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Wednesday, January 1, 2025

GRICE ITALO A-Z G GA

 

Grice e Gatti: la ragione conversazionale dell’implicatura conversazioale – filosofia lombarda -- Luigi Speranza   (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Filosofia del Linguaggio  SAGGIO  SULL’ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. Je travaille à me rendre voyant. MILANO GENOVA ROMA NAPOLI  SOCIETÀ ANONIMA EDITRICE DANTE ALIGHIERI (ALBRIGHI, SEGATI et C.) y Spa 9 apart pi  DI x  î 7 STRIP IMRATI OA ss =%: STABILIMENTO TIPOGRAFICO LA PERSEVERANZA— POTENZA + £ : AI  MIEI DUE FRATELLI  CHE  ANSIOSI E TREPIDI  VISSERO  LE STESSE MIE ANSIE E TREMORI  NELL'AUDACE SOLITARIO MIO ASCENDERE    LE CIME PIÙ IMPERVIE DEL VERO ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. La grandezza delle statue diminuisce allontanandosene, quella degl’uomini avvicinandoci ad essi. Quale necessità di DUE DIVERSI LINGUAGGI, l'uno del sentimento e l’altro dell’inteletto, per esprimere il COMUNE CONTENUTO della coscienza? Altro infatti  è IL LINGUAGGIO COME LINGUAGGIO, ossia come mero fatto estetico — afferma  Croce — e altro IL LINGUAGGIO COME ESPRESSIONE del pensiero logico, nel quale caso esso rimane bensì sempre  linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, ma è insieme [Il presente saggio — capitolo di un ampio lavoro, di prossima pubblicazione, dal titolo: La logica nella dottrina estetica di CROCE (si veda) e una  nuova concezione dell’arte viene, qui, ristampato del tutto compiuto, oltre che  notevolmente ampliato, trasformato e riveduto, perchè il direttore della rivista  nella quale apparve per prima, anni sono, non solo, all’ ultimo momento, credette  di modificarlo a suo modo, e mutilarlo, anche, sconciamente, qua e là, quanto, altresì, vigendo ancora e sempre, nel mondo della vecchia cultura, il costume  di condannare irremissibilmente lo spirito ereticale di coloro che non si sentono in nessun modo di alimentar d'olio le lampade accese dinanzi ai santi della scienza, non mi avrebbe, certo, consentita l’odierna stesura dello scritto, pur  rigidissimamente composto nella libertà, franchezza e sincerità della sua espressione. Tanto più che qui, ora, essendoci anche occorso di avvalorare magnificamente la tesì che noi opponiamo a quella di Croce con l’ autorità del pensiero vichiano, siamo stati costretti, pur senza volerlo, a mostrare, altresì, come Croce non sia riuscito a comprendere affatto affatto quel pensiero nell’intimo, verace, sostanziale suo significato. Onde, ad un tempo, ed è ciò che  a noi essenzialmente preme, il nuovo abbagliante fascio di luce, che, sprigionandosi irresistibile dal fondo della dottrina vichiana (VICO (si veda)), riesce ad illuminarla,  oltre che più intensamente, a pieno, col fugare tutte le ombre che qua e là,  finora, si addensavano in essa, impenetrabili. i  e ua ner! A più che linguaggio. Ora, delle due, l'una: o esso, rimanendo sempre linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio,  non può, per ciò stesso, non rimanere sempre ed unicamente  intuizione © immaginazione, e, quindi, sinonimo di sola  fantasia e poesia; ovvero è, anche, 7% che linguaggio,  e cioè concetto, e, allora, come dirlo, più, sinonimo di sola  fantasia e poesia, e non anche d' intelletto e filosofia? Ma, in  tal caso, il formidabile scoppio di un'assoluta contradizione, celata nelle fondamenta stesse dell’edifizio estetico di Croce,  non manda di schianto tutto in rovina tale edifizio, basato,  appunto, sul presupposto dell’assoluta identità del linguaggio, od espressione, con l’arte, od intuizione? Tranne che la frase,  più che linguaggio, non voglia essere, qui, e non sia che  una di quelle espressioni vuote, non rare nell’ opera di CROCE (si veda), dirette secondo la maligna INSINUAZIONE, o il perfido SUGGERIMENTO [IMPLICATURA] di Mefistofele a mascherare col suono della  parola l'assenza del concetto: Zè dove manca 1 concetto, poni  la parola; il che, d'altronde, usa bene anche l’ACCADEMIA, sostituendo il mito al concetto, ogni volta che non gli riusciva  di cogliere col pensiero la soluzione di qualche arduo  problema. Ma, in verità, ciò che non permette di dubitare in  nessun modo di quell’assoluta contradizione è la seguente  affermazione di Croce: per effetto dell’ixcarnazione che  il concetto e la logicità ha nell’espressione e nel linguaggio, il linguaggio è tutto pieno di elementi logici; il che trae  necessariamente a concludere, che: o non è affatto vero che  il linguaggio obbedisce sempre alla sua legge, perchè, per  effetto di tale incarnazione, riesce senz’altro a violarla,  impregnandosi, e quindi contaminandosi, di elementi logici, Logica come scienza del concetto puro; Laterza, Bari, ovvero che esso è masura/mente o necessariamente, ch'è lo  stesso, il prodotto non solo della fantasia, ma, altresì, dell’  intelletto, nella loro funzionalità sintetica, e perciò non vi  può essere come non vi è, di fatto che un unico  linguaggio esprimente, indifferentemente, il reale concreto od  il reale astratto: e cioè immagini o concetti, ovvero arte e  filosofia. Quale la vera di queste due conclusioni contradittorie? Altrimenti dovremmo credere che in un medesimo vestito  possano bene trovar posto, ad un tempo, due individui, oppure  che un medesimo vestito possa attagliarsi ugualmente bene  ad un fanciullo e ad un uomo maturo, come potrebbero  rispettivamente considerarsi l’immagine intuitiva, assolutamente  alogica, e l’immagine concettuale, così corpulentemente /ogrca. Salvo  unica via di scampo che per l'utilità del  momento il che non disgrada punto, in simili casi, al  pensiero di Croce non si voglia scindere il linguaggio dall’intuizione, per ridurlo « ad un fatto fisico-acustico,  aderente al pensiero, ovvero, ch'è lo stesso, ad una  mera guaina di esso, sì che sia facile, vòlta a vòlta,  alla fantasia ed all’intelletto trovarvi posto, conformandola,  naturalmente, ognuno a modo proprio, vòlta a vòlta. Ma se  ciò è da escludere assolutamente, non rimane, sola conseguenza possibile, un unico linguaggio, frutto, naturalmente,  della funzionalità sintetica di tutte le attività fondamentali  dello spirito? Infatti, ogni intelligenza sinceramente ersosa  di scoprire la verità e non già di far valere, comunque,  un proprio modo di vedere  alla presenza di tanti elementi logici nel linguaggio, non avrebbe esitato un istante a ricredersi del proprio iniziale errore, conchiudendo per l'appunto in  logica  dt  tal senso: ma non è così, purtroppo, che la pensano o  ragionano  almeno presso di noi i seguaci della dialettica  hegeliana, pei quali, invero, non è punto lo schema mentale,  arbitrariamente preconcepito, che deve conformarsi o risultare  conforme alla realtà, ma, per contrario, è proprio quest’ultima, che deve, comunque, inquadrarsi in quello schema: anche se debba ritrovarsi in esso precisamente come nel famoso letto di Procuste. E perciò mentre noi seguaci, in tal caso, della logica del LIZIO conveniamo bene con Croce che  l'acqua non può dirsi vino, sol perchè in essa è stato versato  del vino, egli, a sua volta, non sa in nessun modo convenire  con noi che l’acqua, del pari, non può dirsi, più, neppure  acqua, ma sì acqua mista con vino: e cioè fuori di  metafora, il linguaggio, come noi sosteniamo è pur  vero che non è opera di sola logica, ma non è nè pure  opera di sola fantasia, ma, sì, dell’una e dell'altra; ed anzi,  per verità, di quella, essenzialmente, più che di questa, come  or ora cercheremo di provare, dopo aver anzitutto liberata  sì fatta quistione, concernente L’ORIGINE E LA NATURA DEL LINGUAGGIO, da una grave pregiudiziale opposta dagli intuizionisti in genere, e principalmente del gran maestro dello  intuizionismo, Bergson: e cioè che IL LINGUAGGIO, in quanto  prodotto puramente spontaneo e /oz/ours è faire dello spirito,  è, per ciò stesso, da considerarsi come il flusso perpetuo d’Eraclito, per concludere, poscia, alla inutilità delle forme  grammaticali, non meno che dell'uso o SIGNIFICATO COSTANTE [GRICE, TIMELESS MEANING, APPLIED TIMELESS MEANING, “MEAN” used in the historical present – ‘shaggy’ MEANS ‘hairy-coated’] della parola, il cui carattere immobile immobilizzerebbe,  naturalmente, ed arresterebbe senz'altro il moto perpetuo  del pensiero, o la vivente fluidità del reale, così come il gelo  arresta lo scorrere od il fluire delle acque di un fiume, Ma  DALIA Zogica. veramente la parola, nella sua immobilità, riesce a nascondere  e sopprimere, agli occhi nostri, la vivente mobilità del reale?  Ma, forse, l'idea stessa di fiume, non è l’idea di un’ acqua  che scorre? Ha un bell’ essere immobile, ed anche solida,  la parola fiume: essa, tuttavia, non cesserà mai di richiamare  il ricordo e darci l’immagine di un’ acqua che scorre; così,  anche, il Corzidore dello statuario antico ha un bell’essere  fermo anch'esso: noi sentiamo e vediamo benissimo che i  suoi piedi lo traggon veloce come se avessero l’ ali. Ancora: l’astronomo che calcola l'orbita di Marte, suppone, forse, Marte immobile? e l'equazione di un movimento quello,  ad esempio, della cometa di Halley si può negare che  corra, anch’ essa, perfettamente come la cometa, con velocità  sbalorditiva attraverso l’infinito? È ben chiaro, adunque, che  nessuno pretende di fare scorrere il gran fiume del reale con  fiotti gelati, giacchè le nostre idee, ben lungi dall’ essere,  evidentemente, delle forme congelate di esistenza del reale,  sono, per contrario, delle perenni, luminose vibrazioni di  quell’intima essenza del reale, ch'è la consapevolezza della  coscienza umana.   E non è vero, infatti, ch'è proprio a mezzo di esse, o  son esse proprio che, col singolare vibrar luminoso, ch'è  proprio di ognuna, conforme al singolare vibrar dello stato  di coscienza in ciascuna racchiuso, o da ciascuna espresso,  ci attestano la perenne mobilità del reale, o la vivente sua  fluidità, che, altrimenti, noi non potremmo in alcun modo  affermare, in quanto solo a mezzo di esse è a noi consentito  d’innalzarci sul presente e guardar lontano, così nel passato  come nell’avvenire, e scorgere, quindi, in tutta la sua illimite  distesa, il corso evolutivo del reale? E ciò, intanto, non implica, necessariamente, nella natura  di quest'ultimo, la presenza di alcunchè di essenziale e permanente accanto a ciò ch'è puramente contingente e  momentaneo? Altrimenti come potremmo dire che il reale  si evolve, e cioè, assume, appunto, forme di esistenza sempre  più nuove e più progredite, senza supporre, naturalmente, o ritenere, necessariamente, sempre zz0 il soggetto che tali  forme successivamente assume? Se così non fosse, noi non  potremmo parlare di evoluzione, o divenire del reale, ma  solo di un perenne passare di torbidi « flutti di sensazioni,  perdentisi, senza 77c0rdo alcuno, dans la nuit éternelle emportés sans retour. E se, adunque, la realtà è sempre zza nella sua essenza,  non ostanti, dirò, tutte le sue mutevoli démarches e i sempre  nuovi suoi /resssaillements, e il pensiero umano, strettamente  conformandosi alla natura di essa, di cui esso medesimo è  parte, non fa che cercare il permanente sotto il successivo,  e cioè, cogliere, costante, l' essenza di essa traverso tutti i  suoi rapporti in cui essa viene a trovarsi in quelle mutevoli  sue démarches, fissando, di conseguenza, in espressioni o  idee sempre nuove la sempre nucva fisonomia che essa viene  ognora assumendo, come dire che il pensiero suppone immobili  o inerti i termini tra cui vengono stabiliti quei rapporti?  Immobile, sì, è la legge che governa il divenire del reale  principio di causa e, quindi, la funzione conoscitiva che  mira a coglierne l’ intima essenza (principio di ragione)  pur traverso le più svariate sue manifestazioni, ma non i  termini di queste, che non possono non essere necessariamente  mobili, dato il perpetuo divenire della realtà : e cioè le sempre  nuove sue relazioni con sempre nuovi soggetti d’ esperienza.  Ma per mobili, però, o mutevoli che tali termini possano  ° essere, non si può, per ciò stesso, ammettere che essi riescano,  | così, ad infirmare l'essenza del reale, chè questo  precisamente come notammo per l’acqua non viene punto a perdere, anche a traverso le più stranamente mutevoli sue manifestazioni,  l’intima sua essenza o la sua identità fondamentale. La rondinella, infatti, che fende l’aria, si sente, è vero,  fuggire nel tempo e nello spazio, ma non è men vero che  essa si sente, anche, sempre la stessa. Salvo che non si  voglia riporre la realtà proprio nella innumere varietà di  toni, o addirittura sfumature del sentimento, quindi proprio  in ciò che essa ha di più accidentale e caduco, ovvero  ch’è lo stesso nel mero cambiamento o nella mera  transizione come tale, più che nel rapporto assolutamente  obiettivo tra noi e le cose, rapporto fondato zx ze, non meno  che in intellectu, posto che l'essere e il pensiero sono parti  solidalmente costitutive del reale. Onde la. conclusione che,  se coscienza vuol dirsi il sentimento perpetuo diun cangiamento,  non è, però, il cangiamento come tale che può dirsi coscienza:  la quale, pertanto, in quanto conserva, evidentemente,  immutabile la sua identità fondamentale, pur traverso le più svariate ripercussioni del sentimento, che le procurano, appunto, quei sempre nuovi suoi /ressaz/lements, ci vieta  assolutamente di ritenere le singole espressioni od intuizioni  così assolutamente  individuali da rimanere PER OGNI ALTRO SOGGETTO conoscente, che non è il creatore di esse, del  tutto  intraducibili, inclassificabili, val quanto dire  inesprimibili, almeno adeguatamente. E perchè affermare, allora, che ad ogni impressione  corrisponde un’espressione immancabilmente adeguata? Salvo  che non debba dirsi adeguata solo alla particolare impressione  che un medesimo obietto viene a destare in ogni singolo soggetto, un'adeguazione, quindi, puramente soggettiva, perchè  variabile da soggetto a soggetto conoscitivo: e come mai,  allora, da intuizioni sì fattamente individuali si può pretendere  una conoscenza di carattere urzversale e necessario?  ERE o IO  Da  I, TRO  L. i si  a VR Il pensiero, infatti, non può rimanere in nessun modo  chiuso negli impossibili limiti di un’ intuizione assolutamente  individuale, come pretende, anche, il Mosè di Vigny: O seioneur, J'ai vecu puissant et solitaire! giacchè la possanza è unicamente nella commozione e vibrazione spirituale estendentisi  a quell’umanità da cui viene e a cui torna l'onda alterna del  pensiero e del sentimento. E fu, tra altro, precisamente in vista di tal carattere  di universalità e necessità, proprio e inscindibile dall’ attività  conoscitiva, che noi fummo costretti ad escludere dalla coscienza  intuitiva, come particolare ed esclusivo contenuto di essa,  il sentimento, in Quanto precisa e recisa negazione di tal  carattere. E, peraltro, dato, eziandio, per Croce, la natura  assolutamente ineffabile od INCOMUNICABILE del sentimento,  come può egli pretendere, ancora più assurdamente, di  contemplare e gustare le altrui opere d' arte, rivivendole con  le singolari vibrazioni del proprio sentimento? Ma non ci  disse egli che tali opere, per l'impossibilità, appunto, da  parte nostra, di rivivere identico lo stato sentimentale dell’  artista che le creò, sono, per ciò stesso, assolutamente intra-  ducibili, sì che ogni nostro tentativo di tradurle fedelmente  si risolve, in realtà, nella genuina creazione di una nuova  opera d’arte accanto ad altra opera d'arte? E che, anzi, lo  stesso artista è incapace esso stesso di rifare identica la  propria opera, non potendo rivivere nè pur esso, puntualmente,  quegli stati di coscienza, che trovarono il loro nitido spontaneo  riflesso nella primitiva sua intuizione? In verità, io non riesco a comprendere qual gusto possa  mai trovare CROCE (si veda) nella coquetterie; che è anche di  Renan di contradirsi per mille versi, ad ogni piè sospinto, e non solo nella medesima pagina, ma nella  medesima frase. Sai ce! Il maggiore rappresentante dell’intuizionismo Bergson è vero che attribuisce anch’egli al sentimento LA POSSIBILITA DI PENETRARE L’ANIMA ALTRUI, non meno che delle  cose, ma solo in quanto gli riconosce quel particolare carattere di COMUNICHEVOLEZZA che ad esso deriva da « cette  espèce de SYMPATHIE intellectuelle, par la quelle on se transporte à l’intérieure d’un obiet. Ma CROCE (si veda) non nega  recisamente sì fatta COMUNICHEVOLEZZA al sentimento, che, per  lui, è 470 di ogni elemento intellettualistico? E, allora,  come può pretendere di rivivere con le singolari vibrazioni  del proprio ineftabile sentimento l’ineftabile palpito di vita onde vibrano le altrui opere d’arte, per contemplarle e gustarle? E, d'altra parte, la stessa simpaia intellettuale di Bergson, riesce, forse, anch'essa  senza l’aiuto di tutte  le debite operazioni intellettuali a penetrare a fondo  la vita del reale, fino, addirittura, a coîncider avec ce que  il a d’unique et d’INESPRIMABLE? Ma l’unico e l’INESPRIMIBILE, in quanto tali, non sono, per ciò stesso, INCOMUNICABILI? Tuttavia, ammessa pure la possibilità di quella coincidenza, noi non diverremmo senz'altro i sosta delle cose, o  le cose stesse, addirittura? e come, allora, queste sarebbero,  più, uniche? Ma, a parte tali assurdità, come mai LA SIMPATIA, senza tutte ripeto le operazioni dell’intelligenza,  potrebbe farci penetrare l’anima delle cose? Senza dubbio,  allorchè io seguo ad esempio con l'occhio un razzo che sale dritto verso il cielo, io sento in me un movimento  che imita la brillante sua linea di ascesa, uno sforzo paral-  lelo al suo sforzo: può dirsi bensì, allora, che IO SIMPATIZZO con esso; ma, tuttavia, cotal SIMPATIZZARE non mi rivela  punto ciò che fassa o accade in quel granello di polvere  Revue de Metaphisygue.  RT nn    (E i ES   ardente. Ancora : quando io scorgo levarsi la luna, e vedo  i suoi raggi tremolar nell'ombra della sera placida e serena,  io, pur sentendo l’anima vibrar simpaticamente con essi, fin  quasi a sentirmi dissolvere di .tenera commozione, al pari  della blanda luce, che da quei raggi, tenera effondendosi,  si perde sulle cose, non riesco, tuttavia, in nessun modo,  pur nella maniera più vaga che si voglia, a penetrare, così,  la vita di quell’astro notturno. Del pari, LA VIVA MIA SIMPATIA lper la primavera, che mi fa, invero, provar nell'anima  tutta la freschezza e verginità di vita di tutte le cose che  alla vita si destano fresche e verginali, e nella persona stessa  come una leggerezza o snellezza di ali di farfalla, può dirsi  riesca mai, anch'essa, a farmi cogliere, così, la vita intima di  quella stagione ch'è la gioventù dell’anno? Ma vediamo, se,  almeno nel mondo umano, LA SIMPATIA raggiunga piena e  precisa la sua potenza penetrativa. Io vedo una donna in  lagrime uscir dal cimitero : una tristezza analoga alla sua  invade subito l’anima mia; io simpatizzo intellettualmente  con essa, a mezzo del fersiero della causa che l’affligge: la  morte di una persona cara, nel tempo stesso le sue lagrime  tendono a provocare, per sensibile contagio, le mie; io,  dunque, penetro ben meglio nell'anima di questa donna  che non nelle precedenti forme inanimate di reale. Ma chi  oserà dire che io ho vera e piena la intuizione del suo  dolore? Ma non accadde, forse, al Guyau, come egli stesso  ci narra in una delle sue più belle liriche, di scambiare per  scoppio di riso l’improvviso singhiozzo di una donna che  tornava dai piedi di una croce levata sur una tomba?  D’un cété le jardin, de l’autre un cimetier; Un seul mur les sépare, et la mèéme lumière Fait resplendir la feuille inquiète du bois, nen Les blancs marbres des morts et les rigides croix. dea a Il poeta cammina senza meta, gli occhi perduti nel  fogliame, bevendo a lunghi sorsi l’aria della primavera: nell'ombra di un sentiero, a passi lenti, una donna procede innanzi a lui; egli non la vedeva che di lontano: i  suoi piedi visibilmente tremolavano, ed egli non sapeva perchè.  D'un tratto un brivido la scosse tutta, e sembrò ch' ella  ridesse di un riso secco e nervoso ; e, per ridere, ella nascose la testa fra le dita: Quand j’approchai, je vis, légères et limpides Des larmes qui coulaient entre ses doigts humides: Car c’était un sanglot que ce rire sans fin,    Et cette femme, errant au fond du doux jardin,  Sortait du cimetière.  Sicchè  Une larme qui tremble,  Un sanglot qui de loin, pour l’oreille ressemble  Au rire, et rien de plus-voilà donc la douleur!  C'est tout ce qu'on peut voir lorsque se brise un coeur.  C'est le sieze fuyant qui, pour un jour à peine,  Révèle 1’ infini d’une souffrance humaine.  Les plaisirs les plus doux, les maux les plus amers  S'expriment par le mèéme ébranlement des nerfs  Que l’air indifferent propage dans l’espace: Cri de joie ou d’angoisse, il éclate, il s’efface  Et, sans étre compris, glisse sur l’univers. È questa, dunque, la corncidenza colle cose che ci  dì la stessa simpatia intellettuale? quella conoscenza infallibile e perfettapromessaci dagli intuizionisti? Un mero choc en retour di onda nervosa, od anche emotiva?  R Giacchè, in realtà, la mia coscienza, in quanto tale, pur  essendo così vicina all'altra, rimane, nondimeno, con tutta  D- evidenza, senza punto penetrarla od esserne penetrata :  n Ainsi jaurai vecu près d’elle inapersu,  Toujours è ses cotés et toujours solitaire! VERS D’UN PHILOSOPHE: Z’ecla/ de rire, Paris, Alcan. Mi Ah! Que nous sommes loîn l’un de l'autre,  Étant si près!  E, forse, Dio stesso può mai riuscir a sondare le altrui  coscienze come la propria?  L’oeil était dans la tombe et regardait Cain ora, se quell’occhio è di Dio, esso pure non può guardare  che dal di fuori; Dio, infatti, non essendo Caino, non può,  di conseguenza, nè sentire nè volere ciò che sente e vuole  Caino, e cioè possedere, appunto, l’anima di quest’ ultimo, Ciò prova chiaro che la. filosofia non è punto come  vorrebbero gli intuizionisti  il sentimento di un fiotto mon- tante di vita interiore, il rapido bagliore di una stella filante, ma una sintesi razionale e finale di tutta la nostra esperienza,  fondata precisamente sulla determinazione, sempre più ampia  € più precisa, delle relazioni che intercedono tra il nostro  stato di coscienza presente ed il nostro we tutto intero; fra  il nostro me e gli altri esseri; fra gli esseri particolari ed  il tutto, perchè il reale è ciò che inviluppa sempre e dap-  pertutto l’infinito. Di guisa che più noi lo conosciamo, e  più vi scopriamo relazioni multiple, le quali, pertanto, trovano  la più perspicua loro espressione precisamente in quella insu-  perata manifestazione del reale che è l’idea, la quale, adunque,  così può rimanere distaccata dall’ intuizione come i fosforescenti bagliori, che corrono sulle onde del mare ondulato,  dalle onde stesse, che quei bagliori accendono col loro moto. E poichè, intanto, cosa certa o innegabilmente vera è che  il continuo divenire e perenne trasalir dell’essere coincide  col continuo divenire e perenne palpitar del pensiero, è  naturale che, in conformità di questa stessa natura perennemente 22 fieri del reale, si debba procedere per rag- Prada E giungere una visione sempre più piena e indefinitamente  integrale della realtà infinita ed eterna, ininterrottamente  da un'idea all'altra, all'infinito ed in eterno. E come, allora,  potrebb'essere mai lecito rinunziare ai precedenti /ermzini  della nostra coscienza, e cioè alle precedenti nostre intuizioni? Ma queste non sono, adunque, le espressioni assolutamente adeguate, e perciò stesso insuperabili ed immutabili,  dell'essenza delle cose, o del caratteristico, che è in ogni  singola forma di reale? E se tali esse sono, e cioè immagini  che attinsero, al fine, preciso, quel limite assolutamente insuperabile che è segnato dal rapporto esattamente proporzionale  degli elementi o determinazioni onde risulta l'essenza di ogni forma di realtà; e donde, appunto, deriva alla cono-  scenza intuitiva il suo carattere o valore universale e necessario, come si può pretendere di andare oltre tali immagini  limite, senza che la realtà corrispondente non cessi, per ciò  stesso, di essere quella che è? Giacchè, si sa l’accennammo  innanzi l’essenza d'una cosa può trovare la sua ESPRESSIONE o RAPPRESENTAZIONE intuitiva veramente adeguata solo  in quelle immagini da cui la conoscenza logica, possa, a sua  volta, derivare immediato e preciso quel concetto-limite che  le variazioni della realtà corrispondente non possono ulte-  riormente superare, senza che questa, naturalmente, non cessi  di essere quella che è. È quanto tuttodì accade in ordine alle  mutevoli quanto fallaci immagini al cui gioco soggiace, ingenua, la coscienza infantile, ch'è, per ciò, continuamente  smentita e corretta, ad un tempo, dall'esperienza, fino a  quando essa non sia diventata capace di scegliere od assu-  mere come elementi fondamentali od essenziali delle sue  immagini intuitive, quelli, appunto, che, resistendo alla doppia  prova dell'esperienza e della ragione direttrice, rimangono  indici insuperabili per la funzione di assimilazione e differen- Mento,  marziana    Pa    E |. =  ziazione, ad un tempo, in ordine a tutte le altre possibili  forme della realtà, funzione in cui, notammo, si assorbe e  concentra essenzialmente l’attività conoscitiva.  Infatti, le intuizioni o cognizioni umane costruzioni  superbamente armoniche del nostro pensiero non vivono  punto, già, per il colorito emotivo che le riveste, ma, sì, per  l'essenza unicamente ch'è nel loro fondo : quell’essenza, appunto che nessuna variazione della  realtà corrispondente deve in alcun modo riuscir a superare,  E se, dunque, sì fatte intuizioni, in quanto universali e necessarie, sono, per ciò stesso, immutabili e perenni, come  non dover ritenere ugualmente universali e necessarie, e,  quindi, immutabili e perenni, le corrispondenti espressioni,  in quanto adeguate e insuperabili manifestazioni esteriori di  quell’intimo moto armonico del pensiero, che riesce a individuarsi o concretarsi precisamente in quelle espressioni? Giacchè, si sa, e non si può negare, che quantunque il rapporto che lega la lingua al pensiero sia di pura a/tribuzione  e non di z2427a, lo sviluppo dei due procede, non di meno,  assolutamente di pari passo, fino al punto che le imperfe-  zioni della lingua sono imperfezioni del pensiero: il che trae,  di conseguenza, a riconoscere che lo sviluppo del pensiero,  senza l’aiuto della lingua, sarebbe stato del tutto impos-  sibile, in quanto per la coscienza, indipendentemente dalla  lingua, è possibile solo uno sviluppo rappresentativo di natura sensibile, come, ad esempio, le costruzioni geometriche  e meccaniche, il gioco degli scacchi, un motivo musicale, un'immagine visiva e simili; ma non ostante tutti gli sforzi, noi non saremmo, certo, mai in grado, senza parlare, di pensare, ad esempio, che BISOGNA DIR SEMPRE LA VERITÀ – GRICE CANDOUR. Posso  bene, anche, rappresentarmi un albero determinato senza il È: nome corrispondente, ma PENSARE L’ALBERO in generale, senza la parola, è semplicemente IMPOSSIBILE: il che prova che solo  dal concetto e col concetto comincia, per la mente, la necessità  della parola, e, quindi, la conoscenza che si pretende universale e necessaria, come, appunto, quella intuitiva. E se,  pertanto, può non essere vero che il concetto esista prima  del segno, certo è, però, — come nota Hamilton che  il concetto ricade, appena formato, nel caos dal quale lo spirito l’evoca, se IL SEGNO VERBALE non lo rendesse  permanente nella coscienza. Questo, perciò, è assolutamente necessario per assicurare i nostri progressi intellettuali,  per fissare quello che è già acquisito per la conoscenza, e  farne un punto di partenza nuovo per ulteriori progressi. Un esercito si può spargere sur un paese, ma non lo conquista se non vi costruisce delle fortezze. Le parole sono  come le fortezze del pensiero. Esse ci permettono di stabilire  la nostra dominazione sul territorio che il pensiero ha già  invaso e di fare di ciascuno dei nostri acquisti intellettuali  una base di operazioni per farne dei nuovi. Ovvero, per  adoperare un’altra immagine, il rapporto fra la parola e il  concetto è quello stesso ch’è tra lo scavare un zu7%e/ nella sabbia e la muratura. Voi non potete procedere avanti nello scavare senza fare ad ogni passo una vòlta. Ebbene, il lin-  guaggio è per lo spirito quello che la vòlta è per il tuzzel. Ogni sviluppo del pensiero dev’ essere seguito imme-  diatamente da uno svilluppo della lingua, altrimenti il primo  si arresta. Dei concetti si possono formare senza la parola,  ma sono scintille che si spengono immediatamente; ci vogliono le parole per dar loro evidenza, per poterli riunire,  per cavar, insomma, una gran luce da ciò che senza di esse  sarebbe stato uno sprazzo di scintille subito spento. Riportato da MASCI (si veda), Logica; Pierro, Napoli.  E, veramente, la moderna filologia, analizzando e dissecando in mille guise il vivente organismo della lingua, è  riuscita a rintracciare nelle radici gli elementi primitivi inde-  componibili, che SEGNANO, CON LA SIGNIFICAZIONE PRIMITIVA, la  prima unità del pensiero con la lingua, donde, poscia, quel  rapporto di dipendenza reciproca in virtà del quale, mentre il pensiero, nel suo progressivo sviluppo, e sempre più attivamente all’inizio della sua produzione, riesce a modificare progressivamente il linguaggio, questo, a sua volta, non manca di  reagire sul pensiero, e dargli un’impronta individuale e collettiva, ad un tempo. Sappiamo, infatti, che è la lingua che  impone alla coscienza individuale la forma mentale della  razza, e cioè la maniera di fissare (nelle sue forme) le abitudini secolari di analisi e di sintesi del pensiero di un  popolo: onde giustamente è da ritenere, con Hamilton,  che il pensiero senza la lingua o non avrebbe avuto sviluppo, o ne avrebbe avuto uno del tutto limitato, come ce  ne fanno prova i sordomuti, che, senza l'adozione di un surrogato del linguaggio, non arriverebbero, con la loro intelligenza, ad elevarsi affatto, o solo ben poco, al di sopra  della intelligenza animale. Infatti, pur la momentanea mancanza, per momentaneo oblìo, di una data parola, non è,  forse, da noi avvertita a parte la sorda immediata inquietudine che altresì ci procura come un vero ostacolo che  c' impedisce di fissare il corrispondente pensiero, di isolarlo dagli altri, di porlo con essi in relazione, di riviverlo, insomma, necessariamente, onde il senso di vera liberazione  che noi proviamo, trovatala, appena, la parola che cercamo?  Non solo: ma l’assoluta mancanza, nella nostra lingua, di  date espressioni che valgano a renderci adeguatamente un  dato concetto, non ci costringe a ricorrere ad altre lingue ni  “ SAS    per le corrispondenti espressioni, come, ad esempio, per la  parola pietas, che noi siamo costretti a mutuare dalla lingua  latina, non possedendone la nostra una che adegui perfettamente il concetto da quella espresso? E trovato che abbian, dunque, le intuizioni la loro  espressione adeguata, e cioè posto che siano, davvero, conoscenza universale e necessaria, come possono, per ciò stesso,  rimanere assolutamente intraducibili, val quanto dire inattingibili nel loro INTIMO SIGNIFICATO, o nella profonda loro  verità obiettiva?  Ese, pertanto, tali esse rimangono, non è giocoforza  ammettere ch’esse, ben lungi dall'essere, per davvero, intuizioni, e cioè precisamente conoscenza universale e necessaria,  altro non sono, in realtà, che particolari espressioni di singolari ineffabili impressioni di un wzico soggetto: quello,  per l'appunto, che sì fatte impressioni riescì a provare? Giacchè di assolutamente singolare o insuperabilmente individuale in una forma di conoscenza veramente universale e  necessaria non vi può essere, al più, che quella frangia o alone, a dir così, che, come ombra il corpo, naturale ed immancabile accompagna  la forma mentis di ogni singolo soggetto conoscente, quale  spirituale riflesso del carattere ch'è proprio di ognuno di  essi, e che prende, comunemente, il nome di stile. Ma cotal  frangia o alone  che serve solo a farci distinguere le crea-  ture o immagini d'una medesima ispirazione creatrice, presso  i più diversi artisti: la yarcesca di ALIGHIERI (si veda) da quella di Pellico ed Annunzio, il Neroze del Racine  da quello d’Alfieri, d’Hamerling, di Costa, di Sinkie-  wicz  non toglie affatto nulla alla intelligibilità obiettiva,  e cioè fer tutti necessariamente identica, di sì fatte intuizioni,  che, perciò, restano identicamente valide come espressione   e:  o conoscenza di quella data forma di reale che ci vogliono  apprendere fer #uéte le intelligenze assolutamente. Qualora |così non fosse, potrebbero mai le intuizioni essere, ad un i  tempo, arte e scienza: e cioè immagine estetica e verità  scientifica? La quale, infatti, non si sa, forse, che, allorchè  tale, per davvero, rimane assolutamente identica per tutte le  intelligenze, non ostante la innumere varietà di espressioni  che essa trova presso ogni singolo uomo di scienza? E  cotale identità, qualora non fosse, già, nella immagine intui-  tiva, dove potremmo mai ritrovarla? Infatti non ci disse  innanzi il Croce medesimo che l’aere spirabile del concetto non possono essere che  /e iwéuizioni? E, in realtà,  qualora quest’ ultimo non fosse in esse, « non sarebbe in  nessun luogo: sarebbe in un altro mondo che non si può  pensare, e perciò non è. Ed esso « permane come qual-  cosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito: vale  a dire come l'essenza delle cose. Non risulta, quindi, in ogni modo evidente che il valore  universale e necessario della conoscenza non può ritrovarsi  o appuntarsi che nell’ essenza dell’obietto di essa conoscenza il solo elemento, a dir così, per davvero immutabile e  permanente nel divenire perenne della realtà che non A  può, per ciò stesso, non essere riconosciuto tale recessariamente al  e universalmente, se vero è che di un medesimo obietto la  intelligenza umana non può nè deve avere che wr solo e  medesimo concetto, donde, appunto, il carattere di universalità  e necessità della conoscenza? E alla stregua di cotal principio  logico e gnoseologico pienamente riconosciuto dalla stessa Logica di CROCE (si veda) come può esser mai possibile la concezione o figurazione di intuizioni assolutamente individuali,  nel senso da lui propugnato, e cioè del tutto intraducibili  ed inclassificabili? A parte la tangibile contradizione #  adjecto di una conoscenza universale e necessaria, che può,  nondimeno, assumere i più diversi significati non solo pei  singoli soggetti conoscenti, ma eziandio pel medesimo soggetto,  da un istante all'altro come, appunto, l'intuizione di Croce a noi preme soltanto di chiedere se non è sempli-  cemente un assurdo, e, per ciò, del tutto impensabile, quanto  impossibile, l'esistenza di intuizioni, e, quindi, di forme della  realtà, che sfuggano alla connotazione anche dei predicati  più generali, che Aristotele, prima, e Kant, dopo, ci hanno  indicati come assolutamente indispensabili e, ad un tempo,  insuperabili, per la intelligibilità della realtà: come, appunto,  le categorie della somiglianza e della differenza. Infatti, al  di là di tali predicati, o categorie, non rimane come  sappiamo che una sola possibile espressione, quella formulata  dalla mistica: ergo faceamus, ovvero peggio ancora  seguire il malaccorto consiglio del Nietzsche. Penche-toi  sur ton propre puits, pour apercevoir tout au fond les étoiles  du gran ciel. Ma chi non sa che egli, appunto per essere  rimasto tutta la vita sospeso a guardare nel fondo di sè  medesimo, fu preso da vertigini, e le stelle del gran cielo  si confusero ai suoi occhi in una immensa notte? E, in realtà,  l'intuizione  nel senso inteso da Croce non è che una  oscura buca, in cui non si può discernere nulla, nemmeno  se stessi. Perciò se tacere o rimaner muti non si vuole, e  tanto meno perderci  come Nietzsche  nelle tenebre  della follia, non occorre, di necessità, far capo, per la intelligibilità della realtà, a quelle tanto deprecate categorie del  pensiero, che, in quanto predicamenti od espressioni degl’aspetti e condizioni più generali di esistenza sotto cui a noi  si rivela la realtà, non possono, per ciò stesso, non contrassegnare, in  maniera del tutto obiettiva, tutte le possibili forme dell’ essere? Lg  E se, adunque, la realtà non può essere da noi concepita  se non sotto la specie di sì fatte categorie onde il carattere universale e necessario della intelligibilità che di 3  essa abbiamo come mai, poi, le intuizioni possono dirsi  od essere 2r/raducibili? Ma la traducibilità di esse non importa l’uso di quelle medesime categorie che a noi occorsero per  la loro zntelligibilità? E come, allora, si può ammettere la  intraducibilità? Ad una condizione, sì: che la intuizione e la  espressione fossero due e non una; e cioè che il moto interiore  o intelligibile del nostro pensiero I’ intuizione appunto  fosse tutt'altra cosa che l’ immagine esteriore, (parola, suoni,  linee, colori ecc.), in cui tal moto si estrinseca, e cioè /a  espressione. Ma il Croce non avverte reciso ed insistente che l'intuizione e l’espressione sono #4 enon già due, in quanto, ETA  RION Ceti,  Di SE DE che venga appena espressa la parte iniziale di uno schema,  che subito e infallibilmente il nostro pensiero preconcepisce  l’altra, che completa lo schema (così come; per quanto   pure; tanto — quanto ecc.).   Sicchè la precisione del SEGNO linguistico, e cioè una  forma grammaticale vera, è solo essa che ci dà, rapido e  preciso, il rapporto pensato, senza aggiungere che, anche  quando l’attenzione non si rivolge ad essa, produce ugual-  mente l'idea del rapporto e favorisce, così, lo sviluppo del  pensiero logico: e se ciò, intanto, accade, è appunto perchè  l'idea del rapporto vi è scevra di ogni contenuto materiale :  il che trae a concludere che, come il concetto espressione  di una vera e propria 7es, anche se è da esso sussunto a  sostantivo una mera qualità o predicato di essa riuscì a  fissarsi nella parola, trovando nella concretezza ed evidenza  di questa la sua rappresentazione adeguata, così il rapporto,  nell’astrattezza della sua essenza, riescì a trovare nella #m-  materialità della forma la sua espressione adeguata. Ora, dati sì palpabili rapporti d’' interdipendenza fra la  lingua ed il pensiero, rapporti che risultano, per giunta, una  condizione size gua non per lo sviluppo dell’una e dell'altro,  come si può, seriamente, ritenere mero gioco di artifizio  del pensiero ciò che è, invece, mezzo assolutamente imprescindibile per la sua piena esistenza e sviluppo? Ma son,  dunque, un mero gioco di artifizio le naturali incoercibili  tendenze che traggono ogni essere a perseverare nel suo  essere, e cioè pienamente adeguare la propria esistenza alla  propria essenza? Ma non s'è pensato che, se la tendenza  del pensiero all'espressione del rapporto vuoi dirsi o rite-  nersi, per davvero, un artifizio, è da concludere, allora, che  le più artificiose espressioni del nostro pensiero, prima e più dei concetti stessi  in quanto senza paragone, notammo,  pnt SII  più ricche e complicate di articolazioni o rapporti logici, in  confronto di questi sarebbero precisamente le nostre intuizioni. Non solo: ma tutte le più elevate manifestazioni  od espressioni del pensiero umano, dalle prime sue riflessioni, o moti intuitivi, fino alle odierne concezioni dell’intuizionismo e del pragmatismo, assertori, appunto, di tal  gioco sarebbero, forse, tutt'altra cosa che un perenne, vario, gigantesco, e sia pure smagliante gioco di artifizio, sottilmente intessuto dal pensiero sulle più varie e strane  e innumerevoli vicende della vita dell’uomo, come della vita  universa? Giacchè, si sa, fuori di ogni rapporto logico, o  priva di ogni rapporto logico, ESPRESSO (EXPLICATURA) espresso o SOTTINTESO (SOUS-ETENDUE, IMPLICATURA – MILL, GRICE), mon  è concepibile nessuna forma od ESPRESSIONE di pensiero,  sia pure la più semplice altrimenti  dovremmo negare che conoscere — come afferma FICHITE significa vedere in relazione: il che sa precisamente  come negare che il sole illumina o riscalda. E provato,  adunque, che la tendenza o funzione essenziale e necessaria del nostro pensiero è quella di gorre in relazione,  come può esser lecito, poi, negare che le forme grammaticali,  che corrispondono a questa funzione e la esprimono il più  analiticamente possibile, non siano precisamente la più genuina e adeguata sua espressione? E, d'altronde, prova o  testimonianza assolutamente inconfutabile e tangibile della  necessità e adeguatezza di tali forme non rimane vedemmo  la stessa crescente forza di penetrazione, agilità e rapidità,  che lo sviluppo del pensiero trova, per l’appunto, nell'aiuto  di sì fatte forme? Ma seguiamo pure con tutta rapidità,  alquanto più da vicino, lo sviluppo del pensiero nei suoi  rapporti con la lingua. Questa, adunque, pur essendo nata  da un bisogno pratico, e, per ciò, tendente immediatamente,   wi oi £ + ES   cose, si rivelò, tuttavia, in una fase successiva, col progressivo  affermarsi della intima tendenza del pensiero all’ espressione  del rapporto un esperimento di pensare, che doveva dar luogo  alla forma: e n'è prova, precisamente, oltre che il tentativo  di combinazione delle parole, l’ altro, sopratutto, di piegare  parole indicanti oggetti a significare rapporti logici. In una  fase ulteriore le combinazioni di parole diventano costanti,  e le parole adoprate ad esprimere nessi cominciano a perdere  il loro significato indipendente. Segue una terza fase, nella  quale le combinazioni delle parole guadagnano di unità: le parole, segni di nessi, si aggiungono come suffissi alle parole denotanti oggetti; però il legame non è ancora saldo abbastanza, chè i punti di attacco sono tuttavia visibili, l'insieme è un  aggregato, non ancora una unità: dai surrogati di forme si  passa agli analoghi di forme; la lingua è nel periodo di  agglutinazione. Finalmente il carattere formale della lingua  si afferma decisamente, l’organismo grammaticale si completa;  la parola diviene un’ unità modificabile in conformità delle sue relazioni grammaticali solo per un cangiamento di  suono, che costituisce la /fessione. Ciascuna parola è una parte del discorso determinata, ed ha, insieme, una individualità lessicologica e grammaticale. Di più, le parole indicanti relazioni, perduta ogni traccia dell'ORIGINIARIO SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora, avrebbe potuto oscurarne la  intelligibilità, rimangono puri SEGNI di rapporti, come i segni algebrici, esprimendo, essi, unicamente, ciò che al pensiero  importa che significhino. Si spiega, quindi, perchè le lingue  che hanno vere forme grammaticali procurano al pensiero, con una singolare chiarezza e precisione, una singolare  agevolezza e facilità e rapidità di movimento: onde la formazione parallelamente progressiva e, alfine, completa, di due  stupendi organismi: quello del pensiero, nella rigida unità e compattezza delle sue forme logiche, e quello della lingua,  nell'unità, non meno rigida e compatta, delle sue forme  sintattico-grammaticali. E, pertanto, quest'ultima, nella connessione delle parole nella proposizione, nei rapporti sintattici  fra esse, e nel pensiero che quelle connessioni e questi  rapporti esprimono, non rivela o rispecchia, netta, l’attività  logica del pensiero? Vario, relativo, organico il pensiero,  nel suo moto verso le cose, o verso la conoscenza di esse,  e tale anche la lingua e la parola, mediante l’ARTICOLAZIONE,  la FLESSIONE, le forme grammaticali, la SINTASSI. Ed è naturale: nutrito e cresciuto il pensiero, fin dai  suoi primi moti vitali, insieme con la lingua, non poteva,  nella sua naturale, invincibile tendenza all'espressione del  rapporto, non piegarla od imprimerle tutti gli atteggiamenti  e tutte le movenze del suo procedere essenzialmente discorsivo, come innegabilmente ci provano molte parti del discorso,  che non sono infatti come notammo per altro verso  che indici di direzione del pensiero, schemi verbali di direzioni logiche (così come; sebbene pure ecc.).   E si noti, intanto, che codesto intimo rapporto di dipendenza reciproca, che lega indissolubilmente lo sviluppo del pensiero a quello della lingua, non è  punto punto smentito o minimamente infirmato dalla differenza talvolta anche sensibile delle forme grammaticali-sintattiche che ci vien fatto di riscontrare anche  presso lingue appartenenti al medesimo gruppo: e ciò anzitutto perchè quel rapporto non è di natura, ma semplicemente di aftribuzione, e, poscia, perchè la differenza delle  forme grammaticali dirette ad esprimere le stesse relazioni  logiche NON MUTA IL SIGNIFICATO o la natura di tali relazioni.  Particolari disposizioni e, dirò anche, particolari RIFLESSI DI NATURA PSICOLOGICA, dipendenti dai più varî atteggiamenti del pensiero, oltre che da forme di sensibilità diverse e variabili,  in connessione, per giunta, con particolari condizioni di vita  e di ambiente le più svariate da popolo a popolo — il tutto.  punto punto determinabile, come non è determinabile la collocazione delle forze che impongono alla foglia turbinata dal vento quella data direzione — hanno dato origine alle più diverse forme grammaticali per l’espressione di un medesimo rapporto. Fatto questo eloquentemente confermato,  oltre che dalla relativa libertà che presiede alla formazione  e trasformazione delle lingue, dalla presenza di radicali di- È  versi in lingue derivate da un medesimo ceppo (la gallica e l’italiana). Infatti cotale persistenza della funzione formatrice, anche dopo la separazione delle lingue, non può essere altrimenti spiegata, che  con l’esistenza di una identica funzione originaria, proprio dl  come la diversa ed anche diversissima sorte che accompagna pel mondo, e quasi istrania, i figli mati da un medesimo  padre non può in alcun modo farci negare la comune loro  origine, nè, d'altronde, riesce a distruggere in essi la profonda voce ed i vincoli intimamente tenaci del sangue. E, peraltro, chi può negare che l'apprendimento e sempre più  facile intendimento di una lingua straniera è largamente mediato dalla traduzione $i 0 meno consapevole di essa nella nostra ? Il che sarebbe del tutto impossibile se le lingue,  pur nella innumere varietà di forme in cui sono riuscite a  plasmarsi, non dovessero la loro origine ad una tendenza o  manifestazione psicologicamente idezzica della coscienza. Identità di tendenza che, frattanto, per le ragioni testè ricordate,  non può, naturalmente, non mostrarci del tutto vano quanto  infondato il tentativo della filologia comparata di rintracciare  il primitivo linguaggio, donde, poscia, tutte le lingue sarebbero derivate. Infatti la ricerca filologica si è arrestata, impotente, dinanzi ad una molteplicità che resiste ad ogni. riduzione, e spinge, quindi, ad ammettere senz’ altro una  molteplicità primitiva, dominata, nelle sue forme somiglianti, i  semplicemente da identità di fattori, senza nessuna causa cla”:  storica di derivazione. Ma d'altronde non manca un modo veramente e,  semplice per convincerci della validità mecessazia di tutti i  sistemi di segni – SISTEMA DI SEGNI --, che l'umanità è riuscita sin qui ad organizzare e far valere come espressione universalmente intelligibile ht, di tutti i più intimi moti del nostro pensiero, ed è questo:  spogliate la parola di tutti i rapporti grammaticali-sintattici,  Ned î annullate tutte le norme inerenti alla prospettiva col solo  capovolgere — ad esempio — un qualsiasi quadro o disegno;  alterate i rapporti armonici fra le note musicali ed avrete,  precisa, quella lingua da futuristi, che è, senza dubbio, meno  intelligibile di quella stessa degli idioti o dei pazzi, ed un È   disegno che non sarà, certo, più espressivo di quella lingua, ed una musica, infine, od un'armonia al cui confronto quella  dei popoli più barbari potrà dirsi una sinfonia. E se, adunque, tutti codesti sistemi di segni espressivi  sono wiversalmente intelligibili, e, per di più, universalmente  identici anche nel loro aspetto formale salvo, in parte, l’espressione linguistica ciò stesso non prova ch'essi re- Dez:  cano una validità necessaria, la cui sorgente è da ricercarsi 3  molto, ma molto al di là del capriccio o della volontà indi- pr  viduale? Infatti perchè tutti i tentativi di creare una lingua ®  universale unica come, ad esempio, il Volapwk, l’ Esperanto,  il Deutero-Esperanto, l'Interlingua sono falliti miseramente, ognora? Non, forse,  pa pil S perchè la lingua, come vero mezzo o strumento di espressione del pensiero, è ben lungi dall'essere così una creazione  arbitraria dell'individuo, consapevolmente compiuta secondo  una piano ordinato a scopi determinati, come il prodotto di P  una spontanea formazione naturale di ogni individuo, così dui come può dirsi del proprio organismo fisico? E, in realtà,  essa, come riflesso obiettivo nell’ unità organica delle sue.  espressioni vocali di quel coerente moto interiore che  anima il nostro organismo spirituale, è meno il prodotto  del singolo che della collettività. Infatti l'individuo non.  riesce a creare, per suo conto, che le singole parti, e cioè le singole parole o frasi; ma la lingua, nel senso dianzi  inteso, non può dirsi, certo, tutta lì: e sì che essa richiede.  ben altro; senza dire che ogni singolo atto formativo del  linguaggio, ogni atto di trasformazione, ogni uso nuovo della.  lingua rimane diretto sempre al fatto singolo, mai alla |  lingua come tutto. E poichè, pertanto, la lingua, come mezzo  o strumento di conoscenza, è precisamente e solo nel risul.  tato, o nel suo tutto, e questo tutto è, in sostanza, od  essenzialmente, non solo il prodotto delle influenze mutue delle coscienze individuali più che solo dell’ azione reciproc  dei singoli inventori, che in misura varia lavorano all’ opera comune, come taluni vorrebbero ma eziandio, e sopratutto,  il frutto di una critica sociale che adotta ed elimina onde.  quella forma d'identità di pensare e di esprimersi tutta propria  di ogni popolo è naturale ammettere che il contributo  dell’ individuo nella formazione della lingua scema a misura.  che si va dalla parte al tutto, il quale, perciò, deve senz’  altro ritenersi come il frutto, principalmente, di quella che  noi comunemente diciamo azzzza collettiva. La quale, se è pur  vero che, come realtà obiettiva, è non altro che un’ astrazione,  e non può, perciò, al pari dell’ individuo, creare affatto un  mito, un canto, un poema, una religione, è non meno vero,  però, che, al pari, e più dell’ individuo, è dessa che nella  maniera testè indicata riesce ad acquistare a quel mirabile  strumento che è la lingua, quella precisa e stabile forma  espressiva universalmente intelligibile, senza la quale qualsias  ‘iii its ue canto, o poema, 0 religione, od altra forma che si voglia di  conoscenza estetica od intuitiva, sarebbe, per davvero, nient'  altro che un mito. Onde giustamente il Feuerbach potè  affermare che se l’uomo deve alla natura la sua esistenza, deve, però, all’uomo di essere uomo, e cioè soggetto spiri-  tuale, in virtù, appunto, della sua libera partecipazione al  possesso di quella infinita ricchezza spirituale, frutto di sforzi  millenari, che proprio la lingua, traverso la infinitudine dello  spazio e la eternità del tempo, ci conserva e consente di  far nostra, senz'altro limite che la potenza o capacità di  appropriarcela: e di qui precisamente la singolare rapidità  del progresso nella storia umana, in confronto di quel procedere sì lento della natura, che, davvero, sembra star. Sì  che a buon dritto il Guyau potè chiedersi ed esclamare, ad  un tempo: D’où vient qu'en chaque mot je cherche une harmonie?  Je ne sais quelle voix a chanté dans mon coeur! C'est comme une caresse, et mon oreille épie   Et s’emplit de douceur! E la ricercata armonia nei nostri accenti, l'eco e la  dolcezza del canto altrui nei DOSE cuori è precisamente  perchè la lingua, quale iisaltante d' infiniti sforzi individuali e collettivi, per veder sempre meglio e più a fondo  nell'intimo del reale, può dirsi governata, nella efficacia  espressiva delle singole sue voci armonicamente connesse  nell’ inviolabile struttura delle sue forme logico-grammaticali,  da norme che ricordano bene quelle stesse che regolano e  determinano l’efficacia espressiva dell'armonia musicale. Nella  quale, infatti, ciascuna nota come sappiamo echeggia  nelle altre : tonica, mediante e dominante risuonano nell’accordo perfetto, e, inversamente, l'accordo risuona in ogni  nota; di guisa che ciò che noi prendiamo per un suono isolato è, per ontrario, un concerto. E sì fatta legge dell'armonia è noto anche regola non solo i suoni simultanei, ma ezianlo i successivi, in quanto gli accordi che  seguono vengo ad essere legati in maniera che il primo  si prolunga nell'ultimo. Aveva, quindi, ben ragione ANNUNZIO (si veda) rivolto agli uomini della sua terra di affermar loro. La mia parola non è solitaria: è l'eco di un coro  che voi non udite e che pure si compone di vostre intime  voci. Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi  credete che io trasformi tutto in poesia, mentre non altro  io fo se non obbedire al genio cui voi medesimi siete sog-  getti. Voi mi giudicate dissimile, mentre io vi somiglio come  un fratello purificato. » d Qual mesariglia, quindi, che la lingua, simile, adunque,  nella sua struttira e consistenza — secondo un'altra immagine di Guyau — Ì  LI    à ces votes d’église  Où le moindre bruit s'enfle en une immense voix,  I  «i   Ceri cosmico che ci dà il tutto nella vita del singolo, e il sine  nella vita del tutto. Benissimo: ma, allora, il senti ; |  così inteso, è, forse, tutt'altra cosa che della ragione  grosso, a dir così, invece che al dettaglio ? Infatti, sol p  noi non riusciamo, bene spesso, a cogliere tutte, ad una 4  una, le ragioni complesse e profonde che si presenta nol  massa al nostro sguardo interiore, allorchè ci decidiamo  agire, è, per ciò stesso, lecito arguire che noi agiamo,  tal caso, alla cieca, ovvero che il sentimento che ci ha g  dato, sol perchè non ragionato, sia, per ciò stesso, non.  zionale? Ma il sentimento non ha, per caso, la sing  prerogativa che gli viene, appunto, dalle innume  sue connessioni con le direzioni ancora inconsapevoli de  tenuto della coscienza morale in formazione di a7  in confronto della ragione, le sue vedute, e di av  quindi, qual termometro sensibilissimo della vita spi  tutti gli abbassamenti o deviazioni della condotta dalla  segnata dall'ideale morale o dal dovere non anco  tutto chiara alla coscienza riflessa e, perciò, spin;  consapevolmente il soggetto morale lungo le vie del  Esso, quindi, non è, in sostanza, che luce sotto for  calore, e solo così inteso può avere ed ha un signil  motto famoso di Pascal: 7 cuore ha delle ragioni    ragione non conosce, in quanto tal conflitto non è, vera    pante da tutta la precedente nostra analisi al rigua  non ha nessun contenuto suo proprio,    PES pr  Quindi le ragioni del cuore, se veramente ragioni o  sionevoti, non possono, in realtà, rimanere inascoltate o  7 ligibili per la ragione, sempre che questa, a sua volta, venga presa o intesa in senso astratto, e cioè come  sre meramente raziocinante, e, quindi, affatto « pensosa tutti i 422 concreti offerti alla riflessione dall'esperienza  4 esistenza concreta della nostra vita; giacchè tra espe-  A e ragione vi ha, per noi, profonda identità: l’ espe-‘enza non è che ragione concreta vivente ed agente, e la  gione non è che l’esperienza stessa, astratta e quasi con-emplativa delle sue forme essenziali. È chiaro, adunque, che, per l'umanità, allo stato nor  ale, non può esservi che un solo modo di pensare e di  are: pensare e parlare, non solo in armonia e col con-  degli altri spiriti: Wie spricht ein Gcist zu anderm Geist,  eziandio, in armonia e col concorso delle cose, e cioè  conformità di quella vera esperienza, che è un tutto ra-  nalmente collegato e stretto ad unità, in quanto le funzioni  nostro pensiero, ben lungi dall'essere come, cogli  ionisti, vorrebbero anche i pragmatisti un apparec-  di forme in certo modo falsificatrici della realtà, sono,  vece, non altro, originariamente, che il prolungamento, in  delle funzioni o processi del reale, come ci attesta, evi-  te, la innegabile cooperazione e solidarietà tra la nostra  enza e la realtà delle cose. Si sarebbe, sì, potuto cre-  a tutti i Nietzsche e i James che le forme e  orie del nostro pensiero fossero delle semplici /orgnettes  iali, che noi fuz4iazzo sul reale, solo qualora noi fos-  stati al di fuori o al di sopra della realtà, come un  do di forme vuote, senza contenuto, e cioè fuori di quella LO  sj  à catena causale universale causa ed effetto e reciprocità |  di tutte le azioni causali che è l’idea stessa della continuità senza iato nè interruzione della vita del reale, secondo L  gli stessi intuizionisti; ma poichè noi facciamo parte di tal  catena, è, dunque, impossibile ammettere che le forme fon» |  damentali del nostro pensiero non si siano formate e non si esplichino i funzione, ad un tempo, della nostra propria  natura e della natura delle cose, da cui non siamo separati,  ma solo emersi per immergerci, conoscitivamente, ogni volta  che ne veniamo fuori. Sicchè a noi non resta che ritenere le i  funzioni o categorie del nostro pensiero come l’ espressione  delle inzer-azioni fra noi e le cose, e cioè i mezzi, direi, di  prendere coscienza delle più diverse azioni reciproche, a cominciare dalla nostra: esse, quindi, non sono solamente la  coscienza della nostra causalità, ma della stessa causalità È  universale; e poichè la causalità è essenza dell’ essere e la sua rivelazione, le categorie non sono che la coscienza stessa  dell'essere, universalizzate sino ad abbracciare tutto l'essere: ovvero la diastole e la sistole della vita universa, perchè  nel cuore stesso della realtà, e non già circum praecordia  rerum.  Infatti, senza di esse, noi non potremmo dire neppure  esistenti le cose, e tanto meno dotate di tale o tal altra maniera di esistere, da tutti affirmabile : togliete, invero, dicemmo anche innanzi l’intelligibilità e l’ insieme dei.  rapporti intelligibili, che formano la realità stessa del reale,  e non resterà di essa che quella inconcepibile astratta poten-  zialità, quella mera 3ivqus del tutto impensabile, che è l'ormai. famoso atto puro di GENTILE (si veda).Il che prova inconfutabilmente che la realtà è assolutamente inconcepibile, astrazion fatta.  di quanto il nostro pensiero vi mette di suo, precisamente. 2 Age con le categorie: onde quella sintesi organica di rapporti  logici in cui, conoscitivamente, consiste il reale. Ora è precisamente questa impossibilità di concepire il  reale senza le forme del nostro pensiero che ci costringe,  inevitabile, a ritenere tali forme come atti intimi della vita  mentale e, ad un tempo, della vita reale immanente alle  cose, a parte anche l’ imprescindibile necessità di ammettere  un'assoluta unità e continuità di divenire o di sviluppo della  realtà; il che, pertanto, viene ad essere confermato, fra  altro, anche da sì fatta inconcepibilità. Per ciò, più che  delle forme astratte, o dei modelli vuoti, ovvero dei « punti  di vista » fotografici isolati come si vorrebbe anche le  categorie sono delle forme viventi e dei modelli flessibili in  cui la realtà entra senza giammai rinchiudervisi : quindi, come  delle vere démarches delle cose, precisamente come la funzione vitale della locomozione è conforme alle leggi obiettive  del movimento, come la funzione dell’ assimilazione nutritiva  è conforme alle leggi fisico-chimiche delle sostanze alimentari e dello sviluppo vitale. E se è pur vero, intanto, che  le forme della nostra esperienza come Kant afferma  dipendono dalla struttura generale dello spirito umano, non  per ciò è lecito all’ intuizionismo ed al pragmatismo di aggiungere, a mo’ di conclusione, che « la struttura dello spirito  umano è l’effetto della libera iniziativa di un certo numero  di spiriti individuali » (2). Giacchè, in realtà, pur potendosi  ammettere che taluni individui, per iniziativa davvero intelligente, ma non già « libera » sì da rimanere sottratta alla  natura delle proprie individuali disposizioni, abbiano introdotto  delle innovazioni, fatte delle scoperte, lasciata la traccia del V. a tal riguardo, G.: Una visione teleologica del manda, Pet.  rella, Napoli BERGSON : Preface de Verité et Réalité di James. Tosh i loro genio nella tradizione, nella lingua e perfino nel cervello della razza, non per ciò rimarrebbe spiegato il /oxdo  della nostra costituzione cerebrale, e cioè, ad esempio, la  rappresentazione del tempo e dello spazio, il principio di  identità e di causalità. Infatti tali principî non vorranno  dirsi, certo, fortunate ipotesi create da uomini intelligenti o  di genio, dato che essi vengono applicati 6 origine da ogni  intelligenza nel suo spontaneo moto di orientamento spiri.  tuale tra le cose e tra gli stessi stati di coscienza: e la  prova assolutamente inconfutabile ci vien data dalla presenza  od esistenza di essi anche negli animali, che non, certo,  parlano. E, veramente, non pochi di essi ad un certo  grado d’altezza nella scala zoologica hanno, con tutta  evidenza, più o meno confusa e concreta la rappresentazione dello spazio e del tempo: tutti, poi, hanno una specie di   credenza pratica e irriflessa nel principio d' identità, in quanto  tutti reagiscono nello stesso modo a delle eccitazioni simili,  e in maniera diversa a stimoli diversi; e tutti, anche, se in  qualche modo capaci di riflettere sulle azioni delle cose e  sulle particolari reazioni da essi opposte, ci danno chiara la testimonianza di questa loro credenza vissuta e vivente: che  ogni cosa ha la sua ragion d' essere, onde la loro tendenza  a cercare le ragioni delle cose nella misura in cui tali ragioni  li interessano, e, talvolta, anche per semplice curiosità. Tutti,  ancora, credono ad una realtà indipendente dalle sensazio vo  ed azioni, ad una correlazione determinata tra le loro sensazioni ed azioni e questa realtà: il gatto [GRICE ETOLOGIA FILOSOFICA] ad esempio che, sulle mosse di rubare del formaggio, sente che arriv  il padrone e si dà a fuggire per tema del bastone, ha Lalli N  il sentimento della pluralità costituita da sè medesimo, da padrone e dal formaggio. Ha, inoltre, il sentimento de  realtà della pressa del suo padrone, della possibilità dell Si  CATO battiture e, in fine, della relazione costante tra la scoperta  del furto e la minaccia delle percosse, oltre che, di conseguenza, la somiglianza tra l’avvenire ed il passato. Il gatto,  adunque, è già schiavo anch’esso delle categorie tanto  descritte dai pragmatisti ed intuizionisti? Esso, infatti, si  permette di distinguere il possibile ed il reale, il passeggero  ed il permanente, il fatto e la causa, l'uno e i più, come se  avesse avuto falsato lo spirito dalla lettura dei Dialoghi dell’ACCADEMIA. Il vero è, dunque, che le forme del nostro pensiero sono  innegabilmente dei punti di contatto tra l'essere ed il pen-  siero, dei mezzi per pensar l'essere e far essere il pensiero,  delle identità tra l' intelligibile ed il reale, e tutte si raccol-  gono nella categoria razionale e reale per eccellenza che è  la ragion d'essere, dato che il divenire della realtà non è,  in fondo, che divenire del pensiero. Il che prova che la  realtà è ciò che è, alla volta, obiettivo e subiettivo: l’unità  delle cose con lo spirito clie le conosce e con l’universo di  cui quelle e questo sono parti costitutive e solidali. È naturale, quindi, che la filosofia non possa restringersi nè al semplice  sforzo come pretende Comte di raggiungere la piena conoscenza del mondo, nè, del pari, all’ altro secondo lo Hegel di raggiungere la piena « coscienza  di sè, perchè i due punti di vista sono veri solo se inseparabili. E ciò è provato ad evidenza dal fatto che quanto  più larga e precisa è la conoscenza che noi abbiamo del  mondo che agisce in noi e sopra di noi, tanto più piena è  la conoscenza che noi veniamo ad avere di noi stessi; e,  per converso, quanto più precisa è la conoscenza di quel tipo di realtà e di intelligenza ch'è in noi, o che siamo noi  stessi onde la virtù, da parte nostra, di concepire ogni altra esistenza ed ogni altro pensiero tanto più perspicua e più sicura è la nostra conoscenza del mondo nella sua  realtà e intelligibilità. Quindi, qual valore può avere una  filosofia, che, annullando l’aspetto obiettivo della realtà, riduca  quest’ultima all'aspetto puramente soggettivo, o, peggio ancora,  alla mera astratta 3ivaus dell’affo $u70, come dicemmo?  E questa profonda unità delle cose con lo spirito e degli  spiriti fra loro è provata, in maniera inconfutabile, proprio  da quel comune sentimento che ci fa credere alla verità - la  quale, infatti, si afferma wniversalmente, come tale, precisa-  mente ed unicamente allorchè si manifesta come unità fra il  nostro pensiero e gli obietti rivelati dalle nostre sensazioni,  e, poscia, fra il nostro pensiero ed il pensiero altrui, che ci rivela le nostre sensazioni. È naturale, quindi, che le nostre  espressioni 0 idee sian da ritenere fermamente come scrigni,  a dir così, in cui si celano, come collane di diamanti, le  leggi, ad un tempo, del pensiero e della natura: e perciò  non sono da buttarsi via dopo l’ istante della loro creazione;  esse, in altri termini, sono delle verità immobili che noi  cercammo sotto il fluire del reale, o sotto la fluidità delle nostre sensazioni. La differenza, infatti, tra una ciliegia ad esempio ed una bacca di belladonna, oltre a non essere  puramente nominale, non è nè pure meramente o individualmente soggettiva, com'è provato dal fatto che, mentre la  prima nutre, l’altra uccide il fanciullo che non riescisse a    rt    distinguerla dalla prima. Perciò ripeto come pretendere che i nostri progenitori avrebbero potuto pensare e parlare  a loro talento, secondo la propria comodità? Allora sì che,  per davvero, non ci sarebbe fanciullo, che, piccolo Descartes, non si sentirebbe, necessariamente, di yewzeltre loul en question, 138 divenendo, così, essi proprio, i fanciulli, i veri creatori della lingua, e tanto più quanto più dimentichi o dispregiatori di ogni eredità sociale o spirituale, e cioè futuristi ad oltranza. Mentre il vero è che, non solo la coscienza comune e  cioè precisamente di quei grandi fanciulli che sono i popoli  nella loro immensa maggioranza di individui non sogna  neppure la possibilità di far della filosofia novatrice o creatrice onde la impossibilità, per esso, di yemettre en question  alcunchè di quanto spiritualmente ha ereditato dai suoi ante-nati, ovvero anche solo di agire alla luce del gran lume  della dea ragione quanto, eziandio, gli stessi filosofi,  avendo appreso da Platone e da Kant della naturale originaria limitatezza del nostro sapere, non si attendono minimamente di porre in dubbio simile verità, e, per ciò contrariamente al Nietsche, e sì, pure, a qualche altro odierno  pensatore fra noi si guardano bene dal ritenere la propria  opinione personale al di sopra delle condizioni universali in  cui essi vivono, e, a meno di esser folli, non pretendono,  certo, di essere dei supermomini. È, dunque, evidente, che le leggi della grammatica, ben  lungi dall'essere forme arbitrarie del nostro pensiero, sono,  invece, espressioni il più possibile adeguate e indispensabil-  mente zecessarie delle proprie sue leggi, risultanti, tali espres-  sioni, dalla congruenza attiva e costante collaborazione del  nostro pensiero colla natura e col gruppo umano di cui  siamo parte. E, si noti bene, tale collaborazione onde la  fissità ed universalità del linguaggio, nella immutabilità e universalità delle sue espressioni e delle sue forme logico-grammaticali non riesce punto come piace di opporre  agl'intuizionisti a ricoprire i nostri stati d’ animo più  personali come di una guaina impersonale fabbricata dalla  società. In verità, questa preoccupazione avvertita prima e  più di ogni altro da Bergson è priva di ogni fondamento,  in quanto i rigidi comuni schemi delle forme logico-grammaticali in cui il pensiero, come contenuto rappresentativo, deve  poter essere constretto, qualora voglia essere, davvero, strumento di conoscenza, se valgono, per l’ appunto, ad acqui. stargli in quanto tale valore universale e necessario  che altrimenti, abbiam detto, non avrebbe, e non potrebbe  in niun altro modo avere non riescono, peraltro, ad impedire affatto, anzi nè pure minimamente ostacolare, in quel È  suo moto spirituale verso la conoscenza delle cose, la naturale  incomprimibile sua /endenza alla forma soggettiva. E, in realtà, vi ha, per caso, corrente di pensiero che non presenti delle  particolarità che la distinguano nettamente da quella dello  stesso pensiero presso altri soggetti conoscenti? Senza pur  dire che la stessa particolare corrente di pensiero, che è È  propria di ognuno di noi, può, con tutta facilità, variare da  un tempo all’altro. E tali particolarità, che costituiscono ‘accennavamo come una frangia od alone del pensiero,  possono paragonarsi a quello che sono gli ipertoni rispetto p  al tono, per cui strumenti diversi possono riprodurre diversamente lo stesso tono: ed il motto comune /o stile è l' uomo  vuol esprimere, per l’ appunto, questa qualità individuale, 0, A  dirò così, particolare colorito espressivo, che il pensiero, pur È  nella medesimezza del suo valore oggettivo, 0 significato  rappresentativo, tende ad assumere presso le singole menti,  onde la facilità con cui noi riusciamo a distinguere o riconoscere, come se le avessimo davvero incontrate, od avute _  famigliari, oltre che le creature di ALIGHIERI (si veda0 e di Shakespeare,  e le figure di VINCI (si veda) e del Rembrandt, e i motivi di Beethoven e del Wagner, le immagini, altresì, rampollate da  una medesima sorgente spirituale d'ispirazione e recanti, |  quindi, una medesima impronta dele, come l’immagine dell'amore cantato da Dante nella Vita Nuova, e quel  offertaci da tutti gli altri poeti del dolce stil nuovo, non meno  de Tue che da Petrarca nel suo Carzorziere e da Shelley nel suo Epipsychidion ecc. Ed, anzi, quanto più netta e rilevata è  la personalità del soggetto conoscente, tanto più chiaro e  inconfondibile è il colorito espressivo delle sue creazioni  intuitive. E poichè, pertanto, tal colorito raggiunge la più  singolare sua tonalità individuale e la più sicura sua espres-  sione caratteristica proprio nell’ àmbito della coltura dove,  appunto, vige assoluto l’imperio delle forme Jogico-gramma-  ticali, più che nell'àmbito di quella esperienza comune, in  cui, invece, è quasi completa /’assezza di tali forme, ragione  per cui il parlare di due persone volgari od incolte presenta  una uniformità o identità formale di espressione che invano  noi cercheremo nel parlare di due persone colte, e più invano  ancora se, per giunta, di diversa educazione mentale, come  un valente letterato ed un grande scienziato  non è gioco- forza concludere che le forme logico-grammaticali, ben lungi dal distruggere o comprimere, comunque, la naturale tendenza  del pensiero alla forma soggettiva, son proprio quelle, invece, che, mediante, appunto, la infinita loro varietà d'intreccio, ed intreccio infinitamente variabile, offrono al pensiero di  ogni singolo soggetto conoscente la più larga possibilità di  rivelare ed affermare quella sua tendenza, nel tempo stesso  che prendono ad acquistare alle sue intuizioni un valore  universale e necessario?  Altrimenti come spiegare che cotale tendenza, se non  manca del tutto, è, senza dubbio, punto punto rimarchevole nelle espressioni delle persone incolte,  e manca, altresì, nei fanciulli, che, al pari di queste, igno-  rano ancora l’uso delle forme logico-grammaticali? In ogni  modo, non si può negare che pensare significa, in un certo  senso, scegliere: e noi scegliamo, infatti, così nel ragionamento, in cui cerchiamo come il punto di passaggio da un pensiero all'altro, come nelle intuizioni, cercando gl’elementi necessarî maggiormente  rappresentativi, ed eliminando gli insignificanti. E proprio in  sì fatta scelta, colla genialità della potenza intuitiva del soggetto conoscente, si rivela, altresì, e con non minore evidenza,  la particolare tendenza espressiva di esso; giacchè tale tendenza si rivela precisamente nel configurare (e cioè coordi-  nare e subordinare ch’esso fa) quegli elementi alla stregua,  dirò, di un comune denominatore (e cioè dell’ essenza del  reale che è obietto dell’ intuizione, od anche solo di quel  particolare aspetto di esso che si vuole porre in rilievo), e  colorirli, altresì, d'un medesimo zoro (quello offerto od im-  posto dal carattere sentimentale proprio del soggetto conoscente). Ed ecco, in tal modo,  per dirla con parole di  Croce stesso la ballatella di Cavalcanti ed il sonetto di Angiolieri, che sembrano il sospiro o il riso di un È  istante; la Commedia d’ALIGHIERI (si veda), che pare riassumere in sè  un millennio dello spirito umano; le Maccheronee di Merlin  Cocaio, che sghignazzano sul Medio Evo tramontante; la elegante traduzione cinquecentesca dell’Ewesde di Caro; l’asciutta prosa di Sarpi e quella gesuitica frondosa di Bartoli. Nessuna meraviglia, quindi, che cotal forma di pene.  sare, propria di ognuno di noi, si rifletta persino nei singoli È  frammenti delle nostre serie di pensieri, come non di rado ci provano quegli elaborati 4 mosaico di qualche alunno, nei  quali la varietà di stile dei diversi autori, i cui brani di.  pensiero concorsero alla formazione di tal mosaico, si mos Breviario che noi proviamo all’ improvviso apparire di una parola od  espressione di lingua straniera nella nostra, non devesi, forse,  alla interrotta uniformità di stile o colorito espressivo ? E non  è questa, altresi, la causa della gradevole sorpresa o disgusto,  che, lungo il procedere discorsivo proprio di una scienza, ci  procura così l’ incontro di frasi tutte proprie del dizionario  di un’altra scienza, inserite o non a proposito, come l’uso  di forme di ragionamento estraneo alla sua tecnica logica,  dato che ogni scienza, anche, ne possiede una? E la mescolanza del parlare volgare col letterario non ci procura anch’essa disgusto per la medesima ragione? Ora, se cotal naturale e, veramente, insopprimibile  tendenza del pensiero a forme espressive individualmente  caratteristiche o caratteristicamente individuali, pur nella loro  universale intelligibilità, riesce ad affermarsi e raggiungere  le più tipiche o singolari sue forme espressive precisamente  nel campo della coltura, in cui il rispetto alle forme della  grammatica e della sintassi è, come sappiamo, condizione  sine qua non per l'accessit in esso dei soggetti conoscenti,  non si deve, per ciò stesso, riconoscere senz'altro, che sì fatte  norme sono, per lo meno, ben lontane dall’oscurare od assorbire, nella loro universale uniformità, il particolare colorito  espressivo di ogni singolo soggetto conoscente ? E ciò stesso  non ci obbliga, d'altro canto, ad escludere, altresì, che esse possano essere, o siano meri giochi di artifizio, od anche  forme puramente convenzionali da noi arbitrariamente imposte  al pensiero? Giacchè, senza dubbio, in tal caso come  giustamente opinano gl’ intuizionisti esse sarebbero riu-scite o bene riuscirebbero come ne fan prova le forme  artificiose del Volapik dell’Esperanto e DEUTERO-ESPERANTO, e dell’ Interlingua  ad impedire l’aftermarsi ed esplicarsi della tendenza del pensiero alla forma soggettiva, pur riuscendo questa ad estrinsecarsi è tutto dire anche nei casi di natura patologica,  I quali, invero, a dissoluzione compiuta della personalità  normale ci fanno assistere, con tutta evidenza, alla for- o  mazione di nuove personalità, che, indeterminate dapprima,  si vanno, poscia, progressivamente affermando, fino ad assu-  mere fisonomie del tutto diverse dall'antica, e nei soggetti  ipnotici, poi, l'assunzione di fisonomie nuove si mostra pos:  sibile anche dietro la semplice adozione di un nome. Or tutto.  ciò non deve necessariamente convincerci della naturale ragion  d'essere delle forme logico-grammaticali, onde l'estrema assurdità della pretesa di Croce di volerle soppresse;  il che egli credette di poter fare vietando, con un tratto  penna, l'insegnamento della grammatica nelle nostre scuole?  Pretesa che, certo, non sarebbe nè pur balenata alla sua  mente, se questa avesse avuto il potere di accorgersi che sì  fatte forme, oltre che esigenze fondamentali imprescindibili  per la funzione d'intelligibilità del pensiero, sono, altresì, il  fondamento stesso della esistenza di quest'ultimo, in quanto,  appunto, condizioni e termini, ad un tempo, del nostro fersare?  Infatti, non riuscimmo noi a provare innanzi che le forme  logico-grammaticali altro non sono e non vogliono essere,  in sostanza, che espressioni pure e semplici delle relazioni 0!  rapporti che intercedono tra le cose, o tra i singoli elementi  di esse, così come le singole voci o parole non sono che i  termini puramente drdicazivi di esse cose, o dei singoli loro  elementi? E come potrebbe, adunque, darsi conoscenza i  intuizione di una qualsiasi cosa fuori, appunto, delle  relazioni con altre cose, o dei rapporti che intercedono  i suoi stessi elementi (70%), sì che possa ritenersi, cotalé  intuizione, tutt'altra cosa che una sintesi, appunto, ri  mente coerente di rapporti logici? E se, adunque, cote  rapporti sono, con tutta evidenza, i so/é termini del nos TORRE pensare, non è, perciò, da ricercarsi unicamente nella loro  netta distinzione e preciso loro significato, o valore logico,  la più netta e precisa intelligibilità della realtà? Nessuno,  infatti, ignora la confusione od oscurità che, immancabile,  procura al pensiero la insufficiente distinzione formale del  valore logico-grammaticale di qualche termine del nostro  pensare, come, ad esempio, quella che ricorre nel famoso  responso dell'oracolo a Pirro, che gli ha chiesto se sarebbe riuscito vincitore nella guerra contro i Romani: Aio te, Aeacide, Romanos vincere posse. E ciò per di più accade non solo in rapporto  al valore logico delle espressioni, e cioè in tutti i casi che  diciamo d’ANFIBOLOGIA, ma in rapporto, altresì, allo stesso SIGNIFICATO intuitivo della parola, e cioè anche nei casi in cui  questa possiede UN DOPPIO SIGNIFICATO, onde la famosa quanto ironica lode al debito di Berni: Debito è fare altrui le  cose oneste  dunque fare il debito è far bene. Non  solo: ma lo stesso ORDINE DELLE PAROLE nel discorso non  asconde anch'esso il suo valore logico? Quante volte, infatti,  il predicato non occupa esso il posto del soggetto, per richiamare su di sè l’attenzione e porre, quindi, in vista tutto il valore in esso riposto dal pensiero? Valgano di esempio le  seguenti espressioni. Mobile e grande, veramente, la persona del Re!; e/ix qui potuit rerum cognoscere causas. Spesso, ancora, il predicato logico è il soggetto grammaticale o l'aggettivo che l’accompagna: « 7% sei l'uomo! Tutti gli invitati sono arrivati, per dire appunto che  gli invitati che sono arrivati sono ## quelli che erano attesi. Invece nella frase, il danaro è dentro lo scrittoio,  quali dei tre elementi può dirsi preponderante o di maggior rilievo? Non si sa, perchè potrebbe essere così il primo (danaro), come il secondo (dentro), come anche il terzo (scrittoio). Tutto sta nel cogliere od indovinare il pensiero o L’INTENZIONE intenzione di colui che parla [GRICE, UTTERER’S MEANING]; ma dicendo io: è dentro ll  scrittoio il danaro, chi non comprende che l'elemento essenziale è, qui, scrittoio? Ma potrebb’essere anche dezzro.  non ricorriamo, per ciò, in sì fatti casi, e cioè in manca È.  di una qualsiasi specificazione anche in ordine al posto occupato dalla parola nel discorso, ad una particolare accentuazione o zoro, col quale prendiamo ad esprimere o pronunciare  la parola in questione, e cioè, nell'esempio addotto, accentuando la voce su denaro, dentro, o scrittoto? [GRICE: IMPLICATURES OF STRESS]. E se, adunque  l’intelligenza ha dovuto ricorrere fino a simili SOTTIGLIEZZE [IMPLICATURE] pe  rendere la lingua più che mai duttile e perfettamente obbediente ai più lievi moti del pensiero, non è semplicementi  assurdo e ridevole, insieme, chiedere come fanno gl’intuizionisti l'abolizione addirittura delle forme sin  tico-grammaticali per l’espressione del nostro pensiero? E  tuttavia, il tentativo di cotal soppressione non è stato, fors  già, magnificamente compiuto dai rappresentanti del futurismo? E con quale risultato, per la funzione intelligibile del pensiero, sa molto bene chiunque abbia avuto occasione di ammirare qualche saggio dei prodotti artistici di questa nuova  letteratura, il cui merito è precisamente nella mapei imintelligibilità delle loro espressioni. È  Qual meraviglia, quindi, che, in sì fatto caso, co  espressioni, appunto perchè asso/uiamente individuali ri  gano, per davvero, assolutamente intraducibili ed inclascabili? Ma è, dunque, sol perchè zrsntelligibili, come noi affrettammo a dichiarare innanzi: onde la conseguenza tangibile, ora, che l'elemento veramente intraducibile  in una forma di conoscenza dichiarata universale e necessaria, non può essere, e non è, che unicamente e precisimente il particolare COLORITO ESPRESSIVO [FARBUNG – GRICE] di ogni singolo soggetto  conoscente, val quanto dire unicamente la sua forma mentis,  e non già pure il corzerzto oggettivo delle sue espressioni  o intuizioni, come sostiene Croce. Altrimenti saremmo costretti a chiedergli perchè egli, pur convinto dell’assoluta  impossibilità di renderci, comunque, anche IL SIGNIFICATO ideale  delle immagini estetiche, oltre che la loro forma o COLORITO ESPRESSIVO, potè, nondimeno, decidersi al tentativo di darci  la traduzione sia qualsivoglia il valore di questa di  talune liriche di Goethe: ed in tal caso a lui non rimarrebbe che: o riconoscere semplicemente pazzesco tal suo  tentativo appunto perchè senza scopo di sorta; oppure  confessare il proposito, da parte sua, di darci, a fianco o di È  fronte all'opera d’arte dell’Apollo Musagete della Germania, DI  un’altra opera d’arte non meno grande e perfetta di quella, E  E sia pure: ma perchè, intanto, credette di far passare s0//0  il nome del Goethe il contenuto ideale di quelle sue tradu-zioni, e non già sozto il proprio suo nome, se vero è che, col i  mutar dell’originaria forma espressiva di un’opera d’arte, pi.  muta, altresì, il proprio contenuto rappresentativo? È se,  pertanto, Croce crede di attribuire al Goethe e non a  sè i fantasmi ideali o l’ideale fantastico espresso da ognuna i  di quelle liriche da lui tradotte, non, forse, ciò stesso vuol È  | significare, anzi testimoniare, che l’intraducibilità è solo della È  forma espressiva e non già pure del suo CONTENUTO RAPPRESENTATIVO [GRICE, CONTENUTO PROPOSIZIONALE], se questo vien senz'altro riconosciuto e dichiarato dell’azzore e non già del traduttore? Se così, di fatti, non vaemtetizizo    fosse, con qual miracolo di pensiero, egli proprio, accanito    bi | assertore e propugnatore di cotal peregrina teoria dell’asso-  luta intraducibilità del pensiero altrui, sarebbe mai giunto,  poi, sino a distinguere addirittura dei cicli progressivi «i SENO  di prodotti estetici inerenti ad una « wedesima materia », R  =*  sf  Da  = LL come ad esempio  la materia cavalleresca durante  la rinascenza italiana da Pulci ad Ariosto? Mentre, a  rimanere strettamente fermi o coerenti con la sua teoria, noi,  non solo non dovremmo assolutamente poter distinguere 7224/%  di nulla in un'opera d’arte, ma neppure la szessa maderia di  un'opera da quella di un’altra; fino al punto che, qualsi  distinzione come, ad esempio, quella di attribuire il con-  tenuto del Decamerone a Francesco d’ Assisi e quello dei  Fioretti a BOCCACCIO (si veda) sarebbe la più naturale e  bene informata di questo mondo, precisamente come la su  contraria ? È questo, infatti, l’assurdo, possiam dire tangibile,  cui direttamente mena » della.  sua dottrina estetica? Il che è tanto vero che proprio io  mancato riconoscimento del valore gnoseologico di tal prin-  cipio ha tratto Croce il preteso interprete autorizzato |  della dottrina vichiana : autorizzato a giudizio suo proprio,  o di chiunque si voglia a non comprendere aftatto nulla  di tale dottrina, posto ch'egli è riuscito non solo a falsarla  nell'intimo e vero suo significato, quanto a spogliarla, altresì,  di tutto il suo valore filosofico. E mi darò a provare ciò  rapidissimamente, con l’opera di Vico in una mano, e quella 3  di Croce nell’altra, sì che ognuno abbia modo di convin-  cersi, ancora una volta, come, in realtà, sia proprio nell’  abito mentale di quest'ultimo interpetrare @ suo 2040, e cioè |  nella maniera più capricciosa ed arbitraria per le ragioni |  più volte dette innanzi il pensiero degli scrittori di cui| si occupa, e specie allorquando l’opera di questi rientra più  direttamente, od essenzialmente, nel dominio dell’arte, o delle  dottrine estetiche. Mi affretto per ciò ad iniziare senz’ altro  l'esposizione del pensiero vichiano, rivolgendomi in particolar  modo a coloro che non hanno avuto occasione di leggere ji  la Scienza Nuova ; ragione per cui comincio proprio come  Vico col ricordare loro la necessità o bisogno da questi  avvertito prima di entrare nella diretta trattazione dell’opera sua di far notare al lettore come il sistema naturale del diritto delle nazioni di tutti e tre i più celebri |  uomini del suo tempo Grozio, Seldeno e Pufendorfio  debba a parere di lui  il suo più grave difetto al fatto.  che nessuno dei tre pensò stabilirlo sopra la Provvedenza divina. Mentre si sa che, per scuoprire sicuramente | le vere e finora nascoste origini » di cotal dritto, che investe Principi di Scienza Nuova; a cura di Ferrari, Milano, e concerne religione, lingue, costumanze, legge, società, g0-  verno, domicilio, commerci, ordini, imperj, giudici, pene, guerra,  pace, rese, schiaviti, allianse, insomma duéte le cose divine e umane, occorre, anzitutto, ed imprescindibilmente, ricercare  ed ammettere l’idea di un ordine universale ed eterno. Altrimenti, come spiegare quel senso comune del genere  umano, o che è lo stesso quella certa mente  umana delle nazioni, che, usando per me227 quegli  particolari fini perseguiti dai singoli individui e « per i  quali essi andrebbero a perdersi », dispone tai fini, fuori  e bene spesso contro ogni proposito degl’individui  stessi, a un fine wziversale? Non è, quindi, da me-  ravigliare che cotale /dea, sotto l'aspetto, appunto, di Pyrovvedenza ordinatrice di tutto il diritto natural delle nazioni,  debba necessariamente rimanere /a fri2a o principal  fondamento di ogni qualunque lavoro » del genere, e,  per ciò, essa non manca, e tale si dimostra per tutta  l’opera sua.   Si noti, però, che, in quanto tale, essa non può, natu-  ralmente, non possedere due propietà primarie, che sono:  una /’immutabilità (o necessità ch'è lo stesso) l’altra /’uzs-versalità; giacchè solo in forza di codeste proprietà potè  venir concesso ad essa « Provvedenza, o Divina architetta [cf GRICE INGENGNERO] di mandar fuori il mondo delle nazioni colla regola  della sapienza volgare: e cioè di quel senso comune come dicemmo di ciascun popolo o nazione, che rego.  la nostra vita socievole in tutte le nostre umane azioni, così  che facciano acconcezza in ciò che ne sentono comunemente  tutti di quel popolo o nazione. La convenienza, poscia di questi sensi comuni di popoli o nazioni tra loro tutte è  la sapienza del genere umano. La quale, per ciò,  mane, evidentemente, come il principio informatore delle  utilità o necessità umane uniformemente comuni a tutte le particolari nature degl’uomini: il frutto avrebbe.  qui detto lo Hegel dell'ASTUZIA [GRICE CUNNING] della ragione. Giacchè, n  sostanza, cotal principio universale, o Divina Provvi-  denza, non è, pel nostro, che, per l'appunto, / agwadità  dell'umana ragione in tutti, ch'è la vera ed eterna natu  umana: val quanto dire, più semplicemente, 2°  dello spirito, il quale soltanto, in verità, è il princi  reale ed assoluto che informa e dà vita a questo mondo  di Nazioni.   E, poichè, intanto, la lingua è l’espressione più univer.  salmente intelligibile e sicura dell'attività spirituale, è  turale e conseguente ammettere, che, qualora essa voglia  rimaner, davvero, una forma espressiva wrzversalmente e e-  cessariamente intelligibile, debba recare quei due medesir  caratteri, o froprietà primarie, riconosciute all’attività spi  tuale. Onde la necessità  intesa bene da Vico  di  collegare com'egli fa i due motti che per lui voglio  rispettivamente esprimere il carattere di universalità e ne    di  Cfr. anche Degnità: «Il senso comune è un giudi;  senza alcuna rifessione, comunemente sezzizo di tutto un ordine, da tutto |  popolo, da tutta una Nazione, o da tutto il Genere wmano. Principi di Scienza Nuova°, Ed. Truffi  Milano J  N  i CI    EPA AR,  i Da cessità del LINGUAGGIO: «a /ove principium Musae   col   quale, addirittura, egli apre la Scienza Nuova — e « as   gentium, © sia la favella immutabile delle nazioni », a quell’altro motto, espressivo dell'universal principio ch'è lo spirito :  Jovis omnia plena.  Ed ecco, così, nell’ « Z4ea tutta chiusa in questi tre  motti i*primi due dei quali, già, possono dirsi bene sottintesi, o sinteticamente ricompresi dall’ ultimo quella  chiave maestra, l’espressione per immagini allegoriche,  col suo mirabile segreto, il carattere di unzversalità,  che ci consente, senza dubbio, la più coerente e stupenda  visione sistematica di tutto quel complesso di verità e prove   ti di fatto intorno all'origine, essenza e sviluppo della lingua,  che ci rivela e dette, davvero, una scienza z%ova.  E, in realtà, non si può negare che il carattere o va-lore intelligibile della lingua o della conoscenza intuitiva, ch’è lo stesso, è strettamente dipendente e correlativo alle modificazioni della nostra medesima Mente umana.  E poichè questa raggiunge il suo pieno sviluppo a traverso  tre fasi — che preannunziano i #re stati di Comte, non  sono, per ciò stesso, da ammettere tre diverse forme o gradi  di conoscenza poetica o intuitiva? Quella della prima età,  detta « divina », in quanto comincia dagli Dei, « con  gli auspici di Giove, e, fatta, per ciò, tutta di « parlari  divini ritruovati dai Poeti Teologhi, che ben « s' inten-  devano del parlare dei Dei. E quest'età continuandosi  in un secondo momento per g/i ZEro:, dette  luogo alla sapienza eroica, per ricongiungersi, infine, col tempo storico certo delle nazioni; tempo in cui si . ù  =  o dda ebbero, appunto, quei parlari per rapporti naturali, che  dipingono descrivendo le cose medesime che si vogliono esprimere: della qual lingua si ritruovarono già forniti i Dopo  greci a’tempi d’Omero. i  Ora Croce non ha del tutto schernevolmente quanto  inconsapevolmente negato ogni valore filosofico a codesta distinzione do Vico, distinzione che pure involgé od esprime, |  in realtà, la norma e forma, insieme, veramente fondamentale ond'è governato e si esplica lo sviluppo della cono-  scenza, e rimane, altresì, una delle più comuni verità della.  nostra esperienza ? Infatti, che cosa vuol dire, qui, il Vico,  tenendo bene presenti le premesse da noi dianzi a bella.  posta richiamate della sua dottrina ? Semplicemente questo.  com’egli, poscia, in lungo e in largo si affretta a chife  rire e dimostrare lungo tutta l’opera sua: che i primi  uomini, privi ancora di favella, o di par/ari convenuti, non  potevano, naturalmente, intendersi fra loro che ricorrendo precisamente come i Mutoli  a cose ed atti che  avevano NATURALI RAPPORTI ALL’IDEE CHE ESSI VOLEVANO SIGNIFICARE, come, per l’ appunto, ci provano le cinque parole  reali con cui Idantura, Re degli Sciti, risponde a Dario Maggiore, che gli aveva intimato guerra Man man. E qui, molto acutamente, Vico nota: e avvenne che quasi tutti i popoli della Grecia ognun pretese essere Omero s  cittadino, è appunto perchè, avendo questi /essuzo i suoi poemi con i mig  parlari di tutta la Grecia, ciascun popolo avvertì in questi poemi i suoi nai  parlari, onde ritenne Omero della propria terra: il che val quanto dire:  carattere più universalmente espressivo acquistato, appunto, dalla lingua quest’ultimo in confronto di quella di ogni altro del suo tempo. Le cinque parole reali furono: una ranocchia, un topo, un uccello,  dente d’aratro ed un arco da saettare. La ranocchia significava ch’ esso  nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo 1’està,  ranocchie e di esser figliuolo di quella Terra ; il 4050 significa, esso €  topo dov'era nato, aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente; /’wece SME però, il genere umano, venendo in possesso della favella,  cominciò a sostituire alle immagini yea/ delle cose le immagini 272424ve di esse. E però s'intende di leggieri queste non sarebbero mai potuto divenire mecessaziamente intelligibili fer #/#, qualora non avessero avuto a fondamento  un'idea universale, 0 un pensiero (a tutti) comune, come,  per l'appunto, una qualche cognizione di Dio o della Divina  Provvedenza, di cui, certo, essuzo andava privo. E quale  idea o cognizione più generalmente nota, o a tutti comune,  di quella di Giove, dato che «7 primi popoli erano incapaci  d’universali? Ed ecco, ora, svelato a pieno, e in tutto  il suo valore gnoseologico, il segreto della chiave maestra dell’opera vichiana: l’idea della divinità, in funzione di categoria dell'uzzversale, pel suo carattere appunto di universalità.  E così Giove nacque in Poesia naturalmente Carattere Divino significa, avere in esso gli auspici, cioè, che non era ad altri soggetto che  a Dio; l’aratro significa aver esso ridutto quelle terre a coltura, e di averle  dome, e fatte sue con la forza, e finalmente l’arco da saeffare significava  ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi da doverla e poterla  difendere. In conclusione, egli, Dario, « contro la ragione delle genti », gli  avrebbe portata la guerra. Veggasi Degnîtà LVII, in fine: Alla qual FAVELLA (FABVLA) NATURALE (per atti  o scopi, ch’avevano zazzrali rapporti all’ idee ch’essi volevano significare) do-  vette succedere la locuzion Poetica per immagini, somiglianze, comparazioni, e naturali propietà. Questa Degnità è anche il principio dei geroglifici,  coi quali si trovano aver parlato tutte le nazioni, nella loro prima barbarie. E cfr. anche Degnità: Zdee uniformi nate appo  întieri popoli tra essi loro #0n conosciuti debbono avere un mwofivo comune di  vero. Ed altrove: Col carattere divino di Giove, che fu il primo di tutti î  pensieri umani della gentilità, incominciò parimenti a formarsi la /ineua articolata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciullini: ed esso Giove è da’ Latini dal Yragor del tuono detto dapprima  Iovis; dal fischio del fw/mine, da’greci è detto Zi03; dal suono che dà il  fuoco, ove brucia, dagli oriertali dovett'essere detto Ur; onde venne Urim,  la potenza del fuoco, dalla quale stessa ragione dovett' a’greci venir detto  Odpavés il Cielo, ed a' Latini il verbo Uro bruciare. E così via ancora, per  lunghe pagine. Ù in alte pet ST-PTRE WEST] gie tificazione, del segno con la cosa significata, per cui non  da meravigliare sia accaduto che il significato immaginativo  della radice e noi avemmo testè occasione di convincercene sia riuscito a cancellarsi, per non esprimere, poscia,  la parola, che il concetto. Non solo: ma giunto il pensiero.  a sì fatto grado di sviluppo, e cioè a liberarsi da qualsiasi,  schiavità rispetto alle immagini sensibili, e divenuto, per ciò |  stesso, padrone assoluto del materiale della conoscenza, è  naturale che la parola, oltre che ogni traccia del significato  radicale, venga a perdere, anche, ogni autonomia, col pren  dere a significare unicamente ciò che al pensiero importa  che significhi : diventa, cioè, quello stesso che è IL SEGNO algebrico, perchè il concetto rimane, così, definitivamente  fissato nella sua generalità; nè basta ancora: chè essa)  acquista, altresì, la capacità di divenire il soggetto di tutti.  nessi possibili, appunto perchè scomparso in esso quel SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora, avrebbe ciò reso impossibile, o non poco difficile.  Si spiega, quindi, chiaro, adesso, perchè, nell’ascoltari  un discorso come innanzi osservammo  noi, ben lungi  dal tradurre le parole in immagini della fantasia  il che  darebbe luogo è facile supporre a quale tumulto e confusione  nella mente!  riusciamo ad afferrare immediatamente, e  con tutta precisione € determinatezza, il senso di esso. Come, quindi, la duttilità della lingua, e cioè la  scente sua perfezione e precisione come strumento d  conoscenza, non devesi essenzialmente all’ intelligenza?  noti bene Croce che NON È PER ARTIFIZIO, o per la natura tut  propria dell’Aomo faer come assevera Bergson  la lingua diventa, progressivamente, strumento di conosc  o attività veramente conoscitiva, col progressivo  svilu  dell'attività razionale; così come non è per artifizio o STE priccio che il bambino pure, coll’affermarsi anche progressivamente del potere della ragione, viene via via dispogliandosi  di tutti i più bassi ed oscuri suoi istinti; ma unicamente e  necessariamente perchè solo a mezzo dell'attività razionale e cioè in quanto %omo sapiens : la pensi pure al contrario  il Bergson  è consentito alla coscienza umana di elevarsi  dal mondo della sensibilità a quel mondo di valori, che  è appunto il mondo dello spirito: condizione essa appunto, la  razionalità, di tutti i valori, perchè condizione size gua won  della vita stessa dello spirito. Ora, poichè l’arte  per affermazione di Croce stesso  è il fondamento del mondo dello spirito, in quanto, difatti,  non si può revocare in dubbio, che la espressione per 77224-  gini, o poesia, è, « per necessità di natura, e lo provammo  bene innanzi la prima operazione della mente umana »,  e per ciò « la lingua materna del genere umano », si può,  eo ipso, concludere col Croce che gli uomini tutti debbono  ritenersi poeti ad un modo?   Eppure, oltre la grave fondamentale difficoltà, che in ma-  niera fix che mai varia, pei singoli soggetti conoscenti,  oppone la insufficiente esperienza, che, in generale, noi si ha  della vita interna delle cose, perchè ci fosse dato di cogliere  ad un modo la individualità vera e propria di esse o della vita  intima del reale  come innanzi ampiamente mostrammo,  non, fors’ anche,  giusto l’ altro grave impedimento posto  in luce dal Bergson fra la natura e noi (che dico? fra  noi e la nostra coscienza) s'interpone un velo, velo spesso per gl’uomini comuni, velo leggero, quasi trasparente per  l'artista ed il poeta? Quel velo che, impedendoci, ‘naturalmente, di farci vedere  e comprendere le cose per sè stesse, ce le mostra, invece, 7 Riso pp. 142-143; Laterza, Bari; .  ea DETTO,  \  o VI d Y A Ti,  A TRES unicamente sotto il rapporto che esse hanno coi nostri  bisogni, e punto, già, nel loro naturale clinanzer, o tendenza che le trae a perseverare nel proprio essere. Di guisa che,  di solito, noi non vediamo e sentiamo del mondo esterno |  che solo ciò che i nostri sensi ne traggono per illuminare.  la nostra condotta, e, quindi, essi non ci danno della realtà che una semplificazione pratica », così come noi non conosciamo, ugualmente, di noi stessi « che quello che affiora alla  superficie e prende parte all’azione, e cioè non altro che È  lo spiegamento esterno della nostra coscienza, e non già i nostri stati d'animo che si nascondono a noi in quello che i  hanno di intimo, di personale, di originalmente vissuto (1 e.  Di conseguenza noi saremmo stati realmente Zulli artisti, solo se la realtà avesse preso a co/pire direttamente i  nostri sensi e la nostra coscienza », e, quindi, fossimo potuto. entrare in comunicazione immediata con le cose e noi stessi »,  giacchè, in tal caso, la nostra anima sarebbe riuscita a vibrare all’ unisono con la natura. E come, in realtà, negare che codesto velo abitualmente  ed istintivamente  se non fatalmente e inevitabilmente, secondo  il Bergson si interpone davvero tra la natura e noi, e fra.  noi e la nostra coscienza, ed è spesso, certo, fra gli uomini  comuni, e leggero e quasi trasparente per gli artisti e poeti,  per non ritenere tangibile, a dir così, l’ assurdità dell’ affe  mazione crociana: che noi si sia #ut: poeti, e ad un modo   E sì che è anche comunemente noto, in quanto cano  fondamentale per l’arte e per la vita di essa,  e da Cr  per giunta, come da niun altro, forse, di continuo ricordai   che l’opera d’arte dev'essere spoglia di ogni fine inter  .  2190902  sato che non fosse, appunto, la più adeguata e genuina  espressione o rivelazione della vita intima del Reale, ragione  per cui diciamo, a tal proposito: che l’arte uéto fa e nulla  si scopre, se non appunto tale intimità di vita delle cose. E allora? i Allora risulta in ogni modo evidente, che se Croce che pure ha scritto un enorme trattato di Logica  avesse  avuto una cognizione chiara ed esatta dei processi logici onde il  nostro pensiero tende  come ampiamente vedemmo innanzi ad affermarsi, appunto, compiuto e coerente organismo logico, indubbiamente, prima stesso di negare ogni valore alle forme  grammaticali del linguaggio, egli si sarebbe ben guardato  di non riconoscere alcun valore alla distinzione delle tre fasi  di sviluppo dell'attività conoscitiva. Fasi, che, in verità, noi  possiamo ridurre senz'altro a due, in quanto, produttrici  entrambe, le due prime, d’espressioni per #rasporto o metaforiche, la distinzione fra esse viene ad essere, naturalmente,  puramente empirica: e, per ciò, mentre l’una  sintesi delle due  prime  rimane creatrice di roi poetici: frutto, appunto,  d’intuizioni per serzgdianza di cose conosciute ; l’altra affermasi  creatrice d'immagini proprie: frutto di diretta intuizione della  realtà. Ora, con tal riconoscimento, è chiaro che il pensiero  crociano avrebbe evitato senz’altro di cadere in una posizione  davvero sconciamente contradittoria. Giacchè, mentre, da  un lato, egli ammette bene, col Vico, che alle origini il  pensiero umano, non saffiendo la causa delle cose, non  può, di zecessità, non intuire o concepire la realtà che per  immagini (e solo metaforiche, già), ragione per cui l’uomo  non può, originariamente, non essere foeta (e cioè facitore  appunto o creatore d' 272722g7777,come udremo più in là proprio  dal nostro), dall’ altro, contrariamente al Vico, e, quindi, in  Fi    RARO VAL ARE cn pp o ped Be 5 iti vien ile x he Masi RUE ITA TIA RITA  fg AI #i% Mes E contradizione con tali premesse, prende senz’ altro a concludere che l’arte (frutto, adunque, per quest’ultimo, della  seconda fase di sviluppo del pensiero, o, possiamo dir pure,  del secondo momento dialettico del pensiero, in sintesi, già,  col primo, giacchè solo allora, in verità, esso riesce a creare  l’immagini proprie delle cose o della realtà) è « il momento È della barbarie e ingenuità dello spirito: come dire quel  tale « persar da bestie », tutto proprio di quel primo momento, in cui, per recessità di natura,  € necessità insuperabile  lo spirito non può creare che per simzglianza di cose conosciute, e, per ciò, non altro che #raslati. E cioè quei tali tropi poetici, o immagini metaforiche, o figure retoriche,  che nessuno, mai, più recisamente e convintamente di Croce  ha dichiarato zon arte, anzi addirittura arzzartistiche 1 Ed è così che si ragiona? E valeva, allora, la pena,  tanti anni sono, di mettere il mondo a rumore con quella crociata, veramente, e così 7zzz0rosa, contro lo studio, nelle  nostre scuole, della retorica, o anche solo contro la più semplice considerazione generalmente accordata alle immagini retoriche, se queste, evidentissimamente, sono originarie quanto  necessarie forme successive di sviluppo del pensiero conoscitivo, e per ciò frutto proprio del primo momento, quello appunto  di barbarie e ingenuità dello spirito, incapace, com’ esso è  tal momento, sia « d’ intendere il ro delle cose, che appellar (queste) con voci propie? Onde un esprimersi,  naturalmente, solo « con metafore attuose, simiglianze. Quindi, più  eterna di così, in quanto tale, davvero? Giacchè, infatti, « fer  necessità di natura, la mente umana in entrambe le fasi o   = it, Za GEA e IT. Si Pu, se  e SVIENE SI e_N II    Cap FA  e na al    sti RETTE eeti    sas  momenti di sviluppo della sua attività conoscitiva, non può |   abbiamo visto riescire ad esprimersi altrimenti che dex  immagini. Ma non per questo, però, le due specie d’immagini, o forme d’ espressione poetica, dei rispettivi due momenti, sono senz’altro da identificare; giacchè le immagini assolutamente allegoriche e, per ciò, del tutto fantastiche della | a Metafisica poetica: espressione propria del fr7720 momento; rimangono sempre, pel nostro, di fronte a quelle del tutto ragionate della Logica poetica: espressione del secondo  momento  frutto genuino di un fersar da bestie, ch îa  per ciò appunto, oggidì, afpera intendere si può, affatto imma:  guare non si fuò. Giudichi, quindi, ognuno, con quanto  arbitrio ed insensatezza Croce ha preso a identificare le  due forme d' espressione, onde di rimbalzo, nel campo de  cultura (dove, purtroppo, per inerzia o per incapacità mentale, È: si reputa ed usa in genere di pezsare e sapere col giurare  in verba magistri, anche se, talvolta, il maestro è tale, com  non di rado oggidì, cui, a nostra volta, saria vergogna ess  maestro +) quella orrenda confusione tra Arte e Poesia, pi  cui anche persone dell'altezza mentale, per esempio, di t  Cesareo (che può vantare, fra altro, anche lui la concezia    di un saggio sull’Arte) è giunto  con un’ ingenuità  dovrebbe essere del tutto impossibile in un uomo di cultu  veramente sino ad affermare: quella dell’uomo de caverne poeta è una figurazione graziosa ma alquanto can- |  zonatoria.  Canzonatoria?!! E perchè, di grazia? Avrebb'egli pretes  per caso, che quell'uomo, più che fer immagini, e come alt  mai sublimi divine  nel senso vichiano, già: e cioè del tu  metaforiche si fosse espresso per concetti, e magari add Saggio sull’Arte creatrice, Zanichelli, Bologna. RIVE, et rittura nella maniera concettuale dello stesso maestro dell’ 27/0  puro, od anche dei suoi cuccioli metafisicanti, dato che  a questi riesce in particolar modo impossibile concepire la  realtà per immagini ? Tanto vero, che se, talvolta, vi si pro-  vano, chi non sa  per confessione loro stessa  quali  immagini plebee vengon fuori? Ora tale confusione, e nei domini della più alta cultura,  non prova, evidente, che il concetto di poesia, qual'espressione puramente per immagini, non è stato fin qui, ch'io sappia, E, in verità, come mai il Cesareo, che, col suo Saggio su 2° Arte  creatrice, ha pur creduto di poter fissare i lineamenti di una nuova Zsfefica  ben diversa da quella del Croce, e pigliando, già, anche lui, le mosse dalla  filosofia del Vico, la quale, al pari del primo, egli pure ha creduto di poter,  qua e là, correggere ed integrare, abbia, nondimeno, finito coll’intendere anche  lui il concetto vichiano della poesia precisamente a mo’ di Croce, e non già  nell’accezione mille volte datane dal Nostro di immagine allegorica o meta-  forica, io non son riuscito a comprendere. E sì, per giunta, che anche in  questo caso il Vico, come prevedendo l’obiezione del Cesareo come, già,  l’altra del Croce non ha mancato nè pure di indicare esplicitamente le ra-  gioni per cui la poesia nacque prima della prosa. Da tutto ciò e cioè dalla  prova datane innanzi del carattere origizario e necessario delle figure retoriche,  per cui |’ indistru/tibilità di queste sembra essersi dimostrato La Locuzione  poetica esser nata per necessità di natura umana prima della prosaica ; come per  necessità di natura umana nacquero esse Favole Universali Fantastici, prima degl’universali ragionati, o siano Filosofici ; i quali nacquero per mezzo di essi far/ari  prosaici; perocchè essendo i Poeti innanzi andati a formare la Zavella poetica  con la Composizione dell’ idee particolari, come si è a pieno dimostrato; da essa  vennero poi i fofolî a formare i parlari da prosa col contrarre in ciascheduna voce, come in un gezere, le parti, ch’aveva composta la favella poetica ; e di  quella /rase poetica, per esempio, mi bolle il singue nel cuore, ch'è parlare per  propietà naturale e/erza, ed universale a tutto il genere umano; del sangue del  ribollimento e del cuore fecero urna sola voce com’un genere che da’ Greci fu detto  oouazoi, da’ Latini  #ra dagli Italiani co//era. Con ugual passo de’ geroglifici  e delle /eflere volgari, come generi da conformarvi innumerabili voci articolate  diverse, per lo che vi abbisognò fior d’ ingegno: co’ quali gezeri volgari e di  voci e di lettere, s'andarono a fare più spedit: le menti dei popoli, ed a for-  marsi astrattive; onde poi vi si poterono provenir i Zi/osofi, i quali formano i gereri intelligibili: lo che quì ragionato è una particella della. Storia  dell’idee. cita e e bd Sa    id  dtt bici e di  dii    sΠ   #  te orti Ja    NOI alt    s  Ù  4  î  À  *  »)  5  x  " A  i re cs = dee la 7 faro fida: 0h compreso mai da nessuno? Giacchè, generalmente, s'è preso  ritenere  come si ritiene  poesia, unicamente le espressi  per versi, strofe, rime ecc., che non solo udimmo da Vico sono le x/#me espressioni della ragion poetica, quan  altresì, può darsi bene il caso che con tutto ciò, e cioè  più sonori versi di questo mondo, non si riesca punto a f  della poesia, e cioè creare un organismo di immagini (  goriche o proprie che possano essere), e solo, invece, organismo puro e semplice di concetti. Infatti non si ritiene, forse, poesia, ed essenzialmente tale, dall’opera capitale di LUCREZIO (si veda), sol perchè espressa in versi, e punto tale i  loghi dell’ACCADEMIA, a' quali possiamo aggiungere quelli du Leopardi, non  che l’opera capitale di Schopenhauer, in quanto la vincono, e senza  paragone, sulla prima, per ricchezza e potenza espressiva delle immagini? E, tuttavia, andate a dire nel campo della cultura che queste ultime 0  sono poesia ben più vera della prima, e cosa più mirabolante ancora  esse sono, ad un tempo; opera d’arte, appunto perchè le immagini ond?’e  esprimono la vita del Reale, oltre che singolarmente proprie, nutrite, anci  più che mai di fersiero, invece che di puro senzimento, come dal mondo  turale, in genere, e da Croce, in particolare, si pretende debbano esse;  immagini dell’arte! Si vedrà alla fine di questa nostra indagine critica a  profonda rivoluzione filosofica ha tratto il nostro pensiero codesto nuovo  cetto dell’arte, nel riesaminare che a noi, di conseguenza, s’impose stregua di cotal nuovo suo fondamento conoscitivo, tutti gli altri proble  pensiero, che comunemente noi diciamo massimi: rivoluzione, peraltro, implii  idealmente nello stesso pensiero di Vico, inteso, già, nel senso da no: quì indicato, con le stesse sue parole. Infatti, non escludeva egli, testè,  quivocabilmente, la conoscenza logica quale funzione origizaria, o conoscitiva del nostro spirito, non essendo essa, per lui, che una mera plificazione pratica, od espressione puramente schematica della conoscenza |  tiva? e cioè  per dirla con le stesse sue parole  una forma co  delle parti della favella poetica, in quanto « composizione delle 3  ticolari (0 note predicative, diremmo noi oggi) delle immagini intuiti  ciascheduna voce, come in un genere: il corcezfo, appunto? Il che, d’al  in maniera inoppugnabile mostrammo anche noi, innanzi, per nostro  Quindi forma vera e propria di conoscenza, 0 conoscenza veramente 0  del nostro spirito, unicamente quella iniziva, che raggiunge appunto la.  piena sua adeguatezza e compiutezza nelle immagini proprie, 0 dell’a  ragione per cui, anche, il nostro credè di darle lo stupendo quanto af. po Eppure, fin dai suoi tempi, il Manzoni non solo avvertì  come ricorderemo più dltre che il canto desti- appellativo di « lingua maferna del genere umano », escludendo eziandio, così,  che, in quanto tale, possa esservene un’altra. E, poi, la stessa /ogica interna della dottrina estetica di Croce  pur  affermando egli il contrario a parole  non trae, furse, alla medesima conseguenza? Egli ci disse, infatti, innanzi, che il concetto è inconcepibile, fuori  dell’ intuizione, o immagine, perchè quivi soltanto, e in nessun altro luogo,  il suo « aere spirabile, salvo ad ammetterlo in un altro mondo che non si  può pensare e perciò non è ». Non solo, ma chiedendosi anche altrove: Che  cosa è la conoscenza per concetti x ? risponde: È conoscenza di relazioni  di cose, e le cose sono intuizioni. E continua: Senza 2e intuizioni quindi 207 sono possibili î concetti, come senza la materia delle impressioni non è possibile l’intuizione stessa (Breviario): onde la conseguenza, perfettamente i regola: che l’attività logica, dipendendo inevitabilmente da quella estetica, viene ad essere effettivamente quest’altra attività, serbando,  quindi, in fondo, un’ esistenza puramente putativa o convenzionale. Conseguenza  intendiamoci che deriva direttamente da un principio, e del tutto  bene fondato, affermato da Croce stesso:  un'attività il cui principio dipenda  da quello di un’altra attività, è, effettivamente, quest'altra attività, e ritiene  su sè un’esistenza puramente $u/afiva o convenzionale (Brev.). Come, quindi, è mai possibile ammettere, logicamente, altra conoscenza  se non solo pulaliva o convenzionale com'è di fatto la conoscenza per concetti  oltre quella intuitiva o per immagini, e riconoscerle, per giunta, un  grad »  o valore conoscitivo superiore, a quello stesso di quest’ ultima, col  ritenerla il secondo gradino della conoscenza, nel tempo stesso che la suprema istanza del pensiero? Ma se le intuizioni,  s’è pienamente riconosciuto, quali immagini $rogrie delle cose o della vita del reale, ci  dànno già una conoscenza perfettamente adegzaza e compiuta del loro obietto,  e, per ciò stesso, di carattere universale e necessario; e, intanto, codesto valore universale e necessario  val quanto dire essenzialmente /ogico  non  devesi, naturalmente, che al concetto implicito in esse, qual’espressione appunto dell’essezza delle cose », tanto più che il concetto non può trovarsi  od esistere 7 nessun altro luogo fuori delle intuizioni; è lecito sapere  come e dove si potrebbe e dovrebbe trovare altra e superiore conoscenza fuori  ed oltre di questa offertaci dalle immagini intuitive? Solo, certo, « 72 x altro  mondo che non si può pensare e perciò non é. Ma  potrebbe qui opporre Croce la conoscenza logica o per  concetti non è, forse, conoscenza di re/azioni di cose, a differenza dell’altra  per immagini, ch’ è intuizione dell’essezza delle cose? Sia pure. Ma non è altresì vero che «l’operazione  da parte della  nostra mente  di sciogliere i fatti espressivi (od intuizioni) in rapporti logici  %  an * Ae Ue rp    i  +0  nato a vivere eterno è quello che la lingua trae dal fe  profondo, quanto, altresì, che « /a poesia contata per nu  per raggiungere appunto la conoscenza delle relazioni delle cose, e pass  così, dal primo al secondo gradino della conoscenza: e cioè dall’ arte  filosofia  si concreta, a sua volta,  per affermazione sempre di Croce ce lo mostrano, peraltro, ix concreto tutte le più grandiose, geniali Weztaschauungen, o intuizioni della vita del mondo, che noi dobbiamo all'arte in un’espressione? E l’espressione non è arte, o intuizione, e punto, già, ; sofia, quindi affatto wferiore grado di conoscenza? Ed affermare, intanto, che il pensare scenzificamente prende di neces.  una forma estetica, non è, semplicemente, una contradizione in fermi  posto che l’espressione od intuizione non può în nessun modo contenere  pensiero scientifico, e cioè quelle astrazioni a cui essa  per dichiarazioni Croce sempre estremamente ripugna, anzi mon conosce nemmeno #9] Sono contradizioni, queste, sì stridenti ed insanabili, evidentemente,  cui solo la mente del Croce è in particolar modo capace, come abbiamo vi sin qui. Rimane, così, pienamente assodato, che per la stessa /ogica interna de  dottrina estetica di quest'ultimo e ce ne assicura egli non meno de mente e inconfutabilmente anche più oltre, in più altri modi non  originariamente, e per ciò stricto sensu, che un’ zziea forma di cono  e suprema istanza, già, essa stessa, del pensiero: la conoscenza per imm  poichè l’altra per concetti è, in realtà, meramente pufaliva o convenziona Croce ha creduto di far ammettere anche a Vico un secondo gradino  conoscenza, solo per aver egli preso a scambiare, nell’ interpretare la filo  vichiana, il secondo momento dialettico dell’attività conoscitiva (7r24%i%v4 s che, in sintesi col primo (la poesia), ci dà le immagini proprie dell’ar  cioè la forma conoscitiva più adeguatamente piena e compiuta che sia  di raggiungere al nostro pensiero con un grado per se stesso wlferior  formalmente diverso della nostra attività conoscitiva. i  E sì fatte illusioni di ottica mentale  proprie di Croce, anche si deb  principalmente a quella gioconda quanto facile sua trovata per interpreti  suo dire, il pensiero degli scrittori antichi di quel tale dialogo di.  parla proprio nell’Avvertenza a La filosofia di Vico dialogo tl  antico e nuovo pensiero nel quale solamente l'antico pensiero viene inte  compreso, col piegarlo,com’egli usa, puramente e semplicemi  fargli significare ciò ch'è soltanto nel cervello di lui e punto già nel p o nella dottrina di quegli scrittori, onde la piena assoluta sua convinzio  aver egli, così, e come altri mai, infallibilmente inteso e compreso il  di quelli, non senza peggio ancora far appello, quando occorra, all’illusioni, proprio come nel caso in quistione,  ri di sillabe deve finire, rimanendo eterno il suo spirito nella prosa. E Tommaseo, che gli ha dato sempre ascolto, in  quell'occasione non seppe tenersi come, in altro modo,  oggidì Cesareo dal ribattere. Il metro, il metro ancora  più che il ritmo, è un bisogno, non tanto del senso quanto dell'anima umana e della ragione stessa, che, come immagine di Dio, ama le cose in misura ed in numero. Quale stranezza! nota, a sua volta, Borgese. Che c’entra l’infinità di Dio con le dieci o undici dita, coi  numeri della prosodia scolastica e della tombola di famiglia? Lo spirito si espande, elude regole e strettoie; le dighe fra  prosa e poesia cadono; la prosa diventa il grande organo a  mille canne da cui la ragione parla e il cuore canta.  E con ciò si noti nonsi vuol concludere che la  poesia contata per numero di sillabe debba necessariamente  perire. Le matematiche sublimi non aboliscono l’abaco, la  danza delle sfere non prescrive i ballabili, e l’ alto giardinaggio ammette i fiori che si contano per numero di petali. Bene, quindi, può nascere la pagina del cielo di burrasca  sopra il Lazzaretto nei Promessi Sposi; e  accanto ad essa può sopravvivere, o vivere, il semplice stornello.   E non, forse, lo stesso Canto e perfino il verso, come, già, tutte le figure retoriche, formano, pel Nostro,  parte di « tutta la suppellettile della favella poetica? Penultima forma espressiva, infatti, della « agion Poetica è il canto e per w/timo il verso. Ed è ben noto, invero,  che i mutoli mandan fuori i suoni informi carzando ; e gli  scilinguati pur cantando spediscono la lingua a pronunziare;  e che, in generale, anche, gl’uomini sfogano le grandi passioni Degnità dando nel caz/0, come si sperimenta ne’sommamente addolorati  et allegri, E però, mentre, in un primo momento, gl’uomini mutoli dovettero come fanno i mutoli, mandar  fuori le vocali cantando; di poi, come fanno gli scilinguati, 3  dovettero, pur caz/ando mandar fuori l’articolate di consonanti. Di tal primo canto de’popoli fanno gran prova i dittonghi È  ch'essi ci lasciarono nelle lingue; che dovettero dapprima  essere assai più in numero; siccome i greci e i francesi, che passarono anzitempo dall’età poetica alla volgare, ce  n'han lasciato moltissimi, come nelle Degnità si è osservato; e la cagion si è, che le vocali sono facili a formarsi; ma le  consonanti difficili; e perchè si è dimostrato che tai primi La  uomini stupidi, per muoversi a proferire le voci, dovevano  sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano con altissime voci; e la natura porta, ch'ove uomo a/zi assaî |la voce egli dia ne’ dittonghi e nel canto, come nelle Degrità  si è accennato ; onde poco sopra dimostrammo, i primi uomini.  Greci nel tempo de’ loro Dei aver formato il fri0 verso eroico spondaico col dittongo ra, e pieno due volte più di  vocali, che consonanti. E codesto primo verso dove nascere convenevole alla lingua ed all'età degl’eroi – COME NAPOLEONE, qual È è il verso eroico, il più grande di tutti gli altri, e propio  dell’eroica Poesia; e nacque da passioni violentissime di spa- 1  vento e di giubilo, come la Poesia Eroica non tratta che Ri #  passioni perturbatissime ». E nacque, anzitutto, « sfondaico » } I, dappoi facendosi i% spedite e le menti e le lingue, v’ ammise  il dattilo; appresso spedendosi entrambe vieppit, nacque il Bi  giambico, il cui piede è detto presto da Orazio, come di tali  Ti n  %  P  #9 se Degnità. E continua: Queste due degnità, supposto che gli Mai  autori delle nazioni gentili eran andati ’n uno stato ferino di destie mute; e che per quest’ istesso da/ordi non si fussero risentiti, ch’a spinte di violentissime passioni, dovettero formare le prime loro lingue cantando di  i  4 Origini si son proposte due Degnità; finalmente, fattesi quelle  speditissime, venne la prosa; la quale, come testè si è veduto,  parla quasi per generi intelligibili; ed alla prosa il verso giambico  s'afpressa tanto, che spesso 7ravvedutamente cadeva ai Prosatori scrivendo. Così il canto s'andò ne’ versi affrettando  coi medesimi passi, co' quali si spedirono nelle Nazioni e le  lingue e l’idee, come anche nelle Degwità si è avvisato, Tal Filosofia ci è confermata dalla Storia. Ed è perfettamente vero. Perchè noi, pur avendo seguìto  altra via del tutto diversa dalla sua, siamo pervenuti alle  medesime conseguenze. Non, quindi, ha ben ragione anche ANNUNZIO (si veda) di  affermare, e del tutto sprezzantemente: Io sono di continuo minacciato dal sistema metrico decimale dei pesi e delle misure. Sono di continuo sospinto verso la bilancia e verso la stadera,  verso l’endecasillabo e verso l’ottonario, verso le clausole  ciceroniane e verso le cadenze predicatorie. Odo vantare la coscienza, odo celebrare l’ inspirazione,  odo affermare la rivoluzione. Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le  carrucole perpetue e le rotaie inflessibili. Ma che farci, se, pur troppo, come giustamente assevera Borgese — non si dà, in generale, verità quanto si  voglia decisiva, che riesca a sradicare del tutto un errore;  fosse pure il più secco e stremenzito? E, di fatti, il rivelarsi  e progredire della verità non raggiunge altro effetto che  quello, soltanto, di rendere più secchi e noiosi gli errori! E  non, forse, perchè codesti errori sono in particolar modo alimen-  tati e mantenuti in vita proprio da coloro che prima e più degli  altri dovrebbero ripudiarli e concorrere a farli ripudiare, in Per l’ Italia degli italiani:  Bottega di poesia» - Milano. VER” g° CE TAI Py  9  È ERO POTTER REI TI  Ma i / quanto ritenuti, essi, con qualsivoglia fondamento, maestri È  del: pensiero, rimangono essi proprio i più tenaci e pervi=.  caci propagandatori fra i proprî discepoli o seguaci? Infatti,  non, forse, proprio GENTILE (si veda) che prima e più calo- È  rosamente di ogni altro, anche, prese a giurare 27 verba  Crucis, coll’ affermare che il maggiore studio che ci sia i;  intorno al pensiero vichiano è precisamente quello di Croce ha continuato e continua imperterrito ad alimentare il grave errore in quistione? E come egli, che ha pur  letto e meditato tanto la filosofia di Vico, sia riuscito ad  intenderla e comprenderla proprio nello s/esso modo di Croce lo sa lui. A noi qui, ora,  preme soltanto far notare, che se egli fosse riuscito a cogliere il significato filosofico e valore conoscitivo della famosa chia  maestra, o principio primo di quella filosofiia, avrebbi  subito compreso, persuadendosi senz’ altro, che se ANNUNZIO (si veda) ad esempio non avesse scritto pur un  verso, ma solo i romanzi a noi noti, egli sarebbe rimast  ugualmente il più prodigioso poeta che abbia mai visto la stes  prima età del genere umano: e cioè il più sublime, divino   quanto inesauribile creatore d'immagini: immagini che em co  gono singolarmente mirabili non solo da brevi insieme di vo  ma quasi, anche, da ogni singola voce, allorchè, almeno, que  sono di sua creazione. E ne abbiamo, tante, in verità, cre  da lui singolarmente immaginose; onde, non a torto, egli  ferma di sè: « #ulto m'è visione, e tutto m'è simbolo. Ma ANNUNZIO (si veda), però, è anche artista, oltre che poeta, e arti st  non meno possente del poeta, per quella « divina proporzioi  che le immagini da lui create recano insuperabilmente,  insuperabilmente, per ciò, immagini proprie delle forme de  realtà, che esse ci vogliono raffigurare, dato che la porzione a dire di Croce stesso, che ripete sempi mente un concetto di Vico — è la caratteristica fondamen-  tale delle immagini deil’ arte. Ciò posto, come o donde  la esilarante conclusione del filosofo di Pescasseroli : che l’ arte  può ritrovarsi, anche, in un organismo intellettivo o di con-  cetti, e questo, per ciò, irdifferentemente, può ritenersi arte  o scienza, a seconda che si prenda a cortemplarlo od esami-  narlo nella verità che esso esprime ? Uditelo un pò: « Ogni  opera di scienza è insieme opera d’ arte. Il lato estetico potrà  restare poco avvertito, quando la nostra mente sia tutta presa  dallo sforzo d'intendere il pensiero dello scienziato ed esa-  minarne la verità. Ma non resta più inavvertito quando dall’  attività dell’intendere passiamo a quella del contemplare, e  vediamo il pensiero o svolgersi innanzi limpido, netto, ben  contornato, senza parole superflue, senza parole mancanti,  con ritmo e intonazione appropriati, ovvero confuso, rotto,  impacciato, saltellante. Il che significa, dunque, nè più nè meno, che l’immagine  ed il concetto, e cioè un fantasma lirico, e un pensiero VICO, infatti, nell’orazione in morte di Cimini, richiamandosi come di frequente al concetto proprio della poesia, la quale udimmo raggiunge, per lui, il sommo divino suo artifizio allorchè, a somiglianza di Dio, dalla nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo hanno,  tiene a chiarire e precisare : quelli’ Idea, però, che impossidil cosa è esserci  venuta in mente jer li sensi mortali (come le nostre proprietà) i quali, quanto  s' intendono di tutt’altre cose de’ corpi #2n/0 z0n san nulla affatto delle certe  misure e proporzioni de’ corpi onde forse per ciò i valenti dipintori che sanno  l’ ideal bellezza in tela ritrarre hanno il titolo di divizi » ve di quì 1’ espres-  sione: divina proporzione ricavata da Croce. Il che vuol dire, in termini  nostri, che solo allorquando noi riusciamo colla nostra mezze, o riflessione, più  che coi sensi, a cogliere l’espressione propria o caratteristica delle cose, la  quale viene a noi fornita unicamente dalla ricerca dell’ordize e valore logico  delle stesse loro zo/e costitutive chè questo e non altro vuol significare,  quì, la cera misura e proporzione dei corpi noi si raggiunge l’immagine e  conoscenza vera e propria di esse cose, Estetica e Breviario è. Bien e    eg    RI 1 IT peleee 9 PE NI sl a RI IE O IA TIRATI PIPE TINI de VIT Lau MARTI    n    Th CAV; - critico sono la stessa cosa, formalmente e sostanzialmente;  come dire: maschio e femmina la stessa persona. Infatti Croce non inizia addirittura la sua Zstetica  proprio col richiamare la nostra attenzione sulla natura @  carattere espressivo assolutamente diverso, che distingue la imagine dal CONCETTO, in quanto la prima è linguaggio del sentimento, e per ciò conoscenza intuitiva o dell’individuale, e l'altro LINGUAGGIO dell’ z72/e//etto, e per ciò conoscenza dell’urnversale Non solo, ma non aggiunge, anche, per maggior distinzione, che l'una rappresenta il $ri720 grado della conoscenza  e l’altro il secondo? È. E, come, allora, anche sotto tale aspetto l’ux  può essere, ad un tempo, de, e il due 0? Sono, evidente.  mente, contradizioni e assurdità inconcepibili, che potrebber  nondimeno, sparire solo nel caso che si volesse ammetteri una precisa distinzione tra forma e contenuto, sì da ritenere. l’arte non altro, invero, che mero involucro delle forme. superiori e complessedel pensiero. Cosa che Croce, per  primo, e più recisamente che mai, nega, affermando con SANCTIS (si veda) che il contenuto è la forma e la forma è il contenuto, giacchè l’intuizione e L’ESPRESSIONE vengono l'una  fuori con l’altra, perchè non sono due, ma uno. E poichi  intanto, l'intuizione, od espressione, non può rappresentare. che stati d' animo, vale a dire nient'altro che la fassiozali  il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte e  determinano il carattere lirico », come, per ciò stesso, e  può darci, mai, e, peggio ancora, ad un tempo, il fe  dell'artista e del filosofo, se la contradizion nol consente?  di fatti, l’attività intuitiva od espressiva, al pari dell’ incoe  cibile potere posseduto dal re Mida di trasformare in oi Estetica tutto quello ch’egli toccava con le mani, non può darci,  inevitabilmente, che 7m2m0agizi, e solo immagini e sempre  immagini, e cioè a7rfe e solo arte e sempre arte. E non, forse, proprio ciò intende affermare Croce  stesso là ove dice che L’ESPRESSIONE non si può neppure  paragonare all’epidermide degli organismi, salvo che non si dica (e forse la cosa non sarebbe falsa neppure in fisiologia), che tutto l'organismo in ogni sua cellula e in ogni cellula  di cellula è insieme epidermide? Onde la conseguenza inevitabile, e del tutto #2 forma, che noi, come Prometeo sulla scizia rupe, restiamo sì strettamente ed 7 eferzo incatenati al 97120 gradino della conoscenza da non poter neppure  levare gli occhi a mirare, più che raggiungere, il secondo  gradino. Onde l’ assurdità, per altro verso, da parte di Croce, di porre l'assoluta identità di arte e linguaggio, defimibili luna per l’altro come dire l’arte col parlare per sè  stesso; giacchè, mentre, da un lato, noi in forza di  tale premessa non possiamo raggiungere, in ess wm20do, il secondo gradino della conoscenza, e cioè diventare scienziati o filosofi (e, forse, per ciò Croce non può dirsi filosofo),  dall'altro, in compenso, rimaniamo tutti ver7 e grandi artisti.  Che ve ne pare? Non senza fondamento, adunque, il nostro afferma che  la poesia e la metafisica sono naturalmente opposte fra  loro, e per ciò non è mai uno stesso valente uomo insiememente e gran metafisico e gran poeta della specie Breviario Si noti che questa stessa sorprendente conclusione negativa, cui, contro ogni previsione e intenzione di Croce, mena direttamente quanto inevitabilmente la logica interna della sua dottrina estetica, viene indirettamente accennai a confermare anch'essa, e magnificamente, tutto il valore gnoseologico del fondamento teorico di quella tremenda rivoluzione filosofica cui accennammo innanzi, Si vedrà, si vedrà | sa A bri L |1 NI CITI NL a MAREA ou Ci EI amo INT TIE Tapi.  PH  i a Mi Ò  Vedi  i Tp,   mi I  “è  Vi SA al .. e  mid e il  gua  U  massima dei poeti nella quale fu frireipe e padre Omero  E potrebb'essere, forse, altrimenti? In possesso com'è  metafisico, o filosofo, della più larga esperienza delle cose, come potrebb'egli mai concepire la realtà al pari di coli  che è rovesciato nell’ignoranza di tutte le cose, come allorchè  si è nella fanciullezza, per cui la mente, tutta piena di pregiudizi, vi si immerge e rovescia dentro, mentre, nell'altro caso, « resiste al giudizio dei sensi e ne fa  accorti di non fare dello spirito corpo, onde i pensieri sono 4  tutti astratti, invece che corpulenti, come nel primo caso, in quanto non altro che immagiri e metaforiche? Ora, generalmente, a cominciare da GENTILE (si veda) che, oltre vent'anni sono, l’oppose proprio a noi, recensen  la nostra opera su LEOPARDI (si veda) facendosi eco alla interptazione. crociana di VICO (si veda), tale opposizione tra il poeta e  filosofo non viene intesa STRICTO SENSU (GRICE) e illimitatamente?  cioè ritenendosi il poeta non già nel senso vichiano cui vera quell’ opposizione di creatore d'immagini a/leg  riche, e nutrite, già, essenzialmente di senso, quindi per  nulla verilà, o conoscenza vera, o 72 ze, perchè assolutamen o frutto di rifessione, e per ciò arte, come potre  mai essere in opposizione con le sentenze o conce  di quella mente dritta, ordinata e grave qual a filosofe conviene, e cioè non valere conoscitivamente nè  nè meno che i concetti stessi, se questi altro non sono c l'essenza astratta od estratta da quelle, onde solo  renza tra essi quella puramente /ormza/e, per cui mentri  prime sono espressioni particolari, o individuate JE. SL e a rta SETE Pr Sad e, È belt e quindi concrete, le altre generali od universali, e  per ciò astratte? Intanto è accaduto e qui l'origine del disastroso  errore che oggi domina sovrano nel campo della cultura, in  generale, e della conoscenza estetica, in particolare che,  compiutosi il primo passo sulla via dell’ identificazione della  poesia con l’arte, e cioè annullata ogni distinzione fra le  immagini allegoriche, prodotto di « forte inganno di fantasia »,  (per la mancata conoscenza, ancora, delle cagioni naturali  delle cose, e le immagini proprie, frutto di riflessione,  (e, quindi, conoscenza vera e propria di esse cose), s'è proceduto senz'altro sino in fondo, coll’attribuire a queste ultime  non solo lo stesso corzezzio delle prime, ad esse fornito essenzialmente dai sensi, o dal sentimento, quanto, peggio ancora, s'è preso, altresì, a ritenerle frutto di mera fantasia, senza nè  pur l'ombra dell’intelligenza o della riflessione, e, di conseguenza, senza nessun «» od « aurori  Aurorale una conoscenza che non ignora nè la trasce  medievale, nè la saggia esperienza della vita, non i 74,  menti voluttuosi o la sensibilità animalesca, al pari dell’ eroisn Breviario e del fersiero della morte; così la commossa dolcezza di un  amore tenero e soave, nello sfondo di una vita tranquilla e  serena, come il grido terribilmente straziante e disperato per  la infinita vanità del tutto: cioè, insomma, nessuno ignora  anche dei più vari aspetti e delle forme tutte, le più diverse,  di esperienza. della vita? E se, adunque, l’arte, pur nella virginea sua purezza di sentimento, si mostra pregna di ogwz  sapere, compreso quello vo/zttuoso, e, per di più, fornita di  un gusto, che, nella sua bocca eloquente, rivela, chiaro, la  maturità e perfin la corruzione, ed in tutto il suo essere vibra  l’aridezza di una febbre insistente che la spinge smapniosa a  spremere il succo di tutti gli ingannevoli frutti che maturano  lungo il sentiero della vita, al calore della più travagliata  esperienza umana, come si può non convenire assolutamente  col Vico che l’arte, sia per la filosofia che per la séorza, come ci disse innanzi più che il momento di barbarie  e ingenuità dello spirito, è, invece, precisamente l’altro: quello della maggiore consapevolezza e più compiuta esperienza  della vita del reale? Di fatti è solo in questo momento che è  dato alla mente umana di cogliere l’immagine vera e propria  delle cose, o il loro caratteristico, onde la più piena e per-  fetta conoscenza che, progressivamente, noi si viene ad avere  della realtà. E poichè, intanto, anche pel Croce, codeste  intuizioni che ci danno le immagini proprie delle cose sono udimmo le vere e sole intuizioni estetiche, non è,  per ciò stesso, da convenire che, anche per lui, il momento  dell’arte è proprio questo e non il primo, che in wesswur  modo, invero, può darci immagini frofrse della realtà? Non  solo: ma non arriva, al pari di noi, sino ad ammettere, sia  pure a mezzo di una tremenda contradizione come  empre allorchè gli vien fatto di scoprire il viso della verità che abbiamo anche una grande arte: ed è precisamente butta sal -4  ITS. le du dl! quella più che mai nutrita di fersiero o di filosofia, invece | 3  che di sentimento (onde il più completo rovescio della tesi  sostenuta 27 principio nella sua £Zstezica? Così ad  esempio le grandi tradedie del bene e del male y si  dello Shakespeare (Otello, Macbeth, Amleto, Re Lear) sono, per lui, come ognuno ricorda senza paragone pi  pregevoli, esteticamante, che non quelle di pura ispirazione  storica (Antonio e Cleopatra, G. Cesare, Coriolano), le quali, a lor volta, ci attraggono senza paragone più delle comedie  d'amore, tra cui vediamo pur grandeggiare e splendere,  mirabilmente vive, figurazioni estetiche come Giulietta e Romeo, i  Il Mercante di Venezia e simili, che non la cedono, per  intrinseca bellezza, nè pure ai più grandiosi fantasmi tragi  a dire di lui stesso. E così del Goethe: il possente fantasma  tragico di /azsf, quale espressione, appunto, di quella urgente  e mai appagata ansia dolorosa (die Sehknsucht), o di qu  profondo e segreto travaglio spirituale, che « ange e marti  la coscienza di quelle nobili esistenze, che una volontà, quasi  fatale, sospinge per entro £ profondi abissi alla ricerca deli  dimora delle Madri, e cioè dell’ /4eale, non giudica, egli, se  paragone superiore alla bella favola di ZAermanz un  Dorothea, che pure fu oggetto del più vivo ertusiasmo,  non solo da parte dei filosofi e dei letterati, ma eziandio  di tutta la brava gente: degli onesti borghesi, delle madri  di famiglia, delle zitelle e zitellone dei maestri di scuola  i quali vi trovavano ciò che essi vagheggiavano e desiderava  una esibizione di onestissimi sentimenti e di sagge opere S  l’amore che si fa subito fidanzamento, la cura dei genitori per la felicità dei loro figliuoli la virtà disavventurat:  premiata e una ricca copia di osservazioni e massime  quelle che si accolgono dicendo:  è vero senza sfor. rente paradosso. È la fortuna che una volta Hegel disse  mancare ai filosofi e abondare ai predicatori, che subito soddisfano e commuovono a edificazione, perchè ripetono cose dî  cui gli spetttatori sono persuasi e che hanno familiari. Perfettamente vero, adunque, che la grande arte è  quella, proprio, più intensamente nutrita di erszero, invece  che di sentimento, onde non a torto MANZONI (si veda) credè nell’Urania di cantare: pncroe sol quaggiù quel canto Vivrà che lingua dal pensier profondo  Con la fortuna delle Grazie attinga; e Schiller, a sua volta, quasi a concludere : quello che not  oggi ammiriamo come Bellezza ci verrà incontro domani come  Verità; onde il fondamento dell'antica credenza che il vate  o poeta fosse indovino. Giustamente, quindi, noi, fin dai primi nostri scritti  sull'arte, affermammo non solo la necessità di rintracciare V. Goethe, Laterza, Bari; e Shakespeare, (in ARIOSTO (si veda) Shakespeare e Corneille) Laterza, Bari. E se questa è la grande arte, come il Croce in lungo e in largo ha  creduto di mostrarci con l’esame delle due maggiori opere d’arte della lette-  ratura inglese e tedesca, è lecito sapere perchè, poi, la lirica filosofica del  Leopardi, come altra mai, forse, così intensamente nutrita di fersiero, ed  espressa, per di più, come quella di niun altro poeta, per immagini, è,  per ciò stesso, da meno delle sue liriche amorose, anzi, addirittura « z0x poesia »,  contrariamente a quanto egli ha affermato per i due poeti stranieri ? E così,  anche, l’arte d’ALIGHIERI (si veda): perchè questa sale, e sale alto, molto alto, con le immagini di senlimzento, e cade, poi, cade tanto, fino a diventare anch'essa w0x  poesia, con le immagini di fersiero, sì che Padre Dante finisce col rimanere  al di sotto o da meno di Shakespeare e di Goethe? Lo sa egli solo, Croce,  pel quale, per ciò, del tutto erroneamente è stato affermato del divino Poeta;  A veder tanto non surse il secondo?  Ah! la fede nel libro tedesco inculcata a Croce da SPAVENTA (si veda) e  rafforzata da LABRIOLA (si veda)! (V. Contributo alla critica di sne stesso; Laterza,  Bari). È stata davvero accecante cotal fede per lui! E potremmo dir anche  perchè, ma non occorre: può facilmente supporlo ognuno un assoluto criterio di valulazione estetica, quanto, al  tal criterio, invenimmo e fissammo precisamente nel grado d’universalità razionale posseduto o epresso dal motivo is  ratore dell’opera d’arte: e cioè non si crederebbe  proprio in quell’elemento o fattore, l'intelligenza, che da tutti  in generale, per quanto senza piena convinzione da part  di qualcuno e da Croce e sua onrevol gente, in particolare, viene assolutamente escluso dalla funzione creatrice dell’ arte. E però, s' è visto anche, a parole soltanto, chè,  di fatto, colle risultanze critiche dei suoi saggi sul Goet  e lo Shakespeare, come abbiamo visto testè oltre c  colla logica interna della sua dottrina riconosce pienament  con noi che proprio la razionalità del motivo comunque  si voglia, questo, sommerso o identificato colla forma rimane la variabile indipendente, come allora dissi, alla qu e  si deve la variabile intensità d’irraggiamento o potenza di  attraimento o rapimento che un fantasma d’arte, più che altro, a parità di perfezione, o dall’espressione in ciascuno  perfettamente Jr0fr72 o compiuta, esercita sullo spirito umani  che, in quel caso, appunto, per dirla col Goethe, viene  sentir davvero l'accordo con sè stesso e col mondo. E per ciò presi a concludere senz'altro: le intzioni estetiche veramente sovrane son precisamente quel) che ci danno il brivido di quell’oscuro desiderio e di q  muto anelito di redenzione dal male e di liberazione da  gioco degli impulsi inferiori, che fanno gravitare in giù  coscienza umana, soffocata dal peso greve della materia:  che, comunque, dèstino in noi anche la più debole eco di  quel profondo dramma interiore che agita e convelle diutur  namente la coscienza umana, che, affaticata dall’ indigenza dell’ infinito, mira al di là del finito, o del limite umano, e cio  au dela de la vie et au dela de la mort. Nessuna meraviglia, quindi, che le intuizioni estetiche che prendono a celebrare  questa insuperabile antitesi cosmica, e cioè questa perenne  lotta tra l’uomo mouzzenon e l’uomo faenomenon, nel tempo  stesso che cerca d’ indagare il woisterzo eterno dell esser nostro,  riescon più di tutte le altre, o come altre mai, ad esercitare  un profondo e invincibile fascino sullo spirito umano, che,  nelle immagini d’arte espresse da tali intuizioni, vede chia-  ramente rispecchiate le sue più intime lotte e i suoi più  oscuri tormenti, le sue inconfessate debolezze e le sue più  segrete aspirazioni, le sue più dolorose sconfitte e i suoi più  nobili trionfi: e cioè, in uno, l’immagine e il destino della  propria esistenza; di quell’ esistenza, per giunta, di cui noi  stessi, giorno per giorno, ed ora per ora, veniamo liberamente  intessendo la trama e amorosamente disegnandone l’ immagine  morale e spirituale, dato che l’arte udimmo da Croce stesso altro non è, nè può essere, che espressione della vita del reale, e per ciò della nostra esistenza spirituale, sopratutto. E, pertanto, noi amiamo in particolar modo si sa ciò  che, appunto, è frutto dei nostri liberi sforzi, e poichè l’z07z0  libero per dirla collo Schiller ama è legami che lo guidano, s' intende perchè, poi, noi prediligiamo senz’ altro con la stessa infinita tenerezza di un padre verso quello dei  figli, che venne al mondo sofferente precisamente ciò il  cui possesso fè più dolorosamente, e ad ogni passo, sanguinare  i nostri piedi. Ricordate, infatti, con quanta commozione, profonda  tenerezza e nobile soddisfazione, ad un tempo, il gentile poeta di Barga ricorda alla sorella i tempi bui e sconsolati della  lor triste e dolorosa giovinezza? Tu scis ut doleant gaudia nostra, soror! E si noti, per di più, che il sentimento che nasce dalla contemplazione del più arduo e più universale conflitto, al  pari di quello che accompagna e si manifesta nelle forme della più alta curiosità intellettuale, è, per ciò stesso, il più atto a tradursi in espressioni che sono le più elevate e più.  vere del sentimento estestico, Il quale, infatti, trova un estremo  eccitamento, o il massimo suo eccitamento, precisamente nell  rappresentazione fantastica della lotta impegnata dalla volontà e dalla passione contro la necessità dell’ ordine oggettivo. della natura, cioè nella rappresentazione idealizzata della lotta per l'esistenza, val quanto dire completamente trasfigurata in lotta morale. Per ciò, quello stesso sentimento che, nel  dominio dell’arte, crea quelle sovrane concezioni verament  insuperabili nel loro genere quali sono la Commedi  dantesca e la tragedia shakespeariana, la lirica filosofica di LEOPARDI (si veda) e quella della medesima natura di Goethe quello stesso sentimento crea, nel dominio della morale, l’azione, affermandosi come bisogno di operare, del  sperare, di combattere e soccombere utilmente, onde quell:  sottile voluttà dolorosa: dolendi voluptas, che sospinge, inelut À  tabile, l’uomo a salir d2 collo in collo, e celebrare, pur nell:  rovina e dea morte della sua esistenza Di il priag l'elemento o fermento perenne dell’ antitesi a cosmica  E, difatti, nella Commedia dantesca, come nella trage  greca e shakespeariana, nella lirica filosofica di LEOPARDI (si veda), come in quella di Goethe, nelle quali, $;  appunto, come Yale si accenna Mii Sonde cosmico o°MAE EN carl. ra Figi x « EI sa ta Woo sin Lei =J i. Pacs it che l’opprime, celebrando, così, tra le forze avverse o paurose  della natura, e al di sopra di essa e della sua muta eternità, il suo trionfo; e da ciò, o per ciò, le immortali speranze  che sospingono anelante e senza tregua il genere umano lungo  le vie che conducono al regno della Verità, della Bellezza  e del Bene, e cioè, per dirla in uno, al regno di Dio. Ora, cotal mondo dello spirito dato pure che la  lingua fosse riuscita, comunque, a crearne l’ espressione non  sarebbe rimasto ammessa la tesi di Croce nè più nè meno che un nome vano senza subbietto, ovvero, per  dirla più esattamente con parole sue stesse un'utopia  della specie più stolta, perchè utopia del contradittorio », appunto  perchè in quel 7290 del mondo dello spirito, ch'egli è riuscito  a raffigurarci con la sua Zstezica, base o fondamento di tal  mondo, tutto come in lungo e in largo abbiamo potuto  constatare — ci viene fatto di trovare, razze, appunto, lo  spirito? Il quale, pertanto, — e ne abbiamo avuto, anche,  ad ogni passo la prova, nell’aggirarci criticamente per tal  regno mai come nella sua assenza rivela la nececsità della  sua fresenza, precisamente sotto la forma altrettanto imperiosa quanto inflessibile della recessità logica, e cioè a mezzo, appunto,  di quell’imperio universalmente riconosciuto, ch' è proprio del  principio di zo contradizione. G.: L'arte e la sua funzione creatrice:; Casa Edit,  Albrighi Segati e C. Veggasi anche, presso la stessa casa: il fascino dell’ arte  di Dante, nel quale lavoro i principî teorici sostenuti nel precedente volume  hanno trovato la loro diretta applicazione nelle maggiori opere d' arte antiche  e moderne,  E poichè, intanto, la filosofia per Croce è nient'altro che coesenza mentale, la quale coerenza si trova anche in uomini che vivono in una  cerchia assai ristretta d’esperienza e che la sicugggta degli addottrinati chiama  ignoranti, laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale, 7g70  ranti siano gli addottrinati e non essi », non si deve, per ciò stesso, concludere  che Croce è senz'altro non filosofo ed gnorante, insieme? Chè, in  PS Verità, come non filosofi sono coloro che non soffrono dell’ incoerenza e n  si travagliano nel superarla », così non può non essere filosofo anche colù  che non scriva di filosofia e perfino ignori il nome di questa disciplina, e non-  dimeno abbia compiuto e compia il lavoro di porre ordine nel suo intelletto eu k  di formarsi, come si dice, idee rette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai  dubbi, che hanno sèmpre virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastic i di  consegua sempre quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione si  ammira, talvolta, la « filosofia » di certi modesti uomini, e perfino di popolani e contadini, che pensano e parlano saggi e posseggono con sicurezza le verità :  sostanziali: non si tratta, in quel caso, di uso metaforico della parola, ma d  uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto l’uso che se ne fa col largirla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai recitatori di lezioni, deserti  di spirito filosofico. Quando poi l'attitudine filosofica giunge a quella forma ampia e inten che investe tutti o quasi gli ordini dei problemi di un'età, si ha il filoso  specificamente detto o addirittura il genio filosofico, da non confondersi, certo, punto punto, cogli scrittori e professori di filosofia. Pongo quest’avvertenza perchè non vorrei che altri, rivedendo in immaginazione certi  volti e figure non interrompesse col riso quello che vado dicendo. Quel  genio filosofico, voglio dire, che sembra così remoto e alto sugli al  uomini e pure è loro così vicino, e raccoglie e unifica i loro sparsi cona =  e converte in precise domande le loro angoscie, e dà loro risposte, che A  se anche non intese dai più o alla prima, si vengono traducendo in comun  convincimenti e sentefize e modificano a poco a poco l’ ambiente sociale  storico. Il filosofo di natura*e vocazione è dominato dal bisogno della coé  renza mentale, e, simile al poeta, anche nelle più vivaci lotte pratiche, e ne  più acerbi dolori, non appena gli accada di avvertire in sè, per effetto di es  un dubbio, una contradizione, una incoerenza, materia a un problema, si astr  e si assorbe nella meditazione, e vi rimane assorto finchè non abbia affermato o riaffermato il nesso logico che gli sfuggiva; e in tal riassodato possesso ritrova la serenità e con essa la forza d’animo per resistere nelle lotte e vincere  i dolori e praticamente operare. Cwifica). li Or poichè in forza di codesti principi del tutto bene fondati, fissati da CROCE (si veda)   stesso, è da escludere senz'altro, adunque, ch'egli, pel primo, sia filosofo, appunto  per la singolare sua insensibilità diremo al dolore logico della contradizione,  onde la invincibile sua incoerenza mentale, che proveremo, d’altronde, ìî  altre sue opere, senza pur tenere affatto conto della «superficiale considerazione ch’ egli usa nel trattare i problemi che concernono la vita dello spirito come spiegare che nel mondo culturale egli é ritenuto, intanto, addirittura della classe più alta dei filosofi; e cioè filosofo di natura e vocazione, ragione  per cui le sue opere, e l’estetica proprio più di ogni altra, hanno avuto il  particolare onore di essere tradotte in tutte le lingue di tal mondo? Non s  potrebbe, a parer nostro, spiegare altrimenti questo fenomeno paradossale che riconoscendo, davvero del fondamento alla famosa domanda dello Champfort Combien faut-il de sots tour faire un public, e col convenire, d'altra  parte, collo Stendhal, che le opere più largamente diffuse e lodate da sì fatto  pubblico sono precisamentequelle più largamente dosate sul grado di cretineria degli spettatori e dei lettori. In ogni modo, questa disfatta del pensiero crociano, ammessa e riconosciuta, s'è visto, ex ore suo stesso per essersi immesso in una via senza uscita, bene può dirsiuna disfatta in gloria, più superba di tanti trionfi, in  quanto coll’ ammonirci che ogni tentativo di ricalcare quelle orme sarebbe non  altro che un vano sacrilegio, sia pur da parte di gente inconscia, ci fa ritenere esecrabile e sacra quella via. Tale, almeno, essa rimane per noi, che da essa  appunto traemmo l’avviso ed ammaestramento, insieme, di percorrere con tanta più saggezza quanto maggiore consapevolezza la via che abbiam preso  a seguire, coll’intento di raggiungere con maggiore affidamento quel torturante  segreto connesso col più oscuro e fondamentale, insieme, dei selle eriomi della vita universa, secondo Reymond: l’enigma concernente l’origine del pensiero. Pasquale Gatti. Keywords: filosofia del linguaggio.

 

Grice e Gatti:  la ragione conversazionale e l’impplicatura conversazionale poetica – filosofia napoletana – scuola di Napoli – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things, too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora  a “Il concetto di progresso.” E a “Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura, contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi) del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti e commercio.  Altre opere: “Della fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto, ora non saprei più da chi la prima volta, e poi da moltisièsovente ripetuto che VICO autore di un sistema che i suoi contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la scienza di un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non aveaperquestaragione potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù idoneia giudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo giustissimo quando vel filosofo napoletano,come in tutti i filosofi del mondo, anziintuttiquelliuominichesonosi più che mezzanamente sollevati sull'universale, si voglia sceverare due parti es senzialmente diverse insieme, e che congiunte solo per accidente, co. stituiscono una dualità permanente nell'unità stessa dell'individuo. Di queste due parti, l'una tulla relativa è determinata dalle condizioni esteriori della vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene, dagl’uomini da'qualisiè circondato, dall'educazione stessa che si è ricevuta, dagli studii a cui più si è piega talamente, dal primo libro che si è letto, dalle prime impressioni d'infanzia, dalle seguenti occupazioni dalla famiglia, da'parenti, dagliamici. L'altra parte sottratta a tulte queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o tempo determinato ma a tutti del pari, nè ha da far sulla con alcuna speciale condizione di vita. La prima di queste due parti scende insieme col corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti. Similmente in ogni sistema per quanto nuovo e profondo e fruttifero essosia, trovasiunaparte che è direltamente determinata non solo dalle proprie particolarità dell'indole e dell'ingegno del suo autore, ma si ancora da quelle del luogo e del tempo in cui venne fuori, inmodo che di questi conservando sempre la special fisonomia, ne parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella parte caduca de’ sistemi, la qual e non sopravvive mai a quelle condi zioni speziali che le hanno dato origine, eche, quando quelle son cambiate, non ba più niun valore, ed è condannata all'obblio imman. cabile delle età posteriori, quando caduta nel dominio dell'istoria, non fa più partedella scienza viva e feconda di conseguenzee di applicazioni le cui tracce si scorgono presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo del sapere e in ogni manifestazione della vita. Conciossiachè non solo ogni nazione, ma ogni secolo haunasua impronta particolare, ha uno special modo di veder le cose, una sua propria logica, per la quale anche aquell ecose che tiene per vere dalle età precedenti, non giunge per i medesimi procedimenti, ma per altre vie, per altri melodi, per argomentazioni e prove di diversa natura. L'altra parte, quasi l'altro elemento costitutivo di ogni gran sistema, è per contrario indipendente da ogni condizione di luogo e di tempo, non ha in sé nulla che sia momentaneo o relativo, ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uomo, nè alle investigazioni di niun secolo, imperciocchè è la conquista ideale dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a poco a poco conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, a mensognee da violenze, ainganni ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifizio intanto del sapere insepsibilmentema irreparabilmente sia ccresce, atteso che lo spirito umano non d'altra cosa aiulato che dall'opera del tempo, va d'ogni sistema sceverando le parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze, va spogliando della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro deposito e in dubitabile acquisto alla seguente, che facendone suo pro, l'arricchisce di nuovi progressi, ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accrescere il patrimonio. Cosi la pianta fecondissima della scienz acresce di secolo in secolo con non interrotta germinazione, non altrimenti che cresce un albero fra leassiduecure dell'agricoltore che ne innaffia e lelama diligentemente le radici, e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchi ed isutili. Questa è quell'aurea catena di cui, se non vado errato, parlava Platone nell’ACCADEMIA, per la quale l'un secolo trasmette all'altro l'eredità del sapere, come un sacro deposito che esso è tenuto di accrescerea suo potere e tramandarlo al susseguente; benchè non tutti i secoli possono ugualmente a ccrescere quel deposito, non intuttigli elementi secondarii e contingenti che circondano i frammenti della verità eterna son della medesima natura e nella medesima proporzione con essa. E questo è pure quell'ecletismo pon artificiale, quale può farloun uomoouna scuola e che o manca di criteriooneha uno in cerloe si risolve più tosto in sincretismo, ma reale ed istorico il quale hapersuo autorelospiritoumano stesso che di secolo in secolo va sceverando da sistemi la parle condizionata e temporanea da quella che come frammento della verilà assoluta dee restare senza alterazione niusa in suo perenne dominio. Cosi il frullone abburrattando la farina de discevera il fiore dalla crusca inutile, e cosi molte verità da' tempi non dico di Arislotile nel LIZIO ma di PARMENIDE DI VELIA e di ZENONE DI VELIA (VELINO), sono rimaste tuttavia sulla terra, dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè alla forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontane ad essi per distanza di luoghi e per diversità dit empi. Secondo queste considerazioni è indubitato che in tutto l'insieme del sistema del VICO trovasi una parte di un valore assoluto che è ri masta per sempre nella scienza,ed a cui eran troppo immature le menti de'suoi conleinporanei, i quali o no a neinlesero affattoosolone  frantesero e ne misconobbero la vera importanza. Ma accanto a que sta un'altra ceneha per la quale il filosofo napoletano legasi diretta menteco'suoitempi, echemeglio intesaevie piùapprezzatada' coe. lanei non ha più per noiniun valore, ed è caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui, come a tutti igrandi uomini, è avvenuto che per una parteè uomo assolutamente de'suoi tempi, econessi perquella partesièmorto, dove che per un'altra è contemporaneo de'suoi nepoti, e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come alcuni sono andati dicendo, credendo cosi di accrescere, quando invece diminuivan la gloria e impicciolivan lavera grandezza di colui che voleano magnisicare. Conciossiache picciolissima gloria, e che soloapochi, e forse a niuno anche dei mediocrissimi e mancata, si è quella di comporre un sistemache ad altri inun altro secolo piacerà poi di seguire. Ma grandissima si è quella d’indovina re e quasi divinare tutta una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor venuta, ed a cui un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi dello spirito, comunque per altre vie, per altri metodi e come per dialettica deduzione di principii di diversa natura, siccome appunto è avvenuto per la filosofia dell'istoria molto tempo dopodel VICO, che primo la presenti. Ma non potendo, com'eranaturale, presentir tutto, procedette senza metodo e senza principii proporzionati da cui dedurla, sol per induzione da fatti troppo speciali, e in mezzo a tali tendenze intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente stabilirsi. Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che la stagione più propizia non fu giunta, a cui non furono nascoste levere vie che poteano condurre alla nuova terra promessa, scoverta da lungida un arditissimo navigatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea potuto approdare, ma non prenderne sicuramente possesso. Quasipareche lo spirito travedendo di lontano la novella scienza, avesse fatto un primo tentativo per conseguirla, ma destituito degli altrezzi e delle armi che a quella conquista si richiede a no, avesse dovuto temporpeamente mettersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio de'mezzi che gli abbisogna  vano, e quando ebbeli tutti presti ed apparecchiati, ritornare con m a g gior confidenza all'interrotta impresa, e riuscirvi con miglior successo. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno si avvicina m a ancora la primavera è di lungi, un solitario fiorellino quasi racco gliendo i primi caloriche si cominciano a muovere per legelateaiuole, spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddo e bianchi dalla Deve? Ma quel primo sforzo e troppo precoce della natura riman solo, nèèseguitoda altri sino a che alla stagione avanzata, nuovi torrenti di calore tutte compenetrando le zolle più mature, covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati e i dossi delle colline. Qui maggiore è la copia e la bellezza, ma più ammirato è il fiore del febbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una ricchezza a venire di cui tutti largamente godranno, ma che poca o niuna maraviglia non saprà più ri svegliare agli sguardi assue fatti. Se poi prendiamo quel sistema di VICO  nel quale appunto ha tra sceso i confini del suo tempo divinando l'avvenire, vitro veremoma pifestada pertutto la presenza del giureconsulto nepoletano dellafine del decimo settimo secolo, e accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna della scienza e son passati quasi nella cosienza universale del genere umano,ne troveremo altria cui nessuno più non saprebbe attribuire alcun valore, e che si posson dire caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo glieseccheche ancora si trovano insu'rami degli alberi a mezzo novembre per lasciare nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione si dovrà rivestire. Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism I cui due termini non possono stare insieme, quello cioè di una mente, di una ragione, di un mondo delle idee che fa colle sue proprie leggi il mondo de'fatti, e quello di una volontà estranea di cui la scienza non puòtenere niun conto, essendo che i suoi atti appunto per essere volontarii non si possono sottomettere a niuna costruzione scientifica, cioè a priori, ma sono essenzialmente contingenti. Troveremo lui aver detto che la sua scienza del la storia è una vera teologia delle idee divine, la qual cosa se può esser vera in altr isistemi, appunto nel suo è falsa. Troveremo averegli traveduto il principio che la storia dell'umanità si va facendo per mezzo di un successivo passaggio da una fortuna più materiale a una più spirituale, da una più oscura e incerta di sè a una più chiara e più consapevole, ma non aver potuto vedere né il come nè le leggi d i questo cammino, nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra le idee e i fatti, la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delle idee dee procedere secondo l'ordine delle cose, il che sepureè veroinunsenso tutto psicologico e a posteriori, è falsissimo, anzi privo affatto di senso, negli ordini dell'ontologia e dell'istoria. Or lutto quanto illibro della scienza nuova procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante la presenza di due uo mini, l'uno giureconsulto napolelano del decimo settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser quello di al tri secoli a venire, e predicente una scienza che egli stesso non in tende a che a mezzo. Ma nelle altre opere questa dualità scomparisce, o almeno il secondo e nuovo uomo si eclissa tanto darestar quasi tutto intero il campo al primo, cioè all'uomo dotto dell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere contenute nel volume il cui titolo è in capo di questo scritto sono piùtosto di questa seconda specie che del la prima, quantunque non bisogna dimenticare quello che del resto è quasi inutile di dire, cioè che la parte più universale dalla sua mente non si nasconde mai tanto che e'non si veggano sempre e da per tut topresenti le tracce di quello spirito che ha pensato il primo sulla terra una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni su varii subbietti, delle quali le latine son tradotte in italiano da Pomodoro, che con tanto amore si è volto il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle opere del filosofo napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e che anche trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per questo,che in essa trovasi delineala la storia intima della mente di VICO, e vi si assiste alla generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero ( cosa straordinaria e quasi incredibile ) non di un principio metafisico, che dee essere la sua vera sorgente, m a più tosto da particolari considerazioni sull'insieme del DRITTO ROMANO e sull'istoria di ROMA. L'opera di cui più particolarmente mi propongo di ragionare quella dell'antichissima sapienza degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno stranamente, non solo ci rappresenta più chiaro VICO del suo secolo, ma non ci rappresenta altro che questo, nèmaisenzalei dee e le teoriche che erano in voga a quell'età, e fino senza i pregiudi zi i e gli errori del tempo non sarebbe stata concepita, nė mai, neppure iltitolo, potrebbe ora saltare nella mente di niuno. Io non parlo delle speciali teoriche professatevi, di cui alcune si hanno o poco o niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono a VICO propriamente, anzi a tutta la filosofia da PARMENIDE DI VELIA a Leibnitz e da Leibnitz a Hegel, ma quello che merita di esser considerato come pro prio di lui, si è il modo di deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto, pel quale una volta messosi, ne ha tirato delle conseguenze istorichee creduto di giungereaunaseria scoverta filosologica, quan tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che sono il perno intorno a cui si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la conchiusione che la base. Or ecco in che consiste tutto il sistema. Nell'uso di alcune voci e modi di dire de’ LATINI VICO ha veduto o creduto di vedere un profondo significato metafisico, che dimostra un gran progresso fatto in questa scienza presso il popolo che in quelmodo parlava; dall'uso che essi facevano delle voci causa eeffetto vero e fallo, ed altre simili egli deduce il sistema metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e che dovea trovarsi nelle menti dico loro che le avean irovale e che cosi le adoperavano. A questa prima scoverta poi tutta filosofica di sua natura, se ne veniva ad accoppiare come per consegnenza un'altra filologica o istorica intorno al popolo che era giunto a cosi profonda sapienza, a cosi riposta dottri na da essere autore e di quella filosofia e di que'modi di parlare. Certo IL ROMANO non potè essere, delquale sisa indubitatamente non avere atteso ad altro sino al tempo di Pirro che all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di risalire più indietro sino al popolo da cui quello di ROMA ricevette con la lingua quelle locuzioni, e lui senza più dichiarare popolo di profonda dottrina, e presso il quale la metafisica avea dovuto giungere a uno non comune grado di eccelleoza. Nè la storia ci può la sciare lungamentein certinellascelta, sapendo siche i due popoli con cui I ROMANI ebbero ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della Apao. Questa serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo dell'opera, DELL’ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI, ciò sono i Joni e gli Etruschi, i quali per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in metafisica, e poichè da essi presero I LATINI gran parte della loro lingua, si trovò questa come per eredità o più presto per invasione straniera picha di concelli metafisici,comunque il popolo che la parla ne fosseesso medesinioin consapevole, ničsi potesse dasèsolo sollevarea tanla altezza.Ne qui le deduzioni istoriche si arrestano,anzi partendo da quel lepremesse, siè condotti assai più lungi, fino acongetturare che gli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno che lutto signoreggiavano, avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle diquelle, ecosiportare in Toscana la loro filosofia. Quivi poiessendo surto una ssa i gran regno che diede il nome a lulto quel tratto di mare che Lagna di Toscana fino a REGGIO l'Italia, anche la lingua degli Etruschi si dovette per quello diffondere, e di questa più dovellero prendere i popoli più vicini del LAZIO. Per la qual cosa non si dec credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a sibbene esser venuto in Italia ad impararla, e sol dopo di essersi ammaestrato nella metafisica italiana, cio è etrusca, la quale non era altro che l'egiziana, essersi stabilito in CROTONE e qui vi fondato la scuola. Di quila sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella lingua, della quale gran parte passò poi a’LATINI, iu guisa che sc ci ha voce latina di filosofica signicazione, quella si dee tenere essere stala prima in Egillo, poi in TOSCANA e quindi passala in Magna Grecia. Per questo modo ne'fossili della lingua latina si trova tutta la sapienza degl’etruschi, e dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in voga sulle rive di ARNO prima che il TEVERE ba  e  magna Grecia e gl’etruschi, dei quali d'altra parte si sa che furon popoli dottissimi, gli uni avendo dato nascimento alla filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia fede la purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi aveano dell'ente supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata, la naturale praticata, e con questo l'architettura antichissima e semplicissima,a far testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima de’Greci.  gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più ma senza allontanar ci dal sistema di VICO, anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pieno possesso della cosmologia e teogonia egiziana. Ho voluto insisterealquantopiù a lungo sulle vere pretensioni di questo saggio del filosofo napoletano, sol perchè basta l'esporle nettamen leperchèsene veggano chiaro i lati deboli che sono nè più nèman co che tutti isuoi lati, la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e mezzo fa, m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della moderna critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico e cognato nel VICO della scienza nuova, il quite le condotto da altre divinazioni più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella de'suoi, poevade'principiii qual inegano le basi su cui poggia tutto il libro dell’ ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI. E in fatti in quel sistema che più lo ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei, egli riconosce tutta l'opera del popolo nella formazione delle lingue, e quasi lo riguarda senza ambagi come una creazione spontanca di quello, quando spiega tutte le diversitàchesono fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o icostumi de'differenti popoli. Ma questo principio che veduto in tutta la sua plenitudine esvolto secondo il rigore della logica sarebbe stato fecondissimo d'importanti conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni che a lui parvero troppo metafisiche DELLA LINGUA LATINA, per tal modo che dimentico del popolo edelmon do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle l'opera meditata de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo, da cui poi le ebbero in eredità gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua diquelloereditarono. Ora non i principii, comunque ancora incerti, dell ascienza nuova condussero VICO aquesta scrie d'idee, ma sibbc ne la filosofia del suo tempo, contro la qualc egli in gran parte prote stava, e tutto il general modo concuisiri guardavano allora le cose, e che egli senza saperloe senza volerlo, etalvoitapurvolendo ilcontra rio, avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della filosofia del secolo passato si è il non aver riconosciuto in piente l'opera sponla nea dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto volontario e riflesso e però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto della società civile non vide altra cosa che UN CONTRATTO con cui gli uomini si erano volontariamente convenuti fra sè divivereinsieme per il maggior comodo e la maggior sicurezza di tutti; nelle religioni non vide che il trovato de’ pochi per contenere i molti, e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani, a quelle cose che essi avean risolutoessere d’universale vantaggio o di loro particolare utilità; nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione di alcuni uomini di più squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli altri, i quali per loro proprio diletto e per altrui si decideano didarsia quell'esercizio, seguitando delle regole parte tirate dalla natura stessa delle co se, e parte stabilite per reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo non so se mestiero o passatempo; finalmente nelle lingue non iscorse altro che un sottil ritrovato e una universale convenzione degli uomini, iquali essendosi accorti di avere l'organo delle voce vie più pieghevole che quello degli altr’animali, si erano risolutamente decisi, non senza esame, di voler mettere aprofittoquel Ja flessibilità della gola, e servirsene senza più a render più facili e speditele loro reciproche relazioni. Da questa teorica non era lungo il cammino da percorrere per giungere all'ipotesi, o per dir meglio,al la conchiusione del VICO, il quale, come prima si fu imbattuto in locuzioni che gli par vero avere del filosofico in sé, subito giudicò non il POPOLO IGNORANTE, ma sibbene ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si diede a ricercare dove doveano poter esser que’ filosofi da cui eran venuti parlari filosofici a un popolo che non ha filosofia, e trovolli nell'ETRURIA e nella Magna Grecia e, risalendo, nella patria de’ Faraoni. Maisistemi talvoltasoncuriosi davvero; e curiosissimi sieran questi, i quali negavano le cose più ovvie, il fatto, la storia, la vita, l'uomo, per accordar tutto a’filosofi; razza nobilissima e d'ogni considerazione degnissima, ma cosi poco di sua natura operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un solverbooun articolo. Ora il fatto si è che il popolo, e qui, intendiamoci bene, popolo valquanto genere umano o spirito umano, il popolo adunque in cerle cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee credere che nello spirito de'filosofi trovisi assolutamente più di quello che ènello spirito di ogni uomo, cioè nel popolo. E se nelle coloro menti trovasi tutta chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la costituiscono, e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano, la mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non è men ri schiarata dalla medesima ragione, nè men costituita dagli stessi ele. menti,nè men regolata dalle medesime leggi,conciossiache se cosi non fosse, la filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano, ma lascienzadello spirito de’ filosofi; il che, se io non m'inganno, dove sufficientemente nuocere alla sua importanza; la sola differenza che passa tra il filosofo e colui che non è filosofo, si è che l'uno sa quelche egli ha, laddove l'altro loha senza saperlo; l'uno possiedee pur possedendo e usando della sua possessione,non ha mai posto mente a quel che egli possiede, dove che l'altro non solo possiede ma si è occupato di sapere la natura, il valore, le leggi, l'importanza, gl’elementi, il modo di operare, le relazioni e le condizioni di quello onde egli è in possesso. Ora le lingue son come figliuole di due madri,cioèsonoilpro. dotto di due cause che operano ngualmente nella loro formazione, vale a dire delle attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e delle leggi sostanziali dello spirito. Di che ogni lingua se nella parte puramente esterna e fonetica de'suoni, della loro trasformazione e corruzione, e del loro passaggio adaltri secondarii e derivati, e in tutto quello che riguarda l'istoria naturale della parola, segue invariabil mente le leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola, in quanto al contenuto interno di essa parola rappresenta tutti i principii psicologici del pensiero, tutti gli elementi ontologiciche in esso si rinchiudono, esecondo le leggi logiche del pensiero stesso coordina e dispone l'espressione estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha lavorato, e che nelle misteriose profondità della mente è stato apparecchiato. Certo si nella formazione che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e principii razionali, e qualche cosa ci ha che si sottrae all'analisi e dipende da quella parte inesplicabile dello spirito umano, che senza essere ilprodotto o l'espressione di una o di un'altra sua legge determinata, risulta dall'azione nė descrivibile nè determinabile di tutte quante insieme, e dall'opera simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la vita nelle sue infinite manifestazioni. Ma oltre a questa parte che si sottrae ad ogni investigazione e ad ogni esplicazione scientifica, l'edificio di ogni lingua è legato per la parte estrinseca alle leggi anatomiche e fisiologiche del corpo, e per l'intrinseca alle leggi morali dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi nel coordinamento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del pensiero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte le categorie della ragione; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o meno di quel che trovasi nella lingua, in cui talti i suoi ele menti raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leessee le categorie dicui esse sono l'espressione hanno la loro esistenza intrinseca e soggettiva. Per la qual cosa non ci è nulla che sia meno arbitrario e meno convenzionale delle lingu, nè ci LA LINGUA DI POPOLO COSI BARBARO o selvaggio che non rappresenti e non contenga in sé un intero SISTEMA DI LOGICA [RUSSELL – STONE-AGE METAPHYSICS], e UN INTERO SISTEMA DELLE PIU RECONDITE CATEGORIE DELLA RAGIONE. Ben si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico, senza avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie della dottrina e della filosofia, da cui I ROMANI nè dottiné filosofi abbiano dovuto ricavarle. Già l'ipotesi di VICO incontra nel fatto di tali difficoltà che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche di VICO sono di origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa abbian da fare con esse gl’etruschi o į Jonii, o come abbia poluto saltare altrui in mente che I ROMANI lc abbiano prese dalle costoro lingue, o almeno imitato da essi il modo di adoperarle. Tan!e  più che se in ana lingua si possono trovar parole di origine straniera, il modo di adoperarle non è ma istraniero opresoin prestanza da altri, MA PROPRIO DAL POPOLO CHE LA PARLA, il quale nell'usarne, imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue, senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concetto metafisico le sue proprie o le altrui parole, dovrebbe innanzi imparare da quello tutto il sistema della sua metafisica, quando non si vuol riconoscere che ogni lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni dojtrina acquisita, è naturalmente e spontaneamente l'espressione di un sistema di metafisica riposto nel fondo dellaragione, e che costituisce l'essenza stessa di essa ragione. Per VICO intanto i Latini aveano a ogni modo dovuto imparar qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano, e questi popoli non poteano essere che i Jonii e gli Etruschi popoli dottissimi e con cui I LATINI aveano strette relazioni. Vediamo ora quelche non già ioounaltroma tutto il sapere del secolo in cui viviamo oppone senza paura di contradizione al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente nonpuò giustificare e che in nessun sistema e in nessuna ipotesi non si può difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai pensato a'Jonii o al dialetto jonico per sostenere la parentela di filiazione tra il Greco e il Latino, e le colonic greche di cui parla VICO, ca cui attribuisce nella formazione della lingua latina un'importanza che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima di Dori.Ilfatto slorico che la storia latina è  posteriore alla greca unito all'altro fatto della relazione di simiglianza fra le due lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dove essere derivata dall'altra, nè lasciato alcun luogo a dubitare quale si dovesse essere la madre e quale la figliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione di m a ternità fra il latino e il dialetto eolico, che èquello fra dialetti della Grecia chepiù di affinità si ha colla lingua del Lazio. Intantolenuo vescovertedella scienza delle lingue hanno dimostrato questa ipotesi impossibile, havno scoverto nel LATINO tracce di maggiore antichità che pel Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la stessa specie e lo stesso grado di aslioilà, e talvolta anche maggiore,che è tra il Greco e IL LATINO trovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più antica di esse lulte, da cui come da comune stipitetutte quanteesse, e le altre ad esse simili discendessero, allontanandosene quale più e quale meno, quale in una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, e il sistema grammaticale, e il comune materiale delle radici, in mezzo a quelle differenze che debbono fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale dalle speziali condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente formando ed esplicando, sicché la relazione di parentela è rimasta, anzi la famiglia si è trovata cre sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si può negare che il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti dell'antica Grecia che più si rassomiglia al LATINO, ma invecedi con chiuderne che questo sia nato da quello, si è dovuto inferirne che esso è come l'anello intermezzo, il punto di passaggio tra le due diverse forme di una medesima lingua, appunto come la storia naturale ci dimostra molte specie di animali, molte famiglie di piante, le quali sono l'anello intermezzo fra due specie di verse del mondo animale otra due diverse famiglie del vegetabile, e quasi come il ponte per cui mezzolanatura che non procede per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo molte paro le si possono trovare nel LATINO che vi si sono introdotte direttamente dal Greco, ma queste o sono di data assai più recente o sirisesconoa oggetti speciali, ad usi e invenzioni,a trovati comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra due popoli in quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le investigazioni etmologiche e istoriche di Vico. Di parole straniere che per accidente sienpassatedauna lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse famiglie se ne trova in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto contingente di cui sirende ragioneper mezzodel fatto delle esterne relazioni senzache nulla  se ne possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La parola kalamos che è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno strumento aguzzo, una capna qualunque da scrivere, non è di origine greca, nè se ne trovala radice nelle lingue affini al greco, ma è di patria affatto straniera, parendo essere nè più nè manco che il semitico Kalem che in Arabo dinota la penna. Certo verisimilmente è da credere che avendo i Greci antichissimi appreso da'Fenici, popoli di stirpe e di lingua semitica, l'arte dello scrivere abbian preso anche da essi il nome dello strumento da esercitare la nuova arte. Ma dove sono le parole greche, eoliche, e joniche, come impropriamente il filosofo napoletano direbbe, corrispondenti a quelle con cui I LATINI esprimeano non già un utensile materiale, lo strumento di un'arte ignota prima e poi appresa, ma i concetti più intimi e più astratti dello spirito senza di cui il pensare stesso è impossibile? Le medesime cose, ma adassai più forte ragione si vogliono ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua si sieno potute introdurreuel LATINO delle parole relative ad usi della vita e a cerimonie sacre, è cosa che facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi dall'Etruria hauno dovuto passare in ROMA, ma non è possibile di trasformare questa azione tutta estrinseca, questa introduzione accidentale di alcune speciali parole, in un'azione più internaequasi primitiva dell'Etrusco sul LATINO.Vero èche questa non è propriamente l'idea di VICO, nè la conchiusione a cui egli intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione delle lingue era così poco avanzata, anzi così poco sopposta a' tempi del VICO, che non ad essa la sua mente si rivolse, non di es sa egli si occupò come conseguenza e coronamento della sua ipote si, ma sibbenedi quelladella filosofia. Einfaltinon altrovechein questo punto egli vide l'importanza della sua scoverta, e assai più che nel libro stesso v'instette nelle sue riposte a varie obbiezioni mossegli allora contro con una critica, che non vedea,e in gran parte non poteavedere i veri punti debolie impossibili a sostenere di tutto il sistema. Quivi si vede che VICO (si veda) pensa di aver fatto una stupenda sco verta istorica, perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etruschi cosi doltissimi in cosi remotissima eti, come si vedea manife. b'o da' modi di dire metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina, si dovea credere fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia in Italia, ma si da questa, cice dall'Etruria in quella, e quindi coordinando tutte le parti del sistema, ne conchiude che Pitagora non avesse portato allronde la soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che venulo quivi ad appararla, riuscitovi poi dottissimo, si fosse fermato nella Magna Grecia a formar la sua scuola, sicchè quest'antichissima filosofia che la rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel Lazio e dal Lazio nella Magna Grecia, e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe parole e modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più nella patria dei Faraoni. Ma tutte queste ipotesi riposano sul falso concetto che ogni voce di un contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla, ogni sistema metafisico debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean potuto escogitarlo da sè, ma riceverlo da Latini, e i Latini dagl’etruschi, egl’etruschi dagl’egiziani, non so perchè non si abbiano da spingere anche più oltre le investigazioni, e cercare da quale angolo più remoto della terra avessedo vato venir trapiantata sulle rive del Nilo. La scienza moderna che è meno corriva alle ipotesi, e comunque sia spesso accusata di sognare, più riconosce l'importanza de' fatti prima di edificare un sistema, va più guardinga in questa quistione degli Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli che sono a sua disposizione, non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino fossero stati e donde venuteci, nè che cosa si fosse la loro lingua, se cioè semitica o di origine arja, nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà coll'egiziana. A ogni modo le induzioni per cui giungeva Vico alle sue opinioni intorno all'Etruria niuno è ora che ardirebbedi crederle di alcun peso o di prenderle in sul serio. Ben sono stati alcuni più moderni che le hanno sostenute, e avregnacchè l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà tenga nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în occidente, han voluto che i primi principii d iessa fossero passati dall'Etruria nella Grecia, ma han cercato con fatli e argomenti e documenti che a VICO mancavano di sostener la loro teorica, comunque non sieno mai riusciti a sostenerla tanto da farla aceellare almeno per medio cremeute probabile a'più dotti in queste materie. E non ha guari abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno dei suoi ultimi sostenitori, uomo picchissimo di abbondante erudizione istorica, ina corrivo non so se ad:ingegno o per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni più strane e le meno simili alle più comunemente ricevute. Spesso si èri posto come una specie di amorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione del sapere dall'Etruria nella Grecia quasi per aggiungere un altro periodo di gloria alle glorie dell'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o più sacro quanto quel sentimento per cui un popolo si studia di accrescerei tesoro delle sue grandezze non meno presenti che future o passate, di queste perpetuare la ricordanza nella memoria degli uomini. Ma per esser gelosi custodi di questo tesoro noi altri Italiani non abbiamo a far violenza alla istoria, e volervendicare a noi quelche non ci appartiene, tanto più che quello di cui non si può dubitare che sia nostro è più che bastevole a non farci desiderosi di altro. Or la nostra ve ra e indubitata istoria incomincia da Peoma; il che mi sembra itd'an lichità abbaslanza remota, e una grandezza abbastanza gloriosa pera. Versenea contentare. Tutto quello che è prima di Roma, e già è assat in certo che cosa fosse, non ci appartiene. E veramente Italia non era ancora il paese rinchiuso tra le Alpie il mare, nė Halianiera noi Greci dell'estremità meridionale, I Siculi o gli Aborigeni del Lazio o gli Etruschi, Celti o gl'Iberi, se alcun tratto gl'Iberine occupavano, ma bene erano essi gli elementi primordiali i quali stritura li e fasi insieme dall'opera del tempo e dalla forza assimilatrice di ROMA, d o veano comporre il popolo dicui ha fatto l'istoria LIVIO, Macchiavelli e Botta; lavoro lento e gigante scoele con diverse proporzioni e solto diverse condizioni si è operato per altri popoli ancora; per questa sola ragionei Macedoni eran Greci, e Alessandro che se fosse nato du'secoli prima sarebbe stato barbaro, fu al suo    Innanzi di conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser più breve, ma che potrebbe prolungarsi ancora di molto, non credo essere inutile per meglio far comparire la vera natura delle obiezioni che homosse al filosofo napoletano, il ricordare comeegli non avea per cosa affatto nuova il modo delle sue investigazioni etimologiche, anzi fin dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel medesimo per la lingua latina che avea già fatto Platone per la greca, il quale dalle etimologie e composizione delle paroledi quella avea voluto scourire l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata. Se non che si forma VICO un concelto assai ristretto dal Cratilo se credea a questo solo ordinato quel dialogo, il quale abbraccia tutta quanta la quistione della lingua, della sua origine e del suo valore, coordinandola colla teorica socratica delle idee. Ben è vero che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo, e che, ove non il fa ironicamente e come per istrazio, intende di cavare delle induzioni intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole aveano avuto nascimento. Ma adonore del filosofo ateniese, si conviene confessare che il metodo delle sue ricerche non devia da'giusti confini, nè potea condurlo ad induzioni o false o immaginarie o arbitrarie o contrarie alla genesi delle lingue o ripugnanti alla vera palura. Della metafisica che inquelle si può trovare. Non abbiamnoi veduto che OGNI LINGUA CONTIENE IN SÈ UN INTERO SISTEMA DI METAFISICA (RUSSELL GRICE STONE AGE PHYSICS), ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello stesso p o  t e m p o il rappresentante dello spirito e della civiltà della Grecia, e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci gigantesche del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono divenirlo, poiché, collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle forze naturali si macerano a poco a poco, le differenze scompariscono, e da ultimo si trovano riunite in una sola massa che dee poi divenire uno de'motoripiù irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno onnipotente il carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante naufragate nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de’ Pelasgi e de' Rasena, de' Tirreni e de'Siculi non siappartengono a'discendenti del popolo di GIULIO CESARE e di Trajano.  polo che la parola, e che ve l'ha senza saperlo, depositata? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura dello spi rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco no nella loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi o opposti lati le cose, e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano fra quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo in cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose, e ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla composizione di essa si presen tarono al suo spirito. E se questo lavoro è ancora oggi pieno d'incertezze e di difficoltà, se era impossibile a'tempi di Platone, che fae gli cotesto? Basta che il discepolo di Socrate abbia vedulou na verità che solo i lontanissimi nepoti poteano dimostrare, e tentato un lavoro per compiere il quale, moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto somministrare finora tutti i mezzi necessarii. Ma non cre dea Platone che una setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i concetti metafisici, apzili attribuiva al popolo stesso, che egli per le esigenze del suo linguaggio filosofico, chiama il legislatore, il quale nella successiva costruzione della lingua ve li veniva spontaneamente e però inconsapevolmente trasfondendo. Në pensò mai Platone che da filosofi di altra nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe, e quindi esser passate a'primitivi abitatori della Grecia, che per essere ancora ignoragti non le avrebbero potutemai più ritrovareda sè medesimi. Son queste le due ipotesi su cui è fondato il libro del l'antichissima sapienza degl'Italiani, ma nè dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del Cratilo, Se io ho troppo insistito su queste cose, non è già per desiderio ehe io avessi di appiccare un'inutile giornata col maggiore de'filosofi napoletani, ma si per voler mostrare col suo esempio come camminando il sapere collandare del tempo, e trasformandosi quasi in ogni secolo la sua fisonomia, evedendo gli uomini nelle diverse età sempre diversamente pur le medesime cose, la grandezza de'grandiuomini non si vuol misurare dal numero delle verità che eglino possono ancora inseguare a'lontani ne poli, a cui pure essendo grandissimi, non possono  lal volta insegnare più niente, ma sibbene dal grado a cui eglino si so no innalzati al di sopra de'loro contemporanei, dalle nuove vie che prima degli altri hanno aperle allo spirito, nelle quali altri cammi p ando sono si arricchiti di verità ad essi rimaste ignote, e dagli sforzi con cui hanno potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che alle seguenti generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare con mano, senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso che avviene soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla pienezza de'tempi, si mostri per nuove e più facili vie anche aspiri!i meno alli, quando al tempo che era tuttavia immalura appena si era svelata per astrusissi mi sentieri alla potenza divina trice di solitarii ingegni. Chi è più grande di Aristotile? m a quale è oggiscolarecheintutte lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del maestro di coloro che sanno? O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il proporre la massima parte de'problemi della scienza in quel modo appunto in cui si trovano proposti nell'Organo e ne'libri della Melafisica, anche in quei punti in cui il pensiero arislolelico quanto alla sostanza delle cose è identico col moderno? L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa, che un uomo pec quanto grande egli sia, per quanto s'innalzi al di sopra de'suoi contemporanei e de'suoi tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle delle sue idee, anzi esse tulle non abbiano in quelli lalorora dice, siche egli non può mai separarsi dal general modo d'intendere dell'età che lo vide nascere, anzi appuntoperque slo ègrande, che egli tutta la compendia ed esprime, aprendole le vie agli altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se tul teleidee de'suoi tempii nlujsiriflollono, insieme conquelle anche gli errori e i pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito, nè per quanto egli se ne distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle. Di che si vede quanto sia grande la semplicità di coloro che siappoggiano all'autorità de'grandi uomini in que'punti che eglino hanno in comune con tutta la loro generazione e che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità. Molle volle mi è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni; o siele voi più grande  di Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate di consentire. Or cerlo il canlore de'tre regni della morle si fu il più grande uomo del suo secolo, nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di comprensione poelica possa venire con lui in paragone, ma il pubblicislae il filosofo del XIII secolo era figliuolo del medio eroe avea cinque secoli di educazione filosofica ed islorica meno di noi, e il cilladino di Firenze nato l'anno di grazia mille duecento sessantacinque in molte cose non potea non pensare come frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è che vorrebbe piegarsi innanzi all'autorità di questi nomi? Cerlo, che io mi creda, niuno. Quesle cose poi che si dicono dell'antorità de'grandi uomini vanno deltealmedesimo modo dell'autorità dell'istoria in generale. La sentenza di Tullio che dice l'istoria maestra della vita è veris ima se s'intende in un senso, ma fonte di molti errorise s'intende in un altro. Verissima è in un senso universale e scientifico in quanto che l'istoria facendoci come assistere allo spellacolo delle diverse generazioni clic si sono succedute sulla terra, ci rende quasi contemporanei del passato. Per mezzo di essa noi possiaino allora formarci un concello generale del cammino del genere umano, e delle leggi ideali che presie dono al succedersi delle civilti, delle leggi, degli istituti, delle religioni, degli stati e di tutte quante sono le manifestazioni dello spirito umano. Allora noi partendo da queste considerazionipossiainocom prender  il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo, de terminare le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi affaticale sulla terra, e divinar quelle che abbiamo colle altre che dopo di noi bagneranno col loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso veramente la sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più stupendo ammaestra in e n t o che si possa, la comprensione della vila slessa in tulle le sue manifestazioni, in tutte le sue relazioni col passalo, col presente e coll'avvenire. Ma inetta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più ristrello edempirico,quasivolessedireche las toria insegna agli uomini cogli esempii de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi agli antichi simiglianti,Il credere a questa specie di aulorilà istorica dipende dalla falsa supposizioneche gli avvenimenti si ripelano o si possano ripetere nelle medesime condizioni, il cheè tanto falso quanto è falso il credere che il genere umano non si muova, e che l'istoria non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii fatti e un'indole sua propria per la quale anche i fatli che sembrano rasso migliarsi in certe esterne condizioni, sono diversissimi di significato e divalore. Il principio che niente è ma lutto si fa, niente permanema tulto si muove, spezialmente nella storia e nel cammino del genereuma no si verifica. Ben la nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si ripete,la natura morale dell'umanità non mai. A coloro iquali dicono: ben così dee avvenire perchè così altra volta è avvenuto,ben sipuò rispondere che appunto perchè altra volta così è avvenuto non può più avvenire al medesimo modo.Dove il genere uinano cosi continua. mente agitandosi finalmente abbia da giungere, chi è che possa pre vederlo, o quale è filosofiache lo possa al meno verisimilmentepre dire? Ma quando si pensa quel che era la famiglia umana al tempo delre de' re Agamennone, per non salire più alto, e quale oggi è divenuta, chi non si sente di naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè volge il pensiero a  coloro cui se parerà da noi la medesima distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade  L'Italia era pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una eccellenza, che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia, la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto dal cielo, e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e fio renti stati pareano quasi cote che affilavano gl'ingegni, af forzavano gli spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello. Intanto, fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e l'adoloscenza delle no stre menti,venne l'età più matura e quasi la virilità dell' in tendimento, nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui suona il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch 'egli è, e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è stato contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni. Allora inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la poesia, siccome la Grecia e l'ITALIA col fatto ne fanno prova . Nè si potrebbe addurre in contrario la scolastica che è antichissima, e certo precedente alla poesia, perchè quella, oltre che confinava da presso con la teologia, più presto che esser l' effetto spontaneo, per così dire, del pensiero nazio nale, lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri, senza che il pensiero laicale vi avesse alcuna parte. Il quale, quando fu venuto il tempo propizio, si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti, e a compensar con usura i nostri padri dell'ospitale accoglienza per essi accordata ai fuggitivi figliuoli d'una nazione illustre e generosa, che dopo quattro secoli d'oppressione, dovea riacquistar l'indipendenza, e, bella delle memorie passate e del presente trionfo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo, sorgendo, come Lazaro, dal polveroso sepolcro che avea accolto il suo cadavere. So bene che da alcuni si è creduto il risorgimento degli studii classici e la conoscenza più intera dell'antica civiltà essere stati più presto di nocumenlo che di utile alla moderna, parendo loro esserne stato impedito il libero cam mino degli spiriti, e turbata l'originalità del pensiero mer cè l'innesto violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco . Ma costoro non pensano che la civiltà di un secolo non è e non può esser un fatto isolato e da sè ma che è iotimamente legata a quella de' precedenti mercè l' aurea catena delle tradizioni, e che ogni secolo dee, in quanto può, legarsi col passato e argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene e disdegnare di riconoscerlo, o pretendere superbamente anzi puerilmente di incominciar tutto da capo, e rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre cedenti han lavorato. Però il risorgimento degli studi classici e la conoscenza dell'antichità, innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar l'edifizio della civiltà moderna, nè in fatto pud negarsi che a risorgimento delle antiche lettere sieno dovuti in gran parte i subiti progressi che le scienze fecero tra noi. Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti fra cui la scolastica volea talora chiusa l'intelligenza, quando si fu meglio e vie più direttamente conosciuto il pensiero dell'an tichità, ed ecco sorgere di presente una nuova filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano di conserva il pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più profondi ingegni della penisola si misero a quest'opera, lavorando insieme, quale in uno e qualein un altro modo, al comune e nobilissimo scopo, e tosto si vide venir fuori dal loro numero il celebre triumvirato di  TELESIO (si veda), CAMPANELLA (si veda), e BRUNO (si veda), i quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte d’Italia. Comune ebbero la forza della volontà, l'ardire dell'inge gno e la potenza della mente; ma il primo restò indietro agli altri due, imperciocchè la sua opera fu puramente ne gativa, laddove questi poterono crear de sistemi che nè il tempo nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far dimenticare. A così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini per la filosofia italiana, ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii. Del qual fatto non si può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e nella intima natura della nostra filosofia. E, in vero se, come abbiam veduto, la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per siffatta ma niera di studii, quando questo momento fu arrivato, la nazione incominciò a declinare. Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante piccole nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti, e poi la scienza, incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la conquista era compiuta; le antiche forme di reggimento eran cadute o avean perduto della loro importanza; e le nostre sorti incominciarono ad esser, quando più e quando meno, legate a quelle di altre nazioni. Strana cosa è l'ammirazione di taluni storici, siccome DENINA, per la beata tranquillità, per i giorni di serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo dell' Italia. Più stra na ancora è la maraviglia del TIRABOSCHI il quale non sa comprendere come la letteratura, le arti e in gran parte le scienze sien volte in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea l'irrequieta terra italiana, facea sperar nuovi progressi e quasi un novello secol d'oro al nostro paese. Costoro non intendevano che quando una nazione cade, cade di necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con la sua vita e col suo essere . E in fatti allora la bella prosa italiana fini, allora la poesia spirò sulle labbra di TASSO, e le arti andarono ogni di più declinando. Allora incominciò la corruzione onde il seicento è rimasto celebre nella memoria degli uomini, sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico spirito let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente nel paese stesso che l'avea veduto sorgere, siccome la pittura cercò un asilo in BOLOGNA e parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre CARACCI, di RENI, del GUERCINO e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore ferito, o come l' ultimo canto del cigno che si muore. Egli è facile il concepire come una filosofia, la quale derivava da un movimento al tutto italiano, e che pe rò era legata alla fortuna del pensiero onde ella avea da nascere, dovesse cader di necessità il giorno stesso che quel pensiero veniva a perdere la nazionalità e l'indole originale. Il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso che il gran disce polo di Anassagora bevè la cicuta, perciocchè allora a Platone dell’ACCADEMIA e ad Aristotile del LIZIO sarebbe mancato il tempo di compari re, siccome mancò tra noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si può dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra noi VICO quasi a protestare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano egli seppe innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il cammino del genere umano sulla terra, e dalla meditazione d'una sola città alle leggi supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e poco avuto in pregio da quelli, ed è stato sol da'posteri onorato condegnamente alla sua grandezza; gloriosa ma pur tarda e, che è più, inutile ricompensa al merito degli uo mini veramente grandi, e a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li dispregia, ovvero di chi più non può giovarli . Parecchi anni dopo del VICO, e immensamente a lui infe riore, comparve in Napoli GENOVESI. Del quale spiacemi di dover parlare in modo che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo . Im perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto economista non so, sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria, e poco o niente avean creduto alla sua grandeza. GENOVESI poi, sendo prete, credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa, nè il più delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non poco pretendesse alla leggerezza dello stile, e fino alle facezie e alle arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del XVIII, credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo, senza scorgere le conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come teologo avea in 198 napzi AQUINO (si veda), intendea come filosofo seguitare l’EMPIRISMO di Locke e il RAZIONALISMO di Cartesio, allora nuovi e in voga oltremonti, e a cui l'alta mente di Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra. Diviso fra due estremi così opposti in sieme, e' travagliavasi pure a volerli conciliare, e parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse maravigliosa mente servire al suo scopo, e così volea conseguir la gloria, tanto per lui ambita, di libero pensatore e di teologo; ma il tentativo riescì vano alla prova. Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà accorgere d'un continuo vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il lettore si tro va, siccome l'autore dovea essere, in una strana tenzone di discordanti dottrine che ben sono accoppiate insieme, ma non sono e non posson essere ricondotte all'accordo e all'armo nia. E, in vero, quale è la teorica onde egli ha arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo nome? quale la scuola che ha fondata? Se pure non voglia dirsi, come si potrebbe in certo modo affermare, che egli sia sta to il primo che incominciasse a introdurre fra noi la filosofia del XVIII secolo, la quale dovea poi più largamente spandersi e acquistar quasidiritto di cirtadinanza. Concios siachè, spezzato il legame sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e in certo modo spenta presso il più gran numero la ricordanza delle passa te glorie filosofiche, parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta la filosofia, innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi l'uso delle profonde me ditazioni era venuto meno, ei sistemi che lavoravansi oltre le alpi, tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la letteratura francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi popolari in gran parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke, e più indirettamente da quello del Cartesio. Cartesio avea continuato nelle astratte regioni della filosofia l'opera incominciata dalla Riforma in quelle della religione, più astratte eziandio e al tempo stesso più positive delle prime, che era senza più l'idea della libertà del pensiero. Cosiffatta idea era nata da prima in Italia, do ve non chiedea altro che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle prime si fu contenti a quella solo della libera discussione contro l'Aristotile delle scuole, salvo a costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello stesso Stagirita ovvero di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si vide fare. Ma la Riforma, confondendo i limiti di cose diverse, domanda la libertà della discussione religiosa, il che era distrugggere la religione medesima, la quale per sua es senza è fondata sulla fede, sulla credenza e sul mistero, talchè sì tosto che la discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il credere e il non credere, tra il si e il no, alcuna transazione non è possibile, e ogni ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che d'una leggiadra fanciulla dalle guance rosee e da'capegli dorati, la quale sembra contaminata dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma non si tosto l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua bellezza, ogni prestigio è finito. Così accade delle religioni, e tutte quelle che finora hanno imperato in su la terra, vere e fal se, ne son argomento. I libri sacri degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto dell' arca; l'Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione, è la patria de' simboli e de' geroglifici, e in Grecia solo pochi savi dopo faticose prove erano iniziati a' misteri di Samo tracia e di Eleusi . In somma è strana cosa il credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla fondata sul principio dell'autorità. E in questo veramente il principio cattolico è superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte del cristianesimo, come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna transazione, ma riconosce in sè la fonte di ogni vero, poggiandosi in sulla autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano, ben fa spesso de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s' ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto all'unico e immutabile vero, Ma dove è questo vero? chi mai può dire di averlo ve duto, o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di tutti i loro sforzi in su la terra, siccome il sepolcro di Gerusalemme a'Crociati e le coste di S. Domingo a COLOMBO? Cotesto continuo moto, coteste secolari agi tazioni stancano l'anima, la quale ha sovente bisogno di fermarsi pure a qualche cosa di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui riposarsi dalle fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi, fra le affermazioni e le negazioni dell' intelligenza. Or la Riforma distrugge questa proprietà assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un pelago più con trastato ancora che quello della scienza, e in una bolgia di più inestricate e spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della riforma furono rendute ancor più estreme dal Cartesio, il quale spinse tant' oltre il desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di tutte quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscenze, delle sue idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito, di costruir da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a distruggere. E veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser in chi si piace di distruggere quello che egli ha intorno, per aver poi l'illusione del creare, e, che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio; nuovo e titanico esempio d' un sublime veramente dinamico, Che cosa è egli quindi avvenuto? Cartesio dovea egli so. lo ricostruir da sè l 'edifizio della realtà e dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea. Ora e' ci ha nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione, l'istoria, le arti, i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano dalla intelligenza individuale dell'uomo, quale essa alla logica e alla psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori, a cui non si può che per diverse strade per venire. Per la qual cosa chi si argomenti di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più ristrette scienze gli concedono, e' non ginngerà mai ad avere essa realtà, quale nel fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione in dividuale. La quale difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Cartesio a cui essa è indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l'una può avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo, resta che la seconda si avveri . Pur tuttavia il Cartesio, siccome suole avvenire, per essere il primo, non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe, che poi seppe altri logicamente tirarne, allorchè si vide al fatto qua' si erano le estreme, ma pur legittime conseguenze delle dottrine cartesiane. Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in Francia, comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea dichiarato quasi vana ogni scienza, il cui obbietto non potesse cader sotto l' impero de’ sensi, quando Locke cercò modo di applicar questo me todo alla conoscenza dell'intendimento umano, e fu di necessità costrello a vedervi solo quello che ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della sensazione. Dalla quale, per sofismi che la scienza adoperi, non giungerà mai a cavare altro che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna spiegazione probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono le religioni, le arti, l' istoria. Pure Locke si ostinò nel suo cammi no ma non seppe o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello conducea. Non io vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema, nè far l'apologista di una più presto che d'un' altra filosofia, ma mi sdegno di certi acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a perdurare in una via, quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì spiegare ma negare giammai, ove non volesse, come Alessandro fa del nodo gordiano, non sciogliere ma tor di mezzo, negandole, le difficoltà. Pertanto quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso, e venne accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera, ma come un antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria. E veramen te sua patria era per esso quella del Cartesio. E' si dice che ogni idea cerca per per sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è certamente quella della sensazione. Conciossiachè la rivoluzione di Francia si argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria, alle sue tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni senza fallo enormi, ma pur logiche, e per le quali può dirsi che Marat, Danton, Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti discepoli di Locke, di Condillac, di Voltaire e d’Elvezio; sebbene al fatto siasi veduto ove quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di tener saldi certi altri e più antichi principii, chi vuol conservare in vita le umane società. Tale si era lo stato delle cose in Francia quando l'ITALIA legata oggimai a' destini della politica straniera, cerca ezian dio fuori di sua casa una filosofia bella e fatta, e potè leggermente trovarla, siccome l'abbiamo descritta in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero della scien za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse morta le per noi, come quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di natio vigore nella patria di Gregorio VII e di ALIGHIERI Vero è bene che la filosofia della sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata ciecamente e compiutamente, ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per insinuarsi nell' universale, e produrvi certa maniera di debolezza morale che è l'effetto della mancanza d'ogni idea più elevata e più generosa. Ma comunque avesse avuto fra noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure, le più alte menti italiane non si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di scostarsene del tutto. Solamente più tardi e quando già quel la filosofia incomincia a venir meno nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i saggi di COSTA (si veda), di GIOIA (si veda) e del napolitano BORRELLI che a quel le dottrine più da presso si accostavano; tre menti temprate in modo da non intendersi come abbiano potuto nascere nel la patria d’ALIGHIERI, BUONARROTI, E VICO.  I due ultimi – GIOIA e BORRELLI -- scrivendo in una lingua a mezzo barbara, intendevano l'uno di spandere e divulgar nell' universale la parte più positiva della logica del Condillac, e l'altro di rianimare le teoriche del Cabanis, mercè qualche dottrina, già forse combattuta e dimenticata, del Locke. D'altra parte il primo, dico COSTA, purista ma pedante in letteratura, crede che la medesima lingua che era servita ad ALIHGIERI per narrare i tre regni misteriosi della morte, e descriver fondo a tutto l'universo; la medesima lingua che era servita a MACHIAVELLI per disvelare i segreti della politica, e a VICO per dividare il passato e l'avvenire, e far la Divina Commedia della vita, siccome ALIGHIERI avea fallo quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le lepide trasformazioni della celebre statua, che a forza di odor di rosa dovea tornare uomo, come quella dell'antico Prometeo, mercè la fiamma del sole. Tolta per tal modo al pensiero l'originalità e l'indole nazionale, la letteratura di rimbalzo dovea sentire i cattivi effetti dello stato morale del paese. Già essa avea perduto la sua antica grandezza al XVII secolo, la sua fulgida stella era tramontata, e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo, trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere, chè la strada era fatta, aperta la breccia, e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad un'altra, un nuovo ad un antico vizio. Allora si giunse perfino a sostenere che l'italiana era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo, nè agli andamenti più svelti e più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla, provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà. Non è chi ignori come CESAROTTI  si e il massimo campione di questa infelicissima scuola, e come con questo scopo dettò certo suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che giunta la cosa a questo estremo punto, bisognava di necessità che, secondo il corso ordinario degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in un altro ordine di cose una maniera di reazione era incominciata, concios siachè l'opera dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una possente reazione contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di quello che negli eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur meritava di esistere. In ITALIA, strana cosa ! questa reazione incomincia DALLA LINGUA. Già poco innanzi PARINI, ALIFIERI, e qualche altro aveano incominciato a levar la voce contro la servitù dell'imitazione straniera, ma poichè il male non era an cor venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar per ritornar indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti immediati in su le menti de' loro con temporanei, perchè le parole eriandio de' più grandi uomini non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap parecchiati a riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in vero quando le cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho citate poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa cile nell' universale. Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del tempo e regalati, per più derisione, de’titoli di pedanti (che forse erano) e di pu risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da onorar qualunque eroe, e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare che costoro, non si credendo che i paladini delle parole, combatteano veramente, senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero, e, se eran pedanti, significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro le pretensioni della filosofia. Duraya giá da alcun tempo questa reazion grammaticale contro la letteratura allora corrente, quando dalla remota Calabria s' intese risuonare una voce, che protestava contro la filosofia del senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta da voce era quella di GALLUPPI, rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita. Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli ha negato da ciò che ha affermato, cioè la sua polemica col sensualismo dal suo sistema. Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle minute investigazioni di Condillac, di Tracy e degl’altri di quella scuola. Cotesto è il vero merito di GALLUPPI, e PER QUESTO SOLO GLI E DOVUTO UN POSTO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Vero è che le sue armi sono il più delle volte domandate alla scuola scozzese, o eziandio à quel medesimo Locke che era il vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere; ma cotesto non diminuisce nè il suo merito, nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra noi il nome e il sistema di Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana, pure è cosa indubita che egli si fu il primo ad occu parsene seriamente. Certo è, come innanzi vedremo, che altri è riescito meglio di lui nell'investigar la mente del filosofo prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio in questo, non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema composto in parle dalle teoriche del Locke e in parte da quelle del Reid [CITATO DA H. P. GRICE, “PERSONAL IDENTITY” – Mind, repr. PARRY], non credo che volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione. Conciossiachè debolissima è la sua psicologia, e quasi nulla l' ontologia, la quale egli spesso non sa distinguere da quella, e sì confonde stranamente le quistioni che all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica, che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi, è riescito a trattar della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come allogare altrove. Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche, è l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica. Nell'estetica, per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della teorica della volontà, senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa si possono discutere, s'in trattiene a sostener l'opinione, un po' veramente troppo vo luttosa, che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e però men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son più liberi, e, se così può dirsi, più spirituali . Del resto e' si può dire che GALLUPPI non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti, ovvero se pur l'ha, dubito forte non sia quella del Blair e SOAVE, autore di un'intera enciclopedia d'istituzioni elementari per l'educazione della povera gioventù italiana, filosofo, matematico, grammatico, relore, novelliere, moralista e SOMASCO, che per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad infestar co' suoi libri, i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto poi al suo sistema sulla morale e sul di ritto, GALLUPPI non può dirsi che siane uscito più felice mente che nelle altre parti della sua filosofia, e chi volesse prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui, come al trove, trovarlo ad ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni passati che il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe un'istoria della filosofia, ma sembra che per mancanza di soscrittori l'edizione non potesse andare innanzi, sicchè dovette smetterne il pensiero, e l'opera morì ia sul nascere. Se in questa, come nelle altre cose, l'induzione è buona, e si può indovinare che la scienza non vi abbia perduto gran fatto; chè l'autore vi fa cea mostra d' un'erudizione non molto riposta. E' mi ricor da fra l'altro che nell'introduzione tentava ancora egli un'in terpetrazione del mito di Prometeo, e giunse per non so che strane congetture a persuadersi che il celebre prigioniero del Caucaso si era un anticore dell'Attica, che aveaprima insegna to a quelle genti i primi rudimenti di agricoltura e sopratut to la coltivazione del grano. Davvero mi sembra enorme non veder altro che questo in Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di Mercurio, per comando di Giove e per decre to immutabile del destino, e mi sembra più che enorme di struggere il più profondo mito dell'antichità, e conver tire il figliuolo di Giapelo in un mietitore, con una rovinosa metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera del teatro di Sofocle in poco più di un'egloga. GALLUPPI e chiamato a dettar lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli, e la scelta del governo fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti, imperciocchè si aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi gigantesca tra noi, e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno avea ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni di esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è stata delusa, ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di durevole. Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata? quali le verità che ha dato a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare della sua filosofia al diritto, alle arti, alla politica, all'economia ed alle scienze naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è feconda di applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel circolo delle quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo nome a cui aspira, e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di scuola. Or tale si è quella del professor napolitano. Però non dee arrecar maraviglia se le sue parole uon hanno avuto un eco, se il suo insegnamento è stato per duto, e se, fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuola, non ce ne ha pure uno di cui si possa dire: costui conti nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il maestro ha incominciata, nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più inutile che le parole da lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. Non ricorderò che di volo i nomi di MANCINI, TEDESCHI, GRAZIA, e WINSPEARE. De’quali i due primi, siciliani, non possono dirsi, e sopratutto il primo, che seguita tori, ma nè interi nè profondi, dell' eclettismo, e, poveri non meno di erudizione che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari che non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo, calabrese di patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla filosofi, ed ha, già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe un'opera in cui intende a richiamare in onore e Locke e la filosofia dell'esperienza, ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto, e che agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter l'autore, a sua insaputa, in con tradizione con sè medesimo, e l' un principio del suo siste ma in opposizione con l'altro. WINSPEARE (si veda), giureconsulto di rinomanza in Napoli, si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e come frutto delle sue meditazioni pubblica “Saggi di filosofia intellettuale”. La sua “Introduzione allo studio della filosofia” contiene un compendio dell' istoria di cotesta scienza da Talete in fino al Kant. I suo “Dizionario della Ragione” e un dizionario di filosofia che si propone lo scopo di fermare per sempre le parole della scienza e il loro significato, affine di renderne il valore così certo e indubitato come è quello delle matematiche, e distrugger così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti secoli il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore ha per ferma la celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo, e che ora alcuno non oserebbe di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste, abbiano quelle immantinente da cessare. WINSPEARE traduce i “Nuovi Saggi” di Leibnizio, dove da un vero modello della LINGUA FILOSOFICA ITALIANA, ancora così povera tra noi (non credano i lettori che io esageri), pro ponendosi di più di venir mostrando ne' suoi comenti quello che ci ha di buono e quello che ci ha di vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco. Ancora qui non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore. WINSPEARE expone il sistema del Reid. E qui immagini il lettore il sistema del filosofo scozzese, che non suole esser creduto, ch' io mi sappia, de'più oscuri ed astrusi, esposto compendiosamente dal nostro barone, in un gran volume in quarto; chè questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secondo WINSPEARE e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere obbligata; e di costoro il primo visse, già sono trenta secoli passati, in Atene, e l' altro nacque in Iscozia. Questi due uomini sono Socrate e Reid . Solo il Leibnizio potrebbe esser terzo tra costoro, ma egli è troppo lordato di metafisicume per essere accettato interamente dall'illastre giureconsulto ; e però, come è detto, e' si propone di purgarlo. Salvo adunque il greco, lo scozzese e il tedesco, così purificalo, tutti gli altri uomini che han consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ovvero s'ingannano per difetto di giustezza di mente, ovvero si lasciano strascinare dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è sopra tutto ordinata ľ opera del WINSPEARE. Innanzi di lasciar Napoli non posso trascurar di ricordare il nome di un uomo, forse poco conosciuto altrove, e che eziandio tra noi non risuona molto, ancorchè il meritasse . Ma in tutte le cose la fortuna è signora, ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa maniera d'impostura. Co stui è COLECCHI, il quale, sendo già profondo matematico, allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. COLECCHI sa penetrarvi così addentro, che quasi le fece sue proprie, e spesso osò modificarne alcune parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata col suo autore, ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro dottrine. Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove distingue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci con l'esperienza ma non tutto da quella derivi. Cotesto è forse il più importante e il più vero di tutti i principii kantiani, comunque sia assai più antico della critica della Ragion Pura. Leibnizio, fra gl’altri, avea già insegnato l'anima escir dalle mani del Creatore con tutte quante le idee necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua propria essen za; ma che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma teria, han bisogno che l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda, benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura, ma si cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima dottrina può tro varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra, come tutti sanno, della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta, dimostra siccome è nelle nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e generale che non si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque che sieno eguali insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove quella è tale che noi sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non possiamo comprenderla altrimenti col pensiero, questa per contrario è mutabile, sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose, che pur ieri ne pareano uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover confondere con quella delle singole cose a cui questo attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello, del giusto, del vero e di altre cosiffatte idee, che non si possono confondere con gli obbietti sensati, a cui si trova che solo per contin genza alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e che sono come un debil raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose mutabili vengonsi a riflettere, e che di quelli solo per accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo strumento per cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee, sendo che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da' sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti, i quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella, lasciata la sua celeste dimora, discese nella prigione del corpo la tal guisa, secondo il divino Platone, il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è ricordarsi. L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui solo, si è la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a farne conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose. Teorica d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se l' uo mo ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche verità, ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere immagine del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto la sua propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello. Chi concede questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee esser tenuto per kantista, siccome io affermo di COLECCHI, quali che fossero in parti secondarie le loro di vergenze. II COLECCHI pubblica un gran numero di articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso prende a combaltere GALLUPPI, e se il faccia con buon successo, e se gli avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo. Conciossiachè il sistema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche, di cui mi riesci di aver le bozze di stampa per le mani, poichè il libro non potè veder la luce . Cotesta estetica, come tutto il sistema del nostro filosofo, è quella me desima del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo spirito possa alquanto rinfrancar le forze. Egli è quasi che inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle, pos sa esser materia su cui s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze, con le quali è al postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello e dell'arte, alla guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel cada vere, o quello della luce nelle tenebre. Mentre questa fortuna si aveano in Napoli le discipline filosofiche, nelle altre parti d'ITALIA non mancarono di essere, ove più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in manifesta opposizione con quello erasi veduto finora nell' istoria della nostra filosofia, la quale in fino dalla più remota antichità, ha avuta nel mezzodì della Penisola un' indole diversa che nel settentrione. Colà il razionalismo ha dominato, qui la scienza ha più presto incli nato al positivo e alla pratica; quasi queste due diverse ten denze della filosofia si fossero geograficamente diviso il terreno. E in vero mentre nell'una parte venivan su LA SETTA DI CROTONE  E QUELLA DI VELIA, nell' altra la sapienza etrusca s'introducea in ROMA, che può dirsi il paese per eccellenza della politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di tempo i due estremi si andarono ravvi cinando, e l' idealismo si accostò al suo contrario e quindi risultò l'indole vera della FILOSOFIA ITALIANA, che è insieme speculativa e pratica, come quella che domanda i principii ma non dimentica le applicazioni, e, se intende di levarsi. sino al cielo in su le ale della speculazione non perde però di vista la terra. Se non che è innegabile che non ostante il ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi del mezzodi restaron sempre più razionalisti, e più pratici quel li del settentrione; testimonii VICO e BRUNO da una parte, MACHIAVELLI e POMPONAZZI, per non citarne in fioiti, dall'altra. Ora al nostro vivente, come dicevo, il fatto inverso si è veduto avvenire, chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla psicologia, e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni, venuto meno a noi, si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono SERBATTI, ROVERE, e GIOBERTI. SERBATI ricorda in certo modo i nostri buoni filosofanti delle scuole, i quali chiusi fra le mura di un chiostro, alternavano la vita fra la preghiera e la meditazione, e vedeano scorrere in silenzio i loro giorni senz'altro pensiero che quello della chiesa e della scienza. Così il no stro abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di Novara, si è dedicato tutto quanto alla religione e alla filosofia, con una fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era già conosciuto per altri scritti di filosofia speculativa e di diritto pubblico e naturale, quando pubblica per le stampe una sua opera sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine, per la forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel fatto dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce. Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo stile e delle parole. Il problema che l'autore principalmente discute in questo suo saggio è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza. Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni, e quale a render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi campi della terra, che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che egli ama, l' inimico che odia, le catene che legano i suoi piedi o l'oro che brilla nella sua scarsella, e' non si dubiterebbe pure un momento di di chiararlo mentecatto, e condurlo di presente all' ospedale dei matti. Or la filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de' poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della scienza, anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi, o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè medesima o infedele alla sua divisa, ha consentito ad accettare il nulla con una rassegnazione da disgradare un anacoreta, e a conchiudere che il genere umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose. O alliludo! Or l'opera di SERBATTI è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati, i quali tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione. Di scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in una maniera non tolta da altri, come i filosofi di lutti i tempi sono andati errati in questo, o per eccesso o per difetto, dappoichè alcuni non vollero riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito, ed altri cre dettero di vederne in maggior numero che veramente non sono. Lontano dall'errore degliuni e degli altri, SERBATTI ni ne ammette sol' una, cioè ľidea dell'essere, forma uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito, la quale non ne suppone alcun'altra prima di sè, ma bene da tutte quante le altre è supposta, come quella che alla loro formazione è necessaria. Or su questa idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto dell'esistenza, anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza, da’concetti a’fatti. Non io qui intendo di difender l'una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra. Quale si è la difficoltà arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà? Noi non sappiamo le cose, e'di cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella rappresentato? su qual ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto ? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto a SERBATTI, non è punto diversa dalle altre, e indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te natura; e, se è vero, come è, che la è generale e necessa ria, non è però vero che a differenza delle altre idee di que sta medesima natur, sia di per sè stessa obbiettiva e atta a porci in relazione con le cose reali . Sicchè l' antica quistione non è stata per voi risoluta, anzi rimane tultavia intera, potendosi opporre all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre idee, non ostante i vostri sforzi per sostenere il con trario . Vero è che l'autore, dopo cinque faticosi volumi, con una rara, non so se io dica superbia o modestia, dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina, e che egli in vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa, di esser chiaro e intelligibile. Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell'opi passa dall'idea e nione di SERBATTI una pericolosa teorica da cui agevolmente si può sdrucciolare nel panteismo. Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal suo autore, e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti mamente si possono far discendere dalle sue opinioni, certo pon indugerebbe pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto. Ultimamente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure strano vederlo sem pre e da per tutto. ROVERE pubblica in Parigi il “Rinnovellamento dell'antica filosofia italiana.” Oltre al nome dell'autore che già risuona nella nostra penisola, cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione dell'universale sul saggio di ROVERE. Conciossiachè si credette di vedere certo orgoglio nazionale, e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di richiamare in onore e in vita la nostra antica filosofia. La ste rilità pedantesca de' nostri filosofi non avea fatto escirle loro scritture dai limiti della scuola, e privatili così d' ogni maniera di popolarità in un paese in cui gl’uomini consacrati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi, perchè levi gran grido nell' universale un saggio di materie così speciali. Ma questa difficoltà ROVERE riesci a superar felicemente. Or vediamo qual sia la sua idea. I filosofi italiani non solo sono slati primi nell’ordine del tempo a incominciar la guerra contro la scolastica, da cui poi dovea venir fuori la filosofia moderna, ma ancora sono entrati innanzi agl’altri per la profondità e dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto, riconducendole all'osservazion della natura, da cui le astrattezze della scuola aveanle allontanate; metodo di cui la filosofia moderna mena gran vanto come della più bella delle sue invenzioni, e della sola armecon cui sipossa giungere alla scoperta della verità. Ancora fecero di più, e non contenti ad indicare altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella, e ri ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo, riescirono a crear de ' sistemi a niuno secondi di quanti ne’tempi posle riori si son veduti venir fuori. In questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere e da mo dificare, ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano ben altra cosa che dispregio e noncuranza. La filosofia moderna avrebbe da studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è, e far tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori la libertà o la vita . Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla, e in vece di tener die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro clima della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata fra essi. Le altre parti del saggio di ROVERE  son destinate a svolger la vera natura di questo metodo, che, secondo lui, è quello dell ' osservazione, il quale a molti può parere non acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire, e che a me sembra egli confonda troppo con i procedimenti I delle scienze naturali. Ancora ne viene mostrando l' applicazione a parecchie quistioni speciali, che egli si studia di risolvere seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo sofi italiani del risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione, siccome ROVERE l' intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra antica filosofia . L'idea di ROVERE si è di ri chiamar in vita tra noi le nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti gli altri, e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil cosa di non rispettare come up dono della Provvidenza, e di non custodir gelosamente come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo, negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose. Gl’obbietti sì del mondo fisico che del morale, si possono giustamente chia mar poligoni, in quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può, rimanendo sempre il medesimo, esser considerato in mille guise diverse, e produrre, secondo queste diversi tà, mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere variamente riguardate, tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni popolo di spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio, esercita vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita, nè ci ha cosa che possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e i suoi infiniti accidenti, da cui ogni letteratu ra direttamente sorge, facendo ritratto dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno di realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e l’opera dello spirito, e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali, occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo, dell'uomo e delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gl’Italiani e per i Tedeschi d'intendere i medesimi veri, di considerar gli stessi fatti generali, sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra. Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese o tedesca, dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale, dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a’faiti ed è quindi più sperimentale o empirica; differenze che trovandosi nell'indole della scienza, mostrano che ci abbia da esserne un'altra corrispondente nell'indole delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na zionalità della filosofia, sendo però necessario di far due os servazioni su tal proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un intero isolamento scientifico, ovvero credere che ogni idea straniera possa esser contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na zionale. La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la terra, nè è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il genere umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob bligati di riconoscerla per tale, ove che la sia, e di abbrac ciarla e farle plauso e festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte e sicuro di sè medesimo, le darà a sua insaputa quell' atteggiamento particolare, e quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo dell'indole di uno o di un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni consiglio su tal proposito dee tornare quasi inu tile, e che quindi debba riescir vano il raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella filosofia. Basta es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori arsene per avere untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non avvedendosene, in tutte le parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se un paese è debole e corrotto, se già ha perduto la sua indole nativa, i consigli de'dotti saran vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità nelle al tre cose, non gli sarà possibile dicustodirla nella filosofia più presto che nella letteratura, nella politica e nelle arti. Del resto ho voluto dir queste cose più presto a proposito di ROVERE che contro di lui perchè nè l'uno nèl' altro de' due rimproveri gli si può fare. Quanto poi all'idea d' incomin ciar la scienza ove l'hanno lasciata i nostri maggiori, certo GL’ITALIANI d'oggidi avrebbero ben torto di dimenticare i no bilissimi lavori de'loro padri e le dottrine onde hanno splen didamente arricchito la scienza, ma è da vedere se per far questo si convenga rinunziare a tutto quello che lo spirito umano ha scoperto in processo di tempo, perchè non è ve rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi lavori per tre se coli e più. Credo che non sia questa strettamente l'opinione del nostro autore, ma domando se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua. Eccomi finalmente arrivato a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei che è giunto ad ottenere una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io parlo di GIOBERTI, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall' uno all'altro estremo della penisola. Quindi è che ciascuno si è creduto in diritto di dar la sua opinione e il giudicarlo a sua posta, onde egli si è trovato esposto a’più contraddittorii giudizii, alla più inetta critica, alle noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte, a' nuovi ed a' vecchi pre giudizi, dirò franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo, quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar sentenza, perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi schiarimenti e la prova del tempo. Intanto per por tare in fin da ora un giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti e quasi niente della terza . Come filosofo, GIOBERTI appartiene senza fallo alla no bilissima schiera de’ BOTTA, de’LEOPARDI e degli altri che in questi ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di renderle l'antico splendore, la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati, e che le aveano negato la fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni di quello in cui noi viviamo, e che ancora regnano appo la maggior parte de’filosofi di cui innanzi è discorso, la cui lingua, e più ancora lo stile, si penerebbe a crederlo italiano, e si direbbe compassionevole, se la pretensione non non lo rendesse più tosto ridicolo. COSTA può dirsi il primo che in questi ultimi tempi tratta di filosofia con correzione di lingua ed eleganza di stile, ma oltre a questi pregi, non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co stituiscono il grande filosofo. La medesima cosa può affer marsi di ROVERE la cui lingua è pura, lo stile esalto ed elegante. M invano si cercherebbe altro nella sua prosa. SERBATTI, senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea. Tull'altra cosa è di GIOBERTI nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola mente; qui è ricchezza smisurata, nobiltà e vera eloquenza, tanto che si potrebbe citar de'passi da valer come modello da imitare. Conservando il tipo originale e l'antica grandezza della nostra lingua, e’la tratta pur tultavia come la lingua d'un popolo che è ancor vivo, che ancora ha uno splendido posto nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio. Chè nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di corromperne la natia purezza, non si vorrebbero allontanare da' limiti del trecento, e si spaventano d'ogni innovazione, come se fosse morta la lingua parlata da ventiquattro milioni d'uomini. Niuno di questi rimproveri non può farsi a GIOBERTI, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra i filosofi di prim'ordine. Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi, si abbandona talora un po’troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio. Non su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria chiaroveggenza, per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze, scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar gomenti, della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui. Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo alle questioni psicologi che, ovvero non osando che modestamente occuparsi di quelle di altra natura, si son tenuti lungi da' più alti problemi ontologici sull'origine, l'essenza e le leggi della realtà, quistioni in cui risiede tutta la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un sì alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i Tedeschi sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie troppo ristrette, e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato, da cui le modeste pre tensioni della psicologia l'aveano scacciata, e in cui solo potea incontrarsi con quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e riacquistar così la vita e l'importanza primiera. Quest' obbligo la scienza deve indubitata mente a’moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze a cui sono giunti. GIOBERTI ha tenuto il medesimo cammino, ma con mezzi alquanto diversi, ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura. Anch'egli vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche, e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno, riproducendo nell' ordine ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia cristiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia, in modo da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di questa spiegar la, egli, per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione, in guisa che fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di partenza è una formola sin letica, la quale, benchè d'accordo col Cristianesimo, anzi, appunto perchè è di accordo con esso, spiega l'uomo e l'universo e le loro relazioni con Dio, onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il pensiero e la natura, le società e le civili istituzioni, la scienza a l'arte. Io non mi fermerò su’varii punti del sistema, nè sulle varic applicazioni che egli va facendo del suo principio, nelle quali dimostra una potenza di mente mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie, ma non posso tacere che soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del sistema, e a certa smania di costruzioni a priori, le quali son certamente del dominio della scienza, ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione. Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e per mezzo delle idee, ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere a taluni troppo minuti particolari, i quali sfuggono alla scienza e non si possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E chi sa se nell'universo, come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero assoluto della legge ha termine, e quello dell' arbitrio, del capriccio e dell'accidente incomincia? Certo è giusto di volere co' principii razionali spiegar le leggi e le generalità delle cose, ma è strano il pretendere di spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale d'ogni avvenimento, d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni onda che la forza de'venti scaglia contro le rive, d'ogni foglia che la brezza dell'autunno fa. cadere dal ramo; allora si potrebbe ripetere il detto di Napoleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo. Vediamo ora qual sia la formola suprema e creatrice del sistema di GIOBERTI. Ogni filosofia, egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta dell'essere, dee necessaria mente smarrire la diritta via. Siffatla nozione, come quella che si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna diversità, e che però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza unica, cioè al panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non risponde a tutte le esigenze della scienza, nelle applicazioni non trovasi d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri trovar modo di escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi volte sedurre le più belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa che conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire, chi ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di cansar l'errore, è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra nozione che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non fosse primitiva rispetto al nostro spirito, non potremmo acquistarla altrimenti, essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra parte se non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa ingenerata, e' si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello stesso panteismo. Ma fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato astratto, considerandolo siccome concreto e creatore, perchè l' essere così conside rato rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non fa parte della natura di quello, ma che essendo un libero prodotto della sua volontà, è legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo e ' si avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito, cioè l'idea dell' essere puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa verità-principio produrrebbe un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore invece di partire dalla nozione astratta dell'essere, è partito da quella dell'essere che per mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha espresso il suo principio supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e con questo mezzo ha evitato ilpan teismo, ponendo il concetto della creazione come il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto che il suo sistema era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana, ed altri altre difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di costruire a priori una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè un dato essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ? Se si considera l'idea della creazione legata di necessità con quella dell'essere, e allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza assai vicina a quello della ne cessità della creazione; se poi si considera essa creazione come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di farla discendere dal concetto dell'essere, e dedurla da esso; anzi, essendo essa libera e volontaria, il principio si dovrebbe esprimere altrimenti, dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe domandarsi : chi v'insegna questa volontà dell'essere? domanda a cui è difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla. Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto, la formola a priori è distrutta, e si cade in uo circolo vizio so, col quale si verrebbe a dire che l' essere ha voluto crear l'esistenza, perchè esiste, e che l'esistenza esiste, perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon de che non già il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il concetto della creazione, e allora si giunge diritto, come inpanzi dicevamo, alla necessità di essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa discussione, che, come tutte le altre, ho voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò invece alcuna cosa sull'indole generale della dottrina di GIOBERTI. Nati in un tempo che è succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire, noi possiam dire di assistere al contrasto di due opinioni, le quali si disputano ostinatamente l'impero dell'intelligenza. L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente conserva trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente il passato, i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente e nell' avvenire, dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al progresso infinito delle umane generazioni, al cammino dello spirito sempre trionfanle e vittorioso. GIOBERTI non può essere accusalo nè dell'una nè dell'altra estrema opinione, e il suo modo di vedere e giudicar le cose può dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita che lo spirito umano cammini, ma non crede che lutto quello ci ha di bene sulla terra sia nato ieri; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede che ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passato non è per lui unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza vita e senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa che contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga punto messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue opinioni politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a corrispondere a tutte le esigenze del presente, ammira il medio evo in tutto quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi . Il quale, come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori della mediocrità, se ne trova pure altri, come quello di SERBATTI e GIOBERTI, degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci ha de sistemi e de’ FILOSOFI ITALIANI, non ci ha però una filosofia o una scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie, e nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a pro posito del teatro, ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi in Italia, ma non un dramma italiano, da po terne indicare l'indole generale. Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto, ma quanto a' sistemi filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti o almeno i più importanti si accordano, e questo è l' essere ugualmente ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti di trovarsi d'accordo con la reli gione, e spesso con le prigioni, con l'esilio e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla co mune eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche, i filosofi italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il pensiero, la religione e la scien za, e compensano con la propria ortodossia gli errori de'loro predecessori, i quali signoreggiano oltremonti e trovano nuovi seguaci e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania . Certamente sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi ultimi anni abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi che mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi sono altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde applicazioni a tutti i diversi ramidel sapere e della vita, ma accettarli interamente come veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto per poi Italiani la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per sofferire qualunque maniera d'imitazione, senza che tosto ritorni in caricatura, ed al cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà e di vita, mal si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de' Tedeschi, e la col trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di avvilupparsi. Oltre a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la filosofia tedesca, quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori, si è mostrata inetta a fermar niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno, tace profondamente, e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi intendere, e le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono di una vita che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha ragione tut tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi per esse fatti. Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a ricordare un nome, che pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma che io non voglio tacere, solamen te perchè colui che il portava ora più non vive, e perchè al tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren dere. Io non so se le poche pagine scritte da CUSANI giungeranno a'posteri, e molto più dubito delle mie, ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi potrà cadere questo scritto, sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc cupano di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di mente veramente filosofica, la quale con più sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe forse, anzi senza forse, dato frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di lui si giudicasse da quello che finora avea stampalo, perchè chi il conobbe può far giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe potuto fare se gli fosse bastata la vita. Non so altri che faccia bene e splendidamente sperare di sè, ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de' nuovi nomi, perchè giovami di credere, e i fatti mi confermano nella mia opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia, non che spenta, affievolita nella patria del Vico, del Campanella e di Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he was, would rather be seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one) was Vico – and more, to criticse oters. He would not speak of ‘italian philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other philosophers – but he was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is talking the same lingo as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato, and there are references to some obscure philosophers in his prose – about which he writes little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica, Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il filosofo musicista – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes an important work on the theory of music that survives in parts. Grice: “And then I played the piano!” – Gaudenzio.

 

Grice e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo italiano. The philosophical interest of his essays lies in his discussion of natural law, for which he borrows from the Porch. He argues that through the use of reason anyone can come to a knowledge of his moral obligations.

 

Grice e Gauro: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears to have been a pupil of Porfirio, who may have dedicated one of his essays to him.

 

Grice e Gedalio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A pupil of Porfirio, who dedicates his commentary on Aristotle’s Categories to him.

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