Grice e Fracastoro: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’anima – scuola di Verone – filosofia veronese – filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo veronese. Filosofo veneto. Filosofo
italiano. Verona, Veneto. Grice: “I love Fracastoro; for one, I love a
physician, since I came to know quite a few – at Richmond!” “Grice: “I love Fracastoro;
he philosophised on mainly three topics: the ‘soul’ – in a philosophical
dialogue entitled after him, Fracastoro; on poetics, in a dialogue which he
named after his poet friend Navagero; and third, on ‘intellezione,’ in a dialogue
which he named after another friend, one Torre, “Torrius,” – Grice: “The fact
that Gerolamo, or Girolamo, is still at Verona, is fascinatingly charming!” Considerato uno dei più grandi filosofi di tutti i
tempi. Insegna logica a Padova. Fu archiatra di Paolo III, al quale dedica
“Homocentrica”. A lui è dedicato il cratere F. presente sulla Luna. Fondatori
della patologia (teoria del patire). È il primo ad ipotizzare e verificare che
una infezione e dovuta a un germe portatore di una malattia, con la capacità di
moltiplicarsi nel corpo dell’organismo e di contagiare altri attraverso la
respirazione o altre forme di contatto. “Sifilide, ossia sul “mal francese,” sotto
forma di poemetto in esametri e il trattato "Sul contagio e sulle malattie
contagiose.” Il trattato è all'origine della patologia, o teoria del patire. Fu
il primo a scoprire che le code cometarie si presentano sempre lungo la
direzione del Sole, ma in verso opposto ad esso. Descrisse uno strumento in
funzione astronomica, poi realizzato da Galilei: il cannocchiale. Scrive III
dialoghi filosofici: Naugerius sive de Poetica (dialogo di estetica), Turrius
sive de Intellectione e l'incompiuto Fracastorius sive de Anima. F., con il nome di Giroldano, viene
incontrato da Dago, personaggio di un fumetto argentino creato da Robin Wood e
Alberto Salinas, in una delle sue avventure, per la precisione nel n. 10 anno
XIV del mensile, proprio mentre Girolamo interroga una prostituta in cerca di
informazioni per il suo poema sulla sifilide.
Una leggenda sul Fracastoro fa parte della storia popolare veronese. Una
sua statua è posta su un arco alla fine di via Fogge, che da nord si innesta in
Piazza dei Signori (comunemente detta anche Piazza Dante). La statua
rappresenta la sua figura intera con in mano il mondo, che il popolo del tempo
ha ribattezzato la bala de F., dove bala è il termine dialettale che indica
palla. In quella strada vi era il passaggio per il vecchio tribunale da parte
di giudici e avvocati ed era vicina a tutti i palazzi del potere di quel tempo.
La bala è legata ad una profezia: cadrà sulla testa del primo galantuomo che
passerà sotto. Finora non è mai successo. Il popolo di Verona usa questa storia
per sbeffeggiare gli uomini del potere. Enrico Peruzzi, Dizionario Biografico
degli Italiani, Ettore Bonora, Il "Naugerius" del F.,
Milano,Garzanti, Storia della Letteratura italiana, Dal Piaz Giorgio, Padova e
la Scuola Veneta nello sviluppo e nel progresso delle Scienze geologiche. Mem.
R. Ist. Geologia Univ. Padova, Dal Piaz Giorgio, Cenni sulla vita e le opere di
carattere geologico di Valleri senior. In: “Il metodo sperimentale in Biologia
da Valleri ad oggi”, Simposio nel III Centenario della nascita di Valleri,
Univ. Studi Padova e Acc. Patavina Sci. Lett. Arti, Questo testo proviene in
parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera
del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, F., Patavii,
excudebat Josephus Cominus, Opere, Venetiis, apud Iuntas, Homocentrica,
Venetiis, Sifilide Tiziano, Ritratto di Girolamo Fracastoro. Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enrico Peruzzi, F.,
Girolamo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Vita condizione propria della materia vivente Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Vita (disambigua). La vita è l'insieme delle caratteristiche
degli esseri viventi che manifestano processi biologici come l'omeostasi, il
metabolismo, la riproduzione e l'evoluzione. Alberi in una foresta (Muir Woods
National Monument, California, USA). La biologia, ovvero la scienza che studia
la vita, ha portato a riconoscerla come proprietà emergente di un sistema
complesso che è l'organismo vivente. L'idea che essa sia supportata da una
«forza vitale» è stato argomento di dibattito filosofico, che ha visto
contrapporsi i sostenitori del meccanicismo da un lato e dell'olismo
dall'altro, circa l'esistenza di un principio metafisico in grado di
organizzare e strutturare la materia inanimata. La comunità scientifica non
concorda ancora su una definizione di vita universalmente accettata, evitando
ad esempio di qualificare come organismo vivente i sistemi come virus o
viroidi. Gli scienziati concordano comunque sul fatto che ogni
essere vivente ha un proprio ciclo vitale durante il quale si riproduce,
adattandosi all'ambiente mediante un processo di evoluzione, ma ciò non implica
la vita perché qualunque caratteristica che hanno i viventi può essere
ritrovata in altre situazioni non considerate viventi, ad esempio alcuni virus
software che hanno un ciclo vitale e di riproduzione nel loro ambiente
informatico ma non sono vivi, o alcuni cristalli che crescono e si riproducono,
e molti altri esempi. Una più basica serie di caratteristiche della Vita sono
state avanzate, come ad esempio un sistema composto da molecole omochirali che
si mantiene in omeostasi e capace di reazioni autocatalitiche (Tour). Le
forme di vita che sono o sono state presenti sulla Terra vengono classificate
in animali, cromisti, piante, funghi, protisti, archaea e batteri. Definizione
Mayr Riguardo alla definizione di cosa sia la vita c'è ancora dibattito tra
scienziati e tra filosofi. Secondo il biologo Mayr sarebbe sufficiente
individuare le caratteristiche fondamentali della vita da un punto di vista
materiale: «Il definire la natura dell'entità chiamata vita è stato
uno dei maggiori obiettivi della biologia. La questione è che vita suggerisce
qualcosa come una sostanza o forza, e per secoli filosofi e biologi hanno
provato ad identificare questa sostanza o forza vitale senza alcun risultato.
In realtà, il termine vita, è puramente la reificazione del processo vitale.
Non esiste come realtà indipendente» (Mayr) Il biologo Driesch sosteneva
invece che la vita non potesse essere compresa con gli strumenti delle scienze
meccaniche, come la fisica, le quali si occupano esclusivamente dei fenomeni
non biologici, ragion per cui la biologia andrebbe separata da queste
discipline:[5] «La vita non è [...] una connessione speciale di eventi
inorganici; la biologia, pertanto, non è un'applicazione della chimica e della
fisica. La vita è qualcosa di diverso, e la biologia è una scienza
indipendente.» (Hans Driesch, The science and philosophy of the organism,
trad. ingl., Londra) Uno studio approfondito in merito è stato fatto dal fisico
Erwin Schrödinger. Nella sua dissertazione Schrödinger nota per prima cosa la
contrapposizione tra la tendenza dei sistemi microscopici a comportarsi in
maniera "disordinata", e la capacità dei sistemi viventi di
conservare e trasmettere grandi quantità di informazione utilizzando un piccolo
numero di molecole, come dimostrato da Mendel, che richiede necessariamente una
struttura ordinata. In natura una disposizione molecolare ordinata si trova nei
cristalli, ma queste formazioni ripetono sempre la stessa struttura, e sono
quindi inadatte a contenere grandi quantità di informazione. Schrödinger
postulò quindi che l'unico modo in cui il gene può mantenere l'informazione è
una molecola di un "cristallo aperiodico" cioè una molecola di grandi
dimensioni con una struttura non ripetitiva, capace quindi di sufficiente
stabilità strutturale e sufficiente capacità di contenere informazioni. In
seguito questo darà l'avvio alla scoperta della struttura del DNA da parte di
Franklin, Watson e Crick; oggi sappiamo che il DNA è proprio quel cristallo
aperiodico teorizzato da Schrödinger. Seguendo questo ragionamento
Schrödinger arrivò ad un apparente paradosso: tutti i fenomeni fisici seguono
il secondo principio della termodinamica, quindi tutti i sistemi vanno incontro
ad una distribuzione omogenea dell'energia, verso lo stato energetico più
basso, cioè subiscono un costante aumento di entropia. Questo apparentemente
non corrisponde ai sistemi viventi, i quali si trovano sempre in uno stato ad
alta energia (quindi un disequilibrio). Il disequilibrio è stazionario, perché
i sistemi viventi mantengono il loro ordine interno fino alla morte. Questo,
secondo Schrödinger, significa che i sistemi viventi contrastano l'aumento di
entropia interno nutrendosi di entropia negativa, cioè aumentando a loro favore
l'entropia dell'ambiente esterno. In altre parole gli organismi viventi devono
essere in grado di prelevare energia dall'ambiente per ricompensare l'energia
che perdono, e quindi mantenere il disequilibrio stazionario. Questo è ciò che
in biologia è stato riconosciuto nei fenomeni di metabolismo e omeostasi.
Secondo Mayr, è un'entità viva, quindi con peculiarità che la distinguono dalle
entità non viventi, l'organismo vivente, soggetto alle leggi naturali, le
stesse che controllano il resto del mondo fisico. Ma ogni organismo vivente e
le sue parti viene controllato anche da una seconda fonte di causalità, i
programmi genetici. L'assenza o la presenza di programmi genetici indica il
confine netto tra l'inanimato e il mondo vivente. Unendo il concetto del
disequilibrio con quello della riproduzione (cioè della trasmissione ordinata
delle informazioni), come espressi da Schrödinger, si ottiene quello che può
essere definito vivente: un sistema termodinamico aperto, in grado di
mantenersi autonomamente in uno stato energetico di disequilibrio stazionario e
in grado di dirigere una serie di reazioni chimiche verso la sintesi di sé
stesso. Questa definizione è largamente accettata nell'ambito della biologia,
nonostante ci sia ancora dibattito in merito. Basandosi su questa definizione
un virus non sarebbe un organismo vivente, perché può arrivare a riprodursi ma
non può farlo autonomamente, in quanto si deve appoggiare al metabolismo di una
cellula ospite, così come non sono esseri viventi le semplici molecole
autoreplicanti, in quanto sottoposte all'entropia come tutti i sistemi non
viventi. La ricerca sui Grandi virus nucleo-citoplasmatici a DNA, ed in
particolare la scoperte dei mimivirus, quindi l'eventualità che costituiscano
anello di congiunzione tra i virus, definiti qui non viventi, e i più semplici
viventi comunemente accettati, ha contribuito ad estendere il dibattito e a
rendere più sfumata la linea di confine tra viventi e non, ed alcune ipotesi
minoritarie, suggeriscono che i domini Archaea, Bacteria, ed Eukarya possano
originare da tre differenti ceppi virali e i plasmidi possono essere visti come
forme di transizione tra virus a DNA e cromosomi cellulari. Oltre la
definizione di Schrödinger, vari studiosi hanno proposto diverse
caratteristiche che nel loro insieme dovrebbero essere considerate sinonimo di
vita: Omeostasi: regolazione dell'ambiente interno al fine di mantenerlo
costante anche a fronte di cambiamenti dell'ambiente esterno. Metabolismo:
conversione di materiali chimici in energia da sfruttare, trasformazione di
diverse forme di energia e sfruttamento dell'energia per il funzionamento
dell'organismo o per la produzione di suoi componenti. Crescita: mantenimento
di un tasso di anabolismopiù alto del catabolismo, sfruttando energia e
materiali per la biosintesi e non solo accumulando. Interazione con l'ambiente:
risposta appropriata agli stimoli provenienti dall'esterno. Riproduzione:
l'abilità di produrre nuovi esseri simili a sé stesso. Adattamento: applicato
lungo le generazioni costituisce il fondamento dell'evoluzione. Queste
caratteristiche sono, per la loro peculiarità, comunque passibili di critiche e
di parzialità. Un ibrido non riproducentesi non può considerarsi come non vivo,
così pure un organismo che ne abbia perduto la capacità nel corso del tempo.
Parimenti un'ipotetica situazione che obblighi la dipendenza da strutture
estranee per mantenere l'omeostasi, un organismo strutturalmente non in grado
di adattarsi ulteriormente all'ambiente e altre singole deficienze,
difficilmente, se prese singolarmente, possono far escludere di avere a che
fare con un vivente. Organismi viventi Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Organismo vivente. La vita è caratteristica
degli organismi viventi. In generale la vita si considera una proprietà
emergentedegli esseri viventi. Questo significa che si tratta di una
caratteristica posseduta dal sistema, ma non posseduta dai suoi singoli
componenti. Un organismo vivente, quindi, è vivo, mentre non sono vive le sue
singole parti. Condizioni necessarie alla vitaModifica L'esistenza della vita,
così come la conosciamo,necessita di particolari condizioni ambientali. I primi
organismi comparsi sulla Terra si sono per necessità sviluppati in base alle
condizioni preesistenti, ma in seguito a volte sono stati gli organismi stessi
a modificare l'ambiente, a vantaggio proprio o di altri organismi. È il caso
della produzione di ossigeno da parte dei cianobatteri, che ha modificato
profondamente l'atmosfera terrestre causando un'estinzione di massa (detta
catastrofe dell'ossigeno) e rendendo possibile la colonizzazione dell'ambiente
terrestre. Inoltre col tempo si sono determinate sempre più interazioni
complesse tra i diversi organismi, facendo sì che nella maggior parte degli
ambienti la vita di determinate specie sia possibile grazie alla presenza di
altri organismi che creano le condizioni necessarie (spesso si tratta di
microorganismi, come nel caso dei batteri azotofissatori, che trasformano
l'azoto molecolare presente nell'aria in molecole utilizzabili per le
piante). Ogni essere vivente può sopravvivere all'interno di determinati
limiti relativi ai fattori fisici dell'ambiente (temperatura, umidità,
radiazione solare, ecc.). Al di fuori di questi limiti la vita è possibile solo
per brevi periodi, se non impossibile del tutto. Queste condizioni, che sono diverse
per ogni specie, sono definite range di tolleranza. Per esempio una cellula
batterica ad una temperatura troppo alta subirà la denaturazione delle sue
proteine, mentre ad una temperatura troppo bassa subirà il
congelamentodell'acqua che contiene. In entrambi i casi morirà. Anche le
caratteristiche chimiche costituiscono fattore limitante; pH, concentrazioni
estreme di forti ossidanti, elementi chimici in concentrazione tossiche,
eccetera, costituiscono spesso un muro quasi invalicabile allo sviluppo della
vita. Lo studio di organismi estremofili, ha contribuito enormemente
all'individuazione delle condizioni ritenute minime per lo sviluppo della vita,
nonostante risulti chiaro che la definizione di ambiente "estremo" è
comunque relativa e diversa per ogni organismo. Determinate esigenze sono
comuni a tutti gli organismi viventi. Affinché ci sia vita è necessario che si
disponga di energia, al fine di mantenere il disequilibrio energetico del
sistema (vedi sopra). La maggior parte degli organismi autotrofi sfrutta
l'energia solare, attraverso la quale compie la fotosintesi, ottenendo i
nutrienti dalla materia inorganica. Questi organismi, che comprendono piante,
alghe e cianobatteri, si dicono fotoautotrofi. Altri autotrofi più rari
sfruttano invece l'energia derivante da processi chimici, e si definiscono
chemioautotrofi. Le altre specie, dette eterotrofi, sfruttano l'energia chimica
dai composti organici prodotti da altri organismi, nutrendosi dell'organismo
stesso, di una sua parte o dei suoi scarti. È necessario inoltre affinché
ci sia vita che ci sia disponibilità dei principali costituenti biologici, cioè
carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, e zolfo, nell'insieme detti anche
CHNOPS. Gli organismi autotrofi li ricavano principalmente in forma inorganica
dall'ambiente, mentre quelli eterotrofi sfruttano principalmente i composti
organici di cui si nutrono. Tutte le forme di vita conosciute, infine,
necessitano di abbondanza d'acqua, anche se alcuni organismi hanno sviluppato
adattamenti che permettono loro di conservare le proprie riserve di liquidi a
lungo, così da potersi allontanare notevolmente dalle fonti d'acqua.
Queste condizioni sono condivise dalla quasi totalità delle forme di vita
conosciute, tuttavia non è possibile escludere l'esistenza, sulla terra o su
altri pianeti, di organismi in grado di vivere in condizioni completamente
diverse. Per esempio è stato trovato nel Mono Lake in California un batterio,
Halomonas sp., ceppo GFAJ-1, in grado di sostituire il fosforo nelle proprie molecole
con l'arsenico, che proprio per la sua similitudine col fosforo e per la sua
tendenza a sostituirlo nelle molecole biologiche, è tossico per la maggior
parte degli organismi conosciuti, escludendo quelli che lo utilizzano come
ossidante nella respirazione, al pari di numerosi composti utilizzati a tale
scopo da differenti organismi. In seguito questa scoperta è stata messa in
dubbio, e sono in corso verifiche per accertare l'eventuale eccezionalità della
scoperta. Gli esobiologi ipotizzano una vita basata sulla chimica del silicio
anziché del carbonio. Origine della vita Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Origine della vita ed Evoluzione della vita.
Secondo i modelli attualmente accettati la vita sulla terra è comparsa grazie
alle condizioni presenti tra 4,4 e 2,7 miliardi di anni fa, che hanno permesso
lo sviluppo di macromolecole come gli amminoacidi e gli acidi nucleici, come
dimostrato dall'esperimento di Miller-Urey, dalle quali in seguito si sono
originati polimeri come i peptidi e i ribozimi. Il passaggio dalle
macromolecole alle protocellule è l'aspetto più controverso della questione,
sul quale sono state avanzate diverse ipotesi, come quella del mondo ad RNA,
quella del mondo a ferro-zolfo e la teoria delle bolle. A partire dalle
protocellule gli organismi hanno poi raggiunto lo stadio attuale in cui li
conosciamo tramite processi, spiegati dalla teoria dell'evoluzione, lungo un
ramificato processo di evoluzione della vita. Vita extraterrestr glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esobiologia ed Extraterrestre.
Qualunque forma di vita non propria del pianeta Terra viene detta
"extraterrestre". Questo termine può riferirsi, in maniera più ampia,
a qualunque oggetto al di fuori della stessa realtà terrestre. Tutt'oggi l'uomo
non conosce alcun esempio di essere vivente extraterrestre e il dibattito tra
scettici e sostenitori della probabile esistenza di forme di vita aliene a
quelle terrestri è molto acceso. Nella cultura umanisticaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vita
(filosofia) e Filosofia della vita. Prima che la scienza fornisse spiegazioni
scientifiche sulla vita, l'uomo tentò di fornire risposte riguardo ai fenomeni
dei viventi tramite la mitologia, la religione e la filosofia. Nella
cultura letteraria e filosofica, l'esistenza umana è stata associata alle
emozioni, alle passioni e in generale alla storia di ciascuna persona. Poeti,
letterati, filosofi e pensatori hanno associato alla vita significati diversi e
presentando una personale concezione di vita umana. Alcune posizioni hanno dato
vita a vere e proprie correnti di pensiero, come il vitalismo, il pessimismo, o
il nichilismo. Diritto e questioni etiche sulla vita umana Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Diritti umani e
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nelle società organizzate, la
vita umana rappresenta un valore che richiede attenzione in termini di diritto.
Questioni di tipo etico determinano le scelte circa la difesa e la salvaguardia
della vita, quando questa è messa in discussione da altri tipi di scelte, come
la pena di morte, l'aborto o l'eutanasia. Secondo attente analisi e ricerche la
maggior parte delle persone possiede una vita infelice per cause di tipo
affettive, morali, sociali, personali e cause derivate dalle relazioni amorose,
da ciò le persone possono evidenziare idee suicide o entrare in fasi
depressive. A titolo esemplificativo può essere appropriato riportare le
seguenti riflessioni che bene descrivono lo stato d'animo della Bovary, travolta
dalle devastanti vicende passionali, che la indurranno infatti al suicidio: Da
che dipendeva quella insufficienza della vita, quell'istantaneo imputridirsi
delle cose alle quali essa si appoggiava? Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio
di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto. Vita
sintetica Dalla ricerca delle proprietà oggettive che definiscano il concetto
di vita si è sviluppato un ramo della biologia chiamato biologia sintetica che
utilizza conoscenze di biologia molecolare, biologia dei sistemi, biologia
evoluzionistica e biotecnologie con l'idea di progettare sistemi biologici in
maniera artificiale in laboratorio. NASA Life's Working Definition: Does It Work?, su nasa.gov.Biase,
I saperi della vita: biologia, analogia e sapere storico, Giannini Five Kingdom
Classification System, su ruf.rice Mayr, What is tha meaning of
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correlate Biologia Evoluzione Biodiversità Morte AWikizionario contiene il
lemma di dizionario «vita» vita, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. vita, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Vita, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Origine della vita, su minerva.unito.it.
La vita e l'evoluzione, su vita-morte-evoluzione.bravehost.com. Vita, in
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Biologia
Biologia scienza che studia la vita Organismo vivente entità dotata di
vita Che cos'è la vita? Wikipedia Il contenuto Vita (filosofia). Il
concetto di vita in senso biologico non coincide con quello filosofico.
Genericamente possiamo riferirci alla biologia nel definire la vita come la
condizione di esseri che, caratterizzati da una forma precisa e da una
struttura chimica particolare, hanno la capacità di conservare, sviluppare e
trasmettere forma e costituzione chimica ad altri organismi. In filosofia
la definizione del concetto di vita è diversa e più complessa poiché risente
della scarsità lessicale presente nella lingua italiana che usa un unico
termine per una diversità di significati: in senso generale si adopera il lemma
"vita" per indicare la vita animale, quella umana, quella oltreumana
e, nei riguardi dell'uomo in particolare: la vita corporea, quella psichica,
quella spirituale. Pensiero antico Nel pensiero greco antico vengono usati
invece tre termini a seconda del loro specifico significato: ζωή: il
principio, l'essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente,
all'universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario
la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il
singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere; βίος: indica le
condizioni, i modi in cui si svolge la nostra vita. Zoé è dunque la vita che è
in noi e per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), bios allude al modo in
cui viviamo (quam vivimus), cioè le modalità che caratterizzano ad esempio la
vita contemplativa, la vita politica ecc. per le quali la lingua greca usa
appunto il termine bios accompagnato da un aggettivo qualificante; ψυχή: nella
lingua greca del Nuovo Testamento ricorre nel significato di anima-respiro, il
soffio" vitale: ὁ φιλῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολλύει αὐτήν, καὶ ὁ μισῶν τὴν
ψυχὴν αὐτοῦ ἐν τῷ κόσμῳ τούτῳ εἰς ζωὴν αἰώνιον φυλάξει αὐτήν. Chi ama la sua
vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita
eterna» Nella filosofia greca antica tutto il reale è concepito come
vivente secondo la teoria dell'ilozoismo che nella ricerca del principio
introduce considerazioni di argomento biologico per cui: Diogene di
Apolloniaconsidera l'aria come vita, Empedocle fa risultare la vita dalla
armonica fusione dei quattro elementi primigeni, Anassagora intuisce l'origine
di tutti gli esseri viventi nell'aggregazione dei σπέρματα. Tutti questi sono
elementi materiali viventi che vengono connessi con il concetto di psyché, come
nel Timeo di Platone dove l'intero mondo è un organismo vivente. Un concetto di
anima del mondo, che risale probabilmente a tradizioni orientali, orfichee
pitagoriche. Secondo Platone il mondo è infatti una sorta di grande animale, la
cui vitalità generale è supportata da quest'anima, infusagli dal demiurgo, che
lo plasma a partire dai quattro elementifondamentali: fuoco, terra, aria,
acqua. Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo
nacque come un essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie
alla Provvidenza divina. Anche per Aristotele la vita s'identifica con l'anima,
ἐντελέχεια, sia essa vegetativa, sensitiva o intellettiva, che è nel sinolo
causa e principio del corpo vivente. Con Aristotele il primato della forma
sulla materia porta alla contrapposizione del βίος ϑεωρητικός al βίος
πρακτικός, al primato della vita contemplativa sulla vita attiva, come diranno
i filosofi medioevali, vale a dire la superiorità della conoscenza teoretica,
che permette all'uomo di cogliere la verità di per se stessa mentre quella pratica
cerca anch'essa la verità ma come mezzo in vista dell'azione, al fine di
cambiare la realtà: è giusto anche chiamare la filosofia scienza della verità.
Infatti della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera,
poiché i filosofi pratici, anche se indagano il modo in cui stanno le cose, non
studiano la causa di per se stessa, ma in relazione a qualcosa ed ora. La
visione aristotelica sarà fatta propria anche dal neoplatonismo, che nella sua
dottrina emanatistica e nella concezione dell'anima come psiche cosmica,
stabilirà la connessione tra il mondo ideale, della generazione delle diverse
dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, e quello
materiale delle realtà empiriche. Il pensiero cristiano e
medioevaleModifica Nella concezione cristiana nel Vecchio Testamento la vita
umana è strettamente collegata alla volontà benefica di Dio mentre la morte è
rapportata al peccato. Nel Nuovo Testamento la connessione vita-divino si
consolida nel messaggio di Gesù che assicura la resurrezione, una vita futura a
chi crede in lui. Ego sum resurrectio et vita: qui credit in me, etiam si
mortuus fuerit, vivet: et omnis qui vivit et credit in me, non morietur in
aeternum. Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore,
vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. La filosofia
medioevale accoglie l'eredità neoplatonica dell'importanza del βίος ϑεωρητικός
per una vita vissuta religiosamente e misticamente come strumento per giungere
alla vita oltremondana e riprende la concezione aristotelica della vita
biologica adattando la sua definizione dell'anima come l'atto puro di un corpo
che ha la vita in potenza alla teoria dell'immortalità dell'anima:
Filosofia moderna La vita viene concepita come appartenente a un essere vivente
che deve essere studiato come se fosse una macchina distinguendo nettamente ciò
che riguarda gli elementi fisici da quelli psichici. Questa tesi, dove si
cimentano in particolare Cartesio e Hobbes viene contrastata da Leibniz che
definendo la monade la riferisce al principio aristotelico dell’ἐντελέχεια intesa
come la tensione di un organismo che mira a realizzare se stesso secondo leggi
proprie, passando dalla potenza all'atto. Queste concezioni vengono superate
dal vitalismo che eredita dal 1600 i motivi neoplatonici e magici-alchemici dei
filosofi rinascimentali FICINO (si veda) e PICO (si veda). I pensatori
dell'età romantica, Herder, Hölderlin, Schiller, Jacobi, nel filone segnato
dalla Critica della ragion pratica e dalla Critica del giudizio kantiane, concepiscono
la vita inserendola nella nuova visione della filosofia della natura sviluppata
da Goethe, Schelling e Hegel il quale in particolare vuole contrastare sia la
teoria intellettualistica che vede la vita come qualcosa di incomprensibile sia
quella romantica che contrappone l'energia della vita al freddo sapere,
riportando la vita nell'ambito dello sviluppo dialettico dell'Idea (tesi) che
si oggettiva come natura (antitesi) per approdare alla sintesi dell'Idea che
torna su se stessa colma di realtà. Si costituisce la Lebensphilosophie,
la filosofia della vita che rifacendosi all'opera di Lukács La distruzione
della ragione, si esprime in una varietà di autori che elaborano una dottrina
variegata e non unitaria tenuta assieme dall'antinomia vita-ragione. Così
Dilthey, Rickert, Simmel, Scheler, Klages, e specialmente Unamuno, Gasset,
Eugeni d'Ors e altri, si rifanno a elementi del romanticismo, di Arthur
Schopenhauer, di Nietzsche oppure riconducono la razionalità a qualcosa di
immanentealle stesse strutture materiali della vita. Una «vitalizzazione della
ragione» che porta all'irrazionalismo, al misticismo, all'amoralismo: La
ragione tende a razionalizzare la vita, nemica della ragione; qualora essa
conseguisse il suo intento, si avrebbe la morte e la negazione della vita.
Nello stesso tempo la vita tende a vitalizzare la ragione. Su queste basi
speculative la filosofia francese con Deleuze ha sviluppato una filosofia della
vita che in questo autore, attingendo agli studi storico-epistemologici di
Canguilhem, porta alla fondazione di una visione immanentistica della vita che
ha come fulcro il concetto di differenza-ripetizione tutte le identità
non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più
profondo che è quello della differenza e della ripetizione. Sulla scia del
pensiero di Nietzsche, la differenza è concepita come affermazione pura, come
atto creativo e l'identità come un che di selettivo, che torna solo per
affermare la differenza. Attingendo alla filosofia della vita Foucault
avanza la teoria del "biopotere" cioè le pratiche con le quali la
rete di poteri gestisce la gestione del corpo umano nella società
dell'economia e finanza capitalista, la sua utilizzazione e il suo controllo la
gestione del corpo umano come specie, base dei processi biologici da
controllare per una biopoliticadelle popolazioni. Ove non indicato
diversamente, le informazioni contenute nel testo della voce hanno come fonte:
Dizionario di filosofia Treccani alla voce corrispondente Possenti, La questione
della vita Internet Archive. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia
aristotelica, Milano, Adelphi, Possenti, Internet Archive. ^ Richard Broxton Onians, The
Origins of European Thought, Cambridge, N. T. Gv. Platone, Timeo,
Aristotele, De anima, Aristotele, II libro della Metafisica, Gv.
Lunardi, Attualità di Unamuno, Padova : Liviana Deleuze, Differenza e
ripetizione, Il Mulino; Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Voci
correlate Modifica Esistenza Naturalismo (filosofia) Filosofia della natura
Vitalismo Portale Filosofia: Psiche termine della psicologia
Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita Panpsichismo
teoria Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita. Il vitalismo è
una corrente di pensiero che esalta la vita intesa principalmente come forza
vitaleenergetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto biologico
materiale. Raffigurazione di Venere, principio della vita e della
fertilità che nasce dall'acqua PrincipiModifica Il vitalismo ritiene che i
fenomeni della vita, costituiti da una "forza" particolare, non siano
riconducibili interamente a fenomeni chimici, ed in particolare che vi è una
netta demarcazione tra l'organico e l'inorganico, che la vita sulla terra ha
avuto un'origine divina e non solo da un'evoluzione risalente a circa 3800
milioni di anni fa, come sostengono i biologicontemporanei. Il vitalismo
può essere anche inteso, nell'ottica nietzschiana e dannunziana, come
l'esaltazione della vita senza limiti né freni ideologici o morali, come la
ricerca del godimento (dionisiaco), come la celebrazione dell'istinto e di
quella volontà di potenzache apparterrebbe solo a pochi eletti, i quali sanno
imporre il proprio comando sui più deboli. Questa forza può così rigenerare un
mondo che Nietzsche e D'Annunzio ritengono esausto. In una tale ottica
l'evoluzionismo non sarebbe in contrasto col vitalismo, ma darebbe anzi la
conferma che la natura si serve della selezione naturale al fine di perpetuare
la propria volontà di vivere attraverso la sopravvivenza dei migliori. A
differenza del vitalismo dannunziano, che nelle sue manifestazioni racchiude
molti degli elementi tipici dell'estetismo decadente, il vitalismo nietzschiano
va considerato anche nella sua accezione dionisiaca di accettazione tragica della
vita, di un'accettazione tout court della vita, finanche nei suoi aspetti più
truci e sofferenti. StoriaModifica Bambino nel grembo materno
disegnato da Vinci. Pur con radici antiche, il vitalismo si è sviluppato come
sistema teorico tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. Si tratta
di una concezione ereditata in gran parte dal neoplatonismo e dalla filosofia
rinascimentale, secondo cui le idee platoniche, oltre a trascendere il mondo,
sono anche immanenti alla natura, diventando la ragione costitutiva dei singoli
organismi e di tutto ciò che esiste. Il cosmo, in quest'ottica, risulta animato
da un principio intelligente, veicolato in esso da una comune e universale
Anima del mondo. Se Leibniz proseguì sulla stessa lunghezza d'onda, attribuendo
vita e capacità di pensiero anche alla materia inerte, e schierandosi contro il
meccanicismo di Cartesio e degli empiristi,[4] Schelling vedeva invece nel
vitalismo una concezione irrazionale e perciò da scartare, in quanto affine al
noumeno kantiano, preferendo piuttosto parlare di evoluzionismo finalistico:
questo era da lui concepito agli antipodi sia del vitalismo, ma anche del
determinismo meccanico, che è incapace di cogliere la profonda unità che
pervade la natura, riducendola ad un assemblaggio di singole parti. Dopo aver
trovato espressione anche nella poetica di Giacomo Leopardi,[6] il vitalismo
riemerse nel Novecento con Bergson, il quale, in una rinnovata polemica contro
il determinismo e il materialismo, torna ad affermare che la vita biologica,
come del resto la coscienza, non è un semplice aggregato di elementi composti
che si riproduce in maniera sempre uguale a se stessa. La vita invece è una
continua e incessante creazione che nasce da un principio assolutamente
semplice, non rieseguibile deliberatamente, né componibile a partire da
nient'altro. Tentativi di spiegazione in laboratorio Wer will was Lebendiges
erkennen und beschreiben, Sucht erst den Geist heraus zu treiben, Dann hat er
die Teile in seiner Hand, Fehlt, leider! nur das geistige Band. Encheiresin naturaenennt's
die Chemie, Spottet ihrer selbst und weiß nicht wie. Per capire e descrivere una realtà vivente, si cerca
sempre innanzitutto di cavarne la vita; allora si ha la mano piena di frammenti
inerti, a cui manca solo - purtroppo - il nesso della vita. La chimica le dà il
nome di encheiresin naturae. Si burla di se stessa e nemmeno se ne avvede. Mefistofele
rivolto a una giovane matricola universitaria, nel Faust di Goethe. Figure di
omuncoli disegnate da Vallisnieri, ritenuti i semi in grado di operare la
generazione dell'uomo Dal punto di vista biologico ci sono stati diversi
tentativi di costruire la vita in laboratorio partendo da basi il più possibile
scientifiche, per cercare di ridurre gli aspetti maggiormente irrazionali della
concezione della vita, o per poterne dare delle spiegazioni quantomeno
plausibili. I più importanti sviluppi della biochimica e dell'ingegneria
genetica sono stati i seguenti: il chimico tedesco Wöhler, in
collaborazione con Liebig, effettua la prima sintesi organica, la sintesi
dell'urea. Viene pubblicata la teoria dell'evoluzione di Darwin. Buchner
dimostra che la fermentazione può avvenire anche senza cellule di lievito vive
ma solo con loro estratti. Stanley cristallizza il primo virus, il virus del
mosaico del tabacco. Urey prepara i primi composti organici deuterati. Miller
ottiene per sintesi le prime molecole organiche. Si tratta però, allo stato, di
procedimenti meramente meccanici, che nulla dicono sul perché un certo composto
dovrebbe dare la vita a differenza di un altro. Tali esperimenti si limitano a
rieseguire in laboratorio i procedimenti naturali di generazione della vita,
senza che questi siano compresi a fondo; proprio perché ne sono un'imitazione,
tali procedimenti sembrano non differire qualitativamente da quelli operanti in
natura. Secondo il paleontologo Teilhard de Chardin, che studiando la
storia dell'evoluzione della Terra elaborò la cosiddetta legge di complessità e
coscienza, esiste all'interno della materia una tendenza a diventare
maggiormente complessa e al tempo stesso ad accrescere una propria coscienza,
passando dallo stato inanimato a quello via via più evoluto. La coscienza
sarebbe dunque il fine nascosto a cui tendono le leggi della natura, e che
potrebbe essere in grado di spiegarle. Il biologo e filosofo Driesch ricorse al
termine del LIZIO entelechia per designare questa forza vitale in grado di
strutturare la materia organica secondo leggi immateriali. Il desiderio di
costruire la vita totalmente al di fuori delle vie naturali ricorre invece
soprattutto nella fantascienza; a questo filone appartiene ad esempio il
romanzo Frankenstein di Wollstonecraft. L'esaltazione della vita
nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, cit. in bibliografia. Dettaglio dal codice Windsor sugli studi
sugli embrioni. ^ Concetto già espresso da Platone, il quale, richiamandosi
alla tradizione dell'ilozoismoarcaico, sosteneva che il mondo è una sorta di
grande animale, supportato da una «Grande Anima» infusagli dal Demiurgo, che
impregna il cosmo e gli dà vitalità generale (Timeo). Leibniz, Monadologia, Schelling,
BRUNO (si veda), ovvero il principio divino e naturale delle cose, dove egli
recupera il concetto neoplatonico di Weltseele o «Anima del mondo». Macchiaroli, Leopardi, Napoli, Biblioteca
Nazionale, Bergson, L'Evolution créatrice. Espressione composta da un termine
greco all'accusativo, encheiresin, ed uno latino, che significa letteralmente
«manipolazione della natura», con cui in ambito accademico si indica
l'assemblaggio di componenti biologiche nel tentativo di formare un organismo
vivente (Hofmannsthal, The Whole Difference: Selected Writings, a cur. McClatchy, Princeton). ^ Chardin,
L'avvenire dell'uomo, Il Saggiatore, Milano; Dizionario di filosofia Treccani.
BibliografiaModifica Luigino Zarmati, Il vitalismo. L'esaltazione della vita
nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, Vinci editore, Hvidberg-hansen, The Spirit
of Vitalism, Intl Specialized Book Service Inc, Amico, Medicina e metafisica,
Nuovi Autori, Marabini, La singolarità dei sistemi animati. Riflessioni e
confutazioni sul problema del neovitalismo, Il Pavone, Canguilhem, La
conoscenza della vita, prefazione di Antonio Santucci, Il Mulino; Scott Lash,
Life (Vitalism), Theory, Culture and Society. Voci correlate Modifica Animismo
Evoluzionismo (scienze etno-antropologiche) Bergson Collegamenti esterni vitalismo,
in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, vitalìsmo, su
sapere.it, De Agostini. Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Trottapiano Chardin gesuita,
filosofo e paleontologo francese Pensiero di Teilhard de Chardin
Dannunzianes l'anima. L' ultimo libretto del nostro filosofo, che
dal suo stesso nome ci pervenne intitolato Fracastorius sive de Anima,
dovrebbe essere quasi la sintesi de' precedenti ragionamenti da lui
tenuti intorno all'intellezione. Ed invero fu a suo luogo notato
come intendimento del nostro Autore era di risalire daile estrinsecazioni del
pensiero alla sua stessa sorgente, e dalle facoltà dell'anima, prima fra
le quali la intellettiva, e dagli atti loro, alla stessa propria natura
dell'anima razionale. Cammino inverso a quello che si era tenuto e si tiene
comunemente nelle scuole, dove, da definizioni astratte
dell'anima. come dall' entelecheia d'Aristotele, si fa discendere e si
credeva di potere spiegare i singoli fenomeni. Ma appunto perciò abbiamo
annoverato F. fra i primi filosofi del rinascimento, avendo egli
avuto chiara coscienza della necessità di procedere a posteriori anche
ne' più ardui problemi della filosofia, della quale in tal guisa
preannunziò il rinnovamento . Nel suo libro dell' Anima adunque si
dovevano raccogliere i supremi sforzi dell'acume filosofico di F., e
tuttavia per talune ragioni che or verremo esponendo, questo libretto rimane
inferiore all' aspettazione del lettore, e forse al concetto stesso
che aveva guidato l'autore nel comporlo. In primo luogo il dialogo è
rimasto incompiuto perchè l’autore, che da tanti anni vi medita sopra, è
prevenuto dalla morte. E per quanto si possa credere che in confronto dell’ampio
svolgimento dato al libro dell' Intellezione questo sull' Anima avrebbe dovuto
avere un corrispondente e proporzionato sviluppo, in ragione della
più alta gravità e difficoltà della materia, è tuttavia un libretto di
non molte pagine quello clie ci è pervenuto, e che si trova
impresso nella raccolta delle opere Fracastoriane. In secondo luogo la
dottrina dell'anima è in questo dialogo trattata limitatamente, e
quasi esclusivamente rispetto alla controversia dell' immortalità. E' ben
vero che F. cerca sin dal principio di sollevarsi sino ad afferrare la quiddità
dell' anima, però assai brevemente, e di leggieri si scorge che non
è questo, almeno in tal luogo, il fine principale a cui mira.
Notissima è la contesa suscitata a quel tempo dal POMPONAZZI intorno alla
immortalità, da lui filosoficamente negata, cristianamente creduta, non diremmo
tanto per la consapevolezza del pericolo, quanto per quello strano
contrasto che accompagna le più ardite ribellioni di uomini usciti allora
dal dominio della teologia. Il che tuttavia non tolse che al
Pomponazzi stesso da taluno si facesse intendere eh' egli, ammessa per
buona la sua credenza come cristiano,, poteva essere arso soltanto
come filosofo. La dottrina del maestro ebbe contradditori fra i suoi
stessi discepoli. Primo fra questi il Contarini, uomo di chiesa, la
confutò, dicendola sospetta di ateismo; nè alcuno si attenderebbe
che F., uomo religioso, e medico del Concilio di Trento, avesse a
difenderla. Ciò non ostcante è errata l'opinione di coloro i quali
credettero, come riferisce pure l'anonimo scrittore della vita di F., che
questi componesse il suo dialogo adversus insana non minufi quam impia
Pomponatii praeceptoris placita. Queste parole ci fanno sentire r
acrimonia dell' animo nei contradditori del Pomponazzi, ma tale non è
verso di lui l'animo di F., il quale si sforza bensì di confermare
l'immortalità, ma senza parola di ran- core contro di alcuno, anzi senza
mai nominare il Pomponazzi, e senza quasi mostrar di cono- scere le
obiezioni da esso addotte. Il dialogo poi fu pubblicato soltanto molti
anni dopo la morte del filosofo mantovano, onde anche per questo
rimane del tutto escluso che 1' opera fracastoriana potesse avere un fine
personale e polemico. Con tutto ciò egli è certo che il fine
apologetico della difesa del dogma la vince, nel nostro autore, sulla
discussione schiettamente filosofica; e l'aver egli ristretto un
argomento sì vasto pressoché a questa sola questione, toglie oggi
naturalmente al dialogo originalità ed efficacia. In terzo luogo, ed
è logica e necessaria conseguenza di quanto finora si è osservato, la
forma stessa del dialogo diviene piuttosto letterapia che filosofica e si
abbandona a poetiche concezioni, invece di conservarsi strettamente
raziocinativa e dialettica, quale appariva nel dialogo dell’intellezione.Sente
il nostro autore che la quistione dell' immortalità sfugge
propriamente all'indagine della ragione, ond' egli vi sostituisce la poesia e
il sentimento, per quanto siano questi pure lati assai ragguar-
devoli dell' animo e del pensiero umano. Nondimeno quello che nel caso nostro
più importa notare, si è che ciò facendo F. non pretende ancora
assoggettare la ragione al dogma, siccome era avvenuto per tutto il medio
evo, ma francamente riconosce che in quistioni di tal natura non si
può procedere col rigore del ragionamento filosofico, in guisa che non s'abbia
ad accettare se non quello che sia stato rigoro- samente dimostrato, come
volevano le antiche scuole degli stoici e dei peripatetici: Deinde et
duritiem severitatemque illam vel stoicam vel etiam peripateticam
exuamus, ut nihil velimus admittere nisi quod iis rationihus assertum
comprohatumque fuerit quas comprobativas consuevimus appellare. In omnibus enim
illas expetere iniustum profecto est. Queste parole ci sembrano per vero
molto notevoli. Se le prendiamo alla lettera, in esse F. ci
apparisce, come FILOSOFO, inferiore a sè stesso, e verrà il Descartes a
ristabilire come legge essenziale del metodo quel medesimo rigore
dimostrativo che stoici e peripapetici avevano voluto. Tuttavia conviene
ben rilevare come anche in cotesto il nostro Autore, pur soste- nendo
una tesi opposta a quella del Pomponazzi, sa ben distinguere, come questi
aveva insegnato a fare, ciò che può esser soggetto di razionali
dimostrazioni, e ciò che, non potendo esserlo, va piuttosto confidato al
sentimento ed alla fede. Non v' è più qui la formula medioevale
intellectus quaerens fidem; e nemmeno Taltra « /ides quaerens
intellectum, ed in cotesta distinzione che assegna un campo separato alla
filosofia e alla fede, pur entrambe necessarie a soddisfare un'imperiosa
esigenza psicologica, tutti sanno che fu il principio di un salutare
rinnovamento oltreché scientifico, altresì morale e civile. Del
rimanente non è a dimenticare che al tempo di F. quasi tutte le
speculazioni e discussioni che si fanno intorno all' anima, aggiravansi
principalmente intorno all'immortalità. Ogni secolo discute quei problemi
che più lo interessano, e non è a meravigliarsi che in un' epoca in cui
ridestavansi i nomi e i ricordi gloriosi di antiche scuole
filosofiche, in cui si rinnovellavano le forme letterarie ed artistiche
dell' antica civiltà greca e romana, si cercasse con ansia profonda
in quei ricordi, presso quei letterati, nei libri di quei filosofi,
la conferma o la liberazione da quei dogmi che per secoli avevano
occupato le menti di ognuno. Così avviene che di tutta la psicologia
di Aristotele, la sua dottrina intorno alla doppia natura del Noo, da cui
sembrava potersi conchiudere, rispetto all'anima, ora che ella è, ora che
non è mortale, era stata fra le altre parti della sua dottrina la più
dibattuta da commentatori e filosofi; è i nomi stessi di aristotelismo e
di platonismo si prendeno ormai come insegne di guerra, secondochè si mirava ad
oppugnare o a difendere i dogmi del LIZIO. Indi le guerre tra
aristotelici ed antiaristotelici; e tra gli aristotelici stessi gli uni
si sforzavano ancora di tirare le dottrine del maestro, come avea fatto
la scolastica, a razionale dimostrazione di rispettate credenze, gli altri
invece francamente vi si ribellavano, ma tutti facevano segno de' loro
studi più assidui quei luoghi d'Aristotele che più da presso si
riferivano alle supreme quistioni del loro tempo. Ed ecco perchè
anche la psicologia del POMPONAZZI si svolge principalissimamente intorno
all'immortalità, come pure intorno alla stessa quistione si agitano,
pressoché esclusivamente, tutti i suoi contraddittori o sostenitori, come
NIFO (si veda), CONTARINI (si veda), F., ACHILLINI, PORZIO, ZABARELLA, infìno
a CREMONINI e a CESALPINO; e in generale tutti coloro che più o meno partecipando
al moto impresso da Pomponazzi, svolsero o rifecero, sulle tracce d'
Aristotele, la psicologia del rinascimento. Premesse le quali cose,
veniamo ora a più particolareggiato esame di questo dialogo di F. Sono i
medesimi personaggi che avevano si dottamente ragionato
dell'intellezione, i quali ora prendono parte alia nuova
discussione intorno all' anima, ed incomincia a parlare F., protagonista
del dialogo. Pel cui svolgimento, quasi dramma intellettivo, l'autore non
IS manca in prima di
tratteggiare la mirabile scena naturale ove egli e i su oi compagni si
trovano, al cospetto di tante bellezze naturali di acque, di monti, di
luoghi boscosi; e tutto ciò risuscita in loro l' immagine degli antichi
filosofi greci, che contemplando la viva natura s'ispirano alle sublimi
loro speculazioni. Talché pieno dei ricordi e delle idee greche, F. che sin dal
principio cita Teofrasto per la somiglianza del luogo ove egli ed i suol
amici erano radunati con altro luogo da quello de- scritto
nell'Arcadia, così soggiunge. De anima nostra cum sinais haUturi sermonem in
qiiam videtur musica latentem nescio quam vim et consensum habere,
apte quidem fiet si aliquantis per nunc ecccitetur in noUs. Ed alcuni
carmi cantati dal solito garzonetto, accompagnati dal suono della
cetra, danno l’ispirazione e l'intonazione del dialogo. Perocché in tali
versi si canta del felice giovine che rapito da Giove e dato per
compagno ad Ebe, cambia la terrena dimora con l’eterna giovinezza dell'
Olimpo. Questo congiungere insieme la poesia e la filosofia (pur
tenuto fermo quanto sopra abbiam detto sulle diverse e talora opposte
ragioni della scienza e dell ' arte ) è uno dei fenomeni a mio giudizio più
ragguardevoli che si manifestano in taluni dei più grandi inge- gni
dei Rinascimento, compreso BRUNO (si veda) stesso che sì altamente e
filosoficamente poetava. In vero r Italia era allora tutto un popolo di
artisti ; e dell' arte si facevano ben sovente ispiratori e maestri i
filosofi. Tal fenomeno merita un più lungo studio, che qui non è il luogo
nemmen di accennare, perchè troppo ci allontanerebbe dal nostro fine
principale; però piacemi almeno di riferire un saggio della poesia
filosofica di F., osservando che se allora ì' arte e l' ispirazione del
sentimento tenevano il luogo delle dimostrazioni filosofiche, ben
potremmo augurarci che oggi all'inverso, di tanto mutati i tempi, la
filosofia e la scienza valessero a dar vita ad un' arte e ad una
poesia nuova, quando tutti oggi sono concordi a lamen- tare la
decadenza della poesia e dell'arte. Eceo ora la poetica finzione di F. Ne
timeas, Troiane fiier, quod in ardua tantum Tolleris a terra: quod rostro
atque unguihus uncis Te complexa ferox volncris per inania
portai. Audisti ne unquam sublimis nomen Olympi? Audisti ne Jovis,
tonitru, qui fulmina torquet? nie ego sum, non haee te volucris, sed Juppiter
est, qui Haud praeda captus, diari sed amore nepotis In summum
amplexu innocuo te portai Oìympum. Astra ubi tot spedare soìes, uhi
pulcher oUt Sol Oitusque occasusque siios, ubi candida noctes
Currit Luna nitens, auroram Lucifer anteit. Hic ego te in numero superum
domibusque Deorum, Ver ubi perpetuum, felix ubi degitur aetas
Aeterna et semper viridis floreìisriiie iuventa, Consistam, aequalemque
annis pubcntibus ITeben Officioque dabo comitem. Pone metum, dilecte
Jovi, melioraque longe Frospiciens, charam pucr obliviscere
Troiani; Neve Deim te iam et divorum regna petentem lilla canum,
aut Idae nemorosae cum sequatur. Tale dunque è la poetica introduzione
al trattato dell' anima. Ma l' autore entra subito in materia, e
ricerca intorno all'anima due cose -- quale ella sia qualis nam sit, cioè s'
ella sia eterna ed immortale o no; e che cosa sia « quid sit, »
cioè la stessa sua natura. Con rapida analisi egli raccoglie tutti gli
elementi che la riflessione filosofica scorge nel concetto che
tutti possiedono dell' anima, intesa come principio della vita, e che da
Aristotele erano stati cosi ampiamente dibattuti e ventilati. Percorre
tutti i gradi della vita, e non si ferma all' antica distinzione delle
specie di anime che corrispondono alle celebri facoltà aristoteliche di
nutrizione, sensibilità, locomozione, intelligenza, pur fra loro concatenate
in modo che non sia possibile la funzione superiore se non siano
state prima attuate le funzioni inferiori; ma sviluppa inoltre il principio
stesso della vita, separandolo, più distintamente forse che non
avesse fatto lo stesso Aristotele, dalle varie operazioni, procedenti da
altre cause, che concorrono a manifestarlo. In ciò la sua esperienza di
medico e 1’erudizione eh' egli possede delle dottrine vitalistiche e
animistiche emesse da fisici e medici insigni, come Andronico e Galeno,
ch'egli ricorda, lo pongono in grado di meglio determinare il principio
stesso della vita, procedendo per eliminazione di tutto quanto
apparisca insufficiente a spiegare una forza o potenza di tanto mirabile
efficacia. Così egli esclude che bastino a dar ragione della vita
la naturai complessione delle parti d'un corpo organico, considerando
quelle piuttosto come strumenti indispensabili che come vera ed intima
causa; esclude quella temperatura o mescolanza di umori e queir armonia o
consenso delle membra su cui pur tanto si erano fermati gli antichi,
scorgendo in tutto ciò piuttosto un rapporto da cosa a cosa, che un principio
unico ed attivo delle operazioni esclude infine quegli Spiriti che
eia altri fiiron cliiamati vitali, o il calor naturale, parendogli questi
cosa ben differente da ciò che è propriamente forza vivente e pensante.
Ma allora che cosa è 1'anima, come principio della vita, sia vegetativa,
sia sensitiva sia intellettiva? E qui F. torna esattamente ad Aristotele,
la cui celebre definizione dell' anima, fu ripetuta per tutto il medio
evo, ed in tutto il periodo del rinascimento, nè ancora, al dire di
FIORENTINO (si veda), se n' è potuta escogitare una migliore (Pomponazzi). A dir vero, quella stessa
definizione aristotelica, essere cioè l’anima l’entelechia prima di
un corpo fisico, organico, che ha la vita in potenza, non era forse
la più persuasiva, a cagione dell' oscurità di queir entelecheia che ha dato
luogo a tante discussioni e interpretazioni ; tuttavia il Fracastoro
si adopera per illustrarla, e la esplica coi concetti di forma
sostanziale e di atto motore, e poi di forza organizzatrice; dei quali i
primi due erano il risultato delle teorie aristoteliche, il terzo dovea essere
il punto di partenza delle nuove speculazioni che si vennero
svolgendo per tutta la filosofia moderna, dallo spirito puro cartesiano
sino alla monade leibniziana. Aristoteles quidem volens animae naturam et
rationem eocplicare entelechiam vocavit, quam alii agitationem continuam,
alii actum transtulere est ennn anima propria forma corporis
organici, naturalis, viventis sed QUATENUS INFLUIT VIM ET AGITATIONEM IN
TOTUM prìmuin enim tum esse dat, tum conservationem continuam; per
ipsam deinde fiunt attractiones similiiim, aggenerationes, et alimenta qualitates
in virtute illius alterant, miscent, collocante formant, figttrant et
tandem progressiones animalium, generationes semìnum, et demum
similium organizationes : quae omnia fiunt in virtute animae et formae
per eam vim quam a mundi anima ed a Beo certam et nunquam errantem
recepit. Non si poteva concepire in una forma più elevata e universale
questa forza effettrice della vita, qualunque essa siasi (dacché la sua
essenza ci sfugge, come ci sfuggono tutte le ultime ragioni delle
cose); ne la dottrina di Aristotele poteva avere un più chiaro e sincero
interprete. Ancora è da notare come F., da buon naturalista eh'
egli era, presente qui l' unità della vita nell' universo, ma riferendo 1’anima
dell' uomo all' anima del mondo ed a
Dio, non conclude in favore di un assoluto panteismo, ideale o materiale,
eh' era pure stato il retaggio di alcune scuole antiche, ne partecipa a
quelle fantastiche animazioni che si riscontrano, come altrove
notammo, in alcuni filosofi del rinascimento; bensì la stessa sua sobrietà e
temperanza che anche altrove abbiamo avuto occasione di porre in rilievo
lo trattiene dal trascendere ad affermare quanto non fosse il semplice
bisogno di concepire la natura come un tutto organizzato e vivente.
Il quale bisogno fu pure altamente sentito in tutto il rinascimento. Ma
se si con- fronti questa semplicità e diremmo quasi buon senso di
F., con le stravaganze che intorno all'anima del mondo ebbe
dichiarato Agrippa nei libri De Occulta Philosophia; con le cose astruse e
sottili che sì leggono nella Pampsychia del Patrizzi, nel De SuUitilite; CARDANO
(si veda, nel Messaggero di TASSO (si veda); e in fine con le idee
trascendenti enunciate nei libri De Causa
e nella Cena delle Ceneri del BRUNO (si veda) e nel De sensu rerum
et Magia di CAMPANELLA (si veda), si vedrà quanto l'azione moderatrice di
F. fosse opportuna per volgere senza scosse la filosofia del suo tempo
dal formalismo d'Aristotele al naturalismo de'nuovi tempi. Però la
definizione aristotelica dell'anima abbracciata di F. non risolve una difficoltà,
anzi una contraddizione sostanziale che qui sorge improvvisa. L'anima,
essendo per Aristotele forma sostanziale del corpo è indisgiungibile
da questo, come egli ebbe risolutamente affermato in più luoghi, e
segnatamente in quello notissimo del De Anima. Ne perciò Aristotele ebbe
anco il pensiero di voler indagare la possibilità di un' esistenza
separata dell' anima. In tutto il suo sistema materia e forma
costituiscono nella realtà una sola cosa, entrambe sono egualmente
necessarie ed inse- parabili, essendo la materia la potenza della
forma, e la forma atto della materia, talché dove è materia è forma, e
dove è forma è altresì materia. Tuttavia questa unione e
compattezza della materia e della forma, che costituisce uno dei cardini
del sistema aristotelico, vien rotta allorché dalla realtà applicata al
conoscimento, deve la teorica d' Aristotele adattarsi a spiegare il
modo con cui si effettua in noi la cognizione, mediante la stessa materia
e la stessa forma. Invero la materia, secondo la teoria ereditata
dall’ACCADEMIA, e che non pertanto torna meno sostenibile nel sistema
aristotelico, è indefinita 0 indeterminatissima, perciò ella è
inconoscibile in sè stessa, come vlen dichiarato nella metafisica. La
cognizione invece è data dalla forma; vi è però in questo una intrinseca
difiìcoltà, perchè la forma educendosi dalla potenza della materia, parrebbe
che la inconoscibilità di questa dovesse rendere meno accettevole
la conoscibilità di questa. La difficoltà si aggrava quando la materia e la
forma si considerino in quei due termini estremi di tutta la nostra
conoscenza che sono l' individuo e r universale. Questi due termini
rimangono inconciliabili nel sistema d' Aristotele, e dì qua la
prima sorgente di tutte le opposte direzioni date alle varie parti della
sua dottrina, alle quali questo primo principio, per la stessa
compattezza del sistema, generalmente si distende. Invero l' individuo è
sensibile, l’universale è intelligibile, secondo la teorica
fondamentale d'Aristotele che pure altrove abbiamo richiamata ; intanto
l'individuo che dovrebbe partecipare della inconoscibilità della materia,
è tuttavia per lui il sinolo di una materia e di una forma, ma
partecipa di più della inconoscibilità della materia a cui è più vicino;
l'universale invece nella sua massima forma rimane assoluta conoscenza,
ossia pura forma, senza mistione alcuna di materia, cioè Dio. Li
tal guisa si viene a separare per la prima volta la materia dalla
forma, dappoiché è manifesto che mentre tutte le altre forme^ eccetto la
massima si compenetrano nella materia, rispetto alla nostra conoscenza si
ammette una forma pura che viene ad essere per così dire divorziata
dalla materia. E' questa veramente una contraddizione del sistema del
LIZIO, la quale chi ben consideri non va attribuita a difetto del genio
smisurato di lui, ma accusa piuttosto una di quelle intime
ripugnanze che si ritrovano in fondo a tutte le analisi più profonde del
pensiero metafisico, e che avrebbe dato luogo più tardi alla negazione
del principio di causa per parte dell'Hume, e al riconoscimento di quelle
intrinseche antinomie le quali dovevano essere messe in evidenza dall'
acutissima mente del Kant nella critica della ragion pura. Ora questa
stessa cotraddizione trasportata per necessaria conseguenza di sistema nella
investigazione della natura dell'anima, dà luogo alla strana ambiguità del
LIZIO intorno alla immortalità ed alle controversie infinite che ne
derivarono. Perocché mentre dalla definizione sopra riferita dell'anima
dovea dedursi che questa non essendo disgiungibile dal corpo non potesse
avere una esistenza separata, e perciò dovesse dileguarsi e perire,
clie dir si voglia, al morire o disfarsi del corpo, ecco invece che vien
dicliiarata ad un tratto capace di separata esistenza, e perciò
immortale. Ciò è chiaramente detto dal LIZIO in altro luogo pur celeberrimo del
IT. libro De Anima ove è detto che
/' intelletto e la potenza pensante senibra essere un altro genere
di aniìna e questa sola potersi dare che sia separata, come l’eterno dal
perituro. Adunque, stando alla antecedente definizione dell' anima
(che pare dovea comprendere tutti i generi di anime) anche l'intellettiva
avrebbe dovuto concludersi mortale; ma giunto a questo il LIZIO si
arresta, e ripigliando il cammino dalla teorica della conoscenza e dalla
forma pura, come sovra V abbiamo esposta, che si può concepire
separata dalla materia, conclude che si può dare, èvSéxexat, anche
un'intelligenza separata, e perciò immortale. Questa conclusione sembra
tanto più inaspettata inquantochè egli aveva fatto scaturire 1' anima
intellettiva dalle potenze inferiori; allo stesso modo che tutte le
forme erano implicate nella materia; e tuttavia non ostante l'antinomia
delle parti, egli è in fondo coerente all' insieme del suo sistema,
perchè l'intelletto che si dice ora separato vien fuori in forza di quel
medesimo ragionamento che, nel processo conoscitivo dall' individuo
all'universale, gli avea fatto concepire la possibilità di una forma pura
separata da ogni materia che spiegasse 1' universale. Tale per sommi
capi è la teorica di Aristotele che qui ci siamo sforzati di ridurre alla
suprema possibile chiarezza traendola fuori dal viluppo delle ragioni
opposte, specialmente de' commentatori, e mostrandola come un prodotto
logico del suo sistema. Nè bisogna dimenticare inoltre che in tutta
cotesta controversia Aristotele stesso non è abbastanza esplicito, e
ciò diede luogo ai commenti infiniti degli espositori. IL LIZIO ha
dunque un bel dibattersi fra queste due opposte conclusioni. Il problema è
insolubile. Invero tanto potevano aver ragione coloro che avrebbero
voluto sforzare Aristotele ad esser logico fino in fondo, traendo dall'
inseparabilità dell' anima dal corpo la prova della mortalità della
medesima, tanto coloro che dalla forma e dall' intelletto separato
concludevano per l' immortalità. Ed è cosa nota nella storia che mentre i
Dottori delle scuole stavano per questa sentenza, quasi tutti i
commentatori non scolastici, e Alessandristi e Averroisti, conchiudevano per la
prima opinione, anche prescindendo dalla dottrina dell'intelletto separato
come contraria alla definizione generale dell' anima. Il vero si è che
cotesti erano soltanto ragionamenti a priori nè la natura dell'argomento
ammetteva la possibilità di quella esperienza che ormai da tante parti, e
da F. stesso, si contrapponeva alle astratte speculazioni. Bisognava
dunque contentarsi di queste o abbandonare la controversia.
Tuttavia notammo già che il problema s' impone, alla umana
coscienza e non è di quelli che specialmente in un tempo in cui sì gran parte
dell'edificio morale e civile e religioso riposava su di esso,
avrebbero potuto evitarsi. Se il sistema del LIZIO è impotente a risolvere un
siffatto problema bisognava sciogliersi dal sistema, ed allora a
che affidarsi? La quistione, come altrove notammo, era stata ben
posta da POMPONAZZI, la cui dottrina ci piace qui riassumere con le
cospicue parole del Ferri nella altre volte citata sua Opera. Se
volete, dice essa, una dimostrazione dell' immortalità, la filosofia non
ve la dà, nè ve la può dare ; ammessa invece la verità rivelata, la
religione ve la fornisce, domane! alela ad essa. Ora, F. come si
comporta ? Egli è, a nostro avviso seguace giudizioso del suo Maestro, perchè
è ben vero che egli difende l’immortalità la quale POMPONAZZI
fllosoflcamente impugna, ma sentendo r insufiScenza de' ragionamenti
filosofici, francamente ricorre a quella religione stessa che pure POMPONAZZI
(si veda) addita. Infatti, oltre a quanto fu già rilevato in principio,
ch'egli non prometteva dimostrazioni filosoficamente rigorose; qui, dopo
percorse e ripetute le ragi oni d'Aristotele secondo la interpretazione
scolastica, assai modestamente e quasi dubitativamente conchiude
esser là tutto quella che sembravagli potersi addurre in favore della sua
tesi: atque haec quidem sicnt quae de perìpateticorwn penu ediici
posse videntur. Di più confessa ancora
per bocca del suo interlocutore, che non poche cose potrebbero tuttavia
revocarsi in dubbio. Non panca certe sunt quae si contentiosi esse
velimus possint adirne in diihium verti. Ond' egli da questo punto
abbandona addirittura il campo della filosofia per entrare in quello
della teologia, e quando viene a parlare, pur tentando di risolvere
quei dubbi, di Dio e dei fini della creazione, così dell' uomo, come
di questa meravigliosa macchina mondana; e di poi della beatitudine degli
angeli, della generazione del Cristo, della vita e dello spirito dei
santiegli manifestamente non parla più come filosofo ma soltanto
secondo religione, e non fa nè può far altro che ripetere le
argomentazioni dei teologanti; nelle quali, come è giusto, noi
incompetenti non lo seguiremo. Non di meno l' interpretazione che
Fracastoro dà alle dottrine del LIZIO, ci porge argomento di esaminare
alcun' altra cosa che non è senza importanza per rispetto alla
storia della filosofia e in particolare dell'Aristotelismo nel
rinascimento. L'ENTELECHEIA del LIZIO, oltre alle altre discussioni,
aveva dato luogo a dubbi intorno all'unità dell'anima e del corpo umano
; perocché, si diceva, se 1' anima è 1' atto e la forma del corpo
organico, naturale, vivente, secondo le parole del LIZIO, essendo cotesto
corpo organico non vera unità, riunione di più membra tanto diverse
quanto sono le ossa dai muscoli, dai nervi, dalle vene, e così di
seguito, come può l'anima essere una forma unica applicandosi a forme
tanto diverse? E qui l'acume de'commentatori del LIZIO si era assai
ingegnato di trar fuori 1' unità dell' anima, incolume, e quale è attestata
dalla coscienza, dalla molteplice varietà delle forme corporee di
cui doveva essere l'atto e la vita. Gli uni avean detto che l'
unità dell' anima dee intendersi soltanto w genere, pur differendo le
membra nelle specie; come più animali, ad esempio r uomo, il
cavallo, il bue, costituiscono un ge- nere unico, differenti ssimi
rimanendo nella specie : dove ognun vede che, se così fosse, l'unità
dell' anima sarebbe fondata soltanto sopra un concetto mentale; ma
realmente nient' altro sarebbe che un' astrazione eduna chimera.
Altri poi dicevano che in ogni corpo organico vi è sempre una parte
che è principale rispetto alle altre, anzi queste son fatte per quella e
governate da quella, onde 1' anima non è necessario che si intenda esser
una rispetto a tutte le parti del corpo, ma soltanto rispetto a quella
che è la principale, e così 1' anima è unico atto od unica forma di
un' unica organica potenza, la quale ha virtù di dare la vita al tutto.
Questa risoluzione sembra a F. più vicina alla verità del nesso
fisiologico che è fra le membrane Clelia loro subordinazione: tuttavia non
lo ai) paga compiutamente e ci sembra notevole ii principio che
egli ora introduce per definire la controversia. Anche le parti
principali, die' egli con profonda dottrina e con acuto spirito di
osservazione, sono parecchie, onde 1' unità non può risultare dal solo
fatto che una di esse è la principale. Ma da che cosa risulterà dunque?
Balla loro continuità, egli rlice, perchè ogni xmità non sì può
altrimenti intendere che come continuità. Principale» siquidem partes,
quamquam plures sint, fiuntper continuationem unum: OMNE ENIM
CONTINUUM EST UNUM. Questo principio
ci pare notevole perchè fa presentire V analisi profonda che del
concetto di unità fu fatto da filosofi posteriori sino allo
Spencer, il quale ne'primi principi sviluppando il concetto che è già cosi
chiaro nel F., dimostra che (.gni unità è continuità di parti, perchè
1'assolutamente uno è impensabile. E se F. ha sostituito alla continuità
delle parti del corpo organico la continuità degli stati di coscienza (e ognun
sente il nesso . logico che dovea condurre da quella a questa)
avrebbe posto una delle pietre angolari della psicologia moderna. La quale,
come ognun sa, si è costituito per proprio oggetto appunto r esame
della successione di quegli stati, di cui il processo cerebrale e le
parti organiche sono la causa occasionale, mentre la coscienza n'è il legame
indispensabile; e dall'analisi descrittiva di tali stati di coscienza,
dal più semplice al più complesso, fa scaturire quella grande unità
che è la nota più caratteristica nella natura e nella vita dello
spirito. Altro punto importante della psicologia fra- eastoriana ci
sembra quello ove, pur mantenendo assoluta la diversità dell'intelletto
dalla materia, riaccosta tuttavia l'uno all'altra, per dimostrare come l'
incorruttibilità del primo non dee intendersi altrimenti che quale
conservazione di una energia sostanziale, allo stesso titolo per
cmì si ammette indistruttibile ed eterna la materia. Nulla si crea e nulla si
distrugge, è il prin- cipio antico, cui ritorna F., dopo le
negazioni alle quali per il falso concetto dell'atto creativo erano
venute la scolastica e la teologia medioevale. Ma tale principio rimesso
in Qnore anche da altri filosofi e scienziati del rinascimento,
manifestamente segna un grande progresso, e già accenna a quella legge
univer- sale e feconda della conservazione e trasforma- zione dell'
energia, che tanta importanza ha assunto nell'indirizzo e nelle scoperte
della scienza moderna. Non diremo che nelle dottrine di F. si
giunga sino a questo, e che ciò possa avere virtù risolutiva rispetto
alla quistione dell' immortalità; nondimeno ci par nuovo, bello e
fllosoflco il pensiero da cui egli è guidato, e ci piace rilevarlo. Procul dubio, die' egli,
idem de intellectu dicendum erit quod de materia, et utrumque
incorruptibile et aeternum esse. E
ripete poco stante. Quare et incorruptibilem ponere intellectum debemus,
et parem habere cum materia conditionem. Ed infine ci pare manifesto
che rispetto alla tesi ultima che F. voleva sostenere, vale a dire l’immortalità,
egli abbia inteso come non dall' astrazione o separazione dell'intelletto
dalla materia, (su cui si fondavano quasi tutti gli altri aristotelici
sostenitori dell'immortalità stessa) ma dal loro accomunamento era lecito
dedurre quanto di più filosofico si poteva dire suir argomento. Onde
anche in ciò F. da prova così di grande acume d'ingegno come di retto criterio
filosofico; ed è forse questo il solo punto in cui egli,
contrapponendosi alla dottrina del Pomponazzi, ben si appone,
perocché se non riesce a dare una dimostrazione della immortalità, che
egli stesso abbastanza esplicitamente ha confessato la filosofia non
pòter dare; toglie almeno quella rude contraddizione che non avea dubitato di
accogliere Pomponazzi, ammettendo potersi credere cristianamente quello che
filosoficamente avea negato. Questa massima strana, è tanto
inconcepibile, che fra gli stessi storici della filosofia vi fu chi
stimò non sincero Pomponazzi come cristiano, ad esempio il Brucker, il
quale scriveva che ha una fede eroica chi crede sincero l' osse-
quio onde fa mostra POMPONAZZI (si veda) verso la religione cristiana;
mentre altri invece, come Bitter, stima Pomponazzi non sincero o
almeno non coerente o non convinto come filosofo. Tale incoerenza non
sarebbe stata pos- sibile a F., la cui temperanza e il retto criterio
filosofico aveano fatto scorgere il giusto punto fin dove filosofia e
religione sarebbero andate d'accordo, e al di là del quale alla
religione, non alla filosofia, sarebbe stato lecito procedere sola. Sola
ma non avversa; perchè quello che la filosofia avesse dimostrato
assurdo, ninna religione potrebbe mai dare a credere, e ciò che si stima
verità religiosa (leve non poter esser dimostrato falso in
filosofia. Ecco perchè BONAIUTI (si veda) Galilei, impigliato egli pure
in quistioni religiose, doveva affermare più tardi che « due verità
non possono mai contrariarsi ; intendendo per tali la verità filosofica e la
religiosa ; e fii pure BONAIUTI (si veda) Galilei quegli che riuscì a
rivendicare totalmente alla filosofia ed alla scienza la sua autonomia contro
le antiche invasioni religiose e teologiche. F. adunque, seguace
del Pomponazzi nello sceverare il criterio filosofico dal religioso, è più
logico e più accorto di lui nel non mettere in contraddizione F uno
coir altro, ma piuttosto nel segnare il confine d’ambedue. E poiché in
filosofia come in religione e in morale e in politica, tutte le
quistioni più gravi sono principalmente qui- stioni dì confini, così ci
pare notevole che F. Ha colto precisamente quei punto, in cui
trovandosi la religione non contraddetta dalla filosofia, e offrendo questa
ben largo campo ad altre ricerche, potevasi attendere ben altro sviluppo
da un concetto alta- mente filosofico, quale era quello dell'
energia sostanziale e della forza, il quale sviluppo si ebbe di
fatto in tutta la filosofia posteriore fino a Spinoza e a Kant ed a Hegel.
Senza caddentrarci più oltre in questo speciale iirgomento, che
eccederebbe i limiti del nostro studio ed il nostro bisogno, stimiamo
opportuno confortare la nostra opinione con le belle parole del
Ferri, da lui poste come conclusione del suo sapiente esame intorno alle
dottrine psicologiche del Pomponazzi, e che a noi pare convengano
pienamente anche a quelle du F. Accomunati nella energia, manifestazione
della forza, r anima e il corpo, l' interno e 1' esterno non sono
più estranei 1' uno all' altro. Intesa secondo questo rapporto la
materia, può essere sede e condizione perpetua della vita e dello
spirito senza contraddizione, e 1' anima umana può aspirare all'
immortalità senza che il fenomeno sensibile, falsamente trasformato in
cosa sostanziale ed esistente per sè, opponga a questa aspirazione un
ostacolo insuperabile. La Psicologia di Pomponazzi. Molte altre
cose avremmo ad aggiungere intorno a questo Dialogo di F. se volessimo
per disteso riferirne tutto il contenuto; ma avvertimmo già che nell'
esame degli autori ed in argonìento come quello che stiamo trat-
tando, è da cogliere la sostanza delle dottrine, e in quella parte
soltanto che, vivificata da studi posteriori, poteva esser cagione di
nuovi avvia- menti, e render ragione dei progressi ulte- riori
della scienza. Tutto il resto può essere abbandonato all' oblio. In F.,
se non ci inganniamo, è manifesta ormai abbastanza, per quanto si è
detto fin qui, la somma delle sue dottrine sull’anima. L'intelletto
umano, come complesso di tutta quella varietà di operazioni che sono state
da lui dichiarate nel dialogo precedente, è qui raccolto e
sintetizzato, per così dire, in un'entità separata, che ha qualche
cosa di divino, perchè fornita di quella virtù di pensare che è la
suprema manifestazione della vita e dell'ordine dell'universo. Talché in
certo modo tutto è intelletto e tutto si compendia neir intelletto: intellectus
omnia quodammodo fieri potest Si igitur omnia fieri dehet intelledus,
et in potentia esse ad omnia susceptiUlia, separatimi et aUtractum
necesse est. Tale intelletto separato, che è come l' essenza stessa dell'
anima umana a cui è peculiare, a differenza delle anime belluine o
semplicemente vegetative che ne sono sfornite, fa sì che la stessa anima
umana sia dotata delle virtù che a quello som proprie, onde L’ANIMA, come
l'intelletto, può essere concepita qual forma separata dal corpo, ed
essere pertanto una, non ostante la moltiplicità delle sue
funzioni, ed immortale non ostante il suo legame col corpo corruttibile.
Belle sono inoltre le parole e le imagini che in F. qua e là
ricorrono per armonizzare in un tutto questi elementi discrepanti che
convergono a spiegare r intelletto e l’anima umana; e quando, ad
esempio, esamina, secondo un paragone allora divulgato, se l’animo si
congiunga col corpo come il nocchiero colla sua nave. Ovvero se sia
tal parte di noi che solo da esso dipenda tutto r esser nostro: utrum
ille assistat nohis, quemadmodum nauta, ut aiunt, navi; an magis nostri
sit ita pars, ut esse illud, quod quisque hahet ab ilio detur. Quando discute
in che modo possano stare insieme e formare un tutto solo, un atto o forma
indi- visibile quale è l'intelletto, e una materia divisibile quale è il
corpo: quiomodo unum fieri posse ex indivisibili actii et divisibili
materia verso Quando ricerca con grande sottigliezza il moto proprio
dell'anima, e se questo a lei sia sostanziale o accidentale
secondo le distinzioni aristoteliche, collegando il moto di essa e di
tutte le cose, coll’immagine della catena omerica che tutto abiuracela e
stringe al primo motore. In tutto ciò, dico, il nostro autore dà
prova di grande vigore speculativo, e se non tutte nuove sono le
cose ch'ei dice, tutte però rivelano in lui una mente analizzatrice
e ricostruttrice, tale da poter stare al confronto cogl' ingegni più
acuti e coi filosofi metafisici più profondi del rinascimento. Da ultimo
singolarmente importante dovea essere quella parte del suo dialogo in cui
dalle altezze sin qui contemplate dell' anima e dell'intelletto umano,
partecipazione dell’intelligenza divina, e attività originata dal primo
motore, egli intende discendere a dimostrare il naturai principio di tutte
le cose, la loro produzione, origine e perfezione. Ancorcliè involto nel
preconcetto antropomorfico che pone l'uomo quasi centro di tutte le cose
cuius grafia, egli dice, reliqua alia facta et ordinata fiiere non può
disconoscersi che con mirabile sintesi filosofica egli si prova a
riannoda- re in un solo ordine tutte le cause dei fenomeni
naturali, e descrive la formazione delle cose. Argomento bellissimo che tentò
sempre l’intelligenza e la fantasia de'più grandi naturalisti e
filosofi. Certo, non abbracceremmo oggi le idee di F. su tutte le
formazioni naturali; ma, quello che è per noi più importante a notare,
qui di nuovo vediamo come accanto al filosofo risorge in lui lo
scienziato. Invero F. intraprende a descrivere la formazione del
sistema celeste, il numero e la distribuzione delle sfere, il soffio
divino che animò il tutto, e poi man mano le generazioni e le varietà
delle piante degli animali, e da ultimo degli uomini, per mezzo degli
elementi naturali, quali il caldo il freddo, le attrazioni e ripulsioni
delle cose. In tutto ciò F., per quanto pare a noi, non ragiona come
que’filosofi che avevano più volte architettato a priori, e secondo certe
loro idee preconcette, il sistema della natura, ma sebbene non
alieno egli pure dalle tradizioni bibliche, fa chiaramente sentire che l’ordine
dell’universo da lui intuito è semplicemente il risultato delle
cognizioni eh' egli mercè F esperienza e con lo studio e l’osservazione
di tutta la sua vita, si era formato in astronomia, in matematica,
in fisica; ed egli in ciò procede come filosofo. Dalle quali cose si ha
ancora una volta confermato come nel rinascimento la parte vitale
delle speculazioni e dei sistemi filosofici fu quella eh' ebbe a sostegno
lo studio (lei fatti sperimentati nella natura, dai quali soltanto gl’ingegni
più illuminati credevano oramai esser possibile tentar di spiegare il
passaggio dalla materia informe alle più alte manifestazioni della vita e
dello spirito. Problema immenso, tanto alto e tanto complesso clie nemmeno
ai dì nostri si può dire di esser vicini al suo scioglimento; non
pertanto se fu almeno, fin dal Rinascimento, dimostrato qual dovesse
essere la via vera per incamminarvisi, questo è dovuto a coloro
che vollero ritemprata la filosofìa nelle scienze. Ma questa parte del
Dialogo del F., che promette essere la sintesi sublime delle
sue cognizioni e delle sue idee filosofiche intorno alla natura,
all'intelletto ed all’anima, non può se non accendere in noi un desiderio
il quale non può essere soddisfatto, percliè a questo punto il dialogo
stesso è rimasto tronco e interrotto per la morte dell' autore. Keywords:
dialogo sull’anima, ovvero, il Fracastoro, di Fracastoro. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Fracastoro” – The Swimming-Pool Library. Girolamo
Fracastoro. Fracastoro.
Grice e Francesco: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei corpi – la scuola di Diano Marina – filosofia ligure -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Diano
Marina). Filosofo dianese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Diano Marina,
Imperia, Liguria. Grice: “I like
Francesco; for one, he philosoophised, like I do, on “I” and “We” – ‘first
person’, ‘personal identity,’ and so on!” Insegna a Milano e Pavia. Collabora alla pagina
culturale del Sole 24 Ore, è stato presidente della società italiana di filosofia
analitica e presidente della European Society for Analytic Philosophy. Altre
opere: “La mente” (Mondadori, Milano. Che fine ha fatto l'io?” (San Raffaele,
Milano); “La mente” (Carocci, Roma); “La coscienza” (Laterza, Roma Bar); “L'io
e i suoi sé: identità della persona e smente” (Cortina, Milano); “La mente” (Nuova
Italia, Roma); “Il realismo analitico” (Guerini, Milano); “Russell” (Laterza,
RomaBari); “Il soggeto communica al altro soggeto di un oggetto: senso e
riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano); “Sgnificato e riferimento” (Edizioni
Unicopli, Milano). Rettore dello Iuss di Pavia. Corpo (filosofia) concetto
filosofico. Il termine corpo in filosofia ripropone il significato del
linguaggio comune intendendo per corpo ogni essere esteso nello spazio e
percepibile attraverso i sensi. Le caratteristiche fisiche, biologiche,
meccaniche del corpo di cui si è interessata la filosofia ai suoi inizi, sono
state poi oggetto dello specifico pensiero scientifico, mentre la storia della
filosofia nella sua totalità si è occupata in particolare del rapporto tra
anima e corpo. Nella filosofia antica e medioevale possiamo rintracciare due
concezioni di questa relazione anima-corpo: la prima risale alla
interpretazione orfico-pitagorica secondo la quale il corpo è un'entità di
natura completamente diversa e separata rispetto all'anima; teoria questa
ripresa da Platone che afferma che il corpo è la "tomba" dell'anima. L'anima,
infatti, decaduta dalla sua condizione iniziale di perfezione ideale ed
eternità si trova prigioniera in un'entità corruttibile e mortale. Al
pensiero platonico si connettono sia la patristica sia la prima fase della
scolastica. La seconda concezione del rapporto anima-corpo si ritrova in
Aristotele che sostiene che le due entità non sono separate ma costituiscono
elementi separabili di un'unica sostanza: il corpo è la materia intesa come
potenzialità, quella che offre possibilità di sviluppo, l'anima è la forma, la
realizzazione di quelle possibilità materiali tramutatesi in attuali. L'anima è
la vita che possiede in potenza un corpo. Il corpo cioè è un puro e semplice
strumento dell'anima: ma non uno strumento inerte ma tale che possiede «in se
stesso il principio del movimento e della quiete. Filosofia medioevale Il corpo
inteso come strumento dell'anima si ritrova nello stoicismo, nell'epicureismo e
nella scolastica: per Aquino il corpo si dirige a realizzare l'anima e le sue
attività razionali allo stesso modo che la materia aspira a realizzare la
forma.[5], fino a tendere a diventare parte del Corpo Mistico[6]. Questa
concezione del corpo come strumento rispetto all'anima non fu condivisa,
nell'ambito della scolastica, dall'agostinismo che vede nel corpo la forma
corporeitatis per cui in questo, indipendente dall'anima, vi è sia potenza che
atto e l'anima è un'ulteriore sostanza che si aggiunge ad esso. La
filosofia modernaModifica La dipendenza strumentale del corpo rispetto all'anima
finisce con Cartesio per il quale corpo e anima sono due sostanze, il primo res
extensa, sostanza estesa e non pensante, la seconda, res cogitans, sostanza
pensante e non estesa. Tra le due sostanze non vi è alcun nesso causale: il
corpo è «come un orologio, o un altro automa (ossia una macchina che si muove
da sé).» La separazione del corpo dall'anima diede origine a dottrine
dualistiche e monistiche che cercavano di risolvere il problema del rapporto
tra eventi incorporei e corporei. Tra le concezioni dualistiche la prima
è quella cartesiana dell'interazionismo che teorizza uno stretto scambio di
azioni tra le due sostanze riducendo così la diversità tra fatti corporei e
incorporei fin quasi ad annullarla. In opposizione a questo dualismo per
le dottrine dell'occasionalismo di Malebranche e di Arnold Geulincx l'anima e
il corpo sono unite dalla esistenza di Dio. Nell'ambito del monismo va
inserita la soluzione di Leibniz che vide un parallelismo tra eventi corporei e
incorporei connessi non da un rapporto causale ma da un regolare e continuo
legame per cui ad ogni evento materiale ne corrisponde uno immateriale secondo
un'"armonia prestabilita" tale per cui «i corpi agiscono come se, per
impossibile, non esistessero anime; le anime agiscono come se non esistessero i
corpi; ed entrambi agiscono come se le une influissero sugli altri. Tra monismo
e pluralismo si colloca la filosofia di Spinoza che concepisce «la mente e il
corpo come un solo identico individuo, che è concepito ora sotto l'attributo
del pensiero, ora sotto quello dell'estensione. Nell'unica sostanza divina
infatti coincidono corpo e anima ossia i due attributi dell'estensione e del
pensiero che mantengono però la loro diversità in quanto coincidenti solo in
Dio. Un rigoroso monismo caratterizza invece la filosofia illuministica
con le teorie materialiste dell'uomo-macchina di Julien Offray de La Mettrie e
Paul Henri Thiry d'Holbach secondo le quali le attività mentali dell'uomo
dipendono meccanicamente dal corpo. Collegato al materialismo
settecentesco è in parte la filosofia di Karl Marx secondo il quale i pensieri
e i sentimenti dell'uomo scaturiscono dai suoi comportamenti corporei.
Intendendo il materialismo in senso diverso da quello marxiano, Friedrich
Nietzsche imposta una dottrina esaltante la corporeità in contrapposizione alla
metafisica idealistica La concezione monistica che intende il corpo in senso
idealistico annovera: George Berkeley che vede il corpo e ogni realtà materiale
come una produzione mentale poiché solo la mente e le sue percezioni sono
reali; Schopenhauer, per cui il corpo è nella sua essenza "volontà di
vivere" e gli oggetti materiali semplici oggettivazioni della volontà; Bergson
che considera il corpo un semplice strumento dell'azione pratica di una
coscienza spirituale. Filosofia contemporanea Da Schopenhauer e Bergson
derivano le concezioni del corpo della fenomenologia e dell'esistenzialismo:
per Edmund Husserl attraverso una molteplicità di riduzioni fenomenologiche il
corpo viene isolato come esperienza vivente. Concezione condivisa secondo
diversi modi da Sartre e Merleau-Ponty. Platone, Fedone Origene, De principiis Scoto
Eriugena, De divisione naturae, Aristotele LIZIO, L'anima, AQUINO, Summa
Theologiae, Summa Theologiae, nei tre possibili gradi della fede, carita' sulla
terra e beatitudine del Cielo. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Cartesio, Le
passioni dell'anima, Malebranche, Dialoghi sulla metafisica e sulla religione,
Leibniz, Monadologia, Spinoza, Ethica, Marx, Ideologia tedesca Nietzsche, Così
parlò Zarathustra, I, «Gli odiatori del corpo» Berkeley, Trattato sui principi
della conoscenza umana, Schopenhauer, Mondo, Bergson, Materia e memoria,
Husserl, Meditazioni cartesiane, Sartre, L'essere e il nulla, Merleau-Ponty,
Fenomenologia della percezione, Abbagnano Fornero, Protagonisti e testi della
filosofia, Paravia, Torino F. Cioffi et
al., Diàlogos, Mondadori, Torino Dolci / L. Piana, Da Talete
all'esistenzialismo, Trevisini, Milano (Gabbiadini Manzoni, La biblioteca dei
filosofi, Marietti Scuola, Milano, Moravia,
Sommario di storia della filosofia, Le Monnier, Firenze Reale / D. Antiseri,
Storia della filosofia, Brescia Sini, I filosofi e le opere, Principato, Milano
Brezzi, Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton Compton, Roma
Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze
Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze Enciclopedia
Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano Lamanna ADORNO (si veda), DIZIONARIO
DEI TERMINI FILOSOFICI, Monnier, Firenze. Filippini, Plebani, Scattigno Corpi e
storia. Donne e uomini dal mondo antico all'età contemporanea,Viella, Roma
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Journal of Consciousness Studies. Keywords: corpi, unicorno, unicornis, adj.
later noun, nome sustantivo, nome aggetivo, nome proprio, nome commune –
unicorn – Meinong, Grice, “Vacuous Names”, vacuous descriptions, Priest, Read, persona,
an Etruscan concept, the grammar of ‘referring’ – the grammar of ‘senso’, the
grammar of ‘significato’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francesco” – The
Swimming-Pool Library. Michele Di Francesco.
Francesco.
Grice e Franchini: l’arguzia della ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale nell’età degl’eroi -- la gloria
d’Enea– la scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano.
Grice: “I like Franchini; for one, he wrote on the ‘metaphysics of love;’ for
another, he wrote on ‘historical reason’: I collect reasons, pure reason,
practical reason, communicative reason, historical reason…” Figlio di Vincenzo e Anna Scalera, si laurea sotto le
armi. Vive una drammatica esperienza bellica che lascia un segno per la vita.
Studia all’istituto italiano di studi storici, fondato da Croce a Napoli, dove
tenne in seguito conferenze e lezioni. Insegna a Messina e Napoli. Fonda la
Hegel-Internationale Vereinigung, è stato socio dell’accademie napoletane nella
Società nazionale di Scienze, Lettere e Arti e dell’istituto lombardo di
Milano. Intensa è la sua attività di pubblicista e di scrittore. Collabora
nell’immediato dopoguerra a giornali come “La Voce”, “L’Azione”, “Il Giornale”,
e in seguito al “Mattino” di Napoli, al “Tempo” di Roma e alla “Gazzetta di
Parma”. Scrive sul “Mondo” di PANNUNZIO (si veda), contribuì assiduamente alla rivista
di studi crociani. Dirige la nuova serie filosofica della rivista “Criterio”,
fondata a Firenze da RAGGHIANTI (si veda). Frequenta la casa di Croce,
scoprendone via via la lezione di alta umanità e di profondo significato
etico-politico. Une alla vocazione filosofica la militanza politica in nome dei
valori della liberal-democrazia. Partecipa attivamente a “Nord e Sud” di Compagna
e alla “Realtà del Mezzogiorno” di Macera. Cultore delle arti visive, di cinema
e di teatro, di musica e di poesia, si cimenta tra l’altro nella scrittura di
Aforismi, antologizzati nel volume degli “Scrittori italiani d’aforismi”. Redatta
nel preziose “Note biografiche di Croce”, raccolte dalla viva voce del
filosofo, che sono oggetto di alcune trasmissioni radio-foniche. La sua vasta
biblioteca è a Napoli. Il nocciolo della sua filosofia sta nel tema del
giudizio, storico, politico, prospettico. Alla lezione di Croce, che considera
un classico della storia delle idee, si e costantemente ispirato,
riconoscendogli il merito, per lo più sottaciuto, di aver calato il pensiero
nel vivo dell’esperienza storica. In “Esperienza dello storicismo” distingue,
in continuità ideale con gli studi d’ANTONI (si veda), lo storicismo di matrice
vichiano-crociana dal “Historismus” tedesco, prevalentemente filologico, nella
convinzione peraltro che la filosofia dello spirito non è una pura e semplice
ripresa dell’idealismo hegeliano. Indaga il nucleo logico della filosofia di
Croce individuando, nel nesso delle categorie conoscitive (teoretica, aletica) e
pratiche (buletica, volitiva), l’*uni*-cità or ‘aequi-vocalita’ della
dialettica, di opposti e distinti. È tra i primi a confrontarsi con le correnti
della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del neo-positivismo e la filosofia
analica del linguaggio ordinario, segnalando nel tema del nulla lo scacco
definitivo del sistema, insieme con il bisogno di qualificare l’irrazionale (il
pre-razionale), che è il vasto mondo della non filosofia. Elabora una esaustiva
storia del concetto di “dia-lettica” dai greco-romani ai contemporanei (Le origini
della dialettica – DA LEONZIO A NOI), approdando infine alla forma moderna
della filosofia nel passaggio dalla metafisica teologica alla metodologia della
storia. Apprende da Hegel che la dialettica *è* la logica della filosofia,
distinta dalla scienza. Alla tradizione del criticismo kantiano collega il
concetto di giudizio, in special modo nella forma della riflessione
estetico-teleologica della terza Critica. Gli si aprirono nel frattempo squarci
significativi sul fattore esistenziale e storico del non essere ancora (il
potenziale, l’attuale, il divenire) che lo induce ad analizare il concetto di progresso
tra la crisi del ideale dell’illuminismo e la dimensione etico-politica del
giudizio prospettico – il pre-spettico, lo spettico, il prospettico -- tra
passato, divenire, e avvenire. Il futuro è in qualche modo pre-vedibile nella
prospettiva individuale di chi è chiamato ad agire in una situazione in
sviluppo. Altra cosa sono l’astratta profezia, l’oracolo, le prassi
scientifica, la scommessa (the bet), il “caso” -- che sono forme di pre-visioni
utili, finanche necessarie, ma non trascendentale (pre-visione). Proclama il
diritto alla filosofia, la lotta per il diritto all’esercizio della ragione
contro il sofisma che limita la libertà, per ridare dignità alla ri-vendicazione
dei diritti umani (Il diritto alla filosofia). Tratta sul rapporto di filosofia
e scienza, riconoscendo a ogni sapere una funzione paritaria nella differenza
della materia e della forma. Non ha punti di partenza né approdi finali, ma
poggia sulla spontaneità creatrice del vitale nel quale Croce, in perenne confronto
critico con Hegel, indica l’origine della dialettica e una scoperta di alta eticità.
Nell’utile, da Croce elevato al livello dello spirito, indaga gl’aspetti
ineludibili di buona parte della vita umana (la volontà, la passione, la
classificazione), per una comprensione ad ampio raggio del senso del terrestre. Altre
opere: “Critica della ragione storica” (Giannini, Napoli); “Storicismo”
(Giannini, Napoli); “Metafisica e storia” (Giannini, Napoli); “La linea ed il
circolo -- Il progresso: storia di un’idea – storia lineale, storia ciclica --
La Nuova Accademia, Milano; L’idea di progresso. Teoria e storia, Giannini,
Napoli, “La dia-lettica e la co-loquenza”, Giannini, Napoli, La materia della filosofia,
Giannini, Napoli, Teoria della previsione, ESI, Napoli; seconda Giannini,
Napoli, “Croce interprete di Hegel” Giannini, Napoli); “Il concetto di storia
in Croce, Morano, Napoli; E.S.I., Napoli, Renata Viti Cavaliere La logica della
filosofia, Giannini, Napoli); “Il sofisma e la libertà” Giannini, Napoli, “Autobiografia
minima, Bulzoni, Roma, Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Giannini,
Napoli “Consenso e dissenso” (Sansoni, Firenze); Intervista su Croce, A.
Fratta, SEN, Napoli, Il diritto alla filosofia, SEN, Napoli, Critica delle
crisi: filosofia, scienze, rivoluzioni” (Cadmo, Roma); “Il progresso della
filosofia, Storia della filosofia con testi e ricerche, Ferraro Napoli, Eutanasia
dei principii logici, Loffredo, Napoli); “Il potere e l’ipotesi. Tappe di una
filosofia delle funzioni, Morano, Napoli, Pensieri sul “Mondo”, Cavaliere,
Gily,Melillo, presentazione di Cotroneo,
Luciano, Napoli); “Teoria della previsione, G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando
Siciliano, Messina, Le origini della dialettica, F. Rizzo, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Scritti su “Criterio”, Introduzione, testi e indici R. Viti Cavaliere
e Peluso, Scripta Web, Napoli. "Dizionario Biografico", su
treccani. quartotempoblog, Biografia di
Carmen Moscariello Quarto Tempo, altervista.org. critica M. Biscione,
Interpreti di Croce, Giannini, Napoli G. Gembillo, Un itinerario filosofico, La
Nuova Cultura, Napoli Coppolino, La “scuola” crociana, La Nuova Cultura,
Napoli, V. Mathieu, Storia della filosofia: La filosofia del Novecento, Le
Monnier, Firenze, G. M. Pagano, “Storicismo e azione” (Cadmo, Roma); G.
Cantillo, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, E. Paolozzi, il
valore dei dettagli, in L'identità liberale di una società in trasformazione,
Napoli, La tradizione critica della filosofia. G. Cantillo e R. Viti Cavaliere,
Loffredo, Napoli, R. Viti Cavaliere, Postfazione, La teoria della storia di Croce,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Viti Cavaliere, Profilo in Ead., “Il
giudizio e la regola” (Loffredo, Napoli); “Il diritto alla filosofia, Cotroneo
e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli R. Viti Cavaliere, Una scelta di lettere d’Antoni
in "Logos", Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. //store.rubbettinoeditorei/ Fondo F., Università
“L’Orientale” di Napoli. Una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini a cura di Renata Viti Cavaliere Nota
introduttiva Si offre al lettore una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini, tra le cui carte chi scrive ha rinvenuto una custodia, di
colore verde sbiadito, contenente la preziosa raccolta Sul risvolto di
copertina F. così annota. Sono lettere d’Antoni. Pubblicabili solo dopo molto
tempo: mutilarle sarebbe un grave errore. Poco più avanti aggiunge a mo’
di postilla: «+ 3 reperite in seguito. Sul non mutilarle farei riserve. +
1 reperita. In spirito di fedeltà, dunque, alla palese intenzione del mio
maestro di vedere un giorno stampate le lettere d’Antoni, e consapevole della
difficoltà a pubblicare ancor oggi integralmente il lascito epistolare,
preservo intatte alcune lettere ora destinate all’attenzione degli
studiosi, mantenendo la massima discrezione su quei contenuti riservati a cui
si allude nell’appunto manoscritto. Si è fatto in modo che non si perdesse -
nella scelta operata- il filo “logico” di uno scambio epistolare
intenso, che purtroppo conosciamo solo unilateralmente 3, riguardante pensieri
e dottrine che in quegli anni avevano impegnato molto Antoni incidendo
non poco su F., che per tanti versi si considerò sempre idealmente
suo allievo. Proprio allo scopo di non interrompere il dialogo sotteso al
carteggio, non sono ovviamente state escluse, solo per il fatto di essere state
già edite, le 6 lettere di Antoni che Franchini riportò quasi per intero
all’interno del sag gio in memoriam, scritto nel ‘69 nel decimo
anniversario della morte dello studioso 1 Un sentito ringraziamento
ai figli Laura e Vincenzo per avermi messo a disposizione i materiali
dell’Archivio F. Su alcune buste compare l’indirizzo vomerese di Via
Michetti, ma per lo più le lettere sono indirizzate a «Il Giornale» in
via Roma, e poi in Via Nardones, nel cuore dei Quartieri spagnoli a
Napoli. 3 Non è stato in alcun modo possibile reperire le lettere
di Franchini. Esse non sono presenti nel Fondo Antoni conservato a Roma a Villa
Mirafiori, e si deve seriamente ritenere che siano andate perdutetriestino,
costruendo intorno ad esse per buona parte l’affettuoso ricordo di una
magistrale lezione 4 . Dieci anni addietro infatti, nel corso del 1959,
Franchini si era trovato ad intervenire sul pensiero e l’opera di Carlo
Antoni a distanza di appena un mese: nel mese di luglio aveva recensito
il volume La restaurazione del diritto di natura, edito con Neri
Pozza, in una lunga nota sul «Mondo» dal titolo Le leggi di
Antigone, e nell’agosto fu chiamato purtroppo a scrivere nel giro di
poche ore, con sincero rammarico, In morte di Antoni. Amico
della verità 5, un corposo necrologio rivolto a celebrare la maestrìa del
grande discepolo di Croce, così fedele e al tempo stesso del tutto originale.
Le lettere qui pubblicate aiutano a focalizzare, per rapidi lampi di luce, quel
tratto di strada relativo ai precedenti anni Cinquanta, vissuti da entrambi
per lo più all’in terno della tradizione crociana, dalla quale sentirono di non
dover prescindere, a partire dagli ultimi anni di vita del filosofo sino
alla prematura scomparsa di Antoni. Sorprende per certi aspetti l’
incipit della lettera di Antoni: «È da tempo che seguo con vivo
interesse la Sua attività di studioso, se si considera l’età di F..
E’ pur vero però ch’egli puo già vantare una significativa produzione
scientifica, tra articoli di giornale e saggi, non soltanto di esordio, e che i
primi scritti risalgono già. F. infatti pubblicq una serie di saggi su
quotidiani napoletani come Il Corriere e «La Voce», e su riviste di pregio come
«Ethos» diretta da Pepe e «Lo Spettatore italiano» curato da Elena Croce e
Craveri Non credo si sbagli ad indicare nella recensione al volume di
Antoni Considerazioni su Il saggio dal titolo Antoni, lo
storicismo e la dialettica è nel volume F.,
Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Napoli, Giannini. È
già uscito, con titolo diverso, nella miscellanea, Umanità e Storia. Scritti in
onore di Attisani, Napoli, Giannini. Il testo di F. su Antoni appartiene ad un
legato non agevolmente reperibi le, per cui le lettere in esso contenute
risultano per i lettori d’oggi come se inedite. F. racconta nelle sue note
autobiografiche di aver redatto in breve tempo, rinunciando ad andare ai
funerali, l’ampio articolo commemorativo per Il Mondo. Cfr. R. F., Autobiografia
minima, Roma, Bulzoni, Sulla prima produzione di F. si veda il volumetto di
Pagano, Storicismo e azione. Gli scritti di F., Roma, Cadmo. Il periodo è
di formazione e di studio tra le difficoltà della guerra, privo però di
documentazione a stampa Hegel e Marx (pubblicata nella rivista
«Ethos») l’atto d’inizio di un dialogo filosofico che anda via via
intensificandosi. Si può presumere infatti che Antoni, nella prima delle
lettere da me rinvenute, esprimesse un giudizio assai positivo sul lavoro dello
studioso avendo anche chiaro il ricordo di quell’articolo di due anni
addietro, nel quale si traccia di lui un bel profilo con riferimento ai
precedenti volumi Dallo storicismo alla sociologia e La lotta contro la ragione. In
realtà F. da allora in poi, e in più d’una occasione, ebbe
sempre gran cura di rievocare i pensieri di Antoni sia in segno di
consenso sia comunque per un doveroso riconoscimento dei suoi meriti
d’interprete. Valga ad esempio la recensione allo Hegel
di De Ruggiero (in «Lo Spettatore Italiano») dove compare un significativo
riferimento alla lettura che Antoni aveva proposto circa il carattere
intellettualistico e astrattivo della dialettica hegeliana nella prima triade
della Scienza della logica . In quella occasione, peraltro, F. non si
limitò ad illustrare i termini di una questione dai risvolti complessi,
ma suggeriva d’intendere il rapporto dell’essere col nulla, reali solo
nel divenire, come la prova evidente dell’uscita dalla immobilità
tautologica della vecchia identit à senza vita. In altre parole egli non
mostrò di approvare del tutto l’idea di un “tradimento” della dialettica
operato da Hegel nei confronti della sua creatura più preziosa, perché
l’essere e il nulla in quanto opposti, o contrari, animano il movimento d ella
realtà lungi dal fissarlo per dir così in uno schema triadico posticcio. Non
per caso, nell’esaminare i saggi raccolti da Antoni, F. mirò subito al
problema -Hegel che per il filosofo triestino rappresentò a lungo un cruccio
insuperabile, anche negli anni a venire. Tra critiche all’illuminismo e
all’irrazionalismo romantico si può dire che Hegel abbia redatto la
magna charta della speculazione moderna che è la dialettica, quasi un
segreto di difficile decriptazione. Mentre, però, Antoni si arrovellava
sul “rompicapo” che è l’essere da cui sprizza la scintilla del divenire
vitale, cogliendo in Hegel il restauratore della metafisica tradizionale, F.
Ristampato nel volume Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini. Il
ricordo di Ruggiero: lo studioso e l’uomo sta nel
volumetto Dalla filosofia della storia alla ragione storica, Napoli,
Giannini] mostrava maggiore apertura alla nuova logica che di fatto assorbe la
metafisica in una logica non più matematizzante. Molto acuta gli era pertanto
sembrata la critica di Antoni al ritmo dialettico hegeliano come risultante da
una sorta di contaminazione tra sillogistica e dialettica degli opposti, perché
in tal caso cominciava ad emergere il problema di una preferenza del filosofo
di Stoccarda rivolta in ogni modo al sillogismo piuttosto che al giudizio. Il
tema della dialettica si trova al centro dello scambio epistolare. Croce,
nonostante l’età avanzata e gli acciacchi che lo assillavano, aveva
scritto nuove e profonde analisi intorno all’origine della dialettica in Hegel
e sul tema della vitalità che per un verso complicava il sistema, mentre,
peraltro, lo arricchiva ulteriormente dall’interno. Nella recensione
all’ultimo libro di Croce Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici Franchini aveva chiamato ancora una volta in causa Antoni,
attribuendogli finanche il merito di aver suscitato nel maestro il bisogno di
un ripensamento della questione della dialettica. Antoni ne è lusingato ma al
tempo stesso si preoccupa dell’opinione del filosofo. Scrive a Croce un
biglietto di scuse per avere impropriamente adoperato l’espressione dialettica
dei distinti, e a F. una lunga lettera in cui chiarisce forse anche a se
stesso che la differenza da lui messa in luce tra la dialettica hegeliana
della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione, comunicata
a Croce pur con molta discrezione, ha forse finito per condurre il
filosofo proprio là dove egli non avrebbe voluto e dove per la verità non si
sentì mai di seguirlo: vale a Cfr. F., Il razionalismo
hegeliano, in Id., Dalla filosofia della storia alla RAGIONE
STORICA Vedi F., La crudele dialettica, Il Mondo. Si chiede F.: che cosa è
accaduto nei quarantasei anni che intercorrono tra il Saggio sullo
Hegel e gli ultimi scritti crociani su Hegel? Cosa ha spinto Croce a
tornare sul tema della dialettica in Hegel? Certo non la pubblicazione degli
scritti di Hegel, neppure il cosiddetto rinascimento
esistenzialistico-fenomenologico del filosofo di Stoccarda, e neppure i
brillanti saggi di Negri. Semmai è stato Antoni a sottolineare l’aporia
intellettualistica nella hegeliana formulazione del movimento dialettico.
Croce, pur non rispondendo direttamente alla questione posta d’Antoni,
aveva voluto infine includere l’opposizione nella logica dei distinti in
modo che non si perde di vista la drammaticità dell’atto generativo del
prodursi del reale nel suo significato logico-spirituale dire ad una
sorta di primato della vitalità nel suo dialettico rapporto con la vita morale.
Come si legge nelle lettere, l’intreccio di varie vicende offre snodi teorici,
e non solo teorici, particolarmente interessanti. Direi che tre possono
essere considerate le questioni più significative, che di necessità
coinvolgono filosoficamente il lettore al di là dell’apparenza di alcune
diatribe contingenti. In primo luogo si deve collocare il fatto importante
della pubblicazione del saggio di Antoni Commento a Croce, coevo al
Congresso di filosofia che si svolse a Napoli (con la relazione introduttiva d’Antoni)
sul tema della “conoscenza storica”. Connessa alla stampa del saggio d’Antoni è
la vicenda relativa al caso Fiore, che com’è evidente molto amareggiò
l’Antoni, e, infine, la questione, aperta da Croce molti anni addietro
(che per ovvi motivi torna in queste lettere), intorno al significato
dell’insegnamento della filosofia della storia nelle università italiane.
Gustosa, infine, l’osservazione ironica di Antoni a proposito del libro
di S prigge dedicato a Croce, relativa al celebre saggio Perché non
possiamo non dirci cristiani. Val la pena, quando ancor oggi si torna
spesso a discettare sul senso e sul ruolo di questo scritto, commentare la
strana insinuazione sui motivi prettamen te politici, benché anacronistici, che
l’avrebbero, secondo lo studioso inglese, ispirato. La recensione di
Franchini al Commento a Croce uscì dunque sulla Nuova Antologia.
Non so se furono pochi i lettori che ne presero visione, come
ipotizzava Antoni; certo è che ampia fu l’analisi di quel libro all’interno
del puntuale racconto (non però un esaustivo resoconto) scritto da
Franchini sul congresso napoletano di Filosofia, racconto-resoconto che uscì
negl’Atti dell’Accademia Pontaniana.. L’illustre interprete di Croce
dichiarò poi onestamente, con l’umiltà dello studioso intelligente, di
aver potuto vedere con Rimando alla monografia di Sasso,
L’illusione della dialettica . Profilo di Antoni, Roma,
Edizioni dell’Ateneo. Si veda anche l’esauriente saggi o di Biscione,
Antoni interprete di Hegel, in «Filosofia, con particolare riferimento al
volume postumo di Antoni, Lezioni su Hegel, Napoli, Bibliopolis, F.,
La conoscenza storica, in «Att i» dell’Accademia pontaniana, N.S., V,
Napoli (rist. in Metafisica e Storia, Napoli, Giannini, da cui si
cita) maggiore chiarezza i suoi pensieri, quasi in virtù del diradarsi di
una sorta di nebbia, attraverso l’illustrazione che ne aveva fatta
il giovane discepolo. Che posto ebbe dunque il Commento a Croce
nella discussione svoltasi durante il XVII Congresso di filosofia intorno al
cruciale problema della conoscenza storica? Anzitutto F. pone una questione di
politica culturale, assegnando alla relazione introduttiva di Antoni il
significato di un “riscatto” del valore filosofico dello storicismo
crociano rispetto alle posizioni sistematiche o, che è lo stesso,
problematicistiche, di coloro cioè che comunque presuppongono un
assoluto, sia esso raggiungibile oppure no. F. vide in Antoni una voce laica in
grado di contrastare dogmatismi annosi e quelle forze culturali poco sensibili
alle inquietudini dello spirito liberale anche nell’organizzazione degli
studi. La scelta di chiamare Antoni ad aprire i lavori del Congresso era stata
“politicamente” rilevante e teoreticamente acuta, perché si trattò del
riconoscimento di una linea di ricerca filosofica, tutt’uno c on la ricerca
storiografica, che appunto Antoni – così scrive F. - ha
spinto alle estreme conseguenze nei capitoli dedicati all’origine storica
della distinzione e ai RAPPORTI TRA L’ASSOLUTO E LA STORIA Il Commento a
Croce fu in quell’occa sione lo strumento di una militanza filosofica
di tenore essenzialmente etico-politico. Solo un filosofo della storia,
nel senso metodologico e non metafisico dell’espressione, puo in piena
consapevolezza gridare alto e forte il no dell’etica contro le
usurpazioni del politicismo comunista. Così F., forse con enfasi eccessiva
ma correttamente, collocava Antoni dalla parte dell’anti-totalitarismo,
anche memore degli studi da lui fatti sulla tragedia totalitaria della
Germania nazista. Sull’ibridazione di socialismo e liberalismo Antoni non è
d’accordo, come si sa, pur tuttavia mai egli nega il carattere
solidaristico di una politica economica curvata sul sociale, come infatti
emerge in alcuni tratti delle lettere a F.. Il Congresso affianca al tema
della conoscenza storica quello su Arte e linguaggio. È organizzato da
Battaglia e dalla SFI napoletana, e vide partecipi i principali esponenti degli
schieramenti filosofici del tempo, come Stefanini (si veda), Bontadini (si
veda), Spirito (si veda), Calogero (si veda), Fazio (si veda) Allmayer, Paci
(si veda), Filiasi-Carcano (si veda), e tra gl’organizzatori Carbonara (si
veda). Antoni è primo relatore e animatore, con numerosi interventi, delle
accese discussioni sino alla fine dei lavori. Antoni fu l ieto d’aver
partecipato al Congresso napoletano, sì da trarne soddisfazione morale e
politica, benché anche in seguito continuò a vedere nella cultura italiana
sempre e solo schiere di combattenti non proprio ad armi pari, specie là dove
le idee “confessionali” tornavano per lo più a compattarsi in vista
di un certo potere. La presenza di Antoni aveva ottenuto un esito importante:
aveva consentito agli esponenti di una tradizione storicistica sui
generis, alla quale Franchini si univa seguendo il cammino già di Ciardo,
Attisani, Parente, di testimoniare la volontà di un confronto con le
altre correnti della filosofia italiana e straniera. D’altronde, al
solito pregiudizio che tendeva a stanziare gli studi crociani nel
Sud dell’Italia, era stato p roprio l’Antoni, nel discorso di chiusura delle
sessioni del Congresso, ad opporre la realtà del pensiero di Croce, per
eccellenza europeo e mondiale nell’ispirazione e nei suoi fecondi risultati. F.
non si fa tuttavia sfuggire l’occasione di denu nciare i limiti di
presunte filosofie d’avanguardia. Tra l’altro lo stesso problema della
conoscenza storica, così posto nella sua purezza, poteva indurre nell’errore di
non considerarne il rapporto con la volontà e la vita morale, di
trascurare cioè il ruolo dell’individuo umano, che è un nulla se si vuole
rispetto all’infinito, ma è quel tutto che si realizza nell’opera singola e si
trasmette storicamente alle generazioni future in nome di una tradizione
critica. Non ha forse Croce detto chiaramente che storicismo è creare la
propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla
coscienza presente del passato»? Chi, se non un individuo concreto e
responsabile, potrebbe essere mai l’artefice di tanta proprietà? Cos’è
lo storicismo se non il vero umanismo dei nostri giorni? Ad Antoni F.
tributa in definitiva il migliore degli omaggi sottolineando la teoreticità del
saggio su Croce, di quel “commento” messo lì a dissimulare forse con un
eccesso di pudore la nuova filosofia che nasceva dalla lettura intrinseca
del grande pensatore. I capitoli sulla Distinzione e sul Giudizio sono cruciali
nel libro di Antoni, profondi e utili quelli sull’individuo nella Storia
e sull’idea di progresso. Più d’ogni altro principio quello In
particolar modo Calogero e Attisani avevano messo in discussione la concezione
dell’individuo in Croce e Antoni. Croce, La storia come
pensiero e come azione, Bari, Laterza: Storicismo e umanismo, della distinzione
è appartenuto allo spirito italiano, da MACHIAVELLI (si veda) a BONAITUI (si
veda) Galilei, da VICO (si veda) a CROCE (si veda) attraverso LABRIOLA (si
veda) e SANCTIS (si veda). Nella logica crociana poi la distinzione correggeva,
secondo Antoni, gli effetti indebiti di una contraddizione perenne pur
nell’unità che ne è lo sfondo. L’identità allora diventa non già l’accordo
presupposto dei contrari ma il reale incontro dell’universale col concreto
nella forma conoscitiva del giudizio storico. Croce restaura così
– secondo Antoni - il principio d’identità, rigenerandolo
tuttavia nella nuova vita di un rapporto asimmetrico racchiudibile nella
formula a=A. E tra le categorie non passa spazio come per un salto dall ’ uno
all ’ altro contesto. «In realtà il sistema, scrive Antoni, è quello di
un’unica categoria reale e attiva, che è l’Io, di cui le categorie
sono articolazioni. Lo stesso trapasso della conoscenza nell’azione non può
essere inteso come un passaggio radicale da una categoria all’altra, quasi che
la conoscenza d’una situazione storica non fosse già guida ta da una
volontà e da un interesse e l’azione non fosse guidata, lungo l’intero
suo svolgimento, dalla conoscenza» La lettera è davvero illuminante a tal
proposito: Antoni, platonicamente, indicava nell’Idea del Bene l’idea
-guida dello spirito umano, incisa in noi per definirsi nel tempo in
quella che felicemente chiamiamo “storia della civiltà”. Profonda
fu l’amarezza di Antoni dopo aver letto la recensione di Fiore al suo
“Commento” nel Ponte. Il suo dispiacere nasceva anche dal fatto che i
direttori, succeduti al Calamandrei nella gestione della rivista, erano almeno
dichiaratamente suoi amici. Nella recensione non si sottolineavano, com’è
pur giusto fa re, eventuali spunti critici per una filosofica discussione,
ma si assumeva nei confronti dell’Autore un atteggiamento ostile in
partenza, probabilmente per motivi che non si direbbero solo di carattere
teorico. E difatti si accusava Antoni, «l’unico supe rstite del
crocianesimo in un mondo che crociano non è» (come se il mondo aspettasse di
assumere un colore politico o una preferenza culturale per decreto della
Storia) di aver discettato di problemi morali e F. cita da Antoni,
Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, Vedi T. Fiore, rec. a C. Antoni,
Commento a Croce, in «Il Ponte, Tumiati assunse la direzione della
rivista fondata da Calamandrei, in un primo tempo, dinsieme con Agnoletti politici
in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva
attratto e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal
recensore nei riguardi di Croce venivano prima denunciate in nome di un
crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e
poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato
gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo
sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti
che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non
stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva: “
ma quale crocianesimo è questo? ” se, difatti, Antoni si era permesso di
seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior
cattiveria nello scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad
Antoni una sorta di astenia emotiva, ben altra cosa rispetto alla
passione democratica del Ruggiero e al civismo mazziniano d’OMODEO (si
veda), entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e
sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso
nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del
movimento democratico meridionale con Martino, Dorso, in continuità con
Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si
videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da
Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà, per lui
superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono
probabilmente più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente
scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di Antoni. Per una
curiosa ironia della sorte sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a
distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore
filosofico sulla disciplina della Filosofia della storia, tanto avversata da
Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel
’54 a cambiare titolarità (adempiendo ad un impegno preso col filosofo),
chiamato infine sulla cattedra di A Fiore è stato dedicato un intero
fascicolo della «Rivista Pugliese» di Bari, comprensivo del carteggio con
Rosselli e con Dorso. Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura
tedesca a Padova politici in maniera
distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto e
animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi
di Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo
fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi
segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato
gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo
sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti
che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non
stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva: ma
quale crocianesimo è questo? se, difatti, Antoni si era permesso di
seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior
cattiveria nello scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad
Antoni una sorta di astenia emotiva, ben altra cosa rispetto alla
passione democratica del De Ruggiero e al civismo mazziniano dell’Omodeo,
entrambi già scomparsi . Eppure Fiore era andato da amico e sodale ad
accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città
pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento
democratico meridionale con De Martino, Dorso, in continuità con Salvemini,
Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si videro
rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il
quale tendeva a separare il concetto di libertà, per lui superiore,
dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente più
del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione
che Fiore redatta sul libro di Antoni. Per una curiosa ironia della sorte
sia Antoni che F. hanno ricoperto, a distanza di un decennio, incarichi
universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina della filosofia
della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà
burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità
(adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra
di A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della «Rivista Pugliese»
di Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con Dorso. Antoni
aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova Storia della
filosofia moderna e contemporanea nell’Università di Roma. Franchini ottenne
l’incarico didattico nell’Uni versità di Napoli dopo aver conseguito la
libera docenza, inaugurando il corso con una prolusione sulla
Filosofia della storia, materia che si accingeva ad insegnare. Antoni non
riuscì a recarsi a Napoli per assistervi, ma poté leggerne il testo su
«Criterio» con sincero compiacimento F. traccia in quell’occasione il profilo
storico della questione, dai pensatori cristiani fino a Hegel, a Spengler e
Toynbee, difendendo l’insegnabilità di una disciplina che mira a
conoscere un secolare bisogno dell’animo umano»rivolto a dare un senso generale
alle epoche storiche. S’intende che la filosofia della storia, in quanto
caso particolare della metafisica, anda svecchiata e in un certo senso
riformulata attraverso la metodologia storica non disgiunta dalle sempre
essenziali ricerche di storia della storiografia. Egli si appellava alla
tradizione “locale” ma europea di Vico, Sanctis, Spaventa, Omodeo. Non fa
però il nome di Labriola, ricordato invece da Antoni (lettera) insieme al caso
Ferrero e alla oramai lontana, nel tempo, battaglia contro la filosofia della
storia in un celebre discorso che Croce tenne al Senato del Regno. La
prolusione di F. si chiudeva con un omaggio «al primo docente ufficiale
che di questa materia l’Italia abbia avuto, il nostro Maestro ed Amico Antoni.
La recensione al libro di Sprigge merita qualche nota in margine, anche a
difesa dell’interprete inglese sul quale potrebbe pesare fin troppo
l’icastica osservazione di Antoni che gli attribuisce una lettura del
rapporto di Croce col cristianesimo sulla base di mere considerazioni
politicistiche. Franchini cercò allora La Prolusione uscì in due puntate
su «Criterio», la rivista diretta a Firenze da Ragghianti. «Criterio» fu poi
ripresa da F. nella Nuova Serie Filosofica, e da lui diretta Il discorso in
Senato non conteneva, contrariamente a quanto talvolta si è lasciato intendere,
alcun riferimento a Ferrero (per il quale si veda invece la nota di Croce
in Conversazioni critiche, serie I, Bari, Laterza. Il testo del discorso
in Senato si può leggere in Discorsi parlamentari, con un saggio di
M. Maggi, Bologna, Il Mulino. Su Croce e Ferrero si veda la nota di
F. Tessitore in «Rivista di Studi crociani. Sulla riconciliazione di Croce e
Ferrero, in nome di un comune sentire negli anni bui del fascismo, rimando a A.
Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze, La Nuova Italia, La Prolusione è
poi ristampata in F., Metafisica e Storia, di dipanare la
controversa materia, riconoscendo allo Sprigge la buona fede pur nella
ripetizione del luogo comune per il quale si attribuivano a Croce inclinazioni
e spirito conservatori. In effetti Croce aveva mostrato sempre
“comprensione” per la Chiesa cattolica, ciò non pertanto lo scritto, che pure
piacque molto per evidenti ragioni a taluni cattolici, fu una risposta
alla sfida dei fatti sulla base di principi teorici che in ogni modo ispirarono
il filosofo, il cui sguardo per necessità mirava ad assumere connotati
universali “oltre” la mera contingenza delle circostanze politiche. E
tuttavia il contenuto di quel testo è sempre “presente” nel suo
significato inequivocabile. La figura di Gesù, al centro del
cristianesimo, ha rappresentato un messaggio ancora fermamente iscritto nel
cuore della modernità e dentro la storia del mondo contemporaneo, sia per gli
appartenenti ad una chiesa sia per i laici credenti e non credenti. Non
in poco conto pertanto dev’essere tenuto il plurale espresso in
quel “noi” ( Perché [noi] non possiamo non dirci
cristiani ), che difatti esclude il discorso in prima persona, ed esclude che
si tratti della confessione di un sentimento segreto. Parimenti estranee
all’argomento crociano furon o le polemiche anticlericali, del tutto fuori
luogo in un contesto che, come può verificare ogni attento lettore, fu di
carattere teoretico e storiografico. Il cristianesimo non è stato un miracolo,
ma un processo storico; anche se proprio il fatto di aver intersecato profondamente
le vicende storiche di una così vasta parte del mondo lo rende una sorta di
evento straordinario, non però diversamente, in chiave ontologica, dal
miracolo che ogni ente è, e dall’eccezione che noi tutti siamo. Le
lettere, fatt esi più rare, raccontano di vicende accademiche e di fatti
quotidiani, di brevi viaggi e di alcuni malanni che affliggevano Antoni già da
qualche tempo. Al centro peraltro sta la figura di Scaravelli, scomparso
tragicamente. Nella Commemorazione pisana Antoni aveva tracciato dello
Scaravelli, a pochi mesi dalla morte, un profilo davvero La recensione al
saggio di Sprigge, Croce, l’uomo e il pensatore (Napoli, Ricciardi)
apparve su Criterio con il titolo Un profilo del Croce, ed è ristampata
nel volume L’oggetto della filosofia, Napoli, Giannini, La
commemorazione letta nella Sala degli Stemmi della Scuola Normale Superiore è
nel volume di Antoni, Gratitudine,
Milano-Napoli, Ricciardi, Caro F., ho letto la recensione, che Le restituisco.
Mi rallegro con Lei per il fatto che il Suo libro sia stato recensito dalla
«Historische Zeitschrift», che resta tuttora la migliore rivista tedesca di
studi storici. È un onore per Lei. In quanto alla recensione stessa, essa ha il
consueto carattere informativo delle recensioni tedesche, nelle quali di rado
si prende posizione. Naturalmente noi, abituati allo stile delle recensioni
crociane, ci impazientiamo dinanzi a tanta acriticità. Ignoro chi sia questo
Funke. Con i più cordiali saluti Suo Antoni Ha visto il mio Tramonto delle
ideologie sul «Mondo»? Roma Mio caro F., Si tratta della recensione
di Funke al saggio di F. Esperienza dello storicismo, in
«Historische Zeitschrift», Antoni aveva
scritto sul «Mondo» un lungo e denso articolo sul volume di F., che si può
leggere nella raccolta Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Vedi «Il Mondo», in Il
Tempo e le idee, cpartecipe, in spirito di amicizia e di stima per un uomo
schivo e assai colto, conversatore brillante che sapeva «passare dalla musica
classica al romanzo francese, dalla pittura alla fisica nucleare». Giunto alla
filosofia da studi scientifici, di matematica e di medicina, Scaravelli si era
infatti misurato con i grandi della tradizione filosofica specie su temi di
logica pura per certi versi, ma in virtù dell’intento di far pre
valere il capire sull’esistere. A Croce e Gentile dedica con acume le sue
fatiche d’interprete, non meno che a Platone, Cartesio, Kant, Heidegger,
Heisenberg. In ogni modo egli aveva cercato di risolvere un suo problema
teoretico. Antoni scrive a F. (lettera): «Il problema di Scaravelli era
quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o capire come
la grande madre genera i suoi figli. Problema insolubile perché pur
muovendo dal principio d’identità indispensabile per la comprensione dei
significati, Scaravelli dovette infine arrendersi alla sua dissolvenza aprendosi
piuttosto al giudizio delle forme concrete dell’esistere storico. Si
trattava del problema della creazione del mondo, concludeva Antoni,
riassumendo così in una formula efficace le puntuali analisi contenute
nella Critica del capire, ch’ebbero il merito di rompere il
silenzio con cui il libro fu accolto, nonostante il parere molto
positivo espresso dallo stesso Croce. Manca, infine, il tempo
per discutere tra amici intorno all’ultimo libro di Antoni La
restaurazione del diritto di natura . F. ne aveva parlato nel numero di luglio
del «Mondo», accogliendo senza riserve la proposta, in apparenza assai
poco storicistica, di un “ritorno” al principio dell’etica universalmente
umana, la sola capace però «di evitare le pericolose conseguenze del
predominio della tecnica e della civiltà di massa». Egli ebbe forse bene a
mente le parole adoperate da Antoni in una lettera di qualche anno prima: alla
base del giudizio storico e dell’azione morale e politica sta la luce di
un concetto universale dello spirito umano che tuttavia, proprio nella forma di
un umanesimo rinnovato, non contrasta affatto con la visione Si veda la
lunga recensione di Antoni a Scaravelli, Critica del capire, Giornale
critico della filosofia italiana, Vedi lettera, più avanti riportata storicistica
e dialettica della vita con tutte le sue imprevedibili e particolarissime
circostanze. Roma Caro dott. F., è da tempo che seguo con vivo interesse la Sua
attività di studioso. Così ho letto la Sua bella recensione del libro del Ciardo
e il Suo articolo su GRAMSCI (si veda), comparso sullo «Spettatore. Ho ricevuto
oggi la sua memoria su Storicismo e relativismo, che ho letto
subito. Penso che il suo esame del rapporto e la differenza tra
“storicismo” e “istorismo” ossia relativismo storicistico sia molto opportuno
oltre che acuto. Ella mi muove un lieve appunto: quello di aver
attribuito al Troeltsch il merito di aver introdotto nell’uso comune il
termine di “storicismo”. Mi sembra però di aver detto una verità
incontestabile: anche se al termine il Troeltsch continuava a dare un
significato deteriore, tuttav ia egli ha introdotto l’uso del termine stesso
nel dominio della storiografia e della riflessione sui metodi della
storiografia. Soltanto dopo di lui si parla di storicismo moderno, di problemi,
crisi ecc. dello storicismo. Se Ella ha occasione di venire a Roma, sarò assai
lieto di vederla e di conversare con lei. Con cordiali saluti La
recensione al libro di Ciardo, Le quattro epoche dello storicismo,
era uscita in «La parola del passato»,
(rist. nel volume F., Esperienza dello storicismo, Napoli,
Giannini, Si tratta dell’articolo La “metodologia dell’azione” di
A. Gramsci, uscito in Lo Spettatore italiano La rivista si pubblica a Roma per
iniziativa di Elena Croce, figlia maggiore del filosofo, e del marito Raimondo
Craveri. Cfr. R. Franchini, Storicismo e relativismo, in «Atti»
dell’Accademia Pontaniana (rist. in Esperienza dello storicismo) Roma,
Caro F., di ritorno da Bari, dove sono stato a tenere una conferenza agli
“Amici della cultura”, trovo la sua lettera e mi affretto a rispondere, ossia a
rilasciarle il “certificato” che desidera. Con cordialissimi auguri Suo Carlo
Antoni Roma, È da qualche anno che seguo con molta attenzione gli scritti che F.
va pubblicando nelle riviste. Alcuni di essi, infatti, hanno già recato un
contributo di chiarificazione e di critica assai notevole nel campo degli studi
storico- filosofici: Tutti, poi, indistintamente sono la testimonianza d’un
ingegno assai vivace, fine, sensibile ai più urgenti problemi della
filosofia e della vita. Oltre a rivelare una preparazione culturale
assai ricca e sostanziosa, essi indicano anche un raro senso di umanità.
Tra i giovani dell’ultima generazione il Franchini è certamente uno dei
più promettenti. Per le sue doti intellettuali e morali ritengo anche che
possa 32 Segue la lusinghiera lettera di presentazione di
Antoni sull’operosità di F., i l quale di lì a poco entra a far parte del corpo
docente del liceo classico della scuola militare napoletana essere un magnifico
insegnante, tale da mantenere alto il prestigio di cui ha sempre goduto
il collegio della Nunziatella. Carlo Antoni Roma Mio caro F., ho letto
con grande interesse il Suo saggio 33 e soprattutto la parte che mi
riguarda. Ella ha afferrato perfettamente il mio pensiero (La ringrazio anche
per averne messo in rilievo la novità), tanto perfettamente da trarne le
conseguenze, che io non avevo voluto trarne, malgrado che mi avvedessi
che c’erano. In effetti Le confesso che ho i miei dubbi intorno ad una
“dialettica” dei distinti. Di questo dubbio Lei trova traccia del resto
nella recensione che feci allo “Hegel” di Ruggiero. In ogni caso
sono assai lieto della penetrante attenzione che Ella dedica ai miei scritti.
Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., Il saggio è: Morte e
resurrezione della dialettica da Hegel a Croce, in «Letterature moderne (rist.
in Esperienza dello storicismo, cit.) il Suo articolo mi ha
fatto, com’è naturale, un immenso piacere. Attribuirmi il merito di aver
provocato in Croce il bisogno di riesaminare la questione della dialettica è,
non occorre dirlo, rendermi il massimo degli onori. Ma Croce stesso che ne
dice? Vorrei sapere se approva il Suo articolo. Con saluti cordialissimi Suo
Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio per la Sua lettera e per le
notizie che mi dà. Come Ella può comprendere, la questione, da Lei sollevata
nel Suo articolo, ha per me una grande importanza. Le dirò come io veda
la cosa. Quando pubblicai il mio saggio sulla Dialettica di Hegel, in cui
ne denunciavo il carattere intellettualistico, saggio ri stampato nel ’46 nelle
mie “Considerazioni, Croce ne prese conoscenza, tanto che mi segnalò il Suo
articolo in proposito, ma non si propose il problema. Sono tempi in cui
Croce, tutto preso dall’attività politica, non ha probabilmente l’agio di
ritornare sulle sue idee intorno alla dialettica. Il mio saggio suscita
l’interesse di RUGGIERO (si veda), che lo cita con molta lode nel suo “Hegel”,
ma senza prender posizione. Per quanto riguarda questa mia prima
osservazione, penso che Croce abbia ragione nel negare che la sua revisione sia
stata provocata da me. 34 Il riferimento è al saggio:
La crudele dialettica, uscito su «Il Mondo. Tutti gli scritti di
Franchini che uscirono nella rivista di PANNUNZIO (si veda) sono raccolti nel
volume Pensieri sul “Mondo”, a cura di Cavaliere, Gily, e Melillo,
con una Presentazione di Cotroneo, Napoli, Luciano; Antoni, La dialettica
di Hegel, Poesia e verità; rist. in Id., Considerazioni su Hegel e
Marx, Napoli. Si ricorda che F. recensì le Considerazioni nella
rivista Ethos. Ma io giunsi all’altra osservazione e cioè alla netta
distinzione tra la hegeliana dialettica della contraddizione e la crociana
dialettica dell’opposizione. Essa si connetteva alla mia prece dente
attribuzione a Croce della restaurazione
del principio d’identità. Ero molto incerto se comunicare o no a Croce
questa mia osservazione, che avevo svolto nel corso universitario di
quell’anno. Mi rendevo conto, cioè, che essa avrebbe provocato un grave
turbamento ed un bisogno di una radicale revisione del pensiero crociano nei
confronti di Hegel e della dialettica in generale. Mi consultai con parecchi
amici. Tra costoro Bacchelli, al quale ricorsi e per la sua sensibilità umana e
psicologica e per la devozione che aveva per la persona di Croce, mi dissuase
dal farlo, dicendo che oramai era meglio lasciare tranquillo il glorioso
vegliardo e non costringerlo alla sua età a un siffatto sforzo. Tuttavia la
cosa mi tormentava, dato che ritenevo che Croce avesse attribuito a Hegel la
sua propria gloria e mi dispiaceva che potesse morire senza essersi reso conto
della propria originalità nei confronti di quel suo maestro. Dopo che si fu
ripreso dalla grave malattia, che lo colpì, mi feci coraggio e gli scrissi.
Croce mi rispose con una lettera che era un’accettazione di massima, ma
contenuta in termini un po’ generici. Si vedeva che si riservava di meditare
per suo conto l’intera questione. E infatti poco dopo cominciarono a
uscire i suoi nuovi scritti intorno alla vitalità e al suo carattere
dialettico, e in genere intorno a Hegel e alla origine della dialettica
hegeliana. Il punto di partenza di questi scritti, però, è fornito dal momento
della vitalità, al quale Croce riporta tutta la dialettica: sia la teoria
hegeliana per sé stessa, sia la dialettica della vita e dello spirito in sé. In
questo modo Croce andava, in certo senso, più in là della mia
osservazione, scavalcandola e prendendo tutt’altra direzione. Le dirò che,
invece, per mio conto ho proseguito in direzione ben diversa. Nel
corso di quest’anno ho svolto un esame dell’intera questione, che mi ha portato
a risultati che contrastano con le tesi recentissime espresse da Croce.Per
concludere penso che Croce, pur essendo stimolato dalla mia seconda
osservazione, a riproporsi lo studio della natura della dialettica, è stato
condotto alle sue nuove idee dal senso più accentuato dell’importanza
della vitalità. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro
F., La ringrazio di aver pensato a me in questi giorni. Come sempre succede,
nei primi momenti dopo la scomparsa di persona cara, non ci si rende conto del
tutto della perdita. Il senso di vuoto viene dopo. Così accadrà per noi tutti:
ma dovremmo anche cercare di restare uniti. Il Suo articolo comparso nel
«Mondo» mi è molto piaciuto. Vorrei vedere il fondo del «Times»: non potrebbe
spedirmelo in prestito? Glielo restituirei subito. Arrivederci tra breve Suo
Carlo Antoni Roma, F., Croce, Il Mondo Caro F., ho ancora sul mio
tavolo la lettera, che ho ritrovato al mio ritorno dalle vacanze. Vorrei che
Lei mi desse qualche notizia sul concorso, di modo che io possa eventualmente
intervenire presso i commissari. Ho letto con piacere i Suoi due articoli: quello
su Mann 37 e quello sul libro del Sainati 38 . Sulla personalità di Mann
faccio molte riserve. Si parlò di lui con Croce, l’ultima volta che lo
vidi, ed in fondo Croce era d’accordo, quando dicevo che dagli scritti di
Mann veniva su un certo lezzo di frollo, se non addirittura di marcio. Attendo
il Suo volume. Suo Carlo Antoni Roma, 11 aprile 1954 Caro F., con
l’editore Pozza, che era qui in questi giorni, ho esaminato la questione della
traduzione d’una scelta di lettere di Hegel I due volumi della nuova
edizione Su Mann è uscito il saggio Nobiltà dello
spirito sia in «Il Giornale» sia in «Il Gi ornale di Trieste». Di Sainati
si parlava a lungo nell’articolo Studi crociani, apparso su Il Mondo. Il
progetto di curatela dell’epistolario hegeliano presenta più d’una difficoltà.
La nuova edizione dell’Hoffmeister avrebbe dovuto far fede, assai più
dell’edizione curata dal figlio del filosofo, ma è al momento incompleta.
L’idea allora di rifarsi alla precedente edizione, da integrare eventualmente
con le lettere ritenute significative, si mostrò impraticabile. F.
avrebbe dovuto occuparsi della traduzione di una scelta di lettere e
della stesura dell’introduzione storico -critica. Non se ne fece nulla,
nonostante la buona disposizione di Pozza e l’interessamento di
Ragghianti del Meiner, curata da Hoffmeister, arrivano. Sono previsti altri due
volumi. La nuova edizione reca il copyright con espressa riserva dei diritti di
traduzione. Per mia esperienza prevedo che le pretese di Meiner sarebbero
esose. Da un rapido confronto con la vecchia edizione curata dal figlio,
ho tratto l’impressione che la nuova non rechi molto di nuovo. In ogni
caso, se ci si volesse attenere a quest’ultima, si dovrebbe attendere
l’uscita dei due ultimi volumi, che chi sa quando si attuerà. Con Pozza
sono quindi giunto alla conclusione che ci conviene rifarci alla prima
edizione, che reca anche sufficienti note. Ove risultasse qualche nuova lettera
molto importante nella nuova edizione, il Pozza chiederebbe il diritto di
traduzione per essa. Ella dovrebbe quindi cominciare il lavoro di scelta. Non
le nascondo che dalla lettura delle lettere il compito della traduzione mi è
apparso molto arduo. Con cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma Caro F., grazie
per le Sue parole. Si tratta in fondo d’un semplice cambiamento del
titolo della mia cattedra, che era poi una sorta d’impegno che avevo assunto
con Croce. Ancora l’ultima volta che lo vidi, Croce mi raccomandò di fare
cambiare quel titolo di “filosofia della storia”, che proprio non
gli andava giù . Gli spiegai
allora Alla notizia dell’ottenuto conferimento della cattedra di filosofia
della storia nella facoltà di lettere di Roma, Croce nel congratularsi con
l’Antoni, così gli scriveva: «Se la parola sociologia è screditata
per la sua volgare origine positivistica, quella di filosofia della
storia è del pari screditata per la sua origine teologica e metafisica. Lei si
deve subito dar da fare per cangiarlo». Cfr. Lettera di Croce ad che la
procedura non era facile, ed infatti ci sono voluti parecchi anni, con modifiche
allo statuto, per raggiungere il risultato 41 . Sono ansioso di leggere sulla
Nuova Antologia la Sua recensione: peccato che sarà letta da pochi!
L’intervento di Tagliacozzo mi ha sorpreso: è un esempio del cattivo modo
in cui un discepolo può seguire un maestro, cui è affezionato. Con
cordialissimi saluti, Suo Carlo Antoni Roma, Mio Caro F., bellissima la Sua
recensione, per cui Le sono molto grato
Mi dispiace soltanto che essa compaia nella Nuova Antologia, dove sarà
letta da pochi. La Sua osservazione o previsione sulla sorpresa di molti che
scopriranno quanto complessa sia la filosofia crociana, mi ha divertito e fatto
ricordare come spesso mi sia toccato di sentire che quella filosofia non è
interessante, perché non è problematica. Mi è piaciuto anche il modo,
assai fine, con cui Ella sa definire la mia posizione verso le dottrine del
Maestro. Antoni, in Carteggio Croce-Antoni, a cura di Musté,
introduzione di Sasso, Bologna, Mulino,
Antoni e chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea. La recensione al libro di Antoni Commento a
Croce uscì con questo titolo sulla rivista Nuova Antologia. Ottimo
pure l’articolo sulla Storia e conomica del Kulischer, anche dal punto di vista
giornalistico. Sarà bene che ci vediamo prima della scadenza dei termini per la
presentazione delle domande di libera docenza. Mi reco a Firenze per
incontrarmi con Ragghianti e Pozza, e sarò di ritorno soltanto il 30.
Cordialmente Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., una bronchite con i
fiocchi – si direbbe ch e quest’anno sono iettato
– mi ha tenuto a letto per una settimana e ancora non so quando
potrò uscire di casa. Prevedo che dovrò rinunciare al progetto di venire a
Napoli per la Sua prolusione: è un vero dispiacere per me, perché ci tenevo ad
essere presente. Il primo insegnante di “filosofia della storia” è stato,
a quanto mi consta, ROVERE (si veda), poi a Roma LABRIOLA (si veda) tenne
tale insegnamento per incarico, con Antoni si rifere al saggio dal
titolo Una storia del progresso uscito su Il Giornale (rist.
in F., L’oggetto della filosofia, cit.). Antoni si era
prodigato l’anno prima per l’inserimento della Filosofia della storia
nell’elenco delle libere docenze. F. sostenne gli esami di abilitazione
alla libera docenza in Filosofia della storia superandoli brillantemente. Tra i
commissari Battaglia, Attisani e
Falco. F. inaugura il suo corso di filosofia della storia a Napoli
con una prolusione dal titolo La Filosofia della
storia, il cui testo uscì poi sulla rivista «Criterio» diretta da Ragghianti,
in due puntate. Il testo della lezione inaugurale venne infine ristampato nel
volume Metafisica e Storia, molto successo. Nella mia prolusione tenni ad
accennare alla continuità ideale, tramite Croce. La proposta di attribuire la
cattedra a Ferrero, provocata da un clamoroso intervento del presidente Teodoro
Roosevelt, fu bocciata dal Senato. Croce tenne allora un famoso discorso, che
valse a far cadere la proposta, del resto poco gradita dal mondo accademico di
allora. Suo Carlo Antoni Roma Mio caro F., Ella può ben immaginare con quanto
piacere ho letto e riletto la Sua memoria alla Pontaniana. Anzitutto essa mi ha
confortato confermando l’utilità del mio intervento al Congresso di Napoli. Ma
anche la parte che più propriamente riguarda il mio “Commento” mi è stata
di grande vantaggio. In fondo, si guardano i propri scritti sempre un po’
attraverso una nebbia: un osservatore acuto ed esperto, come Lei, è di grande
aiuto a discernere le linee principali del proprio pensiero. La ringrazio,
dunque, con molto affetto La Prolusione dal titolo La dottrina
dialettica della storia è nel volume postumo Storicismo e antistoricismo,
a cura di M. Biscione, introduzione di A. Pagliaro, Napoli, Morano, nella
Collana di Filosofia diretta da E.P. Lamanna e P. Piovani. Antoni si
rifere al celebre discorso di Croce al Senato del Regno, nella seduta,
Sul disegno di legge “Istituzione di una cattedra di Filosofia della
storia presso la Università di Roma”, che ora è possibile leggere nel
volume Benedetto Croce. Discorsi parlamentari, con un saggio di
Maggi, La memoria accademica di cui si parla riguardava l’ampio resoconto
critico che Franchini scrisse intorno al Congresso di Filosofia che si è
tenuto a Napoli, dove Antoni è stato invitato a tenere la relazione
introduttiva sul tema della conoscenza storica. Aliotta sul «Giornale
d’Italia» sottolinea l’importanza di una tradizione di storicismo crociano. La
memoria di F., dal titolo La conoscenza storica, uscì negli Atti dell’Accademia
Pontaniana, (rist. in Metafisica e Storia Roma Mio caro F., la Sua
osservazione tocca un punto, che aveva già suscitato le perplessità del mio
amico Attisani. Nel mio articolo esso era trattato troppo sommariamente.
Bisognerà che ci ritorni sopra. In ogni caso voglio subito avvertirla che non
penso a qualcosa di medio tra conoscenza storica e azione, ma al semplice fatto
che noi pensiamo e giudichiamo la storia alla luce di quel concetto
universale dell’uomo o dello spirito umano, che è il medesimo che orienta
la nostra azione morale e politica. Questo concetto, in quanto principio
dell’azione morale, è l’idea del Bene. Essa è vera, anzi è la verità che
abita in noi, ma si va definendo e chiarendo attraverso la storia, che per
questo è storia della civiltà. Aggiungo che non vi è distinzione tra categoria
e coscienza della categoria, anche se la prima appare eterna e
l’altra storicamente relativa: la categoria è sempre coscienza di sé, ma
si va rendendo sempre più cosciente, come, mi sembra, sia insegnato da Croce
nelle parti storiche dei suoi trattati. Ha fatto bene ad accettare
l’invito al “Simposio” laterziano. Sono curioso di sapere quali sono gli
altri invitati. Ella non manca di combattività, sicché sono tranquilli per la
buona causa. Non sono sicuro di resistere al caldo fino alla fine del mese. Tuttavia
la prego di telefonare a casa mia al Suo passaggio da Romagrazie per la Sua
lettera di consenso al mio articolo sul socialismo. È una conferenza, che
tenni a Zurigo e che poi fu raccolta in un volume pubblicato in Svizzera.
Avendo avuto una certa eco in Svizzera e Germania, pensai che era utile farla
conoscere, anche in relazione alla situazione dei radicali. In effetti mi
sembra di aver ottenuto qualcos a: un socialista come Silone ha sentito
il bisogno di telefonarmi per dirmi che era d’accordo. Come Ella si sarà
accorto, la parte più importante è l’ultima, dove io cerco di venire incontro
alle “istanze” sociali senza cadere nelle confusioni del liberal -socialismo
calogeriano. Mi sembra che proprio avendo attribuito al liberismo un carattere
etico-politico, si possa dargli anche un nuovo carattere positivo,
liberatore, sociale. In quanto all’indirizzo del Mondo, alcuni amici mi
hanno fatto osservare c he da alcune settimane era piuttosto moderato.
Poiché le critiche, che io Le esposi nella nostra conversazione per
strada, le vado facendo a Pannunzio appunto da alcune settimane, forse non è
presunzione la mia, se suppongo di aver ottenuto qualcosa anche in questo
senso. Va benissimo per la recensione a Sprigge, dove c’è da obiettare ad una
sorta d’insinuazione (Croce avrebbe scritto l’articolo sul perché non possiamo
non dirci cristiani, che sappiamo aver avuto carattere anti-nazista, perché
prevedeva l’alleanza con la Dem. Cristiana!) Suo Antoni Roma, Le
convinzioni di Antoni sul socialismo, sul liberalismo e sulla incongruità di un
liberalsocialismo furono sempre chiare e lineari. Franchini concordava. Qui
esse emergono nella concretezza del dibattito politico che coinvolse gli
intellettuali del «Mondo». La recensione di F. alla traduzione italiana
del saggio di Sprigge,
Croce, l’uomo e il pensatore (Napoli, Ricciardi) usce
su Criterio con il titolo Un profilo del Croce (rist. nel volume
L’oggetto della filosofia Caro F., l’infiammazione agli occhi, che
mi aveva impedito di venire a Napoli e che sembrava scomparsa, mi dà
nuovamente fastidio, sicché devo riguardarmi. Penso che Ella dovrebbe
scrivere l’articolo sul primo decennio dell’Istituto. Come forse Ella sa, nei
tempi in cui Croce stava progettandolo, io insistetti presso Mattioli,
affinché scoraggiasse l’iniziativa. Infatti non avevo nessuna fiducia
nella utilità dell’istituzione. Devo riconoscere che mi ero sbagliato,
anche se difatti, errori, inconvenienti non sono mancati. In complesso,
mi sembra, il nostro giudizio deve essere positivo. Anche se ne hanno
profittato alcuni furfante lli, se, cioè, l’eterogenesi dei fini o l’astuzia
della ragione hanno operato in senso negativo, parecchi bravi hanno avuto modo di studiare e lavorare. In
quanto all’indirizzo “storico” dell’Istituto, esso non soltanto corrisponde al
nome, ma al preciso pensiero di Croce. Con i più cordiali saluti Suo Carlo
Antoni Roma, Mio caro F., purtroppo devo rinunciare definitivamente alla mia
gita a Napoli: non sono ancora completamente ristabilito e devo riguardarmi da
una ennesima ricaduta. Non [È pubblicato infatti sul Mondo il saggio di F.
Dieci anni nell’anniversario della fondazione dell’Istituto
Italiano di Studi Storici avvenuta nella s ede di Palazzo Filomarino in
Napoli ho ancora ripreso ad uscire di casa. Le faccio quindi per lettera
gli affettuosi auguri che avrei voluto farle a voce. Spero di leggere la Sua
prolusione in Criterio. Le sono grato per il Suo proposito di propormi per
la “Pontaniana”: onore che accetto e che mi è molto gradito. Eccole i miei
dati biografici: nato a Senosecchia (Trieste); volontario nella guerra, ferito,
medaglia di bronzo e croce di guerra; LAUREATO IN FILOSOFIA A FIRENZE;
professore nei Licei scientifici a Messina e a Roma; assistente
dell’Istituto Italiano di studi germanici. Libero docente di Storia della
filosofia; professore di Letteratura tedesca a Padova; membro della Giunta del
Partito Liberale, Consultore nazionale, Commissario dell’IRCE; chiamato
alla cattedra di Filosofia della storia di Roma. Premio Einaudi per la
filosofia; socio corr. dell’Accademia dei Lincei, dell’Arcadia, dell’Acc.
Peloritana, socio della Mont- Pelagia Society e dell’Archäologische
Institut. Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea. Suo Carlo Antoni Roma, Cosa che avvenne. F. è diventato socio
ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli
su proposta di Nicolini. Rinvio per queste ed altre notizie
biografiche al volumetto R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni.
Antoni è socio della prestigiosa Accademia Caro F., sono lieto per
la notizia che ella mi dà: così ella potrà assumere l’incarico, che, mi
auguro, sia anche compensato. Lessi con piacere le notizie della Sua
prolusione. Esse mi diedero qualche conforto in un momento di amarezza, quando
cioè mi capitò di leggere sul «Ponte» la cattiva e balorda recensione di
Tommaso Fiore al mio Commento. E dire che costui, appena letto il
libro, mi scrisse una lettera entusiastica! Tumiati, al quale avevo espresso la
mia sorpresa per la pubblicazione di siffatta sconcezza, mi scrisse una lettera
piena di deplorazioni o scuse. Ma chi mi ha recato la serenità è stato
Ragghianti, che, dopo aver fatto un breve ritratto del Fiore, mi ha suggerit o
di seguire l’aurea massima di Flaubert: «Mon cul vous contemple». Ottimo
il Suo articolo in Criterio. Suo Carlo Antoni Roma, Caro F., non ho voluto che ella
attendesse il mio libro dalla ERI e Le ho spedito oggi una delle copie a mia
disposizione. Pannunzio accoglierà volentieri la Sua recensione La recensione
di Fiore al Commento a Croce di Antoni era uscita in «Il Ponte»,
Rivista mensile di politica e letteratura. Tumiati assunse la direzione del Ponte,
fondata da Calamandrei, direzione che condivide per un certo periodo con
Agnoletti. Antoni si riferisce all’artic olo di Franchini sul libro di Sprigge.
Si tratta del libro di Antoni Lo storicismo,
pubblicato dalle edizioni ERI, in cui sono raccolte le conferenze da lui tenute
nell’estate dell’anno precedente per il Terzo Programma della Radio italiana;
la Mio caro Franchini, è da un pezzo che non mi faccio vivo con Lei. Non
Le scrissi quando Ella mi annunciò la fine del «Giornale», ultimo quotidiano
liberale, che, oltre a tutto, era un bel giornale, assai bene redatto. Faceva
onore a Napoli. Per Lei, forse, l’esser costretto ad abbandonare una
continuata attività giornalistica è stato un vantaggio. Ella è ad un punto in
cui deve concentrare i suoi spazi. Non le ho neppure scritto che la prefazione
al Suo nuovo libro mi ha dato molta soddisfazione e mi ha trovato pienamente
consenziente. Attendo ora il libro, di cui voglio occuparmi in un articolo sul
«Mondo» oppure in «Criterio» (che, dopo un intervallo dovuto a indisposizioni
di Ragghianti, riprende ora ad uscire). Sono d’accordo con Lei anche per
quanto riguarda i collaboratori del «Mondo», tra i quali la qualità non
corrisponde spesso alla quantità. Tornato dalla villeggiatura
– sono stato sul lago di Como e in Svizzera -, ho avuto
la sessione d’esami e una sessione del Consiglio Superiore. Altra sessione
di detto Consiglio è prevista per il 23 c.m. Alla fine del mese sarò a
Marburgo, invitato dai filosofi tedeschi a partecipare ad un loro congresso e a
intervenirvi con una conferenza. Cercherò d’istruirli. Con
affettuosi saluti Suo recensione di Franchini dal titolo Una storia
dello storicismo uscì puntualmente su «Il Mondo» nel giugno del ’57
(rist. in Metafisica e Storia, cit.). Il Giornale, quotidiano
liberale come ben sottolineava Antoni, uscì a Napoli. E fondato da Quintieri e
Astarita. F. lavora nella redazione del Giornale: vi è entrato su pressione e
interessamento dello stesso Croce. 61 Il libro di Franchini in
uscita era Metafisica e Storia, edito poi presso l’editore Giannini
di Napoli. Caro F., La ringrazio per aver pensato a me per una conferenza alla
Società filosofica di Napoli e ringrazio pure l’amico Carbonara e gli
altri componenti del Consiglio. La prego, anzi, di esprimere loro la mia
più viva gratitudine per un invito che mi lusinga. Ma è da un pezzo che non
accetto di tenere conferenze. Esse mi recano, infatti, molta tensione e fatica:
non amo leggere, ma il parlare richiede uno sforzo, che mi lascia prostrato. La
prego quindi di scusarmi presso la Società filosofica. Mi auguro di vederla tra
breve qui a Roma. Con saluti affettuosi Suo Antoni Roma. Caro F., ho una certa
intenzione di muovermi per Pasqua, anche per togliermi di dosso una certa
malinconia e irritazione, ma penso che sarò a Roma per l’assemblea dell’associazione.
In caso contrario La avvertirei in tempo. Ho un vivo desiderio di parlare a
lungo con Lei di molte cose, anche perché mi vado sempre più isolando: ciò che
non fa bene alla salute. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma,
Caro F., La ringrazio anzitutto per il Suo interessamento al caso del ragazzo,
che Le avevo raccomandato. Ella ha fatto più di quanto potessi sperare. Il
trafiletto mi sembra andare benissimo: contiene alcune frecciate brillanti.
Naturalmente recherà un dispiacere al nostro Battaglia. Il quale potrà sempre
rispondere che l’organizzazione del congresso è stata diretta da un comitato,
che conteneva fior di laici e che costoro sono stati sempre consenzienti.
A mio avviso il difetto sta nell’assurdo di un congresso filosofico, dove
i filosofi laici, se decidono di intervenire, si presentano necessariamente in
ordine sparso, ciascuno con idee proprie, mentre le chiese vi inviano schiere
compatte e disciplinate. Ho pure qualche riserva da fare sulle parole
dell’amico Calogero, che hanno un significato che non condivido:
dialogare sta bene, ma bisogna guardarsi dal ridurre la filosofia a mero
dialogo, ché si rischia di ridurla ad un attualismo del dialogare, dove il
dialogo stesso diventa fine a sé stesso. Ma questo è un altro discorso. Con
cordialità Trovano in un certo modo conferma le consideraz ioni sulla
nobile solitudine tipica di uno studioso schivo e riservato come e Antoni.
Rinvio alla Introduzione di G. Sasso al carteggio Croce-Antoni. Ancora
strascichi polemici sui Congressi di filosofia in Italia. Mio caro F., in
effetti quella mia frase sull’insolubilità del problema di Scaravelli è p
iuttosto sibillina e può sembrare campata in aria. Mi piace molto che Ella me
ne faccia quasi un rimprovero. Tuttavia in una commemorazione non potevo
passare ad una critica e soprattutto non potevo affrontare per mio conto
l’intera questione. Il problema di Scaravelli era quello di dedurre il
molteplice dall’identico, cioè di scoprire o “capire” come la grande madre
genera i suoi figli. Era, insomma, il problema della creazione del mondo.
Se vogliamo, era anche il problema di derivare l’estetica dalla logica,
l’individuale esistenza dall’universale categoria. Questo, se non erro, era per
lui il problema del “capire”, che, come Ella ben vede, era insolubile. Ma
Ella vede anche che se avessi dovuto spiegare perché il problema era mal posto,
avrei dovuto tenere una vera e propria lezione. Con saluti cordialissimi Suo
Antoni Roma. Antoni aveva tenuto una splendida commemorazione di Scaravelli
nella Sala degli Stemmi alla Scuola Normale di Pisa Scaravelli è scomparso
tragicamente nella primavera di quell’anno. Così Antoni scrive a F.. Ella sa
della tragica morte del mio carissimo amico Scaravelli. Sono stato a Firenze ai
suoi funerali. È uno spirito amabile, brillante, fine, buono e un galantuomo
anche nelle cose filosofiche: è uno dei nostri ed io contavo su di lui. Per me
è una perdita dolorosissima. Caro F., eccellente il suo articolo su Weber. Ella
ha indubbiamente ragione nel trovare un presupposto kantiano o neo-kantiano
nella sua teoria del tipo ideale. Io ne avevo avvertito la presenza, ma non vi
avevo insistito. Assai utile il suo articolo per quei fessi in mala fede che
pretendono di scoprire Weber e di utilizzarlo, assieme a Dilthey, contro CROCE
(si veda). Raramente il rancore, l’arrivismo, la petulanza hanno messo
insieme tanta stupidità. Ma che cosa credono di concludere con questa impresa
sballata? Suo Antoni Roma. Caro F., penso anch’io che la Sua appartenenza
alla Nunziatella possa essere d’ostacolo ad un alleggerimento dei suoi
incarichi scolastici, reso urgente dai suoi incarichi universitari. Ho ricevuto
il suo Kant, ma Le devo confessare che non ho trovato il tempo per
leggerlo. Lo farò nei prossimi giorni. Alla fine di gennaio sono stato a
Zurigo, dove ho tenuto una conferenza e ho parlato alla radio: è stata una gita
splendida, un tempo magnifico, nella Svizzera coperta di neve. Suo Antoni. L’articolo
di F. su Weber e il “regresso” è uscito su Il Mondo. Si
tratta del volume: I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di F.,
Bari, Laterza. Not to be
confused with F., author of ‘I gladiatori. Keywords: I gladiatori. vitale, avvenire, divenire,
storia, historismus, ragione storica, spirito, dialettica, opposti, l’opposto,
il distinto, aequi-vocalita della dialettica – dialettica come metodo della
filosofia, non della scienza; prospettico, prespetico, spetico, giudizio,
l’utile, storia ciclica, storia lineale, filosofia analitica, historimus
philologicus, critica della ragione storica; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Franchini” – The Swimming-Pool Library. Raffaello Franchini. Franchini.
Grice e Franci: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale degl’ostrogoti – la scuola di Ferara – filosofia ferraese –
filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara). Filosofo ferrarese. Filosofo emiliano. Filosofo
italiano. Ferrara, Emilia Romagna. Grice: “I like Franci; for one, he
philosophises and calls his thing ‘studi linguistici,’ for another, he teaches
in a varsity older than mine!” Insegna
a Bologna. i suoi interessi si sono concentrati principalmente sullo studio
delle molteplici manifestazioni della spiritualità. Dopo essersi laureato a
Bologna con Heilmann, ha poi compiuto studi di perfezionamento a Roma sotto la
supervisione di Tucci. Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici,
presidente dell'Accademia delle Scienze e direttore della Biblioteca di
Discipline Umanistiche presso l'Bologna. È stato inoltre Accademico effettivo
dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna; Socio ordinario
dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma; Membro
dell'European Society for Asian Philosophy, Nottingham, Socio Onorario e membro
del Comitato Scientifico dell'Associazione Italia-India; Consigliere
dell'Associazione Italiana di Studi Sanscriti; Vicepresidente del Centro di
Documentazione e Iniziativa per la Pace «Giovanni Favilli»; Membro del Comitato
Direttivo del Centro Studi, Iniziative e Informazioni «Amilcar Cabral»; Membro
del Coordinamento nazionale per l'insegnamento delle culture afro-asiatiche
nella scuola secondaria; Direttore della collana «Studi e testi orientali». Ha
inoltre insegnato presso le Calcutta per tre anni nei primi anni sessanta e di
Firenze. Insegna: Sanscrito Lingue Arie Moderne dell'India Storia dell'India
Moderna e Contemporanea Filosofie, Religioni e Storia dell'India e dell'Asia
Centrale. Gli interessi di Franci si rivolgano principalmente all'India
classica e, in particolare, allo studio del pensiero mistico (bhakti) e
dell'Advaita Vedānta shankariano. Egli non ha mancato comunque di approfondirne
anche gli aspetti moderni e contemporanei:
il ruolo dell'induismo nell'India d'oggi; problematiche relative alla
questione linguistica, con particolare attenzione alle letterature in bengali e
in inglese; studi sul pensiero classico nell'India d'oggi e i pensatori moderni
in generale come Aurobindo. Altre opere: L'Upadesasahasri (Gadyabhaga) di
Sankara: contributo allo studio del Kevaladvaita” (Bologna); “Recenti sviluppi
delle questioni linguistiche indiane, Bologna); “Alcuni problemi e tendenze
della filosofia comparata” (Bologna); “Yoga ed esicasmo, Trapani, “Saggi
indologici, Bologna, La Bhakti: l'amore di Dio nell'induismo, Fossano); “Studi
sul pensiero indiano, Bologna, Piero Martinetti e "Il sistema
Sankhya", Contributi alla storia dell'orientalismo, Giorgio Renato Franci,
Bologna, Luigi Heilmann linguista, indologo, umanista, Bologna, La benedizione
di Babele: contributi alla storia degli studi orientali e linguistici, e delle
presenze orientali, a Bologna, Bologna, L'induismo, Bologna, Il Mulino, Induismo,
prefazione di Gianfranco Ravasifotografie di Andrea Pistolesi, Milano, Touring
Club Italiano, Il Buddhismo, Bologna, Il Mulino, Yoga, Bologna, Il Mulino,
Filosofia indiana Induismo, Treccani L'Enciclopedia italiana".Ostrogoti
antico popolo germanico. Gl’ostrogoti (in latino Ostrogothi o Austrogothi) sono
il ramo orientale dei goti, una tribù germanica che influenza gl’eventi
politici dell’impero romano. Palazzo di Teodorico a Ravenna,
mosaico nella basilica di Sant'Apollinare Nuovo. Sconfissero Odoacre, che ha
deposto Romolo Augusto, ultimo Imperatore Romano d'Occidente, e si insediarono
in Italia. Sono poi sconfitti dai Bizantini. Identità con i Grutungi.
Fibula ostrogota a forma di aquila. La tribù degl’ostrogoti, o austrogothi,
viene citata per la prima volta all'interno della biografia dell'imperatore
CLAUDIO IL GOTICO, attribuita a Trebellius Pollio, appartenente alla raccolta
Historia Augusta. Essi sono ricordati fra le tribù della Scizia che invadeno e
devastarono allora l'impero (all'interno della biografia gl’ostrogoti sono
citati insieme con i grutungi, i tervingi e i visigoti. Secondo Wolfram
le fonti primarie parlano di Tervingi/Grutungi o di Vesi/Ostrogoti senza mai
mischiare le coppie. I quattro nomi vienneno usati contemporaneamente, ma sempre
rispettando le coppie, come in gruthungi, austrogothi, tervingi, e visi. Wolfram
e Burns concludono che il termine "grutungi" è un identificativo
geografico usato dai tervingi per descrivere un popolo che si autodefine ostrogoti.[
Questa terminologia spare dopo che i goti vennero fatti scappare dall'invasione
unnica. A suo supporto, Wolfram cita Zosimo che parla di un gruppo di sciti a
nord del Danubio chiamati grutungi dai barbari dell'Ister. Wolfram conclude che
questo popolo sono i tervingi rimasti dopo la conquista degli Unni. Secondo
questa concezione grutungi ed ostrogoti sono più o meno LO STESSO POPOLO. Che i
grutungi sono gl’ostrogoti è anche il parere di Giordane. Egli identifica i re ostrogoti
da Teodorico il Grande a Teodato come gl’eredi del re Grutungio Ermanarico.
Questa interpretazione, nonostante sia condivisa da molti studiosi, non è
universalmente condivisa. La nomenclatura di grutungi e tervingi cadde in
disuso. In generale, la terminologia di una tribù gotica divisa dagli altri
scomparve gradatamente dopo l'assorbimento fatto dall'impero romano. Heather
ritiene invece che l'identificazione tradizionale degl’istrogoti con i greutungi
è errata. Secondo Heather gl’ostrogoti nasceno dalla coalizione tra i goti Amal
in Pannonia, ex sudditi degl’unni, e i goti foederati dell'Impero in Tracia. I grutungi
che si stanziarono all'interno dell'impero come foederati, secondo Heather, non
sono lo stesso popolo che fonda un regno romano-barbarico in Italia sotto
Teodorico il Grande, ma i progenitori, insieme con i tervingi e i goti
superstiti dell'armata di Radagaiso, dei visigoti. Secondo Heather, i visigoti
nasceno dalla coalizione, sotto Alarico, di TRE gruppi gotici: i tervingi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, i grutungi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, ed i goti di
Radagaiso. INVASA L’ITALIA, vennero sconfitti da Stilicone e arruolati
nell'esercito romano; dopo l'uccisione di Stilicone, vi fu un'ondata repressiva
da parte dell'Impero contro i soldati di origine barbarica, che decisero dunque
di unirsi ad Alarico) Secondo Heather, dunque, i Grutungi sono i progenitori
dei visigoti, non ostrogoti. Genealogia mitologica e storica Þjelvar
(secondo la Gutasaga) Hafþi = Huítastjerna Graipr Guti ovvero
Gapt (o Gautr o Gautar) (anche Gaut, Goto, etc.) (cfr. Giordane) Hulmul
Gautrekr leggendario re dei Geati, Augis "Amala", capostipite
degl’amali, Hisarnis Ostrogota, primo re degl’ostrogoti Hunuil Athal Achiulf
Oduulf Ansila Edilf Vultuuf Hermanaric,
re della tribù gotica dei Grutungi; Valaravans Hunimund Vinitharius Thorismund
Vandalarius Beremund Thiudimer Valamir Vidimer Veteric = Erelieva Eutaric =
Amalasunta Teodorico Amalafrida = N.N.; Audofleda (o Audefleda) Atalarico
Matasunta = Vitige; Germano
Giustino Teodegota = Alarico II; Amalasunta = Eutaric Germano Stor; Posizionamento
degli Ostrogoti in Sarmazia. Il regno gotico in Dacia (Gutthiuda). Secondo
le loro stesse tradizioni erano originari dell'attuale isola svedese di Gotland
e la regione di Götaland. Nel 250 si divisero dai visigoti e nacque
appunto il regno ostrogoto. Il primo re si chiamava Ostrogota ed era della
stirpe degli Amali. Gl’ostrogoti uccideno l'imperatore Decio, più tardi saccheggiarono
alcune isole dell'Egeo e conquistarono la Tracia e la Mesia. La prima
menzione di Ostrogoti si ha nel 269, quando l'imperatore Claudio II li
riconobbe fra i barbari sciti. In quell'anno Claudio II riuscì a fermare
l'avanzata degli Ostrogoti. Nelle prime fasi della loro migrazione dalla
Scandinavia, gli Ostrogoti, o goti d'Oriente fondarono un regno a nord del Mar
Nero (Cultura di Černjachov). Ma ricominciarono le scorrerie e
conquistarono il regno vandalo (che prima della conquista del Nord Africa si
trovava in Dacia) e presero questa popolosa regione. Dopo queste vittorie
assoggettarono popoli slavi(sklaveni) e arrivarono fino al Mar Baltico, e
alcuni storici paragonarono le loro imprese a quelle di Alessandro Magno,
perché avevano creato un regno che partiva dalla Grecia e arrivava fino al mar
Baltico. Invasioni degli UnniModifica Incalzati dagli Unni che li avevano
scacciati dalla loro regione d'insediamento tra il Danubio e il Mar Nero, gl’ostrogoti
chiesero pressantemente asilo a Valente, accalcandosi ai confini dell'Impero,
precisamente lungo il Danubio. L'imperatore Valente accetta di accogliere le
popolazioni barbare come foederati, allo scopo di rafforzare il proprio
esercito e per aumentare la base imponibile del fisco. Gl’ostrogoti si
stabilirono così nel territorio della Mesia e della Dacia. Dopo le
invasioni degli Unni Travolti dall'invasione unna, numerosi nuclei d’ostrogoti
entrano a far parte dell'orda d’Attila. Dopo la morte del condottiero unno, il
popolo ostrogoto si ricostituì e si stanzia lungo il medio corso del Danubio,
in un territorio corrispondente grosso modo all'odierna Serbia. Dopo il
collasso dell'Impero degl’unni, molti ostrogoti vennero spostati
dall'imperatore Marciano in Pannonia con la qualifica di foederati. Durante il
regno di Leone I, dal momento che l'impero romano smise di pagare la quota
annuale, devastano l'Illiria. Venne firmata la pace in seguito alla quale
Teodorico Amalo, figlio di Teodemiro della dinastia Amali, venne mandato a
Costantinopoli come ostaggio, dove riceve un'educazione romana. Regno in Italia
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regno ostrogoto
e Teodorico il Grande. Teodorico sconfigge Odoacre (Antica
pergamena). Estensione del Regno degli Ostrogoti. In Italia, il barbaro
Odoacre DEPONE L’ULTIMO IMPERATORE ROMANO ROMOLO AUGUSTO, DETTO AUGUSTOLO, e
non osando proclamarsi imperatore si proclama RE di un misto di popoli barbari:
eruli, sciri, rugi, gepidi, e turcilingi. Egli riscatta dai vandali con un
tributo la Sicilia, che rimane dunque unita all'Italia e ne segue le sorti.
Caduto l'Impero romano d'Occidente, è rimasto in piedi quello d'Oriente, il cui
imperatore Zenone intende riconquistare l'Occidente, in mano ai barbari.
L'imperatore è preoccupato dall'intraprendenza di Odoacre, che sa governare in
modo da non urtare la suscettibilità dei latini e da estendere i confini del
suo regno. Il periodo vide una lotta a tre tra Teodorico, che successe al
padre, Teodorico Strabone e l'imperatore bizantino Zenone. Nel corso di questo
conflitto le alleanze cambiarono più volte, e buona parte dei Balcani venne
devastata. Alla fine, dopo la morte di Strabone, Zenone scese a patti con
Teodorico. Parte della Mesiae della Dacia vennero cedute ai Goti, e Teodorico
venne nominato magister militum praesentalis e Console. Solo un anno dopo
Teodorico e Zenone ripresero il loro conflitto, e di nuovo Teodorico invase la
Tracia saccheggiandola. Fu allora che Zenone siglò un accordo con Teodorico,
invitandolo a invadere l'Italia in suo nome per scacciare il re degli Eruli
Odoacre che, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo
Augusto ed essersi proclamato rex Italiæ, amministra la penisola in totale
autonomia. In numero forse di 250.000 tra uomini, donne e bambini, da
Nouae risalirono la Sava condotti da Teodorico loro re, si scontrarono con
Odoacre ad Aquileia e lo batterono a Verona. Odoacre scese invano nell'Italia
centrale per ottenere aiuti da Roma. Riguadagnata Ravenna riuscì a battere
l'avversario e a chiuderlo in Pavia: ma i Visigoti, giunti dalla Spagna in
aiuto dei loro consanguinei, ruppero il blocco. La guerra continuò un altro
anno finché Odoacre fu sconfitto definitivamente sull'Adda e venne costretto a
rifugiarsi a Ravenna. Dopo un lungo assedio a Ravenna, Odoacre si arrese a
Teodorico con la promessa di aver salva la vita. Ma Teodorico, violando i
patti, uccise Odoacre a tradimento durante un banchetto, con le proprie mani, e
ne fece uccidere i parenti e i seguaci. Secondo altri, Odoacre fu invece
giustiziato dopo rapido processo condotto dallo stesso Teodorico, in quanto stava
tentando di indurre alcuni generali ostrogoti alla rivolta per riconquistare il
trono. Gl’ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in
Italia, che si estendeva fino alla Pannonia a nord est e alla Provincia, l'odierna
Provenza, a nord ovest. Come Odoacre, anche Teodorico poteva vantare il titolo
di patrizio e rispondeva all'imperatore di Costantinopoli con la qualifica di
viceré d'Italia, titolo riconosciuto dall'imperatore Anastasio. Il suo regno è
caratterizzato da un relativo ordine interno, anche se i luogotenenti reali
violano sovente le disposizioni di Teodorico di rispettare la popolazione
latina. Molti proprietari terrieri ancora fedeli al paganesimo sono eliminati
con l'accusa di schiavismo, ma in molte circostanze è un pretesto per
consentire ai possidenti barbari e collaborazionisti (tra cui Quinto Aurelio
Memmio Simmaco) di ingrandire le loro proprietà. Il regno sopravvive fino
all'intervento diretto in Italia dell'imperatore d'Oriente Giustiniano e alla
susseguente guerra goto-bizantina. La caduta Magnifying glass icon
mgx2.svg Guerra gotica. Impero di Teodorico - La mappa mostra i regni
germanici nel 526, l'anno in cui morì Teodorico. Oltre all'Italia, la Dalmazia
e la Provenza, regnò anche sui Visigoti. Dopo la morte di Teodorico del 30
agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. Successore di
Teodorico fu il neonato nipote Atalarico, tutelato dalla madre Amalasunta come
reggente. La mancanza di un erede forte portò a una rete di alleanze che
condussero lo stato ostrogoto alla disintegrazione: il regno visigoto
riconquista la propria autonomia sotto Amalarico, i rapporti con i vandali
divennero ostili, e i franchi incominciarono una nuova campagna espansionistica
sottomettendo i turingi, i burgundi e quasi sfrattando i visi-goti dalla loro
patria, la gallia meridionale. La posizione di predominanza che il regno
ostrogoto acquisì grazie a Teodorico in Europa occidentale passa ora ai franchi.
Non sopportando la reggenza di una donna, né l'educazione romana impartita al
ragazzo, né i rapporti ossequiosi d’Amalasunta verso Bisanzio e neppure il suo
spirito conciliante verso i Romanici, la nobiltà gota riusce a strapparle il figlio
e a educarlo secondo le usanze del suo popolo. Tuttavia Atalarico si da a una
vita di sperperi ed eccessi trovando una morte prematura. Allora Amalasunta,
che vuole mantenere il potere, sposa suo cugino Teodato, duca di Tuscia.
Costui, però, la relega in un'isola del lago di Bolsena, dove poi la fa
uccidere da un suo sicario. L'esilio e l'assassino d’Amalasunta è il casus
belli che permitte a Giustiniano di invadere l'Italia. Teodato tenta d’evitare
la guerra, spedendo messaggeri a Costantinopoli, ma Giustiniano è già pronto a
reclamare l'Italia. Solo la rinuncia al trono di Teodato, e la consegna del suo
regno all'impero, avrebbero evitato la guerra. Il generale incaricato di
dirigere le operazioni è BELISARIO (melodramma), che da poco aveva combattuto
con successo contro i vandali, a cui furono affidati 10.000 uomini tra
comitatensi, foederati e buccellarii. Il generale bizantino conquista
velocemente la Sicilia, per poi occupare Reggio Calabria e Napoliprima. È a
Roma, costringendo alla fuga il nuovo re dei goti Vitige che da poco è stato
chiamato a sostituire Teodato. Rimase fermo a lungo a Roma poi, grazie a
rinforzi giunti da Costantinopoli, il generale spedì Narsete a liberare
Ariminum (Rimini), e Mundila (che battè i Goti a Pavia) a conquistare
Mediolanum (Milano). I conflitti interni fra Narsete e Belisario fecero sì che
Milano, assediata, dovette capitolare per fame venendo saccheggiata da 30.000 goti
che, guidati da Uraia, trucidarono gli abitanti. Ritratto di
Teodato su una sua moneta. Nel frattempo erano arrivati in Italia anche i
Franchi e i Burgundi, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto.
Belisario riuscì a espugnare Ravenna, capitale degli Ostrogoti, e a catturare
Vitige, grazie a un'astuzia: finse di accettare l'offerta da parte dei Goti di
diventare loro re per farsi aprire le porte e conquistarla. In seguito alla
caduta di Ravenna, il tesoro regio e la corte furono trasferite a Pavia, dove
già Teodorico aveva fatto realizzare un Palazzo reale.Giustiniano, spaventato,
richiamò in patria Belisario lasciando campo libero ai Goti. Sale al potere
Totila, che ottenne l'appoggio della popolazione italica grazie a una politica
agraria di eguaglianza, in base alla quale i servi, affrancati, si arruolavano
in massa nell'esercito di Totila. Grazie a questo e ad altri fattori,
riconquistò l'Italia settentrionale. Totila arrivò fino a Roma assediandola e
conquistandola; per la sua difesa venne richiamato Belisario che la riprese.
Giustiniano, dopo aver richiamato Belisario, lanciò una nuova campagna di
conquista dell'Italia, con a capo Germano. Durante la riconquista di Roma
guidata da Narsete, Totila venne ferito e morì poco dopo. Il successore di
Totila fu Teia che, sconfitto velocemente, fu anche l'ultimo re dei Goti. La
sua sconfitta non determinò però l'automatica sottomissione delle guarnigioni
ostrogote, che, pur non eleggendo un nuovo re, continuarono avanti una lotta
disorganizzata, chiamando in loro aiuto i Franchi-Alamanni condotti da Butilino
e Leutari: Narsete, comunque, riuscì a sconfiggere i franco-alamanni,
spingendoli al ritiro e nello stesso tempo ottenne la sottomissione delle
ultime fortezze ostrogote della Tuscia, di Cuma e di Conza. Rimaneva però
ancora da conquistare la regione transpadana, in cui i goti, condotti da Widin,
non avevano intenzione di arrendersi e avevano ottenuto inoltre l'appoggio del
comandante franco Amingo: la loro resistenza durò fino a quando Narsete
sconfisse sia Widin sia Amingo e sottomise Verona, Pavia e Brescia, le ultime
sacche di resistenza. La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i
territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò
tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila
a favore dei contadini. Gli Ostrogoti, in seguito alla vittoria bizantina,
scomparvero praticamente come componente demica, venendo dispersi o arruolati
come mercenari per servire in Oriente nell'esercito bizantino, mentre pochi
rimasero in Italia; la Chiesa ariana venne perseguitata e molti Ostrogoti
vennero convertiti al cattolicesimo, salvo poi essere riassorbiti dai
Longobardi. CulturaOrecchini ostrogoti in stile policromo, Metropolitan
Museum of Art, New York. Architettura A causa della breve storia del regno,
l'arte d’ostrogoti e romani non sube una fusione. Sotto il patrocinio di
Teodorico e Amalasunta, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici
dell'antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici
monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Basilica di
Sant'Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono
uno stile architettonico tardo romano, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra
elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero
preferiti blocchi di calcare istriano, o il tetto in monoblocco di pietra da
300 tonnellate. Buona parte dei lavori di letteratura gotica (redatti
durante il regno ostrogoto) sono IN LINGUA LATINA, nonostante alcuni dei più
vecchi siano stati tradotti in greco e IN GOTICO (ad esempio il Codex
Argenteus). Cassiodoro, provenendo da un contesto diverso, ed esso stesso
incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister
officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le
stesse origini, serve lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle
sue opere del tempo. Il suo Chronica, usato in seguito da Giordane per il
proprio Getica, e altri panegirici scritti da lui e da altri romani per i re goti
del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei signori goti stessi. La sua
posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un
epistolario di comunicazioni di stato, che ci permette un'ottima conoscenza
della diplomazia gotica del tempo. Fibbia di cintura ostrogota da
Torre del Mangano, VI secolo, Pavia, Musei Civici BOEZIO (si veda) è un'altra
importante figura del tempo. Ben educato e proveniente da una famiglia
aristocratica, scrive di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più
famoso, il De consolatione philosophiæ, venne scritto mentre si trovava
imprigionato con l'accusa di tradimento. Re ostrogoti Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sovrani ostrogoti. Dinastia
degli Amali Valamiro Teodemiro Teodorico AtalaricoTeodato Re successivi Vitige
Ildibaldo Erarico Totila (anche conosciuto come Baduela) Teia. Picotti,
Ostrogoti in Enciclopedia Italiana Treccani Trebellius Pollio, Historia Augusta
- Divus Claudius Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno Herwig Wolfram, Burns,
A History of the Ostrogoths (Bloomington: Indiana Wolfram Heather, Peter, The
Goths, Blackwell, Malden, Heather Heather Wolfram Giordane, Getica, Bury; AA.VV.,
Dall'impero romano a Carlo Magno, in La Storia, Milano, Mondadori, Settia, Il
fiume in guerra. L'Adda come ostacolo militare (V-XIV secolo)", Studi
storici, Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino: Einaudi Bury Bury
History of the Later Roman Empire, Procopio di Cesarea, De Bello Gothico
Brandolini, Pavia: Vestigia di una Civitas altomedievale. Majocchi, Sviluppo e
affermazione di una capitale altomedievale: Pavia in età gota e longobarda,
"Reti Medievali – Rivista, rmojs.unina.it index.php/rm/article Reti
Medievali Fonti primarie Procopio di Cesarea, De bello Gothico, Giordane, De
origine actibusque Getarum ("Origine e azioni dei Goti"). traduzione
di Mierow Cassiodoro, Chronica Cassiodoro, Varia epistolae
("Lettere"), presso il Progetto Gutenberg Anonymus Valesianus,
Excerpta, Par. II Fonti
secondarieModifica In inglese Gibbon, History of the Decline and Fall of the
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La «civilitas» di Teoderico: rigore amministrativo, «tolleranza» religiosa e
recupero dell'antico nell'Italia ostrogota, Roma, L'Erma di Bretschneider Goti
Sovrani ostrogoti Regno ostrogoto Lingua gotica Teodorico il Grande Grutungi
Ostrogoti, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Ostrogoti, su
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ostrogoto regno ostrogoto in Italia; Tervingi Grutungi. Keywords: i ostrogoti, Staal,
Grice on Indian Philosophy – ‘the Indian philosophical culture” “The Western
European philosophical culture” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franci” –
The Swimming-Pool Library. Giorgio
Reato Franci. Franci.
Grice e Francia: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei centauri – la scuola di Firenze – filosofia fiorentina –
filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo
toscano. Filosofo italiano. Fireze, Toscana. Grice: “Francia is a good one; for
one, he philosophised on ‘not’: “il rifiuto.”” Grice: “Italians use rifiute and confute – as we
do!” – Grice: “Ryle used to say, to provoke Popper, that ‘to refute’ is pretentious,
when “to deny” does!” Figlio del
generale e geografo Orazio e di Gina Mazzoni, dopo gli studi liceali si laurea
Firenze con Carrara, di cui diviene. Insegna a Firenze. Al contempo, svolse
attività di ricerca all'Istituto Nazionale d’Ottica di Arcetri, diretto da Vasco
Ronchi. Lavora presso il centro di ricerca ottica della Ducati di Bologna fino
a quando divennne professore straordinario di onde elettromagnetiche a Firenze,
quindi ordinario della stessa disciplina all'istituto nazionale d’Ottica
(Arcetri), dopo anni di ricerca e di insegnamento all'Rochester. Passa a Firenze,
come ordinario di ottica su una cattedra appositamente creata per lui.
Contemporaneamente, collabora con l'Istituto di ricerca sulle microonde del CNR
di Firenze, fondato da Nello Carrara. Fonda e diresse sia l'Istituto di ricerca
sulle onde elettromagnetiche, oggi Istituto di Fisica Applicata del CNR, che
l'Istituto di Elettronica Quantistica (sempre del CNR). Ordinario di fisica a Firenze.
Altresì presidente della Società italiana di fisica, della International
Commission for Optics della Società italiana di logica e filosofia della
scienza, del Forum per i problemi della pace e della guerra e della Scuola di
musica di Fiesole, oltre l'ambito scientifico F. ha vasti interessi culturali,
occupandosi approfonditamente tra l'altro di filosofia della scienza. Socio
nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei, è anche un appassionato
dantista. È padre dell'architetto Cristiano F.. Si occupa
variamente di fisica matematica, di ottica, di microonde, di laser, di
meccanica quantistica, di elettrodinamica, di fondamenti della fisica, di
epistemologia, di informatica. Tra i suoi contributi principali sono da
ricordare, nel campo dell'ottica, la formulazione del concetto di
super-risoluzione (Toraldo filters) e del principio dell'interferenza inversa (prodromico
alla nozione di olografia), nonché la dimostrazione sperimentale dell'esistenza
delle onde evanescenti (evanescent waves). I suoi contributi più recenti
hanno riguardato la didattica della fisica, la divulgazione della filosofia
della scienza e i rapporti tra scienza e società nonché tra cultura scientifica
e cultura umanistica. Tra l'altro, in collaborazione ha curato e tradotto in
italiano il noto trattato La fisica di Feynman, opera didattica di Feynman. Altre
opere: Fisica per architetti, Edizioni Universitarie, Firenze); “Onde
elettromagnetiche, Zanichelli, Bologna); “Radiazione, Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Diffrazione” (Einaudi, Torino);
“Il fotone e l’elettrone”; Istituto di Fisica, Università degli Studi di
Firenze, Firenze, “L’accelerazione della particella” Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze); “Elettrodinamica e radiazione” Istituto
di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze. “Il metodo geometrico ed
il metodo aritmetico della fisica” Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Radiazione”, Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Il fisico (Einaudi, Torino); “Il fisico” (Guaraldi,
Firenze-Rimini, Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di
oggi e di domani, Einaudi, Torino, Problemi dei fondamenti della fisica, Scuola
Internazionale di Fisica, Varenna sul Lago di Como, Società Italiana di Fisica,
Editrice Compositori, Bologna, Le teorie fisiche. Un'analisi formale (Bollati
Boringhieri, Torino); “L'amico di Platone. L'uomo nell'era scientifica”
(Vallecchi, Firenze); “Le cose e i loro nomi” (Laterza, Roma-Bari); Fisica per il licei” (La Nuova Italia,
Firenze); “La grande avventura della scienza, Istituto di Fisica, Università
degli Studi di Firenze, Firenze, “La scimmia allo specchio. Osservarsi per conoscere”
(Laterza, Roma-Bari); “Un universo troppo semplice. La visione storica e la
visione scientifica del mondo, Feltrinelli, Milano); “Tempo, cambiamento,
invarianza” (Einaudi, Torino, Dialoghi di fine secolo. Ragionamenti sulla
scienza e dintorni” (Giunti, Firenze); -- EX ABSURDO “Ex absurdo. Riflessioni
di un fisico, Feltrinelli, Milano); “In fin dei conti, Di Renzo Editore, Roma);
“Il pianeta assediato. Conversazione di fine millennio” Le lettere, Firenze, Nascita
di un uomo moderno, Edizioni CNSL, Recanati, Introduzione alla filosofia della
scienza” (Laterza, Roma-Bari, Metodi matematici della fisica, Edizioni IFAC,
Firenze,. Elettrodinamica e teoria della radiazione (Renzo Vallauri e Daniela
Mugnai), Edizioni IFAC, Firenze. Per le notizie biografiche qui riportate, ci
si riferisce a R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo
scientifico di Giuliano Toraldo di Francia", Quaderni della Società
Italiana di Elettromagnetismo, cfr. anche aif/ fisico/biografia-f./ Elenco dei Professori di Firenze Archiviato, Florence, Italian
Physical Society, Editrice Compositori, Bologna, R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo,
Breve nota sul contributo, Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo,
E. Castellani, "Nodi d'invarianti:
l'eredità", scienziato umanista, Le Scienze, E. Agazzi, "Ricordo", Epistemologia,
Breve nota sul contributo, su elettromagnetismo. Angela, Dialoghi di fine
secolo: ragionamenti sulla scienza e dintorni, Giunti, In ricordo, Riccardo Pratesi, Società italiana
di fisica. Teatro dell'assurdo Lingua Segui Storia del teatro occidentale
Teatro greco Tragedia greca Commedia greca Dramma satiresco Autori classici
greci Teatro latino Atellana Cothurnata Fescennino Praetexta Palliata Satira
latina Togata Autori classici latini Teatro medievale Sacra rappresentazione
Mistero Moralità Masque Dumbshow Commedia elegiaca Teatro moderno Commedia
umanistica Teatro erudito Dramma pastorale Teatro rinascimentale Teatro
elisabettiano Commedia dell'arte Commedia ridicolosa Comédie larmoyante Dramma
romantico Dramma borghese Dramma politico Teatro contemporaneo Regia teatrale
Teorici del teatro Teatro epico Teatro dell'assurdo Varietà Storia della danza
Storia del mimo e della pantomima Storia del circo Visita il Portale del Teatro
Teatro dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte
da alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra gli anni quaranta e gli anni
sessanta, a volte prolungato agli anni settanta per quel che riguarda poi il
lavoro di alcuni autori particolari. Con lo stesso termine si identifica anche
tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori. Etimologia Il
termine venne coniato dal critico Esslin, che ne fece il titolo di una sua
pubblicazione, The Theatre of the Absurd. Per Esslin il lavoro di questi autori
consiste in una articolazione artistica del concetto filosofico di ASSURDITÀ dell'esistenza,
elaborato dagli autori dell'esistenzialismo (si vedano ad esempio le tesi di
Sartre e quelle successive di Camus, esposte anche nelle proprie produzioni
narrative e appunto TEATRALE, oltre a quella consueta saggistica). Le
caratteristiche peculiari del teatro dell'assurdo sono il deliberato abbandono
di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio
logico-consequenziale. La struttura tradizionale (trama di eventi, concatenazione,
scioglimento) viene pertanto rigettata e sostituita da una successione di
eventi priva di logica apparente, legati fra loro da una labile ed effimera
traccia (uno stato d'animo o un'emozione), apparentemente senza alcun
significato. Il teatro dell'assurdo si caratterizza per dialoghi volutamente
senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il sorriso
nonostante il senso tragico del dramma che stanno vivendo i personaggi.
Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo (che potrebbe avere come
"padre" letterario Jarry) vanno ricordati Beckett, Tardieu, Ionesco,
Valentin, Adamov e Schehadé. Una seconda generazione ha avuto come protagonisti
Pinter, Pinget, Vian e Mrożek. Anche Genet, autore di Le serve, era stato
inizialmente inserito da Esslin nel gruppo originario. Fra gl’autori
italiani, è spesso accostato al teatro dell'assurdo CAMPANILE (si veda),
indicandolo come un precursore. Esslin, The Theatre of the Absurd, Garden City,
Doubleday et Company, Assurdo Esistenzialismo Generi teatrali Patafisica Teatro
dell'assurdo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Voce Teatro
dell'assurdo nel Dizionario dello Spettacolo del '900, su Delteatro Portale
Letteratura Portale Teatro Esistenzialismo corrente di
pensiero Ionesco scrittore e drammaturgo francese Camus et la Parole manquante Langue Suivre
Camus et la Parole manquante est un essai de Costes consacré à Camus et publié.
Le
cheminement intellectuel de l'écrivain est étudié sous un angle
psychanalytique, et décomposé en trois cycles: le cycle de l'absurde, le cycle
de la révolte et le cycle de la culpabilité. Camus et la Parole manquante
Costes France Essai Payot Science de l'Homme Série Étude psychanalytique
modifier Consultez la documentation du modèle Camus parole.jpg Cadre conceptuel
Costes se propose de saisir le cheminement intellectuel d'un des écrivains
français les plus lus, aussi bien dans son pays que dans le monde. C'est à
dessein qu'il a placé cette citation de Camus en tête de son
ouvrage: Comme les grandes œuvres, les sentiments profonds signifient
toujours plus qu'ils n'ont conscience de le dire. Le Mythe de Sisyphe. Costes
fonde son étude sur une double approche, à la fois textuelle sur l'analyse des
textes de Camus -la plus exhaustive possible- et sur une approche biographique
de l'homme. Pour lui, les deux approches sont complémentaires pour rendre
compte le plus exactement possible de ce qui a fondé la démarche camusienne.
Son objectif est de rechercher ce qui fait le désir de création d'un écrivain
comme lui et de s'attacher à expliquer les modes de sublimation littéraire :
pourquoi est-il devenu écrivain, où puise-t-il son énergie créatrice? Il est
certain que dans son cas le fait parental est un élément évident. D'une part,
il n'a pas suffisamment connu son père, mort pendant la guerre, un an après la
naissance d'Albert, pour en garder la moindre image. D'autre part, sa mère,
douce et peu loquace, s'est toujours effacée derrière la figure autoritaire de
la grand-mère. L'enfant est donc rapidement confronté à une forte absence
parentale. Pour combler ce manque, il va rechercher en particulier des
substituts de père, qu'il va trouver chez son instituteur Germain puis chez
Grenier, son professeur de FILOSOFIA au LICEO LIZIO d'Alger (ce qu'Alain Costes
appelle des imagos). Il leur impute son amour pour le football, dont son
instituteur était particulièrement féru, de la nage et de la mer, qui lui
viendrait de son oncle tonnelier qui vivait avec eux chez la grand-mère, et de
l'écriture qu'il tiendrait du professeur Grenier. Son amour du théâtre en
découle largement. Le théâtre transportait Camus dans le monde qui était
exactement le sien du fait de ses identifications paternelles littéraires.
Cycle de l'absurdeModifier Sisyphe. L'homme que je serais si je n'avais
été l'enfant que je fus. Carnets. Apparemment, La mort heureuse son premier
roman, s'inscrit dans un cadre œdipien banal: Mersault entretient une liaison
avec Marthe qui va de temps en temps voir Zagreus, son ancien amant. Mais
Mersault tue Zagreus dans une crise de jalousie. Tout se complique cependant:
Mersault a surtout tué Zagreus pour le voler, Zagreus l'estropié, (comme
l'oncle de Camus) infirmité qu'il a rapportée de la guerre, cette guerre où son
père est mort. Voilà la raison essentielle du meurtre de Zagreus par Mersault,
cet homme silencieux qui rappelle à Camus cette mère absente et murée dans son
silence. L'analyse d'Alain Costes est confortée par un article où les
difficultés de Meursault se traduisent ainsi: échec du travail de deuil, perte
de contact avec la réalité et rupture des relations objectale. C'est en quelque
sorte le fantasme de Camus qui a pour titre L'Étranger. L’ambivalence de
Camus, le côté positif qu’il investit dans la Nature idéalisée et le côté
négatif d’une perte de contact avec la réalité, c’est d’abord son premier
recueil de nouvelles où l’on retrouve dans le titre cette dualité: l’endroit »
qu’il projette sur la Nature, sur l’amour et l’envers qui représente le monde
absurde et angoissant. Face à cette angoisse, à ses tentations suicidaires – le
suicide est « le seul problème philosophique - Camus veut exprimer son pari
pour la vie, par-delà l’absurde à travers l’analyse qu’il livre dans Le Mythe
de Sisyphe. Quoi qu’il en soit, écrit Costes, la pierre angulaire de la
pensée de Camus réside dans les silences de sa mère. Comme les mythes, les
silences sont faits pour que l’imagination les anime. Il rêve d’une philosophie
du minéral, à force d’indifférence et d’insensibilité, il arrive qu’un visage
rejoigne la grandeur minérale d’un paysage. C’est la bonne mère Nature
qui réapparaît mais sous une forme dénudée, hiératique, celle où il est souvent
question de pierre ou de désert. Le Malentenduaussi est une tragédie du
mutisme, de la non communication, comme toutes les œuvres du cycle de l’absurde.
Quand Camus termine Le Malentendu, il note dans ses carnets. C’est le goût de
la pierre qui m’attire peut-être tant vers la sculpture. Elle redonne à la
forme humaine le poids et l’indifférence sans lesquels je ne lui vois de vraie
grandeur. Comme le sculpteur qui fait parler la pierre, Camus peuple le silence
maternel de ses fantasmes ». C’est le mythe de Niobé, réduite au silence pour
avoir provoqué la mort de ses enfants. Ce silence qui fascine tant Camus et lui
renvoie l’image de sa mère, il va le vaincre par l’écriture, oralité du
langage, qui tient aussi à son père mort et à son oncle muet. Cycle de la
révolte La révolte selon Delacroix La conception de La Peste est difficile,
laborieuse, trois versions se succèdent pour composer, recomposer, peaufiner
son texte. Pour Alain Costes, ce long et pénible travail exprime la «
restructuration progressive du moi physique camusien. Camus précise ainsi son
objectif: Faire ainsi du thème de la séparation le grand thème du roman; c’est
le thème de la mère qui doit tout dominer. C’est un Camus recomposé en 4
personnages, expression de la restructuration de son Moi: le docteur Rieux est
le résistant Camus, Tarrou est le fils dont le père (comme celui de Camus)
assista à une exécution capitale, Rambert le journaliste que la peste sépare de
sa femme et Grand le long travail de création. Est jouée la première de
L’État de siège. Dans cette pièce, les habitants de Cadix vivent une vie
insouciante quand survient le tyran Peste et sa secrétaire. Seul Diego s’oppose
au tyran et se sacrifiera pour qu’il parte. Mais ici c’est l’image paternelle
du tyran qui est maléfique, alors que l’imago maternel est valorisé et Diego va
engager une lutte victorieuse contre le Père. Cette évolution indique selon
Alain Costes, que Diego-Camus « aborde très clairement la situation œdipienne
». Les Justes, cette pièce ou des révolutionnaires russes doivent tuer le
Grand-duc, représentant du tsar (donc le Père) repose sur l’histoire du meurtre
du père et l’histoire d’une passion avec Dora-Kaliayev. Les amants se
rejoignent enfin au-delà de la mort dans un acte qui transcende leur amour
contrairement à l’histoire de Victoria et de Diego dans L'État de siège. C’est
pourquoi Costes peut soutenir que pour la première fois, on y trouve une
problématique authentiquement œdipienne. Lors de la gestation de L'Homme
révolté, Camus prend ses distances vis-à-vis de ses premiers maîtres, André de
Richaud, André Gide, André Malraux, les philosophes allemand et même Grenier
dont il dit : rencontrer cet homme a été un grand bonheur. Le suivre aurait été
mauvais, ne jamais l’abandonner sera bien. L’Homme révolté, c’est la recherche
de la mesure, ce qu’il appelle la pensée de Midi. Camus veut dépasser le thème
de l’absurde en repartant du mythe de Sisyphe, je crie que je ne crois à rien
et que tout est absurde, mais je ne puis douter de mon cri et il me faut au
moins croire à ma protestation. C’est ce dépassement qui devient révolte.
Touche après touche, Camus trace à partir des faits accumulés (le recours au
rationnel) ce qu’il appelle la mesure, qui doit permettre de concilier
dimensions personnelle et collective, justice et liberté. On assiste selon
Alain Costes au « passage d’une pensée antithétique à une pensée dialectique,
La Pensée du Midi, synthèse de liberté et de justice, de culpabilité et
d’innocence, d’individuel et de collectif, de personnel et de
lucide. Cycle de la culpabilité Schéma de la culpabilité Dans L'Exil et le
Royaume, aussi bien Janine La Femme infidèle dépressive qui, dans le Sahel loin
de chez elle, perd ses repères et sa confiance en elle-même que dans Le
Renégat, cet « esprit confus qui cherche une rédemption masochiste jusque dans
le désert saharien, ces deux héros dépressifs se vivent en tant qu’objet, « en
état de totale dépendance », en quête d’un objet perdu (le mari pour elle et le
père pour lui). On retrouve cette tendance dans la nouvelle Retour à
Tipasa où Camus est effectivement retourné, mais en hiver cette fois, contraste
marquant avec le Tipasa de Noces écrasé de soleil. Il y trouve un temps de
mélancolie et la frustration du retour à Paris car « il y a la beauté et il y a
les humiliés ». Il emportera « une petite pièce de monnaie, beau visage femme
côté pile et face rongée de l’autre côté. La dépression latente,
l’extrême difficulté à écrire s’inscrit dans les deux Jonas. La nouvelle conte
l’histoire –très autobiographique- d’un peintre qui laisse envahir sa vie et ne
parvient plus à exercer son art. Il en arrive à vivre dans la gêne, à se
réfugier dans une espèce de cagibi dans lequel Costes voit comme un rappel de
l’utérus, régression ultime de la dissolution du Moi. Dans la seconde version
plus optimiste, un mimodrame, Jonas se reconstruit en peignant une immense
toile mais sa prise de conscience sera fatale à son 'objet', à sa femme qui
dépérit et finit par mourir. Dans la seconde version, Camus est dans son
élément, la réalité théâtrale où il va désormais se réfugier pour quelques
années, échappant dans l’adaptation théâtrale au contenu, au fond qu’il
emprunte aux auteurs qu’il adapte. La seule nouvelle de L'Exil et le
Royaume qui soit plus « optimisme (porte ouverte au Royaume) s’intitule La Pierre
qui pousse. Cette pierre rappelle bien sûr le rocher de Sisyphe mais ici le
héros d’Arrast va se débarrasser de sa pierre en la déposant chez son ami le
coq. Selon Alain Costes, ce n’est qu’en retrouvant la parole par sa discussion
avec le coq que d’Arrast va pouvoir « évacuer son objet persécuteur (jeter sa
pierre) et clore son travail de deuil. Dans La Chute, son héros Clamence
va s’infliger un châtiment radical pour apaiser sa culpabilité, devenir sourd à
ce cri, ce corps qui tombe à l’eau et le poursuit depuis si longtemps. Il
s’installe dans cette ville de canaux et de brume, lui qui n’aime que le soleil
de la Méditerranée, dans le « malconfort », « cette cellule de basse-fosse »,
comme Jonas va s’isoler dans sa soupente. De là, il va pouvoir prendre à témoin
le monde entier, s’auto accuser, « projeter son surmoi sur le monde extérieur
», se réfugier dans ce personnage double de juge-pénitent. Ces années
cinquante sont les années où Camus se lance dans l’adaptation et la direction
théâtrale. Il y a, comme le note Quilliot, des raisons objectives, le décès de
Marcel Herrand, la crise physique et morale confinant à la dépression qui
mobilise une partie importante de ses forces. Mais Costes y voit surtout
l’omnipotence des images du père, retour au théâtre, retour aux grandes
admirations adolescentes, retour au Père. Camus tourne une nouvelle page. C’est
en janvier, la première des possédés qui lui a coûté tant de temps et
d’efforts, en novembre il commence à écrire Le premier homme, double quête de
la mère et du père où Camus avait retrouvé sa créativité à travers la
sublimation par l’écriture. Références psychanalytiques Camus aborde
plusieurs concepts psychanalytiques dans son œuvre: Surmoi: phase
postérieure à la liquidation de l'Œdipe, trouvant sa source dans
l'intériorisation des interdits parentaux et constitue le représentant
psychique de la réalité extérieure ; Désintrication: arrêt d'une situation
entremêlée; Parents combinés: fantasme très archaïque, précédant la scène
primitive, défini par Mélanie Klein où les parents apparaissent confondus dans
une relation sexuelle ininterrompue; Processus primaire : Ensemble des
mécanismes de l'appareil psychique de l'inconscient, produisant rêve et
symptôme, lapsus et œuvre d'art. Les processus principaux sont le déplacement,
la condensation et le retournement dans le contraire; Processus secondaire:
Mécanisme qui joue sur le pré conscient et l'inconscient avec révision du désir
après examen de la réalité extérieure. Germain à qui il dédiera ses Discours de
Suède, donc d'une certaine façon son prix Nobel de littérature. Image
fantasmatique des représentations des deux sexes avec qui le sujet a vécu une
relation affective durable. On peut ainsi discerner d'une façon très générale:
l'imago de la bonne mère ou l'imago de la mauvaise mère (même chose pour le
père. Camus sera d'abord un gardien de buts accompli au Racing club d'Alger
puis un supporter assidu à Paris. Pour un portrait de cet oncle qui vivait avec
eux à Alger, voir la nouvelle Les Muets dans le recueil L'Exil et le Royaume.
Voir ses nouvelles autobiographiques dans L'Envers et l'Endroit. Pichon-Rivière
et Baranger, Répression du deuil et intensification des mécanismes et des
angoisses schizo-paranoïques, Revue française de psychanalise. Ne pas confondre
Mersault héros de La Mort heureuse et Meursault héros de L'Étranger. Perte du
réel qui finit par une stupeur catatonique. Dont le fantasme se focalise sur un
objet. La pièce de Ben Jonson qu’il donne avec sa troupe du Théâtre du travails’intitule
La Femme silencieuse. Carnets, édition de la Pléiade. Voir les nouvelles La
Halte d’Oran ou le Minotaure et Le Désert. La tragédie n’est-elle pas toujours
“malentendu” au sens propre du terme, stupeur et pour tout dire, surdité »
commente Quillot dans son essai sur Camus La Mer et les Prisons. Morvan
Lebesque écrivait déjà dans son essai sur Camus: En Rieux, en Tarrou, voire en
Joseph Grand ou en Rambert, c’est Camus lui-même qui se rassemble. Carnets. Costes
résume ainsi ces nouvelles : « Janine en quête d’un homme, le Renégat courant
de père en père, les muets réduits (eux aussi) au silence par leur patron, Daru
dans L’Hôte rendu étranger à son pays du fait de la loi, d’Arrast, Jonas et
Clamence ulcérés par les exigences de leur surmoi, tous sont torturés par une
problématique dont la plaque tournante est l’imago paternelle Nouvelle intégrée
au recueil L'Été. Cette disparition prématurée oblige Camus à prendre la
direction du festival d’Angers. Camus recherchera la tombe de son père avant
d’aller s’y recueillir à Saint-Brieuc. Chasseguet-Smirgel, Dépersonnalisation,
phase paranoïque et scène primitive, Revue française de psychanalyse, Camus et
la Parole manquante. Pichon-Rivière et Baranger, Notes sur l'Étranger de Camus,
Revue française de psychanalyse; Durand, Le Cas Camus, Fischbacher, Luppé,
Camus, Universitaires, Simon, Présence de Camus, Nizet, Grenier, Les Îles,
Gallimard, Onimus, Camus, Desclée de Brouwer / Fayard, Ginestier, Pour
connaître la pensée de Camus, Gallimard, Boone, Camus, coll. La Plume du temps,
éd. Henri Veyrier, Liens internes Société des études camusiennes Culpabilité
(psychanalyse) icône décorative Portail de la littérature française Le Mythe de
Sisyphe ouvrage d'Albert Camus Cycle de l'absurde La Mort heureuse livre
de Camus. Keywords:
i centauri, ex absurdo; scientific realism, philosophy of physics, foundations
of physics; geometry and arithmetics as the methods in physics; observation and
perception, ‘what the eye no longer sees’ – ‘we see with our eyes”; Eddington’s
two tables – teoria relativistica, theory of relativity – theory of the
absolute, particella, relativita, assoluto/relativo – relative-assoluto –
Galilei – H. P. Grice’s discussion of the ‘relative-absolute’ distinction
vis-à-vis R. M. Hare (‘there are no absolute values’) as cited by colonial
philosopher J. L. Mackie in ‘Inventing right and wrong’ ‘absolute value’
‘relative value’, Lemarchand, theatre, not Esslin. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francia” – The
Swimming-Pool Library. Giuliano
Toraldo di Francia. Francia.
Grice e Franzini: la ragione conversazionae e l’implicatura
conversazionale dell’espressione – scuola di Milano – filosofia milanese –
filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo.
Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Franzini; for one, he
philosophised on aesthetics and passions (‘passioni’). Sir Geoffrey [Warnock] and I
philosophised on the former, if not the latter!” Si laurea con Giovanni Piana e Dino Formaggio.
Insegna a Milano e l'Udine. Studia Husserl e la fenomenologia, nonché della
filosofia francese, ha indagato sul fronte storico e teoretico alcuni temi
cruciali dell'estetica, quali la “creazione”; “simbolo” (‘to throw two things
together, so that the recipient compares them!); “immagine”; “experienza estetica inter-soggetiva”. Sulla
scorta di una ricognizione della genesi settecentesca dell' “estetica”, vista
quest'ultima come punto di incontro tra doxa ed episteme, fra sentimento e
ragione, fra il noetico e l’estetico, -- “La noetica di Grice” -- indaga lo
statuto dell’estetica e della noetica, approfondendo il valore
volitivo/giudicativo (noetico, contenuto, p) della dimensione pre-categoriale
dell'esperienza (l’estetico). Questo percorso trovato una sintesi che mira alla
definizione di una "fenomenologia del noetico”, no dell’estetico; ossia di
una ‘noesi’ che sappia de-cifrare la ricchezza simbolica dell’estetico –
rappresentazione, immagine. Altre opere: “Dall’estetico al noetico” (Milano,
Unicopli); “Sul bello naturale” (Milano, Guanda); “Il bello naturale creato di
Dio (phusei); il bello ART-ificiale creato dall’ART-ista Vinci (thesei – ex
positione)” (Milano, Unicopli); La figura del diavolo, il discorso del diavolo”
(Milano, Mimesis); “In principio erat verbum” Favola: dal mito al logos
(Milano, Guerini); “In-scriptum, De-scriptum, ex-criptum – (Milano, Cuem); “Le
leggi del cielo, l’estetico e il patico (Milano, Guerini); “Metafora, mimesi,
morfo-genesi, progetto. Architettitura filosofica (Milano, Guerini). La
Fenomenologia” (Milano); “Differenze nello spirito romano” (Milano, Edizioni
dell'Arco); “Mondo possibile: l’interpretazione dell’espressione comunicativa
(Milano, Guerini); “Il senso, il sensibile, il sentimentale, l’ingenuo”
(Milano, Mondadori); “Il senso, sentire, sentimento” (Milano, Bruno Mondadori);
“Percezione e immagine” (Milano, Il Castoro), “Piacere, dispiacere, Gusto e
disgusto” (Milano, Nike); “Fenomenologia pura, fenomenologia impura,
fenomenologia mista – il misto, il puro, l’impuro (Einaudi, Torino); “Cezanne a
Liguria”; “Fenomenologia del noetico: Al di là dell'immagine” (Milano,
Cortina); “Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli
enciclopedisti, Palermo, Aesthetica; "Estetica del bello, noetica del brutto,
Palermo, Aesthetica, Immagine e verita: e vero che il sole si ferma) (Milano,
Il Castoro); “L’estetico dell’espressione comunicativa” (Firenze, Monnier);
“L’unicita della ragione; La cosedetta “altra ragione” – il buletico e il creditum:
sensibilità, immaginazione, forma naturale, forma artificiale, forma create
dall’art-ista, Milano, Il Castoro); Il simbolico e il noetico (to throw to
things to be compared, say an Italian flag, and the love of country); Simbolo: figura, materia, e
forma – simbolo materiale – forma noetica – hyle-morphismo” (Milano, Il
Saggiatore); “La lume dell’altre ragione” (Milano, Bruno Mondadori); La
rappresentazione dello spazio – spatium (Milano, Mimesis); ntroduzione
all'estetica, Bologna, Mulino); “Arte, bello e interpretazione della natura”
(Milano, Mimesis); Non sparate sull'umanista. La sfida della valutazione (Milano,
Guerini e Associati); “Filosofia della crisi” (Milano, Guerini e
Associati, pre-moderno, Moderno e
postmoderno. Un bilancio, Milano, Raffaello Cortina Editore, ti dà il
benvenuto, su eliofranzini. L'estetica aujourd'hui. Conversazione» Il rasoio di
Occam MicroMega Estetica, filosofia,
vita quotidiana. Conversazione in MicroMega, su unimi Entra in carica oggi, il
rettore su unimi, contiene l'articolo Il
nuovo rettore della Università Statale di Milano prevede di mantenere a Città
Studi un polo di dipartimenti scientifici Husserl Fenomenologia Scuola di Milano SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove
vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo,
e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là
seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno
mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice,
tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene,
amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da
Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE:
E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i
suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino.
SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire
come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni
negozio»? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza
dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo
intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel
giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche
questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna
compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto
che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto
che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di
voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora
ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino
a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non
rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da
profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più
bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo
agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE:
Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera
né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non
l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di
ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure
questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che
più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal
mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo
d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo
lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in
uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è
rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad
accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si
è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche
a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro,
pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me,
veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace,
poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia
parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò
così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola:
ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali
lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non
ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però,
carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho
l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente che
io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione
di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila!
Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove
vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo
l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto
pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre.
Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non
spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE: Fa' da guida
dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo
platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su
cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici.
FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che
a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio
da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle
fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù,
dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: appunto là c'è un
altare di Borea. 2 Platone Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto caso.
Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero?
SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona
strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la
spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così
si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago, poiché
c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro,
considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo
valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo
gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera;
quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi e un gran
numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno,
non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che
fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho
proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono
ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso; quindi
mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora
questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto
comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non
queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più
intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più
semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa. Ma
cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci?
FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo
platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua
ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato.
Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come
si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra
essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è
amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva
risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba,
poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e
appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero
in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona
davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una
guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre
confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami,
carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono
insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia
trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli
animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto,
così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi
porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì
l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione
in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque.
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli
altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno
benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente,
per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che
amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i
benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano
pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece
coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle
proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né
incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo
tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà
loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in
grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado
di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più
speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per
di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di
diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per
via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non
hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre
spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di
piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se
dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del
piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone
di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma
irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe
involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove
di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non
possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo
tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche
acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una
tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di
tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici
non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali,
serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle
feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e
ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li
seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno
non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere
non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore;
non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore
della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti
faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano,
se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con
tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno
amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga. FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma
dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e
che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi
veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i
Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che
le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche
scrittore in prosa. Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo,
divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse
dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto
ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche
altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per
indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai
detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da
chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai
promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto
a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti
prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza
naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente
d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è
possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare
neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo
all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere
coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire
quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la
dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano
concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da
lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non
necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche
l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo
opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio
che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto
altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come
statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi!
SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho
attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di
diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo
proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi
parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a
fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non
volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco
Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava
dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui
prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due
soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò,
dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto
che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo
improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a
confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila
di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico,
ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la
dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su
quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non
pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e
non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante!
Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare
ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più
indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi
da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò?
FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per
svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo
per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al
resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per
l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei
Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo
bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima
gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un
fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati.
Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva
convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di
persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che
chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio
per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte
la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono
l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro cosa. Perciò, nella
convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e
proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con
se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo
agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare
in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune
accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo
presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso
apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro
a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da
che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere
presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci
guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio
dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta
questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono
in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando
l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria
ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione
verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La
dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti;
e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il
soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi.
Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e
sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga
chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce
in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche
per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a
seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene
chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso
precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta
detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il
sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto
verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso
congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome
dal suo stesso vigore, è chiamato eros». Ma caro Fedro, non sembra anche a te,
come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha
preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE:
Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non
meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe:
le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici
cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché
forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo
provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al
fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni,
è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto,
ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da
uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed
è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a
sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre
tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà
di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo
inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile
rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie,
chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se
nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di
più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del
piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande
danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie
alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo
allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto
assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene
lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre
macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo
amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per
lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda
l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e
come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura
ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire
il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non
vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta
di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed
effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri,
intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano
ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad
altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni
importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano
timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e
bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno
arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a
chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra
cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini;
accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli
causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se
possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da
conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente
che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze,
e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza
moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di
cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6 Platone Fedro
sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior
parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte
altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere
occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il
discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso
uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e
indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non
ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi,
proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa
credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle
quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico
che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad
essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo
discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che
gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere
costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima
che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che
viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto;
non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei
divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi
prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché
li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli
(faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran
lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso.
FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso?
SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato
quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da
ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che
non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi
commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la
verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me
stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima,
caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre
pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che
«commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».
Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? Platone
Fedro SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai
portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE:
è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più
terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non
credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così
almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è
stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come
appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i
due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in
questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro
semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si
danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli
troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di
purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è
un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui
infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa
come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi
versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte,
non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme
chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più
saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per
aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo
scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto
dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu
intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e
quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse
innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre
diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono
gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe
l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno
mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui
rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE:
Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros,
desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso
d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile
che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama.
FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio
dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un
altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai
quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il
ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non
conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie
parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu
voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di
prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che
mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque
parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza
di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è
in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda
a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più
grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la
profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania,
procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre
quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla
(30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un
dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone
verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente
di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che
coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole;
altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la
quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma
considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo
nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la
"t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del
futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli
altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano
assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la
denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola
nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto
più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera
dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la
testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto
all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in
coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie
e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a
causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi,
attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il
tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per
chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto
vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece
dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra
più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve
nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso.
Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra,
riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui
ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove
da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati
da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi
guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli
d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la
guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna
cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e
immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto
il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in
alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù
finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e
assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da
sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il
soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato
con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera
adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima
e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica
così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle
ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa.
La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante,
sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del
divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi,
quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la
propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e
i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente
felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi
sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando
poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità
della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da
guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo
che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso
l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la
prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte
alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui
rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta
fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in
modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti
avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità):
l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può
essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale
verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la
mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella
di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo
un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché
la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel
giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la
scienza, 9 Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e
neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da
quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che
è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri
che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del
cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i
cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere
del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una,
seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il
capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua
rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora
solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a
forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che
aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse
e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di
arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita
del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime
restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la
grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere
e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per
cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è
questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si
trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in
volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio,
abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e
se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non
riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente,
riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda
le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna
natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior
numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare
filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima
che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un
uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto
ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che
sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del
corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore
ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro
di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano
o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del
popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la
vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto
contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo
donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo
periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza
inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro
di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita,
rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano
indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca
loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di
espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla
Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente
alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre,
giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che
ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi
una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non
ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere
in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di
sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle
cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando
guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che
realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché
grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle
entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale
rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti,
diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle
occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se
delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto
d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno,
al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove
ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un
uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di
trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la
possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e
chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti,
come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri,
altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli
esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di
quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che,
cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive
compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne
restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste,
qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono
più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno
percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le
altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie
di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a
fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto.
Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro
felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e
di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare
il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla
prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire,
contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici,
immutabili e 10 Platone Fedro beate in una luce pura, poiché
eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in
giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un
omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora,
ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa
brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo
colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo
più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che
riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza
(poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le
offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore.
Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di
tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è
corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in
sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando
guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e
a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha
timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato
di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto
d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di
corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di
allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della
bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è
turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita
comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte
né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di
poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è
imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti,
riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento
presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di
sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di
madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue
sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le
consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a
servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più
vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in
colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A
questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini
danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo,
data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi
citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali
è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così :
I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere
l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la
causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da
Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso
del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e
giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire
qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il
proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro
era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta
incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e
ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra
i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli
edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I
seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro
dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e
quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia
effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del
genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile,
continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro
conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a
volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono
presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le
occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un
dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro,
e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono
nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro
che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno
per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno
degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio
fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano
essi stessi il dio e con la persuasione e 11 Platone Fedro
l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello,
ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato
con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza
più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore
e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano
nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga
conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è
conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione
in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di
cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un
punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no:
quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non
l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova
nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto
e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito
a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta
e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto,
grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il
pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e
vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli
speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in
tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei
pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a
freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso
all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta,
ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta
di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso
l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si
oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e
inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano
trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro
ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante
dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della
bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla
temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade
supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte
che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non
recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano,
l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro,
cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende
fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole
l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato
il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la
loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta.
Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo
rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad
accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono
vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li
trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa
impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira
indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina
la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo
dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa
più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito
dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza
accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e
timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni
venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo
sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza
fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali
sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse
respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono
ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia
amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo
ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua
compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce
l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono
neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando
poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato
incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di
quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore,
scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne
è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da
corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della
bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura
arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i
condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche
l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a
conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia
agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si
accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di
questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo
stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza
d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore,
bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera
vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non
tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato
dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno
in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma,
gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante,
manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così, nel momento in cui
si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua
l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme
all'auriga 12 Platone Fedro si oppone a ciò, obbedendo al pudore e
alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che
guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di
quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati,
avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui
nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle
tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina
possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di
vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato
di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di
giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa
direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e
mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne
avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono
approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno
di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi
dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito
sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono
dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio
non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali
hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella
tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e
felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati
rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così
divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la
compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di
amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una
bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno
alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre
facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in
dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al
resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose
di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi
e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi
di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso
precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata,
attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da
simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello
Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma
dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici.
FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che
avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più
bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche
voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico,
un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua
critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione
dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e
quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al
minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto
proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu
conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima
reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti,
temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei
scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo
(44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano
tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che,
quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere
in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola
occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che
all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di
chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno,
ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha
detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa
l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità,
talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del
genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE:
Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece
viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di
scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è
chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO:
Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere
la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo
immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre
ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi
scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque
sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive
discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO: Non è verosimile, da ciò che
dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE:
Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO:
Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e
scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro.
SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario?
Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro
abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi
come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo
bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri
di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti
non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per
questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne
abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le
cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche
noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non
discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della
mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da
loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il
pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto
a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci
daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini.
FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito.
SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai
sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli
vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il
canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si
curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in
seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo
dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare
subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi
dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse
onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori,
rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e
così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana,
e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la
vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del
cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più
bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non
dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare
quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un
discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno
pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di
chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal
proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore
non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che
sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o
bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo,
non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò
che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono
valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto.
FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come?
SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo,
ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo
questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie
assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo
sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio
dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente
degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni
militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e
vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo.
SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e
nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce
il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse
condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del
cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con
le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale
frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato?
FEDRO: Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon
amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del
dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non
fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo.
SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi
opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone
ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in
un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora,
al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede
di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le
stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma
certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e
nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe
questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di
rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è
possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo
nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in
questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle
cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In
quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di
essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a
grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un
altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la
somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma
se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la
somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose?
FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie
alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si
insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è
possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di
un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al
suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia
ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui
che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte
dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì .
15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia
che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo
prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi
parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per
un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che
recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa
condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa
agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra
la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo
partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega
ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO:
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...»
SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte,
non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno
questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre?
FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più
chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o
"argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo!
SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"?
Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto
gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE:
Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In
quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior
potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE:
Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto
con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le
forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella
in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso
un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna
cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale
delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no?
SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni
controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O
credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di
lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il
più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo,
giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio
del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo
davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a
quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a
Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia,
cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros
come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto
e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo
inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì .
SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della
mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose
accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi
trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno
fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia
ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio
ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che
l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto
una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate,
quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che
le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato
detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per
secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so
nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli
veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere
discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito,
uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di
vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa
dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere
vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza
piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si
adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? SOCRATE: Esamina dunque
il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai
che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto
sulla tomba di Mida il Frigio. FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di
particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di
Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba
di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci
senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene
recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso,
Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi
sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione,
cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In
essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è
conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano
opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO:
E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con
mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è
una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di
mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento
divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro
parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito
l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa
è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa,
forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada,
abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo
levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in
onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E
almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE:
Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal
biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il
resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a
caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a
coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel
ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in
uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui
si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa
su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o
male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato
chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici,
SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le
idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna
parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa
concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da
un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti
si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in
poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo
riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere
in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che
è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario
nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità
infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me
queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi
di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto
sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite
eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi
alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il
parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui
Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le
opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE:
Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto
ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che
l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario
nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto
adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e
sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti
sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo,
altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli
ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati?
SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei
discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE:
Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale
potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una
potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE:
Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra
anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora
dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e
dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e
raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e
persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho
queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico
un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero
dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e
quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se
allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso
queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»?
FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto
queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi
di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere
aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non
hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa
condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno
creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di
averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli
debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste
cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera
da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del
genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per
iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come
e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica
e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della
retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri
campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto
d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità,
resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il
metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il
metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato
probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE:
Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla
natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre
tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre
alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo,
in Anassagora, uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla
natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora
si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei
discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte
medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna
dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se
tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare
all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere
all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e
occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così, Socrate.
SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in
modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si
deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo
metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice
bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma
Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora
esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna
forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si
deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di
rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve
esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita,
o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme
bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità,
cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in
virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate.
SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare
di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da
rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere
ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della
natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo
l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché
in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro
dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica,
innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per
sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo
infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente.
SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad
agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa.
FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e
dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando
ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima,
da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece
non viene persuasa. FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto pare!
SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non
sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma
quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia
quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di
conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che
le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche
le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini
di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo
su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai
niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando
sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali
discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se
stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a
suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così, per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il
mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve
dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo
uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli,
e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia
condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non
ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà
subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le
cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO:
Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero
sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque
luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o
no... FEDRO: Cosa? SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu
venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più
per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità
sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire
sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che
abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che
lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e
di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei
discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste
capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi
sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano
gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle
sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto
deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo
accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la
strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi
bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro
discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi,
se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo,
Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende
azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire.
FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della
mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no?
SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della
scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO:
Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il
massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente.
E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il
vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora
qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma
racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che
presso Naucrati, in Egitto, c'era uno
degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il
nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo,
la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine
anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella
grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre
chiamano il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e
disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale
fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo
ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza,
o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa
è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re
rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende
servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il
contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di
esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la
dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori
mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della
sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando
per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte
cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché
sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci
con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa
che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio
di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non
erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una
quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza
chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se
le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che
riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora
chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve
nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE:
Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile
alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma
se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima
cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se
avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che
dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21
Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il
discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così
come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve
parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre
bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di
venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime.
SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo
di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente
di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è
quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende;
esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi
tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale
quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per
l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente
d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse
ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe
ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli
di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e
seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse
a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul serio per gli uni,
diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi
possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno
dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le
scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a
discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in
modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti
non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per
gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se
stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio», e per chiunque segua la
sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno
altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di
questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a
dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici,
Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi
discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli.
SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa,
credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende
un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che
siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non
siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di
altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo
sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO:
Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo,
Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle
che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia
esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i
discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è
conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito
opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta
come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a
ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa
in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue
specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver
scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie
adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo
procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena
armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto
è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per
insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha
chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE:
Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere
discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha
forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto?
SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti
d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica,
nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il
biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere
realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero
evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse.
FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su
qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso
con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e
neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22
Platone Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per
aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei
discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo
scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza,
compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano
essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca
in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli
di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il
loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro,
è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io
voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per
quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da
Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e
abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi
altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o
lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia
scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste
opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene
messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la
debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere
chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è
dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo
sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un
dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più
adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece
non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto,
rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o
separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore
di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno!
FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno.
SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate?
Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio
dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti
naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia
temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da
meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora
pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai
discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo
spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro
amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose
da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo
Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più
mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di
metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di
questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di
fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il
sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante,
possa prendersi e portar via.Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte
mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le
cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! Platone Fedro. Celebre oratore ateniese
vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano orazioni
giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è
probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una
fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. Noto
medico dell'epoca. Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il
proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue
ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4)
Pindaro, Isthmia. Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era
un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo
menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. I Coribanti erano i sacerdoti
della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza
orgiastica. Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. Il dialogo è immaginato
in piena estate, a mezzogiorno. Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di
Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle
battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la
fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. Letteralmente 'colle di Ares', era
un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato
dagli arconti usciti di carica. Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri
o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà
cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra
spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno,
Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il
potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo.
Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da
Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. Conosci te stesso è
appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. Tifone o Tifeo,
figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo
e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto
l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha
avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste.
Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale
Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho"
('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a
"tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa
uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella
traduzione, per creare paretimologie.Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei
fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre
ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una
locuzione simile ricorre in Omero, Iliade. Saffo è la famosa poetessa lirica di
Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi
soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di
essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti
di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu
autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti.
Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. Gli
arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero
trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro
della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e
fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una
statua. Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha
offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento Snell-Maehler (citato anche
in Meno). Il testo greco gioca sull'assonanza tra ligús, dalla voce melodiosa,
e ligús, Ligure, con lambda maiuscolo. Questo gioco paretimologico è
probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del
canto. Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e
"róme, forza. Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto
di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una
connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da
"mania" divina, e quindi non mediata dal logos. L'immagine è ricavata da un gioco fatto con
un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori,
divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che
risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora
significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima
pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone.
Ibico, frammnto, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui
restano un'ode e pochi frammenti. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel
sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena
di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia
(la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la
vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu
ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa,
rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del
discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli
aveva mosso. ACCADEMIA Platone Fedro A Delfi, in Beozia, c'era il più
famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua
sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus.
Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di
cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma,
in Campania. L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta
derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto
"oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris,” opinione, credenza, e accostato a "oionistike", ovvero
l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco
paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è
importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da
Lisia. È il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e
non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la
ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco
soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero
rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e
l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che
Platone teorizza nella Repubblica. Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile
e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio
della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si
nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è
comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i
cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima
immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio.
Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro
dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non
viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono
probabilmente quelle olimpiche. L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo
delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella
sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo
dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una
personificazione del destino; in Repubblica impersonifica invece la vendetta.
Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della
metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel
libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è
strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la
pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde
il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco
verbale basato su una paretimologia il termine "imeros"
('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-,
radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di
"méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé"
('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la
tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i
poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è
un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente
coniato da "pterós,” alato, probabilmente suggerito da quei passi omerici
(Iliade) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli
uomini. È impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo
"Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso
con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di
Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di
aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fa il coppiere degli dèi. Per il gioco
linguistico su "imeros", la nota 36. L'espressione significa che né
la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a
costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta
mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del
mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare,
allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare
l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle
persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei
processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o
l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la
professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su
commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono
appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel
contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a
sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i
sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica,
significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile.
Figura storicamente indeterminata, Licurgo è, secondo la tradizione, il
legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi,
Solone attua, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che
prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo,
re di Persia, fu il promotore della prima guerra greco-persiana) Il mito che
segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora
dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte
dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico,
un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e
le Muse, non approvano) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75
seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che
gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce',
Urania 'la celeste'. ACCADEMIA Fedro Omero, Iliade) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e
lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli
altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era
famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era
notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo
dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è
dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi
ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel
quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo
combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di
Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato
di retorica) Allusione ironica a Zenone di VELIA (si veda) e ai paradossi con i
quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e
movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga)
Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e
ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché
anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di
liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di
Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e
sofista contemporaneo di Socrate. Tisia è maestro di Gorgia da LEONZIO (si
veda) e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico
di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di
Protagora e maestro di Socrate. Ippia di Elide, il celebre sofista da cui
prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di Agrigento e Licimnio di
Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di
LEONZIO (si veda) di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di
retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. Protagora
di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età
periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato
soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per
empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima l'uomo è misura di
tutte le cose. Nulla ci rimane delle sue numerose opere. Adrasto, il re di Argo
che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle
Supplici come abile oratore; l'epiteto voce di miele gli è già riferito da
Tirteo (frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un
personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista
ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis
portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le
sue capacità oratorie. Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per
molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate.
Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà
ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di
Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della
medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della
medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti
riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. Città sul delta del Nilo, sede di
un emporio commerciale greco. Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione,
che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era
scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura
un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero
supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero
sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. «La regione superiore» è l'alto corso del
Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello
stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente
casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la
risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». I giardini d’Adone sono recipienti in cui
d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano;
il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato
d’Afrodite. Allo stesso modo i giardini di scrittura, ovvero i discorsi
scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi
latori di verità sono affidati alla dimensione orale) Citazione poetica di
autore ignoto.Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in competizione con
l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate è fautore di
un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in
vista di una spedizione contro i Persiani. Pan, figlio d’Ermes, era la
principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in
Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con
sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle
Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi
in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Keywords: espressione, Sibley,
Strawson, ‘Bounds of Sense” -- simbolo, rappresentazione, immagine, noetico,
estetico, natura, bello, forma, materia, arte, platone, dialogue d’amore,
bello, comunicazione, rappresentazione, forma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Franzini” – The Swimming-Pool Library. Elio Franzini. Franzini.
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