn:' ^QÀevov \
Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v OTQazov : perché nell'Acuja dobbiamo
ravvisare uno dei punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia
nel restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor dell'Arcadia,
introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi, cacciati da Eracle, cui
egli avrebbe recalo ajuto ottenendone in premio la perenne salvezza del suo
dominio in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane fr.
Bgk. {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvdaoù)v) ne aveva sentore: cfr.
inoltre Apoll. II 144, Stef. Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più
tosto tarda irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e
l'Acaja, fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto,
sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad. B 498 QeaTCEiov
zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11 TiÌMPEL Kephcus presso Roscher
Lex. II 1, 1113 esclude, senza peraltro addur motivi, che queste parole derivino
dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una combinazione tra le 50
figlie di Tespio e 60 figli di Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle
sue ipotesi su Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di
Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel su Cassiepea
(v. sotto), va qui solo rilevato che non è difficile chiarire la genesi, posto
che equivoco di nome non siavi, della notizia serbata in quello scolio.
Le genealogie (1) che esamineremo più tardi (v. sotto) uniscono Cefeo con
Fenice e Cadmo, tebani e beoti per Queste genealogie sono studiate
ampiamente, se non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud.
„ XXXIII (1913) 53 sgg. eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi
quindi, Cefeo dev'essere pertanto giunto in Beozia. Tra queste notizie,
più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta alla Beozia, e quelle
che ci richiamano all'Arcadia il criterio per scegliere in modo decisivo non
manca. 11 Cefeo arcade è secondo Ellanico (fr. = scoi. Apoll. R. I
162 combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip. Fenice;
contro l'opinione del Tumpel a. e.) figlio di Posidone; e secondo
Apoll. fratello di Licurgo (per
contro di Licurgo è figlio presso Apoll.). Questi dati genealogici, come
ci vengono riferiti solo per il Cefeo dell'Arcadia, cosi concordano del
tutto e con il suo carattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la
probabile etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia
riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi gramatici lo si
riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f), sempre vi traspare la natura
d'una divinità ctonica e tenebrosa: la quale in vero viene pensata o
abitante nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge il
sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la localizzazione di
Cefeo in Arcadia dev'essere la più antica, come quella con cui va tuttavia
connesso il ricordo di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome
rivelano del pari. Mentre però il nesso fra Cefeo e gli Etiopi risulta in
tal modo se non primordiale certo antichissimo, non si può dire altrettanto del
nesso con Andromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice,
di Perseo, solo quando, ed è, come si vide, assai per tempo, l'avventura
dell'eroe contro il xijvos fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a
traverso questa localizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo. Perseo,
Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano per tal modo sufficienti a
costituire, per sé soli, la trama di un episodio mitico; onde la presenza
di Fineo e Gassiepea, per non sembrare un' intrusione superflua deve venir
giustificata con l'indagare partitamente il valore di quelle due
figure. Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio che si
tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „ (cfr. TùMPEL in
Roschek Lex.) che compete in bellezza con le dee e ne è punita in sé o
nella prole. I luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla
non hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi è
indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser stata congiunta
(miticamente e genealogicamente) con Cefeo Fenice e Cadmo, viene
sostituita a Memphis come moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e,
altrove (Esiodo fr. Rz.), fatta discendere da Thronie, l'eponima
d'un luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B. Si sa
difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici e genealogici Fenice e
Cadmo ; e che con la Beozia (e quindi con le regioni vicine) han nessi
cultuali e geografici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son conseguenza
d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel quando su la fede dei
luoghi citati asserì Cassiepea esser beota. Ma se la Millantatrice
è originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con Andromeda e
Cefeo si deve esser connessa non per contiguità di luoghi ma a compimento della
trama novellistica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che la sua
presenza accanto Andromeda risalga a quel momento in cui la figura di questa
viene appunto novellisticamente atteggiata nel tipo della vergine che un
prode libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diventava
necessario giustificare in qualche modo la cattività della fanciulla;
alla quale il vanto della Millantatrice, potè divenire argomento
sufficiente (contro Tumpel). E solo a traverso Andromeda si strinse il
legame di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipotesi sta nel
non potersi rintracciare nella sua figura e in quella parte del mito ohe
più le attiene alcun indizio d'un'antica e diversa vita
mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr . mette a
sufficenza in luce il sostrato naturalistico del mito, che è più
propriamente suo, delle Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei
caldi venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole e di
danno, contro i venti del Nord, che insorgono a respinger quelli e a
difendere il nume cieco del bujo settentrione. In questo sostrato però
non si vede elemento alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di
Fineo nel mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra la
sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva anche dicevole
la presenza sua fra gli Etiopi. Ma se le sedi mitiche di Fineo si
potevano cercare senza contraddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o
a l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintracciata sul
Ponto quando divenne pei coloni Greci quello l'estremo punto
settentrionale conosciuto (cfr. le testimonianze raccolte dalJESSEN sul Roscher
Lex.). Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' popoli :
onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei Fenici (Bkloch Griech.
Gesch.) e con Egitto e Libia. Di qui appare possibile anche l'ipotesi,
contraddicente quella cui si pervenne pur ora, che il nesso fra Fineo
e Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico ma
traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli Etiopi in senso
geografico.Senza dubbio però le tracce che si riscontrano intorno a un
Fineo Arcade (presso Apoll. ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone
e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Arcadiae) debbono ritenersi
posteriori al nesso con Cefeo ANDROMEDA e determinate da questo. Né
giova a sostegno del contrario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie
; perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo de'
mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi erano unificati in un
solo aspetto leggendario ; ma dobbiamo, giusta i pili savi e moderni concetti
critici, ritenere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe
parte simili parte dissimili, senza che la località dell'una possa illuminarci
su quella, probabile, delle altre. Restano ancóra da indagare le
attinenze tra Fineo e Cassiepea, prima che il problema critico si
presenti in tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario
ricostruire lo schema genealogico la cui esistenza sia presumibile presso
Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli citi del RoscHER Lex.) ha
considerati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach) 31 e 23. E
ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica di due Cassiepee, secondo
questi due schemi: I (fr.): Tronie
Ermes Arabo I Cassiepea (fr.): Agenore
Cassiepea ~ Fenice I Fineo Il testo SU cui si fonda è Strab:
che per vero egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed
Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì Che han per
fondamento, insieme con l'altro art. del Lex., il voluminoso saggio dello
stesso TùMPEL in " Jahbb. Phil., Supplbnd. II concetto
essenziale di questo saggio (che nella più antica forma del mito la sede
dell'episodio di Andromeda è Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confutato dal
KuHNERT 0- e.CEFEO FINEO E CASSIEPEA TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai,
7if&avù)raT0t Sé elaiv ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai.
Tuttavia nel verso omerico Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI
Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84) non ritiene dicevole il sostituire
con Zenone "AQa^dg te : perché, dice, non v'è corruttela di testo;
v'è bensì mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore.
Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év KaiaXóyqj
conosce Arabo: Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr.]. Bisogna
dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di Esiodo il nome di Arabia
esistesse, e non esistesse ancora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). Di
questo passo l'interpretazione non può essere, pare, che una :
Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di Arabo, figlio a sua volta di
Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia fuorviare dalla menzione,
che quivi è fatta brevemente, degli Etiopi, e ritiene che per Strabene
Arabia sia il nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqufioio sia
la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde integra il fr.
cosi: Tronie Ermes Arabo I Cassiepea Cefeo
Andromeda. Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non
costi- Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. e Anton. Lib.
40. tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. \Ì7tò yàQ xov elg
zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀoyovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig
fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav '
oìtoi Sé (ol 'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fiéQog
Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i, tò TiQÒg AlyÙ7tx(fi v.a\ AI&
ton la. E, continua, per tal motivo appunto questi Erembi son ricordati
da Omero: in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi,
citati nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fiefivìja&ai
TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv TÒv MevéXaov, xad' hv
tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi
TtÀTjaid^ovoi. E parimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrjfilag
(xdQLv) y,al zov èvòó^ov. Come si vede, gli Etiopi servono a dare un'idea
della positura geografica degli Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo
dell'averli Omero ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si
voglia identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato positivo
adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la discendenza di
Cassiepea da Arabo. La qual notizia spiega un'altra, poco appresso (I
43), da cui è a sua volta integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv
Al&ioniav elg TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za
nsQÌ ztjv 'Av~ ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov
xar' ayvoiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov fiàÀÀov
a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul zoìg aÀÀoig à
7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano adunque alcuni (1) che
fondandosi su Esiodo portavano gli Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v.
'Unti, Eust. Cotnm. in GGM. II
375- Di questa localizzazione fenicia del mito non mi sono occupato, che
ritengo essa possa e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a
parte. Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi
questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice (fr. 31 Rz.) quella
Cassiopea che nel mito di Andromeda è regina degli Etiopi. Non è quindi
in nessun modo lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo
avesse ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe,
COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo altrimenti
chiaro. Concludendo, da Strabene, ben letto; può risultar soltanto: che
Cassiopea era figlia di Arabo in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E
quindi permesso unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente
schema esiodeo: I-f II (fr. 23 + 31): Tronie - Ermes
I Agenore Arabo j I I Cassiepea -
Fenice I Fineo. Nel quale schema, analizzando si
ravvisano svibito elementi secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi
principali raccolti nei due nessi Cassiepea-Fineo e Fenice-Fineo. Quest'ultimo
è senza alcun dubbio da spiegarsi al modo medesimo del nesso
Arabo-Fenice, Fenice-Egitto; come, ciò è, un avvicinamento di numi
eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stranieri. Ma il primo di quei
nessi non può legittimarsi se non pensando a possibili analogie mitiche
tra Fineo e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non
servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E difatti
un'affinità si vede sùbito tra le due figure invise agli dèi e dagli dèi
punite : l'una come millantatrice; l'altra come dio tenebroso vinto dal
Sole. Di più poi permette di discernere l'esame dei motivi dalla
tradizione addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo
avrebbe preferito una lunga vita alla vista, offendendo Elios (Esiodo fr.
52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via a Frisso; Fineo avrebbe ajutato
nel viaggio fra le Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R.
Il). Ora è ovvio che il terzo motivo è ricalcato sul secondo, e molto tardo ;
che il secondo è posteriore alla localizzazione di Fineo sul Ponto, e
quindi recente ; che il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che
di questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando il
sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo andò inavvertito ; giacché
prima era sufBciente a tutto legittimare la natura di lui e quella di
Elios. Non è pertanto improbabile che in quell'età comparativamente
non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novellistici a fin di motivare
l'antitesi tra Fineo e la luce, come piacque l'aneddoto dell'offesa al
prezioso dono del vedere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma diversa)
l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio, Dell'invenzione
unica traccia ci rimarrebbe la genealogia esiodea. In somma, può darsi
sia che Cassiepea e Fineo si connettessero primamente per i motivi or ora
supposti, sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del
quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri. Riassumendo ora
in breve i risultati delle singole indagini, veniamo a importanti
ipotesi: Cassiepea offre al mito di Perseo -Cefeo Andromeda (Etiopi), uno
spunto, ed entra in quella trama; Fineo si unisce a Cassiepea per
lo spunto no- L'ipotesi è del mio maestro SANCTIS (si veda); la
responsabilità dell'argomentazione è mia. vellistico che trova in questa
la causa della pena di quello; o, in linea secondaria, col marito di
Cassiepea (Fenice), come rappresentante di genti straniere;
Fineo si unisce a Perseo come nume del bujo ad eroe solare; o, in
linea secondaria, a Cefeo come rappresentante di genti straniere. Di
questo triplice rapporto rimangono le tracce sensibili : a) nel racconto
ferecideo del mito di Perseo; V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in
Ferecide e specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa è
una matassa confusa di cui bisogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a
sé, e d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato
etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo) la loro natura
evidentemente tarda è tale, che ove accanto a una di esse se ne possa ravvisare
un'altra a sostrato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la
preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo è costituito da
questo racconto, coerente e conchiuso: Cassiepea si vanta e la divinità
offesa la punisce nel figlio Fineo (h); questi è condannato a venir
superato in duello da Perseo. Un terzo gruppo infine è costituito
da quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso; Cassiepea
si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5 Perseo libera la fanciulla
(a). Di questi gruppi il terzo è testimoniato in Ferecide (= Apollodoro)
; il pili ipotetico è il secondo : esso suppone in vero e una variante su
la causa della pena di Fineo, e una variante su questa pena medesima : vale a
dire tutto un mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza
di coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza di
produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega molto bene, e
insieme, tanto la discendenza esiodea di Fineo da Cassiepea quanto il
duello tra Perseo e Fineo; F., Kalypso. discendenza e duello che si
potrebber bensì giustificare pensando per l'una a un errore di
genealogia, per l'altro a una tarda aggiunta novellistica; con due
ipotesi però che non ci saprebbero render ragione né della singolarità
per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che uno spunto mitico
può ottimamente congiungere, né della preferenza data a Fineo su ogni
altro per farne il protagonista dello spunto novellistico. Poiché
invece l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi elementi tra sé
inconciliabili e discrepanti; e la preferenza casuale si può concedere
solo quando la preferenza logica sia impossibile; dobbiam conchiudere che
l'ipotesi nostra, pur non pretendendo di rispondere con esattezza alla
verità né di essere perentoria, spiega almeno nel modo che pare pili semplice
tutte le testimonianze che sono a noi conosciute. E, ultimo vantaggio,
non piccolo, ci fa intendere come il secondo gruppo e il terzo, in
entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si fondessero, trasformandosi
accanto ad Andromeda la figura di Fineo, in un racconto unico, in cui
Cassiepea si vanta, la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo la
libera col tradimento di Fineo che è ucciso da Perseo. Dopo le quali
conclusioni, non resta che da determinar conpid esattezza il valore di
alcuni trai personaggi secondari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea
Fineo e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea omerica:
Il; Od.; e sono trasparentissimi simboli di quelle regioni i personaggi
delle genealogie. Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll
in RoscHEK Lex). Se si prescinde da II. A 467 A 59 M 93 S'425
545-90 ove appare un Agenore figlio del trojano Antenore, con una non
dubbia consistenza eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde
cosi ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza attinenze
chiare con miti, con alcuni dei quali a mala pena si collega per nessi
insignificanti e punto caratteristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv.)
singolare di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe riconnettersi
con l'epopea in qualche modo, i testi su un Agenore argivo (Pads.;
Apoll.; Igino Fav.; Ellan. app. scoi. A II. F) o un Agenore avo di
Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads.) un Agenore figlio di Fegeo re di
Psofide in Arcadia (Apollod.) un Agenore etolico figlio di Pleurone,
genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll. 1 58 cfr. Igino fav.),
se rendono non dubbia una larga diffusione di quel nome, non son tuttavia
sufficienti a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a
prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere l'Agenore etolico,
il problema consiste nel decidere se il peloponnesiaco siasi
introdotto nella genealogia di Cefeo e Fenice per motivi di contiguità
geografica con il primo d'essi e con Danao ; oppure se la presenza
sporadica del nome di lui negli schemi del Peloponneso sia
posteriore al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto dell'esser
la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra fondamento
naturalistico-novellistico o sopra base etnicogeografica, sembra da preferirsi
la congettura che in quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità
di rappresentante dei popoli che abitavano la Troade,
grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo simboleggia : congettura
che è confortata dal nesso di Agenore con le genealogie ove appajono
Cadmo e Fenice (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.). L'indagine
laboriosa che ora finisce conferma, secondo a noi pare, quel che
affermammo nell'inizio. ANDROMEDA Il personaggio fondamentale di questo
episodio mitico, Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che
come Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si
diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa il mito, se pure
non è quella ove si crea. Fuori da quell'area, come fuori da ogni altra stanno,
o possono stare. Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda,
"maschia „ prima, in seguito vittima del n^rog: personaggi
novellistici della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi
la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle quattro figure
tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il risultato rimane, è d'uopo
convenirne, opinabile. Tale, credemmo tuttavia di manifestarlo e
sostenerlo : sia perché ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin
qui difese, a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi;
sia perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto
possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana. I miti
etimologici presso Erodoto ed Ellanico (frr.). Che il nome di Perseo sia
stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non può far meraviglia
ad alcuno. Importa solo precisare i particolari di quel collegamento. A
tale scopo si confronti anzi tutto Erodoto: 'EKaÀéovTO óè ndÀai (1) ÒJiò [*hv
'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v nal Tù)v
7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g Te Kai A log ànineio
na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv,
ylverai aUt^ nalg r^ oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov
y^avaÀsCnei ' èvóy^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni
zovvov oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: 'Aliala,
Sogg.: i Persiani I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO
Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^AvÓQOf*édag [=
Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concordano nel rieonnettere il nome
Persiani a un Perse {Usq-' aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar
di quel popolo un nome anteriore " Artei,. Questa è forma che
ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo, Artaferne, ecc.
(cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924. 929) : quindi non v'ha alcuna
difficoltà critica a spiegar la presenza di questo nome nel mito. Ma
Erodoto ci dà di pili un nome di " Cefeni: con cui gli Artei (=
Persiani) sarebbero stati noti presso i Greci: in cui però non è né pur
difficile riconoscer l'invenzione erudita év ax^fiavi fiv&ov. Popolo
di Cefeo sono da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Persiani furono
avvicinati dalla leggenda, si era già troppo localizzata geograficamente
1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto perché fosse possibile un'equazione
fra Etiopi e Persiani. Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo,
usare un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „. Questi,
secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli Etiopi: e tale concetto
ritroviam difatti presso Stef. Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e
'/otti; (cfr. inoltre FHG. m 25, 4 e GGM); in realtà però furon
concepiti come diversi, cosi che la saga la quale localizzava in Etiopia o in
Fenicia l'episodio di Andromeda non parla di Cefeni, mentre l'altra che
l'episodio localizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi
(a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario contenuto de' due termini,
entrambi si usano indifferentemente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr
Lex., ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accettabile). Va
pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Persiani dai mitografi, dopo che
Perseo s'era fra essi per mito etimologico insediato; e che quel nome non
ha quindi alcuna analogia con l'altro, di ben diverso valore, Artei.
Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz. XaÀóaìoi)
XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oinért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi
ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti
^ X^QV Ki^cpìjvit] TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg
Kijq>rjv£g, àÀÀà XaÀSaloi. Il soggetto di àvéoTrjaav qual è?
Dev'essere XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul
Ponto (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.). L'omonimia con i
Semiti di Babilonia non poteva non indurre gli eruditi antichi a connetter,
senza alcun altro fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi.
E, come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da questi si
fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non che tutti i popoli (Tini
Mariandini Paflagoni ecc.) che fino alla Colchide occupavano le rive di
quel mare erano da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr.
Jessen in RoscHER Lex.); e da Fineo rappresentati. Se dunque i
Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia) e se quindi alla regione
ch'essi migrando occuparono conveniva dare un anteriore nome ; questo si
poteva scegliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di Cefeo:
tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Cefeni vennero assunti a nomi
pristini della regione e del popolo su cui si sarebbero insediati poi,
fuor da Babilonia, i Caldei. I frammenti dell'Andromeda di Euripide. Su i
framm. che di questa tragedia euripidea ci son pervenuti e che si trovan
raccolti presso Nauck Su questo punto sono insufficienti cosi il
cemento dello Stein come quello del Macan a Erodoto. FTG}.
furon tentate piti di una volta ricostruzioni della tragedia : cfr. Matthiae
Eurip. fragm., Wklckek Die Griechische Tragedie, Hartcng Eurip.
restitutus, Wagner fragni. Eurip., Fr. Fedde De Perseo et Andromeda
(diss.), P. Johne Die Andromeda des Euripidea in Elfter Jahresbericht des
K. K. StaatsObergymnasiums zu Landskron in Bòhmen, Wernicke Andromeda in
Fault- Wissowa R-E.^ I 2156
sgg., E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex., Wecklein in Sitz.-Ber. d.
K. Bayr. Akad. d. Wiss. H.-Phil. Kl., Mùller
Die Andromeda des Euripides in '' Philologus (N. F.). Di
tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tragedia frammentaria per
modo che ne riescan fissati i singoli episodi nel loro succedersi, la
struttura complessiva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei
varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine, né pur una fra
esse riesce a liberarsi da una duplice inevitabile contraddizione. Anzi
tutto mentre è pacifico oramai che Euripide si deve essere pili o men
liberamente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual è
riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men profondamente rielaborato non
pur la trama tutta si anche le diverse figure, per contro si tende da
tutti a far coincidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con il
racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei particolari quella libertà
che in generale si concede al poeta Pel rapporto coi vasi dipinti,
cfr. Hcddilston Greek Trag. in the
tight of vases painting (London); con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud.
zu den Trag. (Berlin tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia
impossibile dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il
qual non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti appunto si
distribuiscono poi tra gli attori in armonia a quel contenuto che in
questi avevan fatto pensare essi medesimi. Uscire da questi
circoli viziosi, che sono i fondamentali e in cui altri minori si assommano,
non si può, io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo:
il raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi e degli
spunti di sentimento e di pensiero onde la tragedia doveva vibrare e onde
sembra vibrasse dai pochi suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare
e scernere. I framm. debbono venir lasciati in disparte per
l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b innegabile che in
essi è asserita la instabilità delle umane vicende e l'incostanza della
fortuna, non è men vero che tale asserzione può colorire assai bene, cosi
l'angoscia di Andromeda offerta preda al x^zog, come l'ansia di
Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda insidia sùbito
dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151 si conviene tanto a un
discorso di ammonimento rivolto a Cefeo o a Fineo per distoglierli
dall'ó^a^rm; quanto a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve
scontar la figlia. I framm. in vece lasciano trasparire una
situazione di fatto piena di forza tragica, ma non tale da permetterci di
dedurne conseguenze sul resto del dramma: debbono pertanto essi pure
venire, al nostro scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i
frammenti, che tanto svelano in parte l'azione quanto 8on vuoti di
contrasto passionale. n primo gruppo che attira la nostra
attenzione è quello. Perseo giunge volando traverso l'aria a una terra di
barbari; scorge sùbito, su la riva del mare, TteQÙQQVTOv à(pQ(p
&aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo) riva, Andromeda. I versi che
seguono non possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un
colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro che tra la situazione
124-125 e il colloquio 126-32 dev'essere troppo stretta attinenza perché sia
possibile pensare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e Cefeo.
Il quale è pertanto da escludere prima del colloquio tra il giovine e la
fanciulla. Del colloquio, ora, attirano lo sguardo due frammenti
specialmente. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual compenso egli potrà
avere dopo la sua vittoria contro la belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e
avere da lei. Nel secondo Andromeda si offre, ed è questo da ritener il
compenso, ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'...
Da entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile dubbio,
l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un lato Perseo chiedendo,
in garbato modo, l'amore di Andromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa
concedere; dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di ritenersi
libera nel disporre della propria persona. Onde, confrontando questi
incontrovertibili risultati con Apoll. (= Febecide, V. § 1) II 44
(TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'eaaduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv
vnéa'x^szo Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p
ó(óasiv yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discrepanza tra
le due forme del mito: la Euripidea, in cui il patto si stringe tra i due
giovini; la Ferecidea, per la quale le nozze si promettono da Cefeo e su
Cefeo grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza
bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non dopo il colloquio tra
i due giovini, avesse luogo l'abboccamento tra Perseo e Cefeo; o pure,
avvenendo, avesse esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed
Apollodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti che la
tradizione posteriore è concorde nel serbar quell'abboccamento e nel serbarlo
com'è presso Ferecide ; poiché tal fatto deve, di fronte alla logica
argomentazione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la
genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata che a negar
fede a conseguenze logiche di premesse certe. Un secondo grappo che
dev'essere studiato nel suo insieme è costituito dai framm. Essi si dividono
sùbito in due serie, contrapponendosi l'una all'altra. La prima è un vanto del
valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale, di tutto che s'origina per
un ardimentoso slancio dell'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in
particolare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav eXa^ov oèn
avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di giovinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il
137 e 138 contrappongono alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og
... éa&ÀòJv èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente
alla felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiarazione di
preferenza del denaro a ogni altro bene : il povero non solo soffre ma teme di
continuo il futuro, che non gli rechi dolore pili grave del presente
(135"); il ricco anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ
tC/Mog tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv
ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il verso ultimo
del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex' eìtvxeIv. Fra queste due serie
può trovar posto anche il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma
in cui lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emendazione del
Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ;
e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di
fatti esso asI FBAMME^TI DELL’ANDROMEDA, DI EURIPIDE 3omma bene in sé il
contrasto delle due serie opposte che furono esaminate : tra l'idealismo
che non trascura la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere
; e il materialismo gretto che nella vita vuole il godimento e aborre dal
morire e non scorge più oltre. Ora, se
si può questionare, ove si voglia, su l'attribuzione di tutti cotesti framm. ai
singoli personaggi, non può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto
passionale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve dunque, a
mio avviso, costruire una parte della trama del dramma ; tralasciando del
tutto il litigio su quei punti troppo mal sicuri e fors'anche
inutili. Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 : èyò) Ss
TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv' Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg
èvòeelg vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv. Del
quale due interpretazioni sono filologicamente possibili: 1. non voglio che tu
Andromeda prenda (= sposi) de' figli illegittimi „ ; 2. non voglio che tu
Andromeda prenda (= generi) de' figli illegittimi,. Wecklein sembra
preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dommaticamente e non senza ironia la
respinge, e si attiene alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor
di luogo avvicinare al fr. il verso 11 del V delle Metam. di
Ovidio: Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum Juppiter
eripiet. Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità divina
di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un biasimo [vód'og),
biasimo che nel fr. è, comunque inteso e a chi che sia riferito, indubbio
ed esplicito: v' è più I. - ANDROMEDA tosto un'offesa al Dio che
generò Perseo e che Fineo sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a
bastanza lusinghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se il
ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due possibili
interpretazioni non restano che due vie: il porre il fr. nell'insieme del
dramma e del mito ; l'inquadrarlo nelle condizioni sociali di Atene. Ora
il fr. insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del quale i vó&oi
hanno a soffrire : non una consuetudine simile, bensì una legge. Non
solo. Tal legge sancisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i
Tialòeg yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al
figlio di Zeus che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per
regnarvi, senza fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo la cacciata
di Preto ? Certo che no. È applicabile in vece ai figli di Perseo e di
Andromeda? Se si ricorda che una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis
'At&lg'^) pone i figli di una straniera (Andromeda è etiopica) nella
condizione di vó&oi; se si rammenta che tal legge periclea ne amplia una
soloniana, ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di
cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra tutto pei re; si
deve rispondere che si: che cioè i nati a Perseo da Andromeda, avrebbero
nel diritto ateniese potuto trovarsi e come uomini e come principi in
condizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,. Né si
dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto il suo vigore. Tutt'altro
: nel 414 Aristofane faceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si
richiama il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye
^évrjg yvvaiKÓs: HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig; IIEI. ah fiévroi vrj
Ala, &v ye iévrjg ywamóg I FKAMMENTI DELL' "
ANDROMEDA „ DI EURIPIDE HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa,
vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà, odvog ó
Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv, àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov
')(^Qì]j.vàxùìv q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog. èQòJ Se
Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ. Non è quindi da dubitarsi
che Euripide poteva senza esser frainteso dagli uditori alludere alla
legge ateniese sui figli di straniera. D'altra parte non mancano
ragioni per ritenere che a quella legge egli doveva alludere più
tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo. Questa di fatti
era troppo normale e ovvia e antica perché potesse più meritar l'accenno del
poeta turbato da' problemi sociali; quella per contro era e singolare e
nociva agli interessi di molti e alquanto recente. Qui era il
ndd'og; là no. Riassumendo, gli unici contrasti di passione
che dai framm. risaltano con certezza sono: l'amore di Andromeda e Perseo
nella sua prepotente e individualistica libertà; l'urto fra l'idealismo e
la grettezza materialistica ; il rincalzo che la quistione giuridica e
sociale dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e contro
lo slancio spirituale. I problemi minori: se Fineo sia parte, e qual
parte, del dramma; come differiscano fra loro Cefeo e Cassiepea: posson
risolversi, ma con congetture esti-emamente mal certe. Una quarta, e
ultima^ linea del quadro ci dà [Eratostene] nei suoi Catasterismi: il contrasto
fra l'affetto figliale e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast.
'AvdQOfiéSa). Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi
delineati, non potrà cader dubbio sul momento cui compete il fr.,
che solo, io credo, merita di venir assegnato all'uno più tosto che all'altro
punto della tragedia: ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv
"K^cog, fA.ri dldaarKe za
xaÀà (paCvead'ai HaÀd, ^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei f^ox'd'ovai
fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et. Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog
d'vr^TOÌg (1) ?atj, [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai
(piÀelv àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae. In genere
il fr. si attribuisce a Perseo, prima del combattimento col K^Tog: cfr. Fedde
31, Johne 12, Wecklein 97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i
iA,ó%d-oi di cui Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a
chi tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore (cfr.
p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto più dicevole
l'interpretarli in senso psicologico e riferirli ai contrasti che Perseo
e Andromeda incontrano dopo l'uccisione del nfjiog. Se non che i critici
citati sogliono addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1
e FiLosTRATo im. I . Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv fiéQsi
(2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv aal ÀejiTÒJv xùv
é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L d-eòjv liQavve
■x.àvd'Qbìmùv "EQog, Kal rà àÀXa (AeydÀrj Tfj qxììvf] àva^owvTtav
Kzé. Ora, che si recitasse con tanta frequenza la ^iiaig invocante Eros
in una età ch'era sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto
al posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai dice
qualcosa, è a favore della nostra tesi : perché le parole di Luciano,
lasciano intravvedere una interpretazione, da parte degli Abderiti, tutta
intimamente passionale della preghiera all'Amore. Quanto poi a
Filostrato Il testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb. Sogg.
" gli Abderiti,. l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal
yàQ sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov. Ma
deve essere rettamente intesa. Sul cratere di Andromeda del Beri. Mus. (Bethe
in " Jahrb. d. Arch. Inst.), ch'è della fine del V sec. e di
poco posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nell'atto
d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che il pittore ha voluto a
quel modo esprimere con la figura il sentimento ch'era il sostrato della
tragedia e la commozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappresentare
la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda divenne parte de' motivi
tradizionali di decorazione. E Filostrato, ch'e sotto l'influsso di
quelli, fa difatti scioglier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto
da Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta anche la
frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore: ciò e non ne ha nessuno
per la ricostruzione della tragedia. Probabilmente qualche scena dipinta
raffigurava Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guardata da
Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà la sua libera
interpretazione imaginando l'eroe che prega la Dea prima del duello. Mentre
dunque il testo di Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è
il silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani.) assai da vicino
Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'alessandrinismo che delle
scene e situazioni erotiche molto si compiace; aveva quindi forti impulsi
a ripeter l'invocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa
apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al patto dei
giovani, perché questo conflitto Ovidio ha soppresso, cosi che gli venne
anche soppressa la ^'^aisNon si spiega, se si fa precedere il fr. al
duello, perché in OVIDIO (si veda) il duello è rimasto ed è
ampiamente svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a
quella Bvolt i attribuzione di esso framm. che fin
dal principio par la più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della
tragedia. La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti
che dagli stessi frammenti vengono imposti. Euripide. Abbiamo
tentato di ricostruire le tendenze più spiccate dello spirito euripideo
valendoci deìVEIettra e àeWElena. Naturalmente talune delle affermazioni
intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere, per la complessiva
persona di Euripide. Ma non credo opportuno né di riferire una
bibliografia compiuta né di impegnar minuta discussione su i singoli
punti. Rinvio
soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre (Paris); Verrall
Euripides the rationalist (Cambridge 1895); Nestle Euripides der Dìchter
der griechischen Aiifklàrung (Stuttgart) ; Masqueray Euripide et ses
idées (Paris 1905). Questi
libri però, notevoli per ampiezza di trattazione e larga conoscenza del
materiale, hanno il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano
citati, di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di
Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo spirito sotto
varie rubriche. Cosi va perduta la vita di esso spirito, ch'è la sola
realtà. Fini osservazioni sono in Croiset " Journal des Savants;
acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einleitung usw. ed Hera1cles. Per
le allusioni storiche di Euripide v. E. Bruhn Jahrbb. f. class. Phil. Supplb. e
L. Radermacheb " Rh. Mus., LUI Per ragione di tempo, non ho potuto vedere
i! recentissimo voi. di Murray Eur. and his age. BUBIPIDB NEL Il
recente saggio di Steiger Euripides, seine Dichtung und seine Personlichkeit (=
" das Erbe der Alten, Heft. V, Leipzig) rappresenta senza dubbio un
buon tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è, a mio
credere, viziato per un lato da poca profondità, per l'altro dal
parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen; parallelo che è di poco
rilievo dove può farsi con certezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire
analogamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol attribuire a Euripide
caratteristiche testimoniate solo per Ibsen (che in ciò è arbitrio).
Pregevolissime sono le poche pagine di Schwartz Charakterkopfe a. d.
antiken Literatuì'^ ; le sue intuizioni colpiscono, secondo a noi sembra, quasi
sempre nel segno ; avrebbero solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe
anche approfondimento, maggiore. F., Kalypso. Sul notevolissimo culto
siciliano di Demetra e Persefone in Enua si combattono due teorie. L'una è
sostenuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.)
che ritiene preesistente all'influsso greco il culto della sola Demetra;
e dal Fkebmax History of Sicily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene
anche Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da E.
CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia (Catania): questi
difatti, pur non negando la verisimiglianza di un culto siculo alla
Dea alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio veramente probante,
di esser invece costretto a riconoscere il carattere del tutto ellenico
di esso culto nell'età storica e nelle nostre testimonianze. L'argomento
fondamentale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la non
possibile derivazione del culto ennense da Siracusa da Megara Iblea; là
dove il Ciaceri addita nel fiorire della potenza Agrigentina 'sotto
Falaride e Terone la via per esso a penetrare e radicarsi nell'interno
dell'isola. Per lui di fatti da Gela ed Agrigento GIRGENTI il mito e il
culto delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna e in Siracusa. Se non
che pare che in tal modo il problema sia posto con poca precisione. Chi
difatti nega il culto esser entrato in Enna per opera di Greci, pretende
assai più che non sia necessario alla tesi di un sottostrato cultuale
siculo. Chi per contro traccia possibili vie di penetrazione in epoca
comparativamente tarda, dimostra assai meno che non sia necessario per
rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'esame merita di esser ripreso. E
poiché le nostre testimonianze vertono sopra il culto ennense quand'esso
ha già assunto foggia greca, non resta da prima che esaminarne gli
elementi e i caratteri interni, per scoprire s'essi rivelino o neghino la
preesistenza d'un culto, del pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la
prima ipotesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti approssimativi, quel
vetustissimo sostrato mitico e cultuale. I caratteri del culto ennense
nell'età storica. Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i
caratteri con cui il culto e il mito ennense si presentano a noi,
traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si trova raccolto da
Bloch in Roscher Lex. e a lui facciamo rinvio. Scartiamo il giudizio di
Zeus che divide l'anno pel mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico
a Demetra. Questo particolare, che Bloch (col.) dice
siciliano-alessandrino, non può riferirsi alle condizioni agricole di Sicilia,
in cui anzi il seme (Cora) men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria
alessandrina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio. Ma quando la
tradizione fa rapire Persefone presso Enna e solo presso Siracusa, vicino
alla fonte Ciane, la fa scender sotterra (Timeo in Diodobo =
Geffcken Timaios' Geogr. des Westens Philolog. Unters.; cfr. Ovidio
Metamorf.). è necessario intender tutto il valore di questo particolare
essenziale. Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del
culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della città di
Ipponio è utile a dimostrare come si comportasse il mito secondo le esigenze
politiche di essa diffusione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. 8on
ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa vantava
antichissimo culto di Demetra. Per conciliare l'uno con l'altro culto, il
mito narrò che ad Ipponio Proserpina si era recata dalla Sicilia per coglier
fiori (Steab.): conservò tuttavia quel che importa il primato a Siracusa.
Per Enna avviene il contrario: è (cioè) evidente che il mito siracusano,
perché deve rispettare una tradizione autorevole che il ratto pone in
Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma deve accontentarsi
di farla presso Siracusa discendere all'inferno. Al risultato
medesimo conduce anche il testo di Timeo (DioD. = Geffcken) su Atena ed
Artemide che avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e conseguita
rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola Ortigia mentre Demetra
conseguiva quella di Enna. La presenza di Artemide e Atena nell'antologia
è motivo orfico. La testimonianza di Diodoro fa dunque
legittimamente supporre che in Siracusa si adattasse alle condizioni politiche
e cultuali indigene un particolare non indigeno. Per questo adattamento sembra
epoca assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più effettivamente
ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera contro gli Ateniesi (Beloch
Gr. Gesch.). Checché ne sia, resta certo che, rielaborando
l'episodio dell'antologia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena predominante
in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di Artemide (sui quali v.
Ciaceri); ma si acconcia a sanzionare la supremazia del culto di Demetra
in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui, secondo p. e.
Ciaceri, il culto siracusano doveva superar per fasto quello ennense ; prima
cioè che per effetto della politica di Roma " il culto di Enna
assumesse grande importanza (Ciacebi). Il valore di questi
forzati riconoscimenti del culto ennense da parte di Siracusa appare a pieno
dopo aver esaminato Ovidio Met. Quivi difatti è narrato come Demetra
apprendesse del ratto : prima la rende accorta la Persephones zona
abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane; poi Aretusa, fonte
dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto Cora nell'Ade. In somma. Ciane e
Aretusa tengono presso Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno
Ecate ed Elios. Bloch ritiene "priva di significato „ questa
forma del mito ; Malten "Hermes la spiega come un arbitrio del poeta
pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane e di Aretusa. In
realtà essa è molto significativa, se si ricorda che, ai due personaggi
dell' Inno omerico, i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio
che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella notte (cfr. Roschee
in Roscheb Lex.), la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i Fasti
ovidiani, sostituiscono nell'ufficio d'informatori presso Demetra figure più
concrete e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Keleos in
scoi. Aristid. Panai. (Frommel), scoi. Aristof. Cavai., Mit. Vat.;
Trittolemo in Paus., Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk
Patr. gr., Tzetze ad Es. Opp. 33; cittadini di Ermione, secondo Apoll.,
scoi. Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov.; Kabarnos, della famiglia
sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch.) presso Stef. Brz. s.v. IldQog,
nell'isola di Paro; Chrysanthis figlia
di Pelasgo in Argo, giusta Paus.; cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy.
Narr. app. Fozio Bibl. cod. Di fronte a cosi numerose analogie è
difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'informatrice sia un'invenzione
arbitraria di Ovidio e non più tosto appartenga alla saga siracusana : a
quella medesima che presso la non lontana Ciane fa avvenire la discesa
nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo (su cui V. anche
Ciackei). Né fa ostacolo il fatto che solo le Metamorfosi narrano quel
particolare : ciò significa solamente ch'esso è di pretta natura locale
e che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio dell'Inno
omerico, non fu accolto con favore in altre tradizioni mitiche e nelle
elaborazioni letterarie. Se dunque si ammette che Ovidio ci riproduce, a
proposito di Ciane e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar
chiara l'insistenza con la quale, accettato per forza il ratto in
Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in senso
siracusano. Anzi per capire ancor meglio il valore di questa considerazione
va rilevato che un tentativo mitico in antitesi ad Enna dovette esserci:
giacché pili fonti narrano il rapimento di Persefone non presso il lago
Pergo di Enna ma presso l'Etna: cfr. l’Epitafio di Pione Nella stessa
Sicilia vigeva un'altra forma del racconto, per cui Vayys^og era Ecate, se è
valida l'ipotesi del CiACEEi e G. Knaack "Hermes, il quale
sennatamente dimostra che non può né ivi né in altri testi simili (Igino
fav., scoi. Pind. Nem., Giovanni Lido de mens., Oppiano Hai., VALERIO (si
veda), Flacco Argon., Ausonio Epist.) trattarsi di uno scambio tra
AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario che menziona Etna e sopprime
Enna è certo posteriore a quello che ad Enna dà la precipua importanza
perché su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta
omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato. E n'è confermata
l'ipotesi che Siracusa dovesse in Ennariconoscere una incontestabile priorità
initica. Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere a
un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna, nell'età storica, ci
riporta con ciascuno dei suoi elementi essenziali a Siracusa, la quale sembra
essere il centro dell'elaborazione di esso; elaborazione che in
Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi radicato, qual che ne sia la
forma, da non poter essere né taciuto né artificiato
favorevolmente. A cotesta conclusione è propizia la testimonianza
più antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una litra
d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H. N.). Di fatti : se in
Siracusa fu elaborata la saga del ratto di Cora per cui ebbe valore
ufficiale l'antico mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria
di Imera. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.) innalza in Siracusa
i templi di Demetra e di Cora, iniziando il formarsi di quella
piattaforma leggendaria donde il culto delle Dee potè diffondersi in
ampia area. Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-siraCusano
a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ; e in verità la litra, che
è la testimonianza più antica, è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116
riferita, per criterii numismatici e dal Hill Coins. Al sec. V
pertanto può farsi dicevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e
mitica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; e che ha per
indispensabile antecedente una credenza a divinità agresti in Enna, ignota
nella forma, ma salda nella sostanza. Le nostre testimonianze tutte
rendono quindi inutile l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco
della greca Demetra penetra in Enna per opera di Agrigento (GIRGENTI) e
Gela durante la tirannide di Falaride e Terone. Se ogni ipotesi vale in
quanto tenta spiegare dei fatti, questa del Ciaceri non par che spieghi
nessun fatto. Né anticipando rispetto a noi, come fa, di un
cinquant'anni l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare
l'autententicità del culto ennense dì cui e menzione presso CICERONE (si
veda) in Veri. Noi difatti di quella vantata antichità rendiam piena
ragione avendo dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e
mito siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'intervento di
Siracusa nel V sec, se ne dove serbar rispettosa memoria. Il Ciaceri, in vece,
non giustifica essa antichità né meno facendola risalire alla fine del VI
sec. con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe dimenticato
che Enna aveva accolto le due Dee dopo Agrigento? E si badi che di esse
in Agrigento parla Pindaro Pit. (Schhodek) e che quindi nella
tradizione letteraria non poteva essersene perduta la traccia. E si badi,
anche, che lo lo stesso CICERONE (si veda) {in Verr.: cfr. Lattanz.
div. inst.) sa di un signum vetusto di Cerere esistente in Catania. Quindi il
vanto di antichità conforta la nostra tesi e rivela impotente quella del
Ciaceri. Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto
che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti, come si
afferma, da Gela si fosse partito, a non molta distanza di tempo, e il
culto siracusano e l'ennense, è chiaro che molto probabilmente quello non
avrebbe esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo,
assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geografiche e politiche. E
tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede, dal problema su
la colonizzazione di Enna; di cui si apprende che è colonia di Siracusa da un
luogo di Stefano Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un
equivoco di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza
con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da un frammento di
Filisto (fr. = FHG.) che è impugnato a ragione dal Pais {St. della
Sicilia e Magna Grecia). Sembra in somma che nulla si sappia di
positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul tempo : certo è
arrischiato CIACERI (si veda) nel dire Enna colonia di Siracusa ; ed è
nel vero Freeman {H. of S.) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per
ciò preferimmo studiare il problema della Demetra ennense movendo da altre basi
e usando dati diversi. Con i quali, concludendo, possiamo supporre un
forte influsso siracusano in Enna, che mantiene però inalterato il
proprio privilegio mitologico. E non possiamo né provare altri influssi
greci anteriori su Enna né concedere che il supporli giovi a risolvere la
questione. Il primitivo probabile nucleo siculo. Dall'indagine del
precedente § è risultato, ci sembra, in modo esplicito che quando nel V
sec. il mito siracusano si formò dovette tener conto di un precedente e
forse molto più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui
forma ci è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente quel
nucleo potrebbe esser greco, perché in tal caso la sua scarsa priorità
(di men che cinquant'anni) mal spiegherebbe il forzato rispetto di
Siracusa. Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti
indagini archeologiche e storiche (cfr. SANCTIS, STORIA DEI ROMANI) ci
danno un quadro delle condizioni più vetuste dell'isola assai bene
consono a quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la
tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe italica, e
perciò molto affine ai greci, è facilissimo esistesse una saga simigliante alla
greca di Kora e che questa saga costituisse il sostrato di quella che
Siracusa foggiò nel sec. V. Resta solo da determinarne, s'è
possibile, la forma verisimile. Il primo criterio ci è dato dall'analizzata
saga siracusana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a suo
favore in tutta la seconda parte del mito, ma rispetta scrupolosamente la
localizzazione del ratto in Enna; conviene ritenere che questo sia il
probabile nucleo essenziale del culto preesistente. D'altra parte (è il
secondo criterio) l'affinità tra Siculi (ITALI I) e Greci deve permettere
all'indagatore di cercar fra questi il piti antico embrione della
leggenda e di attribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli.
Analogia che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel di
Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (cfr. inoltre G. De Sanctis). Il più
antico testo che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico
a Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna naturalmente
prescindere, in esso Inno, da tutti i particolari attinenti ad Eleusi ed al suo
culto. E prescindere, inoltre, da tutte le altre divinità messe in
relazione con le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni di messaggeri;
Helios ed Hecate come luci del mondo; le Oceanidi quali compagne di Kora;
Rea, perché una tra le pili notevoli figure divine delle campagne
feconde, al par di Gea. Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo- ÀvSéKTTjS,
IIoÀvóéyfiojv); Ar]/iii^Ti]Q;
IIeQaeq>óv£ia; KÓQu. Siibito, questa necessaria
eliminazione di taluni elementi deìVInno induce una conseguenza: se nell’età
probabile della composizione di esso, il mito era già cosi maturo da
poter e accogliere elementi nuovi e localizzarsi in un determinato centro
di culto ; se inoltre non è probabile che a favor di questo centro
appunto sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto
senso è troppo intimamente connesso con i primordiali riti delia madre
terra; si può senz'altro affermare che doveva, prima di quell'epoca, aver
vissuta oramai una, certo non molto breve, vita mitologica. E poco
quindi importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni contrastanti
del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone; Welcker Griech. Gotterl.;
Preller Griech. Mith}; Bloch; Malten Archiv. ftìr Religionswiss.):
soltanto significa che mancò l'occasione o non fu colta per introdurvelo.
Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha alcun carattere (come fu
notato) che l'avvicini, anche di poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto
la foggia "Persefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di
questo: ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al re
delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col suo aspetto di Dea
campestre {E 500 JV 322 = <P) delle biade. Aidoneo in fine si richiama
alla terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A cfr. Stengel "
Archiv. fùr Religionswiss.; Maass Orpheus e Wilamowitz Reden und
Vortrage). Dal quale s'è voluto dedurre che l'epopea conobbe il ratto di
Kora : ma si ebbe ragione ad asserire che la conseguenza troppo supera la
premessa (Prkller Dem. u. Pers.). Tuttavia non si può né si deve
negare che quell'epiteto si addice assai bene alla saga di Demetra e
Kora. Riassumendo dunque è lecito affermare che nell'epopea (a prescinder
d'ogni possibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto riferimento) del
ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli; 2° Demetra dea delle biade ;
3° Persefone regina dell'inferno. Manca sol Kora. Ma Kora non è né
può essere se non la " Figlia, e il suo valore e significato è tutto
contenuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi anche nel
silenzio delle fonti antichissime non è luogo a dubbio sul suo carattere
agreste. Carattere agreste che è confermato da quello che il mito narra
di lei nella sua forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di partenza
e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da escludere l'ipotesi del
Beloch Griech. (?escA. che vede in Kora una divinità lunare; la cui
vicenda dovrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha badato
(seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg. Georg. I 5, Varr. de l.
l. V 68, Plut. de facie in orbe lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si
uniscono tardi e che pertanto il carattere della seconda non può
essere quel della prima. Mi pare in vece che ben distingua la natura di
Kora in confronto con Demetra il La stessa opinione difese il Costanzi
" Riv. di St. ant. Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the
corn and of the wild; se bene egli sia stato un po' schematico
nella separazione delle due figure e lo temperino opportunamente le
osservazioni di Harrison Prolegotnena to the study of greek Religione.
In breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in confronto con
la biada matura da cui si stacca e a cui ritorna. Un riferimento
diverso che ci riconduce pure alle fonti del mito è quel di Esiodo Op. e
Gior., ove Zebs Xd'óvios e Demetra son pregati insieme
dall'agricoltore al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs}
298 lo ScHERER (in Roscher Lex.) sostiene a ragione che quel nome designa
non Zeus ma Ade, lo Zevg naxa%&óviog àoìVlliade. Ed è certo
evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con Demetra, si tratta
d'uno dei soliti casi di "divinità agricole messe in relazione coi defunti
e con la loro sede solo perché divinità della terra feconda, (De
Sanctis St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso
Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso ' Ade-Demetra
' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma gli è parallelo e simigliante.
Non bisogna però confondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le
scarse tracce di una At]fti]Ti]Q aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c.
1334-5 raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tradizione
del ratto e da essa determinate : dopo cioè che Persefone regina dei
morti è divenuta figlia della dea delle biade, allora questa assume un
carattere nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure del
ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in in processo di
tempo si verrà sempre pili accentuando il carattere agricolo di Dio fecondo
in Ade, fino a trasformarlo in Plutone (v. i testi in Scherer). L'esame
adunque delle testimonianze che si avvicinano di pili ai primordii del mito
conduce a costituire due gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora;
composto l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile
nell'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello tra Ade e
Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non appare pertanto
negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta contro l'ipotesi di Farnell The cults
of the greek States (Oxford) che suppone un'antica divinità
Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con Demetra. Né più felice mi
sembra l'altra ipotesi di lui che Demetra-Kora costituisse una
divinità unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da Demetra, si
sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più semplice è la teoria comune che la
rapita di Ade, Kora, si fondesse con la moglie di Ade, Persefone (cfr.
anche Carter in Roscher Lex.). A ogni modo, si tratta di nesso non
originario ma tardo. Che non è quindi metodico supporre per la saga
sicula : giacché questa non deve mai aver superato i primissimi
stadii, tenuto conto dell'indole dei Siculi e dell'assenza d'una
elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può aver fatto della
" rapita „ la regina dei morti. A completar le caratteristiche di essa
saga sicula, alcune altre indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta
CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son certamente figurazioni molto antiche
in Grecia : anzitutto perché il concetto della terra ferace richiama
sùbito presso gli Arii quel della maternità (cfr. il denso volumetto del
Dif.terich Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto
tesmoforio ed eleusinio, che non si può spiegar tutta da un unico centro
(Bloch), trova la sua ragione nell'estrema antichità del rito. La quale del
resto era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto. Sotto pertanto
l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe la Madre, per eccellenza
: checché sia da ritenersi su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt
Myth. Forsch. e Frazer The golden
bough). Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più
significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe si
presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, analoghe alle " Madri,
dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll. Fil. class.. e a Libero e
Libera dei Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme
quella deificazione dei membri delle famiglie che par consueta fra l’arii
(SANCTIS (si veda), STORIA DI ROMA). Cosi si spiega anche meglio il valor
personale di Kora, che come dea delle biade è assai languida accanto alla
madre, ma come dea filiale riacquista una maggiore consistenza. E
vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali non pur si
verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera, unificate sol tardi (cfr.
Wissowa Rei. Rom.); ma anche oltre a Libera si venera la Madre Matuta. In
tal caso si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il
particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto alla compera,
una delle forme di matrimonio presso gli Arii, e quindi l'avventura di
Kora significherebbe a un tempo il mistero della vegetazione nel grembo
della terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la forma
espressiva a quello. Risultato, questo, che assicurando alla leggenda sicula il
rapimento, concorda con quel che nel principio di questo § notavamo a
proposito del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga siracusana. E
le due considerazioni si confermano a vicenda. Cfr. anche G. Gassies '
Rev. d. Étud. anc. Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osservazione.
Nel mito greco tutta la seconda parte (la melagrana e il patto tra Ade e
Demetra e Zeus) è intesa a giustificar la periodicità con cui in ogni
inverno il seme si cela nella terra per lasciar solo nella primavera riapparire
gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse né meno probabile che
anche nella leggenda sicula esistesse una parte a questa simile. Giacché la sua
formazione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili rudimentale
che presso i Greci (a cagione, come dicemmo dianzi, delle doti
intellettuali delle singole stirpi e dell'assenza d'una elaborazione
letteraria) ; non è permesso per tanto di pensare, metodicamente, che
fosse superato quello stadio religioso in cui ogni sole nascente è
ritenuto diverso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità né
periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom.). Il superamento è
possibile; ma la possibilità non fa storia. Concludendo. Per
ricostruire la probabile forma dei primitivo nucleo leggendario dei
Siculi in Enna ci siamo valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre
: la constatazione degli elementi che quel nucleo portò con insistenza nella
saga siracusana del V sec, e la ricerca del primitivo nucleo nella
leggenda analoga di un popolo affine, il greco. I risultati sono scarsi,
ma non insufficienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una Dea
agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia rapita da un Dio
sotterraneo dai campi nelle sedi dei morti. E nel loro racconto si
fondeva il fenomeno del seme che sparisce fra le zolle con il rito
consueto del matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,
ma è anche molto a confronto con quanto si è osato asserire su l'argomento fin
qui, ci è forza restare paghi, IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA Le
versioni greche del ratto di Kora. Ofifrirebbe materia a larghissimo studio
l'indagare tutte le forme che il ratto di Kora assunse ovunque si
sparsero abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi. Qui a
noi importa soltanto di fissare quelle versioni del mito che sulla saga
siracusana influirono, cosi contribuendo al suo formarsi, come confluendo ad
allargarla per contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non
uscire dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla
constatazione senza cercare la spiegazione. L'Inno omerico a Demetra è,
come si disse, il testo più antico in cui il mito di Kora rapita appaja;
e come tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima
forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi la chiameremo
protoattica per brevità. In essa sono state distinte due parti, l'una
mitologica, l'altra etiologica; entrambe furono oggetto di esami attenti:
ci basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes The
homeric hymns e a Jevons An introduction to the history of religion. Solo
un punto richiama qui il nostro esame ed è di facilissimo rilievo :
secondo Vlnno gli uomini conoscevano già le biade prima del ratto di Cora,
tanto che Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del
seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in cui la Dea compie
su Demofonte, figlio di Celeo e Metanira re in Eleusi, la magia del foco e
insegna i suoi riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo.
La concezione che predomina nel V secolo è in vece, com'è noto, ben
diversa. Trittolemo, non più principe fra altri, diviene il giovinetto
cui primo la Dea insegna l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L.
Bloch in RoscHER Lex.; Malten "Archiv ftìr Religionswiss.;
Pringsheim Archdol. Bei- i trdge zur Geschichte cles eleus. Kults).
Ora è anzi tutto da vedere come questa concezione nuova, che
contraddice esplicitamente la protoattica in quanto suppone che solo dopo il
ratto gli uomini conoscano le biade, e si può quindi chiamare neoattica,
si comporti con Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci
dà Apollodoro che conserva Demofonte per la magia del fuoco, Trittolemo
per il dono del seme, e tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e
Metanira, sovrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito
l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti Ovidio : Demofonte non esiste più
; Trittolemo subisce la magia del fuoco ed è predetto primo aratore ;
Celeo e Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in meschina
capanna. Di qui due problemi. È anteriore la versione di Apollodoro o
quella di Ovidio ? Notiamo che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da
cui Demofonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone
con varii materiali un testo unico, della leggenda; sospetteremo che la sua sia
una combinazione di mitologia erudita fra Vlnno e la saga neoattica di
Trittolemo, col proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra.
In OVIDIO (si veda) in vece la combinazione appare di mitologia poetica;
c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo sopravviene, noto nei tempi nuovi,
al posto di Demofonte, noto negli antichi: l'ignoranza del grano e la
povertà sopravviene, conforme al nuovo concetto, in luogo della conoscenza ed
opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel santuario eleusinio una innovazione
erudita è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare la
precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma ovidiana. Ci pare
allora che il nome e il concetto di Trittolemo abbiano acquistato
predominio attirando nell'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e
Metanira, che digradarono a poveri vecchi. Questa innovazione fantastica è
d'influsso orfico ? Afferma che si Malten e "Hermes: perché
orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli interpreta óvaavÀog " der eine
arme Hiirte hat Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se
dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo seminatore, Dysauìes e Baubo,
legati con lui presso gli Orfici quali genitori, avrebbero scalzato Celeo
e Metanira al pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli
Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra gli altri
deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con nome e personaggi di loro
creazione; né come esso solo acquistasse tanto predominio, mentre
Dysauìes, Baubo, e parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor
della setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo
all'influenza orfica : che il particolare dei majali, non è orfico
esclusivamente, come pare a Malten e già a Forster {R. u. R.), ma si
riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati a un verso. Dunque in un
carme ove dagli Orfici nemmeno si accetta quella presenza di Atena e
Artemide che fin la saga siracusana aveva fatta sua, la scena
centrale deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;
altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi par chiaro che
lo stesso moto onde Trittolemo = primo seminatore fu portato a soppiantare
Demofonte e impoverire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e
determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci sembra evidente che la
scena eleusinia dei Fasti sia di Contro l'opinione comune che è in Gruppe
Gr. Mi/th. origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai rivela
neWEcale callimachea. Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo = seminatore,
dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare un'opinione imperfetta
degli studiosi. Negli Orfici Argonauti si legge che Cora è^duacpov
avvófiatfiot ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal
Forster, Atena Artemide e Afrodite. Il confronto con EuKiPiDE Elena (cfr.
il testo del Wilamowitz in Comm. gramm. e " Sitzb. Beri. Akad.)
dimostra però che si deve trattare soltanto di Artemide e Atena. Di queste due
parla difatti il Malten " Archi V; ma le presenta nell'aspetto euripideo
(ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in quello orfico di
ingannatrici. Correggendo da un lato il Forster dall'altro Malten, mi
sembra che l'ipotesi migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti
e VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova in Igino
fav. (non che in Claudiano), sia
l'ammettere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico sostituito
nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e Artemide, e queste, in
qualità di vergini compagne e di dee armate, sieno passate alla difesa
della rapita. L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, protoattica
neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo luogo il testo di
Timeo (cfr. Diodoro e Geffcken). Notammol'uso che ivi è fatto del motivo
orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a guisa di premessa, che tutto
il racconto del mito vi è estremamente sommario. Ma il puoto essenziale vi
appare in Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la Sicilia
or., li. modo non dubbio: vale a dire,
secondo Timeo la Sicilia conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni altra
regione; in Sicilia le due Dee facevano spesso soggiorno; avvenuto poi il
ratto, Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante la
ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi, agli
Ateniesi; gli Ateniesi quindi ebbero e diffusero la conoscenza del grano primi
dopo i Siciliani, i quali se l'erano avuto dalle Dee (5tà zì]v Tijg
AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg olKeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere
incertezza che Timeo e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano
per intero la versione neoattica secondo cui l'ateniese (eleusinio)
Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del seminare e l'avrebbe insegnata agli
uomini in luogo dell'uso di ghiande ; l'accettavano però con la
orgogliosa premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la
famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi e l'intero
mondo. Ne balza la concezione duplice di una Sicilia che ha il privilegio
del grano, mentre tutti gli altri lo ignorano, prima del ratto ; e della
restante umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar
bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i Siracusani non
ebbero bisogno di sostituire Trittolemo con una figura indigena, come
quei di Sidone con un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr.
Paus.); né di farlo entrare in genealogie locali, come gli Argivi
che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus.); né di identificarlo con un
antico loro iddio, come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach
Castrogiovanni (Leipzig) Essi poterono venerare Trittolemo (CICERONE (i
veda) in Verr.) come colui che per benevolenza della lor Demetra diffuse
al mondo il già loro secreto del seme. LE VERSIONI GRECHE DEL
RATTO DI KORA La conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a
comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti e in Metamorfosi. Si è discusso
se si tratti di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e
variamente ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia distinta per
ciascun racconto. Tennero la prima opinione alquanti critici citati
dall'ultimo di questa teoria L. Malten 'Hermes, Tennero la seconda
opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d, Pers. poi Ehwald-Korn
Metani. Noi crediamo che il Malten, il quale pure ebbe autorevole assenso
dal Wilamowitz (Sitzungsber. d. Beri. Akad.), sia in errore. Nelle
Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti : Persefone vien rapita da
Plutone presso Enna ov'è il lago Pergo durante l'antologia; Cerere
ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi su l'Etna; veduta
presso la fonte Ciane la zona di Proserpina, se ne sdegna: terras
tamen increpat omnes Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas,
Trinacriam ante alias e distrugge gli aratri e impedisce la vegetazione del
grano; Demetra, dopo le indicazioni di Aretusa, il colloquio con Giove,
il giudizio di questo, ristorata del suo dolore corre medium caeli
terraeque per aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e
partim iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa
recultae. Ora, noi vedemmo sopra che la sostituzione di Ciane e Aretusa
ad Ecate ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi della saga
siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in IL CULTO DI DEMETEA
IN BNNA Euna. Ma la concezione espressa nei versi citati non si copre con
la siciliana: è più larga. Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra
esse è si la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile. E
Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora longa recalta,
quindi anche su la Sicilia dopo il danno subito per vendetta della Dea.
Ora, donde viene questa concezione che accoglie e umilia in sé la saga di
Timeo? Ognun vede che essa contiene : del mito protoattico, la conoscenza del
grano anteriore al ratto e la vendetta divina ; del neoattico, Trittolemo
= seminatore. Ne rappresenta quindi un tentativo di conciliazione in cui
s'innesta la leggenda siracusana con qualche mortificazione. Quanto
all'intervallo fra la veduta, della zona e la supplica di Aretusa che il
Malten calcola a un anno, è chiaro che non è preciso nella mente del
poeta, come appare dalla frase post tempora longa. Che sia assurdo
lascerem dire al Malten, che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né
col Malten diremo adesso che la metamorfosi di Lineo trascinò con sé in
fine del racconto anche Trittolemo ; dacché vedemmo come questo
personaggio stia bene in quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la
contaminazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia orfica non
vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena e Artemide ; perché
Trittolemo spargitore del seme non è orfico; e perché ha ragione il
Malten di riconnettere con la volgata poetica degli Alessandrini la
parte introduttiva su Plutone colpito da Cosi mi fece notare il mio
maestro G. De Sanctis. Resto incerto se questa conciliazione si trovasse
già in Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken = DiOD.). amore per volere di
Afrodite. E di modello alessandrino essendo tutte le metamorfosi, la nostra
conclusione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino ove nella
trama proto-neoattica con innesto siciliano sono interpolate favolose
trasformazioni di Ciane Ascalafo Ascalabo Aretusa e l'altre.
Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto avviene in Enna ;
ma ivi non è la sede delle due Dee. Di fatti Aretusa ve le aveva invitate
e Cerere vi era giunta da poco (modo venerai Hennam) allorché
Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice della Sicilia Grata
doìnus Cereri; multas ea possidet tirbes ecc., la frase, come vuole il
verbo al presente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten). E
quando Prosei'pina è introdotta vagante per sua prata (v., si deve
intendere " i prati di cui è dea che tutta la vegetazione è in lei
compresa nel tardo concetto poetico (contro il Malten). Dopo il ratto,
Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga per tutte le terre e pel cielo in
affannosa ricerca; della quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi
presso Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice
pi'imus arabit et seret et eulta praernia tollet humo, togliendo cosi la
famigliola e gli uomini tutti dalle condizioni di vita primordiale in che
nutrendosi di bacche duravano (cfr. il proemio Ceres, homine ad
meliora alimenta vocato, mutavit glandes utiNel verso Dixerat, at Cereri certum
est educere natam il Malten) vuol vedere un riferimento all'orfica
discesa di Demetra sotterra. Non mi par che basti. Non ho potuto
prender conoscenza di G. Bubbe De metamorphosibus Graecorum capita selecta
" Diss. Phil. Hai.. Uore cibo). Seconda tappa della ricerca è
costituita dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla
Dea, Helice ed il Sole. Da ultimo accade il colloquio con Giove e
il verdetto finale. Ermes è il messaggero fra Giove e Proserpina. Cerere
si cinge d'una corona di spighe, segno di pace che ricorda la promessa
fatta a Trittolemo ; e larga messe proventi (non rediit) cessatis in
arvis, ossia nei campi incoltivati {cesso = non exerceo).
L'interpretazione comune (nei campi trascurati) non può reggersi
confrontando i vv. già citati. Ora, dallo schema cosi tracciato ne' suoi
punti cardinali non è difficile trarre le conclusioni : il concetto
fondamentale di una umanità che prima del ratto si nutre di bacche ed è
povera, e dopo il ratto apprende da Trittolemo la cultura del grano
e si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui si
connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca) è desunto dal
mito siracusano; la coppia Helice-Sole è una variante alessandrina della
coppia Ecate-Elios delVlnno omerico (cfr. Malten); l'ordine cronologico
degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in Eleusi e le
informazioni degli astri sono invertite rispetto ad esso. Di più:
quest'ultima inversione obbedisce all'intento artistico di non rappresentar
Cerere nell'indugio di Eleusi quando, già conoscendo il nome del
rapitore, può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di
Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità in rapporto con la
più volgata nozion mitologica; e di gusto alessandrino è la divisione
dell'anno per metà può reggersi ammettendo un' incongruenza irrazionale
fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana nel poeta.; e col gusto
medesimo concorda l'accettazione del concetto neoattico. Adunque possiamo
dire che il racconto dei Fasti è un'alessandrina combinazione
sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi tratti siciliani e
con spunti di recente mitologia. Siamo pertanto molto lontani dalla trama
riprodotta nelle Metamorfosi e definita sopra: là si ricerca di salvare
il concetto dell'/nno contaminandolo con la saga neoattica; qui deWInno e
corretto fin l'unico particolare non respinto, e predomina una idea
aWTnno contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai due
componimenti unica fonte. Diversi essi appajono anche negl'intenti.
L'uno ha scopi di compiacimento fra letterario e favoloso con le
sue metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale
constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli alessandrini
seguiti da Ovidio; ma noi non ci permetteremo di esaminare a fondo questo
punto, ritenendolo di spettanza degli storici della letteratura, e del
tutto secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver
determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora che, costituitesi
in Grecia, intervennero poi sul mito siracusano, variamente intrecciandosi in
complessi disegni. Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or., L'abigeato
di Caco. Il problema. Intorno al mito che narra il furto di Caco ad
Ercole e la vendetta di questo, assai pili che singole ipotesi si
combattono opposte teorie. Per l'ima fra esse, della quale basti citare
rappresentanti il Peter in Roscher Lexicon e il Binder Die Plebs
fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il SANCTIS, STORIA DI ROMA, il nucleo
primordiale del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e
di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le sembianze di
Eracle-Ercole; il contenuto di esso è naturalistico e consiste nella lotta fra
il dio solare e il dio sotterraneo del fuoco; vive nelle tradizioni
mitico-poetiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli artisti lo
foggiano secondo la tradizione letteraria e gli storici lo umanizzano e
variamente razionalizzano. Per l'altra teoria in vece, che sostengono fra
noi il Pais Storia critica di Roma e all'estero il v. WiLAMowiTZ
Euripidea Herakles, il Wissowa in PAtTLy-WissowA Real-Encykl. snon che,
ora, Rei. u. Kult. d. Romer) e J. G. Winter The myth lu - l'abigeato
di caco of Hercules at Rome in " University of Michigan
Studies, Humanistic Series „ Roman History and Mythology edit. by H. A.
Sanders (New York), il mito è opera dell'influsso letterario greco, pur
concedendosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o italico):
sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vulcano, (Pais) " forse,
un'antica divinità del fuoco (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che
il nome di lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. Il
problema era in questi termini quando fu ripreso recentemente da Friedrich
Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel). Questi facendo suoi i risultati del
Wilamowitz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Gewinnung neuer
Resultate das Hauptziel sein ; sondern es sollen nur die alterprobten
Mittel philologischer Methode Interpretation, Analyse, Vergleichung mit
moglichster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet werden. Difatti,
dopo una indagine la quale " vielleicht bisweilen allzu peinlich und
kleinlich erschienen sein solite giunge a sostener questa tesi : Il
racconto è forse da far risalire fino ai principii della letteratura
latina. I più antichi annalisti lo concretarono nella forma che ci appare
in Livio; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età graccana
(Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già razionalizzato la fiaba e vi avevan
imaginato un riposto nucleo di reale istoria; solo la Romantik „ dell'età
augustea Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella Beri.
Phil. Woch. una sua ingegnosissima ma, a nostro avviso, non
convincente teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di
Festo, Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto interpretiamo con tutt'altro
valore. IL VALOKE DEL MITO INDIANO riprese la forma originaria : "
Livius, indem er die Sage einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick
auf seinen allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt,
Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende Kleid der Poesie
hullte. Il nome Caco era diffuso in antiche tradizioni italiche; egli
era da prima concepito come semplice uomo, pastore o ladrone, e da VIRGILIO
(si veda) solo è mutato in un mostro tra divino e bestiale. 'Eracle-Ercole' è già
nella primitiva forma della narrazione e il nome di Garano (Recarano) è il
prodotto di una rielaborazione evemeristica della versione volgata del
racconto. A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di
Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di questa che, per
esser l'ultima ricerca e per presentarsi con speciali pretese di saldezza
logica e precisione metodica, sembra aver eliminato ogni obiezione e
distrutto la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sembianza sia
falsa è per apparire. II valore del mito indiano.Nella mitologia
indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda) ravvisò primo un racconto che si
potrebbe dire senza esagerazione identico a quello latino di Caco : la
lotta di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono
dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra, il muggir
dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc. (cfr. Peter). E ne furono
tratte da più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Hercule et
Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris), da Fé. Spiegel in "
Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. MuNZER in vece ha creduto di poter trascurare al
tutto questa significativa coincidenza tra il racconto indiano e il
latino, appellandosi ai nvichl'abigeato di caco ternen „ giudizii
del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e n. 8). Commise cosi, secondo a noi
pare, (simile in questo al WiNTER) l'errore fondamentale di tutta la
sua ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta
coincidenza può e deve avere non solo come argomento, ma come prova
" cruciale „ fra due possibilità logiche. Di fatti, accertato che,
in forma quanto più è possibile simigliante, presso i Latini ritorna un mito
indiano, ne consegue da prima che il valore allegorico di questo,
il quale non è dubbio (Bréal), dev'essere a un di presso identico al
significato di quello romano : la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la
potenza benefica del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco.
Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito assunse presso i
popoli indo-germani, la piii simigliante al racconto del Rigveda (Kuhn
" Zeitschr. f. deutsch. Alterth.), par metodico conchiudere che la fiaba
di Caco germoglia in suolo italico dalle radici arie, e non è in vece
l'imitazione delle fiabe vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i
Greci. Giacche è ozioso e assurdo supporre che imitando un modello già
lontanatosi dal tipo indiano si giungesse a riprodur questo appunto più
fedelmente. In particolare, prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd
e Ahriman; Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir,
ecc.), su cui si veggano Bréal, Spiegel, i miti greci di Apollo in lotta
col Pitone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche il racconto
dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo, pur ripetendo tutti e tutti
travestendo un unico concetto naturalistico e le sue sfumature e
analogie, sono ben lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la
forma del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Gerione
Apollod., per Ermes l'omerico Inno a Ermes, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e
romenco Inno ad Apollo. Da ultimo la constatata simiglianza
iatima tra l'episodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a decidere
quale fra le discrepanti redazioni del racconto latino più si accosti al
nucleo italico primordiale, quali elementi sieno gli originarli rispetto
ai posteriori o evolutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto maggiormente
esser antico un particolare e vetusta una figura quanto meglio collimi con le
forme e le linee del racconto indiano. Questo non avverti il Mùnzer
(e né il Winter), e si precluse la via a giudicar con metodica Nùchternheit i testi cosi dei poeti come
degli storici e degli eruditi latini. VIRGILIO (si veda) ed OVIDIO
(si veda); Properzio Il risultato della ricerca che Munzer conduce nel
suo I cap. (se si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le
quali non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poetiche e delle
poetiche irrazionalità) è che fra il racconto del furto e la vendetta di
Ercole corre nel material numero dei versi la proporzione di 1:3 presso
Vergilio, 1:2 presso Ovidio, 2:1presso Properzio. Die Folgerung scheint
unabweisbar, che appunto nella vendetta di Ercole Vergilio dev' essersi
allontanato dalla tradizione precedente per concedere alla propria
fantasia volo pili libero e più ampia indipendenza. Dopo aver
fatte alquante riserve su cotesto metodo di contar i versi d'un carme per
determinarne gli strati mitici, i dati sembran da disporre in ben altro
modo, ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in Ovidio (il quale
Cfr. Eneide; Fasti; Elegie. F., Kalypso l'abigeato di caco da quello
dipende, come risulta evidente dalla semplice lettura e fin troppo è
dimostrato dall'analisi del Munzer) è dato più grande sviluppo alla lotta
fra Ercole e Caco olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da
tener in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi si
esercitasse piti liberamente e più profondamente innovasse. che invece quello
fosse anche nella sua fonte leggendaria l'episodio meglio notevole e
significativo del racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza
il poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili ipotesi
è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti. E non si vede per contro
qual motivo induca il Munzer a preferir senz'altro la prima e a
proclamarla unabvreisbar. Ecco in vece che il mito del Rigveda interviene qual
pietra di paragone. In esso la vendetta di Indra contro Vritra è
ampiamente narrata con presso che tutti i particolari noti da VIRGILIO
(si veda) ed OVIDIO (si veda) e costituisce, non meno che in questi poeti,
un'essenzial parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi
è da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il racconto della lotta
fra il dio solare e quel del fuoco tenebroso costituisse non pur una rilevante
porzione della leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il
nucleo della vetustissima saga italica. Nella descrizione
della grotta di Caco Vergilio è pedissequamente imitato da Ovidio : cfr.
En., Fasti. Ma perchè V. usa per la spelonca la frase " solis
inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce vix ipsis invenienda feris a
esprimere un concetto affine, il Munzer insiste a lungo su la differenza.
Non ci fermeremo, rispettando i poeti. Con eguale sottigliezza d'analisi
il M. studia le due parole semihomo, e semifer che V. usa a
designar Caco accanto a l'altra di monstrum Perché il sembiante degli dei
è identico a quello degli ucraini, per questo semihomo equivale ad halb
Gott. Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore
metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose deduzioni
logiche : fino a trovare che l'epiteto di vir, da 0. tribuito a Caco non
si conviene alla concezione vergiliana del semihomo sebbene 0.
imiti pel resto l'Eneide e ripeta la parola monstrum e la paternità del
ladrone. Per vero il vir, ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di
Vergilio, SI a quello del Mùnzer. Ugual giudizio deve farsi di una serie
d'altre inezie, e in particolare delle osservazioni su l'uso delle saette
e della clava, presso V. ed 0. . Nel mito indiano Indra usa il
fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le saette come la
clava sono i simboli primordiali dei raggi solari, e si addicono quindi
entrambi all'essenza del racconto. Se quindi la clava o le saette o l'una e
l'altre fossero già nella forma originaria o vi mancassero è impossibile
dire. Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco
e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una deduzione che gli è
fondamentale. A quel modo che nell'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il
proprio padre, cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio,
Vergili© lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo è
accanto a una serie di altri monstra, vergiliani riportati ad analogia,
l'unico argomento per asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie
Schopfung der dichterischen Phantasie. Per qual motivo Vulcano
fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco e fumo ; non è detto ; ma
tutto si fa dipendere dalla " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung
des Cacus als eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens. l'abigeato
di caco Una confutazione ormai non è più necessaria. Più ragionevole
è la tesi del Winteb: che VIRGILIO (si veda) risusciti i caratteri
dell'antica divinità del fuoco Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog.;
Inno ad Apollo). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica e
semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la tradizione
letteraria ha fissati per Tifeo (non che, si può aggiungere, per altri
consimili mostri), a fine di colorire artisticamente un personaggio del
suo tema, non già di ricrearlo. Resta che si dica di
Properzio. Intorno al quale prudentissimo diviene Münzer; e non a torto,
in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel dell'Eneide che
il PtOTHSTEm dichiara come riferimenti culti a VIRGILIO potrebbero in
vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per certo assai
noto, a cui è dovuta la conservazione poetica della saga: riferimenti p.
e. ad ENNIO (si veda). E parimenti antichissima potrebb'essere la
concezione di Caco a tre teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche
pensato, in vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Gerione
: e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che il particolare
venisse soppresso da Vergilio appunto per dissimilar Caco da Gerione,
entrambi avversarii di Ercole. Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito
originario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita Cacus =
Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr. sotto § V), sia pur
dovuta alla fonte di Properzio o a una sua brachilogica omissione, non è
possibile dire. A ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui
sembra avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio di
quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione di
Evandro. LIVIO E DIONISIO Livio e Dionisio. Cfr. LIVIO (si veda); Dion. Il
Caco di LIVIO (si veda) è pastor ferox viribus, e prima di venir
abbattuto da Ercole " fidem pastorum nequiquam, invoca. E in somma
un uomo: ben diverso dal monstrum di VIRGILIO (si veda). Di qui due possibilità
si presentano al critico: o la concezione liviana è prodotto d'un erudito
razionalista che ha abbassato la statura del personaggio; o la concezione
vergiliana è l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Münzer
che s'è chiusa la via a sceglier con metodo, si attiene a questa seconda
ipotesi senza visibili ragioni. E nello stesso errore cade, per
motivi analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario
decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce ad affermare,
con la maggior sicurezza possibile in cosi fatte ricerche, che Livio
riflette una forma razionalizzata e umanata della saga. La quale serba
tuttavia anche cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana
assai dall'origine naturalistica. E poiché a ragione il Miinzer
afferma LIVIO (si veda) indipendente da VIRGILIO (si veda) e attinente a una
fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere che l'età augustea riceva
dalle anteriori intorno a Caxìo ed Ercole almen due versioni, l'una più
dell'altra colorita. A punto perché anche il racconto della fonte
di Livio è coperto di una patina da fiaba, Dionisio scrive : UoTi
óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv fiv&iKÓtteQa,
za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il racconto della fonte vergiliana
poteva sembrare degno di poeti, ma non di uno storico erudito, quello
della fonte liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser
riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene uno in cui
dietro a Ercole e a Caco stessero degli eserciti interi. Col che si confuta il
Mùnzer quando, l'abigeato di caco prendendo rigorosamente
alla lettera il [iv&iKdjxsQa, afferma che Dionisio intese narrare "die
Fassung, der Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war
„; e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo alla
seconda versione, più vera „ della prima e men favolosa.
Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta fra Ercole e
Caco, quella su cui si dilunga VIRGILIO (si ved) e il mito del Rigveda.
Il motivo è chiaro: quivi appunto era il perno del mito e il fondo della
sua allegoria; quivi il razionalista più deve sopprimere (contro
M.). Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dionisio lo dichiara
Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios. Tal differenza acquista valore se la si
contrappone alla concordia con cui due poeti indipendenti, VIRGILIO (si
veda) e Properzio, raffigurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che
in questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli storici in
vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non identiche, dell'unico
mito: non identiche, perché è dif. fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le
fiabe : dell'unico mito, perchè nel " ferox viribus, come nel
yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro
MùNZER). In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde di non
aver visto i buoi. Ciò, fu notato, corrisponde a Vergilio (abiuratæ rapinæ).
In Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se non
che cosi della presenza come dell'omissione è difficile far giudizio. Cotesta
astuzia di Caco è da avvicinare all'altra di condurre " aversos „ i
buoi : ed entrambe ritornano nell'omer. Inno a Ermes. Nel quale, ove si narrano
le astute imprese del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al
tono burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba di
Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce contro il tenebroso
fuoco, male armonizzi con scaltrezze COSI fatte. Si propenderebbe quindi
a ritenere tutt'e due i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto
l'influsso letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi
spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio e Dionisio.
Mentre ben altra è la natura del muggire i buoi nell'antro di Caco: che è
primitivo simbolo del tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer).
E anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può essersi
introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vicini a quelli che solevano adz^
avvayQavÀslv : la quale difatti manca nel Rigveda, e non è intrinsecamente
connessa con la forma prima del mito. Né si erra forse di molto
attribuendo a Ennio stesso queste imitazioni di fonti greche che si
ritrovano poi, cosi nei poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito
come nei suoi travestimenti razionali. Risulta adunque che la
fonte di Livio e, in parte, di Dionisio conteneva un racconto umanato
rispetto a quello poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di
Properzio; ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma primitiva,
in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune agli storici e ai poeti è
anche un'altra parte del mito: la etiologica, che attende ora il nostro
esame. I particolari etiologici del culto. Quella parte del
racconto, in VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), Properzio, LIVIO (si veda), Dionisio,
che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco fu presto
riconosciuta posteriore alla prima e intessuta di particolari
etiologicamente desunti dal culto di Ercole. Ma se non è più possibile
questionare su ciò, bisogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal proposito
il MùNZEE (p. 88) asserisce: dassin der Tat Cacus l'abigeato di caco
und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei ganz
rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des Hercules als einen
Trdger der Handlung gemeinsam haben, rein àusserlich zusammengeschweisst
worden sind. E anche: Der Einfluss der Verbindung mit Euander àusserte
sich am frubesten und am bedeutssamsten dadurch, dass der Scbauplatz des
Cacusabenteuers naher bestimmt wurde. A questa concezione si
contrappongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154): "hanno
contribuito a suggerirne del mito i particolari l'Ara Massima d’Ercole
vincitore nel foro boario e le vicine scale di Caco sul pendio del
Palatino (Solino; Diod.). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco
etimologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico del Palatino,
Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^) dell'Aventino (su questo punto ha
giudicato rettamente A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros).
La tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile. Due son le
figure principali del mito: Caco ed Ercole; e l'una d'esse certo latina o
italica, l'altra certo, in quella forma, greca. Se v'è dunque in Roma un
luogo cui si attiene il nome di Caco (scalæ Caci) e uno ove si rende
culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che questi due servissero
a localizzar il mito e il primo innanzi al secondo. Si potrebbe, è vero,
pensare anche che l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione
di Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma
l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone, prima della
comparativamente tarda intrusione di Ercole, Euander, che nella sua forma
greca sonava -E'^av^^ìo^, e che era la mitica personificazione della
eéavÒQÌa, fu interpretato buon uomo per un lunghissimo lasso di tempo non
localizzata la saga. Là dove l' essersi anche topograficamente
Garano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne la fusione :
se difatti l'uno era con Caco fissato presso il Palatino, l'altro si
stabili all'Ara massima, la contiguità dei luoghi giovò senza dubbio a
fondere le due simiglianti figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom.
propr.) a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato: hic perperam idem esse
putatus est atque Cacus deus ; fuit re vera auctor gentis Caciæ. E il
Mùnzer accetta, pur ammettendo che il nome alle scale possa derivar
anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben Cacus ein Name,
der schon for die Romer ohne Tnhalt und Bedeutung war. Ora il testo di
Diod. (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog xal
HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig Hai ócàQealg
xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv àvÒQcàv èTCOfiv^fiata
ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet Korà xìiv 'PiLfiTjv.TÒJv yàQ
vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà
zoìg 'Pcoftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p
HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv
òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg zóve yevofAévrig
oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara l'origine del suo contenuto. I
dati certi che possiede sono: l'esistenza di scalae Caciæ, l'antichità dei
Pinarii; le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii
ed Ercole. Da questi dati sono desunti: per falsa etimologia il nome KaKtog; il
nome Ilivd^tog) (per analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e
Cacio, le cui scale son prossime a quell'Ara Massima (JoedanHuLSEN
Topogr.) ove al culto erculeo i Pinarii partecipavano. Tale costruzione
da erudito costringe ad l'abigeato di caco ammettere
l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra Ercole e Caco, e dei
Potizii (ignoranza, si badi, che anche il Miinzer deve presupporre, nella
sua ipotesi). E poiché i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa R. E.,
VITI), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel culto, non è
arrischiato pensare che il racconto in cui di quelli si tace al tutto e
si tace del mito ove quelli eran inevitabilmente da menzionarsi, sia
dovuto a questi appunto (cfr. Pais STORIA CRITICA DI ROMA: contro
WiNTER). A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se la
nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto Kdxiog: e additano
per tanto la prima naturai sede della lotta. E perchè accanto alla
menzione di esse va posto il dato tradizionale su la caverna
dell'Aventino (VIRGILIO (si veda)En., OVIDIO (si veda) Fasti), se ne deve
concludere: che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana
ch'è fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso
verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nell'altro verso
l'Aventino (caverna). La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima
la quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,
tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole. (Cfr. Peter).
Che se il mito di Caco è, come si vide, italico e vetustissimo, là dove
Ercole è un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle
greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo alla figura di
questo costituisca un secondo strato leggendario. Del quale le diverse derivazioni
appajono in genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul
sacrifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc. In vece
maggior discrepanza si presenta intorno all'esclusione delle donne dal culto di
Eracle, su cui si danno tre versioni : da Properzio; dallo
scritto OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte
dififerenti, in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che significa
come un unico fatto venisse travestito in almeno due forme diverse. Lo
stesso si può dire dell'ara lovi inventori che è ricordata in Dion., Solino,
Origo geni. rom., OVIDIO (si veda), e taciuta dagli altri. Il qual
silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'altare e YAra maxima non
era nel mito etiologico essenziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde
non è improbabile che il motivo ne vada cercato nella topografia: giacché
secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj
ov'è un altro tempio d'Ercole (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom.
II 158). Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda invenzione il voto
di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe erige l'ara a Giove. Or
se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che il secondo strato
leggendario si sia arricchito parzialmente per più tarde aggiunte, la
medesima discordia conferma l'asserzione del De Sanctis (nonché del
Bormaim) intorno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, che è
essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio 1. e, Dion.
l. e, OVIDIO (si veda) e, Solino, Serv. En.
(= Myth. Vat.) e nello scritto Origo geni. rom. 7, e manca solo in
Propeez. l. e. non si sa bene perché, è però narrata in fogge
diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui la
instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio in Solino Evandro
non è che uno, e sia pur il principale, fra gli spettatori del primo sacrifizio:
e secondo Servio egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la
istituzione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora di
Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e Ovid.) ora di Temide
(Dion.) ora dell'oracolo Delfico l'abigeato di caco (Myth.
Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché la Porta Carmentalis (a
sud-ovest del Campidoglio) è a nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E
Nicostrato e Temide son sue variazioni di sapore greco. E parimenti è
chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio della leggenda, parallelo
bensì a quel di Evandro, però con una base topografica non
pseudo-etimologica. Entrambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di
Evandro.Se non che tutto cotesto processo semierudito e semifantastico traspare
ancora nelle fonti dell'età Augustea, in quelle medesime ove non è più
incerta la localizzazione della saga nel Foro boario ed è solidamente
fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne deve pertanto dedurre
che Evandro è rispetto a questo di gran lunga più tardo. Rappresenta dunque
il terzo strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui
un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la venuta di Ercole a Fauno
(Cfr. De Sanctis o. c. 192 su Fauno ed Evandro, e Origo geni.
rom.). Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria la
quale combattente contro Ercole o introduce Fauno in luogo di Caco (se
non parallelamente a questo) (DerCYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee); o di Fauno
il figlio, Latino (Conone Narr. appr. Fozio Bibl. cod.; cfr. anche
Schweglee Rom. Gesch.). In breve, il complesso etiologico inseritosi nel
mito è, a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre
strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aventino) ; Ercole, con
l'Ara Massima; Evandro, con taluni episodii mal fissati e fluttuanti.
Anche su queste etiologie, come sul mito vero e proprio, si esercita il
razionalismo degli eruditi. Gli eruditi. Il riscontro degli errori
in cui GLI ERUDITI cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto
dal suo cap. VI die antike Forschung. Egli si trova di fatti
costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra tesi spiega
traendone a sua volta conforto, a dichiararsi incapace di chiarirle.
Nell'Interpol, di Seev. En. Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam
Romani consentiunt: solus Verrius Flaccus dicit Garanum fuisse, pastorem
magnarum virium, qui Cacum adflixit, omnes autem magnarum virium apud
veteres Hercules dictos,) e nello scritto Or. gen. rom. Recaranus quidam,
Graecæ originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat
fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus) ritoma sotto due
forme diverse un nome differente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco:
Garanus e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è
incerto (con Mukzee contro Peter o. c., Pais., Winter, Bohm in
Pault-Wissowa R. E.). Ma non è incerta, a noi pare, la interpretazione di
esse. Sappiamo che il mito di Caco è antichissimo, che Eracle non divenne
Ercole se non più tardi, che per tanto una figura indigena, latina o
italica, lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto due
forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che gli eruditi si son
sforzati di conciliar esso nome (e non potevan quindi senz'altro
eliminarlo) con quel di Ercole per mezzo dell'asserzione " omnes
magnarum virium Hercules dictos,. Riteniamo per conseguenza legittimo attribuire
tale nome appunto al personaggio italico il cui Cfr. H. Peter Die Schrift
* Origo gentis romanae in Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu
Leipzig, Phil.-hist. Kl. l'abigeato di caco preesistere ad Eracle
era a priori pensato. Quando in vece Mùnzer deve asserire, giusta la sua
tesi, che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi (i
quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore, dargli avversario
un semplice pastore non un eroe famoso) contraddice in parte sé stesso perché,
se Caco è originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio, sin
dall'origine non doveva essere un dicevole avversario di Ercole; e non
riesce poi a interpretare il nome Garano (Recarano) né a dire donde Verrio
l'abbia ricavato. Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della
natura del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto,
l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n. e WiNTER
accettano), Garano e Recarano esser " due forme errate di Karanos
l'eroe argivo eraclide, fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla
di fatti può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non ha
per sé se non un'approssimativa simiglianza formale dei nomi, e ha
bisogno a sua volta d'esser spiegata, giacché sembra assai strana cotesta
scelta degli eruditi latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che
Garanus sia un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la
tesi di lui : giacché in quel caso diventa di nuovo probabile che
l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso della divinità
soppiantata da esso Ercole. In breve l'ostacolo non si supera bene se non da
chi, come noi, abbia preso le mosse dal mito indiano e creda
all'antichissimo mito latino. Altra testimonianza che il M. non
spiega è quella su Caca. Servio En. (= Myth. Vai.) parla d'una sorella di
Caco, Caca, la quale lo avrebbe denunziato: ed ivi pure è data
notizia di un " sacellum Cacao,, e si aggiunge " in quo ei per
virgines sacrificabatur (cod. Reginensis); per vir- GLI ERUDITI gines
Vestae sacrificabatur {codd. rei.); pervigili igne sicut Vestae
sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „. L'ultima lettura è la preferita; la
prima sceglie il M. Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale
nella sua concisa oscurità e nella confusione che contiene, è pili
tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un ampliamento della
prima. Comunque, lo stesso M. deve ridursi ad ammettere l'esistenza del
sacellum a una dea Caca. Col che ha già ammesso troppo contro la
sua tesi : perché una dea di quel nome è il riscontro pili magnifico che
si potesse sperare a un supposto dio Caco. Se poi si aggiunge che all'una
si sacrifica sicut Vestae, e l'altro emette fiamme dalla bocca, la
deduzione non può esser che una. Verissimo tuttavia che lo spionaggio
attribuito a Caca in Servio non le è da imputare, come quello ch'è una
erudita invenzione poco felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca
sia poi il travestimento di queir " una boum, che appresso VIRGILIO
(si veda) rivela il furto né meno il M. osa sostenere. E se il sacellum
Cacæ sia per il M. oscuro al pari dell'atrium Caci, e se entrambi oscuri
non sono per la nostra tesi, par che non vi sia più molto a discuter su
gli argomenti dell'una e dell'altra parte. Due composizioni erudite
meritano di esser qui ravvicinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En.
si esprime: Cacus secundum fabulam Vulcani filius fuit, ore ignem ac
fumum vomens, qui vicina omnia populabatur. veritas tamen secundum
philologos et historicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum
servum ac furem; ignem autem dictus est vomere, Cfr. su Caca, Giannelli
II sacerdozio delle vestali romane (Firenze l'abigeato di caco
quod agros igne populabatur; novimus autem malum a Graecis kuhóv
dici: quem ita ilio tempore Arcades appellabant. postea translato accentu Cacus
dictua est ut 'EÀévi] Helena (Cfr. Myth. Vat.). Poi a En. si danno
le notizie sull'Ara Massima i Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non
inconsueta, che qui non c'interessa più. Il razionalismo si è qui
dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar il fuoco che il poeta
gli fa emettere, a interpretar il nome. Molto più si permette
il racconto che si trova in Origo gen. rom.: " Recaranus quidam,
Graecae originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui
erat forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus;
Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et praeter caetera furacissimus:
tali i due avversarii. Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana
ricerca è per partirsi quando Enander, excellentissimae iustitiae
vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum noxae dedit bovesque
restitui fecit,. Allora Recarano dedica " inventori patri ^ un
altare e lo chiama Ara Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii
buoi. Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne son
perciò per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo. Cotesto racconto è
di gran lunga più finito e particolareggiato di quel ch'è in Servio.
L'interpretazione razionale qui si estende fin là, dove il primo non si
dilungava da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore concilia
col più noto d’Ercole, Ercole mutando in soprannome. Inoltre, poiché non
può giustificar l'intervento d'Evandro come p. e. Livio, né valersi di
vaticinio alcuno ; poiché d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto
%aKÓs servo di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco,
ch'era ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.),
GLI ERUDITI e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, senza dircene
il modo, nel testo pervenuto almeno, che non si esclude in un testo piii
ampio il muggito indiziale potesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia
la profezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo stesso modo,
non potendo l'Ara massima venir instituita da Ercole ch'è qui soppresso,
viene a ragion veduta confusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta
a spiegarla. Tra Servio e il racconto della Origo v'è
simiglianza profonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimiglianza in
altri. Di questa si comprende il valore comparando la sicurezza con cui ixqW
Origo si assevera che Ercole non è se non il soprannome di Recarano,
alla prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i
concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su l'identità
Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha presente con altre la fonte medesima
àoìVOrigo; ma se ne vale solo saltuariamente rispettando molto pili il
racconto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte di cui, in
vario modo, approfittano e Servio e l'autore àeWOrigo, è detto quivi haec
Cassius libro primo Ossia quasi certamente L. Cassio Emina. Mùnzer a
tal proposito suppone che a Cassio venisse attribuito tutto il racconto
per esagerazione, in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter
fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò verisimilmente tutta la
saga di Evandro e quella di Caco. Non v'è dunque ragione per negare che
nella tradizione erudita si serbassero (anche e specie mediatamente)
di lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del resto, se
anche un solo suo passo poteva addirsi al racconto dell'Orlerò, si può
sostenere che in lui era al mena assai simile la razionalizzazione del
duello fra Ercole e F. Kalypso. l'abigeato di caco Caco. Ma poiché
questa appare neWOrigo organica e armonica in tutti i particolari, è difficile
negare che, cosi definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro
M.). Di natura opposta alle due testimonianze erudite che furon or
ora discusse sono i racconti di Dion. e di Cn. Gellio appr. Solino =
Peter fr. Difatti là dove in quelle la lotta pur umanandosi resta
limitata a due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eserciti.
Ma se Dion. non ofi"re grandi difficoltà, quando si conoscano le
fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di Evandro e gli Aborigeni di
Fauno (De Sanctis St. d. Bom.); per contro Gellio è oscurissimo, Cacus,
ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat
missu Marsj'ae regis, socio Megale Phryge, custodiae foret datus, frustratus
vincula et unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato
circa Vulturnum et Campaniam regno oppressus est. Megalen Sabini
receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti. Il carattere che sùbito appare
più evidente in tal racconto è il travestimento erudito razionalista; cosi che,
se esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito, le
conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son tracce palesi di
contaminazione : gli Etruschi difatti, i Marsi, i Sabini, i Campani sono
compresi in queste poche righe, ed è difficile che una schietta e unica
leggenda originaria accosti per tal modo tanti popoli. Ora fin che
Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato sul Volturno più
tosto che contro uno sul Palatino, possiamo intendere ch'egli preferisse
foggiarsi il mito a imagine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della
prima Sannitica inventandone un precedente; che non si scosterebbe in
questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio la quale di Caco crea un
antecessore di Fauno ed Evandro. LI ERUDITI E non è rigorosa l'ipotesi che
costretto egli vi fosse da un mito cumano o campano (il passo di Festo s.
V. Romam è di lettura troppo mal sicura e nulla se ne trae). Cosi quando
ricorda Megale Frigio e i Sabini, si ricava dalla " disciplina
augurandi, trattarsi d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o
etimologica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando in vece è
introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone) che avrebbe usato violenza
contro Caco non si sa per qual modo, sembra tutt'altro che improbabile,
vi sia qui un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale è
ritratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi [KòETE
Etruskische Spiegel V tav., Rilievi delle tirne etnische; Petersen Jahr.
D. Instituts; De Sanctis Elio; MuNZER 0. e. e Rhein. Mus.] e il cui
nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio contro un Caco dal
benigno aspetto. Ond'è che difficilissimo resta, nell'attuali condizioni della
scienza, decidere se anche per i Marsi si debba attribuire la loro presenza
al desiderio di foggiar il mito su lo schema della storia, come ci parve
probabile per i Campani; o alla contaminazione d'una terza leggenda con
la latina e l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn.
Gelilo rappresentano bensì un unico atteggiamento di fronte alla leggenda
di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne esprime una forma diversa.
Il primo si serba vicino alla poesia molto piii che il secondo. Quello
par travestire la fiaba che sarà poi seguita da VIRGILIO (si veda). Questo,
il racconto che narra Livio. Per ciò Dionisio dopo aver esposto il mito
assai similmente a LIVIO (si veda), dà il suo àAri- éazeQos Myog come
un'interpretazione del fiv&ty.óg = liviano: dà, in somma, il racconto
razionale dell'anna- m. - l'abigeato di caco lista pili tardo
come ermeneutica del racconto favoloso dell'annalista più antico. Allo stesso
modo che Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al
testo vergiliano, desunto da Ennio. Tra le due teorie che (cóme
vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è da preferire quella
che crede ad un antico mito latino» in quanto tien maggior conto di tutte
le testimonianze ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e
coerentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, contradicendo il Mùnzer e
compiendo il breve disegno del De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che
in tre strati (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)
si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è elaborata con
diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un annalista; l'una e l'altra
forma vengono, nell'età succescessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn,
Gellio. L'età augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dionisio
e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste manifestazioni. Cirene
mitica. Bibliografìa e metodo. Il complesso dei miti raccolti attorno
alla figura di Cirene è studiato già da Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae)
che raccolge i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe vagliarli. Trova
poi trattazione minuta ed accurata per opera di Studniczka Kyrene, eine
altgriechische Gottin (Leipzig), che la stessa materia rielaborò in
RoscHER Lexicon; e di Malten Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe
Untersuchungen in Philologische Untersuchungen, del Kiessling e
Wilamowitz ove è tenuto conto anche delle ipotesi brevemente enunciate da
Geecke in Hermes. Nella sostanza identico e sol nella forma diverso si
vegga questo capitolo negl’Atti della R. Accademia delle Scienze di
Torino. Qui appare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora
consente. Dopo i quali non si vuol citare che lo scritto di Vincenzo
Costanzi Tradizioni Cirenaiche in Ausonia. Indipendentemente il
Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una stessa attitudine
di fronte ai miti cirenaici, la quale si contrappone in modo reciso a
quella dei nostri predecessori. A prescindere di fatti dalle particolari discrepanze
che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler cercare un
significato recondito nei miti (Costanzi) p, oom'io mi espressi (Atti),
nel non volervi cercare la chiave delle più antiche vicende greche
in Tara e in Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene) nega di poter
spiegare la leggenda di Cirene senz'ammettere una vetustissima
colonizzazione tessalobeota in Tera; e Malten pure stimava necessaria
l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia fosse stata abitata da un popolo
misto tessalico e pelopico direttamente venuto dal Tenaro recando e
figure divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di provare come le
vicende storiche, ben note nell'insieme, tra cui sorse e visse la
Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti a spiegar del mito non pure
Toriginarsi si anche, di stadio in stadio, l'evolversi. Determinato cosi
il mio antitetico punto di veduta, passo ai particolari. La ninfa
Cirene. Dopo che il Malten ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura
libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo essere mitico non
avrei che da richiamarmi a lui su questo punto, se non dovessi rispondere
alle obiezioni a me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe. Egli,
nel permettermi di pubblicare questa sua let- Ich glaube nicht, dass Kyrene
nach der libyschen Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und
erst nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist. Die Kyrene von
Abdera und Maroneia ist zwar, wie dies bei der Aehnlichkeit der Namen
natùrlich ist, friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden,
war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und es ist zum
mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter des Diomedes bei
Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es kommt hinzu, dass eben hier, auf dem
benachbarten Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die
Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im Schiffskatalog erwàhnte
Kikonenkonig Euphemos, der Sohn des Troizenos. Nicht weniger als vier
Namen der kyrenaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Diomedes, kehren auf
ganz engem Raum an der thrakischen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine ganz
andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit einer sehr alten, den
bekannten Epen vorausliegenden Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr.
Malten; Studniczka). " Aber nicht genug damit. Auch in Kroton ist ein
Kyrene (als Mutter des Lakinios) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht
fehlte ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios mit
Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist fùr Kroton bisher, so viel
mir bekannt, nicht bezeugt, tera, esprime il dubbio che le sue
argomentazioni non potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità
con cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelligente gli
terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi, manifestiamo l'augurio che
l'illustre e dotto studioso sostenga presto in pubblico con tutta
i'ampiezza la propria Jambl. vii. Pijth. (N. d. Gr.). CIRENE
MITICA aber doch fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem glaube ich
entnehmen zu durfen: dass Kyrana und seine Kurzform Kyra griechischen,
nicht libyschen, UrspruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst
oder der Quellnamen selbst aus dem dann, aber wohl schon im
griechischen Mutterland, eine Gottin oder Heroine geschopft sein mùsete von
Griechen tìbertragen wurde; dass die vier Namen Euphemos, Aristaios, Kyrene und
Diomedes in einer ausserordentlich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden.
Aus Grùnden, die ich nicht in der Kurze entwickeln kann, bin ich
ùberzeugt, dass die Verknùpfung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das ein bedeutendes
Kolonialreich besessen haben muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes
Kyrene und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von wo jener
nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen wurden. Dass Troizenier einst
auch in Kyrene sassen, will ich nicht behaupten obwohl ich es glaube;
aber dass diese Bruchstiicke troizenischer Sagen den àltesten Bestand der
Ueberlieferung von Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. Ora, per
dimostrare in modo esauriente che da Trezene il complesso mitico di Cirene
Aristeo Diomede ed Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in
Libia; bisogna provare: l'esistenza di questo quadrinomio a
Trezene; il ritorno costante di esso nei luoghi rassegnati or ora, e il ritorno
non dubbio, scevro da possibili equivoci; l'insistente ripetersi, nelle forme e
nei luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo
alterarsi non sia ben motivato. Il carattere spaziato è introdotto solo
nella trascrizione. Sul primo punto il Gruppe si scusa di non
insistere in der Kiirze: sorvoleremo noi pure. A CROTONE si sarebbero
potute raccogliere tracce di due al meno fra le quattro figure la cui
presenza è riscontrata in Cirenaica; Aristeo e Cirene. Tuttavia
farò sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si basa la
supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone: il nome di un nume
notissimo e diffusissimo dato a una persona non prova assolutamente nulla
intorno al culto locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia
veramente da mantenere la forma Cirene per la madre di Lacinio, non sia
da correggersi in Pirene (Maltes; cfr. Serv. a VIRGILIO (si veda) Eneid.
Localizzata di fatti Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di
Ercole, reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia
dei Romani), non è improbabile che a Crotone si riprendesse il mito di
Eracle contrastante con i figli di Pirene, solo al nome d'uno fra questi
sostituendo l'eponimo del Lacinium promontorium li presso. Ma se mal
sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in CROTONE, altr' e tanto
incerte son quelle che Gruppe ne riscontra in Tracia. Si sa che nel testo
di Apollodoro il Malten corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij
in IIvQr^vrj. Per Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nell'essersi permutato
Cirene in Pirene. E poiché pare molto improbabile che in paesi limitrofi
sussistessero due tradizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie
di Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera e
Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede; credo
d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la supposizione che, corrottosi
Cirene in Pirene, ne derivasse il nesso con Ares con Cicno e con Licaone.
Ma né questa ipotesi è semplice, perché presuppone un originario
nesso Cirene-Diomede una corruzione Pirene-Diomede
un ampliamento Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone né è in alcun
modo giustificata, perché, all'infuori di Apollodoro nessuna fonte accennando a
Cirene in Tracia, nulla ci costringe a supporvela necessariamente
ricorrendo persino a contorte vicende. Più semplice e giustificata la
supposizione del Malten : in territorio predominato da Pirene un'unica traccia
di Cirene deve attribuirsi a testo corrotto, non ad altro. Del pari
Aristeo in Maronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per opera
de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo vi è congiunto con
Dioniso; perché non si debba ritenere ch'egli non fu importato insieme con
Diomede e la supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto indipendente.
In fine si resta molto perplessi su le profonde difi'erenze fra il tracio
Eufemo re dei Cleoni, e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario
figlio del Fai^oxog. Or come né in Crotone né in Tracia Cirene e Aristeo
son di sicura esistenza, cosi si può fondatamente asserire che in Libia Diomede
non ha radici profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a
simiglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a simiglianza
degli Argonauti; ma sol tanto perché quelle coste sono, nella tradizione
poetica dei vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo
quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leggenda, è probabile fosse
foggiato anche quel particolare. In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in
CROTONE, dubbii in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è con certezza identico
all'avo dei Battiadi; in Libia Diomede non esiste. Per di più, oltre ad
essere incerta la presenza di tutt'e quattro i numi in CROTONE in Tracia
in Libia, non si capisce, se, come vuole Grappe, tra quelli lin
nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi altrove, perché a CROTONE
il perno del mito sia il APOLLO CARNEO nesso dell'ipotetica Cirene con
Lacinio, in Tracia la linea fondamentale della leggenda sia la
discendenza di Diomede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è costituito
dalla commessione Cirene-Aristeo. E né pure si capisce perché in Tracia resti
indipendente, come forse a Crotone, Aristeo che in Cirenaica è figura
essenziale; e per converso qui si scemi quasi al tutto la persona
di Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della
leggenda si distrugge e si trasforma: senza causa evidente. Non
posso dunque finora accettare la teoria di Gruppe; e resto fermo, per
Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a studiare la
seconda figura fondamentale del mito. Apollo Carneo. Non cade dubbio che
Apollo e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di
Wide e Hofeb in Roscheb Lex. Ma per il mito di Cirene è di somma
importanza il determinare se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in
Tara prima che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse
soltanto in Cirenaica (cfr. Malten). Ora tenendo conto dell'esser il
culto di 'AnóÀXoìv Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche
fuor del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv... ol
fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig ...èneTÉÀovv : e cfr.
gli articc. citt., quello spec. del Hofer), due ipotesi sono possibili :
o che in tutti quei luoghi ove il culto appare di sufficiente antichità
la figura di Apollo, separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo;
o pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propaga dal centro
originario nelle altre sedi del culto. E questa ipotesi com'è più verisimile
e più semplice cosi ritengo preferibile all'altra. CIRENE
MITICA Né offre difficoltà nello special caso di Tera e
Cirene, giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen
Thera) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico di Apollo-Carneo non
è imprudente o arbitrario il supporlo già sussistente nella seconda metà
del sec. anteriore. Né a tale ipotesi è contrario Malten; il quale scrive:
Gewiss ist die Verbindung ' ApollonKameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes
willen oder erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und
hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet. Se non che egli non trae
da ciò l'unica deduzione che è logicamente possibile. Poiché difatti tutta
l’lliade (prescindendo dai più meno antichi strati) dimostra il carattere
preminentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del santuario
delfico e della sua preponderanza famosa è ben riconosciuta dal Beloch
Griech. Gesch.; se si ammette che già in Tera Apollo prepondera su Carneo, si
da mutar questo in suo epiteto; si ammette a un tempo che i coloni dori
pervenuti in Cirenaica avevano ormai alla loro principale divinità riconosciuto
un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto del tutto superflua la
opinione che un tal carattere a quella non venisse attribuito se non
neWEea di Ch'ene. La quale appar quindi non la causa del fondersi insieme
i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un effetto di esso, cui tengon
dietro in proceder di tempo e per medesimo impulso Pindaro con le sue
Pit. IV e IX, Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo. Dove
appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato, crediamo, dalla terza
figura su cui è costituita la saga: Aristeo. Aristeo. Non è qui
opportuno studiarne la diffusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale
raccolto dal Malten e negl’Atti dell'Accad. di Torino. Il
culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi. Aristof. Cavalieri
894, Ititi. Anton., scoi. Pit. IV (ràv 'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig
ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra
due possibilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo il
suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia) e a causa di esso; o
pure perviene in Libia prima di quella connessione e la determina. Tra le
due possibili ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una
vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole dell'Egeo,
quali Ceo (1) Chic l'Eubea, e l'Arcadia: onde non è per nulla strano che
o già in Tera qualche strato della popolazione e qualche famiglia gli
rendesse culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che nel
principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e dal Peloponneso si
recarono ad accrescere il primitivo manipolo di Dori. Contro la prima
supposizione non si può obiettare l'assenza di testimonianze da cui un
culto teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco conosciamo in
proposito e molto in ogni caso, restando nei più bassi strati, non emerse
alla superficie storica. Contro la seconda non fa ostacolo la cronologia;
già che cui risale la Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per l’Eea
di Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si commettesse con
Apollo (protettore della fonte) e con Cirene (vincitrice del leone); a quel
modo che nessuno Cfr. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos
Diss. Giessen stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con
Zeus in Arcadia: cfr. Malten. L'analogia è sufficiente motivo. Stimo
in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero originario di Tessaglia.
Basti che nel mito nostro egli è tessalo per eccellenza: segno sicuro che
doveva avere un vivacissimo carattere tessalico allor quando del
mito venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo ove
potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti riescono di minore
rilievo a confronto con quelli che riteniamo di aver assodati su la
libica Cirene, il delfico Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a
ricostruire nelle sue linee principali il componimento da cui quelle
tre figure vennero collegate in racconto: l'Eea. La ricostruzione
dell'Eea di Cirene. Convengo col Malten che le fonti cui dobbiamo attingere più
direttamente per la ricostruzione dell'^'ea di Cirene sono : Pindaro
Pit., Esiodo t'r. 128 Rzach^, Ferecide in scoi. Pit., Seiivio a VIRGILIO
(si veda) Georg. = Esiodo fr. Rz., Apoll. Rodio cui vengono aggiunti se
bene per la loro sommarietà non sieno di grande valore, Timeo appr.
Diod., Nonno Pan. Dionis. (Malten). Quanto poi al modo di usar
cotesti sussidii, mi sono attenuto a due criterii fondamentali. Il primo
è il piti Malten lascia in dubbio ob der Gott schon in der kyrenàischen
Lokalsage zum Sohne der Kjrene wurde; ma, per amor della sua tesi,
asserisce quasi il contrario. In Thessalien erregte Kyrene das Gefallen
des Gottes. hr Sohn ward Aristaios, elementare : ritenni originario
tutto che ritornasse costantemente nelle diverse forme assunte dal mito e
riflettenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più complesso. Fu
dimostrato poc'anzi che non può venir attribuita all'Eea la mischianza
de' caratteri proprii di Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è,
chi ben guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto,
Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tessaglia av'era ben
radicato il culto di Aristeo. Aristeo dunque, non Apollo, dev'essere
stato il motivo del trasferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a
trasformare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto del
giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cirenaico uno sfondo
tessalico, è legittimo ritenere, ed è pure ovvio, che essa contenga più
propriamente tutti quei particolari i quali più propriamente sono con
Aristeo connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è
il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è probabile, vi aveva la sua
ulteriore vicenda Cea e il racconto sul figlio di lui Atteone. D'altra parte la
figura di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante
perché traverso essa e per sua causa non dovessero penetrare nella favola
personaggi ed episodii a lei aderenti: i quali per ciò è dicevole
attribuire meglio che al canne esiodeo alle sue più tarde
propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi
risultati; Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti; Ipseo è nato da Creusa
(una Najade) e dal fiume Peneo: cfr. Malten. Lo storico cirenaico
Acesandeo {scoi. Pit. Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia
del nostro lavoro qui si omette, Malten. Si vegga inoltre,
Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea di Studi critici offerti
a C. Pascal, (Catania). CIRENE MITICA fa discendere Ipseo da Filira,
madre di Chirone. Se non che questa variante è sospetta, come quella
che tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chirone nelle
nozze tra Apollo e Cirene: intervento che spiace a Pindaro pure e
Apollonio tace: là dove il centauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso
con Aristeo prima che questo con Cirene. Apollo scorge la ninfa
nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La lotta col leone è
ricordata da Pino. Pit., da Nonno; non da Apoll. R.: questi l'introduce
nell'officio di pastorella. Il Malten resta per ciò incerto su l'esistenza di
essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel si. L'esame del racconto di
Apollonio, che si fa più sopra, mostra come esso si allontani assai
dall'originaria forma del mito a causa dell'influsso del razionalismo: al quale
adunque si deve anche attribuire la soppressione della belva e della lotta che
troppo male consentivano al paese tessalo. Chirone profèta le nozze
del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka. Col quale ove si ammetta che
Pindaro tenti invano di ribellarsi all'Eea su questo punto, ne consegue che
Apollonio, allor quando sopprime tutta la scena e induce il Centauro
allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non la prosecuzione di
quel tentativo. Ciò è confermato dal doppione che ne risulta : Aristeo di
fatti sarebbe in Apollonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii
essendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; inserto quello. Apollo
trasporta la fanciulla in Libia sul suo carro (Malten). Cirene è accolta
da Libia. Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai
vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten. Mi parrebbe quindi
sofisticheria l'insistere su la lieve dissimiglianza. A ogni modo, se una
forma fosse da preferire per antichità sceglierei Libia: giacché le
xd-óviai. vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in cui
dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito pili fermamente da
quel di regione, si è al tutto ritirato; mentre se Libia era nella Eea si
spiega meglio come mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite.
La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu introdotta a causa di quel KvQdvag
yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQoóczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit.)
e a cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr. Malten);
giacché non trascurabile culto a essa dea si doveva rendere, se quando fu
fondata Evesperide venne presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio
(Steabone). Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo. Cosi Apoll. R.
Pindaro Pit. attribuisce quell'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione,
a scopo esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.
l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. Rz. = Anton. LiBEB. XXIII. E se
un'analogia giova, si ricordi che in Euripide Ione Ermes per ordine di
Apollo reca Ione, colatamente, in Delfi. Aristeo è allevato dalle
Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio si serbi in Pixd.
Pit. IX 60 che in Apollon.: però che tre sieno, principalmente, le
varianti poetiche dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra
di Bglaai (Aristot. fr. Rose); l'altra pindarica che introduce le Ore; la
terza di Apollonio che ricorda le Muse; varianti delle quali la prima
troppo strettamente Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica
del carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'alterazione dovuta
alla figura di Apollo Musagete (basti ricordare B. A); la mediana è pertanto
preferibile. (Ciò contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare
che le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un trascorso impreciso
dell'autore che una vera e propria vaA. Fersabi>-o, Kalypso. CIBENE
MITICA riante. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone ed è
avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo (cfr. Malten). Nel
complesso adunque Pindaro pare, a mal grado delle due intrusioni di Ermes
e di Afrodite, pili vicino all'Eea che Apollonio; questi più razionalista
di quello. Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Aristeo) ci
offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di Eufemo su cui v. ): cfr.
Malten che qui si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di
Coronide) è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le
origini tessaliche del culto di Asklepios in Rassegna di Antichità
classica contro Kjellberg Asklepios, mythologisch-archdologische Studien
in Sàrtr. u. Sprakv. Sàllsk. forhandl. Upsala Universitets
Arsskrift,]. Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e
sanatrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} e Wilamowitz Isylìoi. E bene: prima
si congiunge Apollo ad Asclepio; poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A
quel modo che, secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con
Aristeo e poi la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo dunque in
breve i risultati di queste ricerche, abbiamo: che Cirene è nome
libio-greco della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad
Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante il diffondersi del
suo culto, in Libia, si accosta a Cirene; che questa è la causa per cui
Cirene passa in Tessaglia; che su questi elementi si può ricostruire
l'Eea di Cirene ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Coronide,
tale quindi da potersi ricondurre al medesimo centro d’elaborazione
mitopoetica. Euripilo ed Eufemo. Le due principali figure del
racconto di Pindaro Pit. han dato occasione alle più diverse ipotesi: cfr.
Studniczka e Malten. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a preparare
risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito cirenaico dei Battiadi
che fa riscontro al mito della ninfa Cirene. Euripilo si rinviene:
in Tessaglia, figlio di Evemone; in Cos, figlio di Posidone; in Misia,
figlio di Telefo e condottiero dei Cetei; in Acaja, Pads. Ora è probabile
che l'Euripilo di Cos si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr.
WilamowiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti gli
altri sono indipendenti. L'Acaico viene bensì da Pausania identificato con
il Tessalico; ma è notevole che altri già allora combattevano questa
teoria: iy^aipav de i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà
siqrijtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p
PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég "lÀiov TiaQÙ
Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Evidentemente gli eruditi greci cercavan di
precisare l'origine dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed
era ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Euripilo di
Tessaglia. Il re dei Cetei è da Malten ricondotto in Arcadia. Ammesso che
Keteig possa ricondursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne
senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe esser stato
connesso con quelli dopo il loro trasporto in Misia; il che par
dimostrare la nessuna traccia da lui lasciata in Arcadia al contrario di
Telefo (1) e Ceteo. Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza
indipendente di un Euripilo in Misia. Alla schiera adunque Cfr. IiiMEBWAHR
Die Kulte und Mythen Arkadiens. di questi tre Euripili (in Tessaglia in
Acaja in Misia) viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica.
Contro i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omonimi G. De
Sanctis m'insegna a ritener questi manifestazione, varia nel tempo e nei
luoghi, d'una medesima unica tendenza mitica; la quale ci è
dall'etimologia facilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' "
ampia porta „ infernale. Era ovvio che questo comune concetto,
questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato presso popoli di
stirpe greca. In tal caso poiché egli appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è
legittimo credere che impulso alla sua localizzazione libica desse la
grotta del Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino)] che era
ritenuta appunto apertura di Dite (cfr. Strab; Tolemeo Geog., 4, 8;
PLINIO (si veda). In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi
da uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo [scoi.
Pind. Pit.) cfr. Malten: Atlante I PosiDONE ->-
Celeno £lios I I Tritone Euripilo Sterope Pasifae LicAONE
Lbdcippo Se non che questo schema ci appare sùbito una combinazione
accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak. Kul.), Tritone {Àìfiv^
TqitcovIs Strab. e Pind. Pit.), Lieeo = Zeus Liceo (Eeod. eSTUDNiczKA)
souo accertati in Libia da altre fonti: elementi arcadici e cretesi la
cui presenza non stupisce (cfr. Maass Hermes e Studniczka). A Liceo
corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di Lieo in altre fonti
(Ellan. in Scoi., Apoll. Bibl.) è padre Posidone e madre Celano,
Atlantide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inserendo però fra
Licaone e Celeno-Posidone una generazione : Tritone e Euripilo, il dio della
palude e il dio della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno
è Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito lo
spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios. Sia però questo o altro il
procedimento seguito dall'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra
niilla più che già non sapessimo : l'influenza grande di Creta e
dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze commerciali e
politiche spiegano senz'altra ipotesi : a quel modo istesso che Euripilo
al Gioh non prova se non la costanza con cui un unico tipo di nume
ctonio fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condizioni
geografiche. 2. Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit.) connesso
con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera con la Libia. La
connessione con Lemno è una conseguenza della sua qualità di Argonauta: sta e
cade con questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito vi
fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo {scoi Pit., scoi.
Apoll. R.). Resta adunque ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro
avrebbe per patria (Pind.: ol'aoi), i Battiadi di Cirene per
vantati discendenti. Ora in Beozia v'è traccia della sua supposta madre
Mecionice (Tzetzk Chiliad.) : e non v'è, ch'io vegga, motivo alcuno per
dubitare che, se non originario di quella regione, egli sia tuttavia
caratteristicamente beota. Col che si connette la sua presenza in Lesbo
(EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia : a ognuno invero è
nota l'attinenza stretta fra i miti beotici e tessalici. Ma perché i
Battiadi ne avrebbero fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che
i co[CIRENE MITICA] Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten che in
Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne facessero il proprio avo.
Costanzi mi par ben più vicino a una probabile ipotesi: I Battiadi stanno
ad Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli Euripontidi
a Prode; come, soggiungo, i dinasti Molossi ad Achille, i Pisistratidi a
Nestore. E queste analogie ultime, a punto, possono lumeggiare il
fenomeno cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore;
Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille nell'epopea: e
similmente ArcesLlao, appellativo di quattro re di Cirene, è un eroe
beota nelVIliade (cfr. Pads.). E se è errato sostenere col Mììller
Orchomenos che di Beozia fu tratto il nome, non è però arrischiato
l'asserire la possibilità che il nome beotico abbia attratto l'avo
beotico. A ogni modo, quand'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale
genealogia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio, le due ipotesi
dello Studniczka e del Malten: sproporzionate al fatto che vogliono spiegare.
Non resta da vagliare che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo
che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece, importantissimo,
il culto di Posidone Geaoco (S. Wide Lak. Kulte). Non solo, ma i
caratteri di Eufemo (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato
religioso) son più vicini a quelli di Apollo (Stodniczka) e, in genere,
del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che a quelli d'un
nume sotterraneo. Nume sotterraneo ritennero Eufemo p. es. Studniczka e
Maass (Gòtt. Gel. Anz.; Orpheus) solo sul fondaBen altrimenti Gruppe Gr.
Myth. I rapporti di un nume o eroe con Posidone non implicano
senz'altro un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti
ha mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade :
fondamento per cui s'indussero anche a forzare il significato di
eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto, eufemistico in
luogo del nome pauroso della divinità ctonia. Tutto ciò cade, se la
localizzazione al Tenaro risulta artificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che
l'affinità fra Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste
osservazioni, si legge la Pitia, vien fatto d'interpretarla nel seguente
modo. Ai discendenti di Eufemo quattro punti si dovevano necessariamente
far toccare, tre forniti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il
Peloponneso, Tera, la Libia. Or bene: a Lemno abbiam già veduto
Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spiegare il soggiorno nel
Peloponneso e quello a Tera. Per Tera s'inventò lo smarrimento della
zolla; per il Peloponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo èfiglio,
in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto di Posidone Geaoco,
Eufemo fu localizzato al Tenaro. Interpretando in tal modo tutto si
spiega: ed è questa ipotesi molto più semplice che non quella del Malten.
Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo, e ovvio che i tardi
genealogisti si preoccupassero di introdurlo nelle genealogie laconiche;
difatti lo troviamo nipote dell'Eurota (Tzetze Chil.); o figlio di
una Doride [scoi. Pind. Pit.); o sposo di una Laonome sorella di
Eracle (scoi. Pind. Pit.). Ma ha torto Malten di dar peso a tali genealogie, e
in ispecie all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle
indipendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre è
arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo attinenze cultuali
anche Apollo (Gerhabd Abh. Beri. Akad. Wiss.). CIRENE MITICA
e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif. Ora, al
Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare, già nell'Eea di lui (fr.
143 Rzach ^): se lo si deve dedurre dall'epiteto di Fairioyos che vi si
trova e che è quello con cui al Tenaro si venerava Posidone:
fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri ^ zéxev JEvq)f]fiov
yairjóxffi Evvoacyaiq) fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov
'Aq)QodÌTi]g. Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R.; Igino
fav.; Acesandro e Teoceesto in scoi. Apoll. B.. Se dunque è vero che la
localizzazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Battiadi), cotesta
Eea non può esser che sotto l'influsso cirenaico. La qual cosa spiega o può
spiegare per analogia anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più
propriamente) di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E
poiché l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singolare (in
quella di Aristeo come padre del fanciullo, in quella di Eufemo come
ecistère), avremmo in esse un modello del come in Delfi si servissero
gl'interessi d'altre regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per
trasportar Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti,
per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Tenaro, ecc. ecc. Cfr. in vece
Malten Crediamo adunque di aver mostrato e che Euripilo in Libia non ci riporta
ad alcuna regione ma solo a un comune concetto mitico dei Greci, e che
Eufemo beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi,
certo è estraneo al Tenaro. Al Malten pertanto che afferma Euripilo ed
Eufemo costituire eine Reihe, die ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im
sudlichen Thessalien hat, e con l'uno d'essi collegarsi intimamente [EUBIPILO
ED EUFEMO] Atlante e Posidone, urpeloponnesisch, possiamo rispondere di
aver troncato a quella " Reihe per Euripilo r Endpunkt, che sta in
Tessaglia, per Eufemo l'estremità che si fissa in Libia e il centro che
si posa sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo, reciso i
nervi a quella teoria. Del pari cadono le analogie con cui la
rincalza. In LicoFEONE naufragano su la costa libica Euri pilo (ma
figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo magnete. Onde
Malten sostiene che il naufragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda
cirenaica (LicoFB., Apollod. a Wagner): e rintraccia poi quegli eroi a
Creta e in Tessaglia. Noi però abbiamo già osservato a proposito di
Diomede che nei vóaroi la spiaggia libica appare il luogo tipico dei
naufragi e che quindi tali leggende son da ritenere indipendenti affatto da
Cirene. Il trovare ora che un mito secondario, attinente per contenuto
all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un Euripilo senza avvertire
l'esistenza in quei luoghi di un omonimo, rilevante figura locale, ci
conferma nella nostra opinione, e prova contro il Malten che Guneo e
Proteo non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili,
per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la feste Kette
von Beziehungen zwischen Libyen und Kreta einerseits und Nordthessalien
andererseits, die in Arkadien ihren Knotenpunkt hat, (Malten). Se non
che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi, Eufemo ed Euripilo ebbero
attinenze in quanto quegli era Argonauta, e questi agli Argonauti fece
dono di una zolla libica. A noi quindi, che analizzammo
partitamente le due figure, non resta che studiare la trama
narrativa in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argonauti
in Libia. CIRENE MITICA Gli Argonauti in Libia. Poiché su
questo punto io profondamente mi allontano dal Malten terrò più minuto
discorso. A quattro redazioni leggendarie dobbiamo por mente: Pindaro
Pit.; Erodoto; Licofronk; Apoll. Rodio; e tutte bisogna
esaminare. Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con Medea
dall' Oceano sopra l’Argo, debbono per dodici giorni trasportare la loro
nave su la terra deserta fino al lago Tritonio, ove nel punto della
partenza appar loro Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di
Giasone, una zolla: fatidico dono. In questo racconto non v'è nulla
che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla quindi che non paja
inventato per il loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago
Tritonio, il quale è l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti
questo il lago, di cui Strab., presso Berenice (Bengasi) che esiste
tuttora (i laghi salati). E non si vede bene, svibito, perché per
l'appunto quel lago venisse scelto per il dono. Né Euripilo poteva esser
causa della preferenza; però che paja invece piti probabile il contrario:
Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra parte
difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat- tiadi, sarebbe stato
fatto Argonauta, ove con tal mezzo a punto non lo si fosse potuto far
giungere in Libia: il che lascia supporre che in Libia una leggenda
più antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possibilità adunque,
nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della palude Tritonide
debba risalire a un nucleo mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri
suffragi. Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una
interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si potrebbero
moltiplicare. Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esiste una
MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi
Giasone il quale tentava circumnavigare il Peloponneso avrebbe subito
naufragio, per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improvvisamente
trasportato senza possibile uscita fuor dalle strette del lago. Ma
Trìtone apparso trasse di rischio la nave, dimostrò la via, e ricevette
in dono un tripode. Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un
giomo presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città: Taira
àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat, TÒv zQLJioòa. Qui
sono due particolari ben distinti : il dono del tripode per ottener lo
scampo, e la profezia. Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte
non ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli
altri CosTANzi 0) un riflesso del tentativo com- piuto nel Cinipe fra le
due Sirti dallo spartano Dorieo. Ma il dono del tripode non è che
fittisiiamente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo: suo
vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone la via. Il resto è
superfetazione più tarda. Da ultimo è notevole che ritorna ancor qui il
lago Tritonio, localizzato però non pili presso Berenice ma nella piccola
Sirte. Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati. L'uno è
recente, e non risale più in là della spedizione infelice di Dorieo:
appartengono a questo la profezia di Tritone e il valore fatidico dato al
tripode. L'altro è assai più antico, e preesiste a Dorieo: gli
appartengono i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono
di Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, grossolanamente,
al nucleo che ci parve originario in Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da
vicino questi elementi simili. Identico è il nome della palude; ma
diversi sono i luoghi: tuttavia più vetusta appare la
identificazione C'IBENE MITICA con il lago dell'estremo occidente
nella minor Sirte (cfr. RoscHER nel Lex. e Costanzio.). Identico
l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e non è dubbio che
Tritone, aderente com'è al lago stesso, risalga a pivi vetusta forma che
Euripilo, figura recente dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un
dono, ma la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo degl’argonauti
si convenga il dono che serve a favorire il viaggio, più tosto che quello
il quale prepara, a tutto vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia.
Lo strato adunque più antico d’Erodoto appare alla nostra analisi come la
forma su cui vennero foggiate: da un lato la leggenda cirenaica a prò dei
Battiadi, con alcune alterazioni dicevoli; dall'altro la leggenda
spartana in favor di Dorico, con altri mutamenti opportuni. Se
questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e Apollonio. Licofrone
dice dei naufragi di Guneo Proteo ed Euripilo presso Tauchira (città
della Cirenaica non lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon
già gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda giace
fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Kivv(pEiog ^óog (il Cinipe,
cfr. Malten, che fluisce, in vece, fra le due Sirti, molto lontano di
li). Agli Argonauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere, per
compenso del quale egli insegna loro la via, e profèta che i Greci colonizzeranno
quella regione, allorché riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i
Libii) impauriti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il
cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena son quelli
medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il
Cinipe, sono della Cirenaica. Né il Cinipe turba gran che l'armonia:
questa irrazionalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il
mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di [GLI ARGONAUTI IN
LIBIA] Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che in una
fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio (Apollod. vi 15 a Wagner
= scoi, a Licofr.) (contro Malten). In breve, Licofrone contamina;
mischia insieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto
sirtico-spartano del mito. Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso
gli Argonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare
per dodici giorni le navi verso oriente. Giungono cosi al lago Tritonio, presso
cui a loro impediti nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo
una zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati: il
tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo (= Giasone, in
lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte) è cosi
conscio della contaminazione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi)
congiunge con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a
oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella, di cui Pindaro,
fra l'Oceano e la palude Tritonia. Né coteste contaminazioni erano puro
effetto dell'arbitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che ne sia
la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano d'aver rinvenuto
essi il tripode donato a Tritone, dimostra come la leggenda
sirtico-erodotea, la quale nella piccola Sirte, dopo l'insuccesso di
Dorieo, era spostata, avesse trovato terreno propizio, anche nella
realtà, presso l'altro lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La
facilità con cui dalle nostre premesse furono spiegate le complesse
narrazioni di Licofrone e Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par
buona conferma delle premesse medesime. Poche parole bastino dunque,
ancóra, sul posto che, nella complessiva spedizione, occupa l'episodio
degl’argonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la CIRENE
MITICA conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Erodoto,
prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna dar troppo peso a
Licofrone, in cui un equivoco è ben possibile e facile, da poi che non
tratta egli esplicitamente, ma solo parenteticamente, degl’argonauti.
Inoltre la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo del
mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi che ogni poeta poteva
tribuirgliene uno, secondo l'esigenze poetiche o l'estro
dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i
risultati delle ricerche sul mito dei Battiadi. A favore di questi
ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico motivo favoloso su gli Argonauti in
Libia: conducendo quivi e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il
capostipite dei Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta;
trasportando i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di
Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come altrove. In tutta l'Eea
quindi è, si, un complesso rifacimento di miti con scopo dinastico e
religioso; ma tal rifacimento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi
note, non già altre, anteriori e ignote. Questa Eea di Eufemo
poi e quella di Cirene crediamo si possano mostrare contaminate parzialmente
in Callimaco. Vili. Callimaco e il mito di Cirene. Malten vede
nel nesso Cirene-Euripilo la forma più antica della leggenda, quella che
l'Eea adultera. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come AceSANDRO {scoi.
Apoll. R.) e Filakco, storici, cirenaico l'uno, egizio forse l'altro,
sente una più viva eco e più genuina della primitiva forma mitica
allorquando fa combattere in Libia, non in Tessaglia, Cirene col leone. Ma è
altr'e tanto' vero, e intui- [CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE] tivo, che il
nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea avesse trovato questo nome
congiunto, comunque, con quel di Cirene, non avrebbe omesso di
trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia è invero
signore di Ormenio un Euripilo figlio di Evemone. Che se dunque il nesso è
posteriore all'Eea e a Pindaro, è pur posteriore alla leggenda dinastica
degl’Eufemidi, già riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo
ha preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che Euripilo si
commetta con Cirene, dopo che la sua figura ha assunto valore e rilievo
indigeni nel mito degl’argonauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto
rispecchia una posteriore forma indigena della leggenda che è oggetto del
nostro studio; a quel modo che VIRGILIO (si veda) rispecchia una posteriore
forma straniera. A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la
frase di lui fievà jiÀeióvùìv: Cirene di fatti sarebbe pervenuta in
Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po' diverso, è Giustino:
mandati dal padre di Cirene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero
fermati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora, come
Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di Cirene ninfa e la
leggenda dei Battiadi si compenetrano in parte; cosi i due passi or ora
citati continuano lo stesso indirizzo, non più solo col connettere Cirene
ed Euripilo, bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali,
che vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi di
questo processo mitopeico sono: Euripilo è in Libia quando Eufemo,
capostipite dei Battiadi, vi giunge ; dunque molto prima di Batto; Cirene
è in Libia rapita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto; Cirene
ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli antichi tempi) con Cirene,
che ha il trono da Euri- [OIBENE MITICA] pilo, eran Tessali suoi
compatrioti. Lento (ma chiaro) processo, adunque, le cui forme non si
debbon confondere con le primitive quali ci appajono nelle due
Eee. Esegesi novissima. Storia e indagine su Civette mitica soo in questo
volume già per intero composte quando apparvero di Pasquali le
Quaestiones Callimacheae (Gottingae) ove il mito di Cirene è di
nuovo trattato. Ne pubblicheremo altrove una confutazione (" Atti
della R. Accademia delle Scienze di Torino). Torino, BOCCA, TORINO Piccola
Biblioteca di Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical
education – he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not
the ancient!” Grice: “Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of
prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere
in the Lazio”. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e
unica Roma, one and only. Mussolini’s
dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus ‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” –
The Swimming-Pool Library. Aldo Ferrabino. Ferrabino.
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