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Wednesday, January 1, 2025

GRICE ITALO A-Z G GAR

 

Grice e Garroni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Garroni. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica, grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte.  Insegna a Roma. Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia Einaudi.Cura Benedetto, Bottari,  Melis, Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo stato empirico delle scienze  e vivono operanti nel meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari, Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Bruno e Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata, tratta da Rai Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui G. parla del Bauhaus e intervista Zevi e Gropius  Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica; Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.  Treccani L'Enciclopedia italiana". Legalità / Creatività.: G. legge Kant di Romeo Bufalo, in Studi di estetica, Bologna.  LORENZINI, Carlo (Collodi). Nasce a Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali, figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L., Ippolito.  È probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a Collodi, dove risulta ospitato dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val d'Elsa. Decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a Firenze. Terminato il corso trovò subito un impiego nella libreria Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere agli studi.  La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che ottenne l'autorizzazione alla lettura dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove  apparve il primo articolo firmato del L., L'arpa.  L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti, proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione e descrizione.  In estate il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani).  Con il ritorno dei Lorena nel Granducato, L. dapprima rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico milanese l'Italia musicale, per il quale compì un lungo giro tra Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi impegni giornalistici) e quando perdette definitivamente il suo impiego.  Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I. Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica musicale, teatrale e letteraria (tra cu una feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di Yorick.  Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al programma della Lente).   Il L. coltivava anche ambizioni di scrittore teatrale e compose il dramma in due atti Gli amici di casa ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano di farlo rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté pubblicarlo (Firenze), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Pubblica Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere), il genere "popolare" del romanzo e quello "borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.  Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857, preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.  Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa la sua attività di segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del periodico L'Italia musicale.  Nella capitale sabauda si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei Toscani.  Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione del quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (mentre il fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale interrotto, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo annessionistico.  A questa amara e disillusa evoluzione politica corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi, nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté chiese e ottenne di essere collocato a riposo.   Le non onerose incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante.  Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo ("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Ne Il Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata con il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime consenso ricevette la vivacità linguistica del testo.  Al teatro il L. continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio (fa parte della Società d'incoraggiamento teatrale e nella Gazzetta d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia) sia come critico e in qualità di autore. Pubblica a Firenze la commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini, rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; risale inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel Fanfulla con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero" che si prefiggeva L., più che quello del naturalismo letterario, era quello nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della contemporanea pittura toscana.  Del resto, anche nell'intensa attività giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità, in particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e nel Fanfulla, la sua attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.  A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di orizzonti.  In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante subentrò una fase in cui L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache) nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano 1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze). In esse riunì, senza alcuna revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature e tagli narrativi" (Asor Rosa) a formare un antinaturalistico ritratto "alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei "profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).   Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo ènominato dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso contributo. L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo", dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della superficie" delle cose (Asor Rosa), dal quale prendevano le mosse i due diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella svolta fu offerta al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione, condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate e le illustrazioni di E. Mazzanti.  Da allora, pur riprendendo la collaborazione al Fanfulla e continuando la sua attività di critico teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri di lettura Giannettino, che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini, e Minuzzolo: entrambi erano storie di bambini discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle famiglie e da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).   Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e ricevette da Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore, seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino; L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino; fino a La lanterna magica di Giannettino. Con la loro formula innovativa questi testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica Istruzione (cfr. Raicich): le diverse discipline, infatti, erano esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale".  Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e che era stato fondato da Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura infantile italiana. L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare. Velocissima è la pubblicazione in volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui Amicis pubblica Cuore), una terza di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad et figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu alterato da refusi e banalizzazioni.  Se ci si limita alle sole circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della "bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del giornalismo della seconda metà dell'Ottocento.   In realtà, nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la celebre fiaba è narrata.  Di tutto ciò non si accorsero né i contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita e la carriera del suo autore.  Negli anni della composizione e pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla e assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di cui divenne direttore e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi.  L'anno prima era morta la madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se stesso e isolandosi nel suo lavoro. L. muore a Firenze improvvisamente.  Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze) gran parte delle prose sparse del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote]). Le non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito, alla Biblioteca nazionale di Firenze.  Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. Minicucci, Tra l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I Convegno internazionale, Pescia. Altri documenti sono presso l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze; Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini - M. Zangheri, Firenze).  Tra le testimonianze biografiche contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica e nella Domenica fiorentina; i profili premessi dai curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze; a cura di I. Cortona, Lorenzini); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi, in La Lettura, Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze; inoltre Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano, Traversetti, Introduzione a Collodi, Roma-Bari; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze); la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori (narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica della Grammatica di Giannettino, a cura di Geymonat, Firenze.  De Le avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad, l'ultima rivista dall'autore -, ma corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate a Milano), corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari; infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di Marcheschi, con ampio corredo di note. Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano) con introd. di P. Italia e prefaz. di V. Cerami. Per il resto si rinvia (anche per la letteratura critica) alla Bibliografia Collodiana di L. Volpicelli (Pescia), da integrare con la citata Bibliografia di D. Marcheschi, aggiornata,, alla consultazione del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi di Pescia.  La storia degli studi critici sul L. in gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di Collodi, cur. Viola e Rovigatti, Roma; Pinocchio. Breve storia della critica collodiana di Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia Roma. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine en Italie, in Revue des deux mondes, Pancrazi, Elogio di Pinocchio, in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della Nuova Italia, V, Bari; Bargellini, La verità di Pinocchio, Brescia Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze; Baldini, La ragion politica di "Pinocchio, in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze; Pancrazi, Capolavoro scritto per caso, in Id., Scrittori d'oggi, Segni del tempo. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi, a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi collodiani. Atti del Convegno Pescia; Pinocchio oggi. Atti del Convegno pedagogico, Pescia-Collodi, C'era una volta un pezzo di legno. Atti del Convegno La simbologia di Pinocchio", Pescia Milano; Folkloristi italiani del tempo del Collodi(, Pescia, cur. Clemente - M. Fresta, Montepulciano; Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia cur. Bernacchi, Firenze; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda, Lucca.  Per il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, Firenze e le citate pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel centenario.  Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma; G. Cives, Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura. Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa, Giachery, Tre compari intorno a un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma, Gómez del Manzano - G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci; A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel tempo, Torino, Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti di donne, Milano, Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due fortune molto diverse, in Scuola e città, Farnetti, I notturni di Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino; Tempesti, Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Spinazzola, Pinocchio et C., Milano Toesca, La filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di burattino, in Forum Italicum, Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, Randaccio, La "Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di onomastica, Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova Antologia, Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi cattolici; Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", Lucca; Sterne e Collodi, Lucca, testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi, F. Tempesti, Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine, Iermano, Da Parravicini a Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, Carosi, Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma; A. Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano; Moret, Pinocchio e le pinocchiate in Francia, in Levia gravia, Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi piemontesi, Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo, Lavizzari, Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti,  Geymonat, Una grammatica di buon senso, in Collodi, La grammatica di Giannettino, cur. Geymonat, Firenze; Marello, La dubbia efficacia del paternalismo induttivo, i Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia, Roma, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa. Proietti. Ho intervistato G. presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio relatore Amoroso, di scrivere un saggio i sull’estetica di G.. G., molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi. G., nei suoi testi c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica, in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima di estetica che di SEMIOTICA. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di SEMIOTICA, l’interesse non e rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione e questa. Perché mi sono occupato di SEMIOTICA? Sono stato attratto anch’io nel vortice della MODA della SEMIOTICA. Ma forse ho anche qualche motivo serio per farlo. Provengo dalla cultura estetica imperante in Italia, di tipo crociano, dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro. Anche i tentativi che sono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Zevi, nella musica da parte d’altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché resta pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si puo sapere, come pure e nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte e veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto questo intuizionismo mi urta. Non a caso mi avvicinai in un [Questa intervista nasce dunque come appendice al saggio di Ferrari, Estetica e FILOSOFIA in G, Pisa. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino] primo momento a Volpe, citato già nel mio saggio e ampiamente discusso insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Volpe? Perché in lui c’e l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del LINGUAGGIO. In VOLPE insomma l’opera si presenta come analizzabile, ed effettivamente Volpe conduce ANALISI SEMANTICHE, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi semantiche si occupano inoltre anche di varie arti non linguistiche. L’appendice alla Critica del gusto, che riprende il tema del Laocoonte lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è un caso che al proposito si citi Brandi, che non e mai un semiotico, anzi e un accanito ANTI-semiotico, e tuttavia pone le basi di un’autentica analisi dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho sempre letto. Insomma: mi interessa di poter disporre di una teoria che permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura COMUNICATIVA. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli come SEGNI  (per esempio, nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si dimostra anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzo cioè di produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua costituzione. Non pretendo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono accorto che quel lavoro puo forse essere interessante come mero esperimento, ma non porta a niente. In realtà non porta a niente né la semiotica materiale di tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica, saggio semioticamente troppo ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica, che è una dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più decisa, anche se già più che affiorante nei saggi precedenti, verso altri orientamenti. Una precisazione importante. Mi sono distaccato dagli studi di semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: tento di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma ANALOGHE, nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte codificata, fonematica, monematica e grammaticale. Ma, nell’uso, poi, il linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di [ G., La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma. Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano. G., Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari. G., Ricognizione della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma] più da linguaggi chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento della filosofia di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in particolare della terza Critica, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che ando maturando una mia interpretazione di Kant, essa e sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. Come reputa di inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è SCAVARELLI. Scaravelli dà un’interpretazione fulminante della terza Critica, mettendo in evidenza cose che non sono mai state viste, e che invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: BARATONO, che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e quindi della scienza. È insomma una parziale anticipazione di Scaravelli. Un ultimo riferimento notevole è MATHIEU, che è giunto a risultati analoghi nei riguardi del cosiddetto Opus postumum. Questi sono i miei più importanti riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte opere di studiosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho, e ottimi. Per esempio MARUCCI, con cui ho avuto anche una corrispondenza che, come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica». Con Marcucci sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi saggi e io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo, soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico della facoltà di giudizio. Ma spesso è più [Le considerazioni più rilevanti sulla terza Critica sono in: Scaravelli, Osservazioni sulla Critica del Giudizio, poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze. Cfr. Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del Giudizio, Logos. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’Opus postumum di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino; Kant, Opus postumum, a cura di Mathieu, Zanichelli, Bologna. G., Marcucci, Lettere kantiane, Studi di estetica] proficuo non essere d’accordo, che l’esserlo. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho scambiato idee, ho letto il suo saggio su Kant che apprezzo molto. Per esempio, ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo, e abbiamo parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Salle, e Rocca, che mi interessa molto. A proposito di Salle, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo, chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che stavamo entrambi traducendo la terza Critica, rispettivamente: Critica della capacità di giudizio e Critica della facoltà di giudizio. Ma dovrei ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Giacomo, Montani, Catucci, Velotti, che ha scritto un bel saggio che si occupa largamente di Kant, recentemente edito da Laterza. E soprattutto Hohenegger, con il quale ho lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. Rocca è un caso per me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio stesso della facoltà del giudizio. Eppure Kant dice, mi pare più volte e chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da quello. Il caso di Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di DESIDERI, che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’ complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è uscito un suo saggio, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione, che a lui sta bene, al contrario di Rocca. Ebbene, [ Cfr. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma, con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano); Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, Physis.  Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes, Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente all’uscita di Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di Tedesco, Aesthetica, Palermo, Hanno introdotto la discussione Amoroso, Ferraris, G., Russo. Partecipanti: Carbone, Carchia, Angelo, Giacomo, Diodato, Ferrario, Goldoni, Griffero, Kobau, Lombardo, Mattioli, Mazzocut-Mis, Montani,  Pimpinella, Pizzo Russo, Salizzoni, Tedesco, Tomasi, e Velotti. La relazione di G. e altre relazioni e comunicazioni sono state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint». A Cerisy si svolgono le attività del Centre Culturel International cerisy.asso.fr). Il Colloquio su L’Esthétique de Kant si svolse. Gli atti sono stati poi pubblicati in Kants Ästhetik, hrsg. H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin. Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di Amoroso, BUR, Milano. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di G. e Hohenegger, Einaudi, Torino; Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari; Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia;  Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova] curiosamente non ho mai avuto rapporti personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo saggio che questa idea gli è venuta leggendo una serie di saggi, fra cui il mio, ma anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono idealmente» in rapporti di discussione. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso si prendono in considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per un certo verso anche in Senso e paradosso, si argomenta intorno alla possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come estetici, rilettura nella prospettiva del senso che è a Lei propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una STORIA DELL’ESTETICA (Grice: “Bosanquet, a minor, has!”), né mi è mai venuto in mente di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei saggi, somiglianze, identità parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica, dove sono usciti alcuni ottimi saggi, per esempio quello di Angelo sull’estetica della natura e dell’ambiente. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un saggio di Guastini sull’estetica ANTICA, particolarmente interessante, perché riesce a chiarirla senza mai dimenticare che la LA FILOSOFIA ANTICA non possiede una vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma perché i suoi [G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano; G., Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari; La serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana Biblioteca di cultura moderna; Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari] problemi erano alquanto diversi. Ebbene, in quel saggio si vedono bene, come le dicevo, e differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio saggio, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione. Nei suoi più recenti saggi, Lei lamenta il fatto che l'arte non riesca più ad essere esemplificatrice di una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte propensioni opposte a questa tendenza generale? Sull’arte ho poco da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte, occupandomi dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni, compresa l’avanguardia novecentesca. Mi sono avvicinato di più all’arte che si sta facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi interessavano. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido. Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- [Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari; G., L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari; Pochi giorni dopo l’intervista, G.mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il suo ultimo saggio: G., Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari. Cfr. G., Relazione interna, relazione esterna e combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo scambio delle arti, Venezia, poi in: G., L’arte e l’altro dall’arte, cit.; G., Senso e non-senso, conferenza letta a Coloquio Latino-americano de Estética y de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo, poi in: G., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari; G., Crispolti, Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma; G., Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma; G., Il mito negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma; Benedetto, Amore Uno: 6 acqueforti, presentate da G., Il Torcoliere, Roma; Benedetto, Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma] levisore, quasi che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degl’artisti, ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o telematica. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e Wittgenstein) è Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e Heidegger sono i due filosofi più importanti. Questo forse sarà un giudizio estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono tra i pochi più importanti. Io trovo motivi di interesse per un certo verso più in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti, ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: CARABELLESE. Carabellese è stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese nell’ambito filosofico e stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità. Confesso di preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io tento di ispirarmi a quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma soprattutto per alcuni Sul problema interno della filosofia, cfr. Carabellese, Che cos’è la filosofia?, Rivista di Filosofia; Per le critiche alla semiotica, cfr. BRANDI (si veda), SEGNO e immagine, Milano, Il Saggiatore] aspetti filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo schematismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi, l’Architettura barocca, Duccio, eccetera eccetera, per rendersene conto.  Da sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa. C'è stata un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei lettori, come dire?, convinti. Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo del libretto Racconti morali: lontananza e vicinanza. Ebbene i miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che non hanno capito [Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma; Brandi, Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino Brandi, La prima architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze G., La macchia gialla, Lerici, Milano G., I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma G., Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma; G., Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma G. si dedica non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel libro- intervista: G., Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni Associate, Roma; G., Racconti morali, cit.] ciò che io chiamo il guardare-attraverso. E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una sorta di postfazione, ai testi filosofici. G. non è stato soltanto uno dei filosofi italiani più importanti, ma anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di questo focus di Syzetesis dedicato ad alcuni Momenti di FILOSOFIA ITALIANA sui suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come filosofici, quali quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fare solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione dominante di G., e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di G,, curata da A. D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” G. e Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma 2005.  3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?, testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma; G. poi rielabora questo testo in La mente, il corpo, le cose, in Carignani e Romano, Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Angeli, Milano; Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in G. alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo” dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella prospettiva critica adottata da G., ha ben poco da dire), ma neppure come una dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per G. il senso dell’esperienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte, l’estetica come filosofia non speciale), è bene ricordare che per G. l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio oggetto epistemico o materiale, ma riguarda le condizioni di possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare. Per G., infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piuttosto il compito di guardare-attraverso le esperienze determinate, per Cfr. G., Sul dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano (seconda ed., Castelvecchi, Roma, con un’introduzione di Velotti, testo presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane (Siena).  Cfr. G., Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Bari G. usa il termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philosophische Untersuchungen, ed. Anscombe e Rhees, Blackwell, Oxford, Trad. it. di Piovesan e Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi. È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni, die Erscheinungen durchschauen: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla possibilità dei fenomeni. Velotti   risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo guardare- attraverso i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che G. ammirava e le cui tutoriale frequenta da pupilo alla Sapienza – è infatti per G. un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. Vorrei partire, però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che G. non considera affatto un’esigenza contingente. G. lavora per diversi programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (si ricorda, per esempio, un bel documentario su AOlivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista. Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse culturalmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei citare a cui G. lavora: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scienze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione di Seroni e Piccioni, diventato programma televisivo come settimanale di lettere e arti, più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettuali dell’epoca (Bacchelli, Bo, Cecchi, Longhi, Ungaretti, a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco), per non menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo Emilio G., Senso e paradosso Cfr. Dolfi e Papini, L’Approdo: storia di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan et Levi, Monza Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale Gadda (o, più tardi, di CAMILLERI (si veda), coetaneo di G., o ancora di ECO (si veda), che di G. è un costante interlocutore. G. dà conto della sua attività televisiva in un’interessante intervista da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibilmente volto al capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì G. – deve essere certamente colto, ma c’è di più: deve essere, nel campo della letteratura, delle arti figurative, della musica, oltre che colto, anche intelligente. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire. Deve insomma essere qualcuno, precisa però subito G. che sia capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto costante di G., che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica che oggi seduce molti, anche i filosofi: occupare una casella nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo compito – inteso da G. come un compito intellettua- le, culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica come filosofia non speciale, cioè come filosofia tout-court [“LA FILOSOFIA, COME LA VIRTU, E ENTIERA – GRICE], benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con FERRARI (si veda) e la duratura e profonda amicizia con MAURO (si veda). Ma anche l’attività giornalistica e nelle modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative le stesse pratiche pittorica e narrativa. G. esordisce con una raccolta di racconti L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino Velotti  a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La macchia gialla, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice. Là dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di G., un autoritratto verbale dell’autore, a cui seguirà venti anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto su cui torna in chiusura. I curatori della collana Narratori dell’editore milanese Lerici sono due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, BILENCHI (si veda) e LUZI (si veda),  i quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritratto semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato d’acume e humour. Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante di G.. È nato a Roma in un ambiente abbastanza sciatto e approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa piccola borghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze. Si è accorto che anche la sua formazione culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacunosa e assai provinciale. Si è LAUREATO IN FILOSOFIA presso la Facoltà di filosofia a Roma, G., La macchia gialla, Lerici, Milano Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito dell’associazione “CiEG - Cattedra internazionale G.  12 Ma, come ha scritto Ammando all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di G. (Il circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di G. – Roma”), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, si puo affermare, in proposito, che crisi, al pari d’oriz-zonte e senso, è una parola cara al pensiero di G., almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto quanto mai incerto e problematico. Il senso dell’esperienza:  G. e l’estetica come filosofia non speciale  con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Pubblica saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del suo lavoro dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni collabora infatti alla televisione dove fa un po’ di tutto dedicandomi prevalentemente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti, dice, nobilmente divulgativi. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei personalità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una visita a un museo. G. scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile– con la CULTURA LICEALE imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano sono perlopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse strettamente tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. Non era un atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. È in balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, ed ècondotto più volte da certi suoi zii, che si riteneno intenditori d’arte, alla galleria nazionale d’arte moderna. Vuole solo dire che quella galleria è, nil luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. Così che la galleria nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante dei miei zii, di farmi capire G., La macchia gialla, cit., risvolto di copertina. Velotti come non si guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabile, come andare in bicicletta. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in cui G. si situa nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche eterogenei. Ha ricordato CARABELLESE (si veda) – che, al di là degli esiti del suo ontologismo critico, G. considera uno dei pochi insegnanti che ho avuto all’università che fosse anche un grande filosofo perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a SCARAVELLI (si veda) per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a BRANDI (si veda). È stato infatti proprio CARABELLESE (si veda) ad aver criticato sia GENTILE (si veda), sia CROCE (si veda) (come poi farà anche con SPIRITO (si veda) e CALOGERO (si veda) per non aver colto il problema interno della filosofia, la domanda, cioè, con cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità, le sue pretese. In una postilla Carabellese spiega così l’incomprensione da parte di Croce e di CALOGERO (si veda) del problema da lui sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a porre il problema della filosofia come problema del suo oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storicismo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra. G., Il piccolo Ottocento italiano”, in MELIS (si veda), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma G. e Fasoli, Il mestiere di capire, Carabellese, L’ontologismo critico,saggi, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   Il problema della riflessione sul senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama il paradosso della filosofia nel suo saggio intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che G. scrive, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì G. cita Carabellese e il suo saggio, e la replica di Croce, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, intendevano rifiutare l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e complementarità delle loro posizioni, che se rettamente intese si compongono in quello che G. chiamerà appunto il paradosso fondante della filosofia. Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigura una antinomia non risolta, formulata da G. in questo modo: Un problema interno della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da Carabellese; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabellese insignificante. G. fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo problema interno, come una sorta di meta-linguaggio che si esercita su un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una metafisica, o un sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo ontologismo critico), perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di CARABELLESE (si veda) e di CROCE (si veda) è invece comprendere la filosofia come risalimento, o come quel guardare- attraverso che risale dalla concretezza dei fenomeni, dall’interno dell’esperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche parte, e senza G., Senso e paradosso Velotti   però neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty [“whom Austin hated” – Grice – “but then why do you go to Royaumont in the first place?”], G. riassume così la sua posizione. Una filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da G. come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Rorty e il suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era stato presentato da VATTIMO (si veda) e Marconi, che aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come epocale), G. vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Putnam (“He had the cheek to say I was too formal! – GRICE) – per confutarlo: per G., porlo e comunicarlo è già confutarlo; immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, come il neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano pretese universali, e dovremmo conside- [G. e Fasoli, Il mestiere di capire, Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Trad. di Millone e Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   rare piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. G. replica: Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affermarlo. È questo quel taciuto guardare-attraverso – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente come un ritorno del rimosso a cui alludeva G. nel passo citato poco sopra dell’intervista con FASOLI (si veda), cioè la pretesa di stare sempre alle determinatezze dell’esperienza, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di esperienze solo con- tingenti e determinate. Per G., infatti, non si tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta, saremmo cose tra le cose. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza nella sua totalità indeterminabile. È questo movimento che G. ravvisa in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger sulla scorta dei quali la filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma che includono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere. Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più schematico, Kant formula in questo modo. Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, ché altrimenti se ne potrebbe disputare (decidere mediante prove. Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da G. nell’Estetica. Uno sguardo-attraverso, anche in relazione ad alcuni autori classici e a diversi autori contemporanei. Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli esseri umani proprio come cose tra le cose G., Senso e paradosso Velotti Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altrimenti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere composta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che G. fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio, il motivo per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confuta. Un saggio dedicato a MAURO (si veda), L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che G. propone poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo individuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere «un’esigenza che non può neppure essere lasciata cadere. E infatti poco dopo G. riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in zehn Bänden, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastad Trad. it. di E. G. e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Bari. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Bari. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata o, detto ancora altrimenti, per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condizione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue determinazioni: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che esse negano in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il linguaggio o la percezione [cf. GRICE e WARNOCK on SEEING – VEDERE], l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo motivo mi permetto di citare diffusamente. Ma l’analogia tra questa antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni concetto determinato/ concetto indeterminato e determinazione/indeterminatezza del linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e tuttavia sono altrettanto indispensabili Velotti   alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata procede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto leggi più potenti, non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive d’una conoscenza di oggetti dati in genere, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, che ci dà appunto solo una tessitura analitica, ma nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperienza. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn, senso o sentimento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze, il quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè mediante il sentire esteticamente dunque l’interna indeterminatezza del determinato. Sentire l’interna INDETERMINATEZZA [GRICE INDETERMINACY OF IMPLICATURE] del determinato è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della filosofia fa della filosofia, come estetica non speciale, una riflessione sul senso dell’esperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo dire infatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio mediante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di un SURRETTIZIO riferirvisi. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale. Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da G. in molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza, poi pubblicata in appendice al volume, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile e traspare in ogni SIGNIFICATO DETERMINATO, non rischiamo infatti di parificare tutti i significati nel loro essere varianti di sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro proprio far senso? Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona. Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi, convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo problema, G. lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia in relazione all’etnocentrismo: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà. Ma era proprio questo ciò su cui si interroga G.: non tanto la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E conclude così. Le considerazioni appena svolte non hanno una vera e propria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Cfr. G., Senso e paradosso. Si potrebbe sostenere che questo imperialismo della sensatezza sia stato proclamato e poi smentito da Fukuyama nel suo The End of History and the Last Man, mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e tuttavia prenderle così seriamente da negargli una dimensione comune di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order. Le due posizioni, insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica, Studi di estetica Velotti   in cui consiste la filosofia, vale a dire: che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere. Il problema del prevalere della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte non ha progressivamente ceduto a un’aderenza sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua ottusità, il suo darsi di fatto, come mero accompagnamento del senso, avendo per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella regola che non si può addurre di cui parla Kant nella terza Critica; una regola indeterminata che, non potendosi addurre, formulare o esplicitare. può essere, appunto, solo esemplificata in un esempio singolare, inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. Nel denso saggio di G. Immagine Linguaggio Figura troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato. Ricordo solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione d’immagine interna che ha preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo” kantiano, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa della percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle figure che nell’uso comune chiamiamo immagini, ma che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni dell’immagini interne, l’immagini interne sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni obiezione legata alla presuppo- [G. Estetica. Uno sguardo-attraverso, G., Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Bari G., Immagine linguaggio figura. Il senso dell’esperienza:  G. e l’estetica come filosofia non speciale   sizione indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche temi antichi come quello, centrale, della metaoperatività, un concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica. È l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il titolo di metarappresentazioni, ma che in G. si estende già all’intero ambito dell’operare umano un operare che è senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello G. introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’operazione determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno schema operativo. In Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle sensazioni come precedenti di un’immagine, sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, [G., Ricognizione della semiotica, Officina, Roma Cfr. per esempio Sperber, Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, Oxford. Una formulazione molto simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione all’interno di una prospettiva enattiva sulla percezione, a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da G. è possibile riscontrarla nei saggi di NOË (si veda). Per un confronto, su questi temi, tra G. e NOË (si veda), cfr. S. Velotti, Tecnica, in Ferrario, Estetica dell’arte contemporanea, Meltemi, Milano. G., Immagine linguaggio figura Velotti dunque distinte dall’immagine-SEGNO materialmente intesa, la figura, appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre capo a figure per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali è considerata da G. come il venire in primo piano di questa dimensione metaoperativa una rielaborazione della kantiana conformità a scopi senza scopo interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano vengono in primo piano questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza, come quella d’aggregato. Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto anche il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito solo percettivamente da un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Né la funzione dell’aggregato si esaurisce all’interno della prima infanzia, o nelle ipotesi relative a una infanzia dell’umanità o in forme di pensiero magico, se, come nota G., Ancora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di Winnicot in Senso e paradosso, G., Immagine linguaggio figura Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale sere evitati paradossi liminari, che denunciano in un certo senso la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Basta pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi, e così via. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di G., molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto da G. sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver subito una seria operazione chirurgica, composto da 13 comparti, che formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata Velotti Alcuni comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vissuti come oggetti estranei e familiari a un tempo. Figurano anche strumenti di studio e di affezione dalla Critica del giudizio a Tempo e racconto di Ricoeur, cose amate, come il Dissonanzen Quartett di Mozart che dà anche il titolo a un suo romanzo-saggio. Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione. Quando dicevo che la passione dominante di G. è quella di capire, di comprendere, pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su cosa si prova ad essere un homo sapiens. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di G.  un’occasione per elaborare, anche operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è possibile, nota G. in alcune notevoli pagine del suo saggio, mirare a cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il determinato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo aggrovigliato. Forse vedremmo, per così dire, solo l’indeterminato e ci sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di oggetti? Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di patologie gravi, quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno perfino il senso della nostra identità ma parimenti dovremmo escludere il caso estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti, il riconoscimento non G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da Olivetti, dice. Primi appunti su un Autoritratto di G., pubblicato nel catalogo della mostra G. Un Autoritratto, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma. G., Immagine linguaggio figura, Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   viene meno neanche nel caso di un risveglio depresso e confuso. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli oggetti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo è il nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di G., tendente piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia andare anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del ventennio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare i parametri della vita pubblica, la mente dei cittadini): Ormai si è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche, l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la mente dei cittadini, di cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo politico di trista attualità ho messo termine a questo saggio. La facoltà dell’immagine di G. e il suo contributo alla ricerca sulla percezione, i contenuti non concettuali e l’immaginazione . Il saggio di  G.,  Immagine Linguaggio Figura, è in parte  una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi trent’anni prima in  Ricognizione della semiotica Da una rielaborazione dei problemi abbozzati in questo  volume, e grazie a un’assidua  interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano, G. arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della sensibilità e  dell’intelletto   in termini di facoltà dell’immagine, da un lato, e  di linguaggio e concetti, dall’altro. Nonostante  Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma kantianamente irriducibili  dell’esperienza umana, lo statuto del linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva  all’interno di tale esperie nza, ma  solo in relazione all’«immagine interna», che deve essere considerata «la premessa e  la garanzia della realtà del significato delle parole del linguaggio. Naturalmente, Relazione tenuta al convegno di studi “G.: determinazioni e dissonanze, Chieti,  G.,  Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Roma-Bari, Laterza Ricognizione della semiotica. Roma, Officina.  Immagine Linguaggio Figura, dove G. precisa. Chiamo complessivamente immagine interna sia il precedente d’un’immagine, sensazione, sia l’immagine in quanto  attualmente prodotta, percezione, sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata, rielaborata, immaginazione, per distinguerle complessivamente dalla figura esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. Perciò mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabi le facoltà dell’immagine, tale da riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione. Immagine Linguaggio Figura. non bisogna cadere nell’errore di considerare l’immagini interne come figure (Bilder,  pictures) che avremmo nella mente. G. conosce bene la critica wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi, si potrebbe considerare la teoria dell’immagine interna come una lunga  e meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente l’articolo che G. dedica a   Minisemantica  di  MAURO (si veda), caratteristicamente intitolato L’indeterminatezza semantica,  una questione liminare. Sia sul versante della percezione e dell’immagine, sia su quello  del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti  in quest’articolo  quella correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che G. ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici articolazioni: il paradosso fondante della filosofia, ma a nche dell’esperienza comune di cui G. parla prima nella voce i  paradossi  dell’esperienza   scritta per  l’enciclopedia Einaudi, e poi in  Senso e paradosso non è altro  che un’antinomia inevitabile, modellata  sull’antinomia della facoltà di giudizio della terza Critica kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e indeterminatezza è  al centro sia della trattazione della facoltà dell’immagine, sia  della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto  nell’ultimo libro certi problemi già impostati in  Ricognizione della semiotica creando  MAURO [si veda], Minisemantica, Roma-Bari, Laterza; G.,  L’indeterminatezza semantica, una  questione liminare, in Ai limiti del linguaggio, cur. LEONI, GAMBARARA, GENSINI, PIPARO, SIMONE, Bari, Laterza, poi in G.,  L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e   di critica, Bari, Laterza.  G.,  I paradossi dell’esperienza,  in Enciclopedia Einaudi, Sistematica, Einaudi, Torino;  Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non  speciale, Bari, Laterza così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla ricerca stessa di G.; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in  Immagine Linguaggio Figura e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito  della psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della filosofia linguistica, infatti, o, se si vuole, con l’apertura della  linguistic turn al non linguistico quest’area di ricerca permette di riscoprire il problema della percezione e dell’immaginazione, creando  ambiti disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della natura della  mental imagery a quello dei cosiddetti contenuti non concettuali della percezione in cui un ruolo di rilievo assume anche la percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente da G.; da quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico  all’immaginazione. A  lungo considerata in area analitica come una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a questa parte l’immaginazione è al centro di  molte aree di ricerca: se ne parla i n relazione ai giochi di far finta games of make believe sia nel campo delle arti che in quello più generale dell’esperienza comune  9   Cfr. l’ampio  contributo di THOMAS, Mental Imagery, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, cur. ZALTA plato. stanford. edu/ archives/ win2011/ entries/ mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo kantiano Thomas dedica uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo trascendentale dell’intelletto della prima Critica:  aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare  alla natura per esibirlo patentemente dinanzi agl’occhi, Thomas mette da parte il problema concludendo che Kant, -- in attempting to grapple with problems about the nature of mental representation that the empiricists had failed to solve, leaves the process of image formation, and the nature of image itself, deeply misterious. Cfr. WALTON, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts, Harvard, (trad. it. di NANI, Mimesi come far finta, Milano, Mimesis, alle ricerche sull’autismo considerato da alcuni come una patologia dell’immaginazione, a quelle sull’EMPATIA  e sulla simulazione, ai cosiddetti  paradossi della finzione, della suspense o della resistenza immaginativa, e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: un’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una ricostruttiva e una creativa, e così via 11.  Immagine Linguaggio Figura   è stato scritto senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche contemporanee. Ma  è tutt’altro che un  libro estemporaneo o isolato. Anzi, G. lo ha potuto scrivere liberamente,  quasi di getto, solo perché sono almeno trent’anni che anda elaborando quei  pensieri. Abituati ormai a pensare, come è d’uso nella filosofia analitica,  sotto  l’ombrello di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di fondo  nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi nel caso della  mental imagery, per esempio, il primo discrimine che troviamo è quello fotografato dall’annoso e  fuorviante dibattito tra sostenitori delle  teorie analogiche e delle teorie PROPOSIZIONALI, la riflessione di G. sembra condotta in isolamento, e risulta  difficile da collocare sotto un’etichetta  univoca. Mentre non credo che le etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di G. e quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di G. in quel dibattito che nel bene e nel male è sempre più ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono contemplate -, potremmo  orientarci verso l’ambito delle teorie enattive, enactive, della percezione e delle  Per il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni,  e le relative indicazioni bibliografiche, rimando a VELOTTI,  La filosofia e le arti. Sentire,  pensare, immaginare, Roma-Bari, Laterza, in particolare il cap. 3immagini mentali, che costituiscono una terza via non computazionale rispetto a quelle analogiche e a quelle PROPOSIZIONALI (cf. Grice, CONTENUTO PROPOSIZIONALE).  Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti, il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di G. e le teorie della percezione,  delle immagini mentali, dell’immaginazione   nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico, artistico  è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in relazione al problema dei cosiddetti contenuti non concettuali della percezione, cominciando però dallo sviluppo  interno al pensiero di G. stesso, e in particolare dall’insoddisfazione per  la  semiotica denuncia. Alla domanda se la semiotica è sufficiente a se stessa, G.  rispondeva di no, perché la semiotica non poteva indagare il problema delle condizioni grazie a cui un qualcosa diviene SEGNO. Lì G. invoca la costruzione di una semantica trascendentale come metateoria di una semantica empirica e di una semantica logica, e indica il suo oggetto  specifico nei significati trascendentali, cioè negli schemi dell’immaginazione, affrontati in sede di schematismo trascendentale nella  Kritik der reinen Vernunft. G., d’altra parte, avverte avendo pubblicato Estetica ed epistemologia  l’insufficienza dello schematismo trascendentale della prima  Critica,  valido solo per le condizioni de)la conoscenza in genere überhaupt, ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata, e rimanda al principio trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo indagato da Kant nella terza  Critica. Nella Premessa a  Immagine Linguaggio Figura si dice che l’enigma dell’immagine interna, G.,  Ricognizione. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla  CRITICA DEL GIUDIZIO di Kant, Roma, Bulzoni, nuova ed. con una nuova premessa, Milano, Unicopli. G., Ricognizione, vero e proprio tema centrale del saggio, ha preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano. Dunque, una continuità  con l’opera, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo piano  sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella terza Critica chiama esempio - e lo schematismo simbolico, quello che funziona per analogia, in relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle  cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro linguaggio. Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza  Critica tra uno schematismo oggettivo e un libero schematismo, si intrecciano sempre nella produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere distinti a livello analitico. Nella  Ricognizione della semiotica G. mette in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si dice. Il referente non è la cosa stessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle e  configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’operazione a sua volta è questo stesso  concreto manipolare, che non può essere disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le  nostre manipolazioni delle cose, cioè dal nostro prendere le distanze dagli stimoli immediati, e  che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e parlarne Immagine Linguaggio Figura, Cfr. KANT, CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO, ed. it. cur. G.  e HOHENEGGER, Torino, Einaudi, in particolare l’introduzione dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI, L’inferenze del giudizio riflettente in Kant:  l’induzione e l’analogia, Studi kantiani, G., Ricognizione. È evidente, mi pare, che l’operazione  di cui si parla include anche la nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema della costituzione, della natura e della funzione delle immagini interne. Distinte dalle figure che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti,  o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da  escludere quindi ogni obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un  HOMUNCULUS (cf. CUMMINS ON GRICE) homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di figure nella testa. Figure nella  testa non ce ne sono. È invece questa operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare  una  spiegazione, in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca qui la nozione di  metaoperatività  introdotta in  Ricognizione della semiotica e poi ripresa, anche terminologicamente, in tutta la sua  importanza, solo trent’anni  anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, G. anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t itolo di meta-rappresentazioni, ma che in G. si es tende già all’intero ambito dell’operare umano, un operare che è pragmatico e corporeo, percettivo, cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica che per G. è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo livello  G. introduce la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del G., Ricognizione, Cfr. Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, cur. SPERBER, Oxford genere STIMOLO-RISPOSTA da un’operazione che include  già dentro di sé una generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione  determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma  come operazione umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno schema operativo:  piantare questo ch iodo, per l’uomo, suppone piantare i chiodi in generale, cioè un comportamento operativo metaoperativo rispetto a quello volto alla fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di variabili operative; e il piantare chiodi in generale suppone ul teriormente l’operare in generale in vista d i possibili variabili operative, cioè un comportamento specificamente metaoperativo. Persino l’operare per prova ed errore tipico del comportamento animale non umano -  suppone nell’uomo un piano, una consapevolezza di operare  per prova ed errore. Sappiamo che proprio l’attività artistica è considerata da G. come l’esemplificarsi di questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione  metaoperativa non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo. La terza parte di ricognizione della semiotica   è tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che LINGUAGGI PROPRIAMENTE NON SONO, non solo in  quanto PRIVI DI UN CODICE, ma in quanto strettamente condizionati da un’operatività  e da una meta-operatività irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui G. lì parla dall’architettura alla musica, dalla poesia alla narrativa alla pittura sono indagate a partire dal modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i prodotti umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di stile viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata come una condizione  G.,  Ricognizione nozioni diverse, quali gli oggetti che Winnicott ha chiamato «transizionali, di quelli che Dummett ha chiamato proto-pensieri, che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi   a partire da Evans chiamano contenuti non concettuali della percezione (c ontraddicendo, dunque,  l’idea  fatta valere da FERRARIS (si veda) secondo cui la tradizione kantiana decreta l’equivalenza tra epistemologia e ontologia, cioè l’assimilazione di tutto il  reale, di quel che c’è, a quel che possiamo conoscerne grazie ai nostri schemi concettuali, gettando così le premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo  nietszscheano secondo cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, e di qui del postmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui niente è fuori dal testo, e così via .  affidata a un principio estet ico che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme un’anticipazione distanziante di questa. Già in  Senso e paradosso, G.  s’è riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni  oggettuali, obbedienti a quel principio di confusività che violerebbe appunto il principio aristotelico di non contraddizione accostandoli da un lato all’ Unheimliches freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica una sua manifetsazione esemplare. Non c’è esperienza ben determinata, apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso. Qui si legittima anche la creatività che viene esemplar mente e più tipicamente esibita  oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione estetica, da ciò che chiamiamo arte ed esperienza estetica DUMMET, Origins of Analytical Philosophy, Harvard, ed. cur. PICARDI, Origini della filosofia analitica, Torino, Einaudi. Il  proto-pensiero si distingue dal pensiero vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e circostanze presenti non possiamo dare una spiegazione soddisfacente della nostra capacità di base d’apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando il livello dei proto-pensieri. EVANS,  The Varieties of Reference, Oxford. FERRARIS, tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo il manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza. Per una discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come unità costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in dichiarata corrispondenza a quell’unità  estetica delle rappresentazioni di cui si occupa Kant nella  Kritik der Urteilskraft. A questo punto abbandono il saggio per vedere come queste  problematiche vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel saggio. Il nuovo strumento teorico che G. mette a punto, al di là del riferimento al principio di una conformità a scopi senza scopo quale senso e sentimento comune, il  Gemeinsinn   kantiano, è la nozione d’immagine interna, proprio a partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza  Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo, ma viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama complessivamente facoltà  dell’immagine, che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di  un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in  quanto riprodotte o ricordate- rielaborate. Quella che veniva chiamata per lo più operazione è qui inn anzitutto l’attività di questa facoltà dell’immagine, dal livello senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur sempre  all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra. Sensazione,  percezione e immaginazione sono tutte immagini interne costitutivamente  dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non  sensibile, dunque distinte dall’immagine SEGNO materialmente intesa, che G. chiama figura [ETIMOLOGIA INTERESANTE], e che è invece sostanzialmente statica.  G. Ricognizione, G. Immagine Linguaggio Figura Una delle nozioni di maggior interesse che emerge subito assente, direi, negli scritti precedenti è quella di aggregato. Si tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali. Un aggregato è invece costituito solo percettivamente – GRICE, POTCHING, NOT COTCHING -- e costituisce un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito  da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma  solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile  intellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Mi sembra di poter dire che G. stia cercando di dar conto, con una  rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una sintesi dell’apprensione,  ancora priva di un’unità conc ettuale, della comune radice di  G., Immagine Linguaggio Figura. Ma G.  segnala una revisione  tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un livello  molto più radicale e produttivo, già da  Senso e paradosso. Con la riflessione estetica della  Critica del Giudizio, il problema dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo lo schematismo libero, senza concetti,   dell’immaginazione come capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la primitiva estetica trascendentale, nonché la stessa logica trascendentale, della  Critica della ragion pura. Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello spazio e del tempo non è che  un  aspetto, forse non il più originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua  elab orazione nell’immaginazione non più soltanto produttiva e riproduttiva, ma anche creatrice, non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali rispetto a una materia sensibile. Il centro della questione, di fronte a quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla relazione tra aggregato e oggetto (GRICE OBBLE) transizionale, mi sembra che uno degl’esempi portati in  Immagine Linguaggio Figura non lasci adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive G., prima che il linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di  un’intelligenza prev  alentemente senso-motoria, si può ipotizzare che si producano,  nel la manipolazione degli oggetti, riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti in essi variamenti  disposti. Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un   vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o un lenzuolino possono  essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero  della madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora propriamente conosciuto  e dominato; e così via. In questi casi l’aggregato è lontanissimo  dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non fosse preceduta da quello. Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e riconoscimento sono  però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e all’organizzazione  concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili anche senza questa teleologia  evolutiva e se non siano per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani. A questi, infatti, G. riconosce non una vera percezione interpretante come quella umana, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un mondo come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von Uexküll. Forse la distinzione vale per  l’ambiente sensoriale della zecca, ma sarebbe diff  icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi scimmie.  tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI,  Storia filosofica dell’ignoranza, Roma-Bari, Laterza. G., Immagine Linguaggio Figura. G., Immagine Linguaggio Figura. Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche  agli animali non-umani. Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento, in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta immagine del mondo. Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e degli animali non-umani perché è diventato  forse l’argomento più forte  portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della percezione. Questo confronto tra le  posizioni di G. e quelle dei sostenitori dei contenuti non concettuali (un’espressione che Garroni non usa mai)  richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione  tra l’ aggregato e i proto -pensieri di Dummett, una nozione elaborata proprio per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio, proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo che sia necessario, anche per Dummett [WRIGLEY TO GRICE: MY THESIS WILL BE ON DUMMETT’S FREGE – PHILOSOPHY OF LANGUAGE. HAVE YOU READ IT? GRICE: NO, AND I HOPE I WON’T], distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare pensieri, o vocati a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i possibili punti di convergenza della riflessione di G. sulla irriducibilità della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di G. sta al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo interesse. Il fatto è che G. mette in luce  spesso senza portare fino in fondo i  dettagli dell’analisi aspetti, implicazioni e dimensioni del problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse, ma di confronti concreti G.,  Immagine Linguaggio Figura Non solo in EVANS, cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C. A. B. PEACOCKE, Does perception have a nonconceptual content? Journal of Philosophy, e Phenomenology and nonconceptual content, in “Philosophy and Phenomenological Research”, e già anche in DRETSKE,    Naturalizing the Mind, MIT che potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già accennato, riguarda proprio  i contenuti non concettuali. Il secondo riguarda invece l’indeterminatezza delle  immagini mentali  A. È indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia della  linguistic turn   a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonost-ante la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti della questione che una riflessione filosofica come quella di G. aiuta a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non concettuali sono svariate. La possibilità, riconosciuta da G. con la nozione di’aggregato, di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da un punto di vista proposizionale e concettuale [SPERANZA MISE-EN-ABYME E GRICE:  l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la l’illusione della cascata di Crane,  ma l’aggregato di  G., come abbiamo visto rapidamente, coglie questa possibilità percettiva  innanzitutto al livello dell’immagine interna, e nella sua  necessità non solo come fatto accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale sostene che il contenuto della percezione è unit-free: percepisco una distanza  CRANE,  The Waterfall Illusion, Analysis, Cfr. Immagine Linguaggio Figura, in cui G. analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune   figure, e il ruolo primario nei riguardi della varia interpretabilità del percepibile giocato dall’indeterminatezza percettiva propria delle  immagini interne in relazione al mondo reale. PEACOCKE,   Analogue content, Proceedings of the Aristotelian Society, determinata tra me e un oggetto senza per questo dover  usare un’unità di misura. E  queste rappresentazioni sono irriducibilmente nonconcettuali. G., di nuovo appoggiandosi qui implicitamente a Kant, usa  un’argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione fornisce valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere   poi   esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori  oggettivi   è  nostro  [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia] e, tanto più, la  nostra misurazione   non sta  nelle cose, ma dipende  da un’unità di misura da noi stabilita idonea per l’esplicitazione  concettuale di quei rapporti. L’avvertimento dei valori quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non concettuale estetica, direbbe  G. con Kant di ogni misurazione oggettiva e concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Evans e poi ripreso da molti, è la maggiore finezza di grana della percezione rispetto alla grana dei contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a G. nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato una copiosa e inesplicita materia [Stoff] all’intelletto, che questo,  nel suo concetto, non prendeva in considerazione ). E l’analisi,  centralissima, che G. dedica al libero schematismo, non si limita a un riferimento alle ope re d’arte che sono, per Kant, espressioni  di idee estetiche, ma KANT, Critica della facoltà di giudizio, G.,  Immagine Linguaggio Figura . KANT,   Critica della facoltà di giudizio  si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti empirici. G. precisa infatti che  lo stesso schema lo schema empirico, l’immagine schema o, nel linguaggio della terza  Critica    kantiana, l’esempio è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici  percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità.  Non si tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato  il rapporto dell’immaginazione con l’intelletto), ma è anche vero che qui nessun concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o concettualmente  classificati. Nella prospettiva di G., la maggiore “finezza di grana” della  percezione verrebbe vista in un quadro più ampio di quello analitico e cognitivista,  che ha conseguenze antropologiche, semantiche, di teoria dell’arte, mentre  probabilmente potrebbe guadagnare a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da  Ayers, e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile. La  G., Immagine Linguaggio Figura, C. A. B. PEACOCKE, A study of concepts, MIT, e Does perception..., cit.; AYERS, Sense experience, concepts, and content: objections to Davidson and  McDowell, in SCHUMACHER, Perception and Reality: from Descartes to the Present, Paderborn, Mentis, 2ripresa da parte di G. delle considerazioni svolte da ECO (si veda) nel suo  Kant e L’ORNITORINCO (che a sua volta si riferiva a G.) fornisce un modello per la formazione dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune. Veniamo al secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia dalle figure (pictures) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un tratto che li avvicina alla tesi di G. sul reciproco correlarsi di determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa argomentazione è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo indeterminate, sono più simili  a descrizioni che a figure. L’argomento di Dennett è abbastanza noto, e rig  uarda il numero delle strisce del manto di una tigre:  in un’immagine mentale il numero delle  strisce di una tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle strisce  può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle figure. Un’autorità sulla  mental imagery   come Thomas insieme a molti altri sostiene che questo argomento  non è valido, perché un’immagine mentale di una tig  re potrebbe avere un numero determinato di strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché  l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una figura  di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto sfocata o sommaria, e  G.,  Immagine Linguaggio Figura. Tra gli altri, DENNETT,  Content and Consciousness, London, Routledge et Kegan Paul; PYLYSHIN,  What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of mental  imagery, “Psychological Bullettin”; tra i critici di questa argomentazione, TYE,  The Imagery Debate, MIT, anche una tigre reale   –   presente alla percezione attuale e non immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata. E come le contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle di molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze, colta da G. tra determinatezza e indeterminatezza dell’immagini interne e il loro rapporto con le figure. L’indeterminatezza dell’immagine interna così come viene pensata da G. - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è  un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva, mnemonica,  affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente. È piuttosto un’operazione nativa e  attiva, che, nel caso della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai  movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente  e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo di un contesto oggettivo e soggettivo che si allarga da quello visibile a quello non  visibile, fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti (associazioni con altri oggetti e memorie percettive). Il problema dell’indeterminatezza condizionante dell’immagine  interna non è tanto se possiamo contare o meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato, che, per esempio, non si  45  THOMAS,   Mental Imagery, 1illuda di poterla considerare  come l’immagine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti, dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della  totalità dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire modellini della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione di macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso quel che nota G. nel già citato articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come  suggerisce l’ultimo esempio che ho portato: Si mette in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti o puri percettologi, potremmo dire. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi  inevitabilmente incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente esteticamente in  loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso, del  linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse addirittura possibile sostenere che la cosiddetta filosofia si inscrive necessariamente in ciò che abbiamo detto coscienza implicita del linguaggio. È infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa nasca da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del linguaggio, consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande  maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di una  comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria.  Ciò comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne, di  filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione che principi e  metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere più nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio non è solo un  uso particolare ma contiene una componente di indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio come quell’uso determinato, nello stesso uso effettivo, in tutti i sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante, da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? G., L’indeterminatezza [cf. GRICE, INDETERMINACY OF IMPLICATURE] semantica. Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply senses --  mentire/mentare/meinen/mean -- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ --  ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Gartida: laragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, G. Succeeds Boulagoras as head of the sect of Pythagoras. He had spent some time away from Crotonne and returned to the city that had been badly damaged as a result of a feud between the Pythagoreans and their opponents. He was so upset by what he found that he is said to have died of a broken heart. Gartida.

 

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