Grice
e Gatti: la ragione conversazionale dell’implicatura conversazioale – filosofia
lombarda -- Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo
italiano. Milano, Lombardia. Filosofia del Linguaggio SAGGIO
SULL’ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. Je travaille à me rendre voyant. MILANO
GENOVA ROMA NAPOLI SOCIETÀ ANONIMA EDITRICE DANTE
ALIGHIERI (ALBRIGHI, SEGATI et C.) y Spa 9 apart pi DI x
î 7 STRIP IMRATI OA ss =%: STABILIMENTO TIPOGRAFICO LA PERSEVERANZA—
POTENZA + £ : AI MIEI DUE FRATELLI CHE ANSIOSI E
TREPIDI VISSERO LE STESSE MIE ANSIE E TREMORI NELL'AUDACE
SOLITARIO MIO ASCENDERE LE CIME PIÙ IMPERVIE DEL VERO ORIGINE
ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. La grandezza delle statue diminuisce
allontanandosene, quella degl’uomini avvicinandoci ad essi. Quale
necessità di DUE DIVERSI LINGUAGGI, l'uno del sentimento e l’altro dell’inteletto,
per esprimere il COMUNE CONTENUTO della coscienza? Altro infatti è IL LINGUAGGIO COME LINGUAGGIO, ossia come
mero fatto estetico — afferma Croce — e altro IL LINGUAGGIO COME
ESPRESSIONE del pensiero logico, nel quale caso esso rimane bensì sempre
linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, ma è insieme [Il presente
saggio — capitolo di un ampio lavoro, di prossima pubblicazione, dal titolo: La
logica nella dottrina estetica di CROCE (si veda) e una nuova concezione
dell’arte viene, qui, ristampato del tutto compiuto, oltre che
notevolmente ampliato, trasformato e riveduto, perchè il direttore della rivista
nella quale apparve per prima, anni sono, non solo, all’ ultimo momento,
credette di modificarlo a suo modo, e mutilarlo, anche, sconciamente, qua
e là, quanto, altresì, vigendo ancora e sempre, nel mondo della vecchia
cultura, il costume di condannare irremissibilmente lo spirito ereticale
di coloro che non si sentono in nessun modo di alimentar d'olio le lampade
accese dinanzi ai santi della scienza, non mi avrebbe, certo, consentita l’odierna
stesura dello scritto, pur rigidissimamente composto nella libertà,
franchezza e sincerità della sua espressione. Tanto più che qui, ora, essendoci
anche occorso di avvalorare magnificamente la tesì che noi opponiamo a quella di
Croce con l’ autorità del pensiero vichiano, siamo stati costretti, pur senza
volerlo, a mostrare, altresì, come Croce non sia riuscito a comprendere
affatto affatto quel pensiero nell’intimo, verace, sostanziale suo significato.
Onde, ad un tempo, ed è ciò che a noi essenzialmente preme, il nuovo
abbagliante fascio di luce, che, sprigionandosi irresistibile dal fondo della
dottrina vichiana (VICO (si veda)), riesce ad illuminarla, oltre che più
intensamente, a pieno, col fugare tutte le ombre che qua e là, finora, si
addensavano in essa, impenetrabili. i e ua ner! A più che
linguaggio. Ora, delle due, l'una: o esso, rimanendo sempre linguaggio e
soggetto alla legge del linguaggio, non può, per ciò stesso, non rimanere
sempre ed unicamente intuizione © immaginazione, e, quindi, sinonimo di
sola fantasia e poesia; ovvero è, anche, 7% che linguaggio, e cioè
concetto, e, allora, come dirlo, più, sinonimo di sola fantasia e poesia,
e non anche d' intelletto e filosofia? Ma, in tal caso, il formidabile
scoppio di un'assoluta contradizione, celata nelle fondamenta stesse
dell’edifizio estetico di Croce, non manda di schianto tutto in rovina
tale edifizio, basato, appunto, sul presupposto dell’assoluta identità
del linguaggio, od espressione, con l’arte, od intuizione? Tranne che la
frase, più che linguaggio, non voglia essere, qui, e non sia che
una di quelle espressioni vuote, non rare nell’ opera di CROCE (si veda),
dirette secondo la maligna INSINUAZIONE, o il perfido SUGGERIMENTO
[IMPLICATURA] di Mefistofele a mascherare col suono della parola
l'assenza del concetto: Zè dove manca 1 concetto, poni la parola; il che,
d'altronde, usa bene anche l’ACCADEMIA, sostituendo il mito al concetto,
ogni volta che non gli riusciva di cogliere col pensiero la soluzione di
qualche arduo problema. Ma, in verità, ciò che non permette di
dubitare in nessun modo di quell’assoluta contradizione è la
seguente affermazione di Croce: per effetto dell’ixcarnazione che
il concetto e la logicità ha nell’espressione e nel linguaggio, il
linguaggio è tutto pieno di elementi logici; il che trae necessariamente
a concludere, che: o non è affatto vero che il linguaggio obbedisce
sempre alla sua legge, perchè, per effetto di tale incarnazione, riesce
senz’altro a violarla, impregnandosi, e quindi contaminandosi, di
elementi logici, Logica come scienza del concetto puro; Laterza,
Bari, ovvero che esso è masura/mente o necessariamente, ch'è lo
stesso, il prodotto non solo della fantasia, ma, altresì, dell’
intelletto, nella loro funzionalità sintetica, e perciò non vi può essere
come non vi è, di fatto che un unico linguaggio esprimente,
indifferentemente, il reale concreto od il reale astratto: e cioè
immagini o concetti, ovvero arte e filosofia. Quale la vera di
queste due conclusioni contradittorie? Altrimenti dovremmo credere che in
un medesimo vestito possano bene trovar posto, ad un tempo, due
individui, oppure che un medesimo vestito possa attagliarsi ugualmente
bene ad un fanciullo e ad un uomo maturo, come potrebbero
rispettivamente considerarsi l’immagine intuitiva, assolutamente alogica,
e l’immagine concettuale, così corpulentemente /ogrca. Salvo unica via di scampo che per l'utilità
del momento il che non disgrada punto, in simili casi, al pensiero
di Croce non si voglia scindere il linguaggio dall’intuizione, per ridurlo
« ad un fatto fisico-acustico, aderente al pensiero, ovvero, ch'è lo
stesso, ad una mera guaina di esso, sì che sia facile, vòlta a
vòlta, alla fantasia ed all’intelletto trovarvi posto,
conformandola, naturalmente, ognuno a modo proprio, vòlta a vòlta. Ma
se ciò è da escludere assolutamente, non rimane, sola conseguenza
possibile, un unico linguaggio, frutto, naturalmente, della funzionalità
sintetica di tutte le attività fondamentali dello spirito? Infatti, ogni
intelligenza sinceramente ersosa di scoprire la verità e non già di far
valere, comunque, un proprio modo di vedere alla presenza di tanti elementi logici
nel linguaggio, non avrebbe esitato un istante a ricredersi del proprio
iniziale errore, conchiudendo per l'appunto in logica dt tal
senso: ma non è così, purtroppo, che la pensano o ragionano almeno presso di noi i seguaci della
dialettica hegeliana, pei quali, invero, non è punto lo schema
mentale, arbitrariamente preconcepito, che deve conformarsi o
risultare conforme alla realtà, ma, per contrario, è proprio
quest’ultima, che deve, comunque, inquadrarsi in quello schema: anche se
debba ritrovarsi in esso precisamente come nel famoso letto di Procuste. E
perciò mentre noi seguaci, in tal caso, della logica del LIZIO conveniamo
bene con Croce che l'acqua non può dirsi vino, sol perchè in essa è stato
versato del vino, egli, a sua volta, non sa in nessun modo
convenire con noi che l’acqua, del pari, non può dirsi, più,
neppure acqua, ma sì acqua mista con vino: e cioè fuori di metafora,
il linguaggio, come noi sosteniamo è pur vero che non è opera di sola
logica, ma non è nè pure opera di sola fantasia, ma, sì, dell’una e
dell'altra; ed anzi, per verità, di quella, essenzialmente, più che di
questa, come or ora cercheremo di provare, dopo aver anzitutto
liberata sì fatta quistione, concernente L’ORIGINE E LA NATURA DEL
LINGUAGGIO, da una grave pregiudiziale opposta dagli intuizionisti in genere, e
principalmente del gran maestro dello intuizionismo, Bergson: e cioè che IL
LINGUAGGIO, in quanto prodotto puramente spontaneo e /oz/ours è faire
dello spirito, è, per ciò stesso, da considerarsi come il flusso perpetuo
d’Eraclito, per concludere, poscia, alla inutilità delle forme
grammaticali, non meno che dell'uso o SIGNIFICATO COSTANTE [GRICE, TIMELESS
MEANING, APPLIED TIMELESS MEANING, “MEAN” used in the historical present –
‘shaggy’ MEANS ‘hairy-coated’] della parola, il cui carattere immobile
immobilizzerebbe, naturalmente, ed arresterebbe senz'altro il moto
perpetuo del pensiero, o la vivente fluidità del reale, così come il
gelo arresta lo scorrere od il fluire delle acque di un fiume, Ma
DALIA Zogica. veramente la parola, nella sua immobilità, riesce a
nascondere e sopprimere, agli occhi nostri, la vivente mobilità del
reale? Ma, forse, l'idea stessa di fiume, non è l’idea di un’ acqua
che scorre? Ha un bell’ essere immobile, ed anche solida, la parola
fiume: essa, tuttavia, non cesserà mai di richiamare il ricordo e darci
l’immagine di un’ acqua che scorre; così, anche, il Corzidore dello
statuario antico ha un bell’essere fermo anch'esso: noi sentiamo e
vediamo benissimo che i suoi piedi lo traggon veloce come se avessero l’
ali. Ancora: l’astronomo che calcola l'orbita di Marte, suppone,
forse, Marte immobile? e l'equazione di un movimento quello, ad
esempio, della cometa di Halley si può negare che corra, anch’ essa,
perfettamente come la cometa, con velocità sbalorditiva attraverso
l’infinito? È ben chiaro, adunque, che nessuno pretende di fare scorrere
il gran fiume del reale con fiotti gelati, giacchè le nostre idee, ben
lungi dall’ essere, evidentemente, delle forme congelate di esistenza del
reale, sono, per contrario, delle perenni, luminose vibrazioni di
quell’intima essenza del reale, ch'è la consapevolezza della coscienza
umana. E non è vero, infatti, ch'è proprio a mezzo di esse, o
son esse proprio che, col singolare vibrar luminoso, ch'è proprio di
ognuna, conforme al singolare vibrar dello stato di coscienza in ciascuna
racchiuso, o da ciascuna espresso, ci attestano la perenne mobilità del
reale, o la vivente sua fluidità, che, altrimenti, noi non potremmo in
alcun modo affermare, in quanto solo a mezzo di esse è a noi
consentito d’innalzarci sul presente e guardar lontano, così nel
passato come nell’avvenire, e scorgere, quindi, in tutta la sua
illimite distesa, il corso evolutivo del reale? E ciò, intanto, non
implica, necessariamente, nella natura di quest'ultimo, la presenza di
alcunchè di essenziale e permanente accanto a ciò ch'è puramente
contingente e momentaneo? Altrimenti come potremmo dire che il
reale si evolve, e cioè, assume, appunto, forme di esistenza sempre
più nuove e più progredite, senza supporre, naturalmente, o ritenere,
necessariamente, sempre zz0 il soggetto che tali forme successivamente
assume? Se così non fosse, noi non potremmo parlare di evoluzione, o
divenire del reale, ma solo di un perenne passare di torbidi « flutti di
sensazioni, perdentisi, senza 77c0rdo alcuno, dans la nuit éternelle
emportés sans retour. E se, adunque, la realtà è sempre zza nella sua
essenza, non ostanti, dirò, tutte le sue mutevoli démarches e i
sempre nuovi suoi /resssaillements, e il pensiero umano,
strettamente conformandosi alla natura di essa, di cui esso medesimo
è parte, non fa che cercare il permanente sotto il successivo, e
cioè, cogliere, costante, l' essenza di essa traverso tutti i suoi
rapporti in cui essa viene a trovarsi in quelle mutevoli sue démarches,
fissando, di conseguenza, in espressioni o idee sempre nuove la sempre
nucva fisonomia che essa viene ognora assumendo, come dire che il
pensiero suppone immobili o inerti i termini tra cui vengono stabiliti
quei rapporti? Immobile, sì, è la legge che governa il divenire del
reale principio di causa e, quindi, la funzione conoscitiva che
mira a coglierne l’ intima essenza (principio di ragione) pur traverso le
più svariate sue manifestazioni, ma non i termini di queste, che non
possono non essere necessariamente mobili, dato il perpetuo divenire
della realtà : e cioè le sempre nuove sue relazioni con sempre nuovi
soggetti d’ esperienza. Ma per mobili, però, o mutevoli che tali termini
possano ° essere, non si può, per ciò stesso, ammettere che essi
riescano, | così, ad infirmare l'essenza del reale, chè questo precisamente come notammo per l’acqua non
viene punto a perdere, anche a traverso le più stranamente mutevoli sue
manifestazioni, l’intima sua essenza o la sua identità
fondamentale. La rondinella, infatti, che fende l’aria, si sente, è
vero, fuggire nel tempo e nello spazio, ma non è men vero che essa
si sente, anche, sempre la stessa. Salvo che non si voglia riporre la realtà
proprio nella innumere varietà di toni, o addirittura sfumature del
sentimento, quindi proprio in ciò che essa ha di più accidentale e
caduco, ovvero ch’è lo stesso nel mero cambiamento o nella mera
transizione come tale, più che nel rapporto assolutamente obiettivo tra
noi e le cose, rapporto fondato zx ze, non meno che in intellectu, posto
che l'essere e il pensiero sono parti solidalmente costitutive del reale.
Onde la. conclusione che, se coscienza vuol dirsi il sentimento perpetuo
diun cangiamento, non è, però, il cangiamento come tale che può dirsi
coscienza: la quale, pertanto, in quanto conserva, evidentemente,
immutabile la sua identità fondamentale, pur traverso le più svariate
ripercussioni del sentimento, che le procurano, appunto, quei sempre nuovi
suoi /ressaz/lements, ci vieta assolutamente di ritenere le singole
espressioni od intuizioni così assolutamente individuali da rimanere PER OGNI ALTRO
SOGGETTO conoscente, che non è il creatore di esse, del tutto intraducibili, inclassificabili, val quanto
dire inesprimibili, almeno adeguatamente. E perchè affermare,
allora, che ad ogni impressione corrisponde un’espressione
immancabilmente adeguata? Salvo che non debba dirsi adeguata solo alla
particolare impressione che un medesimo obietto viene a destare in ogni
singolo soggetto, un'adeguazione, quindi, puramente soggettiva,
perchè variabile da soggetto a soggetto conoscitivo: e come mai,
allora, da intuizioni sì fattamente individuali si può pretendere una
conoscenza di carattere urzversale e necessario? ERE o IO Da
I, TRO L. i si a VR Il pensiero, infatti, non può rimanere in
nessun modo chiuso negli impossibili limiti di un’ intuizione
assolutamente individuale, come pretende, anche, il Mosè di Vigny: O
seioneur, J'ai vecu puissant et solitaire! giacchè la possanza è
unicamente nella commozione e vibrazione spirituale estendentisi a
quell’umanità da cui viene e a cui torna l'onda alterna del pensiero e del
sentimento. E fu, tra altro, precisamente in vista di tal carattere
di universalità e necessità, proprio e inscindibile dall’ attività
conoscitiva, che noi fummo costretti ad escludere dalla coscienza
intuitiva, come particolare ed esclusivo contenuto di essa, il
sentimento, in Quanto precisa e recisa negazione di tal carattere. E,
peraltro, dato, eziandio, per Croce, la natura assolutamente ineffabile
od INCOMUNICABILE del sentimento, come può egli pretendere, ancora più
assurdamente, di contemplare e gustare le altrui opere d' arte,
rivivendole con le singolari vibrazioni del proprio sentimento? Ma non
ci disse egli che tali opere, per l'impossibilità, appunto, da
parte nostra, di rivivere identico lo stato sentimentale dell’ artista
che le creò, sono, per ciò stesso, assolutamente intra- ducibili, sì che
ogni nostro tentativo di tradurle fedelmente si risolve, in realtà, nella
genuina creazione di una nuova opera d’arte accanto ad altra opera
d'arte? E che, anzi, lo stesso artista è incapace esso stesso di rifare
identica la propria opera, non potendo rivivere nè pur esso,
puntualmente, quegli stati di coscienza, che trovarono il loro nitido
spontaneo riflesso nella primitiva sua intuizione? In verità, io non
riesco a comprendere qual gusto possa mai trovare CROCE (si veda) nella
coquetterie; che è anche di Renan di contradirsi per mille versi, ad
ogni piè sospinto, e non solo nella medesima pagina, ma nella
medesima frase. Sai ce! Il maggiore rappresentante dell’intuizionismo
Bergson è vero che attribuisce anch’egli al sentimento LA POSSIBILITA DI
PENETRARE L’ANIMA ALTRUI, non meno che delle cose, ma solo in quanto gli
riconosce quel particolare carattere di COMUNICHEVOLEZZA che ad esso deriva da
« cette espèce de SYMPATHIE intellectuelle, par la quelle on se transporte
à l’intérieure d’un obiet. Ma CROCE (si veda) non nega recisamente sì
fatta COMUNICHEVOLEZZA al sentimento, che, per lui, è 470 di ogni
elemento intellettualistico? E, allora, come può pretendere di rivivere
con le singolari vibrazioni del proprio ineftabile sentimento l’ineftabile
palpito di vita onde vibrano le altrui opere d’arte, per contemplarle e
gustarle? E, d'altra parte, la stessa simpaia intellettuale di Bergson, riesce,
forse, anch'essa senza l’aiuto di
tutte le debite operazioni intellettuali a penetrare a fondo la
vita del reale, fino, addirittura, a coîncider avec ce que il a d’unique
et d’INESPRIMABLE? Ma l’unico e l’INESPRIMIBILE, in quanto tali, non sono, per
ciò stesso, INCOMUNICABILI? Tuttavia, ammessa pure la possibilità di quella
coincidenza, noi non diverremmo senz'altro i sosta delle cose, o le cose
stesse, addirittura? e come, allora, queste sarebbero, più, uniche? Ma, a
parte tali assurdità, come mai LA SIMPATIA, senza tutte ripeto le operazioni
dell’intelligenza, potrebbe farci penetrare l’anima delle cose? Senza
dubbio, allorchè io seguo ad esempio con l'occhio un razzo che sale
dritto verso il cielo, io sento in me un movimento che imita la brillante
sua linea di ascesa, uno sforzo paral- lelo al suo sforzo: può dirsi
bensì, allora, che IO SIMPATIZZO con esso; ma, tuttavia, cotal SIMPATIZZARE non
mi rivela punto ciò che fassa o accade in quel granello di polvere
Revue de Metaphisygue. RT nn (E i ES ardente.
Ancora : quando io scorgo levarsi la luna, e vedo i suoi raggi tremolar
nell'ombra della sera placida e serena, io, pur sentendo l’anima vibrar
simpaticamente con essi, fin quasi a sentirmi dissolvere di .tenera
commozione, al pari della blanda luce, che da quei raggi, tenera
effondendosi, si perde sulle cose, non riesco, tuttavia, in nessun
modo, pur nella maniera più vaga che si voglia, a penetrare, così,
la vita di quell’astro notturno. Del pari, LA VIVA MIA SIMPATIA lper la
primavera, che mi fa, invero, provar nell'anima tutta la freschezza e
verginità di vita di tutte le cose che alla vita si destano fresche e
verginali, e nella persona stessa come una leggerezza o snellezza di ali
di farfalla, può dirsi riesca mai, anch'essa, a farmi cogliere, così, la
vita intima di quella stagione ch'è la gioventù dell’anno? Ma vediamo,
se, almeno nel mondo umano, LA SIMPATIA raggiunga piena e precisa
la sua potenza penetrativa. Io vedo una donna in lagrime uscir dal
cimitero : una tristezza analoga alla sua invade subito l’anima mia; io
simpatizzo intellettualmente con essa, a mezzo del fersiero della causa
che l’affligge: la morte di una persona cara, nel tempo stesso le sue
lagrime tendono a provocare, per sensibile contagio, le mie; io,
dunque, penetro ben meglio nell'anima di questa donna che non nelle
precedenti forme inanimate di reale. Ma chi oserà dire che io ho vera e
piena la intuizione del suo dolore? Ma non accadde, forse, al Guyau, come
egli stesso ci narra in una delle sue più belle liriche, di scambiare
per scoppio di riso l’improvviso singhiozzo di una donna che
tornava dai piedi di una croce levata sur una tomba? D’un cété le jardin,
de l’autre un cimetier; Un seul mur les sépare, et la mèéme
lumière Fait resplendir la feuille inquiète du bois, nen Les blancs
marbres des morts et les rigides croix. dea a Il poeta cammina senza
meta, gli occhi perduti nel fogliame, bevendo a lunghi sorsi l’aria della
primavera: nell'ombra di un sentiero, a passi lenti, una donna procede
innanzi a lui; egli non la vedeva che di lontano: i suoi piedi
visibilmente tremolavano, ed egli non sapeva perchè. D'un tratto un brivido la scosse tutta, e sembrò ch'
ella ridesse di un riso secco e nervoso ; e, per ridere, ella nascose la
testa fra le dita: Quand j’approchai, je vis, légères et limpides Des
larmes qui coulaient entre ses doigts humides: Car c’était un sanglot que
ce rire sans fin, Et cette femme, errant au fond du doux
jardin, Sortait du cimetière. Sicchè Une larme qui
tremble, Un sanglot qui de loin, pour l’oreille ressemble Au rire,
et rien de plus-voilà donc la douleur! C'est tout ce qu'on peut voir
lorsque se brise un coeur. C'est le sieze fuyant qui, pour un jour à
peine, Révèle 1’ infini d’une souffrance humaine. Les plaisirs les
plus doux, les maux les plus amers S'expriment par le mèéme ébranlement
des nerfs Que l’air indifferent propage dans l’espace: Cri de joie
ou d’angoisse, il éclate, il s’efface Et, sans étre compris, glisse sur
l’univers. È questa, dunque, la corncidenza colle cose che ci dì la
stessa simpatia intellettuale? quella conoscenza infallibile e
perfettapromessaci dagli intuizionisti? Un mero choc en retour di onda
nervosa, od anche emotiva? R Giacchè, in realtà, la mia coscienza, in
quanto tale, pur essendo così vicina all'altra, rimane, nondimeno, con
tutta D- evidenza, senza punto penetrarla od esserne penetrata : n
Ainsi jaurai vecu près d’elle inapersu, Toujours è ses cotés et toujours
solitaire! VERS D’UN PHILOSOPHE: Z’ecla/ de rire, Paris,
Alcan. Mi Ah! Que nous sommes loîn l’un de l'autre, Étant
si près! E, forse, Dio stesso può mai riuscir a sondare le altrui
coscienze come la propria? L’oeil était dans la tombe et regardait
Cain ora, se quell’occhio è di Dio, esso pure non può guardare che
dal di fuori; Dio, infatti, non essendo Caino, non può, di conseguenza,
nè sentire nè volere ciò che sente e vuole Caino, e cioè possedere,
appunto, l’anima di quest’ ultimo, Ciò prova chiaro che la. filosofia non
è punto come vorrebbero gli intuizionisti
il sentimento di un fiotto mon- tante di vita interiore, il rapido
bagliore di una stella filante, ma una sintesi razionale e finale di tutta
la nostra esperienza, fondata precisamente sulla determinazione, sempre
più ampia € più precisa, delle relazioni che intercedono tra il
nostro stato di coscienza presente ed il nostro we tutto intero;
fra il nostro me e gli altri esseri; fra gli esseri particolari ed
il tutto, perchè il reale è ciò che inviluppa sempre e dap- pertutto
l’infinito. Di guisa che più noi lo conosciamo, e più vi scopriamo
relazioni multiple, le quali, pertanto, trovano la più perspicua loro
espressione precisamente in quella insu- perata manifestazione del reale
che è l’idea, la quale, adunque, così può rimanere distaccata dall’ intuizione
come i fosforescenti bagliori, che corrono sulle onde del mare ondulato,
dalle onde stesse, che quei bagliori accendono col loro moto. E poichè,
intanto, cosa certa o innegabilmente vera è che il continuo divenire e
perenne trasalir dell’essere coincide col continuo divenire e perenne
palpitar del pensiero, è naturale che, in conformità di questa stessa
natura perennemente 22 fieri del reale, si debba procedere per rag- Prada
E giungere una visione sempre più piena e indefinitamente integrale
della realtà infinita ed eterna, ininterrottamente da un'idea all'altra,
all'infinito ed in eterno. E come, allora, potrebb'essere mai lecito
rinunziare ai precedenti /ermzini della nostra coscienza, e cioè alle
precedenti nostre intuizioni? Ma queste non sono, adunque, le espressioni
assolutamente adeguate, e perciò stesso insuperabili ed immutabili,
dell'essenza delle cose, o del caratteristico, che è in ogni singola
forma di reale? E se tali esse sono, e cioè immagini che attinsero, al
fine, preciso, quel limite assolutamente insuperabile che è segnato dal
rapporto esattamente proporzionale degli elementi o determinazioni onde
risulta l'essenza di ogni forma di realtà; e donde, appunto, deriva alla
cono- scenza intuitiva il suo carattere o valore universale e necessario,
come si può pretendere di andare oltre tali immagini limite, senza che la
realtà corrispondente non cessi, per ciò stesso, di essere quella che è?
Giacchè, si sa l’accennammo innanzi l’essenza d'una cosa può trovare la
sua ESPRESSIONE o RAPPRESENTAZIONE intuitiva veramente adeguata solo in
quelle immagini da cui la conoscenza logica, possa, a sua volta, derivare
immediato e preciso quel concetto-limite che le variazioni della realtà
corrispondente non possono ulte- riormente superare, senza che questa,
naturalmente, non cessi di essere quella che è. È quanto tuttodì accade
in ordine alle mutevoli quanto fallaci immagini al cui gioco soggiace,
ingenua, la coscienza infantile, ch'è, per ciò, continuamente smentita e
corretta, ad un tempo, dall'esperienza, fino a quando essa non sia
diventata capace di scegliere od assu- mere come elementi fondamentali od
essenziali delle sue immagini intuitive, quelli, appunto, che, resistendo
alla doppia prova dell'esperienza e della ragione direttrice, rimangono
indici insuperabili per la funzione di assimilazione e
differen- Mento, marziana Pa E |. =
ziazione, ad un tempo, in ordine a tutte le altre possibili forme della
realtà, funzione in cui, notammo, si assorbe e concentra essenzialmente
l’attività conoscitiva. Infatti, le intuizioni o cognizioni umane
costruzioni superbamente armoniche del nostro pensiero non vivono
punto, già, per il colorito emotivo che le riveste, ma, sì, per l'essenza
unicamente ch'è nel loro fondo : quell’essenza, appunto che nessuna variazione
della realtà corrispondente deve in alcun modo riuscir a superare,
E se, dunque, sì fatte intuizioni, in quanto universali e necessarie, sono, per
ciò stesso, immutabili e perenni, come non dover ritenere ugualmente
universali e necessarie, e, quindi, immutabili e perenni, le
corrispondenti espressioni, in quanto adeguate e insuperabili
manifestazioni esteriori di quell’intimo moto armonico del pensiero, che
riesce a individuarsi o concretarsi precisamente in quelle espressioni? Giacchè,
si sa, e non si può negare, che quantunque il rapporto che lega la lingua al
pensiero sia di pura a/tribuzione e non di z2427a, lo sviluppo dei due
procede, non di meno, assolutamente di pari passo, fino al punto che le
imperfe- zioni della lingua sono imperfezioni del pensiero: il che
trae, di conseguenza, a riconoscere che lo sviluppo del pensiero,
senza l’aiuto della lingua, sarebbe stato del tutto impos- sibile, in
quanto per la coscienza, indipendentemente dalla lingua, è possibile solo
uno sviluppo rappresentativo di natura sensibile, come, ad esempio, le
costruzioni geometriche e meccaniche, il gioco degli scacchi, un motivo
musicale, un'immagine visiva e simili; ma non ostante tutti gli
sforzi, noi non saremmo, certo, mai in grado, senza parlare, di pensare,
ad esempio, che BISOGNA DIR SEMPRE LA VERITÀ – GRICE CANDOUR. Posso bene,
anche, rappresentarmi un albero determinato senza il È: nome
corrispondente, ma PENSARE L’ALBERO in generale, senza la parola, è
semplicemente IMPOSSIBILE: il che prova che solo dal concetto e col
concetto comincia, per la mente, la necessità della parola, e, quindi, la
conoscenza che si pretende universale e necessaria, come, appunto, quella
intuitiva. E se, pertanto, può non essere vero che il concetto esista
prima del segno, certo è, però, — come nota Hamilton che il
concetto ricade, appena formato, nel caos dal quale lo spirito l’evoca, se
IL SEGNO VERBALE non lo rendesse permanente nella coscienza. Questo,
perciò, è assolutamente necessario per assicurare i nostri progressi
intellettuali, per fissare quello che è già acquisito per la conoscenza,
e farne un punto di partenza nuovo per ulteriori progressi. Un
esercito si può spargere sur un paese, ma non lo conquista se non vi costruisce
delle fortezze. Le parole sono come le fortezze del pensiero. Esse ci
permettono di stabilire la nostra dominazione sul territorio che il
pensiero ha già invaso e di fare di ciascuno dei nostri acquisti
intellettuali una base di operazioni per farne dei nuovi. Ovvero,
per adoperare un’altra immagine, il rapporto fra la parola e il
concetto è quello stesso ch’è tra lo scavare un zu7%e/ nella sabbia e la
muratura. Voi non potete procedere avanti nello scavare senza fare ad ogni
passo una vòlta. Ebbene, il lin- guaggio è per lo spirito quello che la
vòlta è per il tuzzel. Ogni sviluppo del pensiero dev’ essere seguito
imme- diatamente da uno svilluppo della lingua, altrimenti il primo
si arresta. Dei concetti si possono formare senza la parola, ma sono scintille
che si spengono immediatamente; ci vogliono le parole per dar loro evidenza,
per poterli riunire, per cavar, insomma, una gran luce da ciò che senza
di esse sarebbe stato uno sprazzo di scintille subito spento. Riportato
da MASCI (si veda), Logica; Pierro, Napoli. E, veramente, la moderna
filologia, analizzando e dissecando in mille guise il vivente organismo della
lingua, è riuscita a rintracciare nelle radici gli elementi primitivi
inde- componibili, che SEGNANO, CON LA SIGNIFICAZIONE PRIMITIVA, la
prima unità del pensiero con la lingua, donde, poscia, quel rapporto di
dipendenza reciproca in virtà del quale, mentre il pensiero, nel suo
progressivo sviluppo, e sempre più attivamente all’inizio della sua
produzione, riesce a modificare progressivamente il linguaggio, questo, a sua
volta, non manca di reagire sul pensiero, e dargli un’impronta
individuale e collettiva, ad un tempo. Sappiamo, infatti, che è la lingua
che impone alla coscienza individuale la forma mentale della razza,
e cioè la maniera di fissare (nelle sue forme) le abitudini secolari di analisi
e di sintesi del pensiero di un popolo: onde giustamente è da ritenere,
con Hamilton, che il pensiero senza la lingua o non avrebbe avuto
sviluppo, o ne avrebbe avuto uno del tutto limitato, come ce ne fanno
prova i sordomuti, che, senza l'adozione di un surrogato del linguaggio, non
arriverebbero, con la loro intelligenza, ad elevarsi affatto, o solo ben poco,
al di sopra della intelligenza animale. Infatti, pur la momentanea mancanza,
per momentaneo oblìo, di una data parola, non è, forse, da noi avvertita
a parte la sorda immediata inquietudine che altresì ci procura come un vero
ostacolo che c' impedisce di fissare il corrispondente pensiero, di
isolarlo dagli altri, di porlo con essi in relazione, di riviverlo,
insomma, necessariamente, onde il senso di vera liberazione che noi
proviamo, trovatala, appena, la parola che cercamo? Non solo: ma
l’assoluta mancanza, nella nostra lingua, di date espressioni che valgano
a renderci adeguatamente un dato concetto, non ci costringe a ricorrere
ad altre lingue ni “ SAS per le corrispondenti
espressioni, come, ad esempio, per la parola pietas, che noi siamo
costretti a mutuare dalla lingua latina, non possedendone la nostra una
che adegui perfettamente il concetto da quella espresso? E trovato che
abbian, dunque, le intuizioni la loro espressione adeguata, e cioè posto
che siano, davvero, conoscenza universale e necessaria, come possono, per ciò
stesso, rimanere assolutamente intraducibili, val quanto dire
inattingibili nel loro INTIMO SIGNIFICATO, o nella profonda loro verità
obiettiva? Ese, pertanto, tali esse rimangono, non è giocoforza
ammettere ch’esse, ben lungi dall'essere, per davvero, intuizioni, e cioè
precisamente conoscenza universale e necessaria, altro non sono, in
realtà, che particolari espressioni di singolari ineffabili impressioni di un
wzico soggetto: quello, per l'appunto, che sì fatte impressioni riescì a
provare? Giacchè di assolutamente singolare o insuperabilmente individuale
in una forma di conoscenza veramente universale e necessaria non vi può
essere, al più, che quella frangia o alone, a dir così, che, come ombra il
corpo, naturale ed immancabile accompagna la forma mentis di ogni singolo
soggetto conoscente, quale spirituale riflesso del carattere ch'è proprio
di ognuno di essi, e che prende, comunemente, il nome di stile. Ma
cotal frangia o alone che serve
solo a farci distinguere le crea- ture o immagini d'una medesima
ispirazione creatrice, presso i più diversi artisti: la yarcesca di ALIGHIERI
(si veda) da quella di Pellico ed Annunzio, il Neroze del Racine da
quello d’Alfieri, d’Hamerling, di Costa, di Sinkie- wicz non toglie affatto nulla alla intelligibilità
obiettiva, e cioè fer tutti necessariamente identica, di sì fatte
intuizioni, che, perciò, restano identicamente valide come espressione
e: o conoscenza di quella data forma di reale che ci vogliono
apprendere fer #uéte le intelligenze assolutamente. Qualora |così non fosse,
potrebbero mai le intuizioni essere, ad un i tempo, arte e scienza: e
cioè immagine estetica e verità scientifica? La quale, infatti, non si
sa, forse, che, allorchè tale, per davvero, rimane assolutamente identica
per tutte le intelligenze, non ostante la innumere varietà di
espressioni che essa trova presso ogni singolo uomo di scienza? E
cotale identità, qualora non fosse, già, nella immagine intui- tiva, dove
potremmo mai ritrovarla? Infatti non ci disse innanzi il Croce medesimo
che l’aere spirabile del concetto non possono essere che /e iwéuizioni? E, in realtà, qualora
quest’ ultimo non fosse in esse, « non sarebbe in nessun luogo: sarebbe
in un altro mondo che non si può pensare, e perciò non è. Ed esso «
permane come qual- cosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito:
vale a dire come l'essenza delle cose. Non risulta, quindi, in ogni
modo evidente che il valore universale e necessario della conoscenza non
può ritrovarsi o appuntarsi che nell’
essenza dell’obietto di essa conoscenza il solo elemento, a dir così, per
davvero immutabile e permanente nel divenire perenne della realtà che non
A può, per ciò stesso, non essere riconosciuto tale recessariamente
al e universalmente, se vero è che di un medesimo obietto la
intelligenza umana non può nè deve avere che wr solo e medesimo concetto,
donde, appunto, il carattere di universalità e necessità della
conoscenza? E alla stregua di cotal principio logico e gnoseologico
pienamente riconosciuto dalla stessa Logica di CROCE (si veda) come può esser
mai possibile la concezione o figurazione di intuizioni assolutamente
individuali, nel senso da lui propugnato, e cioè del tutto
intraducibili ed inclassificabili? A parte la tangibile contradizione
# adjecto di una conoscenza universale e necessaria, che può,
nondimeno, assumere i più diversi significati non solo pei singoli
soggetti conoscenti, ma eziandio pel medesimo soggetto, da un istante
all'altro come, appunto, l'intuizione di Croce a noi preme soltanto di chiedere
se non è sempli- cemente un assurdo, e, per ciò, del tutto impensabile,
quanto impossibile, l'esistenza di intuizioni, e, quindi, di forme
della realtà, che sfuggano alla connotazione anche dei predicati
più generali, che Aristotele, prima, e Kant, dopo, ci hanno indicati come
assolutamente indispensabili e, ad un tempo, insuperabili, per la
intelligibilità della realtà: come, appunto, le categorie della
somiglianza e della differenza. Infatti, al di là di tali predicati, o
categorie, non rimane come sappiamo che una sola possibile espressione,
quella formulata dalla mistica: ergo faceamus, ovvero peggio ancora
seguire il malaccorto consiglio del Nietzsche. Penche-toi sur ton propre puits, pour apercevoir
tout au fond les étoiles du gran ciel. Ma chi
non sa che egli, appunto per essere rimasto tutta la vita sospeso a
guardare nel fondo di sè medesimo, fu preso da vertigini, e le stelle del
gran cielo si confusero ai suoi occhi in una immensa notte? E, in
realtà, l'intuizione nel senso
inteso da Croce non è che una oscura buca, in cui non si può discernere
nulla, nemmeno se stessi. Perciò se tacere o rimaner muti non si vuole,
e tanto meno perderci come Nietzsche nelle tenebre della follia, non
occorre, di necessità, far capo, per la intelligibilità della realtà, a quelle
tanto deprecate categorie del pensiero, che, in quanto predicamenti od
espressioni degl’aspetti e condizioni più generali di esistenza sotto cui a
noi si rivela la realtà, non possono, per ciò stesso, non contrassegnare,
in maniera del tutto obiettiva, tutte le possibili forme dell’
essere? Lg E se, adunque, la realtà non può essere da noi
concepita se non sotto la specie di sì fatte categorie onde il carattere
universale e necessario della intelligibilità che di 3 essa abbiamo come
mai, poi, le intuizioni possono dirsi od essere 2r/raducibili? Ma la
traducibilità di esse non importa l’uso di quelle medesime categorie che a noi
occorsero per la loro zntelligibilità? E come, allora, si può ammettere
la intraducibilità? Ad una condizione, sì: che la intuizione e la
espressione fossero due e non una; e cioè che il moto interiore o
intelligibile del nostro pensiero I’ intuizione appunto fosse tutt'altra
cosa che l’ immagine esteriore, (parola, suoni, linee, colori ecc.), in
cui tal moto si estrinseca, e cioè /a espressione. Ma il Croce non
avverte reciso ed insistente che l'intuizione e l’espressione sono #4 enon già
due, in quanto, ETA RION Ceti, Di SE DE che
venga appena espressa la parte iniziale di uno schema, che subito e
infallibilmente il nostro pensiero preconcepisce l’altra, che completa lo
schema (così come; per quanto pure; tanto — quanto ecc.).
Sicchè la precisione del SEGNO linguistico, e cioè una forma
grammaticale vera, è solo essa che ci dà, rapido e preciso, il rapporto
pensato, senza aggiungere che, anche quando l’attenzione non si rivolge
ad essa, produce ugual- mente l'idea del rapporto e favorisce, così, lo
sviluppo del pensiero logico: e se ciò, intanto, accade, è appunto
perchè l'idea del rapporto vi è scevra di ogni contenuto materiale
: il che trae a concludere che, come il concetto espressione di una
vera e propria 7es, anche se è da esso sussunto a sostantivo una mera
qualità o predicato di essa riuscì a fissarsi nella parola, trovando
nella concretezza ed evidenza di questa la sua rappresentazione adeguata,
così il rapporto, nell’astrattezza della sua essenza, riescì a trovare
nella #m- materialità della forma la sua espressione adeguata. Ora,
dati sì palpabili rapporti d’' interdipendenza fra la lingua ed il
pensiero, rapporti che risultano, per giunta, una condizione size gua non
per lo sviluppo dell’una e dell'altro, come si può, seriamente, ritenere
mero gioco di artifizio del pensiero ciò che è, invece, mezzo
assolutamente imprescindibile per la sua piena esistenza e sviluppo? Ma
son, dunque, un mero gioco di artifizio le naturali incoercibili
tendenze che traggono ogni essere a perseverare nel suo essere, e cioè
pienamente adeguare la propria esistenza alla propria essenza? Ma non s'è
pensato che, se la tendenza del pensiero all'espressione del rapporto
vuoi dirsi o rite- nersi, per davvero, un artifizio, è da concludere,
allora, che le più artificiose espressioni del nostro pensiero, prima e
più dei concetti stessi in quanto senza
paragone, notammo, pnt SII più ricche e complicate di articolazioni
o rapporti logici, in confronto di questi sarebbero precisamente le
nostre intuizioni. Non solo: ma tutte le più elevate manifestazioni od
espressioni del pensiero umano, dalle prime sue riflessioni, o moti intuitivi,
fino alle odierne concezioni dell’intuizionismo e del pragmatismo, assertori,
appunto, di tal gioco sarebbero, forse, tutt'altra cosa che un
perenne, vario, gigantesco, e sia pure smagliante gioco di
artifizio, sottilmente intessuto dal pensiero sulle più varie e
strane e innumerevoli vicende della vita dell’uomo, come della vita
universa? Giacchè, si sa, fuori di ogni rapporto logico, o priva di ogni
rapporto logico, ESPRESSO (EXPLICATURA) espresso o SOTTINTESO (SOUS-ETENDUE,
IMPLICATURA – MILL, GRICE), mon è concepibile nessuna forma od ESPRESSIONE
di pensiero, sia pure la più semplice altrimenti dovremmo negare
che conoscere — come afferma FICHITE significa vedere in relazione: il che sa
precisamente come negare che il sole illumina o riscalda. E
provato, adunque, che la tendenza o funzione essenziale e necessaria del
nostro pensiero è quella di gorre in relazione, come può esser lecito,
poi, negare che le forme grammaticali, che corrispondono a questa
funzione e la esprimono il più analiticamente possibile, non siano
precisamente la più genuina e adeguata sua espressione? E, d'altronde, prova
o testimonianza assolutamente inconfutabile e tangibile della
necessità e adeguatezza di tali forme non rimane vedemmo la stessa
crescente forza di penetrazione, agilità e rapidità, che lo sviluppo del
pensiero trova, per l’appunto, nell'aiuto di sì fatte forme? Ma seguiamo
pure con tutta rapidità, alquanto più da vicino, lo sviluppo del pensiero
nei suoi rapporti con la lingua. Questa, adunque, pur essendo nata
da un bisogno pratico, e, per ciò, tendente immediatamente,
wi oi £ + ES cose, si rivelò, tuttavia, in una fase
successiva, col progressivo affermarsi della intima tendenza del pensiero
all’ espressione del rapporto un esperimento di pensare, che doveva dar
luogo alla forma: e n'è prova, precisamente, oltre che il tentativo
di combinazione delle parole, l’ altro, sopratutto, di piegare parole
indicanti oggetti a significare rapporti logici. In una fase ulteriore le
combinazioni di parole diventano costanti, e le parole adoprate ad
esprimere nessi cominciano a perdere il loro significato indipendente.
Segue una terza fase, nella quale le combinazioni delle parole guadagnano
di unità: le parole, segni di nessi, si aggiungono come suffissi alle parole
denotanti oggetti; però il legame non è ancora saldo abbastanza, chè i punti di
attacco sono tuttavia visibili, l'insieme è un aggregato, non ancora una
unità: dai surrogati di forme si passa agli analoghi di forme; la lingua
è nel periodo di agglutinazione. Finalmente il carattere formale della
lingua si afferma decisamente, l’organismo grammaticale si
completa; la parola diviene un’ unità modificabile in conformità delle
sue relazioni grammaticali solo per un cangiamento di suono, che
costituisce la /fessione. Ciascuna parola è una parte del discorso
determinata, ed ha, insieme, una individualità lessicologica e grammaticale. Di
più, le parole indicanti relazioni, perduta ogni traccia dell'ORIGINIARIO
SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora, avrebbe potuto oscurarne la
intelligibilità, rimangono puri SEGNI di rapporti, come i segni algebrici,
esprimendo, essi, unicamente, ciò che al pensiero importa che
significhino. Si spiega, quindi, perchè le lingue che hanno vere forme
grammaticali procurano al pensiero, con una singolare chiarezza e precisione,
una singolare agevolezza e facilità e rapidità di movimento: onde la
formazione parallelamente progressiva e, alfine, completa, di due
stupendi organismi: quello del pensiero, nella rigida unità e compattezza
delle sue forme logiche, e quello della lingua, nell'unità, non meno
rigida e compatta, delle sue forme sintattico-grammaticali. E, pertanto,
quest'ultima, nella connessione delle parole nella proposizione, nei rapporti
sintattici fra esse, e nel pensiero che quelle connessioni e questi
rapporti esprimono, non rivela o rispecchia, netta, l’attività logica del
pensiero? Vario, relativo, organico il pensiero, nel suo moto verso le
cose, o verso la conoscenza di esse, e tale anche la lingua e la parola,
mediante l’ARTICOLAZIONE, la FLESSIONE, le forme grammaticali, la SINTASSI. Ed
è naturale: nutrito e cresciuto il pensiero, fin dai suoi primi moti
vitali, insieme con la lingua, non poteva, nella sua naturale,
invincibile tendenza all'espressione del rapporto, non piegarla od
imprimerle tutti gli atteggiamenti e tutte le movenze del suo procedere
essenzialmente discorsivo, come innegabilmente ci provano molte parti del
discorso, che non sono infatti come notammo per altro verso che
indici di direzione del pensiero, schemi verbali di direzioni logiche (così
come; sebbene pure ecc.). E si noti, intanto, che codesto intimo
rapporto di dipendenza reciproca, che lega indissolubilmente lo sviluppo del
pensiero a quello della lingua, non è punto punto smentito o minimamente
infirmato dalla differenza talvolta anche sensibile delle forme
grammaticali-sintattiche che ci vien fatto di riscontrare anche presso
lingue appartenenti al medesimo gruppo: e ciò anzitutto perchè quel rapporto
non è di natura, ma semplicemente di aftribuzione, e, poscia, perchè la
differenza delle forme grammaticali dirette ad esprimere le stesse
relazioni logiche NON MUTA IL SIGNIFICATO o la natura di tali
relazioni. Particolari disposizioni e, dirò anche, particolari RIFLESSI
DI NATURA PSICOLOGICA, dipendenti dai più varî atteggiamenti del pensiero,
oltre che da forme di sensibilità diverse e variabili, in connessione,
per giunta, con particolari condizioni di vita e di ambiente le più
svariate da popolo a popolo — il tutto. punto punto determinabile, come
non è determinabile la collocazione delle forze che impongono alla foglia
turbinata dal vento quella data direzione — hanno dato origine alle più diverse
forme grammaticali per l’espressione di un medesimo rapporto. Fatto questo
eloquentemente confermato, oltre che dalla relativa libertà che presiede
alla formazione e trasformazione delle lingue, dalla presenza di radicali
di- È versi in lingue derivate da un medesimo ceppo (la gallica e
l’italiana). Infatti cotale persistenza della funzione formatrice, anche dopo
la separazione delle lingue, non può essere altrimenti spiegata, che con
l’esistenza di una identica funzione originaria, proprio dl come la
diversa ed anche diversissima sorte che accompagna pel mondo, e quasi istrania,
i figli mati da un medesimo padre non può in alcun modo farci negare la
comune loro origine, nè, d'altronde, riesce a distruggere in essi la
profonda voce ed i vincoli intimamente tenaci del sangue. E, peraltro, chi può
negare che l'apprendimento e sempre più facile intendimento di una lingua
straniera è largamente mediato dalla traduzione $i 0 meno consapevole di essa
nella nostra ? Il che sarebbe del tutto impossibile se le lingue, pur
nella innumere varietà di forme in cui sono riuscite a plasmarsi, non
dovessero la loro origine ad una tendenza o manifestazione
psicologicamente idezzica della coscienza. Identità di tendenza che, frattanto,
per le ragioni testè ricordate, non può, naturalmente, non mostrarci del
tutto vano quanto infondato il tentativo della filologia comparata di
rintracciare il primitivo linguaggio, donde, poscia, tutte le lingue
sarebbero derivate. Infatti la ricerca filologica si è arrestata, impotente,
dinanzi ad una molteplicità che resiste ad ogni. riduzione, e spinge,
quindi, ad ammettere senz’ altro una molteplicità primitiva, dominata,
nelle sue forme somiglianti, i semplicemente da identità di fattori,
senza nessuna causa cla”: storica di derivazione. Ma d'altronde non
manca un modo veramente e, semplice per convincerci della validità
mecessazia di tutti i sistemi di segni – SISTEMA DI SEGNI --, che
l'umanità è riuscita sin qui ad organizzare e far valere come espressione
universalmente intelligibile ht, di tutti i più intimi moti del
nostro pensiero, ed è questo: spogliate la parola di tutti i rapporti
grammaticali-sintattici, Ned î annullate tutte le norme inerenti
alla prospettiva col solo capovolgere — ad esempio — un qualsiasi quadro
o disegno; alterate i rapporti armonici fra le note musicali ed
avrete, precisa, quella lingua da futuristi, che è, senza dubbio,
meno intelligibile di quella stessa degli idioti o dei pazzi, ed un
È disegno che non sarà, certo, più espressivo di quella
lingua, ed una musica, infine, od un'armonia al cui confronto quella
dei popoli più barbari potrà dirsi una sinfonia. E se, adunque, tutti codesti
sistemi di segni espressivi sono wiversalmente intelligibili, e, per di
più, universalmente identici anche nel loro aspetto formale salvo, in
parte, l’espressione linguistica ciò stesso non prova ch'essi re- Dez:
cano una validità necessaria, la cui sorgente è da ricercarsi 3 molto, ma
molto al di là del capriccio o della volontà indi- pr viduale? Infatti
perchè tutti i tentativi di creare una lingua ® universale unica come, ad
esempio, il Volapwk, l’ Esperanto, il Deutero-Esperanto, l'Interlingua
sono falliti miseramente, ognora? Non, forse, pa pil S perchè la
lingua, come vero mezzo o strumento di espressione del pensiero, è ben lungi
dall'essere così una creazione arbitraria dell'individuo, consapevolmente
compiuta secondo una piano ordinato a scopi determinati, come il prodotto
di P una spontanea formazione naturale di ogni individuo,
così dui come può dirsi del proprio organismo fisico? E, in
realtà, essa, come riflesso obiettivo nell’ unità organica delle
sue. espressioni vocali di quel coerente moto interiore che anima
il nostro organismo spirituale, è meno il prodotto del singolo che della
collettività. Infatti l'individuo non. riesce a creare, per suo conto,
che le singole parti, e cioè le singole parole o frasi; ma la lingua, nel senso
dianzi inteso, non può dirsi, certo, tutta lì: e sì che essa
richiede. ben altro; senza dire che ogni singolo atto formativo del
linguaggio, ogni atto di trasformazione, ogni uso nuovo della. lingua
rimane diretto sempre al fatto singolo, mai alla | lingua come tutto. E
poichè, pertanto, la lingua, come mezzo o strumento di conoscenza, è
precisamente e solo nel risul. tato, o nel suo tutto, e questo tutto è,
in sostanza, od essenzialmente, non solo il prodotto delle influenze
mutue delle coscienze individuali più che solo dell’ azione reciproc dei
singoli inventori, che in misura varia lavorano all’ opera comune, come taluni
vorrebbero ma eziandio, e sopratutto, il frutto di una critica sociale
che adotta ed elimina onde. quella forma d'identità di pensare e di
esprimersi tutta propria di ogni popolo è naturale ammettere che il
contributo dell’ individuo nella formazione della lingua scema a
misura. che si va dalla parte al tutto, il quale, perciò, deve
senz’ altro ritenersi come il frutto, principalmente, di quella che
noi comunemente diciamo azzzza collettiva. La quale, se è pur vero che,
come realtà obiettiva, è non altro che un’ astrazione, e non può, perciò,
al pari dell’ individuo, creare affatto un mito, un canto, un poema, una
religione, è non meno vero, però, che, al pari, e più dell’ individuo, è
dessa che nella maniera testè indicata riesce ad acquistare a quel
mirabile strumento che è la lingua, quella precisa e stabile forma
espressiva universalmente intelligibile, senza la quale qualsias ‘iii
its ue canto, o poema, 0 religione, od altra forma che si voglia
di conoscenza estetica od intuitiva, sarebbe, per davvero, nient'
altro che un mito. Onde giustamente il Feuerbach potè affermare che se
l’uomo deve alla natura la sua esistenza, deve, però, all’uomo di essere
uomo, e cioè soggetto spiri- tuale, in virtù, appunto, della sua libera
partecipazione al possesso di quella infinita ricchezza spirituale,
frutto di sforzi millenari, che proprio la lingua, traverso la
infinitudine dello spazio e la eternità del tempo, ci conserva e consente
di far nostra, senz'altro limite che la potenza o capacità di
appropriarcela: e di qui precisamente la singolare rapidità del progresso
nella storia umana, in confronto di quel procedere sì lento della natura, che,
davvero, sembra star. Sì che a buon dritto il Guyau potè chiedersi ed
esclamare, ad un tempo: D’où vient qu'en chaque mot je cherche une
harmonie? Je ne sais quelle voix a chanté dans mon
coeur! C'est comme une caresse, et mon oreille épie Et
s’emplit de douceur! E la ricercata armonia nei
nostri accenti, l'eco e la dolcezza del canto altrui nei DOSE cuori è
precisamente perchè la lingua, quale iisaltante d' infiniti sforzi
individuali e collettivi, per veder sempre meglio e più a fondo
nell'intimo del reale, può dirsi governata, nella efficacia espressiva
delle singole sue voci armonicamente connesse nell’ inviolabile struttura
delle sue forme logico-grammaticali, da norme che ricordano bene quelle
stesse che regolano e determinano l’efficacia espressiva dell'armonia
musicale. Nella quale, infatti, ciascuna nota come sappiamo
echeggia nelle altre : tonica, mediante e dominante risuonano
nell’accordo perfetto, e, inversamente, l'accordo risuona in ogni nota; di
guisa che ciò che noi prendiamo per un suono isolato è, per ontrario, un
concerto. E sì fatta legge dell'armonia è noto anche regola non solo i suoni
simultanei, ma ezianlo i successivi, in quanto gli accordi che seguono
vengo ad essere legati in maniera che il primo si prolunga nell'ultimo.
Aveva, quindi, ben ragione ANNUNZIO (si veda) rivolto agli uomini della sua
terra di affermar loro. La mia parola non è solitaria: è l'eco di un
coro che voi non udite e che pure si compone di vostre intime voci.
Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi credete che io
trasformi tutto in poesia, mentre non altro io fo se non obbedire al
genio cui voi medesimi siete sog- getti. Voi mi giudicate dissimile,
mentre io vi somiglio come un fratello purificato. » d Qual
mesariglia, quindi, che la lingua, simile, adunque, nella sua struttira e
consistenza — secondo un'altra immagine di Guyau — Ì LI à
ces votes d’église Où le moindre bruit s'enfle en une immense voix,
I «i Ceri cosmico che ci dà il tutto nella vita del
singolo, e il sine nella vita del tutto. Benissimo: ma, allora, il senti
; | così inteso, è, forse, tutt'altra cosa che della ragione
grosso, a dir così, invece che al dettaglio ? Infatti, sol p noi non
riusciamo, bene spesso, a cogliere tutte, ad una 4 una, le ragioni complesse
e profonde che si presenta nol massa al nostro sguardo interiore,
allorchè ci decidiamo agire, è, per ciò stesso, lecito arguire che noi
agiamo, tal caso, alla cieca, ovvero che il sentimento che ci ha g
dato, sol perchè non ragionato, sia, per ciò stesso, non. zionale? Ma il
sentimento non ha, per caso, la sing prerogativa che gli viene, appunto,
dalle innume sue connessioni con le direzioni ancora inconsapevoli
de tenuto della coscienza morale in formazione di a7 in confronto
della ragione, le sue vedute, e di av quindi, qual termometro
sensibilissimo della vita spi tutti gli abbassamenti o deviazioni della
condotta dalla segnata dall'ideale morale o dal dovere non anco
tutto chiara alla coscienza riflessa e, perciò, spin; consapevolmente il
soggetto morale lungo le vie del Esso, quindi, non è, in sostanza, che
luce sotto for calore, e solo così inteso può avere ed ha un signil
motto famoso di Pascal: 7 cuore ha delle ragioni ragione non
conosce, in quanto tal conflitto non è, vera pante da tutta la
precedente nostra analisi al rigua non ha nessun contenuto suo
proprio, PES pr Quindi le ragioni del cuore, se veramente
ragioni o sionevoti, non possono, in realtà, rimanere inascoltate o
7 ligibili per la ragione, sempre che questa, a sua volta, venga presa o
intesa in senso astratto, e cioè come sre meramente raziocinante, e,
quindi, affatto « pensosa tutti i 422 concreti offerti alla riflessione
dall'esperienza 4 esistenza concreta della nostra vita; giacchè tra
espe- A e ragione vi ha, per noi, profonda identità: l’ espe-‘enza non è
che ragione concreta vivente ed agente, e la gione non è che l’esperienza
stessa, astratta e quasi con-emplativa delle sue forme essenziali. È chiaro,
adunque, che, per l'umanità, allo stato nor ale, non può esservi che un
solo modo di pensare e di are: pensare e parlare, non solo in armonia e
col con- degli altri spiriti: Wie spricht ein Gcist zu anderm
Geist, eziandio, in armonia e col concorso delle cose, e cioè
conformità di quella vera esperienza, che è un tutto ra- nalmente
collegato e stretto ad unità, in quanto le funzioni nostro pensiero, ben
lungi dall'essere come, cogli ionisti, vorrebbero anche i pragmatisti un
apparec- di forme in certo modo falsificatrici della realtà, sono,
vece, non altro, originariamente, che il prolungamento, in delle funzioni
o processi del reale, come ci attesta, evi- te, la innegabile
cooperazione e solidarietà tra la nostra enza e la realtà delle cose. Si
sarebbe, sì, potuto cre- a tutti i Nietzsche e i James che le forme
e orie del nostro pensiero fossero delle semplici /orgnettes iali,
che noi fuz4iazzo sul reale, solo qualora noi fos- stati al di fuori o al
di sopra della realtà, come un do di forme vuote, senza contenuto, e cioè
fuori di quella LO sj à catena causale universale causa ed
effetto e reciprocità | di tutte le azioni causali che è l’idea stessa
della continuità senza iato nè interruzione della vita del reale, secondo
L gli stessi intuizionisti; ma poichè noi facciamo parte di tal
catena, è, dunque, impossibile ammettere che le forme fon» | damentali
del nostro pensiero non si siano formate e non si esplichino i funzione, ad un
tempo, della nostra propria natura e della natura delle cose, da cui non
siamo separati, ma solo emersi per immergerci, conoscitivamente, ogni
volta che ne veniamo fuori. Sicchè a noi non resta che ritenere le
i funzioni o categorie del nostro pensiero come l’ espressione
delle inzer-azioni fra noi e le cose, e cioè i mezzi, direi, di prendere
coscienza delle più diverse azioni reciproche, a cominciare dalla nostra: esse,
quindi, non sono solamente la coscienza della nostra causalità, ma della
stessa causalità È universale; e poichè la causalità è essenza dell’
essere e la sua rivelazione, le categorie non sono che la coscienza
stessa dell'essere, universalizzate sino ad abbracciare tutto l'essere:
ovvero la diastole e la sistole della vita universa, perchè nel cuore
stesso della realtà, e non già circum praecordia
rerum. Infatti, senza di esse, noi non potremmo dire neppure
esistenti le cose, e tanto meno dotate di tale o tal altra maniera di esistere,
da tutti affirmabile : togliete, invero, dicemmo anche innanzi
l’intelligibilità e l’ insieme dei. rapporti intelligibili, che formano
la realità stessa del reale, e non resterà di essa che quella
inconcepibile astratta poten- zialità, quella mera 3ivqus del tutto
impensabile, che è l'ormai. famoso atto puro di GENTILE (si veda).Il che
prova inconfutabilmente che la realtà è assolutamente inconcepibile, astrazion
fatta. di quanto il nostro pensiero vi mette di suo, precisamente. 2
Age con le categorie: onde quella sintesi organica di rapporti
logici in cui, conoscitivamente, consiste il reale. Ora è precisamente
questa impossibilità di concepire il reale senza le forme del nostro
pensiero che ci costringe, inevitabile, a ritenere tali forme come atti
intimi della vita mentale e, ad un tempo, della vita reale immanente
alle cose, a parte anche l’ imprescindibile necessità di ammettere
un'assoluta unità e continuità di divenire o di sviluppo della realtà; il
che, pertanto, viene ad essere confermato, fra altro, anche da sì fatta
inconcepibilità. Per ciò, più che delle forme astratte, o dei modelli
vuoti, ovvero dei « punti di vista » fotografici isolati come si vorrebbe
anche le categorie sono delle forme viventi e dei modelli flessibili
in cui la realtà entra senza giammai rinchiudervisi : quindi, come
delle vere démarches delle cose, precisamente come la funzione vitale della locomozione
è conforme alle leggi obiettive del movimento, come la funzione dell’
assimilazione nutritiva è conforme alle leggi fisico-chimiche delle
sostanze alimentari e dello sviluppo vitale. E se è pur vero, intanto,
che le forme della nostra esperienza come Kant afferma dipendono
dalla struttura generale dello spirito umano, non per ciò è lecito all’
intuizionismo ed al pragmatismo di aggiungere, a mo’ di conclusione, che « la
struttura dello spirito umano è l’effetto della libera iniziativa di un
certo numero di spiriti individuali » (2). Giacchè, in realtà, pur
potendosi ammettere che taluni individui, per iniziativa davvero
intelligente, ma non già « libera » sì da rimanere sottratta alla natura
delle proprie individuali disposizioni, abbiano introdotto delle innovazioni,
fatte delle scoperte, lasciata la traccia del V. a tal riguardo, G.: Una
visione teleologica del manda, Pet. rella, Napoli BERGSON : Preface de Verité et Réalité di
James. Tosh i loro genio nella tradizione, nella lingua e perfino
nel cervello della razza, non per ciò rimarrebbe spiegato il /oxdo della
nostra costituzione cerebrale, e cioè, ad esempio, la rappresentazione
del tempo e dello spazio, il principio di identità e di causalità.
Infatti tali principî non vorranno dirsi, certo, fortunate ipotesi create
da uomini intelligenti o di genio, dato che essi vengono applicati 6
origine da ogni intelligenza nel suo spontaneo moto di orientamento
spiri. tuale tra le cose e tra gli stessi stati di coscienza: e la
prova assolutamente inconfutabile ci vien data dalla presenza od
esistenza di essi anche negli animali, che non, certo, parlano. E,
veramente, non pochi di essi ad un certo grado d’altezza nella scala
zoologica hanno, con tutta evidenza, più o meno confusa e concreta la
rappresentazione dello spazio e del tempo: tutti, poi, hanno una specie
di credenza pratica e irriflessa nel principio d' identità, in
quanto tutti reagiscono nello stesso modo a delle eccitazioni
simili, e in maniera diversa a stimoli diversi; e tutti, anche, se
in qualche modo capaci di riflettere sulle azioni delle cose e
sulle particolari reazioni da essi opposte, ci danno chiara la testimonianza di
questa loro credenza vissuta e vivente: che ogni cosa ha la sua ragion d'
essere, onde la loro tendenza a cercare le ragioni delle cose nella
misura in cui tali ragioni li interessano, e, talvolta, anche per
semplice curiosità. Tutti, ancora, credono ad una realtà indipendente
dalle sensazio vo ed azioni, ad una correlazione determinata tra le loro
sensazioni ed azioni e questa realtà: il gatto [GRICE ETOLOGIA FILOSOFICA] ad
esempio che, sulle mosse di rubare del formaggio, sente che arriv il
padrone e si dà a fuggire per tema del bastone, ha Lalli N il sentimento
della pluralità costituita da sè medesimo, da padrone e dal formaggio. Ha,
inoltre, il sentimento de realtà della pressa del suo padrone, della
possibilità dell Si CATO battiture e, in fine, della relazione
costante tra la scoperta del furto e la minaccia delle percosse, oltre
che, di conseguenza, la somiglianza tra l’avvenire ed il passato. Il
gatto, adunque, è già schiavo anch’esso delle categorie tanto
descritte dai pragmatisti ed intuizionisti? Esso, infatti, si permette di
distinguere il possibile ed il reale, il passeggero ed il permanente, il
fatto e la causa, l'uno e i più, come se avesse avuto falsato lo spirito
dalla lettura dei Dialoghi dell’ACCADEMIA. Il vero è, dunque, che le forme del
nostro pensiero sono innegabilmente dei punti di contatto tra l'essere ed
il pen- siero, dei mezzi per pensar l'essere e far essere il
pensiero, delle identità tra l' intelligibile ed il reale, e tutte si
raccol- gono nella categoria razionale e reale per eccellenza che è
la ragion d'essere, dato che il divenire della realtà non è, in fondo,
che divenire del pensiero. Il che prova che la realtà è ciò che è, alla
volta, obiettivo e subiettivo: l’unità delle cose con lo spirito clie le
conosce e con l’universo di cui quelle e questo sono parti costitutive e
solidali. È naturale, quindi, che la filosofia non possa restringersi nè
al semplice sforzo come pretende Comte di raggiungere la piena conoscenza
del mondo, nè, del pari, all’ altro secondo lo Hegel di raggiungere la piena «
coscienza di sè, perchè i due punti di vista sono veri solo se
inseparabili. E ciò è provato ad evidenza dal fatto che quanto più larga
e precisa è la conoscenza che noi abbiamo del mondo che agisce in noi e
sopra di noi, tanto più piena è la conoscenza che noi veniamo ad avere di
noi stessi; e, per converso, quanto più precisa è la conoscenza di quel
tipo di realtà e di intelligenza ch'è in noi, o che siamo noi stessi
onde la virtù, da parte nostra, di concepire ogni altra esistenza ed ogni
altro pensiero tanto più perspicua e più sicura è la nostra conoscenza del
mondo nella sua realtà e intelligibilità. Quindi, qual valore può avere
una filosofia, che, annullando l’aspetto obiettivo della realtà,
riduca quest’ultima all'aspetto puramente soggettivo, o, peggio
ancora, alla mera astratta 3ivaus dell’affo $u70, come dicemmo? E
questa profonda unità delle cose con lo spirito e degli spiriti fra loro
è provata, in maniera inconfutabile, proprio da quel comune sentimento
che ci fa credere alla verità - la quale, infatti, si afferma
wniversalmente, come tale, precisa- mente ed unicamente allorchè si
manifesta come unità fra il nostro pensiero e gli obietti rivelati dalle
nostre sensazioni, e, poscia, fra il nostro pensiero ed il pensiero
altrui, che ci rivela le nostre sensazioni. È naturale, quindi, che le
nostre espressioni 0 idee sian da ritenere fermamente come scrigni,
a dir così, in cui si celano, come collane di diamanti, le leggi, ad un
tempo, del pensiero e della natura: e perciò non sono da buttarsi via
dopo l’ istante della loro creazione; esse, in altri termini, sono delle
verità immobili che noi cercammo sotto il fluire del reale, o sotto la
fluidità delle nostre sensazioni. La differenza, infatti, tra una ciliegia
ad esempio ed una bacca di belladonna, oltre a non essere puramente
nominale, non è nè pure meramente o individualmente soggettiva, com'è provato
dal fatto che, mentre la prima nutre, l’altra uccide il fanciullo che non
riescisse a rt distinguerla dalla prima. Perciò
ripeto come pretendere che i nostri progenitori avrebbero potuto pensare e
parlare a loro talento, secondo la propria comodità? Allora sì che,
per davvero, non ci sarebbe fanciullo, che, piccolo Descartes, non si
sentirebbe, necessariamente, di yewzeltre loul en question, 138 divenendo,
così, essi proprio, i fanciulli, i veri creatori della lingua, e tanto più
quanto più dimentichi o dispregiatori di ogni eredità sociale o spirituale, e
cioè futuristi ad oltranza. Mentre il vero è che, non solo la coscienza
comune e cioè precisamente di quei grandi fanciulli che sono i
popoli nella loro immensa maggioranza di individui non sogna
neppure la possibilità di far della filosofia novatrice o creatrice onde la
impossibilità, per esso, di yemettre en question alcunchè di quanto
spiritualmente ha ereditato dai suoi ante-nati, ovvero anche solo di agire alla
luce del gran lume della dea ragione quanto, eziandio, gli stessi
filosofi, avendo appreso da Platone e da Kant della naturale originaria
limitatezza del nostro sapere, non si attendono minimamente di porre in dubbio
simile verità, e, per ciò contrariamente al Nietsche, e sì, pure, a qualche
altro odierno pensatore fra noi si guardano bene dal ritenere la
propria opinione personale al di sopra delle condizioni universali
in cui essi vivono, e, a meno di esser folli, non pretendono,
certo, di essere dei supermomini. È, dunque, evidente, che le leggi della
grammatica, ben lungi dall'essere forme arbitrarie del nostro pensiero,
sono, invece, espressioni il più possibile adeguate e
indispensabil- mente zecessarie delle proprie sue leggi, risultanti, tali
espres- sioni, dalla congruenza attiva e costante collaborazione
del nostro pensiero colla natura e col gruppo umano di cui siamo
parte. E, si noti bene, tale collaborazione onde la fissità ed
universalità del linguaggio, nella immutabilità e universalità delle sue
espressioni e delle sue forme logico-grammaticali non riesce punto come piace
di opporre agl'intuizionisti a ricoprire i nostri stati d’ animo
più personali come di una guaina impersonale fabbricata dalla
società. In verità, questa preoccupazione avvertita prima e più di
ogni altro da Bergson è priva di ogni fondamento, in quanto i rigidi
comuni schemi delle forme logico-grammaticali in cui il pensiero, come
contenuto rappresentativo, deve poter essere constretto, qualora voglia
essere, davvero, strumento di conoscenza, se valgono, per l’ appunto, ad acqui. stargli
in quanto tale valore universale e necessario che altrimenti, abbiam
detto, non avrebbe, e non potrebbe in niun altro modo avere non riescono,
peraltro, ad impedire affatto, anzi nè pure minimamente ostacolare, in quel
È suo moto spirituale verso la conoscenza delle cose, la naturale
incomprimibile sua /endenza alla forma soggettiva. E, in realtà, vi ha, per
caso, corrente di pensiero che non presenti delle particolarità che la
distinguano nettamente da quella dello stesso pensiero presso altri
soggetti conoscenti? Senza pur dire che la stessa particolare corrente di
pensiero, che è È propria di ognuno di noi, può, con tutta facilità,
variare da un tempo all’altro. E tali particolarità, che costituiscono
‘accennavamo come una frangia od alone del pensiero, possono paragonarsi
a quello che sono gli ipertoni rispetto p al tono, per cui strumenti
diversi possono riprodurre diversamente lo stesso tono: ed il motto comune /o
stile è l' uomo vuol esprimere, per l’ appunto, questa qualità
individuale, 0, A dirò così, particolare colorito espressivo, che il
pensiero, pur È nella medesimezza del suo valore oggettivo, 0
significato rappresentativo, tende ad assumere presso le singole
menti, onde la facilità con cui noi riusciamo a distinguere o
riconoscere, come se le avessimo davvero incontrate, od avute _
famigliari, oltre che le creature di ALIGHIERI (si veda0 e di
Shakespeare, e le figure di VINCI (si veda) e del Rembrandt, e i motivi
di Beethoven e del Wagner, le immagini, altresì, rampollate da una
medesima sorgente spirituale d'ispirazione e recanti, | quindi, una
medesima impronta dele, come l’immagine dell'amore cantato da Dante nella
Vita Nuova, e quel offertaci da tutti gli altri poeti del dolce stil
nuovo, non meno de Tue che da Petrarca nel suo Carzorziere e da
Shelley nel suo Epipsychidion ecc. Ed, anzi, quanto più netta e rilevata
è la personalità del soggetto conoscente, tanto più chiaro e
inconfondibile è il colorito espressivo delle sue creazioni intuitive. E
poichè, pertanto, tal colorito raggiunge la più singolare sua tonalità
individuale e la più sicura sua espres- sione caratteristica proprio
nell’ àmbito della coltura dove, appunto, vige assoluto l’imperio delle
forme Jogico-gramma- ticali, più che nell'àmbito di quella esperienza comune,
in cui, invece, è quasi completa /’assezza di tali forme, ragione
per cui il parlare di due persone volgari od incolte presenta una
uniformità o identità formale di espressione che invano noi cercheremo
nel parlare di due persone colte, e più invano ancora se, per giunta, di
diversa educazione mentale, come un valente letterato ed un grande
scienziato non è gioco- forza
concludere che le forme logico-grammaticali, ben lungi dal distruggere o
comprimere, comunque, la naturale tendenza del pensiero alla forma
soggettiva, son proprio quelle, invece, che, mediante, appunto, la
infinita loro varietà d'intreccio, ed intreccio infinitamente variabile,
offrono al pensiero di ogni singolo soggetto conoscente la più larga
possibilità di rivelare ed affermare quella sua tendenza, nel tempo
stesso che prendono ad acquistare alle sue intuizioni un valore
universale e necessario? Altrimenti come spiegare che cotale tendenza, se
non manca del tutto, è, senza dubbio, punto punto rimarchevole nelle
espressioni delle persone incolte, e manca, altresì, nei fanciulli, che,
al pari di queste, igno- rano ancora l’uso delle forme
logico-grammaticali? In ogni modo, non si può negare che pensare
significa, in un certo senso, scegliere: e noi scegliamo, infatti, così
nel ragionamento, in cui cerchiamo come il punto di passaggio da
un pensiero all'altro, come nelle intuizioni, cercando gl’elementi
necessarî maggiormente rappresentativi, ed eliminando gli insignificanti.
E proprio in sì fatta scelta, colla genialità della potenza intuitiva del
soggetto conoscente, si rivela, altresì, e con non minore evidenza, la
particolare tendenza espressiva di esso; giacchè tale tendenza si rivela
precisamente nel configurare (e cioè coordi- nare e subordinare ch’esso
fa) quegli elementi alla stregua, dirò, di un comune denominatore (e cioè
dell’ essenza del reale che è obietto dell’ intuizione, od anche solo di
quel particolare aspetto di esso che si vuole porre in rilievo), e
colorirli, altresì, d'un medesimo zoro (quello offerto od im- posto dal
carattere sentimentale proprio del soggetto conoscente). Ed ecco, in tal
modo, per dirla con parole di
Croce stesso la ballatella di Cavalcanti ed il sonetto di Angiolieri, che
sembrano il sospiro o il riso di un È istante; la Commedia d’ALIGHIERI
(si veda), che pare riassumere in sè un millennio dello spirito umano; le
Maccheronee di Merlin Cocaio, che sghignazzano sul Medio Evo tramontante;
la elegante traduzione cinquecentesca dell’Ewesde di Caro; l’asciutta
prosa di Sarpi e quella gesuitica frondosa di Bartoli. Nessuna meraviglia,
quindi, che cotal forma di pene. sare, propria di ognuno di noi, si
rifletta persino nei singoli È frammenti delle nostre serie di pensieri,
come non di rado ci provano quegli elaborati 4 mosaico di qualche alunno,
nei quali la varietà di stile dei diversi autori, i cui brani di.
pensiero concorsero alla formazione di tal mosaico, si mos Breviario che
noi proviamo all’ improvviso apparire di una parola od espressione di
lingua straniera nella nostra, non devesi, forse, alla interrotta
uniformità di stile o colorito espressivo ? E non è questa, altresi, la
causa della gradevole sorpresa o disgusto, che, lungo il procedere
discorsivo proprio di una scienza, ci procura così l’ incontro di frasi
tutte proprie del dizionario di un’altra scienza, inserite o non a
proposito, come l’uso di forme di ragionamento estraneo alla sua tecnica
logica, dato che ogni scienza, anche, ne possiede una? E la mescolanza
del parlare volgare col letterario non ci procura anch’essa disgusto per la
medesima ragione? Ora, se cotal naturale e, veramente,
insopprimibile tendenza del pensiero a forme espressive
individualmente caratteristiche o caratteristicamente individuali, pur
nella loro universale intelligibilità, riesce ad affermarsi e
raggiungere le più tipiche o singolari sue forme espressive
precisamente nel campo della coltura, in cui il rispetto alle forme
della grammatica e della sintassi è, come sappiamo, condizione sine
qua non per l'accessit in esso dei soggetti conoscenti, non si deve, per
ciò stesso, riconoscere senz'altro, che sì fatte norme sono, per lo meno,
ben lontane dall’oscurare od assorbire, nella loro universale uniformità, il
particolare colorito espressivo di ogni singolo soggetto conoscente ? E
ciò stesso non ci obbliga, d'altro canto, ad escludere, altresì, che esse
possano essere, o siano meri giochi di artifizio, od anche forme
puramente convenzionali da noi arbitrariamente imposte al pensiero?
Giacchè, senza dubbio, in tal caso come giustamente opinano gl’
intuizionisti esse sarebbero riu-scite o bene riuscirebbero come ne fan prova
le forme artificiose del Volapik dell’Esperanto e DEUTERO-ESPERANTO, e
dell’ Interlingua ad impedire l’aftermarsi ed esplicarsi della tendenza
del pensiero alla forma soggettiva, pur riuscendo questa ad estrinsecarsi è
tutto dire anche nei casi di natura patologica, I quali, invero, a
dissoluzione compiuta della personalità normale ci fanno assistere, con
tutta evidenza, alla for- o mazione di nuove personalità, che,
indeterminate dapprima, si vanno, poscia, progressivamente affermando,
fino ad assu- mere fisonomie del tutto diverse dall'antica, e nei
soggetti ipnotici, poi, l'assunzione di fisonomie nuove si mostra pos:
sibile anche dietro la semplice adozione di un nome. Or tutto. ciò non
deve necessariamente convincerci della naturale ragion d'essere delle
forme logico-grammaticali, onde l'estrema assurdità della pretesa di Croce di
volerle soppresse; il che egli credette di poter fare vietando, con un
tratto penna, l'insegnamento della grammatica nelle nostre scuole?
Pretesa che, certo, non sarebbe nè pur balenata alla sua mente, se questa
avesse avuto il potere di accorgersi che sì fatte forme, oltre che esigenze
fondamentali imprescindibili per la funzione d'intelligibilità del
pensiero, sono, altresì, il fondamento stesso della esistenza di
quest'ultimo, in quanto, appunto, condizioni e termini, ad un tempo, del
nostro fersare? Infatti, non riuscimmo noi a provare innanzi che le
forme logico-grammaticali altro non sono e non vogliono essere, in
sostanza, che espressioni pure e semplici delle relazioni 0! rapporti che
intercedono tra le cose, o tra i singoli elementi di esse, così come le
singole voci o parole non sono che i termini puramente drdicazivi di esse
cose, o dei singoli loro elementi? E come potrebbe, adunque, darsi
conoscenza i intuizione di una qualsiasi cosa fuori, appunto, delle
relazioni con altre cose, o dei rapporti che intercedono i suoi stessi
elementi (70%), sì che possa ritenersi, cotalé intuizione, tutt'altra
cosa che una sintesi, appunto, ri mente coerente di rapporti logici? E
se, adunque, cote rapporti sono, con tutta evidenza, i so/é termini del
nos TORRE pensare, non è, perciò, da ricercarsi unicamente nella
loro netta distinzione e preciso loro significato, o valore logico,
la più netta e precisa intelligibilità della realtà? Nessuno, infatti,
ignora la confusione od oscurità che, immancabile, procura al pensiero la
insufficiente distinzione formale del valore logico-grammaticale di
qualche termine del nostro pensare, come, ad esempio, quella che ricorre
nel famoso responso dell'oracolo a Pirro, che gli ha chiesto se sarebbe
riuscito vincitore nella guerra contro i Romani: Aio te, Aeacide, Romanos
vincere posse. E ciò per di più accade non solo in rapporto al
valore logico delle espressioni, e cioè in tutti i casi che diciamo d’ANFIBOLOGIA,
ma in rapporto, altresì, allo stesso SIGNIFICATO intuitivo della parola, e
cioè anche nei casi in cui questa possiede UN DOPPIO SIGNIFICATO, onde la
famosa quanto ironica lode al debito di Berni: Debito è fare altrui
le cose oneste dunque fare il
debito è far bene. Non solo: ma lo stesso ORDINE DELLE PAROLE nel
discorso non asconde anch'esso il suo valore logico? Quante volte,
infatti, il predicato non occupa esso il posto del soggetto, per
richiamare su di sè l’attenzione e porre, quindi, in vista tutto il valore
in esso riposto dal pensiero? Valgano di esempio le seguenti espressioni.
Mobile e grande, veramente, la persona del Re!; e/ix qui potuit rerum
cognoscere causas. Spesso, ancora, il predicato logico è il soggetto
grammaticale o l'aggettivo che l’accompagna: « 7% sei l'uomo! Tutti gli
invitati sono arrivati, per dire appunto che gli invitati che sono
arrivati sono ## quelli che erano attesi. Invece nella frase, il danaro è
dentro lo scrittoio, quali dei tre elementi può dirsi preponderante o di
maggior rilievo? Non si sa, perchè potrebbe essere così il primo (danaro),
come il secondo (dentro), come anche il terzo (scrittoio). Tutto sta nel
cogliere od indovinare il pensiero o L’INTENZIONE intenzione di colui che parla
[GRICE, UTTERER’S MEANING]; ma dicendo io: è dentro ll scrittoio il
danaro, chi non comprende che l'elemento essenziale è, qui, scrittoio? Ma
potrebb’essere anche dezzro. non ricorriamo, per ciò, in sì fatti casi, e
cioè in manca È. di una qualsiasi specificazione anche in ordine al posto
occupato dalla parola nel discorso, ad una particolare accentuazione o zoro,
col quale prendiamo ad esprimere o pronunciare la parola in questione, e
cioè, nell'esempio addotto, accentuando la voce su denaro, dentro, o scrittoto?
[GRICE: IMPLICATURES OF STRESS]. E se, adunque l’intelligenza ha dovuto
ricorrere fino a simili SOTTIGLIEZZE [IMPLICATURE] pe rendere la lingua
più che mai duttile e perfettamente obbediente ai più lievi moti del pensiero,
non è semplicementi assurdo e ridevole, insieme, chiedere come fanno gl’intuizionisti
l'abolizione addirittura delle forme sin tico-grammaticali per
l’espressione del nostro pensiero? E tuttavia, il tentativo di cotal
soppressione non è stato, fors già, magnificamente compiuto dai
rappresentanti del futurismo? E con quale risultato, per la funzione
intelligibile del pensiero, sa molto bene chiunque abbia avuto occasione di
ammirare qualche saggio dei prodotti artistici di questa nuova
letteratura, il cui merito è precisamente nella mapei imintelligibilità delle
loro espressioni. È Qual meraviglia, quindi, che, in sì fatto caso,
co espressioni, appunto perchè asso/uiamente individuali ri gano,
per davvero, assolutamente intraducibili ed inclascabili? Ma è, dunque, sol
perchè zrsntelligibili, come noi affrettammo a dichiarare innanzi: onde la
conseguenza tangibile, ora, che l'elemento veramente intraducibile in una
forma di conoscenza dichiarata universale e necessaria, non può essere, e non
è, che unicamente e precisimente il particolare COLORITO ESPRESSIVO [FARBUNG –
GRICE] di ogni singolo soggetto conoscente, val quanto dire unicamente la
sua forma mentis, e non già pure il corzerzto oggettivo delle sue
espressioni o intuizioni, come sostiene Croce. Altrimenti
saremmo costretti a chiedergli perchè egli, pur convinto
dell’assoluta impossibilità di renderci, comunque, anche IL SIGNIFICATO ideale
delle immagini estetiche, oltre che la loro forma o COLORITO ESPRESSIVO, potè,
nondimeno, decidersi al tentativo di darci la traduzione sia qualsivoglia
il valore di questa di talune liriche di Goethe: ed in tal caso a lui non
rimarrebbe che: o riconoscere semplicemente pazzesco tal suo tentativo appunto
perchè senza scopo di sorta; oppure confessare il proposito, da parte
sua, di darci, a fianco o di È fronte all'opera d’arte dell’Apollo
Musagete della Germania, DI un’altra opera d’arte non meno grande e
perfetta di quella, E E sia pure: ma perchè, intanto, credette di far
passare s0//0 il nome del Goethe il contenuto ideale di quelle sue
tradu-zioni, e non già sozto il proprio suo nome, se vero è che, col i
mutar dell’originaria forma espressiva di un’opera d’arte, pi. muta,
altresì, il proprio contenuto rappresentativo? È se, pertanto, Croce
crede di attribuire al Goethe e non a sè i fantasmi ideali o l’ideale
fantastico espresso da ognuna i di quelle liriche da lui tradotte, non,
forse, ciò stesso vuol È | significare, anzi testimoniare, che
l’intraducibilità è solo della È forma espressiva e non già pure del suo CONTENUTO
RAPPRESENTATIVO [GRICE, CONTENUTO PROPOSIZIONALE], se questo vien senz'altro
riconosciuto e dichiarato dell’azzore e non già del traduttore? Se così,
di fatti, non vaemtetizizo fosse, con qual miracolo di
pensiero, egli proprio, accanito bi | assertore e propugnatore
di cotal peregrina teoria dell’asso- luta intraducibilità del pensiero
altrui, sarebbe mai giunto, poi, sino a distinguere addirittura dei cicli
progressivi «i SENO di prodotti estetici inerenti ad una « wedesima
materia », R =* sf Da = LL come ad
esempio la materia cavalleresca
durante la rinascenza italiana da Pulci ad Ariosto? Mentre, a
rimanere strettamente fermi o coerenti con la sua teoria, noi, non solo
non dovremmo assolutamente poter distinguere 7224/% di nulla in un'opera
d’arte, ma neppure la szessa maderia di un'opera da quella di un’altra;
fino al punto che, qualsi distinzione come, ad esempio, quella di
attribuire il con- tenuto del Decamerone a Francesco d’ Assisi e quello
dei Fioretti a BOCCACCIO (si veda) sarebbe la più naturale e bene
informata di questo mondo, precisamente come la su contraria ? È questo,
infatti, l’assurdo, possiam dire tangibile, cui direttamente mena »
della. sua dottrina estetica? Il che è tanto vero che proprio io
mancato riconoscimento del valore gnoseologico di tal prin- cipio ha
tratto Croce il preteso interprete autorizzato | della dottrina vichiana
: autorizzato a giudizio suo proprio, o di chiunque si voglia a non
comprendere aftatto nulla di tale dottrina, posto ch'egli è riuscito non
solo a falsarla nell'intimo e vero suo significato, quanto a spogliarla,
altresì, di tutto il suo valore filosofico. E mi darò a provare ciò
rapidissimamente, con l’opera di Vico in una mano, e quella 3 di Croce
nell’altra, sì che ognuno abbia modo di convin- cersi, ancora una volta,
come, in realtà, sia proprio nell’ abito mentale di quest'ultimo
interpetrare @ suo 2040, e cioè | nella maniera più capricciosa ed
arbitraria per le ragioni | più volte dette innanzi il pensiero degli
scrittori di cui| si occupa, e specie allorquando l’opera di questi
rientra più direttamente, od essenzialmente, nel dominio dell’arte, o
delle dottrine estetiche. Mi affretto per ciò ad iniziare senz’
altro l'esposizione del pensiero vichiano, rivolgendomi in
particolar modo a coloro che non hanno avuto occasione di leggere
ji la Scienza Nuova ; ragione per cui comincio proprio come Vico
col ricordare loro la necessità o bisogno da questi avvertito prima di
entrare nella diretta trattazione dell’opera sua di far notare al lettore come
il sistema naturale del diritto delle nazioni di tutti e tre i più celebri
| uomini del suo tempo Grozio, Seldeno e Pufendorfio debba a parere
di lui il suo più grave difetto al
fatto. che nessuno dei tre pensò stabilirlo sopra la
Provvedenza divina. Mentre si sa che, per scuoprire sicuramente | le
vere e finora nascoste origini » di cotal dritto, che investe Principi di
Scienza Nuova; a cura di Ferrari, Milano, e concerne religione, lingue,
costumanze, legge, società, g0- verno, domicilio, commerci, ordini,
imperj, giudici, pene, guerra, pace, rese, schiaviti, allianse, insomma
duéte le cose divine e umane, occorre, anzitutto, ed imprescindibilmente,
ricercare ed ammettere l’idea di un ordine universale ed
eterno. Altrimenti, come spiegare quel senso comune del genere
umano, o che è lo stesso quella certa mente umana delle nazioni, che,
usando per me227 quegli particolari fini perseguiti dai singoli individui
e « per i quali essi andrebbero a perdersi », dispone tai fini,
fuori e bene spesso contro ogni proposito degl’individui stessi, a
un fine wziversale? Non è, quindi, da me- ravigliare che cotale /dea,
sotto l'aspetto, appunto, di Pyrovvedenza ordinatrice di tutto il diritto
natural delle nazioni, debba necessariamente rimanere /a fri2a o
principal fondamento di ogni qualunque lavoro » del genere, e, per
ciò, essa non manca, e tale si dimostra per tutta l’opera sua.
Si noti, però, che, in quanto tale, essa non può, natu- ralmente,
non possedere due propietà primarie, che sono: una /’immutabilità (o
necessità ch'è lo stesso) l’altra /’uzs-versalità; giacchè solo in forza di
codeste proprietà potè venir concesso ad essa « Provvedenza, o Divina
architetta [cf GRICE INGENGNERO] di mandar fuori il mondo delle nazioni colla
regola della sapienza volgare: e cioè di quel senso comune come dicemmo
di ciascun popolo o nazione, che rego. la nostra vita socievole in tutte
le nostre umane azioni, così che facciano acconcezza in ciò che ne
sentono comunemente tutti di quel popolo o nazione. La convenienza,
poscia di questi sensi comuni di popoli o nazioni tra loro tutte è
la sapienza del genere umano. La quale, per ciò, mane, evidentemente,
come il principio informatore delle utilità o necessità umane uniformemente
comuni a tutte le particolari nature degl’uomini: il frutto avrebbe. qui
detto lo Hegel dell'ASTUZIA [GRICE CUNNING] della ragione. Giacchè, n
sostanza, cotal principio universale, o Divina Provvi- denza, non è, pel nostro,
che, per l'appunto, / agwadità dell'umana ragione in tutti, ch'è la vera
ed eterna natu umana: val quanto dire, più semplicemente, 2° dello
spirito, il quale soltanto, in verità, è il princi reale ed assoluto che
informa e dà vita a questo mondo di Nazioni. E, poichè,
intanto, la lingua è l’espressione più univer. salmente intelligibile e
sicura dell'attività spirituale, è turale e conseguente ammettere, che,
qualora essa voglia rimaner, davvero, una forma espressiva wrzversalmente
e e- cessariamente intelligibile, debba recare quei due medesir
caratteri, o froprietà primarie, riconosciute all’attività spi tuale.
Onde la necessità intesa bene da
Vico di collegare com'egli fa i
due motti che per lui voglio rispettivamente esprimere il carattere di
universalità e ne di Cfr. anche Degnità: «Il senso comune è
un giudi; senza alcuna rifessione, comunemente sezzizo di tutto un
ordine, da tutto | popolo, da tutta una Nazione, o da tutto il Genere
wmano. Principi di Scienza Nuova°, Ed. Truffi Milano J N
i CI EPA AR, i Da cessità del LINGUAGGIO: «a /ove
principium Musae col quale,
addirittura, egli apre la Scienza Nuova — e « as gentium, © sia la
favella immutabile delle nazioni », a quell’altro motto, espressivo
dell'universal principio ch'è lo spirito : Jovis omnia plena. Ed
ecco, così, nell’ « Z4ea tutta chiusa in questi tre motti i*primi due dei
quali, già, possono dirsi bene sottintesi, o sinteticamente ricompresi dall’
ultimo quella chiave maestra, l’espressione per immagini
allegoriche, col suo mirabile segreto, il carattere di
unzversalità, che ci consente, senza dubbio, la più coerente e
stupenda visione sistematica di tutto quel complesso di verità e
prove ti di fatto intorno all'origine, essenza e sviluppo della
lingua, che ci rivela e dette, davvero, una scienza
z%ova. E, in realtà, non si può negare che il carattere o va-lore
intelligibile della lingua o della conoscenza intuitiva, ch’è lo stesso, è
strettamente dipendente e correlativo alle modificazioni della nostra medesima Mente
umana. E poichè questa raggiunge il suo pieno sviluppo a traverso
tre fasi — che preannunziano i #re stati di Comte, non sono, per ciò
stesso, da ammettere tre diverse forme o gradi di conoscenza poetica o
intuitiva? Quella della prima età, detta « divina », in quanto comincia
dagli Dei, « con gli auspici di Giove, e, fatta, per ciò, tutta di «
parlari divini ritruovati dai Poeti Teologhi, che ben « s' inten-
devano del parlare dei Dei. E quest'età continuandosi in un secondo momento per g/i ZEro:,
dette luogo alla sapienza eroica, per ricongiungersi, infine, col
tempo storico certo delle nazioni; tempo in cui si . ù =
o dda ebbero, appunto, quei parlari per rapporti naturali, che
dipingono descrivendo le cose medesime che si vogliono esprimere: della qual
lingua si ritruovarono già forniti i Dopo greci a’tempi d’Omero.
i Ora Croce non ha del tutto schernevolmente quanto
inconsapevolmente negato ogni valore filosofico a codesta distinzione do Vico,
distinzione che pure involgé od esprime, | in realtà, la norma e forma,
insieme, veramente fondamentale ond'è governato e si esplica lo sviluppo della
cono- scenza, e rimane, altresì, una delle più comuni verità della.
nostra esperienza ? Infatti, che cosa vuol dire, qui, il Vico, tenendo
bene presenti le premesse da noi dianzi a bella. posta richiamate della
sua dottrina ? Semplicemente questo. com’egli, poscia, in lungo e in
largo si affretta a chife rire e dimostrare lungo tutta l’opera sua: che
i primi uomini, privi ancora di favella, o di par/ari convenuti,
non potevano, naturalmente, intendersi fra loro che ricorrendo
precisamente come i Mutoli a cose ed
atti che avevano NATURALI RAPPORTI ALL’IDEE CHE ESSI VOLEVANO
SIGNIFICARE, come, per l’ appunto, ci provano le cinque parole reali con
cui Idantura, Re degli Sciti, risponde a Dario Maggiore, che gli aveva intimato
guerra Man man. E qui, molto acutamente, Vico nota: e avvenne che quasi
tutti i popoli della Grecia ognun pretese essere Omero s cittadino, è
appunto perchè, avendo questi /essuzo i suoi poemi con i mig parlari di
tutta la Grecia, ciascun popolo avvertì in questi poemi i suoi nai
parlari, onde ritenne Omero della propria terra: il che val quanto dire:
carattere più universalmente espressivo acquistato, appunto, dalla
lingua quest’ultimo in confronto di quella di ogni altro del suo
tempo. Le cinque parole reali furono: una ranocchia, un topo, un
uccello, dente d’aratro ed un arco da saettare. La ranocchia significava
ch’ esso nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono,
piovendo 1’està, ranocchie e di esser figliuolo di quella Terra ; il 4050
significa, esso € topo dov'era nato, aversi fatto la casa, cioè aversi
fondato la gente; /’wece SME però, il genere umano, venendo in
possesso della favella, cominciò a sostituire alle immagini yea/ delle
cose le immagini 272424ve di esse. E però s'intende di leggieri queste non
sarebbero mai potuto divenire mecessaziamente intelligibili fer #/#, qualora
non avessero avuto a fondamento un'idea universale, 0 un pensiero (a
tutti) comune, come, per l'appunto, una qualche cognizione di Dio o della
Divina Provvedenza, di cui, certo, essuzo andava privo. E quale
idea o cognizione più generalmente nota, o a tutti comune, di quella di
Giove, dato che «7 primi popoli erano incapaci d’universali? Ed ecco,
ora, svelato a pieno, e in tutto il suo valore gnoseologico, il segreto
della chiave maestra dell’opera vichiana: l’idea della divinità, in funzione di
categoria dell'uzzversale, pel suo carattere appunto di universalità. E
così Giove nacque in Poesia naturalmente Carattere Divino significa, avere
in esso gli auspici, cioè, che non era ad altri soggetto che a Dio; l’aratro
significa aver esso ridutto quelle terre a coltura, e di averle dome, e
fatte sue con la forza, e finalmente l’arco da saeffare significava
ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi da doverla e
poterla difendere. In conclusione, egli, Dario, « contro la ragione delle
genti », gli avrebbe portata la guerra. Veggasi Degnîtà LVII, in fine:
Alla qual FAVELLA (FABVLA) NATURALE (per atti o scopi, ch’avevano
zazzrali rapporti all’ idee ch’essi volevano significare) do- vette
succedere la locuzion Poetica per immagini, somiglianze, comparazioni, e
naturali propietà. Questa Degnità è anche il principio dei geroglifici,
coi quali si trovano aver parlato tutte le nazioni, nella loro prima barbarie. E
cfr. anche Degnità: Zdee uniformi nate appo întieri popoli tra essi loro
#0n conosciuti debbono avere un mwofivo comune di vero. Ed altrove: Col
carattere divino di Giove, che fu il primo di tutti î pensieri umani
della gentilità, incominciò parimenti a formarsi la /ineua articolata con
l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i
fanciullini: ed esso Giove è da’ Latini dal Yragor del tuono detto
dapprima Iovis; dal fischio del fw/mine, da’greci è detto Zi03; dal suono
che dà il fuoco, ove brucia, dagli oriertali dovett'essere detto Ur; onde
venne Urim, la potenza del fuoco, dalla quale stessa ragione dovett' a’greci
venir detto Odpavés il Cielo, ed a' Latini il verbo Uro bruciare. E così
via ancora, per lunghe pagine. Ù in alte pet ST-PTRE
WEST] gie tificazione, del segno con la cosa significata, per cui
non da meravigliare sia accaduto che il significato immaginativo
della radice e noi avemmo testè occasione di convincercene sia riuscito a cancellarsi,
per non esprimere, poscia, la parola, che il concetto. Non solo: ma
giunto il pensiero. a sì fatto grado di sviluppo, e cioè a liberarsi da
qualsiasi, schiavità rispetto alle immagini sensibili, e divenuto, per
ciò | stesso, padrone assoluto del materiale della conoscenza, è
naturale che la parola, oltre che ogni traccia del significato radicale,
venga a perdere, anche, ogni autonomia, col pren dere a significare
unicamente ciò che al pensiero importa che significhi : diventa, cioè,
quello stesso che è IL SEGNO algebrico, perchè il concetto rimane, così,
definitivamente fissato nella sua generalità; nè basta ancora: chè
essa) acquista, altresì, la capacità di divenire il soggetto di
tutti. nessi possibili, appunto perchè scomparso in esso quel SIGNIFICATO
RADICALE, che, presente ancora, avrebbe ciò reso impossibile, o non poco
difficile. Si spiega, quindi, chiaro, adesso, perchè,
nell’ascoltari un discorso come innanzi osservammo noi, ben lungi dal tradurre le parole
in immagini della fantasia il che
darebbe luogo è facile supporre a quale tumulto e confusione nella
mente! riusciamo ad afferrare
immediatamente, e con tutta precisione € determinatezza, il senso di
esso. Come, quindi, la duttilità della lingua, e cioè la scente sua
perfezione e precisione come strumento d conoscenza, non devesi
essenzialmente all’ intelligenza? noti bene Croce che NON È PER ARTIFIZIO,
o per la natura tut propria dell’Aomo faer come assevera Bergson la
lingua diventa, progressivamente, strumento di conosc o attività
veramente conoscitiva, col progressivo svilu dell'attività
razionale; così come non è per artifizio o STE priccio che il bambino
pure, coll’affermarsi anche progressivamente del potere della ragione, viene
via via dispogliandosi di tutti i più bassi ed oscuri suoi istinti; ma
unicamente e necessariamente perchè solo a mezzo dell'attività
razionale e cioè in quanto %omo sapiens : la pensi pure al contrario
il Bergson è consentito alla coscienza
umana di elevarsi dal mondo della sensibilità a quel mondo di valori,
che è appunto il mondo dello spirito: condizione essa appunto, la
razionalità, di tutti i valori, perchè condizione size gua won della vita
stessa dello spirito. Ora, poichè l’arte
per affermazione di Croce stesso è il fondamento del mondo dello
spirito, in quanto, difatti, non si può revocare in dubbio, che la
espressione per 77224- gini, o poesia, è, « per necessità di natura, e lo
provammo bene innanzi la prima operazione della mente umana », e
per ciò « la lingua materna del genere umano », si può, eo ipso,
concludere col Croce che gli uomini tutti debbono ritenersi poeti ad un
modo? Eppure, oltre la grave fondamentale difficoltà, che in
ma- niera fix che mai varia, pei singoli soggetti conoscenti,
oppone la insufficiente esperienza, che, in generale, noi si ha della
vita interna delle cose, perchè ci fosse dato di cogliere ad un modo la
individualità vera e propria di esse o della vita intima del reale come innanzi ampiamente mostrammo, non,
fors’ anche, giusto l’ altro grave
impedimento posto in luce dal Bergson fra la natura e noi (che dico?
fra noi e la nostra coscienza) s'interpone un velo, velo spesso per
gl’uomini comuni, velo leggero, quasi trasparente per l'artista ed il
poeta? Quel velo che, impedendoci, ‘naturalmente, di farci vedere e
comprendere le cose per sè stesse, ce le mostra, invece, 7 Riso pp.
142-143; Laterza, Bari; . ea DETTO, \ o VI d Y A Ti,
A TRES unicamente sotto il rapporto che esse hanno coi nostri
bisogni, e punto, già, nel loro naturale clinanzer, o tendenza che le trae a
perseverare nel proprio essere. Di guisa che, di solito, noi non vediamo
e sentiamo del mondo esterno | che solo ciò che i nostri sensi ne
traggono per illuminare. la nostra condotta, e, quindi, essi non ci danno
della realtà che una semplificazione pratica », così come noi non conosciamo,
ugualmente, di noi stessi « che quello che affiora alla superficie e prende
parte all’azione, e cioè non altro che È lo spiegamento esterno della
nostra coscienza, e non già i nostri stati d'animo che si nascondono a noi
in quello che i hanno di intimo, di personale, di originalmente vissuto
(1 e. Di conseguenza noi saremmo stati realmente Zulli artisti, solo se
la realtà avesse preso a co/pire direttamente i nostri sensi e la nostra
coscienza », e, quindi, fossimo potuto. entrare in comunicazione immediata
con le cose e noi stessi », giacchè, in tal caso, la nostra anima sarebbe
riuscita a vibrare all’ unisono con la natura. E come, in realtà,
negare che codesto velo abitualmente ed istintivamente se non fatalmente e inevitabilmente,
secondo il Bergson si interpone davvero tra la natura e noi, e fra.
noi e la nostra coscienza, ed è spesso, certo, fra gli uomini comuni, e
leggero e quasi trasparente per gli artisti e poeti, per non ritenere
tangibile, a dir così, l’ assurdità dell’ affe mazione crociana: che noi
si sia #ut: poeti, e ad un modo E sì che è anche comunemente noto,
in quanto cano fondamentale per l’arte e per la vita di essa, e da Cr per giunta, come da niun altro,
forse, di continuo ricordai che
l’opera d’arte dev'essere spoglia di ogni fine inter .
2190902 sato che non fosse, appunto, la più adeguata e genuina
espressione o rivelazione della vita intima del Reale, ragione per cui
diciamo, a tal proposito: che l’arte uéto fa e nulla si scopre, se non
appunto tale intimità di vita delle cose. E allora? i Allora risulta
in ogni modo evidente, che se Croce che pure ha scritto un enorme trattato di
Logica avesse avuto una cognizione
chiara ed esatta dei processi logici onde il nostro pensiero tende come ampiamente vedemmo innanzi ad
affermarsi, appunto, compiuto e coerente organismo logico, indubbiamente,
prima stesso di negare ogni valore alle forme grammaticali del
linguaggio, egli si sarebbe ben guardato di non riconoscere alcun valore
alla distinzione delle tre fasi di sviluppo dell'attività conoscitiva.
Fasi, che, in verità, noi possiamo ridurre senz'altro a due, in quanto,
produttrici entrambe, le due prime, d’espressioni per #rasporto o
metaforiche, la distinzione fra esse viene ad essere, naturalmente,
puramente empirica: e, per ciò, mentre l’una
sintesi delle due prime
rimane creatrice di roi poetici: frutto, appunto, d’intuizioni per
serzgdianza di cose conosciute ; l’altra affermasi creatrice d'immagini
proprie: frutto di diretta intuizione della realtà. Ora, con tal
riconoscimento, è chiaro che il pensiero crociano avrebbe evitato
senz’altro di cadere in una posizione davvero sconciamente
contradittoria. Giacchè, mentre, da un lato, egli ammette bene, col Vico,
che alle origini il pensiero umano, non saffiendo la causa delle cose,
non può, di zecessità, non intuire o concepire la realtà che per
immagini (e solo metaforiche, già), ragione per cui l’uomo non può,
originariamente, non essere foeta (e cioè facitore appunto o creatore d'
272722g7777,come udremo più in là proprio dal nostro), dall’ altro,
contrariamente al Vico, e, quindi, in Fi RARO VAL ARE cn pp
o ped Be 5 iti vien ile x he Masi RUE ITA TIA RITA fg AI
#i% Mes E contradizione con tali premesse, prende senz’ altro a
concludere che l’arte (frutto, adunque, per quest’ultimo, della seconda
fase di sviluppo del pensiero, o, possiamo dir pure, del secondo momento
dialettico del pensiero, in sintesi, già, col primo, giacchè solo allora,
in verità, esso riesce a creare l’immagini proprie delle cose o della
realtà) è « il momento È della barbarie e ingenuità dello spirito: come
dire quel tale « persar da bestie », tutto proprio di quel primo momento,
in cui, per recessità di natura, €
necessità insuperabile lo spirito non
può creare che per simzglianza di cose conosciute, e, per ciò, non altro che
#raslati. E cioè quei tali tropi poetici, o immagini metaforiche, o figure
retoriche, che nessuno, mai, più recisamente e convintamente di
Croce ha dichiarato zon arte, anzi addirittura arzzartistiche 1 Ed è
così che si ragiona? E valeva, allora, la pena, tanti anni sono, di
mettere il mondo a rumore con quella crociata, veramente, e così 7zzz0rosa,
contro lo studio, nelle nostre scuole, della retorica, o anche solo
contro la più semplice considerazione generalmente accordata alle immagini retoriche,
se queste, evidentissimamente, sono originarie quanto necessarie forme
successive di sviluppo del pensiero conoscitivo, e per ciò frutto proprio del
primo momento, quello appunto di barbarie e ingenuità dello spirito,
incapace, com’ esso è tal momento, sia « d’ intendere il ro delle cose,
che appellar (queste) con voci propie? Onde un esprimersi, naturalmente,
solo « con metafore attuose, simiglianze. Quindi, più eterna di così, in
quanto tale, davvero? Giacchè, infatti, « fer necessità di natura, la
mente umana in entrambe le fasi o = it, Za GEA e IT. Si
Pu, se e SVIENE SI e_N II Cap FA e na
al sti RETTE eeti sas momenti di sviluppo
della sua attività conoscitiva, non può |
abbiamo visto riescire ad esprimersi altrimenti che dex immagini.
Ma non per questo, però, le due specie d’immagini, o forme d’ espressione
poetica, dei rispettivi due momenti, sono senz’altro da identificare; giacchè
le immagini assolutamente allegoriche e, per ciò, del tutto fantastiche della |
a Metafisica poetica: espressione propria del fr7720
momento; rimangono sempre, pel nostro, di fronte a quelle del
tutto ragionate della Logica poetica: espressione del secondo
momento frutto genuino di un fersar da
bestie, ch îa per ciò appunto, oggidì, afpera intendere si può, affatto
imma: guare non si fuò. Giudichi, quindi, ognuno, con quanto
arbitrio ed insensatezza Croce ha preso a identificare le due forme d'
espressione, onde di rimbalzo, nel campo de cultura (dove, purtroppo, per
inerzia o per incapacità mentale, È: si reputa ed usa in genere di pezsare
e sapere col giurare in verba magistri, anche se, talvolta, il maestro è
tale, com non di rado oggidì, cui, a nostra volta, saria vergogna
ess maestro +) quella orrenda confusione tra Arte e Poesia, pi cui
anche persone dell'altezza mentale, per esempio, di t Cesareo (che può
vantare, fra altro, anche lui la concezia di un saggio sull’Arte)
è giunto con un’ ingenuità
dovrebbe essere del tutto impossibile in un uomo di cultu veramente sino
ad affermare: quella dell’uomo de caverne poeta è una figurazione graziosa
ma alquanto can- | zonatoria. Canzonatoria?!! E perchè, di grazia?
Avrebb'egli pretes per caso, che quell'uomo, più che fer immagini, e come
alt mai sublimi divine nel senso
vichiano, già: e cioè del tu metaforiche si fosse espresso per concetti,
e magari add Saggio sull’Arte creatrice, Zanichelli, Bologna. RIVE,
et rittura nella maniera concettuale dello stesso maestro dell’ 27/0
puro, od anche dei suoi cuccioli metafisicanti, dato che a questi riesce
in particolar modo impossibile concepire la realtà per immagini ? Tanto
vero, che se, talvolta, vi si pro- vano, chi non sa per confessione loro stessa quali immagini plebee vengon
fuori? Ora tale confusione, e nei domini della più alta cultura, non
prova, evidente, che il concetto di poesia, qual'espressione puramente per
immagini, non è stato fin qui, ch'io sappia, E, in verità, come mai il
Cesareo, che, col suo Saggio su 2° Arte creatrice, ha pur creduto di
poter fissare i lineamenti di una nuova Zsfefica ben diversa da quella
del Croce, e pigliando, già, anche lui, le mosse dalla filosofia del
Vico, la quale, al pari del primo, egli pure ha creduto di poter, qua e
là, correggere ed integrare, abbia, nondimeno, finito coll’intendere
anche lui il concetto vichiano della poesia precisamente a mo’ di Croce,
e non già nell’accezione mille volte datane dal Nostro di immagine
allegorica o meta- forica, io non son riuscito a comprendere. E sì, per
giunta, che anche in questo caso il Vico, come prevedendo l’obiezione del
Cesareo come, già, l’altra del Croce non ha mancato nè pure di indicare
esplicitamente le ra- gioni per cui la poesia nacque prima della prosa.
Da tutto ciò e cioè dalla prova datane innanzi del carattere origizario e
necessario delle figure retoriche, per cui |’ indistru/tibilità di queste
sembra essersi dimostrato La Locuzione poetica esser nata per necessità
di natura umana prima della prosaica ; come per necessità di natura umana
nacquero esse Favole Universali Fantastici, prima degl’universali ragionati, o
siano Filosofici ; i quali nacquero per mezzo di essi far/ari prosaici;
perocchè essendo i Poeti innanzi andati a formare la Zavella poetica con
la Composizione dell’ idee particolari, come si è a pieno dimostrato; da
essa vennero poi i fofolî a formare i parlari da prosa col contrarre in
ciascheduna voce, come in un gezere, le parti, ch’aveva composta la
favella poetica ; e di quella /rase poetica, per esempio, mi bolle il
singue nel cuore, ch'è parlare per propietà naturale e/erza, ed
universale a tutto il genere umano; del sangue del ribollimento e del
cuore fecero urna sola voce com’un genere che da’ Greci fu detto oouazoi,
da’ Latini #ra dagli Italiani co//era.
Con ugual passo de’ geroglifici e delle /eflere volgari, come generi da
conformarvi innumerabili voci articolate diverse, per lo che vi abbisognò
fior d’ ingegno: co’ quali gezeri volgari e di voci e di lettere,
s'andarono a fare più spedit: le menti dei popoli, ed a for- marsi
astrattive; onde poi vi si poterono provenir i Zi/osofi, i quali formano i
gereri intelligibili: lo che quì ragionato è una particella della. Storia
dell’idee. cita e e bd Sa id dtt bici e
di dii sÎ # te orti Ja
NOI alt s Ù 4 î À * »)
5 x " A i re cs = dee la 7 faro fida: 0h
compreso mai da nessuno? Giacchè, generalmente, s'è preso ritenere come si ritiene poesia, unicamente le espressi per
versi, strofe, rime ecc., che non solo udimmo da Vico sono le x/#me
espressioni della ragion poetica, quan altresì, può darsi bene il caso
che con tutto ciò, e cioè più sonori versi di questo mondo, non si riesca
punto a f della poesia, e cioè creare un organismo di immagini (
goriche o proprie che possano essere), e solo, invece, organismo puro e
semplice di concetti. Infatti non si ritiene, forse, poesia, ed essenzialmente
tale, dall’opera capitale di LUCREZIO (si veda), sol perchè espressa in versi,
e punto tale i loghi dell’ACCADEMIA, a' quali possiamo aggiungere quelli
du Leopardi, non che l’opera capitale di Schopenhauer, in quanto la
vincono, e senza paragone, sulla prima, per ricchezza e potenza
espressiva delle immagini? E, tuttavia, andate a dire nel campo della
cultura che queste ultime 0 sono poesia ben più vera della prima, e cosa
più mirabolante ancora esse sono, ad un tempo; opera d’arte, appunto
perchè le immagini ond?’e esprimono la vita del Reale, oltre che
singolarmente proprie, nutrite, anci più che mai di fersiero, invece che
di puro senzimento, come dal mondo turale, in genere, e da Croce, in
particolare, si pretende debbano esse; immagini dell’arte! Si vedrà alla
fine di questa nostra indagine critica a profonda rivoluzione filosofica
ha tratto il nostro pensiero codesto nuovo cetto dell’arte, nel
riesaminare che a noi, di conseguenza, s’impose stregua di cotal nuovo suo
fondamento conoscitivo, tutti gli altri proble pensiero, che comunemente
noi diciamo massimi: rivoluzione, peraltro, implii idealmente nello
stesso pensiero di Vico, inteso, già, nel senso da no: quì indicato, con
le stesse sue parole. Infatti, non escludeva egli, testè,
quivocabilmente, la conoscenza logica quale funzione origizaria, o conoscitiva
del nostro spirito, non essendo essa, per lui, che una mera plificazione
pratica, od espressione puramente schematica della conoscenza | tiva? e
cioè per dirla con le stesse sue
parole una forma co delle parti
della favella poetica, in quanto « composizione delle 3 ticolari (0 note
predicative, diremmo noi oggi) delle immagini intuiti ciascheduna voce,
come in un genere: il corcezfo, appunto? Il che, d’al in maniera
inoppugnabile mostrammo anche noi, innanzi, per nostro Quindi forma vera
e propria di conoscenza, 0 conoscenza veramente 0 del nostro spirito,
unicamente quella iniziva, che raggiunge appunto la. piena sua
adeguatezza e compiutezza nelle immagini proprie, 0 dell’a ragione per
cui, anche, il nostro credè di darle lo stupendo quanto af.
po Eppure, fin dai suoi tempi, il Manzoni non solo avvertì come ricorderemo più dltre che il canto
desti- appellativo di « lingua maferna del genere umano », escludendo
eziandio, così, che, in quanto tale, possa esservene un’altra. E,
poi, la stessa /ogica interna della dottrina estetica di Croce pur affermando egli il contrario a
parole non trae, furse, alla medesima
conseguenza? Egli ci disse, infatti, innanzi, che il concetto è inconcepibile,
fuori dell’ intuizione, o immagine, perchè quivi soltanto, e in nessun
altro luogo, il suo « aere spirabile, salvo ad ammetterlo in un altro
mondo che non si può pensare e perciò non è ». Non solo, ma chiedendosi
anche altrove: Che cosa è la conoscenza per concetti x ? risponde: È
conoscenza di relazioni di cose, e le cose sono intuizioni. E continua:
Senza 2e intuizioni quindi 207 sono possibili î concetti, come senza la materia
delle impressioni non è possibile l’intuizione stessa (Breviario): onde la
conseguenza, perfettamente i regola: che l’attività logica, dipendendo
inevitabilmente da quella estetica, viene ad essere effettivamente
quest’altra attività, serbando, quindi, in fondo, un’ esistenza puramente
putativa o convenzionale. Conseguenza
intendiamoci che deriva direttamente da un principio, e del tutto
bene fondato, affermato da Croce stesso:
un'attività il cui principio dipenda da quello di un’altra
attività, è, effettivamente, quest'altra attività, e ritiene su sè
un’esistenza puramente $u/afiva o convenzionale (Brev.). Come, quindi, è
mai possibile ammettere, logicamente, altra conoscenza se non solo
pulaliva o convenzionale com'è di fatto la conoscenza per concetti oltre quella intuitiva o per immagini, e
riconoscerle, per giunta, un grad »
o valore conoscitivo superiore, a quello stesso di quest’ ultima,
col ritenerla il secondo gradino della conoscenza, nel tempo stesso che
la suprema istanza del pensiero? Ma se le intuizioni, s’è pienamente riconosciuto, quali immagini
$rogrie delle cose o della vita del reale, ci dànno già una conoscenza
perfettamente adegzaza e compiuta del loro obietto, e, per ciò stesso, di
carattere universale e necessario; e, intanto, codesto valore universale e
necessario val quanto dire
essenzialmente /ogico non devesi,
naturalmente, che al concetto implicito in esse, qual’espressione appunto
dell’essezza delle cose », tanto più che il concetto non può trovarsi od
esistere 7 nessun altro luogo fuori delle intuizioni; è lecito sapere
come e dove si potrebbe e dovrebbe trovare altra e superiore conoscenza
fuori ed oltre di questa offertaci dalle immagini intuitive? Solo, certo,
« 72 x altro mondo che non si può pensare e perciò non é. Ma potrebbe qui opporre Croce la conoscenza
logica o per concetti non è, forse, conoscenza di re/azioni di cose, a
differenza dell’altra per immagini, ch’ è intuizione dell’essezza delle
cose? Sia pure. Ma non è altresì vero che «l’operazione da parte della nostra mente di sciogliere i fatti espressivi (od
intuizioni) in rapporti logici % an * Ae Ue rp
i +0 nato a vivere eterno è quello che la lingua trae dal
fe profondo, quanto, altresì, che « /a poesia contata per nu per
raggiungere appunto la conoscenza delle relazioni delle cose, e pass
così, dal primo al secondo gradino della conoscenza: e cioè dall’ arte
filosofia si concreta, a sua volta, per affermazione sempre di Croce ce lo
mostrano, peraltro, ix concreto tutte le più grandiose, geniali
Weztaschauungen, o intuizioni della vita del mondo, che noi dobbiamo all'arte in
un’espressione? E l’espressione non è arte, o intuizione, e punto, già,
; sofia, quindi affatto wferiore grado di conoscenza? Ed affermare,
intanto, che il pensare scenzificamente prende di neces. una forma
estetica, non è, semplicemente, una contradizione in fermi posto che
l’espressione od intuizione non può în nessun modo contenere pensiero
scientifico, e cioè quelle astrazioni a cui essa per dichiarazioni Croce sempre
estremamente ripugna, anzi mon conosce nemmeno #9] Sono contradizioni,
queste, sì stridenti ed insanabili, evidentemente, cui solo la mente del
Croce è in particolar modo capace, come abbiamo vi sin qui. Rimane,
così, pienamente assodato, che per la stessa /ogica interna de dottrina
estetica di quest'ultimo e ce ne assicura egli non meno de mente e
inconfutabilmente anche più oltre, in più altri modi non originariamente,
e per ciò stricto sensu, che un’ zziea forma di cono e suprema istanza,
già, essa stessa, del pensiero: la conoscenza per imm poichè l’altra per
concetti è, in realtà, meramente pufaliva o convenziona Croce ha creduto
di far ammettere anche a Vico un secondo gradino conoscenza, solo per
aver egli preso a scambiare, nell’ interpretare la filo vichiana, il
secondo momento dialettico dell’attività conoscitiva (7r24%i%v4 s che, in
sintesi col primo (la poesia), ci dà le immagini proprie dell’ar cioè la
forma conoscitiva più adeguatamente piena e compiuta che sia di
raggiungere al nostro pensiero con un grado per se stesso wlferior
formalmente diverso della nostra attività conoscitiva. i E sì fatte
illusioni di ottica mentale proprie di
Croce, anche si deb principalmente a quella gioconda quanto facile sua
trovata per interpreti suo dire, il pensiero degli scrittori antichi di
quel tale dialogo di. parla proprio nell’Avvertenza a La filosofia di
Vico dialogo tl antico e nuovo pensiero nel quale solamente l'antico
pensiero viene inte compreso, col piegarlo,com’egli usa, puramente e
semplicemi fargli significare ciò ch'è soltanto nel cervello di lui e
punto già nel p o nella dottrina di quegli scrittori, onde la piena
assoluta sua convinzio aver egli, così, e come altri mai, infallibilmente
inteso e compreso il di quelli, non senza peggio ancora far appello, quando
occorra, all’illusioni, proprio come nel caso in quistione, ri di
sillabe deve finire, rimanendo eterno il suo spirito nella prosa. E Tommaseo,
che gli ha dato sempre ascolto, in quell'occasione non seppe tenersi
come, in altro modo, oggidì Cesareo dal ribattere. Il metro, il metro
ancora più che il ritmo, è un bisogno, non tanto del senso
quanto dell'anima umana e della ragione stessa, che, come immagine di Dio,
ama le cose in misura ed in numero. Quale stranezza! nota, a sua volta,
Borgese. Che c’entra l’infinità di Dio con le dieci o undici dita,
coi numeri della prosodia scolastica e della tombola di famiglia? Lo
spirito si espande, elude regole e strettoie; le dighe fra prosa e poesia
cadono; la prosa diventa il grande organo a mille canne da cui la ragione
parla e il cuore canta. E con ciò si noti nonsi vuol concludere che
la poesia contata per numero di sillabe debba necessariamente
perire. Le matematiche sublimi non aboliscono l’abaco, la danza delle
sfere non prescrive i ballabili, e l’ alto giardinaggio ammette i fiori che si
contano per numero di petali. Bene, quindi, può nascere la pagina del
cielo di burrasca sopra il Lazzaretto nei Promessi Sposi; e accanto
ad essa può sopravvivere, o vivere, il semplice stornello. E non,
forse, lo stesso Canto e perfino il verso, come, già, tutte le figure
retoriche, formano, pel Nostro, parte di « tutta la suppellettile della
favella poetica? Penultima forma espressiva, infatti, della « agion Poetica è il
canto e per w/timo il verso. Ed è ben noto, invero, che i mutoli mandan
fuori i suoni informi carzando ; e gli scilinguati pur cantando
spediscono la lingua a pronunziare; e che, in generale, anche, gl’uomini
sfogano le grandi passioni Degnità dando nel caz/0, come si sperimenta
ne’sommamente addolorati et allegri, E però, mentre, in un primo momento,
gl’uomini mutoli dovettero come fanno i mutoli, mandar fuori le vocali
cantando; di poi, come fanno gli scilinguati, 3 dovettero, pur caz/ando
mandar fuori l’articolate di consonanti. Di tal primo canto de’popoli
fanno gran prova i dittonghi È ch'essi ci lasciarono nelle lingue; che
dovettero dapprima essere assai più in numero; siccome i greci e i francesi,
che passarono anzitempo dall’età poetica alla volgare, ce n'han lasciato
moltissimi, come nelle Degnità si è osservato; e la cagion si è, che le vocali
sono facili a formarsi; ma le consonanti difficili; e perchè si è
dimostrato che tai primi La uomini stupidi, per muoversi a proferire le
voci, dovevano sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si
spiegano con altissime voci; e la natura porta, ch'ove uomo a/zi assaî |la voce
egli dia ne’ dittonghi e nel canto, come nelle Degrità si è accennato ;
onde poco sopra dimostrammo, i primi uomini. Greci nel tempo de’ loro Dei
aver formato il fri0 verso eroico spondaico col dittongo ra, e pieno due
volte più di vocali, che consonanti. E codesto primo verso dove nascere
convenevole alla lingua ed all'età degl’eroi – COME NAPOLEONE, qual È è il
verso eroico, il più grande di tutti gli altri, e propio dell’eroica
Poesia; e nacque da passioni violentissime di spa- 1 vento e di giubilo,
come la Poesia Eroica non tratta che Ri # passioni perturbatissime ». E
nacque, anzitutto, « sfondaico » } I, dappoi facendosi i% spedite e le
menti e le lingue, v’ ammise il dattilo; appresso spedendosi entrambe
vieppit, nacque il Bi giambico, il cui piede è detto presto da Orazio,
come di tali Ti n % P #9 se Degnità. E
continua: Queste due degnità, supposto che gli Mai autori delle nazioni
gentili eran andati ’n uno stato ferino di destie mute; e che per quest’
istesso da/ordi non si fussero risentiti, ch’a spinte di violentissime
passioni, dovettero formare le prime loro lingue cantando di i
4 Origini si son proposte due Degnità; finalmente, fattesi quelle
speditissime, venne la prosa; la quale, come testè si è veduto, parla quasi
per generi intelligibili; ed alla prosa il verso giambico s'afpressa
tanto, che spesso 7ravvedutamente cadeva ai Prosatori scrivendo. Così il canto
s'andò ne’ versi affrettando coi medesimi passi, co' quali si spedirono
nelle Nazioni e le lingue e l’idee, come anche nelle Degwità si è
avvisato, Tal Filosofia ci è confermata dalla Storia. Ed è perfettamente
vero. Perchè noi, pur avendo seguìto altra via del tutto diversa dalla
sua, siamo pervenuti alle medesime conseguenze. Non, quindi, ha ben
ragione anche ANNUNZIO (si veda) di affermare, e del tutto
sprezzantemente: Io sono di continuo minacciato dal sistema metrico
decimale dei pesi e delle misure. Sono di continuo sospinto verso la
bilancia e verso la stadera, verso l’endecasillabo e verso l’ottonario,
verso le clausole ciceroniane e verso le cadenze predicatorie. Odo
vantare la coscienza, odo celebrare l’ inspirazione, odo affermare la
rivoluzione. Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le
carrucole perpetue e le rotaie inflessibili. Ma che farci, se, pur troppo,
come giustamente assevera Borgese — non si dà, in generale, verità quanto
si voglia decisiva, che riesca a sradicare del tutto un errore;
fosse pure il più secco e stremenzito? E, di fatti, il rivelarsi e
progredire della verità non raggiunge altro effetto che quello, soltanto,
di rendere più secchi e noiosi gli errori! E non, forse, perchè codesti
errori sono in particolar modo alimen- tati e mantenuti in vita proprio
da coloro che prima e più degli altri dovrebbero ripudiarli e concorrere
a farli ripudiare, in Per l’ Italia degli italiani: Bottega di poesia» - Milano. VER” g° CE
TAI Py 9 È ERO POTTER REI TI Ma i / quanto
ritenuti, essi, con qualsivoglia fondamento, maestri È del: pensiero,
rimangono essi proprio i più tenaci e pervi=. caci propagandatori fra i
proprî discepoli o seguaci? Infatti, non, forse, proprio GENTILE (si
veda) che prima e più calo- È rosamente di ogni altro, anche, prese a
giurare 27 verba Crucis, coll’ affermare che il maggiore studio che ci
sia i; intorno al pensiero vichiano è precisamente quello di Croce ha
continuato e continua imperterrito ad alimentare il grave errore in quistione?
E come egli, che ha pur letto e meditato tanto la filosofia di Vico, sia
riuscito ad intenderla e comprenderla proprio nello s/esso modo di Croce lo
sa lui. A noi qui, ora, preme soltanto far notare, che se egli fosse
riuscito a cogliere il significato filosofico e valore conoscitivo della
famosa chia maestra, o principio primo di quella filosofiia,
avrebbi subito compreso, persuadendosi senz’ altro, che se ANNUNZIO (si
veda) ad esempio non avesse scritto pur un verso, ma solo i romanzi a noi
noti, egli sarebbe rimast ugualmente il più prodigioso poeta che abbia
mai visto la stes prima età del genere umano: e cioè il più sublime,
divino quanto inesauribile creatore d'immagini: immagini che em
co gono singolarmente mirabili non solo da brevi insieme di vo ma
quasi, anche, da ogni singola voce, allorchè, almeno, que sono di sua
creazione. E ne abbiamo, tante, in verità, cre da lui singolarmente
immaginose; onde, non a torto, egli ferma di sè: « #ulto m'è visione, e
tutto m'è simbolo. Ma ANNUNZIO (si veda), però, è anche artista, oltre che
poeta, e arti st non meno possente del poeta, per quella « divina
proporzioi che le immagini da lui create recano insuperabilmente,
insuperabilmente, per ciò, immagini proprie delle forme de realtà, che
esse ci vogliono raffigurare, dato che la porzione a dire di Croce stesso, che
ripete sempi mente un concetto di Vico — è la caratteristica
fondamen- tale delle immagini deil’ arte. Ciò posto, come o donde
la esilarante conclusione del filosofo di Pescasseroli : che l’ arte può
ritrovarsi, anche, in un organismo intellettivo o di con- cetti, e
questo, per ciò, irdifferentemente, può ritenersi arte o scienza, a
seconda che si prenda a cortemplarlo od esami- narlo nella verità che
esso esprime ? Uditelo un pò: « Ogni opera di scienza è insieme opera d’
arte. Il lato estetico potrà restare poco avvertito, quando la nostra
mente sia tutta presa dallo sforzo d'intendere il pensiero dello
scienziato ed esa- minarne la verità. Ma non resta più inavvertito quando
dall’ attività dell’intendere passiamo a quella del contemplare, e vediamo
il pensiero o svolgersi innanzi limpido, netto, ben contornato, senza
parole superflue, senza parole mancanti, con ritmo e intonazione
appropriati, ovvero confuso, rotto, impacciato, saltellante. Il che
significa, dunque, nè più nè meno, che l’immagine ed il concetto, e cioè
un fantasma lirico, e un pensiero VICO, infatti, nell’orazione in morte di
Cimini, richiamandosi come di frequente al concetto proprio della poesia, la
quale udimmo raggiunge, per lui, il sommo divino suo artifizio allorchè, a
somiglianza di Dio, dalla nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo
hanno, tiene a chiarire e precisare : quelli’ Idea, però, che impossidil
cosa è esserci venuta in mente jer li sensi mortali (come le nostre
proprietà) i quali, quanto s' intendono di tutt’altre cose de’ corpi
#2n/0 z0n san nulla affatto delle certe misure e proporzioni de’ corpi
onde forse per ciò i valenti dipintori che sanno l’ ideal bellezza in
tela ritrarre hanno il titolo di divizi » ve di quì 1’ espres- sione:
divina proporzione ricavata da Croce. Il che vuol dire, in termini
nostri, che solo allorquando noi riusciamo colla nostra mezze, o riflessione,
più che coi sensi, a cogliere l’espressione propria o caratteristica
delle cose, la quale viene a noi fornita unicamente dalla ricerca
dell’ordize e valore logico delle stesse loro zo/e costitutive chè questo
e non altro vuol significare, quì, la cera misura e proporzione dei corpi
noi si raggiunge l’immagine e conoscenza vera e propria di esse
cose, Estetica e Breviario è. Bien e eg RI
1 IT peleee 9 PE NI sl a RI IE O IA TIRATI PIPE TINI de VIT
Lau MARTI n Th CAV; - critico sono la stessa cosa,
formalmente e sostanzialmente; come dire: maschio e femmina la stessa
persona. Infatti Croce non inizia addirittura la sua Zstetica
proprio col richiamare la nostra attenzione sulla natura @ carattere
espressivo assolutamente diverso, che distingue la imagine dal CONCETTO, in
quanto la prima è linguaggio del sentimento, e per ciò conoscenza intuitiva o
dell’individuale, e l'altro LINGUAGGIO dell’ z72/e//etto, e per ciò
conoscenza dell’urnversale Non solo, ma non aggiunge, anche, per maggior
distinzione, che l'una rappresenta il $ri720 grado della conoscenza e
l’altro il secondo? È. E, come, allora, anche sotto tale aspetto
l’ux può essere, ad un tempo, de, e il due 0? Sono, evidente.
mente, contradizioni e assurdità inconcepibili, che potrebber nondimeno,
sparire solo nel caso che si volesse ammetteri una precisa distinzione tra
forma e contenuto, sì da ritenere. l’arte non altro, invero, che mero
involucro delle forme. superiori e complessedel pensiero. Cosa che Croce,
per primo, e più recisamente che mai, nega, affermando con SANCTIS (si
veda) che il contenuto è la forma e la forma è il contenuto, giacchè
l’intuizione e L’ESPRESSIONE vengono l'una fuori con l’altra, perchè non
sono due, ma uno. E poichi intanto, l'intuizione, od espressione, non può
rappresentare. che stati d' animo, vale a dire nient'altro che la
fassiozali il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte
e determinano il carattere lirico », come, per ciò stesso, e può
darci, mai, e, peggio ancora, ad un tempo, il fe dell'artista e del
filosofo, se la contradizion nol consente? di fatti, l’attività intuitiva
od espressiva, al pari dell’ incoe cibile potere posseduto dal re Mida di
trasformare in oi Estetica tutto quello ch’egli toccava con le mani, non
può darci, inevitabilmente, che 7m2m0agizi, e solo immagini e
sempre immagini, e cioè a7rfe e solo arte e sempre arte. E non,
forse, proprio ciò intende affermare Croce stesso là ove dice che L’ESPRESSIONE
non si può neppure paragonare all’epidermide degli organismi, salvo che
non si dica (e forse la cosa non sarebbe falsa neppure in fisiologia), che
tutto l'organismo in ogni sua cellula e in ogni cellula di cellula è
insieme epidermide? Onde la conseguenza inevitabile, e del tutto #2 forma,
che noi, come Prometeo sulla scizia rupe, restiamo sì strettamente ed 7
eferzo incatenati al 97120 gradino della conoscenza da non poter neppure
levare gli occhi a mirare, più che raggiungere, il secondo gradino. Onde
l’ assurdità, per altro verso, da parte di Croce, di porre l'assoluta identità
di arte e linguaggio, defimibili luna per l’altro come dire l’arte col parlare
per sè stesso; giacchè, mentre, da un lato, noi in forza di tale
premessa non possiamo raggiungere, in ess wm20do, il secondo gradino della
conoscenza, e cioè diventare scienziati o filosofi (e, forse, per ciò
Croce non può dirsi filosofo), dall'altro, in compenso, rimaniamo tutti
ver7 e grandi artisti. Che ve ne pare? Non senza fondamento, adunque, il nostro
afferma che la poesia e la metafisica sono naturalmente opposte fra
loro, e per ciò non è mai uno stesso valente uomo insiememente e gran
metafisico e gran poeta della specie Breviario Si noti che questa stessa
sorprendente conclusione negativa, cui, contro ogni previsione e
intenzione di Croce, mena direttamente quanto inevitabilmente la logica interna
della sua dottrina estetica, viene indirettamente accennai a confermare
anch'essa, e magnificamente, tutto il valore gnoseologico del fondamento
teorico di quella tremenda rivoluzione filosofica cui accennammo innanzi, Si
vedrà, si vedrà | sa A bri L |1 NI CITI NL
a MAREA ou Ci EI amo INT TIE Tapi. PH i a Mi
Ò Vedi i Tp, mi I “è Vi SA al ..
e mid e il gua U massima dei poeti nella quale fu
frireipe e padre Omero E potrebb'essere, forse, altrimenti? In possesso
com'è metafisico, o filosofo, della più larga esperienza delle
cose, come potrebb'egli mai concepire la realtà al pari di coli che
è rovesciato nell’ignoranza di tutte le cose, come allorchè si è nella
fanciullezza, per cui la mente, tutta piena di pregiudizi, vi si immerge e
rovescia dentro, mentre, nell'altro caso, « resiste al giudizio dei sensi
e ne fa accorti di non fare dello spirito corpo, onde i pensieri sono
4 tutti astratti, invece che corpulenti, come nel primo caso, in quanto
non altro che immagiri e metaforiche? Ora, generalmente, a cominciare da GENTILE
(si veda) che, oltre vent'anni sono, l’oppose proprio a noi, recensen la
nostra opera su LEOPARDI (si veda) facendosi eco alla interptazione. crociana di
VICO (si veda), tale opposizione tra il poeta e filosofo non viene intesa
STRICTO SENSU (GRICE) e illimitatamente? cioè ritenendosi il poeta non
già nel senso vichiano cui vera quell’ opposizione di creatore d'immagini
a/leg riche, e nutrite, già, essenzialmente di senso, quindi per
nulla verilà, o conoscenza vera, o 72 ze, perchè assolutamen o frutto di rifessione,
e per ciò arte, come potre mai essere in opposizione con le sentenze o
conce di quella mente dritta, ordinata e grave qual a
filosofe conviene, e cioè non valere conoscitivamente nè nè meno che
i concetti stessi, se questi altro non sono c l'essenza astratta od
estratta da quelle, onde solo renza tra essi quella puramente /ormza/e,
per cui mentri prime sono espressioni particolari, o individuate JE.
SL e a rta SETE Pr Sad e, È belt e quindi concrete, le altre generali od
universali, e per ciò astratte? Intanto è accaduto e qui l'origine
del disastroso errore che oggi domina sovrano nel campo della cultura,
in generale, e della conoscenza estetica, in particolare che,
compiutosi il primo passo sulla via dell’ identificazione della poesia
con l’arte, e cioè annullata ogni distinzione fra le immagini
allegoriche, prodotto di « forte inganno di fantasia », (per la mancata
conoscenza, ancora, delle cagioni naturali delle cose, e le immagini
proprie, frutto di riflessione, (e, quindi, conoscenza vera e propria di
esse cose), s'è proceduto senz'altro sino in fondo, coll’attribuire a queste
ultime non solo lo stesso corzezzio delle prime, ad esse fornito
essenzialmente dai sensi, o dal sentimento, quanto, peggio ancora, s'è
preso, altresì, a ritenerle frutto di mera fantasia, senza nè pur l'ombra
dell’intelligenza o della riflessione, e, di conseguenza, senza nessun «» od «
aurori Aurorale una conoscenza che non ignora nè la trasce medievale,
nè la saggia esperienza della vita, non i 74, menti voluttuosi o la
sensibilità animalesca, al pari dell’ eroisn Breviario e del fersiero
della morte; così la commossa dolcezza di un amore tenero e soave, nello
sfondo di una vita tranquilla e serena, come il grido terribilmente
straziante e disperato per la infinita vanità del tutto: cioè, insomma,
nessuno ignora anche dei più vari aspetti e delle forme tutte, le più
diverse, di esperienza. della vita? E se, adunque, l’arte, pur nella
virginea sua purezza di sentimento, si mostra pregna di ogwz sapere,
compreso quello vo/zttuoso, e, per di più, fornita di un gusto, che,
nella sua bocca eloquente, rivela, chiaro, la maturità e perfin la
corruzione, ed in tutto il suo essere vibra l’aridezza di una febbre
insistente che la spinge smapniosa a spremere il succo di tutti gli
ingannevoli frutti che maturano lungo il sentiero della vita, al calore
della più travagliata esperienza umana, come si può non convenire
assolutamente col Vico che l’arte, sia per la filosofia che per la
séorza, come ci disse innanzi più che il momento di barbarie e ingenuità
dello spirito, è, invece, precisamente l’altro: quello della maggiore
consapevolezza e più compiuta esperienza della vita del reale? Di fatti è
solo in questo momento che è dato alla mente umana di cogliere l’immagine
vera e propria delle cose, o il loro caratteristico, onde la più piena e
per- fetta conoscenza che, progressivamente, noi si viene ad avere
della realtà. E poichè, intanto, anche pel Croce, codeste intuizioni che
ci danno le immagini proprie delle cose sono udimmo le vere e sole
intuizioni estetiche, non è, per ciò stesso, da convenire che, anche per
lui, il momento dell’arte è proprio questo e non il primo, che in
wesswur modo, invero, può darci immagini frofrse della realtà? Non
solo: ma non arriva, al pari di noi, sino ad ammettere, sia pure a mezzo
di una tremenda contradizione come empre allorchè gli vien fatto di
scoprire il viso della verità che abbiamo anche una grande arte: ed è
precisamente butta sal -4 ITS. le du dl! quella più che
mai nutrita di fersiero o di filosofia, invece | 3 che di sentimento
(onde il più completo rovescio della tesi sostenuta 27 principio nella
sua £Zstezica? Così ad esempio le grandi tradedie del bene e del male y
si dello Shakespeare (Otello, Macbeth, Amleto, Re Lear) sono, per lui,
come ognuno ricorda senza paragone pi pregevoli, esteticamante, che non
quelle di pura ispirazione storica (Antonio e Cleopatra, G. Cesare,
Coriolano), le quali, a lor volta, ci attraggono senza paragone più delle
comedie d'amore, tra cui vediamo pur grandeggiare e splendere,
mirabilmente vive, figurazioni estetiche come Giulietta e Romeo, i Il
Mercante di Venezia e simili, che non la cedono, per intrinseca bellezza,
nè pure ai più grandiosi fantasmi tragi a dire di lui stesso. E così del
Goethe: il possente fantasma tragico di /azsf, quale espressione,
appunto, di quella urgente e mai appagata ansia dolorosa (die
Sehknsucht), o di qu profondo e segreto travaglio spirituale, che « ange
e marti la coscienza di quelle nobili esistenze, che una volontà,
quasi fatale, sospinge per entro £ profondi abissi alla ricerca
deli dimora delle Madri, e cioè dell’ /4eale, non giudica, egli, se
paragone superiore alla bella favola di ZAermanz un Dorothea, che pure fu
oggetto del più vivo ertusiasmo, non solo da parte dei filosofi e dei
letterati, ma eziandio di tutta la brava gente: degli onesti borghesi,
delle madri di famiglia, delle zitelle e zitellone dei maestri di
scuola i quali vi trovavano ciò che essi vagheggiavano e desiderava
una esibizione di onestissimi sentimenti e di sagge opere S l’amore che
si fa subito fidanzamento, la cura dei genitori per la felicità dei loro
figliuoli la virtà disavventurat: premiata e una ricca copia di
osservazioni e massime quelle che si accolgono dicendo: è vero senza sfor. rente paradosso. È la
fortuna che una volta Hegel disse mancare ai filosofi e abondare ai
predicatori, che subito soddisfano e commuovono a edificazione, perchè ripetono
cose dî cui gli spetttatori sono persuasi e che hanno
familiari. Perfettamente vero, adunque, che la grande arte è quella,
proprio, più intensamente nutrita di erszero, invece che di sentimento,
onde non a torto MANZONI (si veda) credè nell’Urania di cantare: pncroe
sol quaggiù quel canto Vivrà che lingua dal pensier profondo Con la
fortuna delle Grazie attinga; e Schiller, a sua volta, quasi a concludere
: quello che not oggi ammiriamo come Bellezza ci verrà incontro domani
come Verità; onde il fondamento dell'antica credenza che il vate o
poeta fosse indovino. Giustamente, quindi, noi, fin dai primi nostri
scritti sull'arte, affermammo non solo la necessità di
rintracciare V. Goethe, Laterza, Bari; e Shakespeare, (in ARIOSTO (si
veda) Shakespeare e Corneille) Laterza, Bari. E se questa è la grande
arte, come il Croce in lungo e in largo ha creduto di mostrarci con
l’esame delle due maggiori opere d’arte della lette- ratura inglese e
tedesca, è lecito sapere perchè, poi, la lirica filosofica del Leopardi,
come altra mai, forse, così intensamente nutrita di fersiero, ed
espressa, per di più, come quella di niun altro poeta, per immagini, è,
per ciò stesso, da meno delle sue liriche amorose, anzi, addirittura « z0x
poesia », contrariamente a quanto egli ha affermato per i due poeti
stranieri ? E così, anche, l’arte d’ALIGHIERI (si veda): perchè questa
sale, e sale alto, molto alto, con le immagini di senlimzento, e cade, poi,
cade tanto, fino a diventare anch'essa w0x poesia, con le immagini di
fersiero, sì che Padre Dante finisce col rimanere al di sotto o da meno
di Shakespeare e di Goethe? Lo sa egli solo, Croce, pel quale, per ciò,
del tutto erroneamente è stato affermato del divino Poeta; A veder tanto
non surse il secondo? Ah! la fede nel libro tedesco inculcata a Croce da
SPAVENTA (si veda) e rafforzata da LABRIOLA (si veda)! (V. Contributo
alla critica di sne stesso; Laterza, Bari). È stata davvero accecante
cotal fede per lui! E potremmo dir anche perchè, ma non occorre: può
facilmente supporlo ognuno un assoluto criterio di valulazione estetica,
quanto, al tal criterio, invenimmo e fissammo precisamente nel grado d’universalità
razionale posseduto o epresso dal motivo is ratore dell’opera d’arte: e
cioè non si crederebbe proprio in quell’elemento o fattore,
l'intelligenza, che da tutti in generale, per quanto senza piena
convinzione da part di qualcuno e da Croce e sua onrevol gente, in
particolare, viene assolutamente escluso dalla funzione creatrice dell’ arte. E
però, s' è visto anche, a parole soltanto, chè, di fatto, colle
risultanze critiche dei suoi saggi sul Goet e lo Shakespeare, come
abbiamo visto testè oltre c colla logica interna della sua dottrina riconosce
pienament con noi che proprio la razionalità del motivo comunque si
voglia, questo, sommerso o identificato colla forma rimane la variabile
indipendente, come allora dissi, alla qu e si deve la variabile intensità
d’irraggiamento o potenza di attraimento o rapimento che un fantasma
d’arte, più che altro, a parità di perfezione, o dall’espressione in
ciascuno perfettamente Jr0fr72 o compiuta, esercita sullo spirito
umani che, in quel caso, appunto, per dirla col Goethe, viene
sentir davvero l'accordo con sè stesso e col mondo. E per ciò presi a concludere
senz'altro: le intzioni estetiche veramente sovrane son precisamente
quel) che ci danno il brivido di quell’oscuro desiderio e di q muto
anelito di redenzione dal male e di liberazione da gioco degli impulsi
inferiori, che fanno gravitare in giù coscienza umana, soffocata dal peso
greve della materia: che, comunque, dèstino in noi anche la più debole
eco di quel profondo dramma interiore che agita e convelle diutur
namente la coscienza umana, che, affaticata dall’ indigenza dell’ infinito, mira
al di là del finito, o del limite umano, e cio au dela de la vie et au
dela de la mort. Nessuna meraviglia, quindi, che le intuizioni estetiche
che prendono a celebrare questa insuperabile antitesi cosmica, e cioè
questa perenne lotta tra l’uomo mouzzenon e l’uomo faenomenon, nel
tempo stesso che cerca d’ indagare il woisterzo eterno dell esser
nostro, riescon più di tutte le altre, o come altre mai, ad
esercitare un profondo e invincibile fascino sullo spirito umano,
che, nelle immagini d’arte espresse da tali intuizioni, vede chia-
ramente rispecchiate le sue più intime lotte e i suoi più oscuri
tormenti, le sue inconfessate debolezze e le sue più segrete aspirazioni,
le sue più dolorose sconfitte e i suoi più nobili trionfi: e cioè, in
uno, l’immagine e il destino della propria esistenza; di quell’
esistenza, per giunta, di cui noi stessi, giorno per giorno, ed ora per
ora, veniamo liberamente intessendo la trama e amorosamente disegnandone
l’ immagine morale e spirituale, dato che l’arte udimmo da Croce
stesso altro non è, nè può essere, che espressione della vita del reale,
e per ciò della nostra esistenza spirituale, sopratutto. E, pertanto, noi
amiamo in particolar modo si sa ciò che, appunto, è frutto dei nostri
liberi sforzi, e poichè l’z07z0 libero per dirla collo Schiller ama è
legami che lo guidano, s' intende perchè, poi, noi prediligiamo senz’
altro con la stessa infinita tenerezza di un padre verso quello dei
figli, che venne al mondo sofferente precisamente ciò il cui possesso fè
più dolorosamente, e ad ogni passo, sanguinare i nostri
piedi. Ricordate, infatti, con quanta commozione, profonda tenerezza
e nobile soddisfazione, ad un tempo, il gentile poeta di Barga ricorda
alla sorella i tempi bui e sconsolati della lor triste e dolorosa
giovinezza? Tu scis ut doleant gaudia nostra, soror! E si noti, per
di più, che il sentimento che nasce dalla contemplazione del più arduo e più
universale conflitto, al pari di quello che accompagna e si manifesta
nelle forme della più alta curiosità intellettuale, è, per ciò stesso, il più
atto a tradursi in espressioni che sono le più elevate e più. vere del
sentimento estestico, Il quale, infatti, trova un estremo eccitamento, o
il massimo suo eccitamento, precisamente nell rappresentazione fantastica
della lotta impegnata dalla volontà e dalla passione contro la necessità dell’
ordine oggettivo. della natura, cioè nella rappresentazione idealizzata
della lotta per l'esistenza, val quanto dire completamente trasfigurata in
lotta morale. Per ciò, quello stesso sentimento che, nel dominio
dell’arte, crea quelle sovrane concezioni verament insuperabili nel loro
genere quali sono la Commedi dantesca e la tragedia shakespeariana, la
lirica filosofica di LEOPARDI (si veda) e quella della medesima natura di
Goethe quello stesso sentimento crea, nel dominio della morale, l’azione,
affermandosi come bisogno di operare, del sperare, di combattere e
soccombere utilmente, onde quell: sottile voluttà dolorosa: dolendi
voluptas, che sospinge, inelut À tabile, l’uomo a salir d2 collo in
collo, e celebrare, pur nell: rovina e dea morte della sua esistenza Di
il priag l'elemento o fermento perenne dell’ antitesi a cosmica E,
difatti, nella Commedia dantesca, come nella trage greca e
shakespeariana, nella lirica filosofica di LEOPARDI (si veda), come in quella
di Goethe, nelle quali, $; appunto, come Yale si accenna Mii Sonde
cosmico o°MAE EN carl. ra Figi x « EI sa ta Woo sin Lei =J i. Pacs
it che l’opprime, celebrando, così, tra le forze avverse o paurose
della natura, e al di sopra di essa e della sua muta eternità, il suo
trionfo; e da ciò, o per ciò, le immortali speranze che sospingono
anelante e senza tregua il genere umano lungo le vie che conducono al
regno della Verità, della Bellezza e del Bene, e cioè, per dirla in uno,
al regno di Dio. Ora, cotal mondo dello spirito dato pure che la
lingua fosse riuscita, comunque, a crearne l’ espressione non sarebbe
rimasto ammessa la tesi di Croce nè più nè meno che un nome vano senza subbietto,
ovvero, per dirla più esattamente con parole sue stesse un'utopia
della specie più stolta, perchè utopia del contradittorio », appunto
perchè in quel 7290 del mondo dello spirito, ch'egli è riuscito a
raffigurarci con la sua Zstezica, base o fondamento di tal mondo, tutto
come in lungo e in largo abbiamo potuto constatare — ci viene fatto di
trovare, razze, appunto, lo spirito? Il quale, pertanto, — e ne abbiamo
avuto, anche, ad ogni passo la prova, nell’aggirarci criticamente per
tal regno mai come nella sua assenza rivela la nececsità della sua
fresenza, precisamente sotto la forma altrettanto imperiosa quanto
inflessibile della recessità logica, e cioè a mezzo, appunto, di
quell’imperio universalmente riconosciuto, ch' è proprio del principio di
zo contradizione. G.: L'arte e la sua funzione creatrice:; Casa Edit,
Albrighi Segati e C. Veggasi anche, presso la stessa casa: il fascino dell’
arte di Dante, nel quale lavoro i principî teorici sostenuti nel
precedente volume hanno trovato la loro diretta applicazione nelle
maggiori opere d' arte antiche e moderne, E poichè, intanto, la
filosofia per Croce è nient'altro che coesenza mentale, la quale coerenza si
trova anche in uomini che vivono in una cerchia assai ristretta
d’esperienza e che la sicugggta degli addottrinati chiama ignoranti,
laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale, 7g70 ranti
siano gli addottrinati e non essi », non si deve, per ciò stesso,
concludere che Croce è senz'altro non filosofo ed gnorante, insieme? Chè,
in PS Verità, come non filosofi sono coloro che non soffrono dell’
incoerenza e n si travagliano nel superarla », così non può non essere
filosofo anche colù che non scriva di filosofia e perfino ignori il nome
di questa disciplina, e non- dimeno abbia compiuto e compia il lavoro di
porre ordine nel suo intelletto eu k di formarsi, come si dice, idee
rette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai dubbi, che hanno sèmpre
virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastic i di consegua sempre
quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione si ammira,
talvolta, la « filosofia » di certi modesti uomini, e perfino di popolani e
contadini, che pensano e parlano saggi e posseggono con sicurezza le verità
: sostanziali: non si tratta, in quel caso, di uso metaforico della
parola, ma d uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto l’uso
che se ne fa col largirla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai
recitatori di lezioni, deserti di spirito filosofico. Quando poi l'attitudine
filosofica giunge a quella forma ampia e inten che investe tutti o quasi
gli ordini dei problemi di un'età, si ha il filoso specificamente detto o
addirittura il genio filosofico, da non confondersi, certo, punto punto,
cogli scrittori e professori di filosofia. Pongo quest’avvertenza perchè non
vorrei che altri, rivedendo in immaginazione certi volti e figure non
interrompesse col riso quello che vado dicendo. Quel genio filosofico,
voglio dire, che sembra così remoto e alto sugli al uomini e pure è loro
così vicino, e raccoglie e unifica i loro sparsi cona = e converte in
precise domande le loro angoscie, e dà loro risposte, che A se anche non
intese dai più o alla prima, si vengono traducendo in comun convincimenti
e sentefize e modificano a poco a poco l’ ambiente sociale storico. Il
filosofo di natura*e vocazione è dominato dal bisogno della coé renza
mentale, e, simile al poeta, anche nelle più vivaci lotte pratiche, e ne
più acerbi dolori, non appena gli accada di avvertire in sè, per effetto di
es un dubbio, una contradizione, una incoerenza, materia a un problema,
si astr e si assorbe nella meditazione, e vi rimane assorto finchè non
abbia affermato o riaffermato il nesso logico che gli sfuggiva; e in tal
riassodato possesso ritrova la serenità e con essa la forza d’animo per
resistere nelle lotte e vincere i dolori e praticamente operare. Cwifica).
li Or poichè in forza di codesti principi del tutto bene fondati, fissati
da CROCE (si veda) stesso, è da escludere senz'altro, adunque,
ch'egli, pel primo, sia filosofo, appunto per la singolare sua
insensibilità diremo al dolore logico della contradizione, onde la
invincibile sua incoerenza mentale, che proveremo, d’altronde, ìî altre
sue opere, senza pur tenere affatto conto della «superficiale considerazione ch’
egli usa nel trattare i problemi che concernono la vita dello spirito come
spiegare che nel mondo culturale egli é ritenuto, intanto, addirittura della classe
più alta dei filosofi; e cioè filosofo di natura e vocazione, ragione per
cui le sue opere, e l’estetica proprio più di ogni altra, hanno avuto il
particolare onore di essere tradotte in tutte le lingue di tal mondo? Non
s potrebbe, a parer nostro, spiegare altrimenti questo fenomeno
paradossale che riconoscendo, davvero del fondamento alla famosa domanda
dello Champfort Combien faut-il de sots tour faire un public, e col convenire,
d'altra parte, collo Stendhal, che le opere più largamente diffuse e
lodate da sì fatto pubblico sono precisamentequelle più largamente dosate
sul grado di cretineria degli spettatori e dei lettori. In ogni modo, questa
disfatta del pensiero crociano, ammessa e riconosciuta, s'è visto, ex ore suo
stesso per essersi immesso in una via senza uscita, bene può dirsiuna
disfatta in gloria, più superba di tanti trionfi, in quanto coll’
ammonirci che ogni tentativo di ricalcare quelle orme sarebbe non altro
che un vano sacrilegio, sia pur da parte di gente inconscia, ci fa
ritenere esecrabile e sacra quella via. Tale, almeno, essa rimane per noi,
che da essa appunto traemmo l’avviso ed ammaestramento, insieme, di
percorrere con tanta più saggezza quanto maggiore consapevolezza la via
che abbiam preso a seguire, coll’intento di raggiungere con maggiore
affidamento quel torturante segreto connesso col più oscuro e
fondamentale, insieme, dei selle eriomi della vita universa, secondo
Reymond: l’enigma concernente l’origine del pensiero. Pasquale
Gatti. Keywords: filosofia del linguaggio.
Grice e Gatti: la ragione conversazionale e l’impplicatura
conversazionale poetica – filosofia napoletana – scuola di Napoli – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on
Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things,
too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli
sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora a “Il concetto di progresso.” E a
“Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo
pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di
una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene
che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa
indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi
in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione
secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della
storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della
ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile
solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto
l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina
aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura,
contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi)
del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del
noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura
italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo
florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò
incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata
editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti
e commercio. Altre opere: “Della
fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in
Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto, ora non saprei più da chi la
prima volta, e poi da moltisièsovente ripetuto che VICO autore di un sistema che
i suoi contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la
scienza di un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non
aveaperquestaragione potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù
idoneia giudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga
mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo
giustissimo quando vel filosofo napoletano,come in tutti i filosofi del mondo, anziintuttiquelliuominichesonosi
più che mezzanamente sollevati sull'universale, si voglia sceverare due parti
es senzialmente diverse insieme, e che congiunte solo per accidente, co.
stituiscono una dualità permanente nell'unità stessa dell'individuo. Di queste
due parti, l'una tulla relativa è determinata dalle condizioni esteriori della
vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene, dagl’uomini da'qualisiè circondato,
dall'educazione stessa che si è ricevuta, dagli studii a cui più si è piega talamente,
dal primo libro che si è letto, dalle prime impressioni d'infanzia, dalle
seguenti occupazioni dalla famiglia, da'parenti, dagliamici. L'altra parte
sottratta a tulte queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o
tempo determinato ma a tutti del pari, nè ha da far sulla con alcuna speciale condizione
di vita. La prima di queste due parti scende insieme col corpo nel sepolcro e
dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda per contrario
sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino coll'immortalità la
perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti. Similmente in ogni
sistema per quanto nuovo e profondo e fruttifero essosia, trovasiunaparte che è
direltamente determinata non solo dalle proprie particolarità dell'indole e
dell'ingegno del suo autore, ma si ancora da quelle del luogo e del tempo in cui
venne fuori, inmodo che di questi conservando sempre la special fisonomia, ne
parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella parte caduca de’ sistemi,
la qual e non sopravvive mai a quelle condi zioni speziali che le hanno dato origine,
eche, quando quelle son cambiate, non ba più niun valore, ed è condannata
all'obblio imman. cabile delle età posteriori, quando caduta nel dominio
dell'istoria, non fa più partedella scienza viva e feconda di conseguenzee di applicazioni
le cui tracce si scorgono presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo
del sapere e in ogni manifestazione della vita. Conciossiachè non solo ogni nazione,
ma ogni secolo haunasua impronta particolare, ha uno special modo di veder le
cose, una sua propria logica, per la quale anche aquell ecose che tiene per vere
dalle età precedenti, non giunge per i medesimi procedimenti, ma per altre vie,
per altri melodi, per argomentazioni e prove di diversa natura. L'altra parte, quasi
l'altro elemento costitutivo di ogni gran sistema, è per contrario indipendente
da ogni condizione di luogo e di tempo, non ha in sé nulla che sia momentaneo o
relativo, ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non
rivelasi lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano
uomo, nè alle investigazioni di niun secolo, imperciocchè è la conquista ideale
dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a poco a poco
conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, a mensognee
da violenze, ainganni ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifizio intanto del sapere
insepsibilmentema irreparabilmente sia ccresce, atteso che lo spirito umano non
d'altra cosa aiulato che dall'opera del tempo, va d'ogni sistema sceverando le
parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze, va spogliando
della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in
ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro
deposito e in dubitabile acquisto alla seguente, che facendone suo pro, l'arricchisce
di nuovi progressi, ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad
esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accrescere
il patrimonio. Cosi la pianta fecondissima della scienz acresce di secolo in
secolo con non interrotta germinazione, non altrimenti che cresce un albero fra
leassiduecure dell'agricoltore che ne innaffia e lelama diligentemente le
radici, e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchi ed isutili. Questa
è quell'aurea catena di cui, se non vado errato, parlava Platone nell’ACCADEMIA,
per la quale l'un secolo trasmette all'altro l'eredità del sapere, come un
sacro deposito che esso è tenuto di accrescerea suo potere e tramandarlo al susseguente;
benchè non tutti i secoli possono ugualmente a ccrescere quel deposito, non
intuttigli elementi secondarii e contingenti che circondano i frammenti della
verità eterna son della medesima natura e nella medesima proporzione con essa.
E questo è pure quell'ecletismo pon artificiale, quale può farloun uomoouna scuola
e che o manca di criteriooneha uno in cerloe si risolve più tosto in sincretismo,
ma reale ed istorico il quale hapersuo autorelospiritoumano stesso che di secolo
in secolo va sceverando da sistemi la parle condizionata e temporanea da quella
che come frammento della verilà assoluta dee restare senza alterazione niusa in
suo perenne dominio. Cosi il frullone abburrattando la farina de discevera il
fiore dalla crusca inutile, e cosi molte verità da' tempi non dico di Arislotile
nel LIZIO ma di PARMENIDE DI VELIA e di ZENONE DI VELIA (VELINO), sono rimaste
tuttavia sulla terra, dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè
alla forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontane ad essi per distanza
di luoghi e per diversità dit empi. Secondo queste considerazioni è indubitato
che in tutto l'insieme del sistema del VICO trovasi una parte di un valore
assoluto che è ri masta per sempre nella scienza,ed a cui eran troppo immature
le menti de'suoi conleinporanei, i quali o no a neinlesero affattoosolone
frantesero e ne misconobbero la vera importanza. Ma accanto a que sta un'altra ceneha
per la quale il filosofo napoletano legasi diretta menteco'suoitempi, echemeglio
intesaevie piùapprezzatada' coe. lanei non ha più per noiniun valore, ed è
caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui, come a tutti igrandi
uomini, è avvenuto che per una parteè uomo assolutamente de'suoi tempi, econessi
perquella partesièmorto, dove che per un'altra è contemporaneo de'suoi nepoti,
e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui
abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come alcuni sono andati
dicendo, credendo cosi di accrescere, quando invece diminuivan la gloria e
impicciolivan lavera grandezza di colui che voleano magnisicare. Conciossiache
picciolissima gloria, e che soloapochi, e forse a niuno anche dei mediocrissimi
e mancata, si è quella di comporre un sistemache ad altri inun altro secolo piacerà
poi di seguire. Ma grandissima si è quella d’indovina re e quasi divinare tutta
una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor venuta, ed a cui
un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi dello spirito,
comunque per altre vie, per altri metodi e come per dialettica deduzione di
principii di diversa natura, siccome appunto è avvenuto per la filosofia dell'istoria
molto tempo dopodel VICO, che primo la presenti. Ma non potendo, com'eranaturale,
presentir tutto, procedette senza metodo e senza principii proporzionati da cui
dedurla, sol per induzione da fatti troppo speciali, e in mezzo a tali tendenze
intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio
diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente
stabilirsi. Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che
la stagione più propizia non fu giunta, a cui non furono nascoste levere vie
che poteano condurre alla nuova terra promessa, scoverta da lungida un arditissimo
navigatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea potuto approdare,
ma non prenderne sicuramente possesso. Quasipareche lo spirito travedendo di lontano
la novella scienza, avesse fatto un primo tentativo per conseguirla, ma
destituito degli altrezzi e delle armi che a quella conquista si richiede a no,
avesse dovuto temporpeamente mettersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio
de'mezzi che gli abbisogna vano, e quando ebbeli tutti presti ed
apparecchiati, ritornare con m a g gior confidenza all'interrotta impresa, e riuscirvi
con miglior successo. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno
si avvicina m a ancora la primavera è di lungi, un solitario fiorellino quasi
racco gliendo i primi caloriche si cominciano a muovere per legelateaiuole,
spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddo e bianchi dalla Deve? Ma quel
primo sforzo e troppo precoce della natura riman solo, nèèseguitoda altri sino a
che alla stagione avanzata, nuovi torrenti di calore tutte compenetrando le
zolle più mature, covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati
e i dossi delle colline. Qui maggiore è la copia e la bellezza, ma più ammirato
è il fiore del febbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una ricchezza a venire
di cui tutti largamente godranno, ma che poca o niuna maraviglia non saprà più
ri svegliare agli sguardi assue fatti. Se poi prendiamo quel sistema di VICO nel quale appunto ha tra sceso i confini del
suo tempo divinando l'avvenire, vitro veremoma pifestada pertutto la presenza del
giureconsulto nepoletano dellafine del decimo settimo secolo, e accanto a
que'principii che si veggono diventati proprietà eterna della scienza e son
passati quasi nella cosienza universale del genere umano,ne troveremo altria
cui nessuno più non saprebbe attribuire alcun valore, e che si posson dire
caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo
glieseccheche ancora si trovano insu'rami degli alberi a mezzo novembre per
lasciare nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione
si dovrà rivestire. Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism
I cui due termini non possono stare insieme, quello cioè di una mente, di una
ragione, di un mondo delle idee che fa colle sue proprie leggi il mondo
de'fatti, e quello di una volontà estranea di cui la scienza non puòtenere niun
conto, essendo che i suoi atti appunto per essere volontarii non si possono sottomettere
a niuna costruzione scientifica, cioè a priori, ma sono essenzialmente
contingenti. Troveremo lui aver detto che la sua scienza del la storia è una
vera teologia delle idee divine, la qual cosa se può esser vera in altr isistemi,
appunto nel suo è falsa. Troveremo averegli traveduto il principio che la
storia dell'umanità si va facendo per mezzo di un successivo passaggio da una
fortuna più materiale a una più spirituale, da una più oscura e incerta di sè a
una più chiara e più consapevole, ma non aver potuto vedere né il come nè le
leggi d i questo cammino, nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle
sue applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra
le idee e i fatti, la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delle idee dee
procedere secondo l'ordine delle cose, il che sepureè veroinunsenso tutto
psicologico e a posteriori, è falsissimo, anzi privo affatto di senso, negli
ordini dell'ontologia e dell'istoria. Or lutto quanto illibro della scienza
nuova procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante
la presenza di due uo mini, l'uno giureconsulto napolelano del decimo
settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser
quello di al tri secoli a venire, e predicente una scienza che egli stesso non
in tende a che a mezzo. Ma nelle altre opere questa dualità scomparisce, o almeno
il secondo e nuovo uomo si eclissa tanto darestar quasi tutto intero il campo al
primo, cioè all'uomo dotto dell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere contenute
nel volume il cui titolo è in capo di questo scritto sono piùtosto di questa seconda
specie che del la prima, quantunque non bisogna dimenticare quello che del
resto è quasi inutile di dire, cioè che la parte più universale dalla sua mente
non si nasconde mai tanto che e'non si veggano sempre e da per tut topresenti
le tracce di quello spirito che ha pensato il primo sulla terra una scienza
dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni su varii subbietti, delle quali
le latine son tradotte in italiano da Pomodoro, che con tanto amore si è volto
il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle opere del filosofo
napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e che anche
trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per questo,che in essa
trovasi delineala la storia intima della mente di VICO, e vi si assiste alla
generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero ( cosa straordinaria e
quasi incredibile ) non di un principio metafisico, che dee essere la sua vera
sorgente, m a più tosto da particolari considerazioni sull'insieme del DRITTO
ROMANO e sull'istoria di ROMA. L'opera di cui più particolarmente mi propongo
di ragionare quella dell'antichissima sapienza degli Italiani,la quale se pure
io non m'inganno stranamente, non solo ci rappresenta più chiaro VICO del suo secolo,
ma non ci rappresenta altro che questo, nèmaisenzalei dee e le teoriche che
erano in voga a quell'età, e fino senza i pregiudi zi i e gli errori del tempo
non sarebbe stata concepita, nė mai, neppure iltitolo, potrebbe ora saltare nella
mente di niuno. Io non parlo delle speciali teoriche professatevi, di cui
alcune si hanno o poco o niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a
non si appartengono a VICO propriamente, anzi a tutta la filosofia da PARMENIDE
DI VELIA a Leibnitz e da Leibnitz a Hegel, ma quello che merita di esser
considerato come pro prio di lui, si è il modo di deduzione e il procedimento
con cui vi è pervenuto, pel quale una volta messosi, ne ha tirato delle
conseguenze istorichee creduto di giungereaunaseria scoverta filosologica, quan
tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che sono il perno intorno a cui
si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la conchiusione che la base. Or
ecco in che consiste tutto il sistema. Nell'uso di alcune voci e modi di dire de’
LATINI VICO ha veduto o creduto di vedere un profondo significato metafisico,
che dimostra un gran progresso fatto in questa scienza presso il popolo che in
quelmodo parlava; dall'uso che essi facevano delle voci causa eeffetto vero e
fallo, ed altre simili egli deduce il sistema metafisico di cui quelle lo
cuzioni erano l'immagine e che dovea trovarsi nelle menti dico loro che le
avean irovale e che cosi le adoperavano. A questa prima scoverta poi tutta
filosofica di sua natura, se ne veniva ad accoppiare come per consegnenza
un'altra filologica o istorica intorno al popolo che era giunto a cosi profonda
sapienza, a cosi riposta dottri na da essere autore e di quella filosofia e di
que'modi di parlare. Certo IL ROMANO non potè essere, delquale sisa indubitatamente
non avere atteso ad altro sino al tempo di Pirro che all'agricoltura ed alla
guerra, diche è mestieri di risalire più indietro sino al popolo da cui quello
di ROMA ricevette con la lingua quelle locuzioni, e lui senza più dichiarare
popolo di profonda dottrina, e presso il quale la metafisica avea dovuto
giungere a uno non comune grado di eccelleoza. Nè la storia ci può la sciare lungamentein
certinellascelta, sapendo siche i due popoli con cui I ROMANI ebbero ab antico
più strelte relazioni si furono i Joni della Apao. Questa serie di dedazioni ci
mena alla giustificazione nel titolo dell'opera, DELL’ANTICHISSIMA SAPIENZA
DEGL’ITALIANI, ciò sono i Joni e gli Etruschi, i quali per questa via si scovre
aver dovuto essere dollissimi in metafisica, e poichè da essi presero I LATINI gran
parte della loro lingua, si trovò questa come per eredità o più presto per
invasione straniera picha di concelli metafisici,comunque il popolo che la parla
ne fosseesso medesinioin consapevole, ničsi potesse dasèsolo sollevarea tanla altezza.Ne
qui le deduzioni istoriche si arrestano,anzi partendo da quel lepremesse, siè condotti
assai più lungi, fino acongetturare che gli Egiziani quando fioriva appresso di
essi e l'imperio e la potenza e l'ar. dimento delle lontane
spedizioni,navigando per il mare interno che lutto signoreggiavano, avessero
doyuto dedurre floride colonic per le cosle diquelle, ecosiportare in Toscana la
loro filosofia. Quivi poiessendo surto una ssa i gran regno che diede il nome a
lulto quel tratto di mare che Lagna di Toscana fino a REGGIO l'Italia, anche la
lingua degli Etruschi si dovette per quello diffondere, e di questa più
dovellero prendere i popoli più vicini del LAZIO. Per la qual cosa non si dec
credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a
sibbene esser venuto in Italia ad impararla, e sol dopo di essersi ammaestrato
nella metafisica italiana, cio è etrusca, la quale non era altro che
l'egiziana, essersi stabilito in CROTONE e qui vi fondato la scuola. Di quila
sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella
lingua, della quale gran parte passò poi a’LATINI, iu guisa che sc ci ha voce
latina di filosofica signicazione, quella si dee tenere essere stala prima in
Egillo, poi in TOSCANA e quindi passala in Magna Grecia. Per questo modo
ne'fossili della lingua latina si trova tutta la sapienza degl’etruschi, e
dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in
voga sulle rive di ARNO prima che il TEVERE ba e magna Grecia e gl’etruschi, dei quali d'altra
parte si sa che furon popoli dottissimi, gli uni avendo dato nascimento alla
filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia fede la
purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi aveano dell'ente
supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata, la naturale
praticata, e con questo l'architettura antichissima e semplicissima,a far
testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima de’Greci.
gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più ma senza allontanar ci dal
sistema di VICO, anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche
parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pieno possesso della
cosmologia e teogonia egiziana. Ho voluto insisterealquantopiù a lungo sulle
vere pretensioni di questo saggio del filosofo napoletano, sol perchè basta
l'esporle nettamen leperchèsene veggano chiaro i lati deboli che sono nè più
nèman co che tutti isuoi lati, la cui poca consistenza połea essere nascosta un
secolo e mezzo fa, m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun
colpo della moderna critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un
inimico domestico e cognato nel VICO della scienza nuova, il quite le condotto
da altre divinazioni più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a
quella de'suoi, poevade'principiii qual inegano le basi su cui poggia tutto il
libro dell’ ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI. E in fatti in quel sistema che
più lo ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei, egli riconosce
tutta l'opera del popolo nella formazione delle lingue, e quasi lo riguarda
senza ambagi come una creazione spontanca di quello, quando spiega tutte le diversitàchesono
fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o
icostumi de'differenti popoli. Ma questo principio che veduto in tutta la sua plenitudine
esvolto secondo il rigore della logica sarebbe stato fecondissimo d'importanti
conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni
che a lui parvero troppo metafisiche DELLA LINGUA LATINA, per tal modo che dimentico
del popolo edelmon do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle
l'opera meditata de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate
coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo, da
cui poi le ebbero in eredità gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua
diquelloereditarono. Ora non i principii, comunque ancora incerti, dell ascienza
nuova condussero VICO aquesta scrie d'idee, ma sibbc ne la filosofia del suo
tempo, contro la qualc egli in gran parte prote stava, e tutto il general modo
concuisiri guardavano allora le cose, e che egli senza saperloe senza volerlo, etalvoitapurvolendo
ilcontra rio, avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della
filosofia del secolo passato si è il non aver riconosciuto in piente
l'opera sponla nea dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto
volontario e riflesso e però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto
della società civile non vide altra cosa che UN CONTRATTO con cui gli uomini si
erano volontariamente convenuti fra sè divivereinsieme per il maggior comodo e la
maggior sicurezza di tutti; nelle religioni non vide che il trovato de’ pochi per
contenere i molti, e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani,
a quelle cose che essi avean risolutoessere d’universale vantaggio o di loro
particolare utilità; nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione di
alcuni uomini di più squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli altri, i
quali per loro proprio diletto e per altrui si decideano didarsia quell'esercizio,
seguitando delle regole parte tirate dalla natura stessa delle co se, e parte
stabilite per reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo
non so se mestiero o passatempo; finalmente nelle lingue non iscorse altro che un
sottil ritrovato e una universale convenzione degli uomini, iquali essendosi
accorti di avere l'organo delle voce vie più pieghevole che quello degli altr’animali,
si erano risolutamente decisi, non senza esame, di voler mettere aprofittoquel
Ja flessibilità della gola, e servirsene senza più a render più facili e
speditele loro reciproche relazioni. Da questa teorica non era lungo il cammino
da percorrere per giungere all'ipotesi, o per dir meglio,al la conchiusione del
VICO, il quale, come prima si fu imbattuto in locuzioni che gli par vero avere
del filosofico in sé, subito giudicò non il POPOLO IGNORANTE, ma sibbene
ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si
diede a ricercare dove doveano poter esser que’ filosofi da cui eran venuti
parlari filosofici a un popolo che non ha filosofia, e trovolli nell'ETRURIA e
nella Magna Grecia e, risalendo, nella patria de’ Faraoni. Maisistemi
talvoltasoncuriosi davvero; e curiosissimi sieran questi, i quali negavano le cose
più ovvie, il fatto, la storia, la vita, l'uomo, per accordar tutto a’filosofi;
razza nobilissima e d'ogni considerazione degnissima, ma cosi poco di sua
natura operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un
solverbooun articolo. Ora il fatto si è che il popolo, e qui, intendiamoci bene,
popolo valquanto genere umano o spirito umano, il popolo adunque in cerle
cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee
credere che nello spirito de'filosofi trovisi assolutamente più di quello che
ènello spirito di ogni uomo, cioè nel popolo. E se nelle coloro menti trovasi
tutta chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la
costituiscono, e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano, la
mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non
è men ri schiarata dalla medesima ragione, nè men costituita dagli stessi ele.
menti,nè men regolata dalle medesime leggi,conciossiache se cosi non fosse, la
filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano, ma lascienzadello spirito
de’ filosofi; il che, se io non m'inganno, dove sufficientemente nuocere alla
sua importanza; la sola differenza che passa tra il filosofo e colui che non è
filosofo, si è che l'uno sa quelche egli ha, laddove l'altro loha senza saperlo;
l'uno possiedee pur possedendo e usando della sua possessione,non ha mai posto
mente a quel che egli possiede, dove che l'altro non solo possiede ma si è
occupato di sapere la natura, il valore, le leggi, l'importanza, gl’elementi, il
modo di operare, le relazioni e le condizioni di quello onde egli è in
possesso. Ora le lingue son come figliuole di due madri,cioèsonoilpro. dotto di
due cause che operano ngualmente nella loro formazione, vale a dire delle
attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un
lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e delle leggi sostanziali dello
spirito. Di che ogni lingua se nella parte puramente esterna e fonetica
de'suoni, della loro trasformazione e corruzione, e del loro passaggio adaltri secondarii
e derivati, e in tutto quello che riguarda l'istoria naturale della parola,
segue invariabil mente le leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola,
in quanto al contenuto interno di essa parola rappresenta tutti i principii
psicologici del pensiero, tutti gli elementi ontologiciche in esso si
rinchiudono, esecondo le leggi logiche del pensiero stesso coordina e dispone
l'espressione estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha lavorato, e che
nelle misteriose profondità della mente è stato apparecchiato. Certo si nella
formazione che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e
principii razionali, e qualche cosa ci ha che si sottrae all'analisi e dipende
da quella parte inesplicabile dello spirito umano, che senza essere ilprodotto
o l'espressione di una o di un'altra sua legge determinata, risulta dall'azione
nė descrivibile nè determinabile di tutte quante insieme, e dall'opera
simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la vita nelle sue infinite
manifestazioni. Ma oltre a questa parte che si sottrae ad ogni investigazione e
ad ogni esplicazione scientifica, l'edificio di ogni lingua è legato per la
parte estrinseca alle leggi anatomiche e fisiologiche del corpo, e per
l'intrinseca alle leggi morali dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi
nel coordinamento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del
pensiero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte
le categorie della ragione; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o
meno di quel che trovasi nella lingua, in cui talti i suoi ele menti
raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle
lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leessee le categorie
dicui esse sono l'espressione hanno la loro esistenza intrinseca e soggettiva. Per
la qual cosa non ci è nulla che sia meno arbitrario e meno convenzionale delle
lingu, nè ci LA LINGUA DI POPOLO COSI BARBARO o selvaggio che non rappresenti e
non contenga in sé un intero SISTEMA DI LOGICA [RUSSELL – STONE-AGE
METAPHYSICS], e UN INTERO SISTEMA DELLE PIU RECONDITE CATEGORIE DELLA RAGIONE. Ben
si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole
latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico, senza
avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie
della dottrina e della filosofia, da cui I ROMANI nè dottiné filosofi abbiano
dovuto ricavarle. Già l'ipotesi di VICO incontra nel fatto di tali difficoltà
che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non
avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio
che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui
spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche di VICO sono di
origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa
abbian da fare con esse gl’etruschi o į Jonii, o come abbia poluto saltare
altrui in mente che I ROMANI lc abbiano prese dalle costoro lingue, o almeno imitato
da essi il modo di adoperarle. Tan!e più che se in ana lingua si possono
trovar parole di origine straniera, il modo di adoperarle non è ma istraniero
opresoin prestanza da altri, MA PROPRIO DAL POPOLO CHE LA PARLA, il quale
nell'usarne, imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue,
senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concetto
metafisico le sue proprie o le altrui parole, dovrebbe innanzi imparare da quello
tutto il sistema della sua metafisica, quando non si vuol riconoscere che ogni
lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni
dojtrina acquisita, è naturalmente e spontaneamente l'espressione di un sistema
di metafisica riposto nel fondo dellaragione, e che costituisce l'essenza stessa
di essa ragione. Per VICO intanto i Latini aveano a ogni modo dovuto imparar
qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano,
e questi popoli non poteano essere che i Jonii e gli Etruschi popoli dottissimi
e con cui I LATINI aveano strette relazioni. Vediamo ora quelche non già ioounaltroma
tutto il sapere del secolo in cui viviamo oppone senza paura di contradizione
al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo
esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente
nonpuò giustificare e che in nessun sistema e in nessuna ipotesi non si può
difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai pensato a'Jonii o al dialetto
jonico per sostenere la parentela di filiazione tra il Greco e il Latino, e le colonic
greche di cui parla VICO, ca cui attribuisce nella formazione della lingua
latina un'importanza che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima di Dori.Ilfatto
slorico che la storia latina è posteriore
alla greca unito all'altro fatto della relazione di simiglianza fra le due
lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dove essere derivata
dall'altra, nè lasciato alcun luogo a dubitare quale si dovesse essere la madre
e quale la figliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa
argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione
di m a ternità fra il latino e il dialetto eolico, che èquello fra dialetti della
Grecia chepiù di affinità si ha colla lingua del Lazio. Intantolenuo
vescovertedella scienza delle lingue hanno dimostrato questa ipotesi
impossibile, havno scoverto nel LATINO tracce di maggiore antichità che
pel Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella
genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la
stessa specie e lo stesso grado di aslioilà, e talvolta anche maggiore,che è
tra il Greco e IL LATINO trovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre
ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi
tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più
antica di esse lulte, da cui come da comune stipitetutte quanteesse, e le altre
ad esse simili discendessero, allontanandosene quale più e quale meno, quale in
una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, e il
sistema grammaticale, e il comune materiale delle radici, in mezzo a quelle
differenze che debbono fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale
dalle speziali condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente
formando ed esplicando, sicché la relazione di parentela è rimasta, anzi la
famiglia si è trovata cre sciutadimoltialtrimembri
creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella parentela essere di fraternità
e non già di filiazione. N ė si può negare che il dialetto eolico sia quello
tra gli altri dialetti dell'antica Grecia che più si rassomiglia al LATINO, ma
invecedi con chiuderne che questo sia nato da quello, si è dovuto inferirne che
esso è come l'anello intermezzo, il punto di passaggio tra le due diverse forme
di una medesima lingua, appunto come la storia naturale ci dimostra molte
specie di animali, molte famiglie di piante, le quali sono l'anello intermezzo fra
due specie di verse del mondo animale otra due diverse famiglie del vegetabile,
e quasi come il ponte per cui mezzolanatura che non procede per salti,dall'una
è passata all'altra.Cerlo molte paro le si possono trovare nel LATINO che vi si
sono introdotte direttamente dal Greco, ma queste o sono di data assai più
recente o sirisesconoa oggetti speciali, ad usi e invenzioni,a trovati
comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra due popoli in
quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le
investigazioni etmologiche e istoriche di Vico. Di parole straniere che per accidente
sienpassatedauna lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse
famiglie se ne trova in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto
contingente di cui sirende ragioneper mezzodel fatto delle esterne relazioni senzache
nulla se ne possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La
parola kalamos che è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno strumento
aguzzo, una capna qualunque da scrivere, non è di origine greca, nè se ne trovala
radice nelle lingue affini al greco, ma è di patria affatto straniera, parendo essere
nè più nè manco che il semitico Kalem che in Arabo dinota la penna. Certo verisimilmente
è da credere che avendo i Greci antichissimi appreso da'Fenici, popoli di
stirpe e di lingua semitica, l'arte dello scrivere abbian preso anche da essi
il nome dello strumento da esercitare la nuova arte. Ma dove sono le parole
greche, eoliche, e joniche, come impropriamente il filosofo napoletano direbbe,
corrispondenti a quelle con cui I LATINI esprimeano non già un utensile
materiale, lo strumento di un'arte ignota prima e poi appresa, ma i concetti
più intimi e più astratti dello spirito senza di cui il pensare stesso è
impossibile? Le medesime cose, ma adassai più forte ragione si vogliono
ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua si sieno potute introdurreuel LATINO
delle parole relative ad usi della vita e a cerimonie sacre, è cosa che
facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi
dall'Etruria hauno dovuto passare in ROMA, ma non è possibile di trasformare
questa azione tutta estrinseca, questa introduzione accidentale di alcune
speciali parole, in un'azione più internaequasi primitiva dell'Etrusco sul LATINO.Vero
èche questa non è propriamente l'idea di VICO, nè la conchiusione a cui egli
intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione
delle lingue era così poco avanzata, anzi così poco sopposta a' tempi del VICO,
che non ad essa la sua mente si rivolse, non di es sa egli si occupò come
conseguenza e coronamento della sua ipote si, ma sibbenedi quelladella filosofia.
Einfaltinon altrovechein questo punto egli vide l'importanza della sua scoverta,
e assai più che nel libro stesso v'instette nelle sue riposte a varie
obbiezioni mossegli allora contro con una critica, che non vedea,e in gran
parte non poteavedere i veri punti debolie impossibili a sostenere di tutto il sistema.
Quivi si vede che VICO (si veda) pensa di aver fatto una stupenda sco verta
istorica, perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etruschi cosi
doltissimi in cosi remotissima eti, come si vedea manife. b'o da' modi di dire
metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina, si
dovea credere fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia
in Italia, ma si da questa, cice dall'Etruria in quella, e quindi coordinando
tutte le parti del sistema, ne conchiude che Pitagora non avesse portato
allronde la soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che
venulo quivi ad appararla, riuscitovi poi dottissimo, si fosse fermato nella
Magna Grecia a formar la sua scuola, sicchè quest'antichissima filosofia che la
rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel Lazio e dal Lazio nella
Magna Grecia, e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco
perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe
parole e modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più
nella patria dei Faraoni. Ma tutte queste ipotesi riposano sul falso concetto che
ogni voce di un contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema
metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla, ogni sistema metafisico
debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean
potuto escogitarlo da sè, ma riceverlo da Latini, e i Latini dagl’etruschi, egl’etruschi
dagl’egiziani, non so perchè non si abbiano da spingere anche più oltre le
investigazioni, e cercare da quale angolo più remoto della terra avessedo vato
venir trapiantata sulle rive del Nilo. La scienza moderna che è meno
corriva alle ipotesi, e comunque sia spesso accusata di sognare, più riconosce
l'importanza de' fatti prima di edificare un sistema, va più guardinga in
questa quistione degli Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli
che sono a sua disposizione, non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino
fossero stati e donde venuteci, nè che cosa si fosse la loro lingua, se cioè
semitica o di origine arja, nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà
coll'egiziana. A ogni modo le induzioni per cui giungeva Vico alle sue opinioni
intorno all'Etruria niuno è ora che ardirebbedi crederle di alcun peso o di prenderle
in sul serio. Ben sono stati alcuni più moderni che le hanno sostenute, e
avregnacchè l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà
tenga nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în occidente,
han voluto che i primi principii d iessa fossero passati dall'Etruria nella Grecia,
ma han cercato con fatli e argomenti e documenti che a VICO mancavano di
sostener la loro teorica, comunque non sieno mai riusciti a sostenerla tanto da
farla aceellare almeno per medio cremeute probabile a'più dotti in queste materie.
E non ha guari abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno dei suoi ultimi
sostenitori, uomo picchissimo di abbondante erudizione istorica, ina corrivo
non so se ad:ingegno o per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le
opinioni più strane e le meno simili alle più comunemente ricevute. Spesso si èri
posto come una specie di amorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione
del sapere dall'Etruria nella Grecia quasi per aggiungere un altro periodo di gloria
alle glorie dell'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o più
sacro quanto quel sentimento per cui un popolo si studia di accrescerei tesoro
delle sue grandezze non meno presenti che future o passate, di queste perpetuare
la ricordanza nella memoria degli uomini. Ma per esser gelosi custodi di questo
tesoro noi altri Italiani non abbiamo a far violenza alla istoria, e volervendicare
a noi quelche non ci appartiene, tanto più che quello di cui non si può dubitare
che sia nostro è più che bastevole a non farci desiderosi di altro. Or la
nostra ve ra e indubitata istoria incomincia da Peoma; il che mi sembra itd'an
lichità abbaslanza remota, e una grandezza abbastanza gloriosa pera. Versenea contentare.
Tutto quello che è prima di Roma, e già è assat in certo che cosa fosse, non ci
appartiene. E veramente Italia non era ancora il paese rinchiuso tra le Alpie il
mare, nė Halianiera noi Greci dell'estremità meridionale, I Siculi o gli Aborigeni
del Lazio o gli Etruschi, Celti o gl'Iberi, se alcun tratto gl'Iberine occupavano,
ma bene erano essi gli elementi primordiali i quali stritura li e fasi insieme
dall'opera del tempo e dalla forza assimilatrice di ROMA, d o veano comporre il
popolo dicui ha fatto l'istoria LIVIO, Macchiavelli e Botta; lavoro lento e
gigante scoele con diverse proporzioni e solto diverse condizioni si è operato
per altri popoli ancora; per questa sola ragionei Macedoni eran Greci, e Alessandro
che se fosse nato du'secoli prima sarebbe stato barbaro, fu al suo
Innanzi di conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser più breve, ma che
potrebbe prolungarsi ancora di molto, non credo essere inutile per meglio far comparire
la vera natura delle obiezioni che homosse al filosofo napoletano, il ricordare
comeegli non avea per cosa affatto nuova il modo delle sue investigazioni etimologiche,
anzi fin dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel
medesimo per la lingua latina che avea già fatto Platone per la greca, il quale
dalle etimologie e composizione delle paroledi quella avea voluto scourire
l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata. Se non che si forma VICO
un concelto assai ristretto dal Cratilo se credea a questo solo ordinato quel
dialogo, il quale abbraccia tutta quanta la quistione della lingua, della sua
origine e del suo valore, coordinandola colla teorica socratica delle idee. Ben
è vero che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo, e che, ove
non il fa ironicamente e come per istrazio, intende di cavare delle induzioni
intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole aveano avuto nascimento.
Ma adonore del filosofo ateniese, si conviene confessare che il metodo delle sue
ricerche non devia da'giusti confini, nè potea condurlo ad induzioni o false o immaginarie
o arbitrarie o contrarie alla genesi delle lingue o ripugnanti alla vera
palura. Della metafisica che inquelle si può trovare. Non abbiamnoi veduto che OGNI
LINGUA CONTIENE IN SÈ UN INTERO SISTEMA DI METAFISICA (RUSSELL GRICE STONE AGE
PHYSICS), ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello
stesso p o t e m p o il rappresentante dello spirito e della civiltà
della Grecia, e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci
gigantesche del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono
divenirlo, poiché, collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle
forze naturali si macerano a poco a poco, le differenze scompariscono, e da
ultimo si trovano riunite in una sola massa che dee poi divenire uno
de'motoripiù irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno
onnipotente il carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante
naufragate nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de’ Pelasgi e de'
Rasena, de' Tirreni e de'Siculi non siappartengono a'discendenti del popolo di GIULIO
CESARE e di Trajano. polo che la parola, e che ve l'ha senza saperlo,
depositata? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura dello spi
rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco no nella
loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi o opposti
lati le cose, e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano fra
quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo in
cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose, e
ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla
composizione di essa si presen tarono al suo spirito. E se questo lavoro è ancora
oggi pieno d'incertezze e di difficoltà, se era impossibile a'tempi di Platone,
che fae gli cotesto? Basta che il discepolo di Socrate abbia vedulou na verità
che solo i lontanissimi nepoti poteano dimostrare, e tentato un lavoro per
compiere il quale, moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto
somministrare finora tutti i mezzi necessarii. Ma non cre dea Platone che una
setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i concetti metafisici, apzili attribuiva
al popolo stesso, che egli per le esigenze del suo linguaggio filosofico, chiama
il legislatore, il quale nella successiva costruzione della lingua ve li veniva
spontaneamente e però inconsapevolmente trasfondendo. Në pensò mai Platone che
da filosofi di altra nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori
gioe, e quindi esser passate a'primitivi abitatori della Grecia, che per essere
ancora ignoragti non le avrebbero potutemai più ritrovareda sè medesimi. Son queste
le due ipotesi su cui è fondato il libro del l'antichissima sapienza
degl'Italiani, ma nè dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del
Cratilo, Se io ho troppo insistito su queste cose, non è già per desiderio ehe io
avessi di appiccare un'inutile giornata col maggiore de'filosofi napoletani, ma
si per voler mostrare col suo esempio come camminando il sapere collandare del
tempo, e trasformandosi quasi in ogni secolo la sua fisonomia, evedendo gli uomini
nelle diverse età sempre diversamente pur le medesime cose, la grandezza de'grandiuomini
non si vuol misurare dal numero delle verità che eglino possono ancora
inseguare a'lontani ne poli, a cui pure essendo grandissimi, non possono
lal volta insegnare più niente, ma sibbene dal grado a cui eglino si so no
innalzati al di sopra de'loro contemporanei, dalle nuove vie che prima degli
altri hanno aperle allo spirito, nelle quali altri cammi p ando sono si
arricchiti di verità ad essi rimaste ignote, e dagli sforzi con cui hanno
potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che alle seguenti
generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare con mano,
senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso che avviene
soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla pienezza de'tempi,
si mostri per nuove e più facili vie anche aspiri!i meno alli, quando al tempo che
era tuttavia immalura appena si era svelata per astrusissi mi sentieri alla
potenza divina trice di solitarii ingegni. Chi è più grande di Aristotile? m a
quale è oggiscolarecheintutte lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del
maestro di coloro che sanno? O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il
proporre la massima parte de'problemi della scienza in quel modo appunto in cui
si trovano proposti nell'Organo e ne'libri della Melafisica, anche in quei
punti in cui il pensiero arislolelico quanto alla sostanza delle cose è
identico col moderno? L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa, che
un uomo pec quanto grande egli sia, per quanto s'innalzi al di sopra de'suoi contemporanei
e de'suoi tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle
delle sue idee, anzi esse tulle non abbiano in quelli lalorora dice, siche egli
non può mai separarsi dal general modo d'intendere dell'età che lo vide nascere,
anzi appuntoperque slo ègrande, che egli tutta la compendia ed esprime,
aprendole le vie agli altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se
tul teleidee de'suoi tempii nlujsiriflollono, insieme conquelle anche gli
errori e i pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito, nè per quanto egli se
ne distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle. Di che si vede
quanto sia grande la semplicità di coloro che siappoggiano all'autorità de'grandi
uomini in que'punti che eglino hanno in comune con tutta la loro generazione e
che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità. Molle volle
mi è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni; o siele voi più
grande di Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate di
consentire. Or cerlo il canlore de'tre regni della morle si fu il più grande
uomo del suo secolo, nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di
comprensione poelica possa venire con lui in paragone, ma il pubblicislae il filosofo
del XIII secolo era figliuolo del medio eroe avea cinque secoli di educazione
filosofica ed islorica meno di noi, e il cilladino di Firenze nato l'anno di
grazia mille duecento sessantacinque in molte cose non potea non pensare come
frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è che vorrebbe piegarsi innanzi
all'autorità di questi nomi? Cerlo, che io mi creda, niuno. Quesle cose poi che
si dicono dell'antorità de'grandi uomini vanno deltealmedesimo modo
dell'autorità dell'istoria in generale. La sentenza di Tullio che dice
l'istoria maestra della vita è veris ima se s'intende in un senso, ma fonte di molti
errorise s'intende in un altro. Verissima è in un senso universale e
scientifico in quanto che l'istoria facendoci come assistere allo spellacolo
delle diverse generazioni clic si sono succedute sulla terra, ci rende quasi
contemporanei del passato. Per mezzo di essa noi possiaino allora formarci un concello
generale del cammino del genere umano, e delle leggi ideali che presie dono al succedersi
delle civilti, delle leggi, degli istituti, delle religioni, degli stati e di
tutte quante sono le manifestazioni dello spirito umano. Allora noi partendo da
queste considerazionipossiainocom prender
il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo, de terminare
le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi affaticale sulla
terra, e divinar quelle che abbiamo colle altre che dopo di noi bagneranno col
loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso veramente la
sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più stupendo ammaestra
in e n t o che si possa, la comprensione della vila slessa in tulle le sue
manifestazioni, in tutte le sue relazioni col passalo, col presente e coll'avvenire.
Ma inetta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più
ristrello edempirico,quasivolessedireche las toria insegna agli uomini cogli
esempii de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi
agli antichi simiglianti,Il credere a questa specie di aulorilà istorica dipende
dalla falsa supposizioneche gli avvenimenti si ripelano o si possano ripetere nelle
medesime condizioni, il cheè tanto falso quanto è falso il credere che il genere
umano non si muova, e che l'istoria non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii
fatti e un'indole sua propria per la quale anche i fatli che sembrano rasso
migliarsi in certe esterne condizioni, sono diversissimi di significato e
divalore. Il principio che niente è ma lutto si fa, niente permanema tulto si muove,
spezialmente nella storia e nel cammino del genereuma no si verifica. Ben la nalura
fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si ripete,la natura morale
dell'umanità non mai. A coloro iquali dicono: ben così dee avvenire perchè così
altra volta è avvenuto,ben sipuò rispondere che appunto perchè altra volta così
è avvenuto non può più avvenire al medesimo modo.Dove il genere uinano cosi
continua. mente agitandosi finalmente abbia da giungere, chi è che possa pre
vederlo, o quale è filosofiache lo possa al meno verisimilmentepre dire? Ma
quando si pensa quel che era la famiglia umana al tempo delre de' re Agamennone,
per non salire più alto, e quale oggi è divenuta, chi non si sente di
naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè volge il pensiero a coloro cui se parerà da noi la medesima
distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade L'Italia era
pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una
eccellenza, che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che
emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia,
la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di
opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto
dal cielo, e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e fio
renti stati pareano quasi cote che affilavano gl'ingegni, af forzavano gli
spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello.
Intanto, fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e
l'adoloscenza delle no stre menti,venne l'età più matura e quasi la virilità
dell' in tendimento, nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui suona
il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch
'egli è, e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è stato
contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni. Allora
inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la poesia,
siccome la Grecia e l'ITALIA col fatto ne fanno prova . Nè si potrebbe addurre
in contrario la scolastica che è antichissima, e certo precedente alla poesia,
perchè quella, oltre che confinava da presso con la teologia, più presto che
esser l' effetto spontaneo, per così dire, del pensiero nazio nale, lavoravasi
nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri, senza che il pensiero
laicale vi avesse alcuna parte. Il quale, quando fu venuto il tempo propizio,
si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu diversa. Costantinopoli
non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu quasi l'ultimo crollo
della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero di monumenti
dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti, e a compensar con usura i nostri
padri dell'ospitale accoglienza per essi accordata ai fuggitivi figliuoli d'una
nazione illustre e generosa, che dopo quattro secoli d'oppressione, dovea
riacquistar l'indipendenza, e, bella delle memorie passate e del presente
trionfo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo, sorgendo, come Lazaro, dal
polveroso sepolcro che avea accolto il suo cadavere. So bene che da alcuni si è
creduto il risorgimento degli studii classici e la conoscenza più intera
dell'antica civiltà essere stati più presto di nocumenlo che di utile alla
moderna, parendo loro esserne stato impedito il libero cam mino degli spiriti,
e turbata l'originalità del pensiero mer cè l'innesto violento d' un vecchio
ramo sovra un più gio vane tronco . Ma costoro non pensano che la civiltà di un
secolo non è e non può esser un fatto isolato e da sè ma che è iotimamente
legata a quella de' precedenti mercè l' aurea catena delle tradizioni, e che
ogni secolo dee, in quanto può, legarsi col passato e argomentarsi di
perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene e disdegnare di riconoscerlo,
o pretendere superbamente anzi puerilmente di incominciar tutto da capo, e
rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre cedenti han lavorato. Però il
risorgimento degli studi classici e la conoscenza dell'antichità, innanzi che
nuocere, ha do vuto perfezionar l'edifizio della civiltà moderna, nè in fatto
pud negarsi che a risorgimento delle antiche lettere sieno dovuti in gran parte
i subiti progressi che le scienze fecero tra noi. Quando si furono rotli i
cancelli un po' stretti fra cui la scolastica volea talora chiusa
l'intelligenza, quando si fu meglio e vie più direttamente conosciuto il
pensiero dell'an tichità, ed ecco sorgere di presente una nuova filosofia, alla
quale si può dire che avessero posto mano di conserva il pensiero antico e il
moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più profondi ingegni della
penisola si misero a quest'opera, lavorando insieme, quale in uno e qualein un
altro modo, al comune e nobilissimo scopo, e tosto si vide venir fuori dal loro
numero il celebre triumvirato di TELESIO
(si veda), CAMPANELLA (si veda), e BRUNO (si veda), i quali tutti e tre videro
la luce in questa meridional parte d’Italia. Comune ebbero la forza della
volontà, l'ardire dell'inge gno e la potenza della mente; ma il primo restò
indietro agli altri due, imperciocchè la sua opera fu puramente ne gativa,
laddove questi poterono crear de sistemi che nè il tempo nè i seguenti sforzi
dello spirito umano non giunse ro a far dimenticare. A così bei cominciamenti
fu possibile di sperare splendidi destini per la filosofia italiana, ma la
speranza anche allora, siccome spesso è, fu ingannatrice, e l'avvenire mancò a
così lieti principii. Del qual fatto non si può trovare altrove la ragione che
nelle condizioni della storia italiana e nella intima natura della nostra
filosofia. E, in vero se, come abbiam veduto, la filosofia comparve in Ita lia
quando il pensiero era abbastanza maturo per siffatta ma niera di studii,
quando questo momento fu arrivato, la nazione incominciò a declinare. Quella
maravigliosa abbon danza di vita che avea alimentato il movimento dello spi
rito e favorito l'innalzamento di tante piccole nazionalità, nel cui seno eran
comparse prima la poesia e le arti, e poi la scienza, incominciava a
indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la conquista era compiuta; le antiche
forme di reggimento eran cadute o avean perduto della loro importanza; e le
nostre sorti incominciarono ad esser, quando più e quando meno, legate a quelle
di altre nazioni. Strana cosa è l'ammirazione di taluni storici, siccome DENINA,
per la beata tranquillità, per i giorni di serenità e di pace che spuntarono a
rallegrare il bel cielo dell' Italia. Più stra na ancora è la maraviglia del TIRABOSCHI
il quale non sa comprendere come la letteratura, le arti e in gran parte le
scienze sien volte in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui
finalmente godea l'irrequieta terra italiana, facea sperar nuovi progressi e
quasi un novello secol d'oro al nostro paese. Costoro non intendevano che
quando una nazione cade, cade di necessità con essa tutto quello che è
intimamente collegato con la sua vita e col suo essere . E in fatti allora la
bella prosa italiana fini, allora la poesia spirò sulle labbra di TASSO, e le
arti andarono ogni di più declinando. Allora incominciò la corruzione onde il
seicento è rimasto celebre nella memoria degli uomini, sic come età di
decadenza. E' sembra che l'antico spirito let terario si rifuggisse un momento
in Toscana per morir no bilmente nel paese stesso che l'avea veduto sorgere,
siccome la pittura cercò un asilo in BOLOGNA e parve di nuo vo levar il capo
fra le mani de' tre CARACCI, di RENI, del GUERCINO e d'altri. Ma questo fu come
l'ultimo sforzo del gladiatore ferito, o come l' ultimo canto del cigno che si
muore. Egli è facile il concepire come una filosofia, la quale derivava da un
movimento al tutto italiano, e che pe rò era legata alla fortuna del pensiero
onde ella avea da nascere, dovesse cader di necessità il giorno stesso che quel
pensiero veniva a perdere la nazionalità e l'indole originale. Il medesimo
senza fallo sarebbe avvenuto nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il
giorno stesso che il gran disce polo di Anassagora bevè la cicuta, perciocchè
allora a Platone dell’ACCADEMIA e ad Aristotile del LIZIO sarebbe mancato il
tempo di compari re, siccome mancò tra noi dopo la morte de Socrati italiani.
Dopo questo tempo non comparve, si può dire, nessuno il cui nome fosse degno
delle antiche glorie, e le menti ita taliane sembravano comprese da una mortale
stanchezza, quando venne fuori tra noi VICO quasi a protestare in nome di tutti
e mostrare al mondo che il fuoco sacro del pensiero non era già spento nel bel
paese ma solo nascosto sotto tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti
giureconsulti che fiorivano di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del
diritto romano egli seppe innalzarsi alla scienza delle leggi universali che
reggono il cammino del genere umano sulla terra, e dalla meditazione d'una sola
città alle leggi supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana
famiglia. Ma poichè egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non
curato e poco avuto in pregio da quelli, ed è stato sol da'posteri onorato
condegnamente alla sua grandezza; gloriosa ma pur tarda e, che è più, inutile
ricompensa al merito degli uo mini veramente grandi, e a' sudori per esso loro
sparsi in pro di chi o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li
dispregia, ovvero di chi più non può giovarli . Parecchi anni dopo del VICO, e
immensamente a lui infe riore, comparve in Napoli GENOVESI. Del quale spiacemi
di dover parlare in modo che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto
o troppo severo . Im perciocchè io penso che il suo merito, almeno
comefilosofo, chè in quanto economista non so, sia stato più del giusto
esagerato de' suoi compatriotti, i quali eran pure que' me desimi che avean
veduto il Vico morir nella miseria, e poco o niente avean creduto alla sua
grandeza. GENOVESI poi, sendo prete, credeasi in certa guisa mail'obbligo di
rico noscer l'antica metafisica,ma nè seppe intender quello che veramente di
più profondo trovavasi in essa, nè il più delle volte seppe spogliarla dell'
aridità delle forme, non ostante che non poco pretendesse alla leggerezza dello
stile, e fino alle facezie e alle arguzie il più spesso di cattivo gusto e di
sdicenti alla gravità delle materie per esso lui trattate. Nato poi nel XVII
secolo e fiorendo ne' principii del XVIII, credeasi parimenti obbligato di
seguir le dottrine del suo secolo, senza scorgere le conseguenze a cui quelle
menavano . Per tal guisa mentre come teologo avea in 198 napzi AQUINO (si veda),
intendea come filosofo seguitare l’EMPIRISMO di Locke e il RAZIONALISMO di Cartesio,
allora nuovi e in voga oltremonti, e a cui l'alta mente di Vico avea mosso
infin dal principio potentissima guerra. Diviso fra due estremi così opposti in
sieme, e' travagliavasi pure a volerli conciliare, e parvegli che l'autore del
sistema delle monadi potesse maravigliosa mente servire al suo scopo, e così
volea conseguir la gloria, tanto per lui ambita, di libero pensatore e di
teologo; ma il tentativo riescì vano alla prova. Chi in fatti apra i suoi libri
di leggieri si potrà accorgere d'un continuo vacilla re e di una enorme
confusione, per la quale il lettore si tro va, siccome l'autore dovea essere,
in una strana tenzone di discordanti dottrine che ben sono accoppiate insieme,
ma non sono e non posson essere ricondotte all'accordo e all'armo nia. E, in
vero, quale è la teorica onde egli ha arricchito la scienza ? quale è il
sistema che si chiama dal suo nome? quale la scuola che ha fondata? Se pure non
voglia dirsi, come si potrebbe in certo modo affermare, che egli sia sta to il
primo che incominciasse a introdurre fra noi la filosofia del XVIII secolo, la
quale dovea poi più largamente spandersi e acquistar quasidiritto di
cirtadinanza. Concios siachè, spezzato il legame sacro che avrebbe dovuto
legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e in certo modo spenta
presso il più gran numero la ricordanza delle passa te glorie filosofiche,
parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta la filosofia,
innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi l'uso delle
profonde me ditazioni era venuto meno, ei sistemi che lavoravansi oltre le
alpi, tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la letteratura
francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi popolari in gran
parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata direttamente da' sistemi
del Bacone e del Locke, e più indirettamente da quello del Cartesio. Cartesio
avea continuato nelle astratte regioni della filosofia l'opera incominciata
dalla Riforma in quelle della religione, più astratte eziandio e al tempo
stesso più positive delle prime, che era senza più l'idea della libertà del
pensiero. Cosiffatta idea era nata da prima in Italia, do ve non chiedea altro
che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle prime si fu contenti a
quella solo della libera discussione contro l'Aristotile delle scuole, salvo a
costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello stesso Stagirita ovvero
di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si vide fare. Ma la Riforma,
confondendo i limiti di cose diverse, domanda la libertà della discussione
religiosa, il che era distrugggere la religione medesima, la quale per sua es
senza è fondata sulla fede, sulla credenza e sul mistero, talchè sì tosto che
la discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il credere
e il non credere, tra il si e il no, alcuna transazione non è possibile, e ogni
ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che d'una leggiadra
fanciulla dalle guance rosee e da'capegli dorati, la quale sembra contaminata
dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma non si tosto
l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua bellezza, ogni
prestigio è finito. Così accade delle religioni, e tutte quelle che finora
hanno imperato in su la terra, vere e fal se, ne son argomento. I libri sacri
degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto dell' arca;
l'Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione, è la patria de'
simboli e de' geroglifici, e in Grecia solo pochi savi dopo faticose prove
erano iniziati a' misteri di Samo tracia e di Eleusi . In somma è strana cosa
il credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla fondata sul
principio dell'autorità. E in questo veramente il principio cattolico è
superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte del
cristianesimo, come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna
transazione, ma riconosce in sè la fonte di ogni vero, poggiandosi in sulla
autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione
e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano, ben fa spesso
de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s'
ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia
destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia
in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto
all'unico e immutabile vero, Ma dove è questo vero? chi mai può dire di averlo
ve duto, o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di tutti i loro
sforzi in su la terra, siccome il sepolcro di Gerusalemme a'Crociati e le coste
di S. Domingo a COLOMBO? Cotesto continuo moto, coteste secolari agi tazioni
stancano l'anima, la quale ha sovente bisogno di fermarsi pure a qualche cosa
di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui riposarsi dalle
fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi, fra le affermazioni e
le negazioni dell' intelligenza. Or la Riforma distrugge questa proprietà
assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un pelago più con
trastato ancora che quello della scienza, e in una bolgia di più inestricate e
spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della riforma furono
rendute ancor più estreme dal Cartesio, il quale spinse tant' oltre il
desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di tutte
quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscenze, delle sue
idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito, di costruir
da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a distruggere. E
veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser in chi si piace
di distruggere quello che egli ha intorno, per aver poi l'illusione del creare,
e, che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio; nuovo e titanico
esempio d' un sublime veramente dinamico, Che cosa è egli quindi avvenuto?
Cartesio dovea egli so. lo ricostruir da sè l 'edifizio della realtà e
dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea. Ora e' ci ha
nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione, l'istoria, le arti,
i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella
vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano
dalla intelligenza individuale dell'uomo, quale essa alla logica e alla
psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori, a cui
non si può che per diverse strade per venire. Per la qual cosa chi si argomenti
di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più ristrette
scienze gli concedono, e' non ginngerà mai ad avere essa realtà, quale nel
fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più
nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione
in dividuale. La quale difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la
filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Cartesio a cui essa è
indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l'una può
avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla
superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di
riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il
dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo
superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo, resta che la seconda si
avveri . Pur tuttavia il Cartesio, siccome suole avvenire, per essere il primo,
non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe,
che poi seppe altri logicamente tirarne, allorchè si vide al fatto qua' si
erano le estreme, ma pur legittime conseguenze delle dottrine cartesiane.
Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in
Francia, comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea
dichiarato quasi vana ogni scienza, il cui obbietto non potesse cader sotto l'
impero de’ sensi, quando Locke cercò modo di applicar questo me todo alla
conoscenza dell'intendimento umano, e fu di necessità costrello a vedervi solo
quello che ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della
sensazione. Dalla quale, per sofismi che la scienza adoperi, non giungerà mai a
cavare altro che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna
spiegazione probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono
le religioni, le arti, l' istoria. Pure Locke si ostinò nel suo cammi no ma non
seppe o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello conducea.
Non io vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema, nè far
l'apologista di una più presto che d'un' altra filosofia, ma mi sdegno di certi
acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a
perdurare in una via, quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non
alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì
spiegare ma negare giammai, ove non volesse, come Alessandro fa del nodo
gordiano, non sciogliere ma tor di mezzo, negandole, le difficoltà. Pertanto
quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a
lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso, e venne
accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera, ma come un
antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria. E veramen te sua
patria era per esso quella del Cartesio. E' si dice che ogni idea cerca per per
sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia
al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è
certamente quella della sensazione. Conciossiachè la rivoluzione di Francia si
argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un
paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed
apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria, alle sue
tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni
senza fallo enormi, ma pur logiche, e per le quali può dirsi che Marat, Danton,
Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti discepoli di
Locke, di Condillac, di Voltaire e d’Elvezio; sebbene al fatto siasi veduto ove
quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di tener saldi certi altri e
più antichi principii, chi vuol conservare in vita le umane società. Tale si
era lo stato delle cose in Francia quando l'ITALIA legata oggimai a' destini
della politica straniera, cerca ezian dio fuori di sua casa una filosofia bella
e fatta, e potè leggermente trovarla, siccome l'abbiamo descritta in Francia
dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero della scien za e della verità,
benchè il frulto che ci regalo fosse morta le per noi, come quello che fini di
distruggere ogni germe di forza e di natio vigore nella patria di Gregorio VII
e di ALIGHIERI Vero è bene che la filosofia della sensazione non può dirsi che
in Italia fosse stata accettata ciecamente e compiutamente, ma pur tuttavia
ebbe abbastanza di forza per insinuarsi nell' universale, e produrvi certa
maniera di debolezza morale che è l'effetto della mancanza d'ogni idea più
elevata e più generosa. Ma comunque avesse avuto fra noi gran numero di
ammiratori e di adepti, pure, le più alte menti italiane non si piegarono ad ab
bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di scostarsene del tutto.
Solamente più tardi e quando già quel la filosofia incomincia a venir meno
nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i saggi di COSTA (si veda),
di GIOIA (si veda) e del napolitano BORRELLI che a quel le dottrine più da
presso si accostavano; tre menti temprate in modo da non intendersi come
abbiano potuto nascere nel la patria d’ALIGHIERI, BUONARROTI, E VICO. I due ultimi – GIOIA e BORRELLI -- scrivendo
in una lingua a mezzo barbara, intendevano l'uno di spandere e divulgar nell'
universale la parte più positiva della logica del Condillac, e l'altro di
rianimare le teoriche del Cabanis, mercè qualche dottrina, già forse combattuta
e dimenticata, del Locke. D'altra parte il primo, dico COSTA, purista ma
pedante in letteratura, crede che la medesima lingua che era servita ad
ALIHGIERI per narrare i tre regni misteriosi della morte, e descriver fondo a
tutto l'universo; la medesima lingua che era servita a MACHIAVELLI per
disvelare i segreti della politica, e a VICO per dividare il passato e
l'avvenire, e far la Divina Commedia della vita, siccome ALIGHIERI avea fallo
quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le lepide
trasformazioni della celebre statua, che a forza di odor di rosa dovea tornare
uomo, come quella dell'antico Prometeo, mercè la fiamma del sole. Tolta per tal
modo al pensiero l'originalità e l'indole nazionale, la letteratura di rimbalzo
dovea sentire i cattivi effetti dello stato morale del paese. Già essa avea
perduto la sua antica grandezza al XVII secolo, la sua fulgida stella era
tramontata, e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le
nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla
corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo,
trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere, chè la strada era
fatta, aperta la breccia, e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad
un'altra, un nuovo ad un antico vizio. Allora si giunse perfino a sostenere che
l'italiana era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle
nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo, nè agli andamenti più svelti e
più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla,
provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà. Non è chi
ignori come CESAROTTI si e il massimo
campione di questa infelicissima scuola, e come con questo scopo dettò certo
suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che
giunta la cosa a questo estremo punto, bisognava di necessità che, secondo il
corso ordinario degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in
un altro ordine di cose una maniera di reazione era incominciata, concios
siachè l'opera dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una
possente reazione contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di
quello che negli eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur
meritava di esistere. In ITALIA, strana cosa ! questa reazione incomincia DALLA
LINGUA. Già poco innanzi PARINI, ALIFIERI, e qualche altro aveano incominciato
a levar la voce contro la servitù dell'imitazione straniera, ma poichè il male
non era an cor venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono
arrivar per ritornar indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti
immediati in su le menti de' loro con temporanei, perchè le parole eriandio de'
più grandi uomini non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap
parecchiati a riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in
vero quando le cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho
citate poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa
cile nell' universale. Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi
alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del
tempo e regalati, per più derisione, de’titoli di pedanti (che forse erano) e
di pu risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da
onorar qualunque eroe, e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare
che costoro, non si credendo che i paladini delle parole, combatteano
veramente, senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero, e, se
eran pedanti, significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro
le pretensioni della filosofia. Duraya giá da alcun tempo questa reazion
grammaticale contro la letteratura allora corrente, quando dalla remota
Calabria s' intese risuonare una voce, che protestava contro la filosofia del
senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta da voce era quella di GALLUPPI,
rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita.
Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli
ha negato da ciò che ha affermato, cioè la sua polemica col sensualismo dal suo
sistema. Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri
mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle
minute investigazioni di Condillac, di Tracy e degl’altri di quella scuola.
Cotesto è il vero merito di GALLUPPI, e PER QUESTO SOLO GLI E DOVUTO UN POSTO
NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Vero è che le sue armi sono il più delle
volte domandate alla scuola scozzese, o eziandio à quel medesimo Locke che era
il vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere; ma cotesto non
diminuisce nè il suo merito, nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee
avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra
noi il nome e il sistema di Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli
me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli
andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana, pure è cosa indubita che
egli si fu il primo ad occu parsene seriamente. Certo è, come innanzi vedremo,
che altri è riescito meglio di lui nell'investigar la mente del filosofo
prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle
teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio in
questo, non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema
composto in parle dalle teoriche del Locke e in parte da quelle del Reid
[CITATO DA H. P. GRICE, “PERSONAL IDENTITY” – Mind, repr. PARRY], non credo che
volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione. Conciossiachè
debolissima è la sua psicologia, e quasi nulla l' ontologia, la quale egli
spesso non sa distinguere da quella, e sì confonde stranamente le quistioni che
all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica,
che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual
distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi, è riescito a trattar
della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un
gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come
allogare altrove. Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica
pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè
quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche, è
l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica.
Nell'estetica, per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della
teorica della volontà, senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa si
possono discutere, s'in trattiene a sostener l'opinione, un po' veramente
troppo vo luttosa, che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto
non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara
la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e però
men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son più
liberi, e, se così può dirsi, più spirituali . Del resto e' si può dire che GALLUPPI
non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti, ovvero se pur l'ha,
dubito forte non sia quella del Blair e SOAVE, autore di un'intera enciclopedia
d'istituzioni elementari per l'educazione della povera gioventù italiana,
filosofo, matematico, grammatico, relore, novelliere, moralista e SOMASCO, che
per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad infestar co' suoi
libri, i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto poi al suo sistema
sulla morale e sul di ritto, GALLUPPI non può dirsi che siane uscito più felice
mente che nelle altre parti della sua filosofia, e chi volesse prendersi giuoco
di lui potrebbe leggermente qui, come al trove, trovarlo ad ogni pagina in
contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni passati che il nostro
filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe un'istoria della filosofia, ma
sembra che per mancanza di soscrittori l'edizione non potesse andare innanzi,
sicchè dovette smetterne il pensiero, e l'opera morì ia sul nascere. Se in
questa, come nelle altre cose, l'induzione è buona, e si può indovinare che la
scienza non vi abbia perduto gran fatto; chè l'autore vi fa cea mostra d'
un'erudizione non molto riposta. E' mi ricor da fra l'altro che
nell'introduzione tentava ancora egli un'in terpetrazione del mito di Prometeo,
e giunse per non so che strane congetture a persuadersi che il celebre
prigioniero del Caucaso si era un anticore dell'Attica, che aveaprima insegna
to a quelle genti i primi rudimenti di agricoltura e sopratut to la
coltivazione del grano. Davvero mi sembra enorme non veder altro che questo in
Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di Mercurio, per comando di Giove e
per decre to immutabile del destino, e mi sembra più che enorme di struggere il
più profondo mito dell'antichità, e conver tire il figliuolo di Giapelo in un
mietitore, con una rovinosa metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera
del teatro di Sofocle in poco più di un'egloga. GALLUPPI e chiamato a dettar
lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli, e la scelta del governo
fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti, imperciocchè si
aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi
gigantesca tra noi, e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno avea
ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni di
esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è
stata delusa, ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di durevole.
Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata? quali le verità che ha dato
a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare della sua
filosofia al diritto, alle arti, alla politica, all'economia ed alle scienze
naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è feconda di
applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel circolo delle
quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo nome a cui
aspira, e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di scuola. Or tale si
è quella del professor napolitano. Però non dee arrecar maraviglia se le sue
parole uon hanno avuto un eco, se il suo insegnamento è stato per duto, e se,
fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuola, non ce ne ha pure uno di
cui si possa dire: costui conti nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il
maestro ha incominciata, nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più
inutile che le parole da lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. Non
ricorderò che di volo i nomi di MANCINI, TEDESCHI, GRAZIA, e WINSPEARE. De’quali
i due primi, siciliani, non possono dirsi, e sopratutto il primo, che seguita
tori, ma nè interi nè profondi, dell' eclettismo, e, poveri non meno di
erudizione che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due
scolari che non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo,
calabrese di patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi
giorni alla filosofi, ed ha, già sono qualche anni passati, dato fuori per le
stampe un'opera in cui intende a richiamare in onore e Locke e la filosofia
dell'esperienza, ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do
vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto, e
che agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter
l'autore, a sua insaputa, in con tradizione con sè medesimo, e l' un principio
del suo siste ma in opposizione con l'altro. WINSPEARE (si veda), giureconsulto
di rinomanza in Napoli, si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e
come frutto delle sue meditazioni pubblica “Saggi di filosofia intellettuale”.
La sua “Introduzione allo studio della filosofia” contiene un compendio dell'
istoria di cotesta scienza da Talete in fino al Kant. I suo “Dizionario della
Ragione” e un dizionario di filosofia che si propone lo scopo di fermare per
sempre le parole della scienza e il loro significato, affine di renderne il
valore così certo e indubitato come è quello delle matematiche, e distrugger
così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti secoli
il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore ha per ferma la
celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo, e che ora alcuno non oserebbe
di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che
controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste, abbiano
quelle immantinente da cessare. WINSPEARE traduce i “Nuovi Saggi” di Leibnizio,
dove da un vero modello della LINGUA FILOSOFICA ITALIANA, ancora così povera
tra noi (non credano i lettori che io esageri), pro ponendosi di più di venir
mostrando ne' suoi comenti quello che ci ha di buono e quello che ci ha di
vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco. Ancora qui
non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore. WINSPEARE expone il
sistema del Reid. E qui immagini il lettore il sistema del filosofo scozzese,
che non suole esser creduto, ch' io mi sappia, de'più oscuri ed astrusi,
esposto compendiosamente dal nostro barone, in un gran volume in quarto; chè
questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secondo WINSPEARE
e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere
obbligata; e di costoro il primo visse, già sono trenta secoli passati, in
Atene, e l' altro nacque in Iscozia. Questi due uomini sono Socrate e Reid .
Solo il Leibnizio potrebbe esser terzo tra costoro, ma egli è troppo lordato di
metafisicume per essere accettato interamente dall'illastre giureconsulto ; e
però, come è detto, e' si propone di purgarlo. Salvo adunque il greco, lo
scozzese e il tedesco, così purificalo, tutti gli altri uomini che han
consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i
loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ovvero
s'ingannano per difetto di giustezza di mente, ovvero si lasciano strascinare
dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è
sopra tutto ordinata ľ opera del WINSPEARE. Innanzi di lasciar Napoli non posso
trascurar di ricordare il nome di un uomo, forse poco conosciuto altrove, e che
eziandio tra noi non risuona molto, ancorchè il meritasse . Ma in tutte le cose
la fortuna è signora, ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa
maniera d'impostura. Co stui è COLECCHI, il quale, sendo già profondo
matematico, allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star
contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella
vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia
che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a
ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le
analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie
meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. COLECCHI sa penetrarvi
così addentro, che quasi le fece sue proprie, e spesso osò modificarne alcune
parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata
col suo autore, ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener
che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro
dottrine. Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri
dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del
Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove
distingue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè
che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando
egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci
con l'esperienza ma non tutto da quella derivi. Cotesto è forse il più
importante e il più vero di tutti i principii kantiani, comunque sia assai più
antico della critica della Ragion Pura. Leibnizio, fra gl’altri, avea già
insegnato l'anima escir dalle mani del Creatore con tutte quante le idee
necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua propria essen za; ma
che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma teria, han bisogno che
l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda,
benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una
figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove
questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura, ma si
cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima
dottrina può tro varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di
sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra,
come tutti sanno, della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i
discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta, dimostra siccome è nelle
nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e
generale che non si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque
che sieno eguali insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove
quella è tale che noi sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non
possiamo comprenderla altrimenti col pensiero, questa per contrario è mutabile,
sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose, che pur ieri
ne pareano uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della
differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono diversamente.
Onde egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover confondere con quella
delle singole cose a cui questo attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime
cose Platone dimostra del bello, del giusto, del vero e di altre cosiffatte
idee, che non si possono confondere con gli obbietti sensati, a cui si trova
che solo per contin genza alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e
che sono come un debil raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose
mutabili vengonsi a riflettere, e che di quelli solo per accidente partecipano
( METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo
strumento per cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee, sendo
che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da'
sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti, i
quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella,
lasciata la sua celeste dimora, discese nella prigione del corpo la tal guisa,
secondo il divino Platone, il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è
ricordarsi. L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui
solo, si è la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a
farne conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose.
Teorica d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se
l' uo mo ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche
verità, ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere
immagine del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto
la sua propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello. Chi
concede questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee
esser tenuto per kantista, siccome io affermo di COLECCHI, quali che fossero in
parti secondarie le loro di vergenze. II COLECCHI pubblica un gran numero di
articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha
raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso
prende a combaltere GALLUPPI, e se il faccia con buon successo, e se gli
avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo.
Conciossiachè il sistema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe
resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due
volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche, di cui mi riesci di
aver le bozze di stampa per le mani, poichè il libro non potè veder la luce .
Cotesta estetica, come tutto il sistema del nostro filosofo, è quella me desima
del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo spirito
possa alquanto rinfrancar le forze. Egli è quasi che inconcepibile come quel
divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende misteriosa mente nelle
volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle, pos sa esser materia su cui
s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze, con le quali è al
postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello e dell'arte, alla
guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel cada vere, o
quello della luce nelle tenebre. Mentre questa fortuna si aveano in Napoli le
discipline filosofiche, nelle altre parti d'ITALIA non mancarono di essere, ove
più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que sti ultimi tempi videro
levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i Napoletani. In Italia è
succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in manifesta opposizione con quello
erasi veduto finora nell' istoria della nostra filosofia, la quale in fino
dalla più remota antichità, ha avuta nel mezzodì della Penisola un' indole
diversa che nel settentrione. Colà il razionalismo ha dominato, qui la scienza
ha più presto incli nato al positivo e alla pratica; quasi queste due diverse
ten denze della filosofia si fossero geograficamente diviso il terreno. E in
vero mentre nell'una parte venivan su LA SETTA DI CROTONE E QUELLA DI VELIA, nell' altra la sapienza
etrusca s'introducea in ROMA, che può dirsi il paese per eccellenza della
politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di tempo i
due estremi si andarono ravvi cinando, e l' idealismo si accostò al suo
contrario e quindi risultò l'indole vera della FILOSOFIA ITALIANA, che è
insieme speculativa e pratica, come quella che domanda i principii ma non
dimentica le applicazioni, e, se intende di levarsi. sino al cielo in su le ale
della speculazione non perde però di vista la terra. Se non che è innegabile
che non ostante il ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la
differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi del mezzodi restaron
sempre più razionalisti, e più pratici quel li del settentrione; testimonii VICO
e BRUNO da una parte, MACHIAVELLI e POMPONAZZI, per non citarne in fioiti,
dall'altra. Ora al nostro vivente, come dicevo, il fatto inverso si è veduto
avvenire, chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla
psicologia, e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino all'
ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni, venuto meno a noi, si
fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono SERBATTI, ROVERE, e GIOBERTI.
SERBATI ricorda in certo modo i nostri buoni filosofanti delle scuole, i quali
chiusi fra le mura di un chiostro, alternavano la vita fra la preghiera e la
meditazione, e vedeano scorrere in silenzio i loro giorni senz'altro pensiero
che quello della chiesa e della scienza. Così il no stro abate, pievano di un
piccolo villaggio in quel di Novara, si è dedicato tutto quanto alla religione
e alla filosofia, con una fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed
altri costumi . Egli era già conosciuto per altri scritti di filosofia
speculativa e di diritto pubblico e naturale, quando pubblica per le stampe una
sua opera sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine,
per la forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel
fatto dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere
allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce.
Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo
stile e delle parole. Il problema che l'autore principalmente discute in questo
suo saggio è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più
specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della
conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza.
Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi
obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni, e quale a
render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi
campi della terra, che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da
legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a
taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che
egli ama, l' inimico che odia, le catene che legano i suoi piedi o l'oro che
brilla nella sua scarsella, e' non si dubiterebbe pure un momento di di
chiararlo mentecatto, e condurlo di presente all' ospedale dei matti. Or la
filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad
ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de'
poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della
scienza, anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol
già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene
rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo
pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della
conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi,
o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa
con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che
esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar
quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè
medesima o infedele alla sua divisa, ha consentito ad accettare il nulla con
una rassegnazione da disgradare un anacoreta, e a conchiudere che il genere
umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose. O alliludo!
Or l'opera di SERBATTI è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta
quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii
sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati, i quali
tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione. Di
scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione
strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in
una maniera non tolta da altri, come i filosofi di lutti i tempi sono andati
errati in questo, o per eccesso o per difetto, dappoichè alcuni non vollero
riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito, ed altri cre dettero di
vederne in maggior numero che veramente non sono. Lontano dall'errore degliuni
e degli altri, SERBATTI ni ne ammette sol' una, cioè ľidea dell'essere, forma
uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito, la
quale non ne suppone alcun'altra prima di sè, ma bene da tutte quante le altre
è supposta, come quella che alla loro formazione è necessaria. Or su questa
idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto
dell'esistenza, anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo
giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza, da’concetti a’fatti.
Non io qui intendo di difender l'una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi
propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione
cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra. Quale si è la difficoltà
arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà? Noi non sappiamo le cose, e'di
cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella
rappresentato? su qual ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto
? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto a SERBATTI, non è punto diversa
dalle altre, e indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te
natura; e, se è vero, come è, che la è generale e necessa ria, non è però vero
che a differenza delle altre idee di que sta medesima natur, sia di per sè
stessa obbiettiva e atta a porci in relazione con le cose reali . Sicchè l'
antica quistione non è stata per voi risoluta, anzi rimane tultavia intera,
potendosi opporre all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre
idee, non ostante i vostri sforzi per sostenere il con trario . Vero è che
l'autore, dopo cinque faticosi volumi, con una rara, non so se io dica superbia
o modestia, dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina, e che
egli in vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa, di esser chiaro e
intelligibile. Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell'opi passa
dall'idea e nione di SERBATTI una pericolosa teorica da cui agevolmente si può
sdrucciolare nel panteismo. Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre
cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal
suo autore, e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti
mamente si possono far discendere dalle sue opinioni, certo pon indugerebbe
pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar
troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in
un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui
regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica
che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto.
Ultimamente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio
universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le
opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure
strano vederlo sem pre e da per tutto. ROVERE pubblica in Parigi il “Rinnovellamento
dell'antica filosofia italiana.” Oltre al nome dell'autore che già risuona
nella nostra penisola, cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione
dell'universale sul saggio di ROVERE. Conciossiachè si credette di vedere certo
orgoglio nazionale, e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di richiamare
in onore e in vita la nostra antica filosofia. La ste rilità pedantesca de'
nostri filosofi non avea fatto escirle loro scritture dai limiti della scuola,
e privatili così d' ogni maniera di popolarità in un paese in cui gl’uomini
consacrati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi,
perchè levi gran grido nell' universale un saggio di materie così speciali. Ma
questa difficoltà ROVERE riesci a superar felicemente. Or vediamo qual sia la
sua idea. I filosofi italiani non solo sono slati primi nell’ordine del tempo a
incominciar la guerra contro la scolastica, da cui poi dovea venir fuori la
filosofia moderna, ma ancora sono entrati innanzi agl’altri per la profondità e
dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui
unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto,
riconducendole all'osservazion della natura, da cui le astrattezze della scuola
aveanle allontanate; metodo di cui la filosofia moderna mena gran vanto come
della più bella delle sue invenzioni, e della sola armecon cui sipossa giungere
alla scoperta della verità. Ancora fecero di più, e non contenti ad indicare
altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella, e ri
ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo, riescirono a crear de ' sistemi a
niuno secondi di quanti ne’tempi posle riori si son veduti venir fuori. In
questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere e
da mo dificare, ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano
ben altra cosa che dispregio e noncuranza. La filosofia moderna avrebbe da
studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è, e far
tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori
la libertà o la vita . Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire
sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire
e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla, e in vece di tener
die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro clima
della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e
nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita
e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata fra essi. Le altre
parti del saggio di ROVERE son destinate
a svolger la vera natura di questo metodo, che, secondo lui, è quello dell '
osservazione, il quale a molti può parere non acconcio a condurre la scienza là
dov'essa dee pervenire, e che a me sembra egli confonda troppo con i
procedimenti I delle scienze naturali. Ancora ne viene mostrando l'
applicazione a parecchie quistioni speciali, che egli si studia di risolvere
seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò
sino a che punto i grandi filo sofi italiani del risorgimento abbian seguito il
metodo di os servazione, siccome ROVERE l' intende, nè se questo me todo, sì
utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè
cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che
non ho in animo di discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento
della nostra antica filosofia . L'idea di ROVERE si è di ri chiamar in vita tra
noi le nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella
penisola un tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato
che ogni pae se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue
da tutti gli altri, e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è
vil cosa di non rispettare come up dono della Provvidenza, e di non custodir
gelosamente come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa
differenza d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni
popolo, negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un
modo speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose. Gl’obbietti
sì del mondo fisico che del morale, si possono giustamente chia mar poligoni,
in quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può, rimanendo sempre il
medesimo, esser considerato in mille guise diverse, e produrre, secondo queste
diversi tà, mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere
variamente riguardate, tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni
popolo di spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio,
esercita vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita, nè ci ha
cosa che possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e
i suoi infiniti accidenti, da cui ogni letteratu ra direttamente sorge, facendo
ritratto dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno
di realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e l’opera dello
spirito, e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a
restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se
ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali,
occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle
qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma
altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di
cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire
alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo, dell'uomo e
delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità
italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gl’Italiani e per i
Tedeschi d'intendere i medesimi veri, di considerar gli stessi fatti generali,
sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra.
Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese
o tedesca, dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale,
dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a’faiti ed è
quindi più sperimentale o empirica; differenze che trovandosi nell'indole della
scienza, mostrano che ci abbia da esserne un'altra corrispondente nell'indole
delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na zionalità
della filosofia, sendo però necessario di far due os servazioni su tal
proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un intero
isolamento scientifico, ovvero credere che ogni idea straniera possa esser
contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na zionale.
La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la terra, nè
è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il genere
umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob bligati di
riconoscerla per tale, ove che la sia, e di abbrac ciarla e farle plauso e
festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte e sicuro
di sè medesimo, le darà a sua insaputa quell' atteggiamento particolare, e
quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo dell'indole di uno o di
un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni consiglio su tal
proposito dee tornare quasi inu tile, e che quindi debba riescir vano il
raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella filosofia. Basta
es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori arsene per avere
untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non avvedendosene, in tutte le
parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se un paese è debole e
corrotto, se già ha perduto la sua indole nativa, i consigli de'dotti saran
vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità nelle al tre cose, non gli
sarà possibile dicustodirla nella filosofia più presto che nella letteratura,
nella politica e nelle arti. Del resto ho voluto dir queste cose più presto a
proposito di ROVERE che contro di lui perchè nè l'uno nèl' altro de' due
rimproveri gli si può fare. Quanto poi all'idea d' incomin ciar la scienza ove
l'hanno lasciata i nostri maggiori, certo GL’ITALIANI d'oggidi avrebbero ben
torto di dimenticare i no bilissimi lavori de'loro padri e le dottrine onde
hanno splen didamente arricchito la scienza, ma è da vedere se per far questo
si convenga rinunziare a tutto quello che lo spirito umano ha scoperto in
processo di tempo, perchè non è ve rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi
lavori per tre se coli e più. Credo che non sia questa strettamente l'opinione
del nostro autore, ma domando se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua.
Eccomi finalmente arrivato a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei
che è giunto ad ottenere una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io
parlo di GIOBERTI, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall'
uno all'altro estremo della penisola. Quindi è che ciascuno si è creduto in
diritto di dar la sua opinione e il giudicarlo a sua posta, onde egli si è
trovato esposto a’più contraddittorii giudizii, alla più inetta critica, alle
noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida
ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si
lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte, a' nuovi ed a' vecchi
pre giudizi, dirò franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo,
quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e
che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar sentenza,
perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi
schiarimenti e la prova del tempo. Intanto per por tare in fin da ora un
giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare
sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se
condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti
e quasi niente della terza . Come filosofo, GIOBERTI appartiene senza fallo
alla no bilissima schiera de’ BOTTA, de’LEOPARDI e degli altri che in questi
ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di
renderle l'antico splendore, la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo
ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati, e che le aveano negato la
fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni
di quello in cui noi viviamo, e che ancora regnano appo la maggior parte de’filosofi
di cui innanzi è discorso, la cui lingua, e più ancora lo stile, si penerebbe a
crederlo italiano, e si direbbe compassionevole, se la pretensione non non lo
rendesse più tosto ridicolo. COSTA può dirsi il primo che in questi ultimi
tempi tratta di filosofia con correzione di lingua ed eleganza di stile, ma
oltre a questi pregi, non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co
stituiscono il grande filosofo. La medesima cosa può affer marsi di ROVERE la
cui lingua è pura, lo stile esalto ed elegante. M invano si cercherebbe altro
nella sua prosa. SERBATTI, senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di
una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi
delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea. Tull'altra cosa
è di GIOBERTI nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola
mente; qui è ricchezza smisurata, nobiltà e vera eloquenza, tanto che si
potrebbe citar de'passi da valer come modello da imitare. Conservando il tipo
originale e l'antica grandezza della nostra lingua, e’la tratta pur tultavia
come la lingua d'un popolo che è ancor vivo, che ancora ha uno splendido posto
nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio. Chè
nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano
andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di
corromperne la natia purezza, non si vorrebbero allontanare da' limiti del
trecento, e si spaventano d'ogni innovazione, come se fosse morta la lingua
parlata da ventiquattro milioni d'uomini. Niuno di questi rimproveri non può
farsi a GIOBERTI, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra i
filosofi di prim'ordine. Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente
immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi, si abbandona
talora un po’troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe
inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio. Non
su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria
chiaroveggenza, per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi
avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze,
scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar
gomenti, della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo
non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui.
Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia
italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo
alle questioni psicologi che, ovvero non osando che modestamente occuparsi di
quelle di altra natura, si son tenuti lungi da' più alti problemi ontologici
sull'origine, l'essenza e le leggi della realtà, quistioni in cui risiede tutta
la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un sì
alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i Tedeschi
sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie troppo
ristrette, e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più
ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato, da cui le modeste pre
tensioni della psicologia l'aveano scacciata, e in cui solo potea incontrarsi
con quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e
riacquistar così la vita e l'importanza primiera. Quest' obbligo la scienza
deve indubitata mente a’moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze
a cui sono giunti. GIOBERTI ha tenuto il medesimo cammino, ma con mezzi
alquanto diversi, ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura. Anch'egli
vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche,
e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla
causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno, riproducendo nell' ordine
ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia
cristiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia, in modo
da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i
Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di
questa spiegar la, egli, per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi
ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione, in guisa che
fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di
partenza è una formola sin letica, la quale, benchè d'accordo col Cristianesimo,
anzi, appunto perchè è di accordo con esso, spiega l'uomo e l'universo e le
loro relazioni con Dio, onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il
pensiero e la natura, le società e le civili istituzioni, la scienza a l'arte.
Io non mi fermerò su’varii punti del sistema, nè sulle varic applicazioni che
egli va facendo del suo principio, nelle quali dimostra una potenza di mente
mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie, ma non posso tacere che
soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del
sistema, e a certa smania di costruzioni a priori, le quali son certamente del
dominio della scienza, ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione.
Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè
Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e
per mezzo delle idee, ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere a
taluni troppo minuti particolari, i quali sfuggono alla scienza e non si
possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E
chi sa se nell'universo, come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero
assoluto della legge ha termine, e quello dell' arbitrio, del capriccio e
dell'accidente incomincia? Certo è giusto di volere co' principii razionali
spiegar le leggi e le generalità delle cose, ma è strano il pretendere di
spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale
d'ogni avvenimento, d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni
onda che la forza de'venti scaglia contro le rive, d'ogni foglia che la brezza
dell'autunno fa. cadere dal ramo; allora si potrebbe ripetere il detto di
Napoleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo. Vediamo ora
qual sia la formola suprema e creatrice del sistema di GIOBERTI. Ogni
filosofia, egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta
dell'essere, dee necessaria mente smarrire la diritta via. Siffatla nozione,
come quella che si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna
diversità, e che però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza
unica, cioè al panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non
risponde a tutte le esigenze della scienza, nelle applicazioni non trovasi
d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al
cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri
trovar modo di escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi
volte sedurre le più belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa
che conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire, chi
ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione
dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di
cansar l'errore, è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra nozione
che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non fosse
primitiva rispetto al nostro spirito, non potremmo acquistarla altrimenti,
essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra parte se
non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa ingenerata, e'
si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello stesso panteismo. Ma
fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato astratto,
considerandolo siccome concreto e creatore, perchè l' essere così conside rato
rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non fa parte
della natura di quello, ma che essendo un libero prodotto della sua volontà, è
legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo e ' si
avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito, cioè l'idea dell' essere
puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa verità-principio produrrebbe
un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore invece di partire
dalla nozione astratta dell'essere, è partito da quella dell'essere che per
mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha espresso
il suo principio supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e con
questo mezzo ha evitato ilpan teismo, ponendo il concetto della creazione come
il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via
questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto
che il suo sistema era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana,
ed altri altre difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di
costruire a priori una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè
un dato essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ?
Se si considera l'idea della creazione legata di necessità con quella
dell'essere, e allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza
assai vicina a quello della ne cessità della creazione; se poi si considera
essa creazione come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di
farla discendere dal concetto dell'essere, e dedurla da esso; anzi, essendo
essa libera e volontaria, il principio si dovrebbe esprimere altrimenti,
dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe
domandarsi : chi v'insegna questa volontà dell'essere? domanda a cui è
difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla.
Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto, la formola a priori è distrutta,
e si cade in uo circolo vizio so, col quale si verrebbe a dire che l' essere ha
voluto crear l'esistenza, perchè esiste, e che l'esistenza esiste, perchè
l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon de che non già
il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il concetto della
creazione, e allora si giunge diritto, come inpanzi dicevamo, alla necessità di
essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa discussione, che, come
tutte le altre, ho voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò invece alcuna
cosa sull'indole generale della dottrina di GIOBERTI. Nati in un tempo che è
succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è
in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire, noi possiam dire di
assistere al contrasto di due opinioni, le quali si disputano ostinatamente
l'impero dell'intelligenza. L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente
conserva trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente
il passato, i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che
domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente e nell' avvenire,
dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al
progresso infinito delle umane generazioni, al cammino dello spirito sempre
trionfanle e vittorioso. GIOBERTI non può essere accusalo nè dell'una nè
dell'altra estrema opinione, e il suo modo di vedere e giudicar le cose può
dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita
che lo spirito umano cammini, ma non crede che lutto quello ci ha di bene sulla
terra sia nato ieri; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede che
ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passato non è per lui
unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza vita e
senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa
che contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga punto
messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita
pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue opinioni
politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a
corrispondere a tutte le esigenze del presente, ammira il medio evo in tutto
quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la
ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia
degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le
utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi
voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi .
Il quale, come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur
tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori
della mediocrità, se ne trova pure altri, come quello di SERBATTI e GIOBERTI,
degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però
sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci
ha de sistemi e de’ FILOSOFI ITALIANI, non ci ha però una filosofia o una
scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè
dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie, e
nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da
contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a
pro posito del teatro, ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi
in Italia, ma non un dramma italiano, da po terne indicare l'indole generale.
Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto, ma quanto a' sistemi
filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti
o almeno i più importanti si accordano, e questo è l' essere ugualmente
ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti
di trovarsi d'accordo con la reli gione, e spesso con le prigioni, con l'esilio
e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla co mune
eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche, i filosofi
italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il pensiero,
la religione e la scien za, e compensano con la propria ortodossia gli errori
de'loro predecessori, i quali signoreggiano oltremonti e trovano nuovi seguaci
e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania . Certamente
sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi ultimi anni
abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi che
mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi sono
altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde applicazioni a
tutti i diversi ramidel sapere e della vita, ma accettarli interamente come
veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto per poi Italiani
la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per sofferire
qualunque maniera d'imitazione, senza che tosto ritorni in caricatura, ed al
cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà e di vita, mal si
convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de' Tedeschi, e la col trice
di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di avvilupparsi. Oltre a ciò
si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la filosofia tedesca, quando
dopo tante pro messe e sì grandi rumori, si è mostrata inetta a fermar niente
d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno, tace profondamente, e quasi
non ha un'idea o una parola comuni per farsi intendere, e le scuole deboli e
divise internamente o più non vivono o vivono di una vita che molto si rasso
miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha ragione tut tavia di lagnarsi
della loro impotenza e della vanità degli sforzi per esse fatti. Prima di
conchiudere sentomi spinto come di viva forza a ricordare un nome, che pochi
forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma che io non voglio tacere,
solamen te perchè colui che il portava ora più non vive, e perchè al tra meno
sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren dere. Io non so se le poche
pagine scritte da CUSANI giungeranno a'posteri, e molto più dubito delle mie,
ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi potrà cadere questo scritto,
sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc cupano di filosofia nessuno
forse fu fornito più di lui di mente veramente filosofica, la quale con più
sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe forse, anzi senza forse, dato
frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di lui si giudicasse da quello che
finora avea stampalo, perchè chi il conobbe può far giudizio sicuro di quello
che un giorno avrebbe potuto fare se gli fosse bastata la vita. Non so altri
che faccia bene e splendidamente sperare di sè, ma non dubito che fra tanti
dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de' nuovi nomi, perchè giovami di
credere, e i fatti mi confermano nella mia opinione, che la sacra fiaccola
della scienza non sia, non che spenta, affievolita nella patria del Vico, del
Campanella e di Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult
one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters and action, by man of
letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he was, would rather be
seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He edited the Museo di
FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one) was Vico – and more,
to criticse oters. He would not speak of ‘italian philosophy,’ but of
‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other philosophers – but he
was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely inferior to Vico” –
Incredibly that this philosopher is talking the same lingo as Machiavelli or
Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the Bruno, Campanella and
Telesio as the celebrated triunvirato, and there are references to some obscure
philosophers in his prose – about which he writes little to enthusiase his
reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica, Vico, Filosofia
Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico di Gatti -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il filosofo musicista – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes an important work on the theory of music
that survives in parts. Grice: “And then I played the piano!” – Gaudenzio.
Grice
e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo
italiano. The philosophical interest of his essays lies in his discussion of
natural law, for which he borrows from the Porch. He argues that through the
use of reason anyone can come to a knowledge of his moral obligations.
Grice
e Gauro: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. He appears to have been a pupil of
Porfirio, who may have dedicated one of his essays to him.
Grice
e Gedalio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A pupil of Porfirio, who dedicates his commentary on Aristotle’s
Categories to him.
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