Grice e Galluppi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Tropea). Filosofo tropese. Filoofo calabrese (padre siciliano). Filosofo Italiano. Tropea, Vibo Valentia, Calabria. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised about his philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top, he was a Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie di Tropea. Dopo lo studio della lingua latina, apprese filosofia sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del Mela, compì il corso elementare di filosofia e presso il Seminario vescovile della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto Conforti. Sposa Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei femmine. Trascorre le giornate di libertà nella residenza privata di famiglia, cioè Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria, frazione di Drapia, alla biblioteca o al giardino. Pubblica a Napoli “Sull'analisi e la sintesi”. Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma costituzionale dello stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo degl’austriaci. Si riavvicina alla monarchia. Insegna filosofia a Napoli. Membro dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, degl’affatigati di Tropea (il ‘furioso’), di quella del Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di Monteleone. Il suo merito maggiore consiste nell'avere introdotto in Italia Kant. Le Lettere filosofiche sono definite il primo saggio in Italia di una storia della filosofia. A G. sono dedicati il convitto nazionale, il liceo di Catanzaro e il liceo di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il centro studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un certo spessore culturale. Periodicamente, il centro organizza il congresso degli studi galluppiani, importante appuntamento di respiro nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia. L'attuale presidente è Meligrana. Altre personalità di notevole importanza nella storia del centro studi galluppiani sono Pugliese e Cane, filosofo, appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi. Una vera dedizione, la sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere il pensiero del G., favorendo la pubblicazione dell'opera inedita "La filosofia della matematica" la cui edizione lo ha visto anche quale curatore. Su G. pubblica numerosi saggi ed articoli in quotidiani e riviste specializzate. Altre opere: “Memoria apologetica” (Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e la sintesi” (Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia” (Messina, Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente a’principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente” (Messina, Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze, Tipografia della Speranza); “La volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della filosofia” (Napoli); “Opera a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Pessina, autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio. Silvestri); “Autobiografia”, “Scritti” (Milano, Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col Kantismo, (Napoli, Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario Lettere private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli ("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico degli italiani. Quella specie di deduzione con cui da una causa, che cade sotto i sensi, deduciamo un efetto, che sotto i sensi non cade, o da un effetto, che cade sotto i sensi, deduciamo una causa, che sotto i sensi non cade, quando la connessione fra la causa e l'effeto non si presenta a noi come necessaria, è fondata su questa verità sperimentale, le cause simli producono o son accompagnate da effetti simili; ed effetti simili suppongono cause simili. Tutti e due questi modi di dedurre i fatti, che immediatamente non si sperimentano, costituiscono l’argomento detto di analogia. Si argomenta dunque per analogia, quando dair osservazione di soggetti simili si deducono qualità simili, e quando da cause simili si deducono effetti simili, o da effetti simili si deducono cause simili. Ma resistenze, che si deducono, sono di due manière. Alcune possono essere oggetto di esperie tua, altre non possono esserlo. Sebbene quando vedo l’acqua, che non ho ancora bevuto, e che giudico di aver essa la qualità di estinguermì la sete, non abbia ancora sperimentato in questo caso particolare la qualità di cui parlo; pure è essa un oggetto di esperienza, poiché posso di fatto sperimentarla, bevendo l’acqua che ho presente. Sebbene prima di vedere la liquefazione della neve, io la deduco dalla vicinanza del fuoco. Pure questa liquefazione può colpire i miei sensi, ed essere un oggetto di esperienza. Ma vi sono infiniti casi, in cui l’esistenze che si deducono, non possono divenire oggetto di esperienza. Domandato ad un uomo perchè egli crede un fatto, che succede in luoghi ove non è, per esempio, che il suo amico soggiorna alla campagna, o viaggia per la Francia, egli vi darà per ragione un altro fatto: allegherà una lettera che ha da lui ricevuto, alcune risoluzioni che gli vide prendere, alcune promesse che gli ha sentito fare. Ora in tutte queste deduzioni, si suppone, che alcuni dati moti dipendono dalla volontà dell’amico; si suppone in conseguenza, che il suo corpo sia animato da uno spirito simile al nostro. Ora lo spirito dell’amico, e le modificazioni inieinc di esso, non possono giammai divenire un oggetto di esperienza: noi non possiamo giammai sortire da noi stessi, e sentire l’anima sua, e ciò che in essa acca(k; noi dunque qui argomentiamo da una esistenza, che è un oggetto sperimentale, ad un altra esistenza, che per noi non può giammai divenire un oggetto di esperienza. Quando vedo la lettera, di cui si parla io giudico, che fu l’effetto de’ moti del corpo dell’amico, giudico inoltre, che questi moti furono l’effetto della sua volontà. Ora questa volontà io non la posso sentire giammai, risalgo dunque qui da un effetto che colpisce i sensi miei ad una causa, che non può giammai divenire un oggetto di esperienza. Similmente se vedo piangere un uomo giudico che egli è afflitto, ora l’afflizione di lui non puògiammai divenire un oggetto di esperienza per ne; io dunque deduco qui da ciò che sperimento una causa, che non posso sperimentare. Ora si domanda: una tal deduzione è es M legittima? Allora che vedo un uomo, io vedo un corpo simile al mio: se lo vedo camminare vedo questo corpo eseguire certi moti simili a quelli, che io fo quando voglio camminare, da ciò conclude, che I moti del corpo che vedo suppongono una causa simile a quella, che ho sperimentato, vale a dire uno spirito, che vuole tali moti. Pare dunque, che questo caso possa ridursi alla stessa spezie di quello di sopra, cioè alla deduzione di una causa simile da un effetto simile. Ma vi ha qui una differenza, di cui bisogna tener conto. Quando dal vedere un orologio deduco 1’esistenza di un artifice, io ho osservato non solo gli effetti simili, ma anche le cause simili, vale a dire, ho veduta molti orologi fra i quali ho trovato della similitudine, ed Ito veduto ancora molti artefici di orologi, fra I quali ho trovato ancora della similitudine. Ciò non accade, quando da’ moti del corpo di un uomo deduco l’esistenza di uno spirito simile al mio, da cui questo corpo è animato. Io non ho giammai sperimentato un altro spirito,all’infuori del mio, quindi non lio giammai sperimentato la similitudine delle cause, da cui derivano gli effetti de' quali si parla, io dunque esco qui fuori deirespcnenia: se avessi erimontato piìi volte che alcuni moti di altri corpi simili al mio derivano da spiriti simili al mio, allora la mia deduzione avrebbe lo stesso fondamento dell’analogia, la quale mi autorizza a dedurre da effetti che sperimento,simili aquelli che ho sperimentato, cause simili aquelle che ho sperimentato. Ma qui siamo in un caso diverso;io sono racchiuso nella sola osservazione di una causa sola: ho sperimentato in me solo che alcuni dati moti procedono da un atto di volontà. Ma non 1’ho sperimentato in altri, nè posso giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza a concludere da un caso solo una legge costante, ed universale della natura? Nell'argomento di analogia si conclude per un caso ciò che abbiamo sperimentato costantemente in tutti gli altri, che ci son occorsi: ho sperimentato molte volte, che il fuoco posto in vicinanza della neve la liquefa, nè mi è occorso alcun caso, in cui non abbia ciò sperimentato: vedendo del fuoco posto in vicinanza della neve concludo, per questo caso particolare, ciò che ho sperimentato costantemente nella moltitudine degli altri casi. Ma quando al veder muovere gli altri uomini giudico, che sono animati da uno spirito simile al mio, procedo tutto al rovescio dell’analogia, poiché da un solo caso, vale a dire da ciò che sperimento in me, giudico tutti gli altri. Questa obbiezione merita di esser esaminata, poiché l’analisi dei motivi de’nostri giudizi è1’oggetto della logica. Io ho camminato un numero incalcolabile di volte, per varie direzioni, ed in vari luoghi. Ho sperimentato questo fatto costantemente unito al mio volere. Ho sperimentato fra il cammino di una volta equello di un altra una similitudine, ed una similitudine fra l’atto di volere di una volta e quello di un altra. Ho dunque qui sperimentato che effetti simili procedono da cause simili, vale a dire, che il camminare consiste in moti volontari. Quando dunque veggo camminare un altro uomo io concludo per questo caso particolare quello che ho sperimentato nella moltitudine de’casi particolari occorsi in me stesso; non esco dunque dell’analogia, con cui si concludeda molli ad uno. È nondimeno incontrastabile, che l'illazione non può giammai divenire sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà in un altro uomo, che io deduco dal vederlo camminare, non può giammai divenire per me un oggetto di esperiaiza come può divenirlo questa illazione: il fuoco che vedo liquefarà la neve a cui è vicino: Ma ciò mi sembra, che non tolga alcuna forza alla deduzione, che esaminiamo. Quando dal vedere il fuoco posto in vicinanza della neve deduco la liquefazione di questa, io giudico prima dell'esperienza; ressere perciò l’illazione di natura a poter divenire un giudizio sperimentale,non influisce nella deduzione, L’illazione è vera per me per la sua connessione colle premesse; non già perchè è un giudizio, il quale può confermarsi coll’esperienza. Similmente, l’illazione di analogia, con cui giudico che gl’altri corpi umani, fuori del mio, sono animati da uno spirito simile al mio (“OTHER MINDS” WISDOM), è vera in forza della sua connessione colle premesse, e l’impossibilità che ha questo giudizio di divenire immediatamente sperimentale; non toglie mica il valore della deduzione. Ma qui conviene aggiugnere qualche cosa molto importante. Che i moti chiamati volontari, e che scorgo ne’corpi umani, non dipendano da una causa meccanica, ma da una causa intelligente, mi sembra una verità necessaria della stessa natura delle verità necessarie, che esprimono le leggi del moto. Se io sono ricco o potate, e deadcro d'innalzare un edifìzio, mille braccia agiscono, e la mia volontà ha il suo effetto. La mia voce non ha fatto impressione sul corpo de’travagliatori, se non die per mezzo dell’aria, e no nha prodotto nell’atmosfera on’ agitazione suflìciente a muovere de’corpi molto piìi piccoli di quelli che eseguono gl’ordini miei. La mia voce dunque non produce l’effetto come causa meccanica. Bisogna perciò che un principio diverso dall’agitazione dell'aria, o dalla mia parola produce questo moto ne’corpi, e che la mia parola determina questo princijiio a produrre i moti, che chiamiamo voloiitai. Non si può riguardar la mia parola, se non che o come un molo eccitato nell’aria, o come l’espressione della mia volontà. La mia parola non ha potuto come causa meccanica produrre i moti, de’quali parliamo, perchè ciò come abbiamo veduto, è contrario alla legge del moto, che un piccolo moto ne produca uno maggiore; al che si aggiunga, che la mia parola non avrebbe prodotto moto alcuno nell’Ottentotto, o in un altro individuo che parla un linguaggio diverso dal mio: per la sola espressione della mia volontà ha dunque potuto la mia parola determinare ad agire il principio del moto de’corpi die mi hanno ubbidito. Questo principio è perciò un’intelligenza, poiché ha conosciuta la mia volontà nelle mie parole. La proposizione dunque: vi tono alcuni moti ne’ corpi umani dieerti dcU mio corpo, iquali hanno per causa una causa intelligente, mi sembra di verità necessaria. La proposizione poi: vi sono alcuni moti ne’corpi umani dècer si dal mio corpo i quali hanno per causa la volontà di uno spirito simile al mio, e per conseguenza tali corpi sono animati come il mio, è di verità contingente, e poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’argomento di analogia si deducono spesso cause, (M non possono divenir giammai un oggetto d’esperienza, sebbene sieno simili ad altre cause, che si sperimentano. 2.° Vi sono nondimeno alcune deduzioni d’esistenze che non possono divenire sperimentali, le quali deduzioni danno verità necessarie in risultamento. Questa seconda parte della conclusione enunciata si conferma da quello che si dice nell’ideologia circa resistenza dell’assoluto. Questo non può certamente divenire un oggetto d’esperienza, intanto la sua esistenza è il risultamento di un raziocinio legittimo, in cui una delle premesse è una verità sperimentale. Noi diciamo; se vi è il condizionale, et deve essere l’assoluto. Questa proposizione esprime un giudizio analitico, e necessario: vi e il condizionale. Questa seconda proposizione esprime un giudizio sperimentale; vi è dunque l’assoluto. L’illazione è una verità necessaria. L’empirimo ci riserra nel solo circolo dell’esistenze, immediatamente sporimetitali; nè ci permette di passare da ciò, che cade immediatamente sotto 1’esperienza, a ciò che sotto la stessa immediatamente non cade. Io vi ho fatto vedere il contrario; vi ho dunque dimostrato la falsità dell’empirismo. L’argomento d’analogia è fondato sul rapporto d’identità. Ma l’identità può fra due cose essere maggiore o minore. L’identità fra il mio corpo ed il corpo di un altro individuo, che io chiamo uomo, è maggiore di quella che passa tra il mio corpo ed il corpo di un CAVALLO. Ora si domanda: tino a qual grado d’identità l’analogìa è un argomento valevole, cioè un argomento certo ì È questo un problema di difllcile soluzione. L’analogia ci rivela dunque 1'esistenza degli altri spìriti simili al nostro. L’esperienza c’insa, che alcuni moti volontari in noi nascono, o sono accompagnati da alcune affezioni interne del nostro spirito. Vedendo in conseguenza moti simili in altri corpi umani, attribuiamo agli spiriti animatori di tali corpi affezioni simili a quelle che abbiamo sperimentato in noi. Allora che sono affetto EFFETO dal sentimento della sete, corro a bevere ad una fontana che a me si presenta. Se dunque vedo un altro uomo camminare verso una fontana, e bevere, giudico, appoggiato sull’analogia, che egli sia modificato dal sentimento della sete, e che voglia bevere. In queste deduzioni analogiche dove osservare ciò che vi ho detto circa 1'aspettazione del futuro simile al passato, ili bisogna distinguere il sentimento della deduzione meditativa. La dottrina generale che ivi vi ho spigato, può applicarsi all’oggetto che ci occupa. Noi supponiamo ne’nostri simili delle anime alla nostra simile. Noi facciamo tali suppozioni in forza della I^gc della nostra immaginazione, non già in forza de’raziocini, che abbiamo sviluppato. Io suppongo l’incontro di due uomini, privi sino a questo momento di ogni commercio,ancora cògli animali; ridotti per conseguenza al circolo stretto de’propri sentimenti, e delle proprie operazioni. Ciascuno di essi vede nell’altro un essere che gli rassomiglia in tutte le cose, che presenta le stesse forme, possiede gli stessi organi, ne fa un simile uso. Egli crede dunque il corpo che lo colpisce, animato da uno spirito. Or ecco, secondo la mia dottrina, come si opera questo fatto intellettuale. Io suppongo che un di questi uomini vegga l'altro camminare, questa percezione risveglia i fantasmi simili del proprio corpo camminante in varie volte, e perciò anche i fantasmi del proprio me affetto in tali circostanze da tali e tali modificazioni. Queste riproduzioni si fanno con somma rapidità in modo che non posson essere fissate dall'attenzione. Esse sono perciò obbliate l'istante appresso, in cui si son avute, intanto la percezione del corpo simile al proprio determina l’attenzione non solamente ad essa sola, m’ancora alla percezione simultanea del proprio me, e lascia fuire le percezioni successive simili del proprio corpo camminante in varie volte. La piercezione del me riprodotta si lega perciò a quella del corpo presente del mio simile, invece di legarsi a quella riprodotta del proprio corpo camminante, che si è obbliata, e questo legame costituisce il sentimento interno di questa specie di credenza. L' obblio delle percezioni riprodotte del proprio corpo camminante in varie volte, nell’atto che rimane quella riprodotta del proprio me, fa si, che questa ultima si associi a quella presente del corpo simile. La percezione riprodotta del proprio me rimane, perchè la percezione del corpo camminante e quella del proprio me son legati naturalmente in una comune attenzione; essendo associate dalla natura stessa. Quella riprodotta del corpo camminante s’ecclissa, perchè quella del corpo simile camminante richiama l’attenzione. Lo spirito trasporta dunque fuor di lui col pensiere l’idea del proprio me, che egli immagina, e che stabilisce nel seno di quelle forme, che colpiscono i suoi sguardi, ed a traverso delle quali il suo sentimento immediato non può penetrare. Egli presta dunque il suo me al suo simile, 1’anima della vita che respira in se stesso, e concepisce 1’esistenza di un altro uomo. Tale mi sembra la spiegazione del sentimento della credenza che esaminiamo. Risulta dalla stessa che noi concependo ciò che pensano gl’altri uomini, non usciamo mica da noi stessi. Nelle nostre proprie idee noi vediamo le loro maniere di essere, la loro stessa esistenza. Da ciò avviene, che 1’uomo misura dal proprio spirito quello degl’altri, dal che nascono molti orrori. Noi non possiamo accuratamente determinare lo stato dei fanciulli; e conoscere perciò l’epoca in cui hanno luogo le loro abitudini intellettuali. Ma egli mi sembra incontrastabile, che queste abitudini si formano in loro mediante la rapiditll di talune associazioni. I fanciulli percepiscono negl’altri uomini de’ corpi simili al proprio: &si sperimentano alcuni moti spontanei del loro corpo ed altri simili ne percepiscono nei corpi degl’altri uomini. Queste similitudini, ed altre, che si manifestano piu tardi, determinano le associazioni di cui ho parlato. Ma non solamente i moti volontari che osserviamo negl’altri, ci menano a supporre nel loro spirito alcune medincazioni. Ma ancora certi moti e cambiamenti necessari, che son gli stessi effetti meccanici i quali accompagnano i sentimenti interni dell' anima, come il tremore e la pallidezza nello spavento, le grida, e le lagrime nel dolore, il riso – risus signifiat laetitiam interiorem, lacrima significat dolorem --, e il tripudio nell’allegrezza. Questi si manifestano incontanente da se medesimi, anche ne’ fanciulli appena nati, principalmente i gridi ed il lamento che accompagnano il dolore. Concludiamo. Noi poniamo per mezzo di alcuni cambiamenti che osserviamo ne' corpi altrui pervenire a conoscere ciò che accade nel loro spirito. Questa conoscenza può essere meccanica o sia il risultamenlo del sentimento prodotto da alcune rapide associazioni, e può essere ancora l’illazione di un RAZIOCINIO legittimo di analogìa. Possiamo dir la stessa cosa in modo breve. Questa conoscenza può essere o istintiva o RAGIONATA. Da ciò si vede che non è necessaria una prima CONVENZIONE (cf. Grice: Meaning has nothing to do with convention) fra gl’uomini acciò s’incomincino a intendere fra loro. LA NATURA rende gl’uomini tali che, conversando insieme essi s’iiit elidono ENTENDONO naturalmente anche SENZA L’ISTITUZIONE del linguaggio. Seguiamo la supposizione de’due'solitari. Sebbene 1'uno abbia compreso ciò che accade nello spirito dell’altro, non tì è ancora un linguaggio propriamente detto – SENSU STRICTO, ma SENSO LATO; perchè non si ‘parla’ se non quando SI CERCA DI FARSI INTENDERE (il papagallo – Maurice, Locke); e se 1’uno de’due individui penetra il pensiero dell’altro (TELEMENTAZIONE) ciò è accaduto senza che questi cercasse a farglielo conoscere –senza avere l’intenzione della sua intenzione communicativa di ser reconosciuta. I due individui di cui parliamo, osservano, eh’eglino sono stati compresi, ed allora CERCANO DI FARSI COMPRENDERE, e nasce cosi il primo linguaggio. Sviluppiamo questa dottrina. Abbiamo veduto, che il corpo degl’altri uomini ci presenta alcuni avvenimenti, la percezione de’quali ci fa conoscere ciò che accade nel loro spirito. Ciò LA CUI IDEA ECCITA L’IDEA DI UN’ALTRA COSA CHIAMASI SEGNO (Il fumo e segno del fuoco, la nubbe oscura e segno di piuvia. Nel corpo di un altr’uomo vi sono dunque de’SEGNI delle interne modificazioni dello spirito animatore di questo corpo. Siccome tali SEGNI son tali per la costituzione DELLA NOSTRA NATURA, cosi si chiamano SEGNI NATURALI. Vi sono, in conseguenza, de’segni naturali de’pensieri o modi di essere dello spirito degl’altri uomini. Ma non solamente vi sono di quello o questo SEGNO NATURALE de’pensieri altrui; ma 1’uomo può conoscere che vi sono, cioè può conoscere che, con alcuni dati mezzi, si può manifestare altrui ciò che si sperimenta internamente nello spirito proprio. Supponiamo, che uno de’ due nomini supposti pianga, gridi, si lamenti, senza avere l’ intenzione dì manifestare all’altro il dolore, che egli sente; intanto 1’altro sapendo, che questi gridi, e questi lamenti sono soliti ad accompagnare il dolore, conosce da questo segno il dolor dell’altro, ed accorre al soccorso di lui, questi perciò comprenderà da tutto questo che egli è stato compreso. E se avviene altra volta, che si trovi affetto dal dolore, ed in bisogno del soccorso dell’altro, piange e grida coll’INTENZIONE (non solo volunta o desiderio) di manifestare all’altro il proprio dolore. Così gl’uomini incominciano dal comprendersi scambievolmente. In seguito conoscono che sono stati compresi, e finalmente si determinano a farsi comprendere. Cosi si osserva in tutt’i fanciulli comunemente. A principio essi GRIDANO, e si lamentano costretti unicamente dalla forza del dolore, SENZ’AVER L’INTENZIONE di manifestarlo con questo o quello segno agl’altri, anzi senza sapere neppure che cosa alcuna si puo ESPRIMERE col pianto e colle grida. Ma appresso, avendo imparato che con tali segni si ottiene l’altrui soccorso, cominciano a valersene avvertitamente per manifestare il loro dolore, e ricevere il soccorso che bramano. Ciò di cui gl’uomini si servono, per manifestare agl’altri i propri pensieri, chiamasi SEGNO ARTIFICIALE. Un segno naturale divenne dunque NATURALMENTE naturalmente un segno ARTIFICIALE. Qui ha termine l’educazione della natura per le nostre scambievoli comunicazicmi. La natura insegna all’ uomo che egli può farsi intendere. E l’uomo può non solamente servirsi de’mezzi NATURALE che LA NATURA gl’ha mostrato per la COMUNICAZIONE NATURALE de’propri pensieri, ma può ancora ritrovarne degl’altri simili. Il primo e più semplice mezzo di comunicazione NATURALE, NON ARTIFICIALE, che si offre allo spirito, si è quello di ripetere con riflessione ciò eh’egli fa dapprincipio, senza prevederne le conseguenze, cioè di riprodurre quelle azioni, per mezzo delle quali li si è fatto comprendere. Così si forma un primo linguaggio, che può chiamarsi ‘linguaggio’ della natura, poiché esso non si compone se non che di questo o quello SEGNO NATURALE, vale a dire di questo o quello SEGNO di cui LA NATURA HA già senza di noi rivestito i nostri pensieri spreti, per renderli sensibili agl’altri. Il linguagio della natura è insufficiente per manifestare agli altri tutt’i nostri pensieri. Noi abbiamo al presente il linguaggio de’suoni articolati. I filosofi disputano sull’origine di esso. La quistione si versa sull’esistenza, e sulla possibilità, cioè si cerca; gl’uomini hanno esH DA SE stessi ISTITUITO il linguaggio. Questa ricerca suppone quest’altra. Gl’uomini abbandonati austusi possono istituire il linguaggio. I nostri sacri libri, c’insegnano che Adamo ed Èva (o l’uomo da Polifemo) SONO creati da divino (Polifemo) in uno stato adulto con delle conoscenze in istato di riflettere e di COMUNICARSI i loro pensieri. Il divino ù maqiiesta all’uomo innocente ne’primi istanti della creazione. Il divino (Polifemo) è dunque l’autore primitivo del linguaggio. Ma io suppongo, dice Condillac, che, qualche tempo dopo il diluvio, due bambini dell’uno, e dell’altro sesso siensi trariati ne’ deserti, avanti che conosceno 1’ aso de’ vocaboli. A fare questa supposizione, egli dice, io sono spinto dal fatto del giovane di Chartres rapportato nelle memorie dell’accademia delle scienze. È questi del’età di 23 a 24 anni sordo e muto di nascita. Comincia con gran sorpresa di tutta la città tutto ad un colpo a parlare. Si sa da lui che, tre o quattro mesi prima, egli udisce il suono delle campane, ed è stato estremamente sorpreso da questa sensazione novella ed incognita. In seguito gli è sortita una specie di acqua dell’orecchia sinistra, ed acquisce l’udito in tutte e due le orecchie. Egli impiega tre mesi ad ascoltare, senza nulla dire, assuefacendosi a ripetere sotto voce le parole, ch’ali udisce, ed esercitandosi nella pronunciazione, e nelle idee legate a’vocaboli. Io non so come questo fatto pu autorizzare il filosofo francese, a fare la supposizione di cui parla, se non perché ciò mena a poter supporre, che due giovani di sesso diverso sordi e muti di nascita, possono traviarsi ne’deserti o ne’boschi, indi incontrarsi, e dopo l’ incontro ricever tutti e due rudito. Questa supposizione non ha niente di assurdo; ed è perciò lecito al filosofo di cercare, se in una tale supposizione questi due giovani possano ISTITUIRE una società, ed un linguaggio. A ciò si può aggiungere, che si rapporta, essersi in vari tempi vari fanciulli trovati ne’boschi. Uno ne è sorpreso nell’Asia in compagnia de’ lupi, un altro dell’età di circa 12 anni in Weteravia, un altro di 16 è scontrato fra una torma di pecore selvatiche nell’Irlanda, un altro di nove fra gl’orsi nelle selve della Lituania. Uno ne fu scoperto presso ad Hamelen nella Sassonia, una fanciulla presso a Lwlla nella provincia di Utrecht, ed un’altra è arrotata presso Chalons. Io per altro non comprendo come questi fanciulli abbiano potuto vivere, se sono stati abbandonati, o perduti prima di potersi alimentar da se stessi, ed in conseguenza prima di avere una lingua. Si potrebbe supporre che principiano a parlare, quando si smarrirono. Ma che poi, nella solitudine, interamente obliano quanto hanno imparato. Or si domanda. Se due di questi di sesso diverso, si fossero per avventura incontrati nella stessa foresta, che sarebbe egli avvenuto? E per limitarci all’oggetto delle nostre ricerche, domandasi: avrebbero essi ISTITUITO una lingua. Tralitsciando dunque, sull’origine del linguaggio, la quistione di fatto, è egli lecito di esaminare quella della possibilità (cf. Grice on the contract in contractualism), o di cercare se gl’uomini abbandonati a loro stessi possono istituire una lingua? L’esame di una tal quistione è molto utile, per ben conoscere, e misurare le forze dello spirito umano, e queste ricerche ipotetiche ci menano ancora a risultamenti che hanno luogo nel fatto reale. Io aggiungo dippiu, che alcuni autori [ALIGHIERI, GELLI] anche su l’autorità de’nostri libri divini, hanno creduto, che le lingue attuali – comme la lingua italiana -- sieno state istituite dagl’uomini coll’uso delle loro forze naturali. Ecco come può essere accaduta la cosa. Nel famoso avvenimento della costruzione della torre di Babele, per forza miracolosa, è cancellata dalla mente degl’uomini la memoria intera del primitivo linguaggio. In seguito di un tale miracolo, gl’uomini si divideno a torme secondo i rapporti di parentela e di amicizia, e si stabilirono hi diverse parti della terra. Sono dunque abbandonati a se stessi, per istituirsi un linguaggio; e così perduto interamente il linguaggio primitivo dì cui è stato autore il divino stesso, le nuove lingue, che nasceno sulla terra, sono un prodotto dello spirito umano. In questo modo si spiega come gl’uomini perduto, per forza del miracolo, il primitivo linguaggio, non si sieno più scambievolmente intesi ne’linguaggi rispettivi. Questa opinione ammette un solo miracolo, quale è quello della memoria perduta del linguaggio primitivo, laddove nell’opinione contraria bisogna supporre una gran moltitudine di miracoli, l’uno in forza del quale gli uomini abbiano perduto la memoria del linguaggio primitivo, e gli altri con cui il divino abbia istitue i diversi linguaggi, che hanno luogo dopo dell’avvenimento. Ora si puo dire, non e verisimile, che il divio moltiplica inutilmente i miracoli. Checché ne sia di tale opinione, noi esamineremo qui la quistione della possibilifb. il rispetto che il filosofo deve alla religione divina, che c’illumina, mi conduce a questa digressione. Per esaminar la quistione proposta continuiamo la supposizione di sopra, e partiamo dal punto ove siam rimasti. Abbiamo veduto l.° che gl’uomini per natura si comprendono scambievolmente. 2.° che conoscono di essere stati compresi. 3.° che con ciò si fanno naturalmente un linguaggio artificiale, che è il linguaggio della natura. Vale ad ire che fanno uso di questo o quello segno naturale, per manifestare agl’altri i propri pensieri. Ma il bisogno non potrebbe spingere gl’uomini, a migliorare, cioè ad acrescere questo linguaggio della natura, ritrovando de’segni analoghi? Il pianto ed i gemiti manifestano -- risus significat laetitiam interiorem -- agli altri il dolore da cui un individuo è affetto. Ma non manifestano lyica la CAUSA del dolore. Ora gl’uomini hanno spesso bisogno, per essere soccorsi, dì manifestare agl’altri la CAUSA del loro dolore. Per tale oggetto alcune volte bastano le circostanze. Uno de’due suppposti solitari cade in una fosa egli non può senza l’al trui soccorso cavarsene fuora. Egli grida -- 1’altro accorre, e si avvede della CAUSA del dolore del suo simile. Parimente se uno de’due è inseguito da una bestia feroce, e grida, l’altro conosce dalla circostanza la causa del dolore del compagno. Spesso nondimeno la CAUSA del dolore non apparisce dalle circostanze.Tutti generalmente acquistiamo l’abito, allorché ci sentiamo in alcuna parte addolorati, di recare colà la mano. Se dunque uno de’due supposti solitari sente dolore in qualche parte, egli grida, e la mano corre naturalmente alla parte addolorata. L’altro accorrendo alle grida, e spingendo per avventura lo sguardo là, dove è corsa la mano dell’altro conosce il luogo del dolore e se la CAUSA del dolore è una ferita, o una contusione, o qualche altra cosa visible; allora conosce chiaramente questa causa. Qualora l’uno vorrà porgere all’altro alcuna cosa, amendue stenderanno la mano l’uno per darla, el’altro per prenderla. Questo moto della mano potranno da si naturale divenire un SEGNO ARTIFICIALE, così si puo indicare la causa del dolore recando la mano su la parte addolorata; e si potrà da uno de’due individui volendo dire all’altro che non è vicino qualche cosa; e, non volendo o non potendo muoversi, stendere la mano con entro la cosa che gli vuol PORGERE. L’altro similmente se cosa alcuna brama aver dal compagno, porge la mano vota per prendere ciò che desidera. Fin qui non si esce ancora dal linguaggio della natura. Ma già siamo al termine di un altro linguaggio a cui il primo ci mena. Vi sono due specie di cose di cui gl’uomini hanno bisogno di eccitare le idee negl’altri. Alcune possono nel momento stesso colpire i sensi tanto di colui che vuol parlare quanto di colui a cui si vuol parlare. Altre sono lontane o almeno invisibili, e non esistono nel momento, se non che nello spirito di colui che vuol farsi comprendere. Tiguardo alle prime, basta che colui che vuol parlare cioè che vuol farsi comprendere ecciti l’attenzione del suo compagno, e la diriga sull’oggetto che gli vuol mostrare. Abbiamo veduto che il gesto può esser NATURALE e divenire un SEGNO ARTIFICIALE. Ma alcune volte non è cosi. Supponiamo che uno de’due solitari voglia mostrare all’altro un oggetto lontano ma che può esser veduto. Egli avverte il suo compagno per un GRIDO, ed allora che questi volge a lui gli sguardi. Il primo dirige Io sguardo su l'oggetto (un serpe_, che vuole mostrare all’altro, e fa uso del dito (fingerwave, handwave), per meglio mostrargli la direzione, che prende lo sguardo suo. L’altro rimite, e la sua curiosità lo porta ad osservare ciò che occupa il suo compagno. Questo grido, questo gesto, forma una prima spezie d’un SEGNO ISTITUITO (stablished), che si possono chiamare segni indicatori (INDICARE – CONTENUTO DITTIVO, INDEX). Osservate che il segno di cui parlo non e un segno INVOLUNTARIO SPONTANEO INCONTROLLABILE e naturale, perchè il grido è naturale nel dolore e nel piacere. Il grido diviene da naturale artificiale *per* (con l’oggetto di) denotare il dolore, o il piacere. Ma l’uno de’ due solitari avendo osservato, che l’altro, quando egli manda fuori il grido, diriga a lui il proprio sguardo, FA USO CONTROLATO E VOLONTARIO di un grido per obbligare il compagno a fissare su di lui lo sgiiardo. Cosi, il grido si estende a denotare ciò che denota questa proposizione di modo impoerativo: “volgiti a me.” Inoltre lo stendere [verbo in infinitivo – cf. Grice MEANING] il dito (finger wave, hand wave) verso l’oggetto (serpe) che si vuol mostrare non è un SEGNO NATURALE, ma un segno ICONICO analogico, poiché vi ha una similitudine fra il moto che fa il dito (finger-wave handwave: I KNOW THE ROUTE --- oohh: “VIENI”), ed il moto che far dovrebbe il proprio corpo per ginngerc all’oggetto che si vuol mostrare. Questi due moti avendo la stessa direzione, o pure, la direzione del dito (FINGERWAVE, HANDWAVE, I KNOW THE ROUTE) è identica colla direzione che prende lo sguardo. Per tal ragione io credo, che il gesto di cui parlo dove riguardarsi piuttosto come un SEGNO ICONICO IMITATIVO ANALOGICO, poiché il moto del dito (fingerwave, handwave) imita nella direzione il moto che far dovrebbe il proprio corpo per giungere pel cammino più corto all’oggetto che si vuol mostrare, o pure imita la direzione dello sguardo. Ma servendo tal gesto ad indicare un’oggetto (UN TIGRE), che può nello stesso momento colpire i sensi de' due solitari, gli si pùò dare il nome di SEGNO INDICATORE (INDEX – INDICAT – DICTIVE CONTENT, CONETUTO DITTIVO). Questi due segni indicatori di cui parliamo equivalgono; a queste due proposizioni in modo imperativo: “volgiti a me” + “guarda là”. Vi ha inoltre de’ segni imitativi, i quali servono a denotare alcune cose future, od altre cose che nel momento non possono colpire i sensi di tutti e due i solitari. Supponiamo, che uno di questi sia in A (St. Giles), 1'altro sia lontano ma a vista del primo in B (Banbury), che l’oggetto lontano ma a vista di tutti e due sia in C (Christ Church). Inoltre cl» il primo, non potendo muoversi per andare io C voglia manifestare all’altro che vada in C, e che prendendo l’oggetto bramato ivi posto, lo rechi a lui in A. Ecco come io immagino, che la cosa potrà farsi. Il primo, con un grido,eccita 1'attenzione del compagno. Indi STENDE IL DITTO (FINGER-WAVE) nella direzione della linea fra A e B. Poi, la muoverà nella direzione di una linea parallela a quella fra B e _C_. Con questo moto, egli ‘dice’ (INDICA – ESPLICA ma non IMPLICA) al compagno che vada da B in C. E questo moto è un segno IMITATIVO del moto che il compagno dee fare [INDICANTE DI UNA VOLIZIONE], per secondare il desiderio dell’altro'io A. Questo moto, che il compagno dee fare è *una cosa futura* che non può nel momento colpire i sensi de’due solitari. Ecco dunque come con de’segni imitativi si possono denotare un’oggetto assente. Supponiamo, inoltre, che l'individuo posto in B si conduca in C. L’altro, che si trova in A, stende il suo braccio da A verso C in posizione orizzontale. Indi fa un moto col braccio imitativo di quello che dee fare il compagno per prendere l’oggetto posto in C. Dopo di ciò ritornando a mettere il braccio nella stessa posizione orizzontale, lo ritrade a se con un moto contrario a quello, con cui rha steso, e che è imitativo di quello che dee fare il compagno per *venire* da C in A. Con i segni imitative dunque si puo denotare le cose invisibili nel momento. Questi segni imitativi si possono eseguire in vari modi. Così, per denotare una *serpe* si può sull’arena designare la sua forma, o il suo moto tortuoso. Abbiamo veduto che vi sono de’segni naturali delle nostre interne modificazioni, e che UN SEGNO ORIGINALMENTE NATURE PUO DIVENIRE ARTIFICIALE, e così costituire un primo linguaggio, significazione, comunicazione, manifestazione, che abbiamo chimato ‘linguaggio’ della natura (cf. Condorcet, ‘comunicazione d’azione’). Abbiamo detto inoltre che 1’uomo può con altri segni accrescere questo ‘linguaggio’ della natura, ed abbiamo chiamato i segni che accrescono il linguaggio della natura, segni indicatori e segni imitativi. Ora qual principio può guidare l’uomo a ritrovare le ultiqie SPECIE DI SEGNI? Nella logica pura lo spirito è naenato nel passare analiticamente d’una proposizione ad un’altra, ad una certa similitudine che passa fra l’una e l’altra. Il princìpio della similitudine è dunque un principio d’invenzione, e questo principio ha condotto gl’uomini, partendo dal ‘linguaggio’ della natura, a ritrovare i segni indicatori ed i segni imitativi, queste due SPECIE DI SEGNI possono perciò chiamarsi segni ANALOGICI. Difatto, fra il moto del mio dito (finger wave, handwave), con cui mostro l’oggetto lontano, ed il moto che dovrei fare col mio corpo, per arrivare, pel cammino più breve all’oggetto, vi si osserva una similitudine: una certa similitudine si osserva eziandio tra un segno analogico imitativo e ciò di cui è l'imitazione. Le interne modìficazioni dello spirito possono manifestarsi per mezzo de’moti del corpo. Il desiderio, il rifiuto, l’avversione, il disostosi esprimono per mezzo de’moti del braccio, della testa, e per mezzo di quelli del corpo intero, moti piò o meno vivi, secondo la vivacità, con cui ci portiamo verso di un oggetto, o ce ne allontaniamo. Tutti i sentimenti dell’anima possono esser espressi dalle posizioni del corpo. Esse dipingono di una maniera sensibile l’indifferenza, l’incertezza, l’attenzione, e le altre affezioni interne. Ora se ripetendo queste azioni, e posizioni del corpo, si denota insieme, che esse non si riferiscono ad affezioni presenti, allora denoteranno le modificazioni, da cui siamo stati affetti. L’analògia acquista spesso una grande estensione. Cosi, per esempio, quando voglio attendere ad un oggetto, die colpisce i miei occhi, dirigo lo sguardo verso di esso. Questa direzione (GRICE’S FROWN) è segno dell’attenzione dello spirito. Ma io posso ancora rivolgere la mia attenzione ad un oggetto invisibile. Se dunque per denotare quest’ultima attenzione, mi servo della direzione dello sguardo, questo segno si estende al di là di ciò, che naturalmente denota. Allora che io peso un corpo, lo paragono ad un altro; pesare è dunque paragonare. Ma paragonare non è sempre pesare; perciò, quando, per esprimere l’azione intellettuale che paragona, io prendo nelle due mani de’corpi, come fo quando viglio pesarli, questa azione è trasportata a denotare *più* [IMPLICATURA come eccedenti – ‘Hasn’t been to prison yet: ‘He might’) di quello che denota in origine. Questa TERZA specie di segni, che l’analogìa somministra agl’uomini, si puo chiamare SEGNO FIGURATO. L’unione de’ segni indicatori, imitativi, o figurati costituisce il linguaggio analogico. Cosi, un segno naturale, divenendo segno artificiale, costitoiscono il linguaggio della natura. Gl’uomini, guidati dal principio della similitudine, partendo dal principio della natura, inventano il linguaggio analogico. Ma fa d’uopo considerare l’ultimo linguaggio, di cui abbìam parlato, in colui che per parlarlo lo trova: ed in colui che l’intende. Nel primo, il principio della similitudine guida la meditazione a produrre nuove idee. Nel secondo il principio della similitudine riproduce alcune idee simili a quelle che modificano attualmente lo spirito. Quando colui che vuol parlare fa uso il primo di alcuni gesti, per denotare alcuni dati pensieri, li, guidato dall’analogia, INVENTA QUESTI SEGNI (GRICE DEUTERO-ESPERANTO), e questi segni, e questa invenzione è un prodotto della meditazione. Ma colui che ascolta intende questi segni in forza del principio meccanico dell’associazione dellé idee. Fra i principi particolari compresi sotto questo principio generale, si contiene il principio della similitudine. In forza di questo principio, il moto del dito riproduce l'idea del moto simile del corpo intero, e questa riproduce quella delle modificazioni interne dello spirito legate col moto del corpo intero. Colui che istituisce il linguaggio per farsi intendere è attivo. Quegli che intende il linguaggio btituito è passivo. I gesti, i moti del corpo, ed un SUONO INARTICOLATO costitubeono il linguaggio chiamato da Condillac ‘linguaggio’ o COMUNICAZIONE O SEGNO d’azione. Su di esso deve fare ancora due osservazioni. 1..° un tal ‘linguaggio’ o SIGNIFICAZIONE o COMUNICAZIONE esiste ancora e esso accompagna quello del SUONO ARTICOLATO. Un oratore parla eziandio coi gesti, colla posizione del corpo, co’ moti del corpo, e principalmente co’moti degl’occhi (TURN TAKING IN CONVERSATION – GRICE). Ciò che si chiama mimica consiste appunto nell’arte di far concordare il ‘linguaggio’ d’azione con quello del suono articolato. 2.° col solo linguaggio d’azione, anche dopo l’istituzione di quello del suono ARTICOLATO, alcune nazioni incivilite esprimevano de’ lunghi discorsi. PRESSO I ROMANI i pantomimi rappresentano de’pezzi interi, senza PRO-FERIRE (utter) una parola (PARABOLA), li bisogna dunque, che i pantomimi, partendo dal linguaggio della natura prendeno l’analogb per guida, e così poterono pervenire a farsi intendere. La scrittura santa ci somministra ne’profeti molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione. Così, per darne un esempio, ad ogetto di denotare che la Giudea ch’è imita con Dio, è poi stata da Dio rigettata e dispersa per la sua superbia ed idolatria, il profeta Geremia, per l’ordine di Dio, si cinge con una cintura di lino i lombi, indi si toglie questa cintura, e presso l’Eufrate in un forame di una pietra la nasconde. Dopo molti giorni, ritorna aprendere la nascosta cintura, e la trova infracidita in modo, cf)’ è inutile per qualunque uso. Nella profezia di Geremia si possotm trovare molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione. Se i moti del nostro corpo da quello o questo SEGNO NATURALE divenne il SEGNO ARTIFICIALE, e se questo linguaggio può essere accresciuto dall’analogia, quello d’un SUONO che da SUONO NATURALE è ancora divenuto un SEGNO ARTIFICIALE (“Ouch”), non puo similmente essere accrescinto dall’analogia stessa. Se un selvaggio, per denotare il moto che dee fare, secondo il suo desiderio, il suo compagno, può servirsi di un moto simile del suo DITO (hand-wave, finger-wave), perchè, per *denotare* il muggito del bove, il belare delle pecore, il rumore del tuono, non puo egli adoperare un suono simile. L'analogia che 1’ha menato all’invenzione dei primi segni, dee menarlo ancora all’invenzione de’secondi. Il bisogno di *denotare* questi suoni degl’oggetti o le cose sonori, mena il sdvaggio a produrre fuori de’ suoni imitativi (ouch), e così nascono le prime voci radicali del linguaggio de’ suoni ARTICOLATI. Questi suoni non poterono essere dapprincipio se non che mono-sillabi, come lo prova l’esempio de’fanciulli (“da”). Ma l’analogia non è il solo principio del linguaggio del suono ARTICOLATO, poiché non sempre si debbono *denotare* un _suono_, o una cosa sonora (OUCH). Per denotare dunque le cose che non mandano suono, l'analogia fa però conoscere agl’uomini, che possono servirà d’un suono ARTICOLATO (non-iconico), per far à comprendere. Ciò posto se un selvaggio si trova nel bisogno di farsi comprendere, se non trova altro mezzo per ottenere il suo fine, se non quello del suono – la profferenza vocale, OUCH --, perchè non puo egli produrre un suono arbitrario, il quale, poi compreso dall’altro, divenne un segno comune – ESTABLISHED. Per rendere sensibile ciò che dico,supponiamo, che ì due solitari immaginati siensi perduti di fbta, e che l’uno voglia ritrovar 1’altro, egli conosce certamente che non puo far comprendere all’altro questa sua volontà se non che per mezzo d’un suono. Egli manda dunque fuori un grido (“OOOOH – Indian love song”). Questo GRIDO (OOOOH – Indian love call – cf. OUCH) da principio non è, come ognun vede, se non che un puro EFFETTO NATURALE (cf. GRICE, OUCH). Se il DOLORE è naturalinente sonito d’un suono INARTICOLATO (“Ouch”), dal pianto (lacrima significat dolorem, risus significat laetitiam interiorem) e dal gemito (“OUCH” – groan); perchè il bisogno di spiegarsi, e di MANDAR FUORI (PRO-FERRIRE) un suono, non potrà esser seguito da un suono QUALE che siasi? Noi non possiamo determinar la RAGIONE (non meramente CAUSA) per cui il selvaggio MANDA FUORI un tal suono piuttosto che un altro, come, volendo camminare, non possiamo conoscere la ragione (e non meramente causa) perchè abbiamo mosso il piede diritto anzi che il sinistro, o questo anzi che quello. Questa ragione (e non meramente causa) può consistere, almeno in parte, nella varia posizióne meccanica del nostro cervello, e generalmente di tutto il nostro corpo. Ma saniamo lo sviluppa della nostih ipotesi. L’ALTRO selvaggio, sentendo il grido, di cui si parla, accorre a ritrovare il suo compagno (principio d’aiuta mutua conversazionale), e come amendue osservano che un tal grido HA LA FORZA (VIM, SIGNIFICATIO) di far che l’uno ritorni all’altro, i due solitari se ne serviranno appostatamente. lu tal caso la voce di cui parliamo ha lo stesso significato del verbo “vieni.” (GRICE: “I KNOW THE ROUTE”). Può dunque l’uomo ritrovare un suono ARTICOLATO NON IMITATIVO (arbitrario, non-iconico, artificiale), per denotare agli altri le sue interne modificazioni – e anche una modificazione, per esempio, del clima (“Piove – Andiamo alla caverna”). Egli può trovarsi nel bisogno di farsi comprendere dal suo simile con un suono. Da un tal BISOGNO nasce la VOLONTÀ e INTENZIONE di mandar fuori un suono. Questa volontà ha il suo effetto, ed un suono è da lui mandato fuori. Questo suono è tale e non altro, perchè tale e non altro è lo stato fisico del corpo che produce il suono (o del clima esterno – stato esterno, non interno – “Piove – andiamo alla caverna), e lo STATO morale ancora dello spirito animatore di questo corpo. Ecco spigata la nascita del SUONO ARBITRARIO (Ouch). Ciò che ho detto è provato coll’esempio de’fanciulli. Eglino innanzi che abbiano appreso a parlare, quando bramano alcuna cosa ardentemente, nell’atto che si sforzano di acceimarla co’gesti, e co’ movimenti del corpo, per lo più proferiscono insieme una qualche voce, poiché lo spirito, quando si trova in qualchegr ave bisogno mette ad un tempo tutte le sue facoltà in azione. Questo è comune alle BESTIE ancora. Anzi i sordi muti medesimi, benché nemmeno sappiano di aver voce, ciò non ostante per non so qual movimento meccanico, mentre s'impegnano di spiegarsi co’lorogesti, principalmente quando si tratta di cose che molto l’interessano e che non possono facilmente farsi comprendere, mandano anch’essi quando una, e quando un’ altra voce. Gl’uomini possono dunque istituire de’ SUONO ARTICOLATO ANALOGICO (ouch ouch), e possono istituire ancora un SUONO ARTICOLATO ARBITRARIO. Lo chiamo ARBITRARIO non già perchè e prodotto senza una ragion sufficiente, ma perchè non e un SUONO ICONICO O IMITATIVO O ANALOGICO. Qual similitudine, per esempio, può mai trovarsi fra questo suono “cielo,” ed il complesso delle sensazioni visuali che ci desta in una notte tranquilla il firmamento 7£ perchè la costituzione fisica e morale, in cui si son trovati gl’inventori delle lingue – come la lingua latina, CAELVM, e l’italiana, CIELO -- allora che sono ndl bisogno di, con un suono, *denotare* uno stesso oggetto, è stata varia non solamente per la natura, e per gl’abiti contratti, ma eziandio per i climi, ed i siti. Perciò in diversi luoghi di questo globo terraqueo nasceno DIVERSI suoni primitivi – cf. glottal clicks --, come è provato per le radici di tutte le lingue cognite. n fatto de’fanciulli prova senza replica che gl’uomini possono arrivare a comprendere il linguaggio arbitrario. E meditando attentamente su di questo fatto si può intendere come ciò possa avvenire. Supponiamo che un fanciullo' apprende il *significato* del vocabolo ‘gallina’ (Grice, SHAGGY), il che può accadere unendosi d’alcuno alla *pronunciazione* (realizzazione fisica) del vocabolo “gallina” (shaggy) l’*indicazione* del volatile dal vocabolo denotato. Supponiamo, inoltre, che il fanciullo vede una gallina _morta_ e che il giorno seguente ascolti d’uno della famiglia questa proposizione: la gallina jeri morì, si accorgerà che si vuole denotare l’avvenimento della morte della gallina accaduto il giorno innanzi. Supponiamo ancora che la proposizione: “La gallina jeri morì” siasi udita più volte dal fanciullo in modo che egli 1'abbia impressa nella sua memoria; « che avendo veduto una cagna partorita il giorno avanti, e sapendo il signifìcato del vocabolo “cagna”, ascolti la seguente proposizione: “La cagna jeri partorì.” Ecco la serie de’ fatti intellettuali che in tal caso hanno luogo nello spirito del fanciullo. l.° egli intende che, colla proposizone, “La cagna jeri partorì”, si denota il parto della cagna da lui il giorno antecedente osservato: 2.o. la pronunciazione del vocabolo “jeri,” per la le dell’associazione delle idee, riproduce nel suo spirito l’altra proposizione, “La gallina jeri mori.” 3.° volendo intendere il significato di ciascun vocabolo delle due proposizioni, il fanciullo dirige la meditazione su le stesse. 4. paragonando le due proposizioni fra di esse, e coi fatti dalle stesse denotate, non meno che i fatti stessi fra di loro, il fanciullo vede che le due proposizioni sono IDENTICHE [token] nel vocabolo “jeri” e che i due fatti significati sono IDENTICI nella circostanza del tempo in cui sono accaduti; essendo tutti e due accaduti nel GIORNO PRECEDENTE A QUELLO IN CUI SI PARLA. 5.° con questi paragoni il fanciullo intende il significato del vocabolo “jeri” ISOLAMENTE considerato (GRICE: UTTERANCE-PART). 6.° dopo di ciò comprende eziandio il significato ISOLATO (GRICE UTTERANCE PART) de’ vocaboli “morì” e “partorì”; poiché avendo compreso il significato in confuso delle due proposizioni, ed indi il significato distinto del vocabolo “jeri,” e sapendo dall’ altra parte il significato distinto de’vocaboli “gallina” e “cagna”, conosce che i vocaboli “morì” e “partorì” sono destinati a denotare i due avvenimenti, e ne apprende perciò il loro distinto significato. Questo esempio fa vedere che i fanciulli meditano (BROOD OVER) prima di apprendere il linguaggio più di quello che comunemente si crede; e che le nozioni soggettive d’identità, e dì diversità sono ANTECEDENTI alla conoscenza della propria lìngua – latina, italiana --, e servono ai fanciulli per farla loro apprendere. I vocaboli o PAROLE o denotano gl’oggetti de’nostri pensieri, o l’azione dello spirito su di questi oggetti. “Pietro è con Paolo”, i vocaboli Pietro e Paolo denotano gl’oggetti de' nostri pensieri ; i vocaboli, con denotano l'azione dello spirito su dì quest’oggetti. Ma ciò richiede ancora una maggiore spiegazione. Il vocabolo “con” *significa* l’azione dello spirito che attribuisce a Paolo il rapporto di *compagnia* con Pietro. Ma acciocché lo spirito ha la nozione soggettiva di tal rapporto, è necessaria la comparazione di Pietro con Paolo riguardo alla loro esistenza in un certo tempo ed in un certo spazio. Questa comparazione aggiunge all'idea assoluta di Paolo il rapporto di compagnia con Pietro. La voce, parola, vocabolo (preposizione), “con” esprime un tal rapporto, e per questa ragione un tal vocabolo può riguardarsi eziandio come SEGNO dell’azione dello spirito che compara. Pur tuttavia essendo il rapporto un prodotto della comparazione preliminare all’atto del giudizio, è maggior esattezza il distinguere i vocaboli che denotano l’azione dello spirito, in vocaboli di giudizio (“è” – Frege, segno d’asserzione) ed in vocaboli di rapporto (“con”). £ questa distinzione si trova in un opuscolo di GIGLI (si veda) intitulato “Metafisica del linguaggio” (Milano). Secondo questa osservazione i vocaboli si distinguono in vocabbli di cosa, in vocaboli di giudizio ed in vocaboli di rapporto. Così nella proposizione, “Pietro è con Paolo,” [O PER USARE L’ESEMPIO DI GRICE, PIETRO STRAWSON E FRA PAOLO GRICE E DAVIDE PEARS] i vocaboli “Pietro” (Strawson) e “Paolo” (Grice) – o CATONE E CICERONE -- son vocaboli di cosa o oggeto [linguaggio-oggeto], il vocabolo i, esprimendo l’atto del giudizio, è vocabolo di giudizio, ed il vocabolo “con” [o FRA] è vocabolo di rapporto. Esso denota insime l’azione comparativa, ed il rapporto di questa azione. Secondo la grammatica generale e ragionata di Porto Reale, i vocaboli si distii^cno in due classi. Alcuni vocaboli – alcune parole -- significano gli oggetti o CONTENUTO de’nostri pensieri; altri significano la forma, e la maniera de’ nostri pensieri di cui la principale è il giudizio. Questa distinzione mi sembra giusta è chiara. I vocaboli o le parole, MATERIALMENTE considerati [SOOT, SUIT] sono o radicali o derivati, 0 toHituiti. Radicali, o PRIMITIVI, son quelli vocaboli o quelle parole, che non nascoti derivati, e sostituiti, e cosi ad accrescere notabilmente il linguaggio e la lingua italiana (CASA, CASETTA, CASINA). Difatti quanti nomi sostantivi non si possono trarre dagl’aggettivi, quanti aggettivi da'sostantivi, quanti nomi da'verbi, quanti verbi da' nomi? I sostantivi nerezza, bianchezza, lunghezza ec. tutti vengono da nero, BIANCO, lungo. Gl’aggettivi celeste, terrestre, marmo ec. derivano da CIELO, terra, mare. I nomi speranza, amore, dolore, volontà ec. derivano dai verbi sperare, amare, dolere, volere. 1wirbi “velare”, vestire ec. nascono da velo, veste. Inoltre quante parole formar non si possono dall’unione di due o più altre? I LATINI unendo il verbo “esse” a varie PROPOSIZIONI, ne facevano: AD-ESSE, ab-esse, obesse, in-esse, proc-esse, prod-esse, sub-esse; super-esse, inter-esse. Dall’unione poi di un nome e di un verbo, quanti altri composti facessero i greci e gl’ebrei, e quanti ne facciano i cinesi, e tutti gl’orientali, è abbastanza noto agl’eruditi. Tutte le lingue originali, che diconsi lingue madri, hanno pochissime radici primitive, per mezzo delle varie combinazioni di queste compongono un gran numero di vocaboli. Gl’uomini dunque, per MANIFESTARE agl’altri i propri pensieri, hanno potuto istituire il linguaggio dei suoni articolati. Questa invenzione è la causa principale che ha condotto il geqere umano a quel grado di coltura e di perfezione in cui oggi lo vediamo. IL LINGUAGGIO FA L’ANALISI del pensiere [cf. GRICE SIMPLE IDEAS PREDICATES PROPOSITIONAL CONTENT], e come sia un valevole soccorso per la meditazione. Ma indipendentemente dalla influenza che ha pel progresso delle nòstre conoscenze, considerato riguardo all’individuo -- o gl’individui, i conversanti -- che se ne serve, ne ha una notabilissima considerato riguardo alla società, e relativamente all’individuo, che ascolta e riceve le altrui conoscenze. Il linguaggio può essere considerato come un mezzo che fa progredire lo spirito nella propria meditazione; ed ancora come un MEZZO DI COMUNICAZIONE scambievole de’pensieri degl’uomini. Nel primo caso serve d’istrumento all’azione meditativa, per ritrovare la verità; nel secondo presenta allo spirito de’nuovi materiali per le sue conoscenze. Gl’uomini non potendo esistere in tutti i luoghi nè in tutti i tempi; segue che non tutti possono osservare tutti i fatti. Un uomo può perciò aver osservato de’fatti che un altro non ha osservato (IL POMMO E EDIBILE). Se dunque il primo COMUNICA al secondo le sue osservazioni, questi conosce de’ fatti che non ha osservato; e questa conoscenza ha per motivo1’altrui testimonianza, e costituisce ciò che si chiama certezza morale. Domandate, per esempio, ad un napolitano, il quale non sia mai uscito di questa città, perche egli crede l’ esistenza di tante altre città, di Roma, di Milano, di Parigi, di Madrid, di Londra, di Timbuctoo d’Atlantide d’Utopia ec. Vi adduce per motivo la testimonianza d’altri uomini che hanno veduto le città nominate, ed egli è tanto certo dell’esistenza di queste quanto lo sarebbe, se le vedes» co’propri occhi. Non basta che un uomo conosca un fatto che un altro ignora. È necessario che abbia la volontà di NARRARE – e narrare il vero [GRICE, il principio dell’aiuta conversazionale], afllnchè l’altro non è dalla testimonianza del primo *ingannato*. Per disgrazia dell’umanità la volontà d’ ingannare i propri simili si trova non poche volte negl’uomini; e non poche volte ancora accade che gl’uomini INGANNINO [mislead] non già perchè VOGLIONO INGANNARE [wilfully mislead], ma perchè O non hanno conosciuta esattamente il vero, O sono stati d’altri ingannati. Da ciò lo scetticismo prende il motivo di combattere la certezza morale. Ma dicano quello che vogliono gli scettici, l’esperienza ci manifesta queste due verità, l.° un uomo può aver conosciuto de’fatti che un altro, o non puo conoscere o non conosce. 2.° vi sono alcuni fatti di tal natura, su de’quali non si trova giammai concordemente fallace la testimonianza di coloro che gl’hanno osservati. Non si è trovata giammai fallace la testimonianza di coloro che sono stati in Napoli nello assicurarmi dell’esistenza di questa città. L’esperienza stessa me ne ha assicurato, poiché essendo io stato in Napoli (ma nato a TROPEA), ho ammirato io stesso co’miei occhi questa magnifica città, ed ho così trovata verace l’altrui testimonianza. La stessa esperienza ripeto circa molti altri fatti. È dunque una verità di esperienza quella che stabilisce, essere la concorde testimonianza di altri uomini circa alcuni fatti, un motivo leggittimo dei nostri giudizi Vi sono, è vero, degl’uomini che narrano de' fatti de’ quali non sono stati testimoni oculari, e su de’quali sono stati d’altri INGANNATI [deceived], e vi sono ancora di quelli che volontariamente MENTISCONO [lie]. Ma vi sono eziandìo de’testimoni non solamente oculari di alcuni fatti, ma testimoni tali che non somministrano alcun motivo di dubitare della loro veracità. È questa una verità che la propria giornaliera esperienza ci manifesta. Chiunque non ha veduto Bonaparte è sicuro nulla dì meno, per la testimonianza di altri, che vi sia stato un uomo così chiamato, il quale ha esercitato il sommo potere nella Francia, perde poi il trono, ed è MORTO PRIGIONERO nell’Isola di S. Siena Elena. Cf. Grice, I KNOW CORSICA, I KNOW OF CORSICA. A suo luogo parleremo de’limiti della certezza morale. Qui mi son ristretto a stabilire la sua esistenza. Per istabilirla ho stimato di salire a’suoi primi princìpi. Ho fatto vedere che un uomo può intendere un altro, che l’uomo può voler essere inteso, e che da ciò nasce la prima SIGNI-FICAZIONE, il primo SISTEMA DI COMUNICAZIONE o linguaggio chiamato linguaggio della natura. L’analogia può accrescere un tale linguaggio e far nascere ancora alcuni vocaboli radicali analogici. Il bisogno può menare poi gl’uomini a stabilire altri vocaboli radicali arbitrari; e che così ha potuto nascere il linguaggio, de’suoni articolati. L’esperienza m’insegna che vi sono delle cose circa le quali altri non s’ingannano, nè si propongono d’ingannarmi. Da ciò concludo che l’altrui testimonianza, cioè il linguaggio volontario degl’altr’uomini, può in molti casi, circa ì fatti, essere un motivo legittimo de’ nostri giudizi. Io non posso coesistere a tutte le generazioni, ed a tutti i luoghi. La mia durata è breve. Il mio luogo è quasi un punto nello spazio. Intanto vi sono moltissime cose, die m’importa di conoscere, e che sono accadute prima della mìa nascita, o che accadono in luoghi più o meno lontani da quello ove io mi trovo. La testimonianza altrui mi è dunque necessaria per l’acquisto di tali conoscenze. Il linguaggio de’suoni, come l’italiano, o il calabrese, è un linguaggio passeggierò e limitato ad alcuni luoghi. Un uomo che per mezzo delle parole COMUNICA agl’altri i suoi pensieri non può farlose non che nel tempo in cui egli parla e ne’luoghi ne’quali può estendersi il suono delle sue parole. Un gran problema presentai al genere umano: il problema consiste a trovare il mezzo di estendere a tutti i tempi ed a tutti i luoghi il linguaggo limitato della parola. Voi già comprendete l'importanza del problema enunciato, e che la soluzione di esso dee formare la seconda epoca del progresso delle umane conoscenze ponendo la prima nella nascita del linguaggio parlato. I fatti ovvi e ripetuti incessantemente sogliono destar poco l’attenzione del volgo degli uomini, e perciò non gli recano sorpresa. Vi ho fatto sopra osservare quale studio fanno i fanciulli per apprendere, sin da’ loro primi anni, ill inguaggio della parola; intanto si crede forse che essi non meditino affatto; appunto perchè comunemente iiiuno cerca di conoscere come i fanciulli apprendano tal linguaggio. E un errore il credere che le cose sieno state in tutti i tempi come sono in un certo tempo. Qui è il luogo di fare uso di questa importante osservazione. La nostra educazione letteraria incomincia, dal fare apprendere a’fanciulli le lettere dell’alfabeto. Ma v’ingannereste credendo che la scrittura, vale a dire,l’arte di dipingere la parola e di parlare agl’occhi, sia stata conosciuta nella prima fanciullezza del genere umano. Noscorsi de’secoli prima che siensi trovate le lettere dell'alfabeto: la scrittura non è stata conosciuta che molto tardi. Siccome questa ci somministra un motivo molto fecondo di conoscenze, cosi è necessario, dopo di aver cercato l’origine del linguaggio parlato, di cercar quella del linguaggio scritto. Qual mezzo si può presentare agli uomini, per perpotuafc la memoria de’fatti accaduti? In primo luogo si può osservare un tal mezznello stesso linguaggio parlato. La propagazione del genere umano si fa in modo che gl’individui di una età vivono insieme per qualche tempo coi loro antenati e coi loro discendenti. Un uomo può dunque narrare alla sua fìgliuolanza tanto quello che egli stesso ha veduto quanto quello che c^Ii ha udito da suo padre, da suo avo, ed a tutti coloro, che sono stati testimoni oculari de’fatti accaduti prima della sua nascita, e del tempo in cui egli avesse potuto osservarli, questo uomo essendo il primo testimone di udito, costituisce il secondo anello della testimonianza. Gl’altri che ascoltano il fatto da lui narrato ne costituiscono il terzo, il quarto ec. Così si forma una serie non interrotta di testimoni oculari, e costituisce ciò che chiamasi tradizione orale. La maniera più generalmente adoprata ne’primi tempi, per osservare la tradizione orale, è quella di comporre una specie di ode o di cantico – L’ENNEIDE DI VIRGILIO. ARMS AND THE MAN. – o gl’ANNALI d’ENNIO – ROMOLO E REMO -- Cotesta sorte di poesia racchiudeva le principali circostanze degli avvenimenti che volevano alla posterità tramandarsi. Vedasi questo uso stabilito ne’secoli più remoti appo tutte le nazioni, tanto dell’antico che del nuovo continente. Dopo la sommersione dell’esercito di Faraone nel mare rosso, Moisè, e gl’istraditi composero un cantico di lode, e di ringraziamento al Signore, nel quale cantico è espresso questo memorabile avvenimento, come si legge nell’esodo. Al mezzo della tradizione orale, per conservare la memoria degl’avvenimenti passati, si è aggiunto quello di alcuni grossolani monumenti. L’uso dei primi secoli è di piantare un bosco, d’innalzare un altare, o un monte di pietre, di stabilue delle feste [OVIDIO], e di comporre de’ cantici in occasione di avvenimenti riguardevoli. Quasi sempre davasi a’luoghi ove sono accaduti de’fatti memorabili, un nome relativo ai fatti ed alle circostanze (MONTE PALATINO). L’istoria di tutte le nazioni somministra molte prove ed esempi di queste antiche costumanze. Si vedono i patriarchi innalzare un altare nei luoghi, ove è loro apparso il Signore, piantare de’boschi, fare dei monti di pietra in memoria de’principali ancnimenti della loro vita c dare a’ luoghi, ove sono accaduti de’nomi che ne richiamassero la memoria. Se si consultano gli scrittori romaniprofani, questi attestano lo stesso. Ne’contorni di Cadice vedevansi in altri tempi delle pietre ammassate, le quali si dicevano essere i monumenti della spedizione dell’ERCOLE ITALIANO nella Spagna.Tutte queste differenti pratiche hanno servito a rinfrescare la memoria de’fatti memorabili, e a perpetuare le scoperte importanti. La tradizione supple allora alla mancanza della scrittura. I padri spiegano a’loro figliuoli l’origine di questi monumenti, e gl’istrueno de’fatti, i quali ne sono stati la cagione. Io chiamo tradizione tanto la tradizione orale quanto l’unione della tradizione orale coi monumenti. Fra lo spezie dei monumenti composti dagl’uomini, ad oggetto di perpetuare la memoria de’fatti passati, untt. delle principali, che siasi presentata al loro spirito, è stata la rappresentazione degl’oggetti corporali. I primi uomini pensarono naturalmente, d’impiegar questo mezzo, per rendere i loro pensieri sensibili alla vista, e cominciarono dal presentare agl’occhi il ritratto degli oggetti dei quali volevano parlare. Per fare conoscere, per cagione di esempio, che un uomo uccide un altro, eglino disegnano una figura umana stesa per terra, ed una altra in faccia di quella dritta con un’arma alla mano. Per fare intendere che alcuno è abbordato per mare in un paese, rappresentano un uomo assiso sopra una barca, e così del resto. Da quello che degli antichi monumenti è rimasto, puà assicurarsi, che in prima origine l’arte dello scrivere consiste ili una rappresentazione informe e grossolana degl’oggetti corporali. L’uomo di sua natura imita facilmente, ed in ogni nazione vedesi la gente portata a ricopiare gl’oggetti che le si presentano. Le nazioni più selvagge, o quello le quali hanno minor relazione e commercio con i popoli colti, possiedono con tutto ciò una certa idea dell’arte del DI-SEGNARE, vale a dire di rappresentare, beiichò rozzamente, gl’oggetti della natura. L’onir brache produce ogni corpo sopra una superficie che gli sia opposta, quando il corpo si oppone al passaggio della Ince, ha somministrate le prime idee del DI-SEGNO. Tirando su i limiti dell’ombra alcune linee, allora che l'ombra sparisce, la figura descritta con queste linee è [ICONICAMENTE] simile alla figura del corpo che getta L’OMBRA. Dopo le prime esperienze i primi popoli tentano di rappresentare, e di copiare gl’oggetti senza l’ajuto della loro ombra. Hanno a poco a poco avvezzata la mano a lasciarsi guidare dall’occhi o, ed a seguire le proporzioni suggeritele dalla vista. Il DI-SEGNO nella sua origine consiste solamente nella circoscrizione del contorno esteriore degl’oggetti. Si tenta dopo di esprimere le parti interiori, che L’OMBRA [silhouette] NON DI-SEGNA, come per cagione di esempio una testa, gl’occhi, il naso ec. Il carbone, la creta ec. possono somministrare a’primi uomini la maniera di DI-SEGNARE sopra il legno, sopra la pietra ec. come ancora si sono eglino esercitati in ciò sulla sabbia, sulla terra molle ec. Hanno in seguito con l’ajuto dei sassi, e di altri strumenti taglienti procurato d’imprimere DE-SEGNI sopra le materie solide. La forma che prendono i corpi molli insinuati ne’corpi duri, e l’impronta che lasciano i corpi duri applicati a’corpi molli, hanno su^rito a’ primi uomini l’arte del modellare. Questa ha a poco a poco prodotta quella dell’intagliare nel legno, nella pietra, e nel marmo. In questa maniera il DI-SEGNO, la scoltura, l’intaglio hanno la loro origine. Queste arti, a mio credere, hanno preceduto la pittura. Hanno queste rappresentazioni degl’oggetti corporali servito per molto tempo invece della scrittura propriamente detta. Io chiamo la rappresentazione degl’oggetti corporali scrittura figurativa. Questa maniera di scrivere richiede molto tempo. Si pensa perciò di renderla più semplice, ed invece di DI-SEGNARE per intero a cagion d’esempio, un uomo, un albero, un cavallo, si DI-SEGNANO le parti principali che li fanno conoscere; come per esempio la testa, la mano, Marte (MASCHIO) e Vennere, ec. Ma questa scrittura fìgurativa non puo essere suffìciente per esprimere tutti i pensieri degl’uomini. Vi sono molte cose che non si possono dipingere, come sono lo spirito, le sue facoltà, le sue modificazioni. È impossibile di parlare delle cose materiali, senza unirvi delle idee die non sono capaci d’immagini. Come per esempio, descrivere l’immagine dell’affermazione, e della negazione? Fa d’uopo dunque inventare i segni di queste idee intellettuali e 1’analogia guida gli uomini a trovarli. Si concepì una certa similitudine fra alcune qualità che si osservano negl’uomini, e quelle che si osservano negl’animali, e per esprimere, che un uomo è in queste qualità simile ad un certo animale, si dice più brevemente, che il tale uomo è un tale animale [un leone]. Cosi, per dire di un uomo, che li è prudente, che li è astuto, che è fiero e crudele, si dice, che è un serpente [PRUDENTE], una volpe [ASTUTO], una tigre [FIERO E CRUDELE]; DI-SEGNANDO dunque l’immagine di questi tali animali si DI-SEGNANO *mediatamente* -- FIGURATIVAMENTE – l’immagini delle qualità spirituali (PRUDENZA, ASTUZIA, FIEREZZA E CRUDELTA] di cui si tratta. Una tale rappresentazione costituisce ciò che chiamasi geroglifico. I cinesi per cagion di esempio, per denotare che FoAt, primo fondatore del loro impero, è dotato di prudenza, e di sagace ingegno, lo DI-SEGNANO col capo umano unito ad un corpo di serpente. Il successore di FoA», di nome Xino, ad oggetto di denotare, che egli si applica all’agricoltura, ed incomincia a porre i bovi sotto il giogo, lo DI-SEGNANO col capo di bove unito al corpo umano. Gl’antichi denotarono la giustizia, dipingendo uvergine cogl’occhi bendati, tenendo in una delle mani una bilancia, ed in un'altra una spada. La vergine figura la giustizia; la bilancia DENOTA CHE che la giustizia consiste a dare a ciascuno il suo dritto, la spada SIGNIFICA CHE la giustizia dee infligger la paia dovuta a’delinguenti, gl’occhi bendati finalmente DENOTANO CHE denotano CHE la giustizia e IMPARZIALE e non dee avere alcun riguardo alle persone, ma deve agire conformemente alla legge, senza esser mossa da motivi estrinseci. Si vede qui che la similitudine concepita fra alcuni modi de’corpi, e le qualità dello spirito, dettò questo geroglifico. La giustizia è una nozione astratta, e le nozioni astratte sussistono sole nello spirito. Passa perciò una certa similitudine fra l’astrazione e la personificazione, una vergine non è macchiata da alcuna impurità corporale, e la giustizia dee esser monda da qualunque difetto. Quando per dare ad un altro una quantità di merce, questa si pesa, ciò si fa per dargli ciò che gli appartiene. Le similitudini fra alcune modificazioni del corpo, e quelle dell’animo si deducono da ciò, che le prime sono i SEGNI NATURALI delle seconde. Denotando le prime si denotano mediatamente le seconde. E siccome le prime son capaci d’immagini corporali, così lo sono MEDIATAMENTE [FIGURATIVAMENTE] anche le seconde. E questa rappresentazione mediate costituisce il geroglifico. Da ciò si vede che la scrittura geroglifica si è unita alle volte alla scrittura figurativa, come si vede ne’due esempi di Fohi, e di Xino. Alle volte è stata impiegata solq come nell’esempio recato della giustizia. Si vede inoltre, come questo modo di scrivere fa le veci delle proposizioni verbali. Cosi, per cagion di esempio, i geroglifici rapportati valgono pel significato quanto queste proposizioni verbali: F(M fu dotalo di sagacità. Xino pronwtse ¥ agricoltura, e pose « bovi sotto il giogo, fa giustizia dà a ciascuno U tuo dritto, infligge la pena dovuta a'delinguenti, né si lascia muovere da motivi estrinseci. Osservate, che ne’geroglifici enunciati si trovano i segni relativi al sogetto, al predicato, ed al verbo delle proposizioni rapportate. Così il capo di forma umana nel primo geroglifico donata il soggetto della proposizione cioè Fohi, il corpo serpentino denota il predicato, cioè la segacità, e l’unione del capo umano al corpo serpentino denota l’unione del predicato al soggetto significato dal verbo fà. Nel secondo geroglifico, il corpo di figura umana denota il soggetto della proposizione cioè Xino. Il capo bovino denota il predicato cioè l’aver promosso l’agricoltura, e l’aver posto i bovi sotto il giogo; l’unione poi del capo bovino alla forma umana denota l’unione del predicato al soggetto, espressa dal verbo promosse. Nel terzo geroglifico, il soggetto della proposizione è significato dalla vergine; la bilancia, la spada, la benda denotano i predicati della proposizione, e l’unione di queste cose al corpo della vergine denota l’unione de’predicati al soggetto. Da ciò segue che un geroglifico può esprimere diverse proposizioni, osia una proposizione composta. Ciò si vede chiaramente nel geroglifico recato della giustizia. Wolfio riferisce che un certo Comenio, volendo formare il geroglifico dell’anima, dispose de'punti in modo da formare una figura simile a quella che presenta l’ombra, prodotta dal corpo umano su di un piano perpendicolare all'orizzonte, ed opposto direttamente al corpo umano, ed al lume. I PUNTI, secondo i geometri, essendo PRIVI D’ESTENSIONE, *denotano* la SEMPLICITÀ dell’anima. La figura del corpo umano costruendosi, per mezzo de'soli punti, senza l'intervento di alcuna linea, *denota* la sostanzialità dell’anima umana, la quale sussiste indipendentemente dal corpo. I punti, essendo disposti in modo, che necessariamente formano la figura del corpo umano, *denotano* l’unione dell'anima col corpo, la quale unione si forma dall’autore della natura, indipendentemente dalla volontà dell’anima. Finalmente questi punti, essendo dispersi in tutta la figura del corpo umano, *denotano* la dottrina degli scolastici, cioè che l’anima NON È NELLA GLANDULA PINIALE come vuole Cartesio, o nel cervello come cuole l’ACCADEMIA, o nel cuore, come vuole il LIZIO, ma è tutta in tutto il corpo e tutta in ciascuna parte. ir geroglifico comcniano equivale perciò alle scienti proposizioni. l.° l’anima è semplice: 2.° l’anima è una sostanza. L’ anima, indipendentemente dalla sua volontà, è unita al corpo. 4.” 1' anima esiste tutta in tutto il corpo, e tutta in ciascuna parte. Dopol’invenzione della scrittura geroglifica portata al più alto grado di perfezione, di cui è capace, resta ancora agli uomini di farp l’ultimo sforzo per ritrovare i caratteri alfabetici, che sono i SEGNI del suono [AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE] non già degl’oggetti. Vi sono stati in ogni tempo degli spiriti sublimi, i quali colle loro invenzioni hanno ampliato notabilmente la sfera delle umane cognizioni, ed hanno spinto velocemente il genere umano verso quel grado di coltura, in cui (^gi te vediamo. Un vocabolo (“shaggy”) è un SUONO o composto (“sha”, “shaggy”), o semplice (“a”). Per rendere durevole QUESTO SEGNO basta dunque stabilire de’segni permanenti de’ suoni semplici (AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE), che compongono i vocaboli. E per tale oggetto basta stabilire per segni de’suoni semplici ALCUNE FIGURE – in lingua latina, 24: A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z --, e la scrittura alfabetica è trovata. Ma (pianto tempo è egli trascorso, priachè una verità cotanto semplice si presenta allo spirito de’padri nostrii. Si vuole render permanente il linguaggio passaggiero della PAROLA (PARA-BOLA); e non si pensa di decomporre i suoni ARTICOLATI [prima articolazione: sh- a, sha], e di stabilire de’segni permanenti de’suoni semplici che compongono i vocaboli. Lo spirito intraprende de’cammini lunghi e tortuosi per tramandare alla posterità la somma delle sue conoscenze. La scrittura è prima figurativa perfetta indi figurativa imperfetta. poiché si designarono prima gl’oggetti interi, indi le loro parti principali. In seguito divenne geroglifica, indi sillabica, e finalmente alfabetica, lo dico prima sillabica, e poi alfabetica, poiché penso coll’illustre Goguel autore dell’opera su 1’origine delle leggi, delle arti, e delle scienze, che dopo la scrittura geroglifica sono trovati i segni de’suoni delle sillabe de’vocaboli, prima che si trovassero i segni de’suoni semplici che compongono i suoni delle sillabe. In questa maniera di scrivere, la quale chiamasi scrittura sillabica non s’impiega se non che un solo carattere per iscrivere ciascuna sillaba, di cui vien composta una parola (PARABOLA). Non si esprimono allora né vocaboli, né consonanti. Noi, per esempio, per iscrivere la voce “pane” /pane/ impieghiamo quattro lettere o fonemi: /p/ /a/ /n/ /e/. Nella scrittura sillabica non vi bisognano se non che due caratteri: /pa/ e /ne/. Ora supponiamo che la pronunciazione del vocabolo “pane” risvegli l’idea del suono “cane,” e questo quella del suono “sane,” e che lo spirito mediti, e paragoni fra di essi questi suoni. Egli li decompone in sillabe, e trova, che la sillaba “ne” è la stessa in tutti e tre questi suoni, il che gli viene ancora insegnato dalla stessa scrittura sillabica, poiché lo stesso carattere indica il suono della sillaba “ne” in tutti e tre i vocaboli enunciati. Questa identità conosciuta mena lo spirito a notare la diversità de’ suoni “pa,” “ca,” e “sa,” che sono le prime sillabe di questi vocaboli. Ma in questa diversità lo spirito trova ancora una identità nella desinenza. Tutte e tre queste sillabe cadono nel suono “a”. Ciò conduce lo spirito a separare nelle sillabe “pa,” “ca,” “sa,” il suono “a” dagl’altri suoni che vi si uniscono. E siccome egli ha trovato i caratteri de’suoni “pa,” “ca,” e “sa,” così trova il carattere del suono “a,” e quelli de’suoni “p, “ “c,” e “s,” e la scrittura alfabetica è già trovata. Ecco dunque i passi, che ha dovuto fare lo spirito per ritrovare la scrittura alfabetica, l.° egli conosce che la maggior parte de’vocaboli sono de’suoni composti, e che potevano perciò DECOMPORSI in altri snoni. 2.° egli conosce che puo stabilire segni di segni [GRICE – TYPE, U – versus TOKEN, u]], e segni permanenti di segni passaggieri; 3.° egli stabilisce de' caratteri, che sono segni permanenti del suono delle diverse sillabe, e così nasce la scrittura sillabica. 4.° egli conosce che la maggior parte delle sillabe sono de’suoni composti ancora, e siccome trova de’caratteriche sono segni delle sillabe, trova ugualmente de'caratteri che sono segni de’suoni semplici; e così è nata la scrittura alfabetica. Alcuni eruditi, frai quali Goguet, pretendono che i caratteri alfabetici sono derivati da'segni geroglìGci, e che quest’ultimi hanno a poco a poco introdotto il metodo breve delle lettere alfabetiche. Questa opinione è falsa sotto un certo riguardo, sebbene possa esser vera sotto di un altro. Per presentacela quistione sotto un aspetto filosofico, può cercarsi: l.°: Lo spirito umano puo, senza passare per la scrittura figurativa, e geroglifica, passare immediatamente dal linguaggio della PAROLA [PARA-BOLA] al linguaggio permanente della scrittura alfabetica? È certo, che puo, poiché fra i passi, che egli dove fare, partendo dalla considerazione della PAROLA [PARA-BOLA], per giungere alla scrittura alfabetica non vi sono certamente quelli della scrittura figurativa e geroglifica. Si può cercare S.''.La scrittura figurativa e geroglifica dove condurre naturalmente lo spirito alla scrittura alfabetica. La scrittura figurativa e geroglifica non hanno relazione alcuna colle lettere dell’alfabeto, e per tal ragione non possono condurre lo spirito a ritrovare la scrittura alfabetica. Ma possono sotto un altro riguardo influire a questa invenzione. Queste due scritture sono imperfette assai, e complicate. Lo spirito accorgendosi della loro imperfezione e difficoltà, puo da ciò rivolgere la meditazione a rendere più semplice, e facile il sistema de’segni permanenti. Si può cercare 3.° La figura de’segni geroglifici Jta puo server allo spirito, per concepir la figura de' primi caratteri alfabetici. Le ragioni addotte da Goguet provano, che lo puo. Paragonando, egli dice, con attenzione quello che a noi rimane dei caratteri egiziani, colle figure geroglifiche intagliate sopra gl’obelischi e gli altri monumenti, si ricava che le lettere egiziane tirano da’geroglifici la loro origine. Nell’alfabeto degl’etiopi, e nelle lettere majuscole degl’armeni si trovano i vestigi assai chiari della scrittura antica geroglifica. A queste ragioni se ne può aggiungere un’altra. Col progresso del tempo il rapporto di similitudine tra il geroglifico e la idea da esso significata, non si è piu ravvisato. Ciò è accaduto per due ragioni l.° alcuni rapporti [figurativi – metaforici -- META-ICONICI – GRICE] di similitudine sono troppo lontani. Si esprime, per esempio, l’impudenza per [BY] una MOSCA, la scienza per una FORMICA. 2.° allorché sono moltiplicati i volumi, si cerca il modo di abbreviare, e perciò invece del geroglifico primitivo si fa uso di un altro carattere, che noi possiamo chiamare la scrittura corrente de’geroglifici. Esso rassomiglia a’caratteri cinesi. Dopo d’essere stato da principio formato dal solo contorno della figura, divenne in stanilo una sorta di nota, hi questo stato il geroglifico puo riguardarsi come il segno del vocabolo. Tosto che si hanno da’segni permanenti de’vocaboli, puo pensarsi di dare de’segni permanenti alle sillabe, ed indi a’suoni semplici di cui è composto il suono delle sillabe. L’essenza de’caratteri alfabetici si è l’essere isolatamente considerati SEGNI solamente di suoni [cf. AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE], non già di idee. I caratteri, per esempio, a, e, i, o, u, b, c, ec. [cf. GRICE, DISTINCTIVE FEATURES – FONEMI, FONEMA, ALLOFONICO], isolatamente considerati nuli’ altro SIGNIFICANO se non che alcuni suoni. I caratteri poi della scrittura fìgurativa, e geroglifica, non denotano suoni ma idee, l’immagine di un serpente denota l’idea del serpente, quella della prudenza ec. Le nostre cifre arabe,1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, sono ugualmente segni d’idee, non di suoni. Essi si leggono diversamente presso le diverse nazioni, sebbene sieno ì segni delle stesse idee. Questa differenza è della massima importanza. Colla divcisa combinazione di un piccol numero di caratteri, si possono scrivere tutti i vocaboli di una lingua parlata. Ma quando i segni della scrittura sono segni d’idee non già di suoni, il numero di questi segni dee corrispondere al numero de’vocaboli, il che rende il numero de’caratteri molto grande, e perciò esige uno studio lungo, e difficile, per apprendere a leggere,e scrivere, come è provato per l’esempio de’cinesi. È questo un grande ostacolo al progresso della conoscenza. La gente di studio è obbligata a sottrarre il tempo necessario, per apprendere le scienze, ed impiegarlo a saper leggere e scrivere. L’arte di leggere e scrivere essendo di molto poche persone, il resto della nazione dee restare nella ignoranza. Dello stesso inconveniente partecipa anche in parte la scrittura sillabica, poiché il numero de’caratteri, per significare ciascuna sillaba è di gran lunga maggiore di quello, che è necessario per denotare i suoni semplici, di cui il suono di ciascuna sillaba è composto. Così, per cagion di esempio con questi tre caratteri alfabetici, a, b,c, si possono scrivere le seguenti sìllabe, ab, ba, ac, ca, bac, cab. In questo esempio il numero dei caratteri sillabaci è doppio del numero de’ caratteri alfabetici. Se suppone quattro caratteri ahabetici, a, b, c, e, il numero ddle combinazioni di questi caratteri, presi due a due, è maggiore del doppio, cosi avremo, ab, ba, ac, ca, ae, eb, be, ec. Uno de’ vantaggi dunque della scrittura alfabetica sulle altre scritture si è il piccol numero de’segni, di cui ha bisogno la prima scrittura. È vero, che le nostre cifre arabe sono per tale oggetto perfettissime, mentre con dieci caratteri possono scriversi tutti i numeri possibili. Ma un tal vantaggio lo debbono alla formazione delle idee da queste cifre designate, poiché queste idee si formano tutte colla ripetizione della stessa idea che è quella dell’UNITÀ. Un altro inconveniente della scrittura geroglifica si è l’incertezza del significato. Uno stesso geroglifico può denotare cose molto diverse fra di esse. Cosi la immagine del serpente dinota questo animale, la prudenza, e ’universo. L’immagine del lepre dinota questo animale, il candore, e la timidità. L’invenzione del linguaggio della parola, el’invenzione della scrittura alfabetica, che rende permanente il primo linguaggio di sua natura passeggierò, fanno che l’uomo possa gettare il suo sguardo in tutti i luoghi, ed in tutti I tempi.L’esperienza c’ins^a, che gl’uomini possono, per mezzo della scrittura, trasmetterci dei fatti che son veri e che la concorde testimonianza degli scrittori circa alcuni fatti non si è giammai trovata fallace. Tutte le gazzette dell’Europa all’epoca, in cui Bonaparte scese al trono della Francia annunciarono questo avvenimento. Tutte le gazzette ugualmente hanno annunciato la morte del sommo pontefice Pio VII. L’esperienza dei propri occhi avrebbo potuto assicurare colui, che avesse dubitato, della verità di tali fatti. I fatti consegnati negli scritti possono colla conservazione degli scritti, che li contengono, trasmettersi alle future generazioni. È questa eziandio una verità di esperienza. Vi sono dunque de’fatti accaduti in tempi lontani, de’quali fatti noi possiamo conoscere la verità. Il linguaggio passaggiero della parola; quello permanente della scrittura alfabetica, e quello dei monumenti, possono dunque circa alcuni fatti, essere motivi legittimi dei nostri giudizi. Tutti questi motivi concorrono a stabilire la certezza morale. Credo utile d’addurvi un altro esempio, in conferma di ciò che vi ho detto. Un terribile tremuoto, poi seguito d’altri, cagiona dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di Messina. Gl’abitanti dei paesi danneggiati sono obbligati di uscire fuori dalle loro abitazioni, e dì costruirsi delle baracche per abitarvi; alcuni le hanno costruite in lontananza dei paesi diruti quali rimasero perciò deserti. Cosi accadde, per esempio, a Briatico, che è costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico antico presenta allo spettatore i segni delle sue mine. Altri hanno costruite le nuove abitazioni in un suolo contiguo all'antico abitato. Cosi accadde a TROPEA, le cui nuore abitazioni sono costruite lungo ed all'intorno della strada detta dell’Annunciata. Molti, che sono stati testimoni oculari dell’avvenimento, vivono ancora molti altri appartengono alle seguenti generazioni. I primi narrano ai secondi l’orìgine delle mine che colpiscono i loro occhi, non meno che l’orìgine delle nuove abitazioni, ciascuno testimone oculare è istruito dalla esperienza, che tanto egli, che gli altri testimoni oculari narrano il vero, e che coloro i quali narrano il fatto ad altri, per averlo eglino inteso narrare da’testimoni oculari, narrano il vero. L'esperienza dunque c’insegna, die vi sono dei testimoni di udito, la di cui testimonianza è verace,e che la tradizione orale unita ai monumenti può trasmettere alle generazioni future i &tti accaduti ne’tempi da queste generazioni lontani. La memoria di questa tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti, i quali ancora rimangono, ed i cui autori più non sono. La propria esperienza istruisce dunque cisscun testimone oculare di questa importante verità: che per mezzo de’monumenti, della tradizione orale e della scrittura alfabetica, si può conservare la conoscenza di alcuni fatti passati. Intorno alle idee politiche del G., e più sulla condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda degli avvenimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel periodo della sua virilità, non si può dire davvero che abbondino i documenti, né che abbiano fatto tutta la luce desiderabile gli studi consacrati a questo lato della biografia galluppiana da Tulelli, dal Guardione e ultimamente d’ Arnone. Il quale ha scritto in proposito una memoria molto accurata, ma per giungere a una definizione di G. considerato sottol’aspetto politico, la quale è in aperto contrasto coi documenti più sicuri da noi posseduti. Anche G., secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino! Della sua dottrina liberale e del suo atteggiamento risoluto in favore delle pubbliche libertà e contro 1 intervento austriaco non è possibile che dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’ suoi Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P. G., notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti della li. Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli. Guardione, Due opuscoli di G., prec. dallo studio critico Dei concetti civili e politici apportati da P. G. nella rivoluzione, Messina, D'Amico; a proposito di questo opuscolo, Gentile nella Critica, V; N. Arnone, P. G. Giacobino, negli Studi dedicati a Torraca nell’anniv. della sua laurea, Napoli, Perrella. forma di governo, e i due opuscoli Della libertà di coscienza e Lo sguardo d' Europa sul Regno di Napoli, ristampati dal Guardione. Ma da quel liberalismo al giacobinismo c’è un bel tratto. Né i documenti dell’Amone riscoperti 1 nell'Archivio provinciale di Catanzaro bastano a superarlo. Da questi documenti apprendiamo che G. chiede un passaporto per recarsi a Palermo « per attendere ad alcuni di lui affari litigiosi. Il Re faceva rispondere dal Segretario di grazia e giustizia al Preside di Catanzaro, che a G. si sarebbe accordato il passaporto, « quando non vi sia niente contro il medesimo. Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose: Quantunque apparentemente il suddetto sembri un giovane morigeratissimo, e studioso anche di materie teologiche, pure non gode buona fama, perché si pre¬ tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma, e ne’ pochi giorni della falsa assunta Repubblica fu impiegato a far traduzioni, per cui stiede lungo tempo trattenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si andiede in Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi meglio sarebbe andarvi il padre don Vincenzo [il padre di G.], mentre non debbo io, né V. S. 111 . mettersi deve in compromesso nelle circostanze nelle quali siamo. Tropea aveva avuto anch’essa il suo albero della libertà e un governo repubblicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere Gli è sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano Capasso, alla Riv. Stor. del Risorg. ital. [Vedi ora, per un'altra denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi, F. Scandone, Il Giacobinismo in Sicilia, nell'A refi. Stor, sic., G. GIACOBINO del Ruffo la plebaglia aveva abbattuto albero e governo, e uh comitato di cittadini era andato incontro al Ruffo a Mileto, a prestargli ubbidienza. Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece tra¬ sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna condanna. Aveva, secondo il vescovo sanfedista ', tradotto qualche documento francese, forse qualche proclama o decreto dello Championnet; ma la stessa voce raccolta dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega molto facilmente perché G., invitato dai giacobini della piccola città, dove forse era solo a conoscere il fran¬ cese (e non lo conosceva né pur lui molto) e quando costoro tenevano il campo, non potesse esimersene, pur non avendo un grande entusiasmo per la causa repubblicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione non patì nessuna noia; e se il tenente colonnello don Giovanni de Mendoza, governatore di Tropea, pur dopo diligenti investigazioni, non riusciva a trovare nulla a carico di lui. « Mi sono informato, scriveva costui il 19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone più probe e timorate di Dio di questa ... città; però ho chiamato il decano don Saverio Polito, il teologo Grillo, il penitenziere don Vinc. M. Mazzitelli, il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il parroco di San Demetrio di questa città, e dalle di costoro estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conservano, rilevai che G. è onesto, probo, e di morigerati costumi; che frequenta spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa vedere attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada, se non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso, 1 Su lui vedi la stessa memoria dell'ARNONE Vedi la mia pref. al voi. del Toraldo, Saggio sulla filos. di G., Napoli. ”4 e da bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto cercai sì dalli stessi testimoni, che da altri sapere l’oggetto per cui si volesse portare in detta città di Palermo, non fu possibile sapersi la cagione, perché da ognuno s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre don Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui suole spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale suo figlio: ma non posso fame a meno farle presente esser stato, per quanto pubblicamente si dice, il detto G. uno degli ostaggi di questa città chiamati dal sig. Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni e poi è liberato senza veruna pena. Il Preside di Catanzaro si attenne al Consiglio del prudente vescovo, e propone al Segretario di Stato che il passaporto non è accordato. E non è accordato. Ma lo chiede poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo, che l’ha. Segno che a Palermo hanno realmente bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per loro interessi di famiglia. Pei quali forse egualmente G., reduce da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza, di dov’è la moglie, Barbara d’Aquino. Non credo pertanto che questi documenti catanzaresi bastino a farci annoverare il filosofo calabrese nella numerosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo nei Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio della libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli ha parole forti contro coloro che dimenticano lo spirito del Vangelo e non hanno ritegno di tramutare la religione nell’ istrumento del disordine, della persecuzione e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti fatti del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e del popolo di questo bel regno avesse conosciuto il vero spirito del cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale comandare delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e d’ogni sorta di iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore tanti preti e frati alla testa delle masnade degli uomini i più infami e più scellerati » Ma quando G. scrive di queste parole che pur dimostrano bensì il liberale, ma non il giacobino a Napoli erano tornati i francesi con Bonaparte, il cui governo, J, gli aveva conferito 1’ ufficio di controllore delle contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo Murat. Tutt’altro che giacobino è apparso a me qualche anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un giornale di Tropea 3 da Toraldo 4. Il sonetto infatti dice: Della Patria il dolore, il lutto, il pianto. La rea sorte fatai veder non voglio. Di Marte, di Bellona il fier orgoglio. L’augusto trono di Minerva infranto, Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fier cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio. Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi miei, non piangete, Grido nel mio furore; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di Lete. Ma già l’Angiol divin, che accanto giace. Di man mi toglie il ferro, e grid’allora: Verrà Fernando: tornerà la pace! Il primo editore fa precedere al sonetto le seguenti notizie: « Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede- 1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in. * ArnoneL’ Eco di Tropea. 4 E da me ristampato con qualche correzione di punteggiatura, per renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi a G., Napoli (2 a ed. in 2 voli., col titolo di Storia d. filos. ital. Da Genovesi a G., Milano; ora in Opere complete di Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, Firenze, Sansoni). simo fu letto alla nostra Accademia degli Affatigati (assorta allora ad altissima fama), alla quale G. appartene col distintivo il Furioso, e apparisce dedicato a Ferdinando, come chiusura di un discorso, letto all’Accademia anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla parte opposta ove è scritto il sonetto, si legge: Ferdinando Augusto, principe magnanimo, nell’ impetuoso turbine che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. — Ferdinando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato. Firmato: G. fra gl’Affatigati il Furioso. Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico. Riproducendo il curioso documento, mi parve che discorso e sonetto si potessero riferire alla reazione; e, dietro a me, anche Cesare ritenne che il sonetto alludesse alla restaurazione di quell’anno. Ma non tutto a quella prima impressione mi restava chiaro degli accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppostemi dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso vanno spostati di sedici anni. Prescindendo », dice Arnone che non ha potuto vedere il giornale di Tropea, al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui integralmente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo dalla loro autenticità maggiore o minore (?), il sonetto e il brano del discorso accademico non possono mai riferirsi alla reazione. Infatti, nel sonetto stesso si J R. De Cesare, Taranto e mons. Capecelatro, Martina Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro non fu solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se egli non anda a Napoli, non vi anda neppure Delfico, chiamato a far parte della Giunta del Governo, mentre G., che pure ha principii liberali, recitava, all'Accademia degli Affaticati di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando : torna la pace . trova la designazione del tempo a cui si riferisce ; giacché, col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio, l’autore, stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve assolutamente alludere alla prossima caduta del trono di Murat 1 . Io guardo bensì al settimo verso del sonetto, su cui giustamente ha fermato la sua attenzione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una determinazione cronologica non trascurabile. E poiché era noto che G. è a studiare a Napoli, pensai che per soglio dei Franchi si dovesse in¬ tendere per l«appunto il trono di Francia di Luigi XVI, che cadde quando G. dimora al bel Sebeto accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca rievocazione delle ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe stato assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti che la Rivoluzione francese preparava alla sua patria. Non tutto, di certo, restava chiaro, come non tutto precisamente diventa chiaro se s’intende, come propone ora l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il trono di Murat. Ma vien colmato il grande intervallo che rimaneva, secondo la mia ipotesi quando avvenne il ritorno di Ferdinando IV a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato. Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio alluda alla prossima caduta del trono di re Gioacchino, e ne argomento in conseguenza che tra la fine di marzo 1815, quando Murat dichiara la guerra all’Austria, e labattaglia di TolentinoG. Dove essere a Napoli non capisco perché l'Arnone soggiunga : A me parrebbe che il discorso accademico potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando I Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto il8 l’indipendenza del Regno di Napoli era minacciata dall’intervento austriaco. Quando G. recita il suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non era più lontano, ma già tornato a Napoli (Ferdinando viene, Napoli è salvo); e l’accademia celebra la ristaurazione. È vero che G. trepida per l’indipendenza nazionale, a causa dell’ intervento austriaco a Napoli; ma gli austriaci sono chiamati da Ferdinando, che non puo perciò essere cantato come il salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat alla legittimità, a cui s’appellavano gli ambasciatori del Congresso di Vienna e tutti i principi delle vecchie dinastie, opponeva in Napoli il principio dell’ indipendenza; e a G., già murattiano, i disastri dell’esercito napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno dovettero realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi- pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando, a riavere, dopo il trattato di Casalanza, dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini del suo Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che G., come quanti altri avevano servito il governo francese, dovette, prima di quel trattato, nutrire gravissime e angosciose per la propria sorte, o almeno per l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spiegarci la disperazione da cui nel sonetto dice d’essere stato preso per l’imminente crollo di quel governo. E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di Casalanza, in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di tutti 1 Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando che più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto dei soggetti e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto dell’amore dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i migliori in¬ gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi avvenimenti, acqui¬ stata da noi piena indipendenza politica, era suo debito riordinare il regno senza o soggezione, o somiglianza,, o gratitudine ad altro stato, così adombrando le tollerate catene per nove anni»: P. Colletta, Storia del Reame di Napoli. i funzionari del passato regime, era pel controllore delle contribuzioni dirette nella Provincia di Calabria ulteriore l’espressione d'un sentimento sincero l 2 . Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale e patriota, se non nel senso del 1799, in quello più antico della tradizione paesana di Napoli e della posteriore storia italiana. Del suo patriottismo e liberalismo son documento bastevole gli opuscoli politici che G. scrive in cui ripiglia le idee dei Pensieri filosofici, rimasti inediti, e scendeva in campo a difesa della libertà e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la lettura di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti e qualche anno fa ristampati da Guardione, induce piuttosto a ricollegare G. alla tradizione di Giannone, del Tanucci, di Vico e di Filangieri, anzi che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del giacobinismo rivoluzionario. Nei Pensieri filosofici (di cui si conoscono soltanto alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli ha già II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma all’anno seguente. Perché gl’affaticati in cui esso è letto come ci è fatto sapere da un suo storico, riunivasi raramente; anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nella Chiesa dei Liguorini, canta del Santo fondatore dell’Ordine » (forse il 2 agosto quando ricorre la festa del Liguori): N. Scrugli, Discorso storico intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle Notizie archeologiche e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano. Ma le notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime. Infatti, secondo lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata nella reazione, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove vi fu certamente recitato il discorso di G. che qui appresso si pubblica. Opuscoli filosofici della libertà individuale: Della libertà di coscienza e delle conseguenze che ne derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, Messina, presso Antonino D’Amico Arena; Lo sguardo d'Europa sul Regno di Napoli, di G. di Tropea, in Messina, presso Papparlardo. Entrambi gli opuscoli sono stati ristampati dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui servito. aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri aveva propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare », aveva detto, i dritti del pubblico potere, bisogna partire dal considerare lo stato di natura come anteriore allo stato politico, se non in ordine di tempo, almeno in ordine di ragione. Tutti gli uomini sono per natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli non offenda gli altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque altro dritto per rapporto ad un altro che di non farsi molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or questo dritto che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil società è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vindice dei dritti di ciascun cittadino contro gli attentati degli altri ». Movendo da questo principio, a differenza del Rousseau, G. separa nettamente il dominio giuridico-politico da quello della religione. Riconosce che la potestà politica dee curare che i cittadini sieno virtuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione del loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che promuovono la virtù ed arrestare i progressi del vizio; e però può parere che abbia bisogno del soccorso della religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù. Le leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni determinate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative al cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo. Ma se le leggi arrestano il braccio e la religione regola il cuore, dico io, dunque, che la depravazione del cuore non dee punirsi che dalla sola religione, vai quanto dire, dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative che al cittadino, e la religione s’impadronisce dell’uomo, le leggi devono dunque contentarsi della sola virtù civile e lasciare alla religione le virtù dell’uomo. Egli bisogna distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno, che tutto vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi a Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole che si obbedisca alle potestà costituite; ma si può esser giusto civilmente, senza esserlo, naturalmente, secondo la religione. Le opinioni religiose pertanto non cadono sotto la sanzione delle leggi, e l’irreligiosità non può esser punita Ogni maniera di persecuzione del resto è contraria allo spirito del Cristianesimo. Intorno al quale G. scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite dalla sua penna. Questa religione divina, egli dice, annuncia agli uomini una morale che perfeziona la natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo spirito di fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascoltati, dice G. C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle vostre scarpe e partite. I primi banditori del Vangelo non impiegarono altre armi per la sua propagazione, che la forza della parola. La religione deve avere la sua sede nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non abbraccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli riceve, e trattandosi di religione, a proporzione della grazia celeste che il Padre de’ lumi gli dispensa. Le prigioni, le forche, le mannaie, i roghi non cambiano certamente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia d'esser tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tormenti più crudeli. L’uomo abusa di tutto. La ministra della pace e della pubblica tranquillità divenne col progresso del tempo in mano del superstizioso e del fanatico, l’istrumento del disordine, della persecuzione e della strage. Questo mutamento di condotta, non della religione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’ suoi ministri, fu sorgente d’incredulità. Nell’opuscolo sulla Libertà di coscienza la stessa questione è ripresa e approfondita sì dal rispetto - Gentile, Albori. I. speculativo e sì da quello politico. Vi ritroviamo quella morale kantiana, che è professata negli Elementi, nelle Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà. La regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme alla legge»: legge puramente formale anche per G. Il quale infatti soggiunge. Si può agir male seguendo una coscienza erronea, ma si agirà male ancora facendo il bene in contraddizione dei dettami di una coscienza erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dottrine liberali di FILANGIERI (si veda), fonda la sua dimostrazione del diritto del matrimonio civile abolito nel Regno dal codice: il quale aveva stabilito non potersi celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla Chiesa, secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento. Già nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà del pensiero è il primo diritto inalienabile dell’uomo; e che tale libertà è illimitata. Ora, se questa libertà è illimitata, se la moralità consiste nella conformità della coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla legge della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle azioni, le quali debbono essere necessariamente in armonia col pensiero, non possono giammai essere forzate; ma debbono rimanere nel campo libero del privato cittadino. Potrà intervenire il diritto positivo nel culto religioso esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino ad un culto contrario alla propria credenza, bensì per permettere un dato culto e impedire quindi che venga offeso e turbato da chi non vi si conformi ». Ma deve 10 Stato permettere tutti i culti? Tra il Montesquieu contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei culti, G. dichiara di non voler esaminare di proposito 1’importante questione », poiché egli si occupa piuttosto della libertà individuale, e però della sola libertà di coscienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo sociale che abbia abbracciato un culto diverso da quello di altri gruppi, ed esce quindi dalla sfera del diritto indi¬ viduale. Tuttavia ritiene conveniente che si possa per ragioni politiche non permettere l’esercizio pubblico di un culto diverso da quello stabilito. Quanto al matrimonio, dato il suo interesse pubblico, esso rientra nella sfera di attività del potere politico: che ha il diritto di far leggi positive sul matrimonio, le quali, lasciando illeso il diritto naturale, determinino ciò che la natura non determina, e che ha influenza su la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere le condizioni per la validità del matrimonio come contratto civile, e lasciare alla libertà del cittadino, se vuole al contratto unire la forma religiosa, che T innalza a sacramento. Altrimenti verrebbe ad esser lesa la libertà di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che G. chiama legge di natura o diritto naturale. Tale principio a Napoli è riconosciuto dal codice francese; e certo quella legislazione, tranne il mormorio di qualche fanatico, che osa chiamarsi teologo, non produsse fra noi il menomo disordine. Ma, tornato Ferdinando, i superstiziosi spaventarono la sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro dominio ecclesiastico. E si fa dippiù, dice G.: il Concordato diede alla Chiesa il potere giudiziario sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in conformità del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul matrimonio ». G., nelle cui parole è agevole sentire l'eco della tradizione giannoniana, ora che Napoli sembra risorta a più libera tuta per l’ottenuta costituzione, parla in nome della filosofia («la filosofia non dee oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi) ; e chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato contratto civile; e protesta contro la censura preventiva. stabilita nella Costituzione spagnuola, per i libri che trattino di religione. Il secondo opuscolo, assai più importante per la conoscenza delle sue idee politiche, quantunque rechi anch’esso sul frontespizio la data del 1820, non par che possa essere anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto che « un’armata austriaca si fa vedere in volto minaccioso nella bella Italia » 1 2; con accenno evidente, se non erro, all’ordine del giorno del barone di Frimont, di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0 il 20 di quel mese In quei giorni un altro filosofo napoletano, Borrelli, compone un inno di guerra, che, messo in musica dal Rossini, fu cantato al San Carlo la sera del 21 febbraio. La seconda strofa diceva: O straniero, che guerra ci porti, Chi ti offese ? quell’ ira perché? Va, rispetta la terra de' forti.... Ma sprezzante 1’iniquo c’ invade, Ha di sangue nell’occhio il desir. Cittadini, tocchiamo le spade: Qui si giuri svenarlo o morir! G. dal fondo delle Calabrie rivolge all’Europa (ma fin dove sarà giunto ?) il suo opuscoletto, enfatico nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per scongiurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi che ricordano l’alta intelligenza storica di Vincenzo Cuoco, la storia di Napoli, a conferma del principio, che oppone alle prepotenti pretese del- [Rist. cit., Vedi De Nicola, Diario napoletano in calce all'Arch. slor. napol., 1905, fase. 3). l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da sé, e interromperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento non è durevole. Tutto, egli dice, « cangia incessantemente nel mondo ; ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬ rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬ getti di riforme ». I grandi avvenimenti, che pare mutino d’un tratto miracolosamente lo stato di un popolo, in realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al quale l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda, onde hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche delle nazioni ». Come dai patiboli del '99 si potè giungere alla libertà del '20 ? G. studia questo problema. La rivoluzione, per lui, è la conseguenza degl’errori commessi dal governo borbonico (G. parla sempre di Ministero); quando, dopo aver favorito in tutti i modi le tendenze liberali promosse e alimentate dalla filosofìa, a un tratto, spaventato dalla Rivoluzione francese, che intanto aveva accelerato il movimento degli animi verso la ri-generazione politica, esso volle violentemente arrestarsi, e tornare indietro, e dichiarò guerra al liberalismo, e si propose di ripiombare la nazione nella barbarie. La venuta dei francesi fu la piccola causa che fece rovinare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga pezza lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giacobini, che s’appigliarono alla massima della perfetta imitazione dei francesi, senza chiedersi se Napoli fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia francese, come 1’Issione della favola, invece di Giunone, abbracciarono la nuvola. Giudizio che non è certo quello di un giacobino. Successe la reazione; e il governo, anzi che mostrarsi ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco, feroce, dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio d’un cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia sulle cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco Bonaparte e Gioacchino, che non sono più i francesi, ma i correttori e moderatori dispotici della libertà, i quali compiono l’abolizione del feudalismo nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza civile della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già matura per la Costituzione: la cui richiesta per altro è affrettata dagli errori che toma sempre a commettere il Ministero. Fra i quali G. non manca di ricordare il concordato ignominioso, che annienta tutte le riforme dall’epoca dell’augusto genitore di Ferdinando fino al suo ritorno fra noi. Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820 e della costituzione che Napoli s’era con essa conquistata, il filosofo protesta contro l’intervento straniero, e minacciosamente esclama: Un’ invasione è ella facile nelle attuali circostanze della nostra nazione? Il '99, il 1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820? Si è mai veduto in altri tempi, allorché il nemico ci minacciava, l’agricoltore, l’artista, il prete, il monaco stesso domandare l’iniziazione nelle società patriottiche per emettere il giuramento di vincere, o di morire per la difesa della costituzione e del trono? Siamo così abituati a rappresentarci G., attraverso i suoi saggi meramente speculativi, dove non spunta mai favilla di passione umana, o un accenno storico, o un’allusione personale, e attraverso le memorie di quel suo insegnamento universitario, tutto chiuso, nel periodo di puro raccoglimento spirituale per Napoli, nella speculazione sopramondana.: che questa specie di G. inedito, agitato dalle preoccupazioni politiche e storiche del mondo in cui visse, ci riesce di uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla figura del nostro vecchio e caro scrittore; che viene ad occupare anche lui il suo posto non pur nella storia del liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti pensatori improntati della più schietta italianità, i quali, rifacendosi direttamente o indirettamente da VICO (si veda), si opposero all’ astrattismo antistorico e rivoluzionario di Francia. Lungi, dunque, dall'apparirci un giacobino, G., pel suo modo d’intendere e giudicare gli avvenimenti contemporanei, ci si presenta come un liberale, penetrato del senso della realtà e razionalità della storia. Né questa figura viene menomamente turbata dal nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste note: un altro suo discorso accademico, letto a Tropea (nella solita Accademia degli Affaticati) in lode questa volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al trono Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può suscitare né meraviglia, né rammarico in nessuno che ricordi con quali lieti auspicii salisse al trono il nipote di quel Ferdinando, a cui iG. aveva inneggiato nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso Set¬ tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la nazione a novelle speranze ». E molto meglio nelle Ricordanze: «Quando re Ferdinando II saliva sul trono delle Sicilie, cominciò bene, e a molti parve un buon principe. Ogni giovane a venti armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella. In un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le piaghe che da più anni affliggevano il Regno, ristorare la giustizia, riordinare le finanze, promuovere le industrie ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni dei suoi amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti prigionieri, le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto una brutta orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il regno di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle vivere con certa semplicità e parsimonia, che il popolo chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché dava udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta veduti. Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni, esso Settembrini tra giovani suoi amici e maggiori d’età: anche Nerone cominciò col quam mallem nescire scribere. L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi, e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo. E gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del suo insaziabile dispotismo » — scrive Nisco nell’accingersi alla storia del suo regno, e che ne porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con civile orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali sono andati confusi con quelli che seguirono, massime dopo il quarantotto, quando la natura borbonica, ridestandosi ampiamente in lui, lo menò a divenire l’avver¬ sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ». E ricordando la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo re, raccontava : Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo della sperata redenzione, sventuratamente poi tradita, vennero fuori giovani ed uomini egregi, fra i quali Filioli, i Baldacchini, i Dalbono, Ruffo e quella sublime donna, che mai non si contaminò di servo encomio, Guacci. E quando 1 Ricord., c. V., rimosso ogni ostacolo derivante da colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi, abilitò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed i militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai detenuti in carcere, espatriati, esiliati e condannati napoletani e siciliani alle galere e all’ergastolo di ritornare nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il chiamò in un suo inno, Padre a tutti, che il gaudio Del perdonar provò; e dall’animo purissimo della giovane Guacci si elevò quella nobilissima esclamazione Oh ! lieto il sire, Che nell’amor dei popoli riposa Al coro delle lodi si unì adunque anche il filosofo di Tropea, tuttavia controllore delle contribuzioni, col seguente discorso; in cui l’adulazione del suddito par s’indirizzi all’ idea dell’ottimo sovrano piuttosto che alla persona del giovine monarca ; onde si direbbe che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi che del panegirico. Alcuni accenni di dottrine filosofiche, che vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti del bello e del sublime, dimostrano il già sessantenne filosofo incapace di distrarre la mente dalle sue astratte meditazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in cui gh accadde di volgere attorno uno sguardo, per esprimere il suo pensiero su fatti e personaggi contemporanei. . 1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Napoli, Morano. Pel felice avvenimento al Trono delle Due Sicilie di FERDINANDO II Discorso Accademico di G. Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con la rapidità del fulmine l’arrugginita cetra riprender ti vedo. Il tuo vivo ardore, di scioglier la lingua al canto, espresso nel tuo volto io leggo. Sì, dell’estro che ti accende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe ascende sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due Sicilie, con vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si vede. Un grido di letizia dappertutto rimbomba. Ma non è la gioia il solo effetto, che la comparsa del giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’nostri cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di devozione verso la sacra persona di lui, si è immantinente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro. Ferdinando II, l’augusto discendente di tanti Re, non solamente quel sentimento fa nascere, che, in una ridente primavera, l’aspetto d’una deliziosa campagna, negli animi sensibili alle bellezze della natura e dell’arte, suole produrre; ma quel sentimento eziandio produsse, che in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del cielo, in una notte serena, l'anima colpisce dell’osservatore attento a contemplar l’universo. Ferdinando II è dunque un oggetto non solamente bello, ma sublime. Come bello, la sua G. GIACOBINO ? I3I comparsa sul Trono ha inondato di letizia il cuore de’ suoi popoli; come sublime, di ammirazione e di devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono diverse affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe circostanze fa pianger di tenerezza. L’altro l’ammirazione e la devozione produce. Nondimeno, quando il sublime si riguarda come una causa, che su la nostra felicità influisce, all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i soldati di un’armata, quando sanno che il loro generale è uno Scipione, un Alessandro, un Camillo ; e tale appunto è quello che in noi produce la vista di Ferdinando II sul trono delle Due Sicilie. Se il bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza e della poesia, se senza un oggetto, che sia defl’una e dell’altra qualità fornito, il genio dell’oratore e l’estro del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che è l’oggetto di questa letteraria adunanza, è dell’una e dell’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Consesso illustre della città di Alcide, di estro animato ti veggo, per fare oggetto de’ tuoi canti l’augusto principe, che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione, cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo oratore son fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro la dipintura dell’alto personaggio, che verso di lui attira i nostri sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga, che dalla velocità incalcolabile del pensiero aggruppati insieme, i sentimenti di gioia, di ammirazione e di devozione ne’ nostri cuori producono. Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede la candidezza deH’anima sua, ed una certa misteriosa espressione del buon senso, del buon umore, del brio, 1 Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole. Vedi Nicola Scrugli, Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp. 15-17. della benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue belle maniere, la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma non è questo il punto di veduta, sotto di cui io mi propongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha colpiti di ammirazione e di devozione, ed a questi sentimenti è successa la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto sublime. Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza, grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad ammirare in lui ? Sarà forse quella degli Alessandri, e de’ Cesari ? Quella vera grandezza, che in questi gravi capitani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì nel nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediatamente ci colpisce, e che più in lui risplende. Una grandezza guerriera può trovarsi negli uomini i più nefandi. Siila non era insieme un gran capitano, ed mi mostro di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché conosce i doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso. Parte Prima Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un pensiere che, nella sua espressione la più semplice, comprende tutti i pensieri particolari, che vi si rapportano, è un pensiere grande; e l’anima, che lo sente in sé, sperimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento della grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui che possiede una verità generale, sente che ha in suo potere tutte le verità particolari che vi son comprese. Egli è simile a colui che, posto su la cima di un alto monte, comprende, con un semplice sguardo, un vasto e variato orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie dicendo: Allora che poteva servirsi della vittoria, amò meglio goderne. Una consimil grandezza si ravvisa nell’ idea, che egli ci dà di tutta la guerra di Macedonia, quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno spirito sublime racchiude le verità particolari in una che sia la più generale, e per conseguenza la più semplice. Ferdinando II, asceso sul trono de’ suoi antenati, vede, con un colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re: egli li racchiude in un principio generale. Il suo pensiere è grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza. La prima parte del mio discorso accademico è terminata. È terminata? Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio breve parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse sperimentato un sentimento dispiacevole, simile a quello che sperimentar suole uno spettatore di un’azione teatrale, allora che una causa improvvisa lo chiama in altro luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in te questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità incalcolabile del sentimento mi ha fatto attraversare, in un baleno, un vasto spazio. Io non ho potuto arrestare la sua impressione. Lo scotimento prodotto nell'anima da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entusiasmo piacevolissimo finché dura, che le fa comprendere, con uno sguardo, una moltitudine di oggetti, ma da cui l’anima tosto ricade nella sua ordinaria situazione. Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili, lo spazio trascorso. Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero universo, diede all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui. L’uomo è dalla sua natura determinato allo stato della civil società. In questo stato solamente può egli perfezionar se stesso, ed adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se stesso le tendenze, i mezzi e la legge di vivere nella civil società. La società civile non può sussistere senza un essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo. Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici, il sovrano è il Re. Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su la terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque della sovranità, come ordinata a quella della civil società, è voluta da Dio per la felicità degli uomini. Queste semplici riflessioni ci menano infallibilmente alla conoscenza del principio generale della morale de’ Re. La destinazione dei Re su la terra è di rendere, per quanto è loro possibile, felici i loro sudditi. Ecco il principio luminoso e sublime, che tutti racchiude i regi doveri. Ma non udiamo noi forse questa sublime e consolante filosofìa annunciarsi a’ popoli delle Due Sicilie, nel primo momento del suo avvenimento al trono, dall’augusto Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in quell’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’ammirazione e la devozione per la sua sacra persona, e che di vera gioia gl' inondò. Il giorno otto di novembre dello scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul trono, ed in quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi : Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬ spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel- l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio, nell’ investirci della sua autorità, non intende che resti inutile nelle nostre mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo. Vuole che il nostro Regno sia un Regno di giustizia, di vigilanza, e di saviezza, e che adempiamo verso i nostri sudditi alle cure paterne della sua Provvidenza. 1 II proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de' decreti reali del Regno delle Due Sicilie, sem. II, Napoli, Stamp. Reale. A voi, gran Dio, che avete nella vostra mano il cuore de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà sempre santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore del vostro giusto sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili della vostra misericordia, voi ci avete inviato a reggere i nostri destini il giovane eroe, che ci sorprende colla sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee punto abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che è suo sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia, e che egli sia il felice istrumento delle cure paterne della vostra provvidenza su di noi. Ciò è lo stesso che riconoscere esser egli destinato da voi a render felici i suoi sudditi. Ciò è lo stesso che proclamare il principio generale della morale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’ suoi popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto, che ha appena compiuto il quarto lustro della sua età. Egli è dunque dotato di un’anima grande ; ed è con ragione, che qual Grande è salutato da’ popoli delle Due Sicilie. Un’anima grande ha solamente potuto concepire il pensiero sublime, che tutta racchiude la morale de’Re; ed un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta dallo splendore del Trono, specialmente in un’età giovanile, concentrar tutta se stessa nell’espressione de’ propri doveri, ed esserne profondamente penetrata. Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non solamente conosce la sua augusta destinazione nel governo de’ suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che debbono fargli conseguire il gran fine. Egli scovre nel principio le illazioni. Egli vede, in primo luogo, che gli uomini non possono esser febei, senza esser virtuosi: egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù e la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla virtù, come la virtù conduce alla Rebgione. Egli comprende che la vera religione viene in soccorso della pubblica autorità, e per estendere la sanzione delle leggi, e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e per evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere ad impedire; ed egli conclude, che dee proteggere la divina Religione, che c’ illumina. I grandi, dice il celebre Massillon, « non son grandi se non perché eglino sono le immagini della gloria del Signore, ed i depositari della sua potenza. Eglino dunque debbono sostenere gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano la maestà, e rispettare la Religione, che sola rende rispettabili loro stessi. Dalla Religione volge il nostro gran Re lo sguardo alla giustizia. Egli vede che la felicità de’ cittadini richiede una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce che questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario. Egli è convinto che il Re nell' istituzione di questo potere, e nell’elezione de’ membri, che debbono comporlo, deve porre la maggiore attenzione che gli sia possibile. Il cittadino dee, sotto la protezione della legge, e del pubblico potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i suoi diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente legislatore. Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere uguali agli occhi della legge. I tribunali debbono essere un santuario, che la corruzione, la prepotenza, T intrigo, non debbono giammai profanare. Se i giudici debbono essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non debbono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è una funzione estranea al loro potere. L’impero della legge dee essere universale. Noi vogliamo dice il Proclama che i nostri tribunali siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' intrighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia. I cittadini non possono essere felici, se lo Stato non è ricco. Uno Stato, dice un celebre politico, non si può dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché ogni cittadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬ damente supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Un lavoro assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. I dazj eccessivi sono contrarj alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono essere eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato presenta un voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II ci si mostra allo scoverto. Egli non dirige il suo sguardo su le pompe de’ Re, su i palagi de’ Grandi, ma lo dirige su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’ infelici. Al suo penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo doloroso della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo. La sua grande anima ne è profondamente penetrata, ma non abbattuta. Le grandi passioni innalzano l’anima, e scovrire le fanno degli oggetti incogniti agli uomini ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento stesso il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali finanze, è tosto nella gran mente del Principe magnammo già delineata. La felicità de’ cittadini richiede ancora, che lo Stato sia temuto e rispettato al di fuori. Ad un si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata, valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Ferdinando II si fece già ammirar da capitano, prima di farsi ammirare da Re. Augusta filosofia! Se io a te consagrai sin da primi anni la mia vita, se non ho avuto altro scopo ne miei scritti, che di annunciare la verità al genere umano, se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non si concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvilisca a’ tuoi sguardi. No, l’adulazione non ha profanato il mio linguaggio. Io non ho prestato al mio Eroe i miei 10 - Gentile, Albori. I. pensieri, per formarmi un prototipo di mia immagi¬ nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo proclama gli esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al suo cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II è grande perché egli conosce i doveri di un Re. Parte Seconda Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo, in cui 1’Eroe di questo discorso regna su di noi, non è ancora di tre mesi; ed egli ha tali e tante cose operato, che con ragione i sudditi suoi, nella sincerità del loro cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per Grande. Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ personaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono de’ secoli. I loro passi sono di una rapidità incalcolabile, ed agli occhi degli uomini ordinar] sembrano de’ prodigi- Eglino, quando anche la loro vita fosse molto corta, formano l’epoche della storia; perché producono quei memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’popoli, e fanno a questi percorrere un cammino diverso. I loro nomi resistono al furore del tempo, che tutto distrugge. Ferdinando II ascende al trono de’suoi antenati, nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe stato sedotto dallo splendore del Trono: egli avrebbe sdegnato le penose cure del governo di un Regno; egli sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed attento gli rivolge su i mah del suo popolo. Egli non vuol assidersi in mezzo de’ grandi pria di piangere cogl’ infelici. Una serie d’infausti avvenimenti produce torrenti di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli abitatori di queste belle contrade. Un muro di separazione s’innalza fra di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli della parte sinistra son privi della vita civile, nell’atto che la necessità ne chiama degli altri, che sono insufficienti, alle pubbliche cariche. Il potere giudiziario perde tanti ragguardevoli magistrati. L’amministrazione tanti prudenti e savj amministratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio, chi riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de buoni e virtuosi cittadini di questo bel Regno: la vostra voce finalmente dal Cielo si è udita. Popoli delle Due Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri cuori si aprano alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul Trono: egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a nuova vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de sudditi suoi. Egli sente, nella sua clemenza, che, essendo l’immagine di Dio e del Redentore divino su la Terra, dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol prodigo. Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla cessare. Egli conosce, che i Re debbano regnare su i cuori de’ loro sudditi. Il memorando decreto del 18 dicembre del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è rovesciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ». Tacete, animucce infelici, in cui la calunnia ha posto la sua sede, tacete. Che cosa mai dir vorrete ? Che il Reai Decreto or ora citato è una finzione ? Che esso non avrà alcuna esecuzione? No, l’anima eroica di Ferdinando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del dì 11 del corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi- [A questo punto d'altra mano, in margine: «La tempesta politica fa traviare dal retto cammino anche i migliori talenti. L’atto sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in favore dei condannati come rei di Stato, e di coloro che per ragioni politiche si trovavano esclusi dagli impieghi civili e militari. 3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106, emanati con quella data da Ferdinando II, col primo dei quali si cercava di curare le piaghe ALBORI DELLA NUOVA ITALIA nando II regna senza distinzione, su i cuori di tutti i sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli, perché vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre. DalTuna all’altra estremità delle Due Sicilie una sola voce si ascolta : Viva l’Eroe! Viva Ferdinando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti a versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue. La virtù non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe, in buona filosofìa, un distruggerla il riguardarla qual mezzo per la felicità. Ma è essa una verità incontrastabile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso infelice. Quale spettacolo più commovente per l’anima di Ferdinando II di quello che gli presentò la capitale ne' giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione, che certamente gli pervenne, della letizia universale innalzata sino al più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere di rendere milioni di uomini felici, e di vedersi da essi adorato ne ha esso forse un eguale su la terra ? Il Principe magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti soldati, quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo Trono immobile, la sua gloria immortale. La grand’opera della rassicurazione delle reali finanze la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro Eroe. La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno profonde che erano nelle finanze del Regno, sopra tutto dei domimi continentali, per le conseguenze fatali della straniera usurpazione: gli avvenimenti disgraziati del 1820#; si esponeva con leale franchezza il deficit della tesoreria generale di Napoli, che ammonta a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale si annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei ministeri, oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e dell'assegnamento della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi; l’imposizione di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati mensili; e in compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del popolo » si diminuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro decreto veniva prescritta « una generale economia nelle spese a carico dei comuni di qua del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più gravosi dazi comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20. G. GIACOBINO? I4I del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un carattere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea di grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi, e l’impero delle idee associate sul cuore umano è molto esteso. Quindi la virtù, quando si scorge nelle azioni de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno adorni, rende la virtù rispettabile su la terra. Guidato da questo sublime pensiere, Ferdinando II incomincia da sé la nobile impresa. Que’ insti spazj di terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto restituiti all’agricoltura. Questa misura diminuisce le spese relative alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza. Un rilascio è conceduto dalla borsa privata del Principe: altro ne è fatto dall’assegnamento della Casa reale. La classe degl’ impiegati è chiamata ad imitar l’esempio del Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto del di 11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien tosto a colpirci di ammirazione e di gioja. Se tali sono le imprese di Ferdinando II in men di tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un lungo regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra ed immutabile. Il passato ci autorizza a sperare il futuro. Sì, il cittadino vivrà tranquillo sotto 1 * impero della legge. Il regno di Astrea rinascerà su le nostre contrade. Ed io non posso trattenermi di finire col poeta latino: lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, lavi nova progenies caelo demìititur alto. Con la pubblicazione del suo proclama il Giornale ufficiale annunziava le sue disposizioni per l’abolizione delle cacce »: N. Nisco, Gl’ultimi trentasei anni del Reame di Napoli. G. è stato detto a ragione gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta ancora un degno illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo soltanto quanto è neces sario al disegno di questo lavoro. Nasce a Tropea, in Calabria dal barone Vincenzo e da Lucrezia G., una delle più antiche famiglie patrizie di quella cittaduzza. Fattii primi studi di latino, è mandato a scuola di filosofia e matematica d’un abile maestro, tal Ruffa, che gli pone in mano la Logica di GENOVESI (si veda) e la Geometria di Euclide; e l'innamora talmente di questi autori e di queste discipline, che G., anche innanzi negli anni, non rivede quei saggi senza una certa commozione. Ma non si ferma a GENOVESI (si veda); perchè alcuni suoi compagni l'induceno a leggere la Teodicea del grande avversario di Bayle. E G. ne è invogliato a studiare tutto il sistema nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla teologia, poichè nella scuola si è introdotto, scrive egli stesso, un certo misticismo. Studi teologici e metafisici continua a coltivare a Napoli, dove si reca, da Palermo, ove il padre qualche anno prima aveva condotto la famiglia. Frequenta le lezioni di teologia di Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di Baffi; entrambi vittime gloríose. Studia la Bibbia, la storia antica, l'ecclesiastica, la patristica, Vedi il brano autobiografico pubblicato da PIETROPAOLO nella Rivista di filosofia scientifica di Morselli, &., e ripubblicato da TORALDO nel suo Saggio sulla filos. di G. e le sue relazioni col kantismo, Napoli, Morano ( dove per una gvista è stampato amabile per abile. specialmente Agostino. Ma, per la morte del suo minor fratello Ansaldo, dove rimpatriare per attendere all'azienda domestica ; e sposa Barbara d'Aquino di Cosenza, dalla quale ha quattordici figli! Negl’elementi di psicologia egli stesso ricorda la sua numerosa figliuolanza, che nella sua casa non grande gli impede co'suoi strepiti infantili di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua grande passione per questi studi. Persistetti, egli dice, e l'esercizio mi pose in istato, che io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi, i pianti e le grida de’ragazzi. Per rispondere alle censure che certi ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni, pubblica una Memoria apologetica Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : ma i saggi filosofici che legge, com'egli c’informa, sono tutti della scuola cartesiana. Legge Condillac, e qui comincia la seconda epoca della sua vita filosofica. Le opere di questo filosofo fecero cambiare la direzione dei suoi studi nella filosofia, lo compresi, - ci dichiara G., – che prima di affermare qualche cosa su l'uomo, su Dio e su l'universo, bisogna esaminare i motivi legittimi dei nostri giudizi e porre una base solida alla filosofia; che bisogna perciò risalire all'origine delle nostre conoscenze, e rifare in una parola il proprio intendimento. Così egli scrive quando è molto progredito nella critica della conoscenza, e aveva, si può dire, approfondito il problema. Forse la prima lettura di Condillac non gli diede quella netta coscienza, che parrebbe da queste parole, dell'im portanza della questione gnoseologica . Certo, l'avviò per questa strada, che è la strada maestra delle filosofia moderna, facendolo ritornare sul Saggio di Locke. E primo frutto di questi nuovi studi fu nel 1807 un opuscolo Sull'analisi e la sintesi; le due ; 2.a ed., Firenze, Pagani. Anche Vico nella sua vita ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a leggere o scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli. In Napoli, pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola. Autobiografia citata. Napoli, Verriento. Tirato in pochi esemplari non messi in vendita, quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla Biblioteca Universitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani. I facoltà che occuperanno un posto primario nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi, e senza allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero, come immaginava in un suo affettuoso elogio Vista, non si sarà rivolto « alla prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello nella vita e nella sapienza del divino Pita gora; certo avrà seguito gli avvenimenti politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli, com'è certo che partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at tuate o vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Sulla libertà com patibile con ogni forma di governo, rimasto inedito. E da re Gioacchino è nominato controllore delle contribuzioni della provincia di Catanzaro. Della parte da lui presa alla vita pub blica contemporanea si ricorda pure un opuscolo, Lo sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli, in difesa degli ordini costituzionali napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach, e contro l'intervento straniero. E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al Parlamento napoletano, l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla libertà della stampa; opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano contenere niente di diverso dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni forma di governo, di cui larghi squarci e transunti furono pubblicati; nei quali il Nostro mostrasi largo fautore di ogni libertà, 4. Quando scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi G. ancora non conosceva nulla di Kant, secondo che egli stesso ci attesta. La conoscenza di questa filosofia, egli dice, non cam biò punto la direzione dei miei studi ; io continuai le mie appli [Memorie e scritti di L. LA VISTA, Firenze, Le Monnier, Vedi quel che no dice TULELLI in un'interessante memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar . P. G. - Notizie ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti della r. Acc. delle scienze mor . e pol. di Napoli, I, 201 e sgg. Il TULELLI pubblicò un'altra memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G. negli stessi Atti del 1867, III, Vedi l'opuscolo più sotto citato di BISOGNI, Omaggio Vedi la prima delle due memorie del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione G., che allora trovavasi a Tropea, non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un amico della libertà . Nell'Eco di Tropea) TORALDO, al quale pure si deve il citato Saggio sulla filosofia di G. con appendice di scritti inediti, ha pubblicato questo bruttissimo sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli Affaticati di quella città : cazioni su l'intendimento umano, ma profittai molto delle fati che del filosofo di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei problemi elevati dalla filosofia critica, sebbene trovai insufficiente la so luzione che questa ne avea dato . Le meditazioni da me por tate su la filosofia critica, elevarono molto più alto i miei pensieri e mi presentarono delle nuove vedute nella scienza dell'intendi mento umano. E vedremo infatti quanta parte del criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica della co noscenza, di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli, [Questa prima conoscenza di Kant provenne a G. dalle esposizioni nè complete nè esatte di Villers e di Kinker e Della Patria il dolore, il lutt, il pianto, La rea sorte fatal veder non voglio, Di Marto, di Bellona il fler orgoglio, L'augusto trono di Minerva infrant, Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fler cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio, Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete, Grido nel mio furore ; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto. Ma già l'Angiol divin, che accanto giace, Di man mi toglie il ferro, e grid'allora Verrà Fernando: tornerà la paco! Il sonetto è conservato su un foglio volante, che reca dalla parte opposta queste parole che sono la conclusione di un discorso accademico :Ferdinando augusto, principe ma gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato. E poi : G. fra gl’affatigati il furioso. Siegue dietro il Sonetto dello stesso accademico A me pare che discorso e sonetto possano riferirsi alla reazione. Le frasi di questo passo meritano particolar considerazione per quel cho si dirà più innanzi del pensiero galluppiano. Pei torchi di Domenico Sangiacomo. Seguirono altri 2 vol. Messina, Pappalardo; poi un 5.° e un 6. °, per cui l'opera fu compiuta,, presso lo stesso Pappalardo. In Napoli fu incominciata la 2.a edizione migliorata ed accresciuta. Philos. de Kant, ou principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. ( 4) Essai d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du l'ol landais par. J. le F.; vedi su questi e gli altri primi scritti francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en France, proposta alla sua trad. della Critica della Ragion pratica (Paris, Alcan). dalla Storia comparata dei sistemi filosofici del Degerando. Egli non seppe mai il tedesco, nè mai conobbe la traduzione latina di alcune opere kantiane, già ricordata, fatta dal Born; nè era uscita peranco la traduzione che il cav. Man tovani fece della Critica della ragion pura, e che sarà poi la sua fonte principale. Pubblica gl’Elementi di filosofia contenenti la Logica pura e la Psicologia, e promette l'Ideologia, La logica mista, la Filosofia morale, che infatti uscirono in altri volumetti, e una Storia filosofica ragionata, che un avvertimento dell'editore al quinto volumetto annunzia non si sarebbe piu pubblicata avendo l’autore su l'oggetto intra presa un'opera estesa. E questi saggi, i migliori testi di filosofia per le scuole che si siano avuti finora in Italia, per i loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza, si divulgarono presto per tutta Italia, procacciando molta fama al benemerito autore. Scrive alcune lettere sulla storia della filosofia, indirizzate a Fazzari, che a Tropea insegna gli Elementi di lui e desidera da lui stesso di essere orientato in mezzo al caos delle opinioni, che al presente scrive G. nella prima lettera — agitano il mondo filosofico, e di essere sovrattutto informato della filosofia critica. E queste lettere l'autore raccoglieva in un bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno saggio di storia della filosofia in Italia, il quale diede [Nè soppe tanto di francose da tradurre da questa lingua sonza errori di senso. Vodi per un esempio curiosissimo la mia prefazione al Saggio di TORALDO. Aggiunse più tardi gl’Elementi di teologia naturale. Si fa a Firenze una edizione di tutti questi Elementi di filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. ( COLOPIO ), pubblico lettore; ristampata a BOLOGNA. Di questa Storia della filosofia non è pubblicato poi che il primo volume contenento il primo dei duo saggi d’Archeologia filosofica, che l'autore intende premettere all'opera. Ne conosco solo l'odizione di Milano, Silvestri, nella quale precode l'Elogio funebre scritto da PESSINA. Lellere filosofiche sulle vicende della filosofia relatiramente ai principii delle cono scenze umane da Cartesio sino a Kant inclusicamente, Messina, Pappalardo. Le lettere in questa edizione sono tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a edizione (Napoli), con un Discorso di BLANCH per venire fino a Cousin e a SERBATI. E questa 2. edizione è riprodotta in quella di Firenze, Fraticelli. occasione al Romagnosi di scrivere una Esposizione storico-critica del kantismo e delle consecutive dottrine. E altre cinque Lettere sull’ontologia indirizzd a un amico, dove si adopera a mettere in chiaro, da un punto di vista kantiano, la futilità dell'ontologia wolfiana. Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente. Per tutti gli scritti già divulgati G. s'è reso noto per tutta Italia; e SERBATI, appena stampati suoi Opuscoli filosofici, glielo invia da Milano, dichiarandoglisi obbligato se egli, che ha arricchita la filosofia, quella scienza avvilita e profanata nei nostri tempi, anzi distrutta, avesse voluto aggradire l'opera e comunicargli qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute. E si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi voglia conoscere le relazioni storiche delle rispettive loro dottrine . Varie accademie l'aggregano a’loro soci. Fra esse la Sebezia e la Pontaniana di Napoli. Quivi G. torna; e subito vi pubblica una traduzione dei Frammenti di Cousin, con una prefazione e una dissertazione del traduttore, in cui si confuta il domma del l'unità della sostanza, ove però son comprese le osservazioni di G. intorno alle altre dottrine di Cousin non accettate. Avendo meditato su di questo sistema filosofico, trovo in esso delle vedute sublimi, ed insieme un errore pe Che ne scrive prima una recensiono nella Biblioteca Italiana, di Milano. Nella stessa Biblioteca. Vedi Opp. filos . ed . e ined ., di G. D. R. con annotazioni di GIORGI, Milano. Su questo scritto e in generale sul Kantismo in Romagnosi vedi l'art. del CREDARO nella Riv. di filos. Italiana. Vedi ciò che ne ho detto nella prefazione al citato Saggio di Toraldo. Dovo queste lettere sono stato tutte cinquo pubblicato per la prima volta. Solo le prime due sono state edito da PIETROPAOLO, Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos. scient.. Vedi GENTILE, Rosmini e Gioberti (Pisa, Nistri). La filosofia di Cousin, trad . dal francese, ed esaminata dal bar. P. G., a spese del N. Gabinetto lotterario. Si incontra anche una postilla del traduttore relativa ad alcune massime morali di Cousin, ricoloso. Quindi, accompagnando la traduzione con la detta dis sertazione, ei credeva di porre il lettore filosofo in istato di conoscere non solo la filosofia di Cousin, ma di giudicarla. Il saggio frutto presto molto favore all'eclettismo francese a Napoli, e specialmente al suo capo, che dal canto suo fa conoscere G. in Francia, e anche fuori per mezzo dell'amico Hamilton, che in un giornale filosofico di Edimburgo scrive un articolo sul Nostro. A Napoli è persuaso da amici a chiedere la CATTEDRA di logica e METAFISICA vacante. Presentato al ministro degl’interni marchese di Pietracatella, questi, udito il suo desiderio, l'invito a cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa semplicità calabrese risponde. E chi c'è a Napoli che possa esaminare G.? L'amico che lo presenta rimane sconcertato. Ma il nostro filosofo ha il suo decreto di nomina. Con che festa noi, narra Settembrini con quanta calca tutte le colte persone si anda a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra detta con l'accento tagliente del suo dialetto! Ci sono sempre i maldicenti, i quali diceno che egli è mezzo barbaro nel parlare, ma in quel parlare è una forza di verità nuova, ma l'ingegno è grande, e il cuore quanto l'ingegno. Da una novella prova delle sue attitudini didattiche dando alle stampe un'opericciuola: Introduzione allo studio della filosofia. Ma nel seguente anno, primo del suo insegnamento, coi primi due volumi della Filosofia della volontà dedicati al marchese di Pietracatella, poi e --- Si conservano nella biblioteca del Cousin, appartenente alla Ropubblica, le lettere a lui di G. Vedi l'art. da me pubblicato su Cousin e l'Italia nella Rassegna bibliograf. della letter. ital. Cousin fa tradurre in francese dal Peisse suo discepolo le lettere di G.; o questi da Trinchera le lezioni di Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi egli delle note, come è notato a suo luogo. Un'affettuosa commemorazione di G. fa Cousin all'Accademia di Francia, o pubblica nel Journal des Économistes, riportato nell'Omnibus di Napoli, dove G. scrive su Cousin. Vedi FIORENTINO, Man . di storia della filos., Napoli; SETTEMBRINI, Ricordanze, Napoli, e il Discorso cit . di BORRELLI, ammontati a quattro, già composti a Tropea, comincia a pubblicare le lezioni di logica e METAFISICA, dettate a Napoli, vero modello di quel lucidus ordo tanto raccomandato da Venosino. Ne compì la stampa; di cui fa una seconda edizione e una terza; ristampata da Tramater. A proposta di Cousin, in concorrenza con Hamilton che ha un solo voto, venne nominato socio corrispondente dell'Accademia delle scienze di Francia. E, a proposta di Guizot, Filippo lo insigne della croce della Legion d'onore Ei se ne sdebita con le sue Considerazioni filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di Fichte, memoria presentata all'Istituto di Francia, accademia delle scienze morali e politiche; e mandando più tardi, poco prima di mo rire, uno scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente negli Atti dell'Accademia. Pubblica una Storia della filosofia. Vi si tratta della filosofia greca, non però secondo la successione delle scuole, sibbene considerando e criticando le diverse opinioni dell'antichità sull'origine dell'universo e del genere umano fino ai neo-platonici. Una siffatta opera, dice in un elogio funebre dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di gloria italiana, se a nostra disavventura la vecchiezza, le malattie, le sciagure non avessero di tale infievolito l'animo di lui, ch'ei non potè vederla compiuta, ed a perfezione condotta. Infatti gl’ultimi anni della vita del nostro filosofo sono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte. Già uno dei figli maschi è caduto, com'ei narra, vittima del furore d'un sconsigliato. Ed egli ne scrive e stampa (Messina) l'elogio. Poi gli è morta la moglie. Ora, in una insurrezione scoppiata a Cosenza perde la vita un altro suo figlio, Vincenzo, che è capitano. Il vegliardo Vedi la lettera di Guizot in LASTRUCCI, P. G. studio critico, Firenze, Barbèra Stampate in italiano, da' torchi del Tramater. Negl’Atti dell'Accademia francese sono pubblicato come la successiva memoria in francese. Elogio funebre di G., per E. PESSINA, in Op. cit ., p. XIII. ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con fortarlo disse : « Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e giusta. Borrelli ne disse degnamente le lodi presso al letto funebre, fra una folla, che recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia, in cui recita un'orazione il gesuita Curci. Campagna piange la morte del filosofo in un sonetto filosofico, lamentando che con lui si partisse dalla terra Una favilla dell'eterno lume. Dall'Accademia delle scienze morali e politiche a G. venne eretto un busto a Napoli, da lui onorata con molti altri spiriti magni. Molti saggi ha ancora in animo di pubblicare, oltre i ricordati, e molti manoscritti di lui ci son rimasti, ora in deposito presso la Biblioteca nazionale di Napoli, i quali fan testimonianza della larga estensione degli studi fatti da lui in teologia, storia dell'antica e moderna filosofia, filologia greca e latina, storia, matematica, astronomia. Meno vita modesta e di grande raccoglimento: assorto negli studi, visse veramente per la scienza, in cui riuscì ad imprimere orme profonde, rinnovando la filosofia italiana. Egli infatti è il solo dei filosofi napoletani da noi studiati, dopo GENOVESI (si veda), che esercita una influenza molto notevole al di fuori del regno, su tutti gli studi filosofici nazionali, Pubblicato nel Museo di scienza e lett.; v. DE SANCTIS, La letter . ital., Napoli, Morano, e nota di CROCE] Oltre la memoria ricordata di Tulelli, vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel l'opuscolo citato di Pietropaolo. Per la biografia v. anche PALMIERI, Elogio stor . del bar. G. con alcuni poetici componimenti recitati in un'adunan za tenuta per cura di Palmieri in Napoli. V'è oltre l'elogio un sonetto di Campagna, un carme latino di A, Mirabelli, alcune sestine d’Anzelmi, un'ode latina di Guanciali e un sonetto improvvisato dall’egregio poeta Regaldi che per una congiuntura si trova presente alla nostra adunanza, - Vedi anche la necrologia Morti e morenti di CORRENTI, Rivista europea, ristamp. in Scritti scelti, ed. Massarani, Roma, Sonato. L'articolo di RACIOPPI, Il Bar, P. G., nel Poliorama pittoresco; l'opuscolo di BISOGNI, Omaggio alla memoria del b. P. G. nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una statua all'illustre filosofo, Napoli, Morano ( in 11. Nella quattordicesima delle Lettere filosofiche G., volendo determinare le relazioni della sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col criticismo kantiano, si fa a descrivere le varie fasi attraverso le quali era passato il suo pensiero . Ma la de scrizione non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto come fino circa ai trent'anni suoi autori sono Leibniz, Agostino e i filosofi della scuola di Cartesio; e si può dire che egli fosse in un periodo di dommatismo metafi sico, che rimase poi sempre nel fondo del suo pensiero ; non solo perchè molto più tardi, quando aveva studiato anche Kant, con tro di questo egli affermava che « la filosofia è essenzialmente dommatica, e non può essere che dommatica. Essa dee contenere delle verità assolute; ma anche per altre ragioni: La lettura di Condillac gli fa intendere, che c'era una que stione preliminare dą risolvere prima di ogni metafisica : ricer care, cioè, i motivi legittimi dei nostri giudizi, quindi risalire all'origine delle nostre conoscenze, rifare, egli dice, l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono insomma la direzione de' suoi studi. Segue perciò fino circa a quando venne a conoscenza di Villers e di Degerando, un periodo pre-kantiano di revisione della conoscenza; al quale periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi, In questo egli concede a Locke e ai suoi seguaci, che tutte le nostre idee hanno origine da' sensi, che pertanto tutte le nozioni universali vengono a formarsi dal paragone degli oggetti particolari, e che le cognizioni particolari ci menano alle nozioni universali, e non già viceversa. Ma si propone la questione se lo spirito, tosto che ha formate le nozioni universali, possa paragonarle, scovrirne i rapporti, e quindi applicare questa cognizione universale alle idee particolari, racchiuse nell'idea universale, che si è paragonata colle questo opuscolo è pubblicato uno scrittorello inedito di G. Sulla semplice apprensione). Uno studio biografico ha pure dato in luce PIETROPAOLO, nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro. Non c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel Giornale dell'equilibrio, citata dal Palmieri, scritta da TULELLI sopra note comunicatemi questi dice, accennando molto probabilmente a questa biografia dall'autore medesimo; Atti della R. Accad. d. scienze morali e polit. Letl. filos. Sull'analisi altre . Per es ., delle due proposizioni generali ogni cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e ogni corpo è grave, nella seconda tra corpo e gravità non havvi una connessione necessaria e il loro rapporto non può affermarsi se non mediante il soccorso dell'espe rienza ; nella prima invece è nell'idea del cerchio la ragione di affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e fra le due idee v'è un legame necessario, che non dev'essere attestato dall'esperienza. V'ha dunque, conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo spi rito non perviene dalle verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del semplice paragone delle idee universali, ch'egli si ha formato; e v'ha poi verità generali che derivano dalla cognizione delle singole verità particolari, che ci fornisce l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e necessarie ; le altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono principii ana litici, in quanto si devono all'analisi delle idee generali già acquisite per l'esperienza; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi delle verità particolari, non altrimenti che le idee universali. Sicchè già nell'opuscolo G. arriva a quella forza analitica e forza sintetica di cui fa nel Saggio il fondamento di ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla sensibilità. In quell'opuscolo si poteva egli dire ancora puro empirista? Certo, egli fa ancora, come Locke, derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente speri mentale faceva ancora la materia delle conoscenze a priori. Giacchè le idee generali, fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono esse stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi, che, elaborando il dato immediato dei sensi, ci conduce alle idee universali e alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto, non era accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti, fatta da G. quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume, nel quarto dei quali ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle cose di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni della mente, che giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant.Nel suo Saggio, la posizione di G. si determina assai più chiaramente. Egli, bene o male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo di Condillac, d’Elvezio, di Tracy; di quel Tracy, che ancora a Firenze, al dire d'un arguto scolaro di Cousin, rappresenta le chef et maitre, celui qui l'a dit; e dichiara che la geometria, questa scienza pura, razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la macchina debole dell'empirismo; e che, infine, non è vero esattamente ciò che egli aveva ammesso o, almeno, non aveva combattuto, nell'opuscolo: derivare cioè tutte le idee universali dal paragone delle particolari. Parve a lui che la critica di Kant fosse una vera rivolu zione. La rivoluzione kantiana, scrive nella prefazione del Saggio, merita, più di quel che si crede, l'attenzione dei pensatori. Asseriva bensì, che il criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto il quale non si faceva passare che una questione vecchia, quella dell'origine delle nostre idee. Ma le prime parole della sua prefazione erano tuttavia le seguenti. L'oggetto di quest'opera è la critica della conoscenza, o l'esame della realtà della scienza dell'uomo. Che cosa posso io sapere? Son io capace di conoscenze reali? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze? Quali sono i limiti prescritti al mio spirito, limiti che non gli è permesso di oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche sublimi ed importanti che mi occuperanno. Ora queste sublimi ricerche, come tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che se è una rivoluzione, sarà cer tamente una novità. Vedi JAJA (si veda), Saggi filosofici, Napoli, Morano. E a quel saggio di Hame è G. ricondotto da Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da Hume, perchè la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi, ricordando la distinzione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. Vedi GENTILE, Rosmini e Gioberti. Se non che, a giudizio di G., la critica di Kant, lungi dallo stabilire la realtà della conoscenza, tende radicalmente a distruggerla; che i suoi risultati sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina della conoscenza non può costruirsi se non in opposizione a quella critica . Una critica, insomma, ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque? Noi non esporremo ne' loro particolari le teorie di G. e le critiche delle altrui dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio filosofico la sua dottrina è già fissata, senza seguire l'ordine cronologico delle opere, possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti caratteristici della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. G., come gli antichi psicologi metafisici ammette un sistema di facoltà dello spirito; e a capo di tutte pone la co scienza o sensibilità interna. Questa è la facoltà per la quale lo spirito percepisce, sente se stesso, il me, la cui esistenza è una di quelle verità primitive, che ci sono attestate dall'esperienza, ma non si possono dimostrare ; come già pensano Cartesio e Leibniz. Nè vale l'obbiezione che noi non percepiamo se non le nostre modificazioni, e che l'idea del me si dedurrebbe percið da quella delle modificazioni, pel principio che non v'ha atto senza soggetto. Non v'ha sentimento delle proprie modificazioni donde si possa separare quello del proprio essere; perchè non si può percepire l'astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente. Il me adunque è un dato dell'esperienza, che bisogna ac cettare come una verità primitiva di fatto ; e l'atto con cui lo si apprende, è la percezione immediata. Qui G., ritornando alla posizione cartesiana, ne sente tutta l'importanza. Egli osserva nel Saggio filosofico, che il defi nire, come si fa comunemente, l'idea per la rappresentazione dell'oggetto nella mente, separando cosi l'oggetto dalla mente, e il far consistere quindi la norma della verità nella conformità della nostra rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre irrepa rabilmente la porta allo scetticismo. « Se gli oggetti, se la re gione dell'esistenza son separati dallo spirito, chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza, all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle immagini degli oggetti. Lo spirito, dicesi, possiede le immagini degli oggetti ; ma in questo caso lo spirito non potrà giammai conoscere la conformità di queste immagini cogli originali, e la verità andrà sempre lungi da lui. Me [Saggio] morabili parole, per cui G. non solo non è un prekan tiano, come credono i più, ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ; del quale egli in questo luogo discopre espressamente il vizio principale, notando che il fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione volgare dell'oggetto rispetto al sog getto, presunta dalla definizione dell'idea testé riferita. L'idea del me, a proposito della quale l'autore fa queste osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga il termine percepito opposto al soggetto percipiente. L'Io ed i suoi modi non sono separati dall'atto della coscienza, ma gli sono presenti. La coscienza li prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza, questa percezione è dunque l'appren sione e l'intuizione della cosa percepita. E le intuizioni, secondo G., son vere, non perchè son di accordo cogli oggetti, ma perchè elleno agiscono immediatamente sugli oggetti, e li prendono. Nè bisogna cercare di definire la percezione, perchè non se n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo rimettersene alla propria coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque, il principio da cui parte G., è questa immediata coscienza di sè, che egli dice percezione o in tuizione ; la cui verità è fondata nella identità dell'essere e del pensiero, come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso (Saggio) . Sicchè la filosofia del G. è un vero soggettivismo, come si può vedere anche dal suo concetto della filosofia. Che cosa è mai la filosofia? Ella è, rispondono alcuni filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la scienza dell'uomo, del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo possa giugnere a conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri filosofi, bisogna prima esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual fondamento può egli saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è certamente una conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose. Da ciò segue che la filosofia pud riguardarsi sotto due aspetti, o come la scienza delle cose, o come la scienza della scienza umana. Considerata sotto il primo aspetto, ella può chiamarsi scienza oggettiva; considerata poi sotto il se condo, può chiamarsi scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale dee contenere la legislazione di tutte le Li investono, dice più innanzi. altre scienze, voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo aspetto. A cið tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la riguarderò come scienza sogget tiva. E scienza della scienza la definisce già negli Elementi di ideologia. Negli Elementi di filosofia morale la dice : la scienza del pensiere umano, distinguendola in teoretica e in pratica, secondo che studia l'intelletto o la volontà. Egli ha insomma un concetto moderno della filosofia, giustificato dal suo principio : che è la coscienza di sè. Ma come, partendo da tale principio, egli costruisce la realtà conoscitiva? E qual carattere dà al suo soggettivismo la sua costruzione? Prima di tutto, avverte giustamente G., bisogna di stinguere l'ordine cronologico delle nostre conoscenze dall'ordine scientifico, Noi abbiamo con la prima sensazione e come fonda mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una coscienza di riflessione. Vale a dire, c'è di fatto questa co scienza che è il Primo scientifico ; ma non si rivela se non alla riflessione filosofica posteriore, molto posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza primitiva si rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un giudizio ( lo esisto ), ed essere già in possesso dell'idea astratta di esistenza, laddove ei comincia invece da una percezione o sensazione che voglia dirsi . Comincia da una percezione complessa : dalla percezione del me che riceve delle modificazioni, dalla percezione del me che percepisce il fuor di me. Ora lo spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi elementi che compongono l'oggetto di questa prima percezione, decompone, divide questo oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il pro Lett. filos., lett. Questo stesso concetto è svolto nella Prolusione del 1831: Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del bar . P. G., Napoli, Gabinetto bibliografico e tipografico (ristampata in fronte alle LEZIONI di logica e di METAFISICA) e nelle primo tre di questo lezioni. Vedi puro il suo articolo Filosofia nella 1." dispensa dello Ore solitarie, rivista diretta allora da Riola, Mancini e Curion, più tardi da solo Mancini. Nella Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn. di scienze morali, legislat. ed econom., è un altro scritterello del G.: Sul panteismo di Lamennais. Saggio filos.,. dotto dell'analisi e della sintesi della percezione complessa. Sic chè bisogna ammettere nello spirito, oltre la facoltà della sensibi lità ( interna o coscienza, ed esterna), quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di me ci viene offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo coglie modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure sensazione, corri sponde, come bene osserva Spaventa, alla coscienza sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col me, che modifica, io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è riguardata come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito, io allora giudico Saggio, lib . I, § 18). Ora, se conoscere è questo distinguere e unire, è chiaro che conoscere [GRICE COTCH] per G. non è sentire ( percepire [GRICE POTCH]), ma giudicare. Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla dif ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come giudicare importi necessariamente un rapporto, e come non sia possibile indicare l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la conoscenza del rapporto. La forza analitica e la forza sintetica dello spirito sono distinte dalla sensibilità; come già aveva sostenuto nell'opuscolo. La coscienza sensibile è adunque l'unità fondamentale del conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della sintesi, ne cessaria a tutti i nostri giudizi. Ma come si giustifica questa unita ? Il fuor di me è sentito, dice G., come un molteplice del quale ciascuna parte è distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non sono, nel mio sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero è distinto dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo può stare senza il moto di un altro e di tutto l'albero. Questa molteplicità si raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo stesso, sia che [Saggio filos., ed Elem . di Psicologia. Lo stesso è detto negli Elem, di Psicol.. Saggio G. riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio di Rousseau sul valore del giudizio ; passo che conferma la parentela che col fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg. Elem . d'Ideologia] ragioni, che giudichi, o che percepisca ; talchè « il soggetto di un giudizio può avere una composizione fisica ed una unità logica che gli vien conferita dal pensiero, che appunto sintetizza nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del pensiero s'addi manda unità sintetica, la quale se si ravvicina a quella forza analitica e forza sintetica che s'è accennata, s'intenderà come un'attività distintiva e unitiva insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore appunto è ammessa dal G. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io che sintesizza, uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me, suppone percið l'unità metafisica del me stesso che è la semplicità o spi ritualità del principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la scienza, poichè la scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si compone; ed essendo un pensiere distinto dall'altro, come si farebbe l'unione di questi pensieri senza un centro di unione? Ove si incontrerebbero i diversi raggi del sapere ? L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i materiali della costruzione. L’io di Newton, ripete qui G., che ritrova il calcolo sublime è lo stesso io che ha apappreso la numerazione aritmetica. Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità sintetica del pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe possibile alcuna scienza per l'uomo. Questa unità sintetica della coscienza originaria ha una intrin seca parentela, come ognun vede, coll'appercezione originaria di Kant. Col quale G. s'accorda nel ritenere che l'essenza particolare specifica dello spirito umano ci è ignota affatto. Ma data questa coscienza originaria, che forza analitica e sintetica insieme, tutte le nostre conoscenze derivano, secondo G., dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli, rife rendosi allo scritto del 1807, scrive : Io suppongo in tale opu scolo che tutte le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è vero esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive. La tesi degli empiristi che non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi oggettivi, è insostenibile. Elem . d'Ideol. Lettera a SERBATI, Tropea nella Sapienza, rivista di filos. e lettere. Cfr. GENTILE, Rosmini e Gioberti. Elem . d'Ideol.; cfr . Saggio Saggio] ma In quell'autobiografia intellettuale che è nella quattordicesima delle sue Lettere filosofiche G. dice, che il problema della sua filosofia dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e colla sua azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento che egli non riceve, ma che produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe forse esser tale, che lasciasse intero l'elemento oggettivo, che cooperando collo stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della conoscenza, l'estendesse e la fecondasse? Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà del G. contro l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività scalzasse la realtà della conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme dell'intuizione e dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea dell'Ente indeterminato. Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle categorie kantiane, ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del resto, nella critica che fa delle idee innate, pure avendo combattuto nel primo libro del Saggio l’in natismo di Leibniz, si può ben dire che ne accetti il principio ne gli Elementi di ideologia. Egli distingue idee accidentali all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini possono formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono il materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le idee essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e se per idee innate si vuole intendere idee, che non sono il prodotto della meditazione (analisi) su i sentimenti (sensazioni), tali idee non hanno esistenza » . Ma, « se per idee innate s'intendono quelle idee, di cui ogni uomo porta costantemente in se stesso i germi per isvilupparle, e che ogni uomo capace di meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare, idee che ho chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee hanno la loro origine ne' sentimenti: conveniamo ancora, che tutte le idee sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali, e di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono nello spirito si sviluppano le idee essen [Vedi il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. ziali al pensiero umano, e che si ritrovano in tutte le lingue. Donde è chiaro che G. tiene per innate nel senso leibni ziano, di attitudini, disposizioni, germi, coteste idee essenziali all'intelletto, quali sarebbero le idee di corpo, spazio, causa, unità, numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una deduzione di queste e altre simili idee dalle sensazioni. Ma, quali sono queste sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso ? Se ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari, essenziali costitutivi dello spirito. Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione di idee essenziali all'intelletto (facoltà conoscitiva in generale)? G. dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in qualunque tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano. Dunque, essi sono immanenti real mente allo spirito, nè questo si può concepire senza di essi. Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi compete solo ai senti menti del me e del non me inscindibilmente legati fra loro, costi tuenti il gran fatto, il Primo, dal quale deve cominciare la filosofia. Questo fatto è universale per tutti gli uomini, per tutti i luoghi, e per tutti i tempi. Il complesso de ' sentimenti racchiusi in questo fatto dee dunque riguardarsi come essenziale all'umano intendi mento. Il quale, fornito della forza di analisi e di sintesi, può con la sua azione feconda sviluppare da questi sentimenti e così produrre tutte le idee che gli sono essenziali. Ma la stessa produzione è essenziale, se i prodotti sono essenziali ; tal chè lo spirito, partendo dall'indistinta e oscura coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il grado dell'intelletto, se non per questa spontanea produzione che fa, mediante l'attività ond'è for nito, delle idee di sostanza, causa, corpo, spazio, tempo, unità, numero, ecc., di cui ha in sé i germi indefettibili. Intorno al valore di questo virtuale a priori di G. si può esser tratti in inganno da certe sue espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile, come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore della sensibilità nella teoria di G.. La sua sen sibilità è coscienza, è sentir di sentire, è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che egli concepisce come Primo attivo e [Saggio] produttivo ; di cui vedremo quanto si gioverà a fondare l'ogget tività del conoscere . Ora, dato questo Primo come coscienza sen sibile, egli non può ammettere più un intelletto opposto al senso e ricco a priori di determinazioni dal senso indipendenti. Perchè l'intelletto è uno sviluppo del senso e le sue determinazioni es senziali non possono non essere contenute virtualmente nel senso insieme con l'attività che possa dallo stato virtuale portarle al l'attuale, fecondandone i germi. E questo è, come tutti sanno ora o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano, preparato dalle virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il Galluppi evidentemente sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare, com'egli l'intese e come tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici, che concepiscono senso e intelletto in assoluta opposizione, in un dualismo inconciliabile . Questo punto della filosofia di G. non è stato studiato e apprezzato ancora abbastanza. La idea essenziale di G. corrisponde preci samente all ' acquisitio originaria, con cui Kant define il suo a priori nella famosa lettera a Eberhard, come l'idea accidentale all'acquisitio derivativa. Sono idee acquisite le idee essenziali come tutte le altre idee ; ma esse sono le acquisizioni originarie che la coscienza fa per la sua propria attività salendo al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa teoria, G. ha ragione di scrivere : « Io non ho ammesso idee anteriori a ' sentimenti, in modo che non gli suppongano neppure come condizione ; ma ho ammesso alcune idee essenziali all'intendimento, ed ho stabilito questa dottrina sopra solidi fondamenti... lo nego le idee innate nel senso di idee anteriori ed indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le ammetto nel senso di idee naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si possiede una disposizione o virtualità naturale. E poichè così viene a dire il medesimo del Kant bene inteso, a me pare che abbia pur ragione di soggiungere : « Io dunque credo di aver trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi contrari su la formazione delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che naturalmente G. non poteva riconoscere, di avere operato siffatta conciliazione del puro em pirismo e del puro intellettualismo. Il meglio che se ne sia detto sono le tre pagine di SPAVENTA, nella sua mo moria Kant e l'empirismo, rist . in Scrilti filosofici, Napoli, Morano Saggio. Per fare intendere meglio la propria dottrina G. la raffronta a quella di Leibniz. Conviene con l'autore dei Nuovi saggi sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa; che vi sono molte idee, che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere, meditando sul sentimento di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste disposizioni e virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o sia i sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee naturali. E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz, ripete che riconosce con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento, che l'anima non ha bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che può ricavare dal proprio fondo. Le idee sono innate come attitudini o virtualità naturali. E questo ritiene anche G. « Ma io non mi contento di rimanermi in idee vaghe : io determino le mie espressioni. L'anima nostra ha un'attitudine, una preformazione naturale per alcune idee ; poichè : 1. ° ella ha originariamente ed incessantemente i sentimenti necessari a for marsi tali idee; 2. ° questi sentimenti sono i materiali delle idee, o le condizioni indispensabili per le idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella sua natura le facoltà necessarie per formarsi tali idee; 4. ° l’anima ha in sé originariamente la disposizione, che pone in esercizio le facoltà elementari della meditazione. Data questa dottrina, ch'egli ben dice non potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola di Locke, s'intende agevolmente perchè G. continui sempre, in tutte le opere sue, a com battere l'a - priori kantiano, inteso come parte di conoscenza già formata avanti all'esperienza ; esperienza, che era per lui, come vedremo, la sorgente dell'oggettività, della realtà del sapere umano. La filosofia è essenzialmente dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava scetticismo, in grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad ogni esperienza, onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta la conoscenza. Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive, che ammise come costitutive della conoscenza, e innocue, benchè soggettive, allá realtà di essa . Quali sono cotali idee? Per rispondere a questa domanda bisogna dare un cenno delle sue teorie dell'analisi e della sintesi. Queste due facoltà non sono soltanto, come s'è visto, il fondamento di ogni giudizio, ma [Meditazione dice G. l'analisi e la sintesi insieme.] il fondamento anche di ogni idea universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli elementi comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la sintesi sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi precede ; segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme : come atten zione propriamente detta, quando lo spirito si ferma a considerare un solo degli oggetti fornitigli dal senso, escludendo tutti gli al tri ; come attenzione parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero oggetto, che gli si rappresenta ; come astra zione modale, quando lo spirito separa il modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel caso inverso, [La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo spirito unisce ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la relazione tra il soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto ( epperò v'ha propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva, quando scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva, quando scopre, come avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee nostre, non imme diatamente forniteci dall'esperienza; cioè le relazioni tra le idee generali. La siņtesi non può riunire se non per rapporti, le cui no zioni devono essere possedute dallo spirito, a mo' di categorie . E alle quattro maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di rapporti, le quali, per ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura tutte soggettive : e sono le nozioni di sostanza, causa, identità e differenza ; idee essenziali all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito, le quali derivano dalla sua facoltà di sintesi. Rapporto, come aveva notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di filosofia, è l'atto della comparazione o l'idea che risulta da questo atto . « Ora se la comparazione, dice G., è una sintesi, e se il risultamento di questa sintesi è un'idea che non [Elementi di psicologia; Saggio Saggio G distingue ancora la sintesi immagi nativa come la facoltà di riuscire in una percezione complessa, alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale combinazione ( Saggio, e Psicologia) . Ma s'intende cho questa sintesi non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico . Saggio. Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto, sorgono dall'attività sintetica e queste sono i rapporti risulta da un'impressione, e che non ha percið un oggetto reale al di fuori, segue che vi sono idee semplici, le quali sono sola mente soggettive ed un prodotto della sintesi. Suppongono le sensazioni, ma sono prodotti semplici dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti seguono, come ogni idea di rapporto, al para gone, che è un'azione dello spirito . Pel paragone non basta che si abbiano nello spirito insieme due percezioni : è necessaria l'a zione che riferisce l'una all'altra. Parrebbe adunque, che le idee dei rapporti, queste vedute dello spirito, o modi della sua attività sintetica, non differissero punto dalle categorie kantiane. Ma l'autore afferma recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con Kant; vuol fondare una vera filosofia dell'esperienza, e afferma come una delle esigenze ineluttabili della filosofia, che la connessione fra le esistenze, per cui è possibile la scienza, non deve essere una creazione dello spirito, bensì un dato dell'esperienza; cioè del senso, che per lui, come vedremo, è norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico, gli elementi soggettivi ammessi da G. son sempre determinati da qualche cosa di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico, G. no. Ed in verità esso, G., scrive che la stessa connes sione deve essere un dato dell'esperienza, quando si tratta di og getti esistenti che dan luogo alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce gli elementi reali di un oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova realmente riuniti. Così, dicendo : Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni : ora tanto l'io che le sensazioni son cose reali, e realmente le sensazioni son cose reali, c realmente le sensazioni sono unite al me. Quest'unione non è dunque l'opera del mio spirito : io non posso fare altro che conoscerla distinta mente . Questa sintesi copia dunque, dirò così, la realtà delle cose, ed è per cid che io la chiamo sintesi reale. Or dunque, queste idee di rapporti sono o non sono un pro dotto dell'attività sintetica del soggetto? Qui, s'è detto, havvi una flagrante contraddizione. Sentire un rapporto, secondo G. è un espressione assurda ; e la connessione delle esistenze, che è un rapporto necessario, non si potrebbe sentire ; eppure si deve . « Se fosse creata da noi cotestà connessione, scrive Fioren (Saggio Saggio Saggio LASTRUCCI Saggio; cfr . Psicologia] tino, la realtà della scienza sfumerebbe; e G., impaurito delle conseguenze, contraddice ai suoi principii . Il nesso tra il me, sostanza, e le sue sensazioni, tra la sensazione e la causa esterna, cotesto doppio rapporto è sentito . Ei non osa dire sen tito, e dice : è dato. La questione è importante e merita ogni più seria considerazione. Prima di tutto bisogna distinguere, come fa G., le due nozioni di causa e di sostanza, da quelle di identità e diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale, le altre della ideale ; le une sono dei veri rapporti reali, le altre semplici rap porti logici . Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo spirito, nascono per l'attività di questo, sono idee dello spirito e nulla fuori di queste idee. Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve dal di fuori questi elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze, ma li ricava dal proprio essere, cioè li produce . Esse corrispondono appuntino alle categorie kantiane . Nè vale opporre, come altri ha fatto, che anche questi rapporti presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i termini, fra cui intercedono . I termini fuori del rapporto, ho detto altrove, cioè prima del rapporto, sono termini del rapporto ? E si badi che dell'esperienza G. ha un concetto tutto kantiano, perchè essa consiste, secondo lui, nel giudizio, il quale vede un rap porto fra i nostri sentimenti. Il solo errore del criticismo, che ha de ' semi preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato riguardando « tutti i modi di connessione fra le nostre percezioni come soggettivi, negando la sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva, cui la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza secondaria, scientifica e comparata, che è produzione soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a confessione di G stesso, egli è schietta mente kantiano nella teoria della sintesi ideale, come attività sin tetica generatrice delle due idee di rapporto, identità e diversità, all'occasione delle sensazioni, che ne sono condizione indispen sabile. (La filos. contemp. in Italia, Napoli, Morano Psicologia Saggio LASTRUCCI G. (Saggio) non parla di esperienza, ma di sensazioni, supposte cronologicamente como a condizione indispensabile » delle idee d'identità e diversità. Saggio. Vedi anche Lettere filosof. Soggettive pur sono le idee di causa e di sostanza . Ma G. distingue fra soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice, il soggettivo rispetto all'origine, e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e altrettanto dicasi dell'oggettivo. Altra è la questione dell'origine delle conoscenze, altra è la questione della realtà loro. « Io dichiaro, scrive l'autore, che per oggettivo in tendo ciò che nelle nostre cognizioni deriva dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo ciò che nelle stesse deriva dal soggetto conoscitore. Questi due vocaboli si prendono ancora in un altro senso, quando si parla della realtà delle nostre conoscenze: l'oggettivo dinota allora quell'elemento della nostra conoscenza, a cui corisponde una realtà in sè, ed il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde nessuna realtà. Dunque le idee di causa di sostanza sono soggettive per l'origine, ed oggettive rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni reali, laddove, quelle di identità e di diversità sono soggettive, e per l'origine e pel valore, e son dette perciò semplici relazioni logiche . E però resta fermo, che anche le idee di sostanza e di causa siano un prodotto dell'attività sin . tetica dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il senso è inca pace di darcele. Se non che esse, invece di avere un semplice valore logico, hanno una corrispondenza nella realtà, pel nesso, che è tra la sostanza e i modi, tra la causa e l'effetto. Ma G. dice che il rapporto della sintesi reale ( sia di causa, sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si, ma devesi inten dere, dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto. Dato in quel luogo di G., che pur bisogna metter di accordo con tutta la sua dottrina, vale solo oggettivo (rispetto al valore). La difficoltà vera è la seguente : come ciò che è soggettivo rispetto all'origine, può essere oggettivo rispetto al valore ? Que sto è lo scoglio della filosofia della esperienza propugnata da G.; ma è pur uopo notare i grandi sforzi fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse sempre ricordato dell'osservazione, dianzi ac cennata, relativa alla comune definizione delle idee : che cioè non bisogna separare ed opporre oggetto a soggetto, ove non si vo glia incorrere nello scetticismo, non avrebbe avvertita nessuna dif ficoltà in questa questione della sintesi, circa la soggettività della sua origine e l'oggettività del valore. Egli non avrebbe concepito un'oggettività distinta dalla soggettività. Saggio. 43. Di quell'osservazione fondamentale si ricorda certamente nella sua teoria dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af ferma che la sensazione è la intuizione dell'oggetto, e sog giunge: Per non far nascere equivoco in una materia molto importante, io chiamo intuizione la percezione immediata dell'og getto, in modo che l'esistenza della percezione supponga neces sariamente quella dell'oggetto. Se ogni sensazione è di sua na tura la percezione di un oggetto esterno al principio sensitivo, se quest'oggetto non è rappresentato dalla sensazione, esso è dunque reale, come è reale la sensazione. La realtà dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto della coscienza; il quale mi . dà la realtà della sensazione : ecco dunque la realtà esterna fra le verità primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei problemi fon damentali nella critica della conoscenza (Saggio) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere si può dire adun que, che G. confermi ciò che aveva detto fin dal primo capitolo del suo Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima, conoscenza del me e dei suoi modi ; coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione immediata, tale che « fra questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo. Pare che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia disposto a chiedere, come aveva chiesto infatti a proposito della comune definizione delle idee in generale. Se gli oggetti, se la regione dell'esistenza son separati dallo spirito, chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza, all'oggetto? Argomento insolubile, com'egli dice, ai filosofi dommatici. Senso ed oggetto, sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno, non si possono scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della realtà, comecchè il dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle idee e a'giudizi. Il senso costituisce, per le idee e i giudizi cui dà luogo, l'esperienza primitiva o imme [G. non ammette l'incosciente. La scuola di Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si ha coscienza : alcuni Allosofi adottano questa opinione ; ma molti altri, co' quali io son d'accordo, non ammettono alcuna percezione, di cui non si abbia coscienza. Non si può percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza perco pire il me, poichè la percezione di un di fuori è ossenzialmente la porcezione di più oggetti ; se non vi ha due oggetti, non vi è un di fuori. Se la percezione di un ſuor di me non è possibile senza quella del me, segue che non possono esservi nello spirito delle percezioni senza osser sentite. Elem . di psicologia] diata; immediata rispetto all'oggetto, in cui s'appunta imme diatamente nella intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la comparata, o derivata o secondaria, la quale consta dei giu dizi d'identità o diversità che noi portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza : giudizi d'un valore puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza immediata hanno per og getto gl'individui. Questa acqua ha la qualità di estinguer la sete . Questo calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi particolari, che non si possono generalizzare, nè possono costituire l'esperienza secondaria, fondamento delle scienze, se con le impressioni sensibili, coi dati oggettivi non si combinano quegli elementi soggettivi, che sono le due vedute dell'identità e diversità . Per dire la propo sizione generale : l'acqua estingue le sete, - io devo, in seguito alle successive esperienze delle varie acque che m'hanno estinto la sete, comprendere sotto una nozione generale tutte queste acque, e le azioni loro di estinguer la sete ; il che significa che lo spirito dee vedere un rapporto d'identità fra questi soggetti particolari e fra le loro particolari qualità; rapporto d'identità che il senso non mi può fornire ; perchè esso non mi dà che successivamente le singole acque. Della scienza si potrà dire giustamente che è una costru zione soggettiva per mezzo dei materiali offerti dalla esperienza primitiva. G., in verità, non può attribuire altro valore che questo, che è il kantiano, alla scienza. Se la conoscenza vera della natura ci vien fornita dalla scienza, anch'egli deve dire cnl Kant, che lo spirito, legando gli sparsi caratteri datigli dal senso, costruisce il gran libro dalla natura . Eppure.egli ritiuta (Saggio) una tal soluzione. « La distinzione delle due esperienze, egli dice, è della più alta importanza, per determi nare il valore delle nostre conoscenze. È della più alta importanza, perchè se i rapporti di sintesi ideale nell'esperienza derivata sono soggettivi, quelli di sintesi reale nell'altra espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esperienza (pri mitiva ) l'esistenze son date allo spirito : egli ne è spettatore, e non il conoscitore : una connessione fra l'esistenze gli è anche data : egli dee conoscerla, non ispiegarla o comprenderla. Ma questa distinzione non tocca punto la soggettività della scienza, in quanto prodotto della sintesi ideale ; anzi la conferma. G. [Saggio] nella epistemologia è un kantiano puro. Checchè egli ne dica, tale è la sua dottrina. Ed ecco la stridente contraddizione cui lo condusse il suo voluto sperimentalismo. La scienza, la parte più certa della cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza sensibile è di sua natura oggettiva; che, per lui, è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo, laddove l'esperienza sensibile è certa e reale . Le conoscenze necessarie ed universali, che sono il pernio di ogni specie di conoscenze, hanno un valore puramente logico, e le conoscenze contingenti e particolari sono reali . Il che avrebbe dovuto condurre G. al più schietto nominalismo ; perchè se le nostre conoscenze veramente oggettive, sono quelle dateci dai giudizi particolari dell'esperienza immediata, sfuma la realtà dell'universale . E un realista G. certamente non Egli combatte tuttavia l'empirismo nominalistico di taluni seguaci del Locke, come l'Helvetius, i quali negano le idee universali, asse rendo che quelle, che tali appariscono, non sono se non termini generali, vocaboli vôti di senso . « Perchè, dice G., al ve dere un uomo che non abbiamo giammai veduto, noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo un'idea universale di questa specie, come vi rapporteremmo quest'individuo? L'esistenza delle idee universali nello spirito è talmente attestato dalla intima coscienza, che si dura fatica a supporre che vi sia stato chi l'abbia contra stata » (Saggio) . Nè anche Locke, secondo G., nega le idee universali ; e come Locke egli è concettua lista . Siamo sempre lì : la cognizione universale, scientifica ha sì un valore, ma un valore logico. E al Rosmini, che gli dichiarava in una sua lettera di non vedere « come dal soggetto possa venire l'universalità e la neces sità delle cognizioni . Il soggetto è essere particolare e contingente, e non può produrre un effetto maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la necessità che ha luogo nelle cognizioni, è una semplice « legge logica del pensiero umano, da non confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica espressa dal principio di contrad dizione, e, come ogni altra modificazione dell'anima nostra, me ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini, che la necessità logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una sola necessità ( in questo punto è tutta la novità, non pic Cita il Saggio, dove Locke spiega la gonesi delle idee universali.] cola, – di SERBATI verso G.) : « Io non suppongo mica, replicava G., che vi sia una necessità metafisica distinta dalla necessità logica ; ma solamente combatto quei filosofi che riguardano quella necessità, che è meramente logica, come una necessità metafisica, che trasformano la prima nella seconda. L'origine di tal necessità logica mi sembra già determinata ; essa è nella natura del soggetto noi non dobbiamo cercarne la causa efficiente, ma arrestarci alla causa formale di tal neces sità. La sua scienza, perciò abbiamo detto altra volta, come quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia invalicabile del fe nomeno; sicchè egli riesce, per la scienza, a quel criticismo che voleva correggere . Gli sarebbe bastato estendere la - sua teoria della sensibi lità o meglio dell'esperienza primitiva alla esperienza secondaria . Non l'ha fatto, perchè gli premeva salvare la realtà del mondo esterno ; e così s'è messo in disaccordo con se stesso, accoppiando al criticismo puro dell'epistemologia il più crudo dommatismo nella gnoseologia. I due elementi in lui non si fondono, e un'in tima contraddizione travaglia tutta la sua filosofia. 49. Infatti ammessa giustamente come soggettiva l'origine della nozione che abbiamo della connessione reale delle cose ( come sostanza o come causa, sussistenza, egli dice per lo più, ed effi cienza ), il valore oggettivo delle medesime non può essere e non è infatti in G., che una semplice affermazione dommatica. La percezione del me è la percezione di un soggetto con le sue modificazioni. Sicchè, egli dice, nella coscienza del me, – che è il principio della nostra filosofia, è data « 1. ° la connessione fra la percezione e l'oggetto ; 2.º fra il soggetto e la modificazione ; 3." fra la causa e l'effetto, il che vale quanto dire, che in questo fatto primitivo ci è data la base della filosofia, e la realtà delle nostre conoscenze. Su per giù, è sempre questa la dimostra zione data da G. della realtà delle connessioni tra sostanza e modi, tra causa ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me, termine reale della coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e queste modificazioni a lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno . Ma i termini noi possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto connessi nel loro rapporto non pos siamo percepirli, se non applicando ad essi quelle nozioni di rap Rosmini e Gioberti. Saggio.] porto, onde già dobbiamo essere forniti. Chi ci garantisce che i rapporti, che con queste nostre vedute, di origine soggettiva, noi scorgiamo tra i termini percepiti, abbiano un fondamento ogget tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso ponte di passaggio dal soggetto all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento inso lubile ? Il dommatismo è evidente. C'è un passo, nel terzo libro del Saggio, contro la sin tesi a priori di Kant, che merita qui speciale considerazione. Il filosofo di cui parliamo, – scrive G., ha confuso l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che sono le percezioni del rapporto fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il principio efficiente che pone un termine rapportato. Lo spirito nel termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi, indi unisce questo rapporto, che aveva separato dal termine rapportato allo stesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito, prima della comparazione, non aveva che il termine della relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato : l’atti vità sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione, il rapporto, e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto all'oggettivo. Quale che sia il valore di questa osservazione contro il giudizio sintetico a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il giudizio è già avvenuto con quella prima operazione dell'attività sintetica, che consiste nel rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto del soggettivismo dei rapporti accennato qui dall'autore; ma vi apparisce pure evidente falso concetto che ei s'è formato dell'oggetto. Termine e termine rapportato son cose differentissime; il primo è un dato, il secondo è il prodotto di quel principio efficiente, che è la sintesi. Ma il termine è termine in quanto è termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che venga posto, rità, dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la dottrina di Kant. Ma se il Galluppi ne avesse piena consapevolezza, non do vrebbe dire, che lo spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine della relazione. No, non aveva niente : non c'è prima il termine, l'elemento oggettivo, a cui dopo venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto : termine e rapporto nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il termine della relazione, senza il rapporto, nè questo rapporto è nulla di concreto fuori dei termini ai quali viene applicato . Questo prima e questo dopo, di cui parla G., accusano quella separazione di oggetto e soggetto, quella opposizione da lui già criticata come punto di partenza donde non sia dato arrivare a una conoscenza certa. Sicché, anche per le nozioni di identità e diversità ( alle quali, s'intende, egli si riferisce nel passo ora citato) G. si di batte nelle strette della soggettività, come qualcosa di differente e assolutamente opposta a quella oggettività, che s'era proposto di fondare contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono sempre in quel principio fondamentale della co scienza di sè, preso dalla filosofia di Cartesio, onde si nutrì, come abbiamo notato, la mente di lui nel suo primo periodo speculativo. E la conclusione del Saggio filosofico è che tutti i motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza, memoria, razio cinio e testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me diato ed ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di toglier questa base è indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona col nulla. E così nella chiusa delle Lettere filosofiche. Io ho poggiato – dichiara l'autore su la veracità della coscienza la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la veracità di alcun mezzo di conoscere senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo la veracità della coscienza, la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere segue necessariamente. Così, secondo me, l'aliquid inconcussum è nella coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano. Ma se si ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la coscienza, G. non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal soggetto, alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ; e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una giustifi cazione, come s'è visto, fondata unicamente sul sentimento del me. Si potrebbe dire, che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli, infatti, rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e falsa, e sostiene che tutte le nostre sensazioni [Saygio] soggettive, nè più nè meno di quel senso del tatto, in cui Condillac indicava il filo d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della soggettività, « convengono in ciò, che tutte sono le percezioni di un soggetto esterno ; son differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo soggetto : questi modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse qualità degli oggetti esterni, le quali sono perciò i diversi rapporti di questi oggetti con noi; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la natura de ' corpi, è incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel modo in cui ci apparisce ; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità relative », talchè il pensiero bensì è una realtà in sè, « ma l'estensione non è almeno certo se sia una realtà o un fenomeno e addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de ' corpi è meramente fenomenica . E però G. non può parlare se non di un oggetto soggettivo, di un oggetto termine essenziale del soggetto. Ma allora perchè contrapporre oggetto a soggetto, e sin tesi reale a sintesi ideale? Siamo sempre nella sfera del soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà luogo sempre a una sin tesi ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e l'idea ? Non rampollano entrambe dalla coscienza di se? Per metter d'accordo G. con se stesso dovremmo dire, che quello che ei dice sintesi reale e sintesi ideale non siano se non due gradi della sintesi soggettiva, qualche cosa di simile della sintesi di primo e di secondo grado, che Spaventa e Tocco han rilevate in Kant. Vale a dire, bisognerebbe anche la sintesi reale ritenere pura operazione soggettiva; ma non tanto soggettiva quanto la ideale, perchè l'una si esercita su una relazione che la coscienza, questo ultimo motivo, questa. norma suprema della verità, attribuisce al mondo esterno, lad dove l'altra non ragguaglia che termini aventi un valore logico. La sintesi reale coglie, diciamo così, i rapporti degli individui, in cui, secondo G., consiste la realtà; la sintesi ideale coglie, invece, i rapporti che intercedono tra le idee generali, già formate per la forza analitica e sintetica dello spirito. Di modo che la materia della sintesi reale è oggettiva, nel senso che di Elem. di Psicologia. Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero, dice G., Saggio, Saggio] cemmo poter avere per G. l'oggetto; e la materia della ideale è una pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da es sere sempre la fonte della verità, se noi non possiamo parlare di altra verità, se non di quella che tale apparisce alla coscienza, i rapporti che si scoprono dall'attività sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti reali, e si potrà pur dire che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è attestato dalla coscienza); e i rapporti che dalla stessa attività sintetica si scoprono nella materia soggettiva, non possono avere più che un valore logico, perchè sono rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo di G. non sono reali. Alla coscienza i rapporti appariscono tali quali appariscono i termini che essi connettono; fra termini oggettivi, rapporti reali; fra termini astratti e soggettivi, rapporti ideali. I termini infatti non possono essere percepiti per quel che sono, se non coi loro rapporti, coi quali e pei quali vengono ad essere quei dati termini. Ma allora non bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi da quella della sensibilità (o coscienza ), come fa G.; perchè la sensibilità come tale non potrà mai percepire un rapporto, come bene avverte G. stesso. Allora bisogna andare molto più addentro, che questi non sia andato, nel concetto dell'unità del me. Certo è che G., mosso a scrivere il suo Saggio, che è la sua opera capitale, dal bisogno di assodare la realtà del conoscere contro la critica di Kant, non riesce a distrigarsi dal soggettivismo nella epistemologia; e nella gnoseologia vi riesce solo contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto, che non è tale se non per un dommatismo preso dalla coscienza volgare, e che non può non metter capo nella tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica. La sua stessa critica perpetua di Kant, e quell'oscillare continuo tra le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol [SERBATI scrive al p. Giacomo Maso et Roma: Pare a lei che la filosofia di G. è veramente sana? Noti bene, non metto in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera stima. Parlo solo della sua filosofia. Di questa dubito, o piuttosto non dubito; perocchè agl’occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto-uomo, e nel soggetto-uomo non vi ha nulla d’immutabilo: manca il punto fermo a cui appoggiare la leva. Vedi La Sapienza] evato dal Kant, e insieme la sua impotenza ad uscire da quel cerchio sconfortante segnato dal filosofo di Koenigsberg attorno allo spirito umano; l'impotenza in cui rimase per non essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il primo della sua costruzione filosofica. E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa se siano filosofi che ragionano, oppure frenetici che delirano, il saggio filosofico finisce anch'esso nella tristezza del mistero: La scienza umana è limitata. Essa può successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi limiti. Non è più reciso l'ignorabimus di Reymond. E il primo limite dello spirito umano, secondo G., è questo: noi abbiamo una nozione generale della sostanza, ma noi non conosciamo affatto la natura, o come suol dirsi, l'essenza di ciascuna sostanza in particolare. E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite: ignorando le prime sostanze, ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i loro effetti; e l'efficienza è per noi un mistero. Dunque nè anche nel ritener soggettivo il rapporto di causalità ha poi un gran torto Kant! Ma tutto quello che è incomprensibile, non è mica assurdo, avverte G.; e questo basta a salvare la creazione. Terzo limite: noi ignoriamo affatto le qualità assolute de’primi componenti de'corpi; noi conosciamo alcune qualità relative di alcuni aggregati delle prime sostanze della materia. I corpi non sono tali quali a noi si manifestano. E questo, in verità, è un po ' più di quel che sostiene Kant: pel quale, se il NOUMENO va distinto dal fenomeno, appunto perchè ignoto, non si può dire che differe dal fenomeno stesso. Differe? Non differe? Se a queste domande si desse una risposta, non si ha più un noumeno. Qui, dunque, G. è più kantiano di Kant. Quarto limite: la conoscenza importa successione, processo, passare da un principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne [Passo del Saggio che CREDARO raccomanda a coloro che fanno di G. un kantiano; ni kantismo in Romagnosi, Riv. ital. di filos.Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d . Naturerkenntniss, Lipsia; e LANGE, Gesch. d . Materialismus, Iserlohn Saggio Saggio, lui gazione assoluta di ogni successione: in questo essere infinito non vi è alcuna cosa che precede l'altra; perciò la sua natura ci è perfettamente inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici intanto non si credono tutti incapaci di comprendere la natura divina; ma uno di essi, e de' più moderati, GENOVESI (si veda), avendo tentato, per esempio, di concepire in che modo questo mondo è architettato dal divino progenitore, non è riuscito che a una spiegazione contraddittoria. Il volere spiegare l'atto creatore intelligente è una contraddizione; poichè è un supporre qualche cosa antecedente a (come GENOVESI (si veda) è costretto a porre nel divino progrenitore prima l'essere e poi il conoscere, prima il conoscere e poi il volere o l'operare. Questo è incomprensibile, e lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria proposizioni che non hanno forse il rigore scientifico della dialettica trascendentale, ma che riescono, mi pare, al medesimo risultato. Che più? Kant riconosce come tutti i filosofi il grande valore delle matematiche; ma anche in esse G. trova dei limiti. Noi conosciamo esattamente, egli dice, le relazioni logiche tra le nostre idee astratte; e ne son prova l'aritmetica e la geometria. Ma noi non conosciamo tutte queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e la conoscenza di queste relazioni non si estende quanto le nostre idee. La nostra scienza è percið molto limitata sotto tutti i riguardi egli conclude: ed è la conclusione del Saggio intero, vale a dire della sua filosofia sperimentale. Questo mi pare criticismo schietto, sufficiente di certo a fare ascrivere G. alla direzione kantiana, pur con tutte le sue più o meno ragionevoli invettive contro il soggettivismo di Kant; se anche Testa, che altri dice l'unico kantiano che abbia avuto l'Italia, è pur persuaso che Kant, distruggendo il sensismo, non fosse riuscito a sostituirvi altro che un sistema soggettivo che distrugge la scienza verace. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo galluppiano, e ben più che le sue dichiarazioni e le sue proteste, che non [Vedi il capo X ed ultimo del lib. IV del Saggio . CREDARO, Testa e i primordii del kantismo in Italia, Rendic. Acc. Lincei. Vedi dello stesso CREDARO Il kantismo in Romagnosi (Riv. it. d. filos.), dove si oppone a chi fa di G. un kantiano, uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. Come scrive nel suo ultimo libro La mente di Taverna, Genova hanno o non dovrebbero avere molto valore per la valutazione del critico, alcune speciali dottrine, che basta accennare brevemente. E in primo luogo: rifiuta nientemeno che la stessa sintesi a priori, che è come dire il nocciolo sostanziale del kantismo. La distinzione che la scuola trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i giudizii sintetici a priori è assurda. Queste son parole di G.. E qui non si tratta di una semplice affermazione. C'è anche la prova. Se le due idee A e B non hanno alcuna identità fra di esse, lo spirito non può riguardarle che come distinte, e senz'alcun legame fra di loro: è impossibile, dunque, ch'egli vi percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di esse: dire in conseguenza che lo spirito dee percepire necessariamente un rapporto di convenienza fra due idee diverse è affermare che lo spirito puo pronunciare una contraddizione evidente. Tutt'i giudizi necessarii debbono, in ultima analisi, risolversi nel principio di contraddizione: essi son dunque tutti analitici, ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii. Ammettere dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione è un assurdo manifesto. Se lo spirito non vede alcuna contraddizione nell'opposto di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come necessario. I giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere. Somiglia non po’, a dir vero, al ragionamento di quel tale aristotelico restio agl'inviti di GALILEI (si veda) di guardare attraverso il cannocchiale. Ma è il ragionamento di G.; e questo basta allo storico, il quale dirà che il filosofo di Tropea, chiuso nel cerchio della logica formale e nel ferreo apriorismo delle sue regole, non puo ammettere e non ammise il risultato principale della Critica kantiana, che è la sintesi a priori. In effetto, egli dice negl’elementi di logica pura, un principio sintetico, puro, a priori come Kant lo suppone, è una cosa contraria alle nozioni fondamen tali di una sana logica. Infatti, egli soggiunge, prescindendo dall'esperienza, nella sfera delle mie idee, io non posso unire B con A, se non riconoscendo che B è uguale ad A, o ne fa almeno parte. Che se B eccede A in estensione in valore, come potrei attribuire ad A, come sua proprietà, tale eccedente di B, non ritrovato in A? Saggio. Così la critica del Saggio è confermata negl’elementi con esplicito appello alle leggi della logica formale, per la quale certamente non è possibile la sintesi a priori kantiana, perchè l'identità non è conciliabile colla differenza, e se la necessità richiede l'identità, rifugge dalla differenza. È inutile mostrare il valore della critica galluppiana, fondata come quella di Degerando con cui va raffrontata, e quella stessa di SERBATI, sopra l'intelligenza della sintesi a priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion pura (nella 2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione di predicati a soggetti, onde siano già belli e formati i concetti; bensi nella formazione medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto G., a proposito di Kant, ma riproduce, del resto, e risolve egualmente nella sua teoria dell'analisi e della sintesi, che, munite dei rapporti soggettivi dell'identità e diversità, servono anzi tutto alla formazione delle idee, e nella sua teoria del giudizio, essenzialmente distinto dal sentire, e necessario alla percezione di qualsiasi rapporto. Questa della sintesi a priori è uno dei motivi prediletti della critica italiana intorno alle dottrine del Kant, e ricorre spesso nei saggi di G. Ma non è la sola teoria kantiana che egli [Ma, so sintesi a priori e logica formale sono assolutamente inconciliabili, non bisogna conchiudore: dunque, aut aut: o si rifiuta la sintesi a priori, o si rifiuta la logica formale. Su questo punto si fa molta confusione. Vi torna su in un lavoro; qui vuole solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a priori fa parte della teoria della formazione delle conoscenze; laddove la logica formale studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle conoscenze in sè; e notare, che, se il pensiero non ha da essere un quissimile del vano lavoro delle danaidi, non s'ha da far consistere solo in un accroscimento delle conoscenze, ma anche in un'intuiziono delle già acquisite. Un anonimo nota in un opuscolo molto arguto e tagliente contro il nuovo professore dell'università che le belle ed acute riflessioni, con cui G. combatte negl’elementi della logica pura il giudizio sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. Vedi : Degl’lementi e della Introd. allo studio della filos. del celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli, De Bonis. L'opuscolo reca di Napoli. Scritto con molta vivacità e castigatezza di lingua, rimprove a G. l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria e dall'algebra, l'ignoranza in generale delle scienze fisiche e naturali, la scarna o niuna cognizione dei classici antichi combatta. Anzi, non v'è quasi teoria esposta nella critica della ragion pura che venga risparmiata nel saggio galluppiano e nelle parti delle altre opere che ne dipendono. Lo spazio, il tempo, le categorie, lo schematismo, la dialettica trascendentale gli offrono materia di lunghe e energiche discussioni, il cui scopo è sempre la confutazione di Kant. Aggiungi le frequenti proteste contro il trascendentalismo e l'idealismo, che per G. equivalgono allo scetticismo, proteste nelle quali G. unisce a Kant Fichte e Schelling, per quel poco che ne puo conoscere da traduzioni o esposizioni francesi; ed è evidente che il lettore sbadato e il critico ottuso non potessero e non possano vedere il filosofo di Tropea che agl’antipodi di quello di Koenigsberg. Il vero è che per un'esatta intelligenza delle dottrine di questo, il primo incontra insormontabili difficoltà nei limiti della sua cultura; la quale non si estende oltre la letteratura filosofica italiana e francese e alle traduzioni (allora pochissime e affatto insufficienti) che ci sono in queste lingue delle opere tedesche. Quello che puo intravvederne indirettamente, è naturale che gli dove riuscire oscurissimo, e restargli innanzi con tali lacune, che s'egli ne ha coscienza, non è certo provato alla critica della filosofia tedesca. Egli, scrittore chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza, manifestamente soffre nello studio che puo fare di quegli scrittori. Nella critica di Fichte, sforzandosi d'intendere il vero signifi della filosofia, la leggerezza nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la pedanteria e confusione del metodo analitico imitato dagl’ideologi, e perfino i barbarismi e l’improprietà di espressione. L'opuscolo pare fa una certa impressione. Galluppi risponde col silenzio. Ma i suoi pupilli con due opuscoli: D’un giudizio dato d’ignoto giudice sur alcune parole del chiarissimo B. P. G. appella MORENO, Napoli, Trani; Al giudizio dato d’un anonimo su talune opere del chiarissimo P. G. risposta di PISANELLI, Napoli, Ruberto o Lotti. Curioso l'opuscolo di Pisanelli nella parte in cui difende G. scrittore, per l'enfatica digressione che vi è contro il purismo. Per questa parte invece Moreno riconosce che G. non è puro elegante e gentil dicitore; il che non toglie ch'ei è, alla sua volta, pessimo scrittore. Vodi le Considerazioni filosofiche sull'idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto, Napoli. Di Schelling non pare che conosce nulla di originale, all'infuori della trad. francese di Bruno. Di Fichte cita la trad. francese della Bestimmung des Menschen.] cato della costui dottrina dell'io puro, dichiara ai colleghi del l'Accademia francese. Qui l'oscurità alemanna comincia ad affliggermi. Io che non amo ne' discorsi filosofici, se non che la chiarezza e la precisione, son qui circondato dalle più dense tenebre. E termina la sua memoria invocando le regole wolfiane De stylo philosophico, e domandando agl’amici della verità e del progresso della filosofia, se lo scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello, in cui è scritta la teogonia d’Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o pure verso l'errore. Altri più recentemente si son lagnati dell'oscurità di alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del bello stile. Ma, come nel caso di G., molto spesso l'oscurità che si vede negl’autori, non dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza nostra a intenderli; chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non procuri in ogni modo e con ogni mezzo d'intendere. Comunque, la dottrina di G. è cosa ben distinta e diversa dalla sua intelligenza e dalla sua critica di Kant; e della prima è indubitabile che s'ispira a Kant e non riesce a risultati essenzialmente differenti. In sostanza egli è più kantiano di Kant. Questi, criticata la ragion pura, nega il valore scientifico, oggettivo, della metafisica, ma le riconosce un ufficio regolativo [CF. STRAWSON, PROFESSOR OF METAPHYSICAL PHILOSOPHY], e scrive una metafisica della natura come una metafisica dei costumi. Ma G. si rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare parola giobertiana; e, pienamente conseguente alla sua filosofia dell'esperienza, tiene fermo alla dottrina dei limiti della scienza umana; e alla metafisica sostituisce l'ideologia. La sua cattedra ufficiale è di logica e METAFISICA. Ma egli nella Prolusione annunzia che tratta della filosofia teoretica, ossia della scienza dell'umana scienza, e da pertanto la legislazione suprema di tutte le scienze. La metafisica tratta, egli dice, delle idee essenziali all'umana ragione. Nella prima lezione rifiuta la definizione della filosofia data da Wolf, sostenendo che egli volle una [Ricordo per semplice curiosità che sostenne il kantismo di G. RoDRIQUEZ, Lett. sulla filos. sogg . ed oggettiva DEL BARONE G., Messina; cui rispose SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc. Napoli, Fernandes, Lezioni di log . e METAFISICA] definire piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel suo enunciato che Deus est philosophus absolute summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il difetto ascrittole appunto da Kant, di confondere la cosa con l'idea della cosa. Nella seconda lezione commenta il suo concetto della filosofia come scienza del pensiere umano ne’suoi elementi, nelle sue funzioni e nelle sue leggi; nozione, fa notare, della più alta importanza. Prevede la possibile osservazione. Ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia? E la ontologia, la cosmologia, la teologia naturale, la fisica? Queste scienze, risponde G., in parte si riducono alla ideologia, scienza del pensiero, e in parte escono fuori dal campo della filosofia. L'ontologia studia alcune nozioni universali, essenziali all'umano intendimento; e la dottrina delle nozioni, delle idee non appartiene forse alla scienza del pensiero? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia naturale. Sicchè G. conchiude. Tutte le parti dunque della metafisica appartengono alla scienza del pensiere umano. Quanto alla fisica, in parte è filosofia (psicologia, per le relazioni che questa scienza studia tra i fatti fisici quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi, e teologia); e in parte, quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a rigore alla scienza del pensiero, è nondimeno una scienza che le è contigua, e che serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellettuale. Sicché la metafisica, nel sistema du G., è bella e ita assolutamente. E se la filosofia per lui si divide com'è detto nella lezione in filosofia speculativa o teoretica, che studia l'anima (soggetto del pensiero) in quanto conosce, e in filosofia pratica, che studia l'anima in quanto vuole, è chiaro che nè anche questa puo essere fondata su alcun principio metafisico. Kant non arriva a questo punto. Ma prima di accennare i principii di G. nella filosofia pratica, bisogna fare un'altra osservazione generale, che ci pare di non poca importanza. Nella Prolusione G., vantando le ragioni del metodo sperimentale, avverte che non bisogna però mutilarlo. Anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne’suoi risultamenti; ne confonderlo con l'empirismo; giacchè la filosofia intellettuale, come egli chiama quella che insegna, non ammette solamente quelle esistenze, che cadono immediatamente sotto l'esperienza; ma quelle ancora, che l’esperienze sperimentali suppongono necessarie. Quindi ella deduce tanto dall'esistenza del mondo materiale, che da quella del mondo intellettuale, che a noi si manifesta, l'esistenza eterna d’un’intelligenza creatrice. E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia, partendo dal cielo empirico, pone un cielo razionale. Il cielo razionale sarebbe il cielo costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del calcolo, della geometria e del raziocinio, onde si sbalza dal centro del planetario sistema la terra, e vi si pone il sole; si trasforma in masse di meravigliosa grandezza quei piccolissimi corpi, che sembrano tanti chiodi affissi nel firmamento, si determina le distanze, le orbite ed i tempi delle rivoluzioni de’pianeti. Sicché, per G., anche la filosofia intellettuale, la ideologia, la filosofia dell'esperienza, con tutti i suoi limiti, ha il suo cielo razionale; come l'ha del resto il criticismo con la sua cosa in sé. Ma la cosa in sè per Kant è un puro concetto limite, di cui s'afferma l'essere non il come; che si afferma, non si conosce; laddove G. dedica tutta la seconda parte della sua ideologia, che intitola Teologia naturale, allo studio dell'assoluto e de’suoi attributi, come se Kant non è mai esistito. Il nome di questo qui non ricorre se non nelle ultime pagine, dove è detto insensato il suo impegno di contrastarci la possibilità di una teologia naturale e filosofica. Ma tutta questa parte evidentemente è non solo in contraddizione con la critica kantiana, ma anche con lo stesso Saggio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella dottrina dei limiti della scienza. Che dire adunque del vero pensiero di G.? È vero, come è detto nel saggio, che lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria? O è vera la teologia delle lezioni? Le due dottrine sono certamente inconciliabili. E io non dubito d’asserire, che se G. non scrive le lezioni per i suoi pupilli a NAPOLI in uno de’periodi di più cupa servitù intellettuale che attraversa il pensiero italiano, la seconda parte dell’ideologia non sarebbe stata scritta. Questa opera, dice l'autore nella prefazione delle lezioni, non è mica la ripetizione dei miei Elementi di filosofia nè di altra mia opera antecedente. E nota altresì che serbando le leggi essenziali di un metodo, può questo ricevere delle variazioni accidentali. Intende egli alludere alla teologia naturale, di cui tratta per la prima volta in queste Lezioni? Si noti che non parla di nuovi svolgimenti del suo pensiero, ma di variazioni di metodo; onde non puo accennare a parti ora per la prima volta trattate della sua filosofia che non importa alcuna modificazione di principii. Si noti anche che la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima. Solo alla fine d’una lezione, dell’ideologia, l'autore dice. L'essere è o finito o infinito. Io divido perciò l'ideologia in due parti, nell'ideologia del finito ed in quella del l'infinito. E in questa distinzione così accennata è tutta la ragione della teologia naturale o ideologia dell'infinito, cui son dedicate le ultime lezioni del corso. Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore; e questi le fa sempre sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti, rispetto a quella filosofia dell'esperienza, onde G. si proclama sempre assertore le fa sempre sgorgare, bene o male, dalle dottrine per l'innanzi professate, le pone, bene o male, in accordo con esse, per rimanere esso stesso d'accordo con sè medesimo. Nell'opera di G nulla di tutto questo. Io propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle lezioni nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le detta e le pubblica contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza filosofica. Egli pensa certamente quanto scrive e insegna degl’attributi divini; ma quella parte del suo pensiero non è stata da lui elaborata filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione. Chi insegna e non s'è trova nel caso del nostro filosofo, di esser costretto da un programma a insegnare anche ciò che il suo spirito non ha maturato e fatto suo, e insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà, e in cui è pur bene che sia offerto all'intelletto del pupillo? Chi non si trova a dover insegnare qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir di sapere, o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso? Chi oltre a ciò che, per sè e per altrui, deduce chiaramente da’propri principii non ha insegnato qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè per altrui nè per sè? G. non ha per sè una teologia più filosofica di quella che è esposta nelle [Della religione tratta anche negl’elementi di filos. morale. Ma se la sbriga in un breve capitolo, che non ha nessuna pretensione filosofica, e si limita a una semplice notizia molto compendiosa del concetto della religione cristiana.] sue Lezioni; in questa fermasi il suo pensiero; ma stimo che non vi s'acquetasse; perchè una consapevole o inconscia insoddisfazione dove fargli sentire che nella sua filosofia dell'esperienza non c'è posto per quella teologia. S'è accennato che sulla fine della teologia naturale l’autore si ricorda dell'impegno insensato di Kant di contrastare la possibilità di una teologia. E che fa egli per combattere l'assunto kantiano? Scrive così. Kant insegna che i giudizii su cui la teologia naturale – cf. WILDE’S READERSHIP IN NATURAL THEOLOGY -- e filosofica poggia, sono sintetici a priori e fenomenici, privi di una assoluta realtà. Egli dice che le verità necessarie della teologia naturale non sono mica identiche, ma sintetiche; e che le verità di fatto non sono che mere apparenze, che fenomeni privi della realtà noumenica ed assoluta, indipendente dal nostro modo di vedere. G., nella critica della conoscenza segue passo passo la dialettica kantiana; e volendo parlar con giustizia, non può negarmisi, che l'ha invincibilmente distrutta. G. mostra che i giudizii sintetici a priori sono assurdi; mostra eziandio che le verità sperimentali ci danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate. Questo è tutto. Ora, poniamo che è esatta l'esposizione del pensiero del Kant. Ma la critica della sintesi a priori non giustifica, tutto al più, che la posizione dell'assoluto, come avviene per l'appunto nel Saggio dello stesso G.; dove partendo dalla pretesa impossibilità dei giudizii sintetici a priori, si dice, contro Kant, che non è tale neppure il principio: dato il condizionale, si deve dare l'assoluto; e si conchiude quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé, non fenomenico, e che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto. E nel Saggio tutto finisce li. E la conclusione dell'opera è quella che ab [Acoopna al Saggio filosofico; Lez. Quindi accenna alle critiche che alla sua confutazione della sintesi a priori aveva mosse ROVERE (si veda) nel Rinnovamento e lo ribatte. Un'ottima osservazione contro questa deduzione fa col suo solito acume Tesia, il quale crede come SERBATI che G. non mova un passo fuori del soggettivismo. È falsa, egli dice, la premessa che il condizionale sotto il rispetto del condizionale sia un termine dato dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e sentimenti. Ma le sensazioni non sono il condizionale? Si, sono, ma non ci sono date come tali dall'esperienza. La qualità d'essere condizionale è una veduta dello spirito, non è nella sensazione, opperò non è trovata nella sensazione. Vedi Le ricerche apolog. del crist, del popolo da Bignami esaminate, Lugano] biamo vista. Gli attributi divini son dichiarati incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla cosa in sè kantiana. Ma nelle lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la scienza del l'assoluto; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si limita ad affermare che mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di causa e dell'assoluto, il criticismo è rovesciato, e la realtà della conoscenza è stabilita. Sono le ultime parole delle lezioni; ma potrebbero essere a miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle si cerca di provare qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente possiede dell'assoluto. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente di G. la stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia dell'esperienza, la sua etica non avrebbe mancato di esservi subordinata. Invece ne è assolutamente indipendente. Anzi, pure inspirandosi all'idealismo kantiano, non tiene affatto conto dell’esigenze sentite dal Kant nella Critica della ragion pratica e nella FONDAZIONE DELLA METAFISICA DEI COSTUMI. Forse egli non conosce nulla direttamente di queste opere, e della morale kantiana non dove avere che l'indiretta notizia fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con certi critici, che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà non contengono nulla di nuovo, anzi, di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vecchio rancidume metafisico e teologico. Chi giudica così non deve avere grande familiarità con questo rancidume, e certo è assolutamente falsa la sua sentenza, che la morale galluppiana sia ispirata all'idealità patristica e scolastica. Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella morale. Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di tutto osservare, che G. insegna filosofia teoretica o, com'egli dice, intellettuale; e non v'ha quindi occasione di trattar mai la morale. Ma egli pubblica un volumetto del suo manuale scolastico, gl’elementi della FILOSOFIA MORALE [cfr. AUSTIN, WHITE’S PROFESSOR OF MORAL PHILOSOPHY, dopo Hare]; e prima d'assumere l'insegnamento scrive La filosofia della volontà, Vedi l'art. La speculazione di P. G., Rivista di filos, e sc. affini di BOLOGNA. In essa, secondo che egli dichiara nella prefazione, si propone di trattare in un'opera estesa lo stesso argomento di quegl’elementi, ma col metodo stesso del saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame delle varie dottrine relative ad ogni materia. Ma non dove aver compiuto il lavoro prima di salire la CATTEDRA di logica e METAFISICA; e non pare che vi sia potuto più tornare; sicchè non tutte le parti del volumetto degl’elementi vi sono riprese e novellamente trattate con quella maggiore larghezza, che l'autore s'èproposta. E il disegno di essa, delineato sulla traccia degl’elementi, gli rimase colorito meno che a metà. Nella Filosofia della volontà comincia dal distinguere nell'uomo l'agente fisico della natura, disposto o mosso ad operare pel fine della propria felicità, e l'agente morale, disposto o mosso ad operare dal principio del proprio dovere. Distingue anche i movimenti che nel corpo umano si osservano, in meccanici, che non dipendono dalla volontà, e volontari, per cui sol tanto l'uomo può dirsi agente. Chiama quindi filosofia della volontà quella scienza che fa conoscer l'uomo considerato come un agente; e divide questa scienza in quattro parti. Nella prima, dice esamino l'uomo considerato generalmente come un agente. Nella seconda l’esamino sotto l'aspetto d’agente morale. Nella terza sotto l'aspetto d’agente fisico. E nella quarta finalmente l'esamino riguardo alla sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte; e ciò in conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi. Questo il disegno. Ma delle quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo del quarto trattano solo la prima. Gl’ultimi due capitoli di questo quarto volume e dell'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta negl’elementi; e DELLA TERZA E DELLA QUARTA NON C’È NULLA; laddove negl’elementi l'una, intitolata De' mezzi per esser felice, è trattata con relativa larghezza, e dell'altra c'è pure un cenno col titolo, Della religione. Sicché, quantunque l'autore appaiasse questa sua filosofia della volontà col saggio filosofico, come l'opera contenente la sua filosofia pratica accanto a quella contenente la [I primi due volumi, presso Giachetti in Napoli; il 3.° vol., presso la stamperia Tramater in Napoli. La dedica al MARCHESE DI PETRACATELLA reca Napoli] a sua filosofia teoretica; è evidente, che se la filosofia della volontà presenta discusse con grande ampiezza questioni brevemente accennate negl’elementi, di questi non può fare meno chi voglia acquistare un concetto compiuto delle teorie pratiche galluppiane; e in essi deve principalmente attingere quella parte di coteste teorie, che spetta più propriamente alla morale. Dal disegno stesso dell'opera maggiore si scorge un pregio non comune in questo ramo della filosofia del nostro: voglio dire la pienezza del suo concetto dello spirito pratico. Egli, com'è chiaro già da quelle semplici indicazioni, non vede tra la felicità e il dovere quella dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica prima di Kant e nello stesso Kant; quella dualità che finisce inevitabilmente, secondo l'uno o l'altro pensatore, o con la negazione dell'uno o con la negazione dell'altro principio, o nel concetto puramente utilitario o in quello del puro disinteresse. G. vede che sono due i fini dell'umano volere: due fini però conciliabili tra loro, sì che uno non importi la negazione dell'altro. L’uomo infatti è agente fisico e agente morale insieme; e per es sere agente fisico non cessa di essere agente morale; e viceversa: segno manifesto, che tra i due fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione perentoria dell'utilitarismo (UTILITARIAN, FUTILITARIAN) dal punto di vista etico sta in questo concetto, che G. vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che ora ne daremo. Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira adunque intorno all'attività in generale dell'uomo: è, come noi diremmo, una semplice psicologia pratica. Parla quindi del desiderio, della volontà, dell'influenza della volontà sull’intelletto, e viceversa, e in generale dei principii motori della volontà, e della libertà umana. Questa è la trattazione più ampia, e occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della Filosofia della volontà. Non avendo voluto G. lasciare senza risposta nessuno degl’argomenti che sono stati addotti contro l'esistenza del libero volere. Della volontà il nostro dice che non può definirsi. Ne fa una facoltà, avvertendo bensì, che le diverse facoltà, che concepiamo nel nostro spirito, non sono certamente tanti agenti diversi: esse non sono che lo spirito stesso considerato relativamente ad una determinata specie di modificazioni, che avvengono in lui. Si potrebbe intendere per volontà la facoltà [Quindi, secondo l'autore, è volontà il nostro spirito stesso considerato relativa di volere; ma questo come ogni atto semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti avere la nozione che dirigendo la nostra attenzione sul sentimento che abbiamo di questo atto, ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza. La volontà senza gl’atti di volere è indeterminata come volontà; è lo spirito stesso in generale. La determinazione della volontà è la produzione de’voleri particolari; e siccome, dice G. stesso, lo spirito è il principio efficiente de'voleri, così può dirsi tanto che lo spirito determina se stesso, quanto che la volontà determina se stessa. La volontà, come nota Locke, va ben distinta dal desiderio. Un idropico, malgrado il desiderio di bere, si astiene dall'acqua. Egli dunque DESIDERA DI BERE, ma NON VUOL bere. In tali casi vi sono desiderii opposti, fra i quali la volontà si determina. Per G. tra desiderio e volere c'è una recisa differenza. Quello non è, come ordinariamente si crede, un fatto d'attività dello spirito, ma, come oggi si direbbe, un fatto puramente emotivo; quel misto di piacevole e di spiacevole onde lo spirito è affetto per la percezione d'una sensazione in se stessa piacevole, ma assente, e però causa d'un dispiacere tanto maggiore, quanto più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà provata, Quando, come fa Wolff, si vede nel desiderio uno sforzo, un'avversione, un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o si confonde col desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto. Sforzo, tendenza, inclinazione, allontanamento son tutti vocaboli, che applicati all'anima non presentano alcun senso. Come dal desiderio, la volontà va distinta dall'intelletto; sicchè può parlarsi di un'influenza esercitata dalla volontà sul l'intelletto, come di un'influenza esercitata dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima, G. vede un potere della volontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito può esporre o pure sottrarre i propri sensi all'azione de’corpi esterni; e quindi procurarsi o privarsi di alcune date sensazioni. Quindi mente a quella specie di modificazioni, che abbiam chiamato voleri. Insomma, gl’atti singoli presuppongono un quid nella natura dello spirito; o questo quid è la volontà. Filos. d. vol., Psych, emp. L'autore s'accorge che questo potere della volontà si esercita indiretta ci parla di sensazioni volontarie e sensazioni involontarie; e come i desiderii sono un effetto delle sensazioni, trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii involontari; e come anche i fantasmi seguono le sensazioni, anche tra i fantasmi pone la stessa distinzione nel campo dell'immaginazione. Quando si passa dalla sensibilità alle facoltà dell'analisi e della sintesi, non si tratta più di un potere indiretto, ma im mediato della volontà sull'intelletto; e dicesi attenzione; nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e acutezza, che fan degne quelle pagine di esser lette ancora, pur dopo tanto progresso nella conoscenza dei fenomeni psicologici. E come l'analisi e la sintesi sono le due attività spirituali onde vengono prodotte tutte le conoscenze, l'impero su di esse vale l'impero su tutto il conoscere. Che più? L'associazione è anch'essa volontaria e involontaria. L'abito, questa seconda natura morale, può dirsi anch'esso volontario, quando consta della ripetizione volontaria di atti volontari; e conferisce a quell'educazione onde ognuno è responsabile, poichè egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii sono colpevoli, perchè volontari; in essi l'attenzione si volge a fantasmi, cui non dovrebbe rivolgersi, e l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei fantasmi deriva, confondendo l'immaginare col giudicare. Infine, da questo impero della volontà sull’intelletto la distinzione dei moralisti di ignoranza vincibile e invincibile. In quanto all'influenza dell'intelletto sulla volontà, è chiaro: che la vita dello spirito, come nota G., comincia dalle sensazioni. Ora queste, secondo che sono piacevoli o no, determinano lo sviluppo dell'attività dell'anima; suscitano i desiderii che influiscono sulla volontà. Quindi nasce il problema: in quanti modi l'intelletto influisce sulla volontà? E se ciò che nel nostro spirito dispone o eccita la volontà all'atto di volere, dicesi principio attivo della volontà, si domanda: quanti sono i principii attivi della volontà? E non sono RIDUCIBILI TUTTI AD UN SOLO PRINCIPIO, come sue varie modificazioni? Elvezio concentra tutti i principii dello spirito nella fisica sensibilità. Ma, annientata così tutta l'attività dell'anima, e mente; ma non vede che pertanto in questi casi trattasi d'un impero del volere sul corpo, e non propriamente sull'intelletto. Tutta questa dottrina dell'influenza della volontà sull'intelletto è anche negl’Elem. l’uomo riguardato come solamente sensitivo ed animale, la virtù nei saggi d’Elvezio scomparve dall'universo, e vi è rimpiazzata da un grossolano egoismo. L'uomo per Elvezio è tutto ciò che le cause esterne lo fanno essere. Egli rica le conseguenze logiche più rigorose dal sensismo del Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e per la religione, ma non ragiona coerentemente al suo principio della sensazione trasformata. Elvezio parte dallo stesso principio, e ne deduce illazioni che fanno orrore. Ma, come è falso nella filosofia intellettuale che tutto sia sensibilità fisica o da essa derivi, com'è falso ridurre il giudizio che è attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo della sen sazione, così è falso nella filosofia pratica non distinguere dalla passività del senso l'attività e la libertà della volontà, e non riconoscere l'origine soggettiva del dovere. Non è vero che tutto lo spirito sia sensibilità; e perciò il presupposto elveziano è privo di fondamento. Non è vero che i piaceri e i dolori, che agiscono sul volere, sieno in ultima analisi sempre piaceri o dolori fisici provenienti da sensazioni; è incontrastabile, che vi sono anche piaceri o dolori intellettuali provenienti da pensieri. Quindi una prima divisione dei principii motori della volontà o motivi: desiderii inriflessi, quelli in cui lo spirito è passivo, e principii riflessi, in cui lo spirito è attivo. I primi si possono dire anche semplicemente desiderii, gli altri, ragioni. I principii irriflessi si possono ridurre a sette; appetito fisico (fame, sete, amor fisico), desiderio della propria eccellenza, curiosità, sociabilità, desiderio della gloria, emulazione e potere, affezioni. La ragione è principio d’atti volitivi come principio economico e come principio morale; o, come G. dice, in quanto esamina ciò che conviene alla nostra felicità, fa il calcolo dei beni e dei mali, e dirige le nostre azioni a produrre un certo stato dell'anima; e allora si chiama prudenza ; e in quanto ci mostra il bene e il male morale, e ci comanda di far l'uno e non far l'altro; e allora può dirsi ragione legislatrice della nostra volontà. I principii della prudenza sono quattro: un piacere che ci priva di maggiori piaceri è un male; un piacere, che ci produce maggiori dolori, è un male. Un dolore, che ci libera da maggiori dolori, è un bene. Un dolore, che ci produce maggiori piaceri, è un bene. A questo punto l'autore si propone la questione della libertà, alla quale dedica la maggior parte del l'opera sua, ma della quale noi ci sbrigheremo in poche parole. Questa è la parte più vecchia della sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della sua speculazione. In essa egli sente la forza del pregiudizio come impedimento insormontabile alla visione della verità più evidente; e ci si vede la sopravvivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'organismo del nuovo pensiero; anzi vi rimane aggiunta e giustapposta come membro morto che l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo. Dal suo concetto dell'unità metafisica dell'io, dal suo concetto delle facoltà come semplici principii costitutivi della natura dello spirito, G. avrebbe dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà, che non sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità, intelletto, e volontà, di cui fa tre facoltà distinte, ma pur facendole scaturire dall'unico io, non giunge a scorgerne la recondita unità. E veramente, separato l'intelletto dalla volontà, da ciò che v'ha d’umano, di spirituale nella volontà, non è possibile altro con cetto di questa, all'infuori di quel vuoto volere, che è il fondamento della libertà bilaterale. Questa è la libertà a cui giunge G.: la libertà per cui nell'atto stesso che vogliamo [GRICE SCRATCH MY HEAD], potremmo non volere; quel potere, che non si esercita, e la cui essenza stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo. Questa libertà del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la necessità del sillogismo. La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di tirare o non da due premesse quella data conclusione, laddove ci attesta il contrario rispetto ai singoli atti del volere. E siccome [Nella Filosofia della volontà tutto finisce con la enumerazione di queste leggi. Negl’Elementi invece, tutto un capitolo è dedicato ai MEZZI PER ESSER FELICE (CF. GRICE, SOME REFLECTIONS ON HAPPINESS). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera il piacere estetico; e quindi i passi contengono una breve trattazione di estetica. Elem. La libertà, io dico, è il potere di volere, o di NON volere un oggetto percepito; Filos. d. vol.] la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui il filosofo deve sem pre far capo, la sua testimonianza basta a provare la realtà della libertà. Tutti gl’argomenti contrari non reggono alla critica. Ma negl’Elementi G., prima di appellarsi al testimonio della coscienza, ricorre a un argomento, che rivela subito la paternità kantiana. Nella coscienza del dovere e del premio o delle pene che spettano all’azioni si comprende, egli dice, la coscienza della nostra LIBERTÀ (cf. GRICE FREEDOM). Non si comandano le azioni necessarie, come non si comanda ad un sasso il cadere se non è sostenuto (FREE FALL). Le azioni necessarie non sono riguardate come meritevoli nè di premio, nè di pena. La coscienza della legge interiore contiene la coscienza della propria LIBERTÀ (GRICE FREEDOM).Il comando suppone in colui, a cui è diretto, il potere di eseguirlo e di NON eseguirlo. Devi; dunque, puoi, dice Kant. Non bisogna, del resto, porre G. fra le anticaglie pel suo concetto della LIBERTÀ (GRICE FREEDOM). L’INDETERMINISMO ANZI È UNA DELLE CONCEZIONI OGGI ALLA MODA; E NON MANCA IN ITALIA DI RAPPRESENTANTI; i quali si sforzano di combattere il concetto della direzione unica ed unilineare degl’atti del volere, ponendo nello spirito un irriconciliabile dualismo, che lacera internamente l'unità dell'individuo umano, e sta quasi condizione necessaria, se non sufficiente, della libertà morale. E ancora uno dei più acuti psicologi che ha l'Italia afferma che il concetto del volere libero, cioè non coatto estrinsecamente (libertas a coactione), nè intrinsecamente (libertas a necessitate) è una verità, la quale, sebbene accanitamente combattuta da molti e sotto molti rispetti, resta sempre inconcussa per chi, scevro da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali, non si lascia smuovere da’sofismi ne turbare dalle difficoltà. Il vero è, che una questione mal posta non può aver mai la sua vera soluzione; e potrà sempre far accettare or l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è stata appunto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del volere, su cui si fonda. Giacchè, se si determina rigorosamente il volere, è impossibile escluderne la ragione, e non vedere quindi, che se han torto gl’indeterministi a difendere la libertas Filos.; cfr. gli Elem. Vedi il lodato saggio di PETRONE, I limiti del determinismo scientifico, Modena, Roma; cfr . BOUTROUX, De la contingence des lois de la nature, Paris. BONATELLI, Elem. di psicologia e logica, Padova]a necessitate, non hanno minor torto i deterministi a combattere la libertas a coactione: gl’uni perdendosi in una vuota creazione dell'intelletto astratto, gl’altri rompendo nello scoglio fallace del meccanismo. E dire che non è mantato chi ponesse bene la questione, e le desse quindi una soluzione da soddisfare le opposte esigenze e dissipare tutte le difficoltà! Stabilita, comunque, l'esistenza della libertà morale, si tratta per G. di risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale? E ne chiede la soluzione, anche questa volta, alla coscienza. L'esistenza del bene e del male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una verità primitiva attestataci dalla nostra coscienza. Darne una dimostrazione è impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi, al pari di chi volesse provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro conoscere. La coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed originaria che si dice dovere: indipendente dalla legge positiva, come dall'opinione altrui, valida nel segreto dell'anima nostra. Donde viene a noi la nozione di essa? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di non uccidere un uomo, di RENDERGLI IL DEPOSITO, CHE MI HA CONFIDATO? È la mia ragione, la quale comanda alla mia volontà. Son io che comando interiormente a me stesso. Questo comando non mi viene dunque dal di fuori; ma dall'interno del mio essere. Il predicato dei giudizii morali è l'idea del dovere; e questa idea viene da noi, dice il nostro filosofo, non dagl’oggetti. La nozione del dovere, egli dice anche esplicitamente, è una nozione soggettiva essenziale alla nostra ragione. Meglio non si potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità patristica e scolastica! Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione avrebbe potuto pronunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo. Soggettivo il dovere, ma anche essenziale: questa è la giusta definizione non solo del vero soggettivo, ma anche del vero oggettivo, dopo Kant, quando bene s'intenda. E nella morale G. riproduce Kant bene inteso, senza esitazioni e senza limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di sincerità commovente. È questa una verità per me evidente, e credo che tale sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede. Filos. d. Vol. Tutto ciò trovasi anche negl’Elementi. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o legislativa (tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla ragione, e perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii della morale, ossia i singoli doveri. Non uccidere: se questo precetto fosse innato, dovrebbe esser tale anche l'idea d’omicidio, la quale ci viene invece dall'esperienza. L'uomo è però costituito di tal natura, che la nozione del dovere sorte, nelle occasioni, dal suo proprio fondo. Insomma, quel che vi ha di a priori in G., come in Kant, è la forma del giudizio pratico; e la materia è data dall'esperienza. In che consista il dovere, non è determinato in quella nozione soggettiva ed essenziale, che costituisce la Ragion pratica. Di a priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti etici non havvi che il predicato onde si giudicano le azioni morali: cioè appunto la forma. Soggettivista come Kant, G. è del pari formalista nella morale. La nozione del dovere, egli dice, sorte dall'interno di noi medesimi, ed applicandosi alle azioni che si presentano allo spirito costituisce quei giudizii, che sono precetti o COMANDI – COMMANDAMENTI o MANDAMENTI. Questi precetti, in conseguenza, son proposizioni *SINTETICHE*; poi chè essi sono un prodotto necessario della sintesi della RAGIONE, che aggiunge ad alcuni dati atti liberi l'elemento del dovere. Questi giudizii, sebbene suppongano alcuni dati sperimentali, non sono però sperimentali. Essi possono, in conseguenza, riguardarsi come giudizii A PRIORI. Questa dottrina non ha bisogno di commento. In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la verità del sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella morale, che è Kant, In varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella Filosofia della volontà, io ho mostrato l'assurdità de'giudizii SINTETICI A PRIORI,, ammessi dalla scuola di Kant. Ma i giudizii sintetici di cui ho io parlato nelle mie opere di filosofia teoretica, sono giudizii teoretici, non già giudizii pratici. E negli Elementi di morale. I giudizii sintetici a priori TEORICI mi sembrano assurdi. Ma dall'esame profondo della nostra facoltà di volere son forzato di ammettere i giudizii sintetici A PRIORI PRATICI, i quali son precetti. Mi sembra impossibile lo stabilire altrimenti la moralità delle azioni. Elem., Filos. della vol.. Fuori di questo soggettivismo morale G., come Kant, non vede altro che EUDEMONISMO (alla Grice/Ackrill), o morale dell'interesse (alla Butler), come egli dice; e questa gli pare soltanto una morale apparente. Quando s'intende la giustizia come un interesse bene inteso, si finisce necessariamente col sommettere la giustizia a qualche cosa che non è la giustizia. Distinguendo l'interesse bene inteso dal male inteso, non si pongono in opposizione due interessi differenti.Al contrario, si pone in fatto, che non vi ha che un interesse unico, che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno egualmente in veduta; e che fra essi non vi ha che questa differenza, che l'uomo giusto è un uomo accorto, e l'ingiusto un imbecille. Ora contro questa concezione morale militano tre argomenti. La volontà dell'uomo virtuoso differisce intrinsecamente da quella dell'uomo vizioso. Laddove nella morale dell'interesse la volontà d’entrambi è unica; perchè entrambi vogliono la cosa stessa: il proprio utile (UTILITARIAN, FUTILITARIAN). La virtù vera è una dote del volere; e nella morale dell'interesse, invece, sta tutta nell'accortezza dell'operare; poichè col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile. La legge morale dee essere assoluta ed universale. Invece la morale utilitaria è fondata sulla situazione ipotica dell'uomo, la quale, cambiandosi, cambia parimenti nell'uomo il principio di direzione, e la virtù diviene vizio, il vizio virtù. Sicché la morale utilitaria è falsa, distruggitrice d’ogni vera virtù si privata che pubblica. La virtù è causa della FELICITÀ; poichè, se diviene mezzo, cessa di essere virtù. La morale è essenzialmente disinteressata. La virtù è amabile per se stessa, indipendentemente dal premio, che la segue. Ma la coscienza di averla praticata dev'essere un piacere puro distinto dal piacere preveduto dal premio, ed indipendente da questo. Nella Filosofia della volontà l'autore sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la virtù, nondimeno può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca tuttavia di notare che tale concorrenza non impedisce, che l'azione sia prodotta dal principio disinteressato del dovere; poichè il princi [Filos. d. vol. G. non ammetto che dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui, che l'egoismo, come ora si direbbe, possa generare l'altruismo. L'uomo nulla può amare fuori di se stesso se non per se stesso. Fil. d . vol.; Elementi] pio dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce gl’ostacoli all'esercizio della virtù. Sicché, insomma, non è una vera e propria concorrenza. L'azione morale è effetto unicamente del principio del dovere assoluto e universale, CATEGORICO. Pare che G. si opponga alla rigidezza razionalistica della morale di Kant; ma in realtà sono d'accordo nella medesima dottrina. Negl’Elementi l'autore pare accenni veramente a Kant, dove dice. Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per la legge, senza alcuna specie di piacere, nè di amore. Una tal dottrina è falsa, e contraria alla testimonianza irrefragabile della coscienza. Ma egli spiega così il suo pensiero. Non si dee esser giusto e benefico, per esser felice; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di felicità, non si dovrebbe abbandonare. Ma più la virtù è pura e disinteressata, più vivo è il piacere, che risulta dalla coscienza di averla praticata. Il piacere unito all'esercizio del proprio dovere dispone all'azione doverosa la volontà dell'essere ragionevole. Ma non bisogna confondere le conseguenze di un fine col fine stesso. L'uomo virtuoso vuole il dovere per se stesso: e questo è il fine ultimo della sua volontà; egli, in conseguenza, non fa il dovere per lo piacere; ma il piacere non lascia di accompagnare la pratica del dovere. Ora questa dottrina è in opposizione a un kantismo mal inteso: al kantismo cui s'allude da Schiller nel famoso epigramma sullo scrupolo di coscienza. Ma Kant, in verità, non ammette meno di G. quel piacere che consiste nella soddisfazione che ci dà la coscienza d'aver adempiuto il proprio dovere; ma come G. tene a distinguere questo piacere morale consecutivo all'azione virtuosa dal piacere patologico a cui uò essere ispirata un'azione non virtuosa; ad affermare che il sentimento morale è conseguenza non principio P. es. nella prefazione alla Tugendlehre scrive. Ich habe an einem Orte (der Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich glaubo, auf die einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich, welche vor der Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist pathologisch, und das Verhalten folgt der Naturordnung; diejenige abor, vor welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der sittlichen Ordnung. Werke (ed. Rosenkr.); cfr . Krit. pr. Vern., in Werke. della moralità. Kant bensì osserva che il piacere per l'atto virtuoso compiuto e il rimorso per il delitto presuppone che si sa apprezzare il valore del dovere e l'autorità della legge morale; ond’è che la legge morale è il fondamento di questi sentimenti, non viceversa. Si deve essere, dice Kant, almeno per metà di già galantuomini per potersi fare un’idea di tali sentimenti. Osservazione che mi pare perentoria contro ogni specie d’EUDEMONISMO (alla GRICE). Sicché, anche per questo rispetto, la morale di G. riproduce quella del Kant. Nella morale G. si attiene al criticismo del saggio filosofico. La sua morale, come quella di KANT, è indipendente dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola considerazione dell'umana natura può provare l'esistenza del bene e del male morale, indipendentemente dalla considerazione dell'utile. Perchè l’ateo, qualora non voglia esser sordo alla voce della coscienza, non può non riconoscere una legge morale, che gli comanda di esser giusto e benefico. Giacchè il dovere si conosce per se stesso, è un elemento semplice di tutte le verità morali, che sgorga dall’intimo di noi stessi. Le difficoltà d’altri incontrate a dedurre dalla natura umana per sè considerata la legislazione morale, derivano dalla inesatta e incompleta comprensione di questa natura; cui si attribuisce solo il principio dell'utile e si nega il principio morale. Si parte dal principio che nella natura umana non vi può essere altro principio RAZIONALE d’azione che quello della propria felicità. Ora qual meraviglia che partendo da un principio insufficiente a generare il dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad una verità pratica? Anzi, secondo G., l'idea del divino non è sufficiente a spiegarci l'origine del dovere: perchè una conoscenza teoretica non è sufficiente a generare un principio pratico. Ma, dice GENOVESI (cf. GRAZIA, FILOSOFIA ORTODOSSA), LA RAGIONE umana è fallibile: è spesso traviata dal personale interesse. Eppero i suoi dettami non possono essere norma delle nostre azioni. E G. replica, che questo scoglio non si evita certo con la tesi dell'origine di [Cfr. del resto questo passo di G. I difonsori della moralo dell'interesso bene riguardano il rimorso come motivi, che debbano determinar l'uomo a fare il proprio dovero. Ma noi sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee fare e fa il proprio dovere per se stesso, indipendentemente dagl’effetti che seguono dalla pratica della virtù e da quelli del vizio. Filos. vina della morale. Perchè la legge morale bisogna sempre che sia conosciuta dagl’uomini; e conosciuta, naturalmente, per mezzo della loro RAGIONE. Nè maggior valore ha l'argomento a cui arrestavasi TAMBURINI (si veda): che non si può concepire legge senza legislatore. Il legislatore, dice G., è essa LA RAGIONE, in quanto ragione pratica. Un ultimo punto d'incontro di G. con Kant è il seguente. Secondo il filosofo italiano è un principio essenziale della RAGION pratica che la virtù è degna di premio, il vizio è degno di pena: giudizio *SINTETICO* A PRIORI. Ora, se noi crediamo a questo principio, dobbiamo pure credere all'immortalità del nostro spirito; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non è sempre felice, nè sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser punito intanto è indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata. E indimostrabile, perchè è un giudizio *SINTETICO*. Ma è legge inalterabilmente impressa nella realtà del mio essere; è la voce di quella RAGION pratica, che è la legislatrice delle nostre azioni, e che non ci può ingannare, se la virtù non è nome vano. Uno stato è necessario in cui quel principio ha il suo valore reale, la sua piena esecuzione. Inoltre, io trovo nel santuario del mio essere la necessità d'una ricompensa della virtù e d’una punizione del vizio; vi trovo pertanto la necessità di un giudice supremo. Vi è dunque un'intelligenza suprema, infinita, assoluta, che si manifesta a tutti gl’esseri intelligenti. Questo supremo legislatore e giudice è il divino. È, comesi vede, su per giù, la teoria kantiana dei postulati della RAGION pratica. Ma G. sente la difficoltà che s'oppone a una deduzione teoretica da un'esigenza morale, e si domanda: possiamo noi sulla semplice esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire la realtà degl’oggetti di esse? Anche al Kant si affaccia un problema simile; e fa escogitare quella teoria del primato della RAGION pratica sulla ragion teoretica, che è una vera rinunzia a ogni diritto di vero e proprio filosofare, e perciò a ogni fondamento filosofico della stessa morale. G. non fa motto di questa teorica, forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per distrigarsi dalla difficoltà ravvisata. Ma non pare che le ragioni trovate lo persuadano bene. Giacchè, infine, Elem. Vedi l’ottime osservazioni di MATURI, Principii di filosofia, Napoli, si prova a dimostrare l'immortalità dell'anima, indirettamente, dimostrando che non si può provarne la mortalità. Se pure que sta può dirsi dimostrazione. Egli dice in sostanza, dopo qualche esitazione. L’esperienza ci mostra che gl’oggetti delle nostre affezioni sono reali. Ma fra le nostre affezioni c'è la tendenza alla immortalità. Dunque l'anima è realmente immortale. Bisogna riconoscere che in generale le nostre tendenze naturali non sono defraudate del loro oggetto. Una di queste tendenze è la curiosità. E non possiamo noi forse, dice G., spesso soddisfare la nostra curiosità. Questo spesso, veramente, guasta, e non poco, l'argomentazione dell’autore; il quale si contenta di constatare con l'esperienza. Non vi ha alcuna tendenza nel cuore umano la quale non possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende. Qualche volta! Dunque l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla d'apodittico. È meramente problematica. Per dirla schietta, il nostro filosofo è convinto che il domma dell'immortalità importi alla filosofia morale come il più fermo sostegno della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del vizio. Ma chiuso nel suo sperimentalismo, ignaro degl’espedienti mal fidi del Kant, non sa fondare teoricamente il suo principio, non sa darne una giustificazione filosofica. Più filosofo nella sua impotenza degl’odierni prammatisti, che con la maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e consumo della morale, quasi che lo spirito ha fine più degno del vero. Quasi che il bene potesse fare a meno di essere il vero bene. Stabiliti comunque i suoi principii generali della morale, che sono principii essenzialmente formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare a G. ch'egli ne deduca i singoli doveri. Ma anche in questo egli s'accorda col KANT, la cui dottrina della virtù, nella seconda parte della metafisica dei costumi, per quanti sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo, è in assoluta contraddizione col principio formale da cui si vuol derivare. Il formalista così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di dare un contenuto alle leggi soggettive, epperò necessarie ed universali, dello spirito. Certo, con tutti i suoi difetti, che non sono solamente suoi, anche nella morale G. rappresenta un progresso immenso Elem. della filos. morale, cap. sui filosofi precedenti. In conchiusione, egli con le sue ispirazioni kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la gnoseologia post-cartesiana si libera dalle angustie del sensismo e dello spiritualismo dommatico; e inizia in ITALIA un nuovo periodo speculativo; nel quale il nostro pensiero, rinsanguato delle idee più vitali della filosofia tedesca, si solleva con SERBATTI e con GIOBERTI a un'altezza non più toccata da noi dopo i grandi pensatori del Rinascimento. Galluppi errs in calling natural semiotics, ‘il linguaggio dell natura,’ since no tongue is involved!” But we can forgive him for that since he genially realizes, unlike King Alfred, that one can use ‘dire’, ‘con questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada da B in C” Segno figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para figurar paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better than Locke. He notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact that men will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls ‘natural sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when he sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls il ‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture – with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the ‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this. So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or ‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative (different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ – when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you – where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly thinks that his is an improvement over Lucrezio!” Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto, grido, gemito, moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno naturale, segno istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua), segno arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato, segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare, sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana – Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Galvano: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arte naturale – filosofia
torinese – scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Torino).
Filosofo
torinese. Filosofo piemontese. Filosofo Italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I
like Galvano; he has philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on
polytheism, citing Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati. Fonda L'Unione Culturale di Torino. Promuove
il “Movimento Arte Concreta” – cf. Arte Astratta Insegna all’Accademia Albertina.
Dizionario Biografico degl’Italiani. FONDAZIONE
GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA LEVI Mantovani Motto G.
Fare, pensare, vivere la pittura"i Pmm gr s m dz de
2zpA—A_t} PA "o Saggi di MANTOVANI MOTTO BOTTA OLIVIERI G. Fare,
pensare, vivere la pittura Aver puntato il senso della propria vita sui
segni e sui colori sarà stata magari una puntata inutile ma non elusiva e
non insincera G.] FONDAZIONE AMENDOLA AssociaziIoNE LUCANA IN
PieMONTE Carto LEVI MOSTRA D'ARTE DI G. Torino presso la Sala
Mostre dell’Associazione Lucana Levi e della Fondazione Amendola
Con il Patrocinio di Con la collaborazione di REGIONE CONSIGLIO wc I
GALLERIA TORINO olii MIN FEONIE DEL PIEMONTE att Sen DEL
PIEMONTE Quello è stato un biennio segnato dalle notevoli difficoltà
imposte dalla pandemia da Covid-19. Alla luce delle molte restrizioni, la
Fondazione Amendola ha cercato, nel limite del possibile, di proseguire
con le proprie attività di divulgazione e promozione culturale
adattando spazi e metodologie alle esigenze del periodo, rispondendo
all'emergenza coronavirus con iniziative dinamiche e creative, passando
per la fruizione digitale per permettere agli utenti di restare a casa,
come le disposizioni prescrivono, senza perdersi dei contenuti
culturali. Sotto questa prospettiva e, nonostante le molteplici
difficoltà, il lavoro svolto per ricordare l'artista torinese G. è stato
importante. La Fondazione Amendola ha ritenuto opportuno offrire alla
città di Torino e non solo, la possibilità di accedere gratuitamente
all'incontro con l’opera artistica e intellettuale di una delle figure di
spicco del panorama artistico italiano della seconda metà del novecento.
L'iniziativa, di rilievo nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e
intellettuali di tutta Italia che hanno collaborato con G. e che tuttora
ricoprono un ruolo fondamentale nella produzione culturale del nostro Paese. Cerabona
Presidente della Fondazione Amendola Studi, Convegni, Ricerche della
Fondazione Amendola e dell’Associazione Lucana Levi Presidente
Fotografie delle opere PROSPERO CERABONA CORONGI Curatore mostra e
catalogo Direttore Responsabile MANTOVANI CERABONA Scritti di
Redazione MANTOVANI, MOTTO, BOTTA, ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA,
FERRARI Progetto ed allestimento MANTOVANI MOTTO, IL RINNOVAMENTO Fotocomposizione EDITRICE
IL RINNOVAMENTO Ente promotore Fondazione Amendola VIDEOIMPAGINAZIONE
GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI Associazione Lucana in Piemonte Levi VIA
TOLLEGNO TORINO Si ringraziano per il prestito delle opere e la collaborazione:
Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte Contemporanea Filippo
Scroppo (Torre Pellice), Stefania e Testa, Liliana Dematteis, la famiglia
Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che hanno preferito restare anonimi.
Si ringrazia Barzan per la realizzazione delle docu-interviste. G. e la
pittura Mantovani G.: la fedeltà alla pittura Motto Da discepolo a
interprete. G. e Casorati Botta Gli occhi fervidi e il sapore di
cenere. G.: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Olivieri Opere esposte ARTE
DI VENEZIA GATMAZH TEAOZ GANATOZ XXVI: ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D
G. BIENNALE Foto Giacomelli - Venezia FOTOTECA
ASA. G. e la pittura. Mantovani Da pittore, G. pone tre
livelli d’indagine; come qualsiasi artista intelligente, se non fosse
che, nel caso suo e di non molti altri, i tre livelli si presentano
specialmente complessi e coltivati con consapevole separatezza e problematica
interconnessione: Il primo livello comporta chiedersi che
pittore G. sia stato e, ovviamente, interrogarsi sulla specie e
sulla qualità della pittura (delle pitture) che ha messo in opera nel
lungo percorso, sicuro e tortuoso, che lo ha impegnato pressoché
ininterrottamente. Il secondo livello comporta mettere a fuoco la
concezione (le concezioni) ch'egli ha elaborato della pittura, in quanto
da critico (e autocritico: nella sua scrittura, l’autoritrattoè un vero e
proprio genere!) si è occupato dell’arte, in particolare della pittura,
conuna intensità, una pervicacia, una curiosità sempre sveglia,
direi aggressiva, in un'epoca provocatoria e insieme minacciata dalla
condiscendente banalizzazione. Ma, forse, il nodo più difficile da
sciogliere è quale rapporto ci sia tra il praticante pittura (è questa
l’arte scrive di sé della quale
ab- biamo, bene o male, una qualche esperienza vissuta e non
crediamo se non ai discorsi che nascono da questa esperienza”, dove si
radica anche la militanza del critico) e il teorico che usa gli strumenti
del filosofo, dell’antropologo, dello psicanalista, dello storico (da
competente, eppure mai imprigionato dallo specialismo? e anche meno
dall’appartenenza) Si può daffermare che ogni suo scritto è occasione per
una autoanalisi. Come, d'altra parte, che l'autobiografia non è mai cronaca
contingente, invece occasione per andare oltre la cosiddetta evidenza dei
fatti, per indagarne radici e proiezioni. G., La pittura, lo spirito e il
sangue, in “Tendenza” Torino, in G., La pittura, lo spirito e il sangue,
a cura di Mantovani, Il Quadrante, Torino; G., Diagnosi del moderno, a
cura di Ruffino, Aragno editore Torino. Gallino, in AG., Atti del
Convegno, Torino a cura di Pinottini. Bulzoni editore, Roma: "Se
l’eclettismo diventa una condizio- ne dell'esercizio dell’arte, è anche
la qualificazione dello status dell’intellettuale, che, in ogni specifico
ambito d'indagine, è sollecitato a non perdere di vista la visione d'insieme
dei problemi. La polemica di G. contro la specializzazione, quale
esclusiva procedura del sapere, risponde a tale regola metodologica.
In- dubbiamente, in ogni attività culturale, è necessaria una
partico- lare competenza, ma, al di là del suo confine, s'impone l'esigenza
del controllo unitario dei suoi esiti e delle sue
interpretazioni”. Ruffino, (Com)plessi galvanici, introduzione a Diagnosi
del moderno, cit.,: “Contro lo specialismo, ... G. sferra una controffensiva
senza tregua e a tutto campo: sul piano pratico, opponendo al tecnicismo la
tèchne (nel suo caso quella pittorica); sul piano morale, opponendo alla
provvisorietà della posa il rigore della presa di posizione (ma mai
irrigidita in partito preso); sul piano estetico, opponendo ai miraggi di
progresso illi- mitato espressi dal Funzionale le ragioni dell’Organico,
capace di suscitare creazioni vive. Interessato “da una parte all'eredità
del tardo romantici- A. G. con Mariacarla e Pino Mantovani, Racconigi per
affrontare la pittura, alla quale riconosce una singolare centralità.
Tutti questi temi mi hanno per decenni accompagnato e sollecitato. I miei
primi interventi su G. pittore risalgono, la presentazione ad una
personale presso la Maggiorotto di Cavallermaggiore, seconda di una serie
dedi- cata ai protagonisti del MAC torinese; ma già nel marzo dello
stesso anno avevo tracciato, con la collaborazione dei miei allievi in
Accademia, un quadro della pittura degli anni Cinquanta a Torino
nel Museo Civico di Casa Cavassa a Saluzzo’, sulla falsariga delle indicazioni
che Galvano aveva for- nito a T. Sauvage? per una storia ancora
regionale dell’arte italiana nel Dopoguerra; e sul catalogo della
mostra Arte a Torino, nel smo e del decadentismo: Mallarmé e Bergson,
‘esoteristi e filosofi della vita’, psicanalisi ed esistenzialismo,
dall'altra alla severità dello storicismo crociano e all'esempio del
rigoroso metodo critico negli studi di storia dell’arte Lettore di Klages, di
Jung o di Guénon, ma anche studioso di Kant e di Hegel (G., Perché
non possiamo non dirci crociani, in “Numero. Attento a Freud come a Jung.
Curioso delle storie, nel tempo e nello spazio, pronto a coglierne, nella
comune umanità, le differenze e le istruttive potenzialità. 5
Pittura a Torino, a cura di G. Mantovani, catalogo della mostra, Museo Civico
di Casa Cavassa, Saluzzo. Sauvage (pseudonimo di Schwarz) Pittura italiana
del Dopoguerra; Ed. Schwarz, Milano, il testo fu ripubblicato con
integrazioni e il titolo La pittura a Torino in “Letteratura”, Torino,
successivamente in A. G., La pittura; e G., Diagnosi. Arte a Torino, a
cura di Bandini, Mantovani, Poli, catalogo della mostra, Torino salone d’onore dell’Accademia Albertina,
dedicavo a G. l’intervento, anche oltre gli anni definiti nel
titolo. Mi trovo, pertanto, a incrociare in queste pagine scritti pubblicati in
un arco di tempo di circa quarant'anni, con il proposito, spero non
solo narcisistico, di organizzare in di- scorso unitario contributi
sparpagliati e spesso di non facile reperimento. Proprio dalla
presentazione Maggiorotto poi variamente elaborata per occasioni
ulteriori dedicate appunto al MAC, come il catalogo per la
esposizione del MAC torinese sempre curata dalla Maggiorotto alla Expo
Arte Fiera Internazionale di Arte Contemporanea di Bari, la presentazione
del catalogo Albino Galvano, Proferio Grossi, Luiso Sturla,
Artecentro, Milano, fino al saggio sul movimen- to torinese nel volume
per la mostra MAC/ESPACE TORINO È VIa S. GIULIA TORINO
Pre. PARISOT |F. SCROPPO Bollettino «Arte Concreta.
all’Acquario di Roma—mi parlogico cominciare, non tanto perché uno
dei primi approcci al tema allora potevo
anche contare sul rapporto diretto con Galvano, ma devo dire che la sua
disponibilità non era invasiva e tanto meno arcigna rispetto alle
inter- pretazioni che venissero proposte del suo impegno quanto perché vi
si pongono i fondamenti del mio interesse per l'artista /critico /
filosofo. L'incipit che sceglievo allora mi pare sia ancora il migliore
possibile; non mio, intendiamoci, invece proprio di Albino che
Il saggio e rielaborato come prefazione a G., La pittura, lo
spirito e il sangue, cit. Mantovani, Pittori concreti a Torino, in
MAC-ESPACE - Arte concreta in Italia e in Francia, a cura di Canani
e Genova, catalogo della mostra, l'Acquario Romano, Roma, ed Bora,
Bologna. così aveva concluso un asterisco sul Bollettino “Arte
Concreta; “E scopriremo che è un programma [quello del MAC le
cui premesse erano già nei romanzi dei tempi della nonna? Tanto meglio,
almeno avremo evitato l'equivoco più antipatico che grava sull'arte
astratta: che si tratti di cosa moderna 0, peggio, d'avanguardia.
Una fulminante risposta al nemico Borgese che sul Corriere della Sera,
aveva definito A’ rebours di Huysmans, un romanzo, fonte peraltro
di tuttele velleità estetiste dell'avanguardia: fornendo unovvio spunto
polemico non saprei quanto consapevole, nel caso addirittura masochistico
a chi da anni si occupava del rapporto tra le cosiddette
“avanguardie” ela linea dal Romanticismo al Simboli- smo; ma anche agli
amici di Milano che si riconoscevano nel programma di Sintesi delle Arti
pubblicato nello H | FIL sintesi allo
studio b 24 dal 21-2 al i: se ? i fi
5 5! È s7 A. G. riproduzione di Verso
Occidente, Biennale di Venezia stesso Bollettino, che prevedeva “il diretto
concorso di tecnici e artisti, sul piano della stretta collabora-
zione, per il raggiungimento finale d’un concreto il quale aderisca alla
funzione in armonia di colleganza fra il mondo della forma, lo spazio e
l'applicazione pratica dell’opera collettiva”! viva il design, la
grafica e l'estetico diffuso, dunque. Come non bastasse, G. conclude
l'asterisco citato rigettando qualsiasi attualismo:” Che bel giorno
quello in cui potremo lavorare in pace al compito che la storia ci ha
affidato, certi che nonè sulla misura della contingente
attualità L'asterisco, cioè l'osservazione, la messa a punto
marginale è il contributo che Galvano sceglie per intervenire
criticamente liberamente sui Bollettini del MAC (e altrove).
11 E Passoni, Le arti e la tecnica, Arte Concreta, ried.
anastatica, a cura della galleria Spriano, Omegna. che il nostro lavoro verrà
giudicato! Il fatto è che G. non intende escludere tutta la
complessità di rimandi e proiezioni, soggettivi ed oggettivi, che i
linguaggi dell'immagine specialmente quando non siano troppo condizionati
da tecniche o ideologiche motivazioni si portano dietro e dentro, e che,
del resto, la cultura moderna indaga con particolare impegno e
analizza con rinnovata strumentazione, mentre altri linguaggi
dell’immaginario—la poesia, la narrativa, lamusica stanno sperimentando a
tentoni forme “nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere originarie.
Neppure, d'altra parte, egli intende abbandonare la pittura come
linguaggio specifico, proprio quella tradizionale (tela, carta o
qualunque supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a formar
figure); per quanto metta in conto uno spostamento dall’iconico
all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo, dall’allusivo
all’emblematico, dal geometrico al rit- mico al gestuale; ciò che non
precluderebbe peraltro “la possibilità di uno scambio e di una
penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una lettura
figurativa per elementi, segno, colore, movimento, materia ecc.
Confessiamo di essere segretamente d'accordo con Borgese [quando invita a
rileggere A’ rebours]. Perché l'essere agli antipodi [delle scelte di
Huysmans e delle preferenze in pittura del suo eroe Des Esseintes] è
troppo vitalmente legato a ciò che rifiuta per non riprenderlo su di un
piano meno esterno: e le citazioni dalla Blavatzky e da Steiner del Kandinsky
della ‘Geistige’, l'appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane,
il fatto che uno dei primi scritti italiani sull'arte astratta sia di J.
Evola sono ben significativi di un rapporto ambivalente — di rifiuto per
la ca- rica letteraria, moralistica o immoralistica, del simbolismo
speso alla spicciola nell’allusività delle immagini e della messa in
scena, e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni e
suggestioni, di segrete corrispondenze tra immagini e speculazioni che
nelle sue due facce: sensualmente umbratile l'una, simbolicamente
intellettuale l’altra hanno ostinatamente tentato di aprirsi una strada — sia
pure affidandosi alla romantica barca ‘ebbra’- dalle varie forme di resa
alla prosasticità del realismo”. Ancora dall'asterisco citato di G. in “Arte
concreta”. Azzardo un'ipotesi (certo suggestionato dal recente catalogo
della mostra La regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Elec-
ta, Milano, in particolare dal saggio di Bracalente, Licini oltre la
geometria: una primordiale genesi del mondo): che Galvano non abbia
ignorato “Valori primordiali”, e in particolare l’opera di F. Celiberti,
anche lui proveniente da studi di storia delle religioni, tanto
importante per Licini proiettato dalla fine degli anni Trenta oltre la
geometria, specialmente nell’incrocio tra teosofia, esisten- zialismo e
fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni interessi per Spengler,
Klages, Guénon ... e per l'alta poesia romantica. Dipingere con colori e
pennelli ... è stata una costante del mio lavoro nei suoi vari cicli,
anche quando come spettatore ho pregiato e difeso esperienze varie e
opposte. Ma è certo che, se è venuto via via recuperando alla mia
pittura quell’attaccamento alle gidiane nourritures terrestres che
confessa- vo in un altro mio scritto, nei quadri qui presentati esse
hanno perso ogni ghiottoneria che non sia quella dell'occhio contemplan-
te: in bocca è solo sapore di cenere. Ciottoli, fossili: l'eco della vita
in ciò che non ha vita o non l’ha più. G., Autopresenta- zione della
Personale, Piemonte Artistico Culturale, Torino). Libretto di
iscrizione a magistero. non diversi da quelli che consentono la
valutazione di ogni buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste ragioni” concesse
ai concretisti milanesi sembrano far parte di un gioco alquanto
provocatorio, portando il discorso dal livello tecnico a quello culturale
ed etico, di una eticità sempre esposta, in un certo senso negativa
(“demoniaca”, nella cultura occidentale, di radice inevitabilmente
cristiana anche nella più spinta laicità). Firmando con Biglione,
Parisot e Scroppo quello che a ragione o a torto è considerato il
manifesto del movimento torinese, G. aggira gli ottimistici programmi
dei milanesi, espressi nei manifesti dell’ Arte Organica, del
Macchinismo, del Disintegrismo, dell'Arte Totale!’ che sanno ancora tanto
di Futurismo, e dichiara che carattere essenziale nella scelta dei nuovi
adepti è la “responsabilità liberamente assunta sul limite più
impegnativo ... di lotta contro ogni conformismo e pigrizia
intellettuale” nel campo della pittura come in diversa applicazione estetica
e pratica, senza compromessi e “senza pudore”. Il fatto è che G. (e
G., presentazione della collettiva, Bordoni, G., Jarema, Parisot,
Scroppo, Galleria del Fiore, Milano Cfr. “Arte Concreta L'unico atteggiamento
ragionevole è quello di lavorare attendendo colla sincerità di chi sa che lo
spirito ama le posizioni estreme ed attive, non i compromessi”. (G.,
L'evasione, in “Il Selvaggio”, 15 gennaio 1940, ripubblicato in G.,
Diagnosi del moderno (cur. Ruffino). con lui Parisot, Scroppo, Montalcini, Biglione
e Carol Rama, per nominare tutti i torinesi che aderiscono più o meno
convinti al MAC)ha dietro le spalle una ventina abbondante d’anni di
lavoro non ovviamente mirato allo sbocco astratto. Basta pensare
alla frequenza orgogliosamente esibita fino all'ultimo della scuola di Casorati
(sul quale elabora un importante saggio che punta non poco sulla stagione
simbolista sull'argomento si rimanda all'intervento in questo catalogo di
Botta), al rapporto con il neoimpressionismo dei Sei, in va- riante
espressionista; al fatto che egli medita, continua a meditare sul
significato e sul valore della scelta moderna”, essenziale, inevitabile,
ma problematica nelle ragioni, nei modi, negli obiettivi; infine, che
ha una formazione teorica e storica — aggiungerei una struttura
psicologica ed una educazione — che non gli consentono di utilizzare a
cuor leggero la strategia del manifesto, di ascendenza futurista, e in
genere le dichiarazioni programmatiche!8: una questione di
carattere e di stile oltre che di metodo e di cultura. Del resto, G.
affronta il tema in testi antecedenti di alcuni anni, ne utilizzo
uno in particolare: La pittura, lo spirito e il sangue”, che uscì
nel 1946 sul primo ed unico numero della rivista “Tendenza”,
nell’ambiziosa prospettiva dei direttori responsabili — lo stesso G. ed Oriani
— Rivista mensile di Arti figurative. Certo esistono di G. saggi più
importanti come quelli che elenco innota?°, dove il tema è affrontato con
argomentazioni analitiche e storicamente complesse, ma continuo a
trovare snodo esemplare nella vicenda dell'artista il brevesaggio citato.
Anche la data è importante, a guer- Il dubbio, lo scetticismo, l'ambiguità
come tensione fra op- posti sono fondamenti del suo metodo, che non è
irrazionale, invece di un razionalismo critico che mai cede allo schema
ideolo- gico o alla rigida consequenzialità. Nonacaso ho scelto il
titolo del saggio come titolo per la citata Antologia di G., edita dal
Quadrante, Torino. Diversi saggi di grande respiro, G. pubblica negli
anni immediatamente successivi alla seconda Guerra mondiale. Elenco in
ordine cronologico quelli ripubblicati sull’Antologia citata,
consenziente l’autore: Aspetti del problema estetico dell’esistenzialismo, Atti
del Congresso internazionale di Filosofia, Castellani e C ed., Roma; L'esistenzialismo, a cur. Castelli
ZUBIENA (si veda), Milano; Storicità e significato dell’arte “astratta”, in
Archivio di filosofia”, Milano,
“Galleria di Lettere ed Arti; Medioevo e Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955;
Vita e forma in alcune ricerche di estetica contemporanea, Atti del IIl
Congresso In- ternazionale di Estetica, Venezia 1956, edito dalla
“Rivista di Esteti- ca”, Torino 1957; Le poetiche del simbolismo e
l'origine dell’Astrattismo figurativo, Studi in onore di L. Venturi, Roma.
All'elenco si aggiungono i saggi pubblicati in successive occasioni: in
partico- lare sul catalogo della Antologica postuma: Omaggio a G., a cura
di Fossati, Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della mostra, Circolo
degli Artisti, Torino e, con scelta assai più ampia ma ancora lontana dalla
completezza, sulla recente antologia: A. Galvano, Diagnosi del moderno,
cit. ra appena finita; come significative le collaborazioni, che
elenco per segnalare la ricchezza e la varietà dei contributi, intesi a
coprire in tutta la loro estensione le cosiddette Arti figurative: C.
Mollino e U. Mastro- ianni, Monumento ai Caduti per la liberazione
d'Italia; R. Chicco, ... et le tableau quittè nous tourmente et
nous suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A. Dragone, Disegni,
acqueforti e acquerelli di Bozzetti; Oriani, Costa; Mollino, Gusto
dell’Architettura organica; O. Navarro Il messaggio della cultura;
ancora G., Woyzeck di Biùchner,
Oriani, Breve discorso su due films di Cocteau. Aggiungo e non è un
dato secondario—dopo una pagina redazionale, quindi d’Oriani che proviene
dall'esperienza futurista” e dello stesso Albino “che proviene dal
purismo casoratiano e dal neoimpressionismo venturiano”, dove si
rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma l’inconciliabilità è segno
di forza, di utile tensione) la gratuità dell'atto creativo rispetto alla
riflessione critica, e l'autonomia del giudizio critico rispetto
alle generalizzazioni dell'estetica, in un tempo storico che minaccia
di deludere chi aveva sperato che la fine del regime politico e culturale
comportasse il recupero pieno della libertà e la sua pratica
esplosiva. L'avvio del saggio è forte, al solito compromesso, e
ancora una volta lo propongo. L'appello della pit- LA PITTURA, LO SPIRITO
E IL SANGUE L'appello della pittura risuona dal profondu del nostro
sangue ancora con quell’urgenza —
come nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti impegnati
sino alle estreme ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi o
i presentimenti sessuuli. Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano
lo sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al- l’innocenza
d'allora, che vi riscatti la sin troppv chiara coscienza del carattere
composito e compro. messo di ogni atto umano che non sia di
rinunzia: il peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni
l'estetica crociana, non per nulla irritata coll’uomo pascoliano troppo chiaramente
preanunciante le scoperte freudiane {e contro Freud i erociani si
armeranno della più ipocrita in- comprensione) cerca di riprendere e di
legittimare, con la sterilizzata convinzione del carattere « teore.
tico» dell’arte, il troppo scoperto alibi kantiano del « bello come simbolo del
bene morale. Credo siu venuto il momento di confessare schiettamente che
il bello, proprio questo bello artistico che ci brucia sin dalla
giovinezza ogni possibilità di rassegnazione e di conformismo, è
piuttosto il simbolo del male morale. Tanto, anche eticamente. dla questa
franchezza non perderemo nulla. Soltanto Nietsche ha insistito con
sufficiente chiarezza su questo carattere, profondamente vitale e perciò
profondamente « immorale » dell'attività artistica: contro il quale assai
poco mi paiono va- lere le due obiezioni che implicitamente o
esplici- tamente vengono mosse dagli idealisti e dagli spiritualisti. Se
per i crociani ma credo che in GENTILE (si veda) l'implicita ammissione,
inevitabile data l’identificazione di arte e sentimento e
l’inseparabilità dell'agire dal conoscere, di quanto sì è detto,
fosse più che sospettata dall'autore anche se la reto. rica di cui
sempre fu ammalato gli impedì di ammetterlo in termini chiari; che tuttavia non
mancano nei più diversi fra i suoi seguaci o avversari- seguaci: dal
primissimo ABBAGNANO (si veda) disciogliente tatto il reale in
irrazionalità, appunto con una reductio ad absurdum dell’attualismo, ad EVOLA
(si veda), a SPIRITO (si veda) se per i crociani, si diceva, la
scappatoia di ridurre l’arte a pura conoscenza, giocando sul doppio ruolo
confuso insieme del- l’« intuizione » permette di evitare lo spinoso problema,
i recenti spiritualisti ma anche fra di. loro Stefanini, ad esempio,
ammettendo una insufficienza dell’arte alla vita pur nella auto- ì enza
in ordine al proprio valore peculiare, finisce collo svalutare moralmente
l’arte candidamente invece sermoneggiano sulle comuni radici del bello e
del buono (nel secolo scorso queste niaiseries di solito avvenivano su di
uno sfondo ontologistico vagamente giobertiano, oggi lo gnoseologismo
idealistico generalmente è rispettato anche dagli spiritualisti che
dell’idealismo dovrebbero esser avversari) e ci avvertono che il tormento
dell'urtistu che insegue con il diuturno lavoro il fan- tasma che sempre
gli sfugge è profondamente morale! ; Dio volesse che fosse
veramente così. E che si potesse sul serio sperare che all'artista, dopo
la conquista su cui ha tutto giocato, della propria immagine, fosse
anche riservato per soprappiù il paradiso delle religioni e delle
etiche! Sarà meglio invece guardarci chiaramente in faccia e
chiederci se veramente per il puradiso provvi. sorio della bellezza non
giochiamo la salvezza della nostra anima
ammesso che «questa espressione abbia un senso: quello cristiano,
+ quello di una etica laica ma generalmente è cripto-cristiana
anch'essa riconoscere per che cosa abbiamo scommesso; chè le conseguenze
del nostro pari atiche se lo avremo
perduto non diventerunno duv- vero peggiori per quest’atto di
franchezza. Rimane inteso che su questa rivista, che non è
dedicata a studi filosofici, non potremo farlo che sotto l'angolo della
pittura; ma poichè è questa arte della quale abbiamo, bene 0 male. una
qual che esperienza vissuta e poichè d'altra parte non crediamo se
non ai discorsi che nascono da questa specie d'esperienza, la cosa non
sarà fuori posto. La coscienza rimane inquieta. E poichè
sente che tutto nel problema implica la discussione delle RAMA
Disegno Da «Tendenza, disegno di Rama. tura risuona dal profondo del
nostro sangue ancora con quell’urgenza
come nei quindici anni quando sostituiva in camuffamenti impegnati
sino alle estre- me ragioni della possibile azione, gli slanci
religiosi o i presentimenti sessuali”. Geniale, perché collega
direttamente, intimamente la pittura (ma in genere i linguaggi creativi)
alla natura, al sangue appunto, affermando “il carattere profondamente
immorale dell'attività artistica” già sostenuto da Nietzsche,
negato o perlomeno arginato invece da Idealisti e Spiritualisti; e
insistendo sulla presenza di una volontà non risolta nella pura
contemplazione, né risolvibile, dato ilsuo orientamento verso l’immagine.
La cosaè particolarmente evidente nelle arti figu- rative e la multiforme
e aperta a direzioni divergenti attività ne è il paradigma. Ed è appunto
ciò che è sfuggito all’idealismo, a causa della artificiosa
distinzione di teoretico e di pratico, come al confusionismo attualistico che
confinando l’arte nella sfera dell’immediato sentimento cade di fatto in un
troppo semplicistico naturalismo. La distinzione fra teoretica e
pratica è certo valida, ma all’interno di ogni singolo atto spirituale
nella sua integrità, ché la vita spirituale presenta questi due aspetti
come facce sempre distinte, sì, ma sempre inseparabili.
Conclude G. (e in questa direzione trova sostegno nella
fenomenologia di Alain?!, ne “L'Immaculée Conception” dei surrealisti e in
Breton, più che nella poetica di Valery, almeno quando troppo
insiste sul pieno controllo cosciente dell'artista nell’elabora-
zione dell’opera): ‘Qui bisogna pensare ad una volontà tutta inconscia,
individuante e non ancora individuata (come Schopenhauer presente) e
ad unopposto momento rappresentativo che solo giustifi- ca il
valore estetico dell'immagine raggiunta negando nel sogno l’ebbrezza del
movimento fisiologico. Con un salto di parecchi anni, de La
pittura, lo spirito e il sangue ad una autopresentazione Utilissimal’ampia
citazione in proposito da uno saggio inedito di G., riportata da Garimoldi G.:
progetto di una nuova cultura, in Omaggio a G. In Alain ovvero Chartier]
l'accento cade molto più che nell’estetica idealistica, sul momento del
fare che su quello del conoscere, e sulla resistenza del mezzo sentita
come condizio- ne positiva ed essenziale al sorgere del fantasma
artistico, fanta- sma che non sarà più un'immagine al tutto congiunta a
priori ad una materiale estensione che la traduce, ma che sorgerà
insieme all'atto di esecuzione e che soltanto a posteriori rispetto a
que- sto avrà la sua concretezza. L'opera non nasce nella testa o
nel cuore, nell’intelletto o nel sentimento, per poi essere realizzata
nella pietra o sulla tela, ma, direi, nel vivo pulsare del sangue al
polso quando questo gioca le resistenze e le tensioni, gli scatti e le
flessioni del pollice e della mano nell’urto con il resistente ma-
teriale. La scultura e la pittura sono meno la realizzazione visiva di
un'immagine mentale che la materiale traccia lasciata da un gioco di
ritmi fisiologici. È in particolare Merleau-Ponty (AUSTIN HATED HIM – GRICE –
after Royamount_ a sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a
Cézanne. lino Vieeate colla (o crlize pus (olenda,
cuni (aza sr net&uk' a fr suina und la gut rin % NAM (dA Pene
più 0 me0 Ara la rr tn he Ut forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA
Les al caso TU fi e fa dii Lo val poco comi pila
est; ua dn AA Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano
Villata. — scritta a mano “quasi si trattasse di una lettera
destinata solo all'amico [il “Caro Villata”, gallerista], nella quale ci
si può confidare e divagare come l'umore o la nostalgia suggeriscono” —,
G/ ritorna sul rapporto fra il concepire e il fare, tra il fare e
il decodificare il senso in più o meno risolutive lettere; ancora una
volta mettendosi in gioco, ma senza alcuna intenzione di assumere valore
esemplare o chiedere scusa 0 simpatia, esponendosi in tutto lo
spessore di sensibilità e intelligenza, di impossibilità (a meno
che non si scelga o si accetti la rinuncia) di sottrarsi all'impulso
profondo. E anche senza compiacimento narcisistico: ci si esprime non per
coltivare l'emozione ma per darne testimonianza e, per quanto
possibile, esporla a sé e ad una analisi non priva di crudeltà,
comunque oggettiva. È interessante seguire il filo del discorso, che
nella scelta del tono dimesso non è meno teso del solito. Prima
motivazione del movimento pendolare tra pittura e scrittura, così esposto
al giudizio e all’ironia dei colleghi dell'una e dell'altra banda:
l'appartenenza “ad una generazione [quella di Cremona, di Maccari,
di Mollino, per restare tra amici] e ad un ambiente Ripubblicata in G., La
pittura, lo spirito e il sangue.; e in G.,
Diagnosi del moderno, cit., All'inaugurazione di una sua personale.
in cui questo male, se male, era quasi una ragione d’orgoglio. Era la
generazione dei nati all’inizio del secolo, che raccoglieva dai
protagonisti del rinnovamento dell’arte (secessionista o avanguardistico,
rappresentato per Albino, in primo luogo e per sempre, dal maestro Felice
Casorati), una eredità che era non meno di esperienza materiale che di
elaborazione intellettuale, un atteggiamento aperto, anzi tentato
da molteplici contraddittorie curiosità e linguaggi espressivi (ma il
quasi suggerisce l’affacciarsi di qual- che incrinatura nella certezza
adamantina esibita dai predecessori, forse anche per il confronto
inevitabile con una generazione successiva che tornerà a proporre
arroccamenti specialistici). Seconda motivazione. Tutto quantohai
odiato o amato nei giochi e nella noia dell'infanzia alimenterà
peruna vita quanto produrrai, buono o meno chesial. I nutrimenti terreni
avranno un bel essere filtrati in parole, in segni e colori, in note, in
spettacolo, il loro repertorio non muta, non lo hai scelto, ma ne
sei stato scelto, e tu sei quello che essi ti hanno fatto, la tua libertà
non può consistere che nell'essere loro fedele sino alla fine, libertà di
adesione non di ripudio, e libertà nella misura in cui con il tuo ripensamento
e il tuo scavo li trasformi da passivo esser fatto in attivo
assecondamento della sorte che essi ti hanno assegnato, in
obbiettivazione in cui il loro oscuro sgorgo, la loro inconscia matrice,
si chiarisce nell'opera, nel segno formato e consegnato all'oggetto che
ti rivela agli altri e in cui assumi responsabilità di confessione e
di 10 proposta”. Insomma, è proprio il rilancio dal
fare al pensare e dal pensare al fare che definisce una identità
intuita come destino e accettata come scelta. Ma se rimane “ovvio”
il rapporto fra i nutri- menti terreni e ciò che uno diviene e fa nel
tempo, è anche vero che “una immagine retrospettiva di sé è sempre
un’interpretazione che porta il peso della mutata identità
dell’interrogante, del penoso carico di nostalgie, ricordi, rimpianti e
rimorsi e ogni interpretazione, specialmente nell'impegno
auto-biografico, è anche una falsificazione”, per quanto cerchi di
evitare tanto l’apologia ideologica quanto la “disgustosa e mimetica”
confessione personale. Giusto nel mezzo, fra le due citazioni (è il caso di ricordare che è il tempo
della svolta neodada e pop che mette in crisi e addirittura annichilisce
alcuni dei pittori più convinti), G. mostra d’avere di questo destino
ironica e malinconica ma anche dura consapevolezza. Del fallimento egli
tesse un sistema, secondo i miti di Prometeo e Sisifo, riscoperti
come”moderni” dal Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis
picturae? Il punto si identifica con questo estremo di coscienza
contraddetta e irritata: la certezza che la via senza uscita dell’arte
oggi non ha nemmeno l'alibi della professione, del successo, del
guadagno, ma soltanto il fascino senza illusioni di una fedeltà a
un impegno individuale, quasi di una scommessa con la propria
intelligenza e con la possibilità e i limiti del nostro stesso
temperamento!”. Diventano così esemplari l’ultima e penultima
produzione di G. pittore, alla quale viene dedi- cata in questa mostra
una intera sezione con i ciottoli le foglie i frutti, i relitti,
proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi, le
macchie[|...]”:esemplare neltentare una trascrizione di archetipi,
congelati inluoghi comuni della pittura, tipi, generi e maniere (il
fascino baudeleriano dei luoghi comuni! Ma già muovevano nella stessa
direzione ireos e cespugli d'iniziotracce che regrediscono
attraverso lamemoria nella gesticolazione elementare e prima i segni
asemantici, prima ancora (siamo nella seconda metà dei ‘60) le bandiere, i
nastri, i nodi e così via: tutte figure emblematiche, primarie e
coltissime, che niente hanno a che fare con la semplificazione, la
banalizzazione pop. La pittura ivi coincide con la costruzione delle im-
magininominabili (nona caso varianti dell'icona della cosa, anzi del
frantume, astratta da qualsiasi contesto, su un fondo bianco che è il
segno di una definitiva separazione dallo scorrere fenomenico), e insieme
la pittura è automatismo oggettivo, registrazione fredda della
emozione costruttiva (se non creativa): infatti presentata tipicamente
come nodo, descrizione dell’a- G., La pittura a Torino, cit.
»m®) da cor. 4 È ut me rematori E ua Br su :
Pa ù LE a Con Gorza a Palazzo Te, Mantova
zione dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare, 0 dello sciogliere e
liberare (vedi la bellissima immagine scattata, credo, alla galleria
Martano). Ma è tutta la vicenda di G. pittore e critico che
val la pena di ripercorrere in mostra, sia pure per cenni e con
discutibili tagli. Danotarel’uso ch'egli fa dell’insegnamento
casora- tiano: del maestro, G. non assume passivamente il
platonismo, consapevole che il rapporto di Felice con la pittura è dal
principio e resta nel tempo un rapporto decadente, che diventa eticamente
sano e formalmente classico solo per un atto di volontà tanto mirabile
quanto falsificante; sarebbe meglio dire critico, con vettore opposto,
sia pure, a quella che sarà la scelta di G.. Che il travestimentosia
storicamente giustificato su un modello rispettabilissimo come
quello gobettiano, non vuol dire che la sua sostanza più vera non
debba essere riconosciuta nonostante, attraverso la corazza ideologica e
formale ritrovando il nucleo profondo, ’malato”ma straordinariamente
vitale. Di G. è da approfondire l’espressionismo che del
resto condivi- de con altri della sua generazione: Nella
Marchesini, Montalcini, Martina, Cremona, Rama. In tal senso ci si
potrebbe chiedere che peso abbia avuto, localmente, Spazzapan che
esaltava l'ispirazione e deprecava l'istinto (viene in mente la
teoria di Klages, che insiste sulla attrazione magnetica traimmagine e
“anima”, ben distinta, l’anima ispirata e creativa, dall’istinto che è
del corpo, come dalla volontà decidente e dotata di facoltà riflessiva
che è dello spirito”); e anche Levi, l’unico dei Sei che partecipi
intimamente all’espressionismo europeo, e, fuori sede, i romani, Scipione
in particolare al quale Albino dedicò una bellissima recensione,
che è lo stesso anno della prima edizione del Casorati. In un
saggio intitolato Perché non possiamo non dirci crociani, in “Numero G.
sottolinea che la sua generazione “decadente” deve a Croce specialmente
questo: d'essere stata messa nella condizione di “accettare senza
malafede e senza rimorsi i dati di quella cultura di tardo
romanticismo che, così feconda quanto a ricchezza e sottile
sensibi- lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata incapace di
una sistemazione totale... [insomma di poter essere] decadente malgrado
Croce, grazie proprio al riscatto che il metodo crociano offriva”. Che è
un modo ottimo anche per comprendere come coerenza di sistema e
incoerenza pragmatica siano in G. strettamente congiunte in dialettica
tensione: la coerenza consistendo nella allarmata coscienza critica,
nella responsabilità che non può consentirsi “nessuna comoda complicità”,
l’incoerenza nell'essere ogni scelta un esito che, per quanto imperfetto,
è sempre compromesso e rappresentativo. Come a dire che la vitalità
della ricerca costituisce un valore, non meno che l'aspirazione ad una
sistemazione che finalmente rappresenti una “identità”, forse meglio “la
libertà di essere identici al proprio destino”. Perciò G. non
intende, tanto meno come pittore, tagliare i ponti col passato (il suo
passato, oltre che la storia); invece semina il cammino di tracce, di
residui, vorrei quasi dire fisiologici, di lapsus, così che in ogni
momento il cammino sia ripercorribile o almeno riconoscibile, ma
anche sostituibile. Egli, in effetti, sa che nulla va distrutto e non
consuma sacrifici liberatori. Per lui in particolare (adatto il titolo di
un importante saggio), La sublimazione astrattista non liquida
l'erotismo del Liberty, semmai ne prende le distanze, per poterlo
rimettere in circolo, come in un processo alchemico in perenne
rinnovamento. Così G. passa necessariamente da un con-
cretismo geometrizzante, che di fatto ironizza ma non banalizza - la
geometria come privilegiata ma- G., Per un'armatura, Lattes, Torino nifestazione della razionalità e della
chiarezza, ad un concretismo informale che libera la possibilità di
una pittura scritta usando il campo come tabula rasa 0 pagina intonsa,
dove il gesto può scorrere ed intricarsi, e/o come dimensione praticabile
in tutto il suo spessore magmatico, a sua volta ironizzato dalla
scoperta di una ritmica, di una metrica essenziale. Come adire che è
nella pittura nell'arte chesi realizza, assumendo evidenza di mito visivo,
feticcio laico, l'unico progetto possibile senza illusioni razionaliste e
moralismi ideologici. Un momento certamente fondamentale,
sarei tentato di dire il perno sul quale ruota il resto è quello: quando
la natura del gesto s'incontra felicemente conlo schema, generando una
concrezione araldica, l'intenzione simbolica con il simbolo ricono-
sciuto nella memoria collettiva; ennesima variante della tradizione
dell’ornato, raccolta e riavviata dal Liberty: insieme puro gesto e
automatismo assolutamente impuro. In questa mostra, il momento avrà adeguata
evidenza. Ma è anche vero che Galvano si guarda bene dal protrarre
artificiosamente quel momento (diciamolo pure, straordinario, quasi
senza confronto in Italia), tanto che si prenderà negli anni
immediatamente successivi una pausa di riflessione che produrrà anziché pittura
saggi teorici che culminano in Artemis Efesia, per riprendere il
filo (la matassa) della pittura con proposte (in apparenza) assai differenti:
le bandiere, i nastri, 1 padiglioni, gli anelli di Moebius. Che
cos'è la pittura per G., allora? Scrive di lui l’amico / avversario Argan,
che ha scommesso sul progetto ideologico, vincente almeno per un certo periodo
storico: “Egli non risponde una volta per sempre, con una
definizione filosofica: infatti ciò che vuol sapere è che cosa sia la
pittura in questa precisa condizione della cultura, della coscienza,
dell’esistenza, e quale sia il suo grado di vitalità, quali le sue
possibilità di sopravvivere in uno spazio ogni giorno più
ristretto. Non gli si potrebbe dar torto, se non fosse che
proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera come atto critico, questo
è appunto il suo contributo filosofico, e anche la sua testimonianza
sapienziale, che trascrivo da una autopresentazione: Dunque la pittura,
una meditazione sulla morte imminente o il recupero della gioia ottica
nello spazio ripercorso in termini di colore e di luce, sia pure
della luce irreale della memoria e del sogno? O la scenografia di ambigue
emersioni dall’inconscio? Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile
porsi le domande. Forse anche soltanto la monotona iterazione Argan,
in catalogo della personale, Galleria Unimedia, Genova G.,
Autopresentazione, in catalogo della mostra, Piemonte Artistico
Culturale, Torino di una passione per il dipingere, che ripercorre con
insistenza sigle che non è più capace di vivificare colla curiosità e il
gusto avventuroso della giovinezza”. Tante pitture, allora, e però tutte
mirate ad essere presenza di pittura e non illustrazione di
concetti. Pittore concettoso, a volte, mai concettuale nel senso di
illustratore di concetti: aggiungo, nel segno di una ineludibile, per quanto
mascherata vocazione poetica.” Si deve citare, almeno una volta,
Sanguineti, allievo e amico, grande estimatore di G. Mi trovo forzato a pensare
che, alle radici del lavoro di G., come artista e come studioso,
stia un'immagine è la parola giusta che accenna all'uomo come animale che
è capace di immagine. E dunque un’antropologia fondata sopra la
facoltà della visione, In formula perfetta, a conclusione di
Storicità e significato dell’arte astratta, G. precisa. L'opposizione
affermata da Mallarmé tra la concretezza della vue e l’allusività delle
visions, l'affermazione di Alain che il poeta è l'opposto del
visionario perché sa di non vedere sino a che la mano non abbia realmente
costruito nello spazio l'oggetto che la passione progettava, sono
divenute nella co- scienza del pittore concreto l'imperativo di una
scelta tra il peso della memoria e la libertà pericolosa di una
iniziativa tutta affidata al risultato”. Garimoldi, nel saggio più volte
citato, sottolinea che G. pone come centro dell’arte l’insoluto rapporto
fra espressione ed enigma” (che cosa di più chiaramente collocato
sulla linea romanticismo-simbolismo come la vede Albino?), citando una
autopresentazione del La seconda parte di questo scritto elabora
liberamente tre testi: in ordine cronologico, Témoignage de notre dignité,
in Figure d'Arte, artisti a Torino, cur. Balzola, Cavallo, Ghinassi, Mantovani,
Alberti ed., Pescara; A proposito del pittore Albino Galvano, in
Attraverso il Novecento. G. a cura di Pinottini,
Bulzoni ed., Roma; G. pittore, catalogo della mostra, Galleria del Ponte,
Torino Sanguineti, Contro la ragione, “La Stampa Un saggio singolare, dove
Sanguineti è figura nodale nella messa in circolo della linea liberty;
linea che Casorati, Cremona, Mollino e G. avevano mantenu- ta viva con
originali apporti nella prima metà del secolo, è L'altra faccia della
luna Origini del neoliberty a Torino di Elvio Manganaro, Libria ed.,
Melfi. Al saggio citato si deve la conoscenza di un testo di G.: Processo alla
pittura in “Il Selvaggio, che dà originale contributo alla interpretazione
della vicenda artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello
spazio che separa le Uova da quelle, o tra l’”Icaro senza ali e le
ali senza volo del Sogno, di Casorati naturalmente, perché proprio
Casorati è appartenuto paradigmaticamente ai due mondi quello della
figlia di Iorio e quello della Jeune Parque. Manganaro, L'altra faccia della
luna. G., Storicità Garimoldi, G Progetto di una nuova cultura, in
Omaggio. Si dà arte solo quando il non differente operare a fini
strumentali o di puro edonismo è impedito e stravolto dai sedimenti di
una vicenda individuale che s'insinuano e dominano dove pretendeva
condurre il gioco la razionalità del progetto decisionale. A questa
condizione in ogni tempo si è cercato di opporre la dignità
dell’autocontrollo, certo vanamente, ma anche proficuamente perché la
possibilità di coinvolgere gli altri non consiste se non nel pun-
tualizzato istante di tensione in cui lascia materiale traccia di segno o
di tocco quel gioco d’insidie; l'istante in cui l’inspiegata vicenda
interiore si fa immagine ed EMBLEMA Con Bartoli a Palazzo Te, Mantova, La
discutibile scelta di privilegiare la pittura come via di accesso alle
molteplici attività di G. obbliga a segnalare gli autori che affrontano il caso
con particolare intelligenza e puntuale CULTURA FILOSOFICA. Sanguineti,
in catalogo Antologica; Tessari, nello stesso catalogo, e G. e il mito,
in Figure d'Arte, Carchia, Prefazione a Artemis Efesia, nella riedizione,
cit.; Fossati, Autopresentazione, mostra
personale, Galleria Weber, Torino Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo
della mostra al Circolo degli Artisti; A. Balzola, G. e D'Adda:
l'immagine matrice, in Figure d'Arte; Gallino, e Salza, G. e Jung, in G. Ruffino,
Introduzione in G. Diagnosi del moderno, A parte, segnalo il “ritratto”
che ne fa Fossati, presentando Omaggio a G.; e le memorie che in circa
trent'anni di colloqui non di rado centrati su Casorati, Cremona e G. si puo
raccogliere da Gorza, l'unico artista di generazione successiva che per
cultura e gusto potesse essere accostato a G.. È proprio Gino a volere una
mostra comune con il significativo titolo di Sincronie a Mantova in
Palazzo Te; riannodando il filo della presentazione che Albino gli aveva
dedicato dieci anni prima, per l’Antologica nello stesso luogo. Si ricorda
all’inaugurazionela presenza di Bartoli, documentata anchein una
fotografia dove il geniale interprete di Licini sembra inchinarsi
al geniale interprete di Artaud. Più recentemente, sempre al Te,
una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata anche l'occasione per
rievocare la figura di G. con Tessari. Anche Tessari è mancato.
Prova di ritratto e un Uomo riservatissimo, comea volte chi non si
neghi alla mondanità, anzi se la imponga come esercizio. La
leggendaria disponibilità, senza ombra di debolezza, realizza una delle
forme più aristocratiche dell'etica, per discrezione in maschera di
rigore professionale. Essenziale un fondo di malinconia, come misura di
una perdita irreparabile, e di nostalgia per una totalità
irreversibilmente frantumata. Tra distacco soggettivo e oggettiva
commozione scorre l’impurità di un continuare a vivere, si scrive
in tracce stenografiche il diario di un sedotto e di un seduttore
per forza di un gentiluomo piemontese. Sensualissimo lettore;
scrittore capace di costruire macchine logiche come trebbie di tortura, e
di avvolgere in sontuose inestricabili ragnatele (costante una specie
di dolcezza, cui tanto meno resistono rigidi baluardi): trascurabile vi è
l'inganno, perché la circonvenzione è ignobile, specialmente
d'incapace. Come un dovere coltiva il diletto: su questo
piano potrebbe essere magistrale se non fosse troppo fine e
pericoloso un tal modello. Nel suo sistema, la pittura rappresenta il
concreto. Distratto semmai da irridu- cibile curiosità, non è mai
astratto. Ireos, sassi e conchiglie sigillano una storia sostanzialmente
coerente, perché osano confronto con il principio e la fine: così su una
pietra tombale si posano cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie
senza velo. Omaggio a G. Catalogo mostra antologica, Palazzo Chiablese,
Torino Catalogo mostra antologica, Circolo degli Artisti, Torino. Atti
del convegno, a cura di M. Pinottini, Torino Antologia di scritti di A. G., a
cura di A. Ruffino, Aragno Electa Piemonte G. cur. Pinottini
BIBLIOTECA DI CULTURA BULZONI G.: la fedeltà alla pittura
Motto Il magistero casoratiano e la prima figurazione Galvano
nacque a Torino l’anno d'esecuzione delle Demoiselles d'Avignon di
Picasso che segnò l’imporsi e il susseguirsi delle avanguardie: « che nel
bene e nel male problematico doveno caratterizzare, inconcomitanza
concrisi umane, politiche e sociali ben più gravi, ilnostro secolo
sino a porre oggi il problema della morte dell’arte qualunque cosa si intenda
sottolineare con questo termine apocalittico. G. pur muovendosi nel
solco della modernità, affondava le sue radici in una meditata e
personalissima assimilazione di riferimenti pittorici dell'Ottocento e
del primo Novecento, ben lontano dalla reazione e dall’inattualità.
Apparteneva all'ambiente casoratiano e alla sua scuola «divenuta il
centro di un'opposizione cortese, tacita che non esclude, la cosa è molto
torinese, rapporti amichevoli o per lo meno corretti con gl’avversari. Venne
segnata la temperie di una Torino moderna (tuttavia non futurista) di
seguito enunciata in pochi assunti utili a comprendere l’ambiente
artistico nel quale G. s'introduce: la comparsa di FCasorati alla
Promotrice come artista rivoluzionario e di rottura; la breve
esistenza di Gobetti e il suo cenacolo antifascista; le polemiche e la
reazione dell'ambiente cittadino alle scelte di gusto antinovecentiste
di Venturi rivolte all'arte di nuovi primitivi, gl’impressionisti;
il fugace percorso del gruppo dei sei di Torino (coagulato e promosso dal
duo Persico e Venturi) che rinunciarono a Roma madre per Parigi
amica; e la vitalistica apertura culturale europea del finanziere,
collezionista e mecenate Gualino. Dopo un precoce apprendistato con il
pittore Pisano e il maestro di disegno Vannini, l'educazione di G. all'arte
contemporanea si svi- luppò suriviste di settore (in
particolare”“Emporium” e “L'art vivant”) e attraverso la frequentazione
delle Biennali veneziane. Alla rassegna G. puo osservare dal vivo
la pittura di Felice Casorati che rappresentò «la scoperta del mondo
nuovo e spre- giudicato che si apriva alla nostra cultura:
l'ingresso del mondo “moderno. Ai iscrisse alla Scuola Libera di
Pittura di Casorati (sorta a Torino e strutturatasi maggiormente dnella nuova
sede di via Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino. Il suo
magistero, lontano da G., Autobiografia, in Pizzetti e Givone (cur.), G., catalogo della mostra,
Palazzo Chiablese, Regione Piemonte, Torino Galvano, Torino e i «Secondi
futuristi», in G., Diagnosi del moderno. Scritti scelti cur. di Ruffino,
Aragno, Torino G. (al centro, seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli
altri) Scroppo, Maugham, Galvano, Cremona, Casorati, Rama, Bertolè, Valpellice. Ogni
sistematicità d'accademia, non è solamente estetico ma anche pregno
dell'eredità etica e politica gobettiana: un debito verso quel «fanciullo
puro» che esigeva «fedeltà e non lacrime»®. Per Galvano il punto
fondamentale della sua formazione fu il trovarsi par- tecipe di un
ambiente che lo salvò «tanto dal rischio di un'adesione acritica al
regime imperante [...] e da quello ben più grave [...] di un'immersione o
som- mersione nella Torino di quel tipo di borghesia che amava in
pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento del «platonico» Casorati, pervaso
«d’una signorile severità», verteva su l’«insieme» e il «tono». Dal
saggio Casorati di G. (Hoepli, Milano) si legge che il Maestro
consigliava agli allievi di «imparare a vedere il più semplicemente
possibile la forma di quella determinata massa tonale, di quella
determinata massa chiaroscurale, non la forma dell'oggetto. La forma
serve qui a distruggere la linea ed a passare al colore [...]»*.
Il clima della scuola di via Galliari fu efficacemente narrato da
Lalla Romano ne Una giovinezza inventata: «Verso sera venivano sovente
visite: Rossi, Soldati, Levi. Levi ridacchia con lei sull'indirizzo
classicistico della scuola, dove gl’allievi più ambiziosi preparano un bozzetto
per il quadro. Ride ma affettuosamente. C'è UNA BASE CULTURALE COMUNE: IL
DISPREZZO PEL FASCISMO. I nomi citati sono solo una parte delle
personalità con cui G., all’inizio degli anni Trenta, instaurò un
duraturo rapporto amicale sulla via del confronto artistico, tra gli
altri: Montalcini, Bonfantini, Chicco, Cremona, i sei e Gobetti,
Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo Casorati, in “Il Mondo”, G.,
Autobiografia G., Casorati, L. Romano, Un invento, Einaudi, Torino Argan,
ma anche Mollino, Mila, Ginzburg ed Antonicelli. La pittura
postimpressionista di G. si orienta in un contraddittorio intento di tenere
insieme i valor plastici di Casorati e quelli dei Sei» il cui risultato
«pesante e impastato» fu autocriticamente espresso dall'artista
stesso. Anche una certa l’arte d'oltralpe praticata da stranieri fascina
G. (Vlaminck, Terechkovitch, Krog), mentre i rimandi nostrani furono
indirizzati alchiarismo lombardo eai tonalisti romani. Quei loro mezzi
misi sfasciano ed intorbidivano tra le mani, rimanendo parentele
d’accatto o esperimenti di lettura, ed enorme riusciva la dispersione e
la perdita di tempo. Un repertorio antinovecentista di temi iconografici
ricorrenti segnò quel periodo: pesci, molluschi, conchiglie, vecchi libri
accartocciati, crocefissi e acquasantiere barocchi, nudi tortili come
molluschi e paesaggi incerti tra quegli andamenti sinuosi e un
modesto cezannismo che era nell’aria, G. s’inserì nel circuito espositivo nell’anno
in cui le arti si avviavano verso la loro FASCISTIZZAZIONE di forma con
l'istituzione del SINDACATO FASCISTA a cui venne affidato il compito di gestire
le manifestazioni espositive periodiche sul territorio nazionale.
Il rapporto con la società artistica di un Novecento sarfattiano (a un
passo dallo smantella- mento definitivo) e della retorica celebrativa di
Stato era destinato tuttavia a un sostanziale fallimento. A
Torino G. esordì nell'alveo casoratiano in due mostre della scuola. Sono regolari
le sue presenze alle espo- sizioni annuali della Promotrice di Belle Arti
con più sporadiche puntate alla Società degli Amici dell’arte. Il
filosofo ZANZI (si veda), in una recensione riguardante un'esposizione di
vendita torinese del 1934, sagomava i tratti pittorici di G.: sfuggito
anzitempo alla disciplina rigorosa della scuola di Casorati. Il Galvano
in certe composizioni di nature in silenzio ricorda la chiara e sapiente
pittura del Maestro, in altri quadroni ricerca l’effetto della
pennellatona agile ed abile, cara passione di qualche post-impressionista»".
Alle rassegne di carattere nazionale Galvano prese parte alla I e
alla Il Quadriennale romana dove vi fu una discreta rappresentanza
torine- se e piemontese: Felice Casorati e il suo discepolato
(Paola Levi Montalcini, Nella Marchesini, Sergio Bonfantini, Emilio
Sobrero), Daphne Maugham, G., Autobiografia G., in catalogo della mostra,
Galleria La Giostra, Asti Zanzi, in “La Gazzetta del popolo G. e Scroppo
alla I Mostra Internazionale dell'Art Club, Palazzo Carignano,
Torino. parte dei sei ( Levi, Menzio, Paulucci), Milano,
Mastroianni, ICremona. Alla Biennale di Venezia G. presenzia con un’opera
nella stessa sala di Casorati e allievi, mentre nell'edizione espose
isolato (a Chessa venne dedicata un'ampia retrospettiva, Menzio e
Paulucci comparivano attigui). In questo periodo sono da
indagare infine le par- tecipazioni alle quattro edizioni del Premio
Bergamo. Fuuna manifestazione, insieme al Premio Cremona, che svelò la
dialettica artistica italiana: due componenti antitetiche dello stesso
volto del regime. Il primo (promosso da Bottai), più elitario, «si
riallacciava a un versante dell’arte italiana colto, internazionale e
post-impressionista»!* suscitando polemiche nell’ala più intransigente
del fascismo; il secondo (voluto da Roberto Farinacci) era sintonizzato
sull'onda delle mostre hitleriane. AII Premio Bergamo del 1939 (in
giuria Casorati, Funi, Longhi e Argan) il terzo riconoscimento
venne suddiviso tra cinque concorrenti: si evidenziava la presenza
romana di Capogrossi e quella piemontese con Menzio, Paulucci, G. e
Martina (è presente anche Galante, non premiato). Al secondo Premio
Bergamo G. riceve una particolare menzione e il suo dipinto fu acquistato
dal Ministero dell'Educazione Nazionale. Galvano espose anche alla terza
e alla quarta edizione (vincitore l’intimista Menzio), la rassegna
scandalo della Crocifissione di Guttuso, reinterprete drammatico e
rabbioso di un’iconografia mutuata dal sacro: anticipazione in chiave
cubista della militanza postbellica. Il ventennio
Trenta-Quaranta contrassegnò inol- AA.VV, Gli anni del Premio Bergamo:
arte in I talia intorno agli anni Trenta, catalogo della mostra, Bergamo,
Electa, Milano tre il compimento della formazione intellettuale di G. che
si laurea (con GAMBARO (si veda) ed ABBAGNANO (si veda) con una tesi
sulla pedagogia della religione: atto dell’approfondito confronto con le
tematiche spiritualiste, antropologiche e filosofiche, in primis
l'influenza di CROCE (si veda) e Bergson. Tra le sue prime prove di
critica d’arte si possono menzionare il saggio su Spadini in “L'Arte”
diretta da Venturi; il saggio su Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con
il periodico milanese “Le arti plastiche e la redazione delle cronache
d’arte torinese per Emporium. Si ricordano inoltre i volumi (per l'editore fiorentino Nemi) L'arte
egiziana antica, L'arte dell'Asia occidentale e centrale, L'arte
dell'Asia orientale; il saggio Casorati edita da Hoepli (uscirà una
seconda edizione) e Tre nature morte: Casorati, Menzio, Paulucci
pubblicato a Torino. È assistente alla Cattedra di pittura di Paulucci
all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino ed insegna storia FILOSOFIA
negli istituti liceali. Tra gl’allievi con i quali mantenne profondi
legami si ricorda Sanguineti.
Dalla fase espressionista verso l'astrattismo, al termine del conflitto bellico
per Galvano e gli artisti della sua generazione s'impose il confronto
con l'avanguardia, l'Europa e il moderno. «Moderna non è soltanto
l’arte prodotta nel periodo in cui viviamo, ma quella che di voler essere
moderna ha programmatica intenzione! [ Che assume come categoria
predicativa l'affermazione di novità rispetto ad una situazione di
cultura storicamente conclusa. Il concetto di moderno si chiarisce, così
come un concetto etico per cui
l'avversario non è un modesto o nullo artista, ma il traditore di una
causa totale, il reazionario che non merita pietà e al quale non
giova la buona fede». Queste lucide affermazioni di G. aiutano a
delineare un settore della sua linea di pensiero che contribuì ad animare
il vivace dibattito degli intellettuali torinesi, fautori di quel
compatto blocco culturale che tentò una ricostruzione «morale e civile»
della società. La posizione politica di G. dopo la Liberazione è
abbastanza distante dall’ideologia estetica del fronte comunista. L'urto
non è tanto fra tradizione e innovazione, anche meno tra astratto (o
concreto) e figurativo ma tra militanza costruttiva ed autonomia
critica. G., Moderno, in Enciclopedia Universale dell'Arte, vol. IX,
Fondazione Cini, Roma-Venezia Mantovani, Il malessere dell'arte, in G., La
pittura, lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Quadrante,
E; Negli anni postbellici il complesso confronto-
scontro con Croce è ineludibile e la posizione di G. (sviluppata in anni
più tardi nel fondamen- tale scritto Perché non possiamo non dirci
crociani) merita qui qualche breve accenno. L'intuizione pura, come
atto teoretico astorico, non poteva prescindere dalla soggettività
dell’«opera manuale». La polarità non sussisteva tra il bello crociano,
simbolo del bene morale e il suo opposto, quanto tra lo «spirito»
(il momento razionale - contemplativo) e il sangue (il principio
vitale inconscio che in ultimo concretizza l’opera con il linguaggio
scelto). Scriveva Galvano nel numero unico del periodico “Tendenza”
(coideato con Oriani): Questo bisogno del sangue che ignora l’astratto
spirito e gli anatemi e le accuse di naturalismo degl’idealisti o quelle
d’immoralità degli spiritualisti è essenziale all'opera di pittura. Essa
cade o sussiste con il sangue non con lospirito»!. L'attività di critico
d’arte seguitò in quegli anni anche su quotidiani come La Nuova Stampa e
Mondo Nuovo. La pittura di G. si apre ad una fase espressionista
slargandosi e semplifi- candosi in campiture bidimensionali dai
contorni lineari marcati e attraverso l’uso di un cromatismo
timbrico. In un testo di autopresentazione l'artista esplica. Così quando,
Guttuso guardando a Picasso, Birolli e quelli di “Corrente”
sbirciando l’espressionismo, diedero altro indirizzo alla pittura
italiana, mi trovai in ritardo rispetto a quei coetanei e ai loro
discepoli molto più giovani di me, e con un bilancio piuttosto negativo.
Tentavo così una soluzione in un breve periodo di esasperazione
“espressionistica” del segno, dove l’“illusivo” si trasforma in “allusivo” IMPLICATURA
COME ALLUSIONE ED ILLUSIONE) a quelle immagini che puo considerare suoi.
G. puntualizzava inoltre di essere stato tentato verso «esperienze
varie di carattere cultu- ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty
che allora fu aspramente rimproverato da certi critici (Podestà) come
incomprensibilmente anacronistico ma che almeno come recupero critico,
rappresentava un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di
moda un ventennio più tardi. Nella Torino della Ricostruzione gli
spazi espositivi sono esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi con una
libreria come per esempio la Faber, dove G. partecipa ad una Antologica di Maestri
contemporanei. Alla personale di G. presso la Libreria del Bosco «ci troviamo
di fronte ad un artista dalle varie esperienze», denota Torino G., La
pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza” G., Galleria la Giostra G., Autobiografia
Gatto su “L'Unità”, e proseguiva: «riesce spesso a lievitare le
acquisizioni culturali ed a tradurle in efficienti risultati creativi».
Il molteplice approccio stilistico, confessato dallo stesso G. nell’auto- presentazione, è qui confermato:
«leggero impressionismo, decorativismo un po’ orientale, motivi che
tendono a risolversi in figurazioni quasi astratte». La fase pittorica
più recente, concludeva Gatto, «pare indirizzarsi verso una pittura
dominata da una volontà ed un’ansia di sintetismo formale»?.
Alla Biennale di Venezia del 1948 (la prima edi- zione al termine
del ventennio fascista nella quale emersero le linee essenziali degli
sviluppi dell’arte moderna europea) Galvano partecipò su invito con
cinque opere (nudi e nature morte del 1947-48) in sala con Martina e
Paulucci. In quell’edizione fu parecchio vasta la partecipazione di
artisti torinesi sulla via dell’astratto: Sandro Cherchi, Mario Davico,
Garelli, Gorza, Montalcini, Mastroianni, Moreni, Parisot, Rama, FScroppo.
All’edizione, nuovamente su invito, G. è presente con tre opere (in sala
con Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Turcato, Vedova, Zigaina). Si
registrarono nume- rose partecipazioni dell'artista a rassegne nazionali
di verifica diretta degli sviluppi artistici contemporanei, tra cui
la Quadriennale romana e la mostra
collettiva Arteastratta e concreta presso la Galleria Nazio- nale d’arte
moderna di Roma (il comitato esecutivo era composto da Joseph Jarema, Palma
Bucarelli e Giulio Carlo Argan). Il testo di Galvano in catalogo
analizzava la ricerca concretista propria e dei torinesi verso una
direzione lontana dal «formalismo astratto» insenso stretto e intesa attraverso
la «‘“proiezione” nelle strutture dell'oggetto stesso di una carica
emotiva, che asua volta presuppone la totalità spirituale
dell'artista impegnato, ed impegnato “responsabilmente”, in una
prospettiva, in una scelta, in una “Weltanshaung”, cioè in ultima analisi
in un punto di vista etico e metafisico. Non può perciò stupire che anche a
Torino siano proprio gli artisti più responsabili di fronte a un
loro mondo interiore a volgersi a questa pittura. Superfluo cercar
nel dato estrinseco del gusto un’unità “munici- pale” o di gruppo: se mai
l’unità “torinese” di questi pittori è nella condizione di cultura cui lo
stesso schivo etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città
in cui essi lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate,
propizia»”!. Rilevanti furono inoltre le sortite extranazionali. In
occasione della mostra nizzarda, Peintres de Turin, Galvano definì forme
e colori delle sue com- Gatto, Mostra d’arte. Galvano al Bosco, in
“L'Unità”. G., in Arte astratta e concreta, catalogo della
mostra, Galleria Nazionale d’arte moderna, Roma. Con Paulucci, G. e
Scroppo. Conferenza al Circolo degli Artisti, Torino. posizioni
come «feticci laici», «costanti di sentimenti e impulsi» che non
necessitavano di riportarlo a una rappresentazione esteriore e imitativa.
La topografia spirituale di questo mondo che non è né meccanica né
architettonica, ma piuttosto organica e determinata soprattutto dalla
tensione tra le forze elementarie vitali pressanti, da una parte, e
l'aspirazione religiosa o me- tafisica dall'altra, che vuole dominarle e
oggettivarle nello spirito delle tradizioni filosofiche e religiose
alle quali nei miei quadri faccio a volte allusione anche
attraverso i titoli stessi. Al Premio Parigi (itinerante anche a
Cortina d'Ampezzo) il critico Luigi Carluccio seguita di rimando:
L'artista si è portato sempre su posi- zioni di ricerca mantenendo
tuttavia vivo il dialogo fra i suoi istinti pittorici e le sue
meditazioni. Il temine feticcio
laico annota con felice incidenza che all'origine degli impulsi e dei
sentimenti è sempre vivo lo stesso dibattito tra la pressione vitale di
forze elementari, naturali, e l'aspirazione ad ordinarle in una
ragione metafisica. Il rivolgersi all'arte d'oltralpe (già a
partire dalla mostra Arte francese d'oggi, Roma e Torino) ebbe
degli echi a Torino con le sei edizioni della rassegna Pittori d'Oggi
Francia- Italia promosse da Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla
prima e alla terza, così come figurava ai due Premi Saint Vincent messi
in piedi dalla fronda democristiana capeggiata da Carluccio in
re-Carluccio, in Mostra Nazionale del Premio Parigi catalogo della mostra,
Cortina d'Ampezzo e Parigi Con Chessa e Matteis. azione al Premio
Torino, troppo polarizzato a sinistra secondo il critico. È
di vitale importanza ricordare infine il ruolo di G. come animatore
culturale nel clima di fermento postbellico, dapprima impegnato
attivamente come promotore dell’Unione Culturale (raccolse intellettuali
antifascisti tra cui Einaudi, Mila, Antonicelli, Venturi e tra gli
artisti Casorati, Menzio, Levi) e come propugnatore di due rassegne
artistiche: la I Mostra Internazionale dell'Art Club a Torino e la Mostra
d’arte contemporanea di Torre Pellice. La prima con presidente Casorati e
segretario Scroppo, organizzata dalla sede torinese dell'Art Club,
un'associazione apartitica internazionale — mirava a presentare le nuove
voci artistiche italiane e di diversi stati esteri. La seconda, aveva
sede a Torre Pellice, che «pur nella modestia delle proprie
possibilità, possiede, come centro delle Valli Valde- si, una secolare
tradizione di cultura che ha i suoi particolari caratteri di pensiero e
di ispirazione. È stata ideata insieme a Scroppo, artista e critico
valdese, (nativo della Sicilia ma inseritosi dalla metà degli anni Trenta
nell'ambiente cittadino) e da Bertolè notaio e illuminato collezio-
nista di moderno. La Mostra d’arte contemporanea appuntamento estivo annuale
protrattosi per un Mostra d'arte italiana contemporanea, catalogo della
mostra, Collegio Valdese, Torre Pellice quarantennio al quale G. espone
assiduamente—trasformòla cittadina della provincia torinese in un polo
culturale aggiornatissimo sulle ricerche artistiche nazionali e con
qualche non rara puntata internazionale. Il Movimento Arte Concreta
Il confuso ribollire di tendenze astratteggianti, che impera anda
delineandosi verso l’elusione dell’astrazione su base mimetica in
favore del concretismo. Una lucida definizione della corrente venne
offerta da Dorfles in un saggio, il così detto manifesto del Movimento
Arte Concreta fondato a Milano insieme a Munari, Monnet e Soldati. Dorfles
precisa il concetto di concreto che non cerca di creare delle opere d’arte
togliendo lo spunto o il pretesto dal mondo esterno e astraendone
una successiva immagine pittorica, ma che anzi andava alla ricerca
di forme pure, primordiali, da porre alla base del dipinto senza che la
loro possibile analogia con alcunché di naturale avesse la minima
importanza. L'adesione formale al MAC di G. e un gruppo di
giovani torinesi — Biglione, Parisot, FScroppo e in seguito Rama e
Montalcini — avvenne. A Torino il coagulo del Movimento rappresentò una
sfaccettata unione di poe- tiche, abbastanza distante dal rigore
costruttivista delle soluzioni compositive lombarde che fondava le sue
basi nell’Astrattismo storico internazionale e locale degli anni
Trenta. In questa sede non è possibile analizzare la presa di coscienza
sulle radici dell'avanguardia delle personalità torinesi e ci si limita
al solo caso di G.. 1] distacco di G. dal comitato promo- tore del
Premio Torino (la prima manifestazione locale di arte attuale italiana
dopola fine della guerra)non avven- ne solo per posizioni politiche. Come
chiariva Giuliano Martano, nel catalogo della mostra Arte concreta a
Torino, per una parte di artisti si trattava di una scelta di «lettura in
quelle matrici dell'avanguardia europea quasi in contrapposizione alle
matrici trovate allora in un neonaturalismo e del Fronte nuovo delle arti.
Per G. e il discepolato della scuola di Casorati, alla quale
riconoscevano la creazione di «una terra concimata pronta a recepire,
stratificazione di cultura altezzosase vogliamo, ma attenta. Aveva
purelasciato ineredità una figurazione latente, una scansione dell’og-
getto che verrà dai torinesi lentamente e sofferentemente decantata»°.
Uno smarcamento, dunque, in totale buona Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra,
edizioni Schwarz, Milano. Dorfles, Manifesto del MAC, ora in Arte concreta a
Torino catalogo della mostra, Sala Bolaffi, Torino Martano, in Arte
concreta a Torino pace del Maestro, che anche G. intraprese: la via verso
l’astrattismo ben circoscritta e lineare. La sua poetica, tra i
torinesi, era la più distante dal concretismo «proprio perché non è mai
d'origine sperimentale ma la sua avanguardia si pone sempre come una
verifica dello sperimentalismo. Si pone insomma come contrasto immediato
fra una realtà esterna ed una realtà interna quasi avida di controllare
im- mediatamente sul terreno stesso dell’accadimento, la validità
dell’accadere, e di controllarlo appunto in via sperimentale»?
Gli aspetti strettamente contenutistici della pittura di G. sono in
diretto contatto con i suoi interessi in quanto studioso di filosofia e
FILOSOFO e storia delle religioni. Griseri nota che gli entusiasmi
per Kandinskij volto all’astratto e per il primo Kupka giungevano a
una presa di posizione nell’ambito dell’arte non figurativa, chiarita in
numerosi saggi, in cui G.lumeggia la derivazione dalla secessione di
Klimt di molta arte contemporanea in una interpretazione nuova dei
rapporti art nouveau- Liberty e astrattismo. Degli scritti galvaniani
degli anni Cinquanta ai quali Griseri si riferisce citiamo almeno:
Storicità e significato dell’arte “astratta, Dal simbolismo
all’astrattismo, Le poetiche del Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo
figurativo. Gl’intendimenti del manifesto del MAC torinese sono
piuttosto netti. Più in generale erano incontrapposizione con il
dibattito dilagante in quegli anni che scindeva gli artisti tra
formalisti e realisti, con- tro il neopicassismo ed estranei al «pudore»
del compromesso dell’astratto-concreto di Venturi. A livello
localelalororicerca era indirizzata all'emancipazione dall’orbita
casoratiana, dal neoimpressionismo dei Sei e dal secondo futurismo con il
quale condividevano lo spirito avanguardistico, ma certamente non gli
in- tenti. Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmarono il testo
programmatico, con la responsabilità di «lotta contro ogni conformismo
pigrizia intellettuale». «Se il nome stesso di arte concreta sta a
significare il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con
tradizioni storicamente esaurite per sostituire la loro ricerca d'una
diretta presentazione d’oggetti in cui si vengano obiettivando i bisogni
spirituali dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro quo-
tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali. G., pur immerso in una
personalissima ricerca non figurativa, nel periodo che all'incirca
si estende, sviluppò una maggior Griseri, G., in Dizionario
Enciclopedico, Utet, Torino Biglione, A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo,
in “Arte con- creta” Caramel, Mac Movimento Arte Concreta Electa,
Milano adesione al MAC. Lo spazio dei suoi dipinti, asciugato
dall'andamento curvilineo delle partiture, si popolò di forme squadrate
dalla linearità spigolosa. Tutta- via, la freddezza costruttivista e il
rigore logico del concretismo erano solo apparenti; l'artista
puntava al contrario «ad un'arte che preservi il dialogo tra gli
schemi astratto-geometrici e quelli compositivamente più liberi, moduli
grafici e forme archetipiche non direttamente razionalizzate.
Un precoce avvicinamento ai concretisti lombardi lo si data. G. èpresente
a Milano in due collettive: con Scroppo (presentati da Monnet) presso la
Libreria Il Salto, cenacolo della pittura concreta milanese e alla
mostra di pittura astratta italiana. Astrattisti milanesi e torinesi
allestita alla Bompiani dove esponevano i piemontesi Costa, Davico,
Mastroianni, Parisot, Scroppo, Spazzapan). I maggiori rappresentanti della
corrente di entrambe le regioni figuravano, G. compreso, anche alla
II e III Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice.
L'allineamento al MAC di G. fu palesato anche dalla sua presenza ad
esposizioni promosse dal gruppo. La sortita d'esordio dei torinesi
(Biglione, G., Parisot, Scroppo ai quali si aggiunsero anche Davico, Merz
eGiannattasio) avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra
Pittori astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu però la prima
presenza organica del concretismo in città poiché presso Il Grifo
si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come alla Quadriennale
Nazionale d’Arte di Torino dove comparve una nutrita schiera di
astrattisti tra cui anche G.. Commentando la mostra presso Gissi,
sul bollettino Arte concreta G, esibe la profonda sicurezza di una non
superficiale accoglienza nell'ambiente cittadino e rilevava la
sfaccettatura di posizioni della compagine torinese che collimavano in
una base comune di principi. Principi che possono riassumersi in una
profonda fiducia nella capacità dell’uomo ad esprimersi e a
comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro linguaggio delle forme,
attraverso l’organicità e la coerenza ch’esso sa imprimere ad un discorso
i cui vocaboli non hanno bisogno di essere immagini e finzioni per
legarsi a una sintassi espressiva e, nei casi più felici, poetica.
La politica espositiva del gruppo torinese non Mulatero, in P.
Mantovani, I. Mulatero (a cura di), Lucide inquietudini. Storie singolari
dell’astratto-concreto, Civico Museo d’arte Contemporanea di Calasetta,
Calasetta G., Mostra di pittori concreti di Milano e Torino alla Saletta
Gissi, in Arte concreta n. 9 cit., ora in L. Caramel, Mac Movimento Arte
Concreta Con un'opera dalla serie i Nastri. ebbe seguito se non
l’anno successivo alla Galleria 5. Matteo di Genova. L'eccezione è
rappresentata da G. che figurò in svariate mostre organizzate dal
MAC, si ricordano qui le principali: Pitture di G. in un esperimento di
sintesi, presso lo Studio b24 di Milano (valla pena rimandare agl’asterischi
galvaniani di quel periodo, quasi privati manifesti sui bollettini Arte
concreta che chiariscono la sua posizione all’interno del movimento) e lo
stesso anno a Torino da Gissi esposero pittori concretisti italiani e
francesi (G. presenta collages polimaterici di ascendenza prampoliniana);
sempre al Torino l’anno successivo G. è presente ad una mostra allestita
dallo Studio b 24 in occasione del Salone dell'Automobile. Si
menziona a parte la collettiva presso la Galleria il Fiore di Milano dove
G. espone insieme a Bordoni, Jarema, Parisot e Scroppo. Nello
scritto introduttivo al catalogo elaborò stringenti analisi nei riguardi
di un’«arte figurativa che non ripeta ma continui la natura», invitando
il visitatore a riflettere «che l'apparente chiusura ad una più
ovvia comunicazione di queste opere nulla intende precludere alla
possibilità di uno scambio e di una penetrazione sempre possibili
nell'esercizio di una lettura figurativa per elementi, segno colore,
movimento, materia, ecc., non differenti da quelli che consentono la
valutazione di ogni buona pittura. Non sono da dimenticare infine
le presenze alle Biennali veneziane con la sua produzione
concretista e la ripresa espositiva alle rassegne della Società
Promotrice di Belle Arti di Torino. Dall'Informale al
neoliberty floreale, il logico passaggio all’astrattismo di G. culmina in una fase di tensione tra impaginatura
attenta alle squadrature neoplastiche e colore tonale impastato. La
vibrazione cromatica delle campiture, ottenuta attraverso una libera
stesura di pennellate, lo portò a un lento e graduale sfaldamento delle
sue strutture geometrico-architettoniche a favore dell’indipendenza
dell'immagine e al protagonismo di una componente espressiva. Sul piano
formale il gesto pittorico si faceva emancipato e l’organicità
della materia riprendeva vigore. Si segnò qui il definitivo
passaggio di G. all’Informale, lontano dall’interpretazione del
neona- turalismo propugnata dal duo Carluccio-Arcangeli (è proprio che
sono presentati a Torino l’artisti informali presso La Bussola
nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo che rivelava la
volontà di mantenere una continuità con il passato e la natura.
L'evoluzione del concretismo impose a G. (e alla compagine torinese
del MAC) un binario doppio di direzioni che nonsiindirizzò
all’antipittura quanto piuttosto alla scelta di rimanere dentro la
pittura nell’opzione di un astrattismo lirico che lo condurrà verso
l’Informale. Un Informale, sosteneva G., affine alla declinazione di un LINGUAGGIO
ASEMANTICO in cui tuttavia potessero trovare esito quelle ALLUSIONI O
IMPLICATURE PRAMMATICHE SIMBOLLISTICHE che hanno un posto ben rivelato
dai titoli dei suoi quadri del periodo astratto-concreto Rica pe
Una delle prime esposizioni che offrirono un G. smarcato
dall’astrattismo di matrice con- creta fu la personale alla
Biennale di Venezia mirabilmente introdotta d’Argan. La radice comune
della sua pittura è la distinzione netta tra i concetti di forma e
immagine. L'idea di forma è inseparabile dall'idea di arte come
rappresentazione, implica sempre un contenuto di nozioni, un riferimento
alla natura, un G., in Bordoni, G., Jarema, Parisot e Scroppo,
catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano G., Autobiografia G., in Bordoni, Galvano,
Jarema, Parisot e Scroppo G., Autobiografia processo dioggettivazione. L'idea
diimmagine supera ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività
costante di quod significat e quod significatur; mira a designare
un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap-presentazione
un'immediata semantica. Segue Argan. La sua è la ricerca di un'immagine
che non abbia determinazioni dirette o indirette nel mondo esterno,
che non si manifesti per via di similitudini o allegorie, che dichiari
esplicitamente le sue origini e le sue ragioni esclusivamente umane, che
si ponga ad un tempo come noumeno e come fenomeno. Così la materia,
non la forma, diventa mito ed immagine; e la materia è il colore, ma
anche IL SEGNO, la linea, il punto. G. venne invitato da Ragghianti per
una personale alla Strozzina di Firenze. Nell’autopresentazione l'artista
tenne a ribadire ancora una volta le convinzioni e la coerenza del suo
percorso pittorico che lo avevano condotto all’Informale. La formazione
spirituale si ècompiuta, esplica G., attraverso la sua adesione
alle correnti non figurative, a quell'inversione del simbolismo
nell’astrattismo che ho cercato di spiegare storicamente in sede critica.
Perciò a Kandinskij e al Kupka agli americani Pollock e Tobey, ai
polimaterici di Prampolini. L'unico germe di “manifesto” è quello sul
feticcio laico. Feticcio cioè metafisica, ma laico cioè antimetafisica.
Crede si possa essere antimetafisici solo nella misura in cui si è contro
le false metafisiche. Nel caso dell’arte contro la falsa ispirazione,
l'evasione sentimentale. Il mezzo informale di G. vira verso
accezioni neoliberty. La copertura totale della tela della prima fase si
distillò per mezzo di uno sfondo neutro solcato da grafismi pittorici
orientati sempre meno verso un'immagine quanto in direzione di
archetipi floreali e calligrammidi scrittura gestuale. Galvano
recuperava, seppur allusivamente, attraverso una nuova definizione di
immagini, la figuratività «trasformando o meglio puntualizzando i
feticci laici in emblemi esplicitati in forme larvali di iris, i
fiori paradigmatici del Simbolismo. Oltre alle regolari presenze alle
Promotrici torinesi e alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano
la puntata alla collettiva berlinese presso la Maison de France, le
partecipazioni al Premio Bergamo, ai Premi Arezz e Fiorino. (Firenze)
e alla Quadriennale romana. Di particolare rilevanza in quel periodo
furono Argan, in catalogo della Biennale di Venezia, Venezia G., in
catalogo della mostra, Galleria La Strozzina, Firenze G., Autobiografia
Due mostre. La personale presso Il Canale di Venezia presentata da
Edoardo Sanguineti che così ultimava il suo scritto: «I fiori Mallarmé
ci costringono anche a riguardare di nuovo in faccia la posizione
dell'artista las que la vie étiole, portando cosìla pittura ad assolvere
a un compito, molto forte e molto importante, di smascheramento
dell'avanguardia, nella forma, secondo le possibilità “moderne” di
uno estraniamento. Nella collettiva (G., Scroppo e Montalcini) al Quadrante
di Firenze, Dorfles, accogliendo gl’enunciati di Sanguineti, alluse
altresì ad un significato orientaleggiante delle pitture di G. che
avevano: accolto nella loro matrice compositiva quasi il vuoto il sunyata
di certa arte zenista, purrimanendo lige a una composta scansione
di ritmi dell’Abendland. Pittore dunque in senso tradizionale si
define G. che ricusava le forme antipittoriche, schiuse alla strada
dell’arte-oggetto (della quale si interessò in sede teorica), per
abbracciare una «simulazione d'avanguardia». Un profondo disagio lo conduce
a compiere una pausa dalla pittura causata probabilmente dal
cortocircuito innescato a causa di intendimenti antitetici perseguiti dal
parallelo mestiere di critico e di artista. Come rimarcava
Argan: Sanguineti, in catalogo della mostra, Il Canale, Venezia, Dorfles,
Tre pittori torinesi, in G., Montalcini, Scroppo, catalogo della mostra, Il
Quadrante, Firenze, G., Autobiografia Con Scroppo. la confluenza dei due
percorsi di pensiero (e la sua pittura è tutta pensiero) sono difficili e
interiormente sofferte. Assumono infine un ruolo fondamentale
nella produzione saggistica di Galvano i due volumi pubblicati in
quel periodo: Per un’Armatura (Lattes) e Artemis Efesia. Il significato del
politeismo greco (Adelphi). Sono opere difficilmente classificabili
che attingono alla filosofia, alla storia delle religioni, alla
psicoanalisi e all’antropologia. I due studi affron- tano il problema
dell’interpretazione sia culturale che psicologica di un passato che ci
coinvolge direttamente e sono al tempo stesso processo di autoanalisi in
merito al rapporto tra una figura-feticcio
un’armatura tardomedievale e un idolo greco e l’area psichica della coscienza.
È certamente per G. la fase più feconda di collaborazione con
periodici e riviste tra cui le torinesi Sigma, Cratilo”e come
redattore di Questioni(Galleria di Arti e Lettere”) con Ciaffi, Lattese e Navarro
per Lattes. Una menzione a parte merita il Argan, in catalogo della mostra,
Unimedia, Genova Roberto, G., Dizionario biografico degli italiani,
Treccani, Milano contributo Le tigriimpagliate per il primo numero d’Azimuth
fondata da Manzoni e Castellani. Per “Letteratura” nG. pubblicò La
pittura a Torino, un lucidissi- mosaggio che inquadra, da testimone
diretto, l’arte torinese del dopoguerra. Successivi furono i
notevoli contributi sulla situazione artistica cittadina tra cui:
Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino, Torino e i “secondi futuristi” e
La pittura a Torino. Bandiere, Nastri, Griffonages e SEGNI
ASEMANTICI. Con l'esposizione Erbe e Bandiere, presso la Galleria Botero
di Torino, Galvano sentì «il bisogno di affiancare e poi sostituire gli
emblemi ispirati alla natura con quelli di carattere artificiale più
spogli e tendenti in qualche modo a una nuova astrazione». In
mostra le forme organiche dai tratti guizzanti dell'ultimo Informale di G.
sono accostate, in un felice trait d'union, con la nuova produzione
attraverso la serie delle Bandiere. In uno scritto critico perla suddetta
mostra Chepes sottolinea. Le sue erbe alghe, le sue flammulae, più che
bandiere, sembrano, ad analizzarle, vive, agitate da sentimenti, da
spasimi da aneliti, da desideri. L'artista perseverò nella coerenza linguistica
della sua ricerca che ancora una volta, nei più nuovi risvolti, non
si collocò in un'immediata e netta inserzione in correnti o gruppi
operativi. Gli estesi panneggiamenti svolazzanti dai colori accesi che si
stagliavano su fon- di neutri riecheggiavano quasi un'antica
tradizione araldica. I riferimenti pittorici non erano di certo
estranei al linearismo sensuale del Liberty, anche nella sua declinazione
decorativa, rammentando inoltre suggestioni neobarocche. Un commento di
Mollino, riguardante un'architettura baroccheggiante di Galvano dipinta
degli anni Quaranta, potrebbe restituire puntualmente le atmosfere delle
recenti Bandiere espresse in uno: «scenario di questo tempo
immobile nella chiara decisione di un arabesco che non si placa che in un
ordine senza indulgenza, ma vivo di un amore disincantato»?
Furono ancora le Bandiere ad essere esposte nel 1968 per una
personale a Cremona alla Galleria d’arte I Portici. Gli stendardi
svolazzanti davano la prova di una profonda conoscenza degli allora attuali
linguaggi pop e forniscono anche un «grave riverbero di anti-
chità» rendendo l’immagine «imminente e insieme assente che par scelta e
fabbricata per un pubblico Tutti gli scritti qui citati sono reperibili in
G., Diagnosi del moderno, G., Autobiografia Chepes, in “Borsa Arte Mollino, in
S. Cairola, Arte italiana del nostro tempo, senza tempo e d’ogni tempo Proprio
per questo è significante perché carica di intenzioni contrad-
dittorie e fortemente drammatiche, nella dialettica che stabiliscono tra
l’esperienza passata e l'avvento, e la necessità del presente. G. si rivolse
alla nuova serie pittorica dei Nastri mantenendo una viva tangenza allo
sviluppo formale del periodo MAC. L'oggettivazione del dato
geometrico si sostituì con una figurazione elementare di armonica
tridimensionalità sull’estensione della tela. Le masse sventolanti e
libere, nelle quali si evidenzia una ben nota propensione per l’ellissi e
il semicerchio, proseguivano l'indagine sullo spazio volumetrico.
Giuliano Martano asseriva appunto di un'astrazione intellettuale, in cui
i segni, i ghirigori, sono veri e propri simboli codicillari, incognite
d’equazione, libertà della memoria. Nastri che si dipanano nel
quadro senza né capo né coda e sono le bandiere di prima rese a
brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da circonlocuzione
diventa INTER-LOCUZIONE. Presso la Saletta d'Arte contemporanea di Cu-
neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione elementare di volute
concave e convesse di recente produzione, che si palesavano, secondo
Giorgio Brizio, «dall’uso parco e strettamente pensato delle
timbrici- tà cromatiche. Basandosi su toni primari, operando
esclusivamente sulla opacità della parte in ombra, Galvano può, in una
suddivisione doraziana dell’in- fluenza tonale, usare la direttrice
cinetica del timbro per equilibrare il dinamismo globale della
partitura spazio-occupato, spazio-vuoto. La personale alla Galleria
Martano di Torino assunse il significato di una ricapitolazione,
dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi si erano evoluti, in
forme dall’aspetto cellulare e in moduli verticali e curvilinei. Tracce
realizzate a carboncino, impreziosite da lievi velature scariche di
colore, campeggiavano solitarie sulla tela; la dimensione gestuale fu
affiancata dall'espressione intellettiva dell'atto primario del
dipingere. Questi moduli nella linea filogenetica della sua pittura
non- figurativa «appaiono anche maggiormente legati ai dettami
grafici di una cultura passata attraverso quell’inversione del simbolismo
nell’astrattismo che riaffiora con l’organicità delle sue forme così tese
ed essenziali, rispondenti ancora una volta a quella logica interiore che
resta come la matrice vera di ogni opera di G. Una sala personale della
Mostra d'arte di Torre Pellice venne dedicata a Fezzi, in
catalogo della mostra, Galleria d’arte I Portici, Cremona Martano, G., in
“Pianeta Brizio, in catalogo della mostra, Saletta d'arte, Cuneo Dragone in
Stampa sera, G. che vi espone una ventina di opere. L'artista presentò
efficacemente al pubblico la sua recente svolta pittorica: sente il
bisogno di logorare la forma, di intercettarne la presunzione di
organicità, sgranandone il supporto disegnativo in pochi cenni grafici su
cui il colore nonagisse più come elemento qualificante ma soltanto come
sottolineatura allusiva. Come nel ritmo stesso delle vicende vitali, a
una stagione di estroversa aggressione della percezione dello spettatore
si avvicendava una fase di ripiegamento sulla discrezione, sulla riserva,
sultono contenuto. Coevi furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto
asemantico lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro
segno e gioco lineare non senza un, fra ironico e intenerito, strizzar
l'occhio al concettualismo. Si ha la personale genovese alla Galleria
Unimedia per la quale Saguineti imple- mentò la troppo riduttiva
definizione del G. doppio, critico e pittore, trascendendo anche
nella saggistica e nella FILOSOFIA e invitando a vedere con totale
persuasione la forza della sua lezione rispecchiata, con eguale fedeltà, nelle
sue pagine e sopra le sue tele». Il discorso si reiterava anche
nello scritto critico di Argan che chiudeva con un interro- gativo
dal quale G. non si discostò mai: Che cos'è la pittura? Ciò che vuol
sapere è che cosa sia la pittura in questa precisa condizione della
cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale il suo grado di
vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in uno spazio ogni
giorno più ristretto. Tra la ripresa dopo l'interruzione pittorica e
si ricordano infine le puntuali presenze a collettive con cadenza annuale
come la Promotrice delle Belle Arti e le mostre del Piemonte Artistico
e culturale di Torino; le rassegne estive di Torre Pellice e due
edizioni dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri a Bordighera Si
reimpose per G. un nuovo approccio rivolto alle forme naturali: la
ripresa di una figurazione espressionista pervasa d’un realismo
quasi visionario e il fascino recuperato, come confessò lo stesso
artista, per le gidiane nourritures terrestes. G. sembra sentirsi
quasi responsabile d'un tradimento verso la pittura allorché, per
coerenza, operò una sintesi tra l’elemento naturale e il non figurativo che gli
consentì G., Personale di G., in mostra d’arte contemporanea,
catalogo della mostra, Scuole comunali, Torre Pellice G., Autobiografia
Sanguineti, in catalogo della mostra, Unimedia, Genova Argan, in catalogo
della mostra, Unimedia, SZ Nella bottega
dell'antiquario. un'impaginazione astratta servendosi di forme non inventate,
non di natura cerebrale ma veramente esistenti, Riemerse, con la
serie dei Cespugli, la fascinazione per i cespi di iris, tema dominante
di inizio anni Sessanta, ma questa volta non più giocato con la
«gestualità irruente» del colore spremuto direttamente sulla tela,
eredità del linguaggio informale, ma attraverso un sedimen- tato
approccio di sottili velature di pittura a olio utilizzata come gouache
che si rifaceva alle delicate tinte dei moduli di qualche anno
precedenti. Gli sfondi bianchi svuotati erano percorsi esplicita-
mente da segni grafici e scritte che sembrarono dischiudere uno spiraglio
perfino alla poesia visiva. Fu Galvano stesso, riferendosi a questi
la- vori — esposti in una personale presso la Weber di Torino a
parlare d’archetipo floreale dove il fiore dell’iris scandisce
l’intrico dei segni, grafismi di parole o di immagini, altre volte
rigidamente modulari o, almeno non anco- ra piegati all’allusione
significativa. ‘Cespugli Spinardi, in catalogo della mostra, Piemonte
Artistico e Culturale, Torino perciò in contrapposizione ai glifi
dell’”alfabetico asemantico” e dei griffonages che li avevano preceduti.
Segue la serie dei Motivi vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti).
La riappropriazione di una rappresentazione ottica- mente realistica fu
solo apparente; il candore neutro dei fondiesaltava una suggestione di
tridimensionalità attraverso la scansione prospettica degli oggetti.
Tali elementi solitari erano estraniati dal loro contesto naturale
e inseriti negli spazi illusori di questa pittura d’assenza.
Sul cadere diogni riferimento a contenuti simbolici o anche solo
sentimentali della pittura di G., ne scrive Guasco nel saggio che
introduce lagrande mostra retrospettiva dell'artista organizzata a
Torino dalla Regione Piemonte. Tali opere, per Guasco, non sono più
emblemi né simboli che rimandano a un ulteriore significato. Per essi si
può forse parlare di sospensione di senso”(per usare un termine di
Barthes), di un muto stupore di fronte alla vita e alla natura. Le foglie
morte e i relitti di G. rifiutano il significato, e quindi ogni commento,
o spiegazione. Il cespuglio spezzato è solo un cespuglio spezzato;
le foglie, anche se rosse, autunnali, non sono les feuilles mortes.
Con avvio del decennio Ottanta ne i Paesaggi (Rocce, Alberi, Isole) vi fu
il riutilizzo di una stesura cromatica che spesso occupava l’intera tela
con un conseguente recupero dell'effetto tonale. Gli spazi
desolati, le muse inquietanti, che G. propose in questa fase suggerirono
a Fossati richiami alla pittura metafisica. Luoghi, intanto, vuoti,
svuotati di allotrie presenze, come è giusto siano le radure vuote
e silenti, per il camminante che vi si ferma a pensare e meditare. Luoghi
di pensiero e di inconsci sofismi: con i relativi feticci oppure
archetipi, teste in gesso di eroi, manichini nel pictor optimus; rami
sassi acque per G.. L'artista, con le serie di guazzi su carta
di Nudi e Macchie sperimenta infine, una pittura liquida fatta di segni
colantiin un'inversione di «sgor- bi cromatici di netta matrice informale.
Confessa ai lettori del catalogo della Micrò. Ancora una volta ho voltato
gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio, G., in catalogo della
mostra, Weber, Torino, Guasco, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura di), G. cit.,
Fossati, Per un omaggio a G., in P. Fossati, F. Garimol- di e Mundici
(cur.), Omaggio a Albino Galvano, catalogo della mostra, Circolo degl’artisti,
Torino, Electa, Milano .G., in catalogo della mostra, Micrò, Torino ma vuole
ricordare che vi è stata una sua stagione d’eriffonages che a questi fogli
ultimi molto si apparenta, anche se là il segno prevaleva, monocromo.
Perciò dico a mia difesa il diritto di difendersi è sempre riconosciuto
ai colpevoli — versatilità, capricciosità sì, incoerenza no. Molti furono gli
spazi espositivi torinesi che accolsero le personali di G. inquadrando la
sua fase pittorica, tra cui: laWeber, il Piemonte Artistico e
Culturale, la Cittadella e la
Micrò. Occasioni extracittadine rilevanti furono presso
la Morone di Milano, la Villata a Cerrina Monferrato e la
bipersonale insieme a Gorza presso Palazzo Te a Mantova. Si
rammentano poi l’antologica presso la La Cittadella di Torino; la
vasta esposizione organizzata dalla Regione Piemonte presso Palazzo Chiablese
di Torino che esplora l’intera carriera dell'artista (corredata da
un notevole apparato critico in catalogo) e le mostre retrospettive all’Accademia
di Torino. Costanti furono inoltre le partecipazioni a collet- tive
come alla Promotrice torinese, alla Galleria Martano e all'esposizione
Torino tra le due guerre presso la Galleria d’arte moderna di
Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata attenzione perlostoricizzato
Movimento Arte Concreta, Galvano figurò in svariate mostre a:
Cavallermaggiore, Torre Pellice, Gallarate, Aosta. G. muore a Torino.
La dichiarazione conclusiva sugli intendimenti di una pratica pittorica
perseguita per l'arco di una vita intera è affidata a Galvano stesso e
permette di afferrare almeno un aspetto di questa multiforme e
primaria figura di artista, critico e intellettuale italiano del
Novecento. «Di una sola coerenza credo di poter- mi vantare, ma è
coerenza che in qualche modo mi sequestra al di fuori di tanta arte
contemporanea: la fedeltà alla tela, al colore ai pennelli. In parole
povere ho sperimentato molto, forse troppo e troppo disper-
sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle ricerche di chi
avevarifiutato o cercato un'alternativa ai mezzi tecnici che poi vuol
dire anche espressivi di una tradizione che va dal Cinquecento agl’impressionisti,
ai fauves, agl’espressionisti. Fedeltà o incapacità di uscire dalla
routine? Non sta a me deciderlo. Ne rivendico la responsabilità o il
merito. G., in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova Alla
presentazione del volume "La pittura, lo spirito e il sangue, Da discepolo
a interprete. G. e Casorati Botta Quando mi presentai
alla scuola di via Galliari, cioè allo studio di Casorati, ha dietro le
incerte aspirazioni dettate da una pretesa mia attitudine al disegno.
Poco, ma abbastanza, insieme alla passione per la storia dell’arte, perché
seguissi con attenzione sulle riviste (specialmente Emporium) le Biennali
veneziane che mi educarono al gusto per l’arte. Con queste parole G.
apre la sua auto-biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese,
definendo sin da subito le proprie origini di formazione e circostanze di
aggiornamento. Nato nell’anno in cui, con le Demoiselles di Picasso,
l’arte occidentale vede chiudersi il ciclo iniziatosi alla fine del
duecento, si iscrive al liceo classico Cavour insie-me ad ARGAN (son vicini di
banco), e presto interrompe gli studi per dedicarsi interamente alla
pittura, seguendo inizialmente le indicazioni di artisti intercettati
attraverso le conoscenze familiari. Un temperamento vivo e curioso, il suo, che
più che seguire le letture e gli studi che il percorso scolastico gli
impongono, preferisce accrescere le proprie conoscenze con una formazione
isolata, fatta di letture personalissime. Si seppelle cinque-sei ore al
giorno in biblioteca sostiene in un'intervista. Lì incomincia a leggere
La Critica. Legge Bergson. Nell’atteggiamento che caratterizza l’artista,
concentrato ad inseguire le proprie passioni piuttosto che le strade già
battute, si può forse leggere una continuità nella scelta di rivolgersi a
Casorati come maestro, una decisione non così scontata in una Torino dove
gl’orientamenti estetici sono ancora influenzati dall’ingombrante figura di
Grosso e dall’insegna- mento della paludata Accademia Albertina.
G. ha una fascinazione improvvisa verso l'artista torinese,
arrivata attraverso l'osservazione di- G., Autobiografia, PizzETTI, Givone
(cur.), G., catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chiablese), Regione
Piemonte, Torino ARGAN, G. [presentazione], in XXVIII Bien- nale di
Venezia, catalogo della mostra (Venezia), Alfieri Editore, Venezia. Non sono tra
i primi della classe. Troppe cose c'interessano, che non hanno nulla a che
fare col programma, e ne discutevamo per interi pomeriggi, dimenticando
le versioni di latino e i problemi di matematica. Forse quell’amicizia di
ragazzi ci costa qualche esame ma, almeno per lui, non è un'esperienza
inutile. G. parla d’un apprendistato presso Vannini, maestro di disegno a cui è
stato indirizzato dal pittore Pisano amico di famiglia, che ha spesso occasione
di veder al cavalletto G., Autobiografia Intervista di Lanzardo ad G., in
Fossati, GarmoLpi, Munpici (cur.), Omaggio a G., catalogo della mostra
(Torino, Circolo degli Artisti), Electa Piemonte, G. alla mostra personale di
Palazzo Chiablese, Torino. Archivio Storico della Città di Torino, fondo
Gazzetta del Popolo. retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle
collezioni del museo cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene
egli stesso nell’autobiografia gli sono cioè piaciuti piuttosto i bianchi
di tempera con il rosso dei coralli o il cielo spugnoso del bozzetto per il ritratto
della signora Wolf che il neo-quattrocentismo del Ritratto della sorella.
Indicazioni sintomatiche di un interessamento che si rafforza man mano e
che è destinato a diventare decisivo per il suo ingresso nella scuola
dopo la visita alla Biennale veneziana, nella quale Casorati espone,”
oltre ad otto dipinti, anche due statue destinate al proscenio per
il teatro Gualino. Galvano è colpito, in questa occasione, ‘“[dal]l’azzurro o
il paglierino di stoffe e legni in Daphne che le pose ricercate dei nudi.
G., [autobiografia], in Albino Galvano, catalogo della mostra (Asti, Galleria
La Giostra, 1952), Asti; relativamente ai dipinti di Casorati citati si veda il
catalogo generale dell'artista BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati.
Catalogo generale. I dipinti Allemandi et C., Torino. Da qui in poi
citato come (Bertolino, Poli G. autobiografia Relativamente alla Biennale
scrive: Quella volli visitarla di persona e vi fui impressionato
specialmente da Felice Casorati, sicché decisi, scoperto che abitava a
Torino, di iscrivermi alla sua scuola.” (Ip., Autobiografia; in quell’occasione,
oltre al Ritratto di Daphne Ber-tolino, Poli, Casorati espone l’opera Ragazze
dormenti o Mozart, ricordata da G. nel suo racconto autobiografico.
L'ingresso alla scuola lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato,
accresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo fondante di
stretto discepolato del suo studio che sta tra l'accademia e il monastero.
La scuola libera di pittura, inaugurata in via Galliari, è ormai una
realtà pubblica, che riunisce maestro e allievi e li vede impegnati come
fronte coeso nelle esposizioni cittadine e nazionali. La serietà e la
dedizione alla pittura sono le caratteristiche fondamentali che danno l’accesso
alla scuola: lo si rica dalle impressioni che risuonano con
continuità tra i commenti e i ricordi degl’allievi che in tempi diversi
affrontano l’alunnato casoratia- no.! G. non fa eccezione: “L'accoglienza
fu, come era nel suo stile, di una signorile severità”.! Ma, al di
là delle incertezze iniziali, il maestro sem- bra essere più colpito
dalla spiccata vivacità intel- lettuale del giovane allievo piuttosto che
dalle sue capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano
raccontando di se stesso — abbia avuto subito per l’uomo la simpatia e la
stima che poi sempre mi di- mostrò, forse assai più scarsa la fiducia
nelle mie possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a
intestardirmi e ad impegnarmi a fondo. Lo scolaro “intelligente ma noioso,
predicatorio, secondo il ricordo di Romano, anche lei discepola di
Casorati, presenta le sue opere per la prima volta con il gruppo di
allievi all’Esposizione d’arte allestita nello studio di via Galliari.
L'esposizione intima, alla sua seconda edizione, è aperta al pubblico di
interessati (a visitarla, sono perlopiù personalità del milieu
intellettuale ANTI-FASCISTA cittadino) e vuol essere una raccolta dei
lavori più notevoli eseguiti dagli allievi nello scorso anno. La prova
generale della scuola non sembra però garantire a G. l’accesso
all’im- G. fissa la sua presenza nella scuola G., Autobiografia
GOBETTI, Felice Casorati pittore, Torino Per uno studio sulla scuola di
Casorati e sulle vicende espositive della stessa si veda Cavallaro, La scuola
di Casorati, tesi di laurea, Facoltà di filosofia, Torino, relatore:
Rovati; Poi, Cavallaro (cur.), La scuola di Casorati ed Cefaly, catalogo
della mostra (Catanzaro, Complesso monumentale di San Giovanni),
Rubettino, Soveria Mannelli testimonianze e memorie dei suoi discepoli, in Pianciola
(cur.), Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras
Edizioni, Fano G., Autobiografia Romano, Un invento, Einaudi, Torino,
PauLuccCI, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le Arti
Plastiche Su questo argomento si veda A. BOTTA, Felice Casorati
nelle. minente esposizione alla Galleria Valle di Genova organizzata
probabilmente da tempo che vuol essere l’occasio- ne per riunire una
selezione più stretta degli allievi. Dove attendere ancora qualche mese, in
primavera, prima di assistere alla presentazione di un suo dipinto
(accolto per accettazione dalla Giuria) alla Biennale. Riuniti attorno al
maestro, gl’allievi di Casorati occupano la sala 30, attigua alla
fortunata e discussa retrospettiva di MODIGLIANI (si veda) ordinata da Venturi,
che non manca di far nascere alcune corrispondenze e letture parallele
con le opere dei ca- soratiani. Da questo momento in poi G.
incomincia ad essere presente con continuità alle mostre della scuola.
Una conferma che arriva già a poche settimane di distanza con la partecipazione
alla 88° esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti con ben
quattro dipinti. Ancora alla fine dell’anno il suo nome si registra tra
gli allievi presenti alla III Esposizione d’arte di via Galliari,' mentre
viene segnalato come uno dei casoratiani che espongono - questa volta senza il
maestro alla mostra torinese degl’Amici dell’ Arte. Se fino a questo
momento le opere di Galvano non sembrano sollecitare più di tanto
l'interesse della critica forse perché il modello del maestro è
troppo riconoscibile nella sua pittura, l'occasione della I Quadriennale
d'Arte Nazionale di Roma apre ad un interessamento che coinvolgerà da lì in
poi anche il giovane artista torinese, presente con il dipinto
Estate, riprodotto per l'occasione sulla nota rivista milanese La casa bella. G.,
ancora coeso al gruppo almeno fino al marzo di quell’anno (la sua
presenza è confermata in una mostra di “scuola” allestita alla galleria
Milano, Esposizione dei pittori Casorati, Bay, Bionda, Bonfantini,
Marchesini, Maugham, Mori, prefazione di G. Pacchioni, catalogo della
mostra Genova, Galleria Valle), Genova Sitratta del dipinto Paese con un ponte;
cfr. Catalogo XVII Espo- sizione Biennale Internazionale d'Arte catalogo
della mostra (Venezia) Venezia Pautucci, Cronache torinesi. Scuola di
Casorati, in “Le arti plastiche ZANZI, Cronache torinesi. La mostra degli
“Amici dell’Ar- te Emporium, Torriano, Cronache d’arte. Note alla I
Quadriennale, in “La casa bella”, marzo 1931, p. 57. Relativamente alla
partecipazione degli artisti piemontesi alla rassegna romana si veda L.
IAMURRI, Levi, Paulucci e gli altri. Presenza torinesi alla Quadriennale,
in M. Cossu, C. MicHELLI (a cura di), Cultura artistica torinese e
politiche nazionali, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazionale
d'Arte), Electa, Milano Cfr. Bay, Bionda, Bonfantini, Casorati, Chicco,
Cremona, Donati, G., Levi, Maugham, Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo
del- la mostra (Milano, Galleria Milano), Milano Copertina del
catalogo della mostra alla Galleria Milano, Milano incomincia a dar segni di
cedimento rispetto allo sta- tuto casoratiano e nei confronti della
scuola. Un di- Stacco progressivo che si rende evidente
nell'esercizio Stesso della pittura, che lo vede ricercare una
propria indipendenza e nuove vie di espressione. La Promotrice diventa
per lui un terreno di confronto nel quale presentare le più recenti
ricerche, filtrate at- traverso nuovi modelli nel frattempo subentrati e
maturati, chiariti con lucidità — a distanza di anni dallo stesso artista.
Mi affascina il tentativo di ricostruzione formale del mio maestro e,
contemporaneamente e contraddittoriamente, gl’esiti dell’impressionismo e
postimpressionismo, sia nelle loro accezioni originali sia nelle riprese
locali dei sei e, in genere, la pittura di colore e di tocco, ovviamente
legata a una visione naturalistica. Nel duplice e, in certo senso,
contraddittorio intento di tener Insieme i valori plastici di Casorati e
quelli cromatici dei Sei il risultato diveniva naturalmente pesante,
impasta- to, anche perché subivo fortemente l'influenza di una
certa pittura francese, o meglio di una pittura che si faceva in Francia
spesso da stranieri, che allora agli inizi degli anni trenta mi affascinava
dalle pagine dell’Art Vivant. Assente il maestro, G. è presente con tre opere.
La Composizione con figura, in particolare, riprodotta G., Autobiografia
sia in catalogo che sulla rivista Emporium, mostra gli esiti
dell'aggiornamento condotto sugli esempi dei post-impressionisti francesi
e sulle proposte figurative dei sei (sciolti ufficialmente, come gruppo),
che si riconosceno nella linea di rinnovamento dell’arte contemporanea
tracciata da Venturi. Il passaggio,
da questo momento in poi, è breve. Complice un disfacimento generalizzato
della scuola stessa, il pittore, alla mostra degl’Amici dell'Arte
allestita nell'autunno del medesimo anno, è considerato già da tutti un
ex allievo. Ma la sua fedeltà al maestro e l'amicizia che li lega lo
vedranno partecipare ancora ad una mostra di scuola, allestita nel teatro
di Pavia. Accanto agli ex compagni, G. diventa una presenza eccentrica. Le sue
opere, che spaziano tra i generi (dalla natura morta al paesaggio),
mostrano la sua indecisione circa la strada da intraprendere, alla luce delle
più recenti scoperte, passando dall’espressionismo all'impressionismo
senza un attimo d’esitazione. La rottura con Casorati o presunta tale,
coincide con il suo esordio di critico e con il suo avvicinamento a Venturi, al
quale viene introdotto dal suo compagno di studi Argan G. pubblica un
saggio sull’illustre rivista trimestrale L'Arte, che vede Lionello impegnato
nella condirezione accanto al padre Adolfo. La presenza del figlio,
professore a Torino, apre il periodico al dibattito sulle arti contemporanee,
fino a quel momento escluso dai contenuti tradizionali della rivista. Il
saggio Armando Spadini e il gusto degli impressionisti? mostra
l'avvicinamento di G. alla critica venturiana, già evidente nel titolo
del contributo, che riecheggia il più celebre volume, e che si conferma
nei contenuti e nel soggetto stesso dell'articolo. ZANzZI, Cronache
torinesi. L'Esposizione Interregionale della Promotrice di B. A., Emporium Rossi
sulle pagine dell'Italia letteraria sottolinea come G. sia ormai “teso a
tutt'uomo alla ricerca di costru- zioni personali Rossi, Una mostra
interregionale, in L'Italia letteraria, mentre Zanzi, sulla Gazzetta del
Popolo, rileva come la distanza tra allievo e maestro sia ormai sensibile
sia da un punto di vista cromatico che formale: G. - fa notare - sta
liberandosi dai grigi e dalle tristezze casoratiane e ora si esperimenta,
con accortezza e con gusto, nelle esperienze di Matisse e di Friesz Zanzil],
L'arte al Valentino. Mostra regionale del Sindacato delle Belle Arti,
Gazzetta del Popolo, Cfr.e.z. [E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori,
scultori, ar- chitetti, decoratori. La mensa degli avieri ideata da
Balbo, Gazzetta del Popolo Sornini, Alla mostra Casorati II, in “Il Popolo di
Pavia Cfr. G., Autobiografia Spadini e il gusto degl’impressionisti, L'Arte
VENTURI, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna Accanto all'impegno
pittorico, piuttosto in crisi in questo periodo (“per una dozzina d'anni,
mi mossi un poco a casaccio”), G. intraprende gli studi
universitari presso la Facoltà di magistero. Una scelta che è dettata non
tanto dalla sua ben nota passione per le materie filosofiche o dalla sua
curiosità innata, ma più semplicemente da problemi economici che lo
obbligano in fretta e furia a prendere una laurea e ad iniziare
l'insegnamento in istituti. La fine del suo percorso di studi, che si conclude
con una tesi sulla pedagogia della religione discussa con GAMBARO
(si vda) ed ABBAGNANO (si veda), coincide con la ripresa dell'attività di
critico ma anche di saggista, che si fa particolarmente intensa e che lo
vede collaborare con le riviste Il Selvaggio ed Emporium. Al di là
dell'abbandono della scuola di Via Gal- liari, Casorati resta per Galvano
un solido punto di riferimento, non tanto come esempio figurativo o
di pratica pittorica da seguire, ma come rappresentate di un
modello culturale autorevole e indipendente pre- sente in città.
L'amicizia tra i due, avviata e riconfermata in più occasioni, sembra in
questo giro di anni intensificarsi ulteriormente, antici- pando il
sodalizio che porterà alla pubblicazione della monografia per la collana
“Arte Moderna Italiana” di Scheiwiller nel 1940, dedicata integralmente
al maestro. Incomincia a collaborare con Emporium occupandosi di curare
la sezione Cronache torinesi del mensile. Questo nascente incarico
gli permette di affrontare e commentare l’attività artistica piemontese,
confrontandosi con un universo legato ad una rivista nota ed ampiamente
diffusa e discussa. Casorati è sempre presente nei suoi articoli:
viene seguito passo passo da G. sia nelle vesti di pittore che di
organizzatore culturale, offrendo in special modo la propria attenzione
all'impresa della galle- G., autobiografia Intervista di Lanzardo a
G. Da ascriversi sempre al rapporto con Venturi sono i tre volumi di G.,
apparsi per Nemi di Firenze (L'arte egiziana antica; L'arte dell'Asia
occidentale e centrale; L'arte dell'Asia orientale), pubblicati
nella collana “Novissima enciclopedia monografica
illustrata”. Casorati sa rispettare la personalità dell'allievo
anche quando non era affatto d'accordo sulla visione dell’allievo. Infatti quei
pochi che sono venuti fuori tra i molti che ci sono Bonfantini, Chicco,
Montalcini, ed io, ci siamo subito allontanati da Casorati pur restando
suoi amici, pur essendo sem- pre aiutati da lui sul piano pratico per
mostre ed esposizioni. [Ma Montalcini ed io siamo passati all’astrattismo, poi
all’informale, tutte cose che Casorati ma non ci ha mai tolto né la sua
amicizia né la sua protezione. In questo è veramente un grandissimo signore, Intervista
di Lanzardo a G. G., Casorati, Arte moderna italiana Serie Pittori
Hoepli, Milano ria “La Zecca, avviata dal maestro a Torino insieme a
Paulucci in via Verdi Se appare piuttosto chiaro come G. tenti con i mezzi a
sua disposizione di promuovere e sostenere l’amico Casorati nelle sue
molteplici attività, il maestro, dal canto suo, cerca di aiutare il suo
ex-allievo nel suo percorso di pittore. È lo stesso G. a dichiarare
apertamente, molti anni più tardi, come la sua affermazione al premio
Bergamo sia in realtà frutto di un aiuto arrivato dallo stesso maestro:
“Casorati è molto potente mi fa accettare al Premio Bergamo, mi fa sempre
dare qualche premio, per cui mi trovai agganciato. Presente con
continuità G. si aggiudica per ben tre anni i premi in denaro del concorso.
Solo nella seconda edizione non compare tra i vincitori, ma la sua opera
viene acquistata dal ministero dell'educazione nazionale a titolo
di incoraggiamento. È data alle stampe il saggio “Casorati” scritto da G.,
apparsa per Hoepli di Milano. Il saggio si inserisce all’interno dell’ambiziosa
collana Arte Italiana inaugurata e coordinata da Scheiwiller, immaginata
per raccogliere uno dopo l’altro
gli artisti italiani più noti del tempo, attraverso piccole monografie
illustrate, introdotte da un testo critico che viene di volta in volta
scelto dall'editore o dall'artista protagonista del volume. In questo caso,
è infatti Casorati a suggerire il nome del giovane critico a Scheiwiller,
incaricandolo di aggiornare radicalmente la precedente edizione di
Giolli, ormai vecchia di quindici anni. Il saggio di G. non si
colloca, all’epoca, come una novità di genere nella letteratura
artistica del pittore, ma rientra in un panorama già piuttosto
sedimentato di studi sul maestro, che si occupano di fornire uno sguardo
complessivo sull'intera produzione raggiunta sino a quel momento. Il
volume La collezione Della Ragione, in “Emporium, Torino. Maccari
alla Zecca, Emporium, Torino. Mostre alla “Zecca”, in “Emporium, Torino.
Mostre alla Zecca, Emporium, Intervista
di Lanzardo a G. G., Felice Casorati, cit. Per uno studio sulla mono-
grafia si veda Botta, G. e Casorati. La mongrafia per la collana Arte Italiana
di Scheiwiller, tesi di specializzazione, Università degli Studi di
Udine, relatore: Fergonzi. Giotty, Casorati, Arte italiana, Serie
Pittori, Hoepli, Milano. lo studio di Giolli, infatti, limitava necessariamente
l'indagine sull'artista. di Gobetti, che si propone come una rico-
struzione cronologica del percorso artistico (nonostan- te la limitatezza
della produzione casoratiana) apre la strada a numerosi tentativi di
interpretazione e ordi- namento dell’opera del maestro, non limitati alle
pubblicazioni di carattere monografico (il caso successivo — come si è
detto — è quello di Giolli) ma rintracciabili anche all’interno di
contributi meno estesi che, a partire dal saggio di Venturi uscito su Dedalo,
diventano sempre più frequenti nei tempi a venire, anche sotto forma di
presentazioni nei catalo- ghi delle esposizioni. La critica contemporanea
studia la produzione di Casorati secondo principi e approcci molto
differenti che, verso la metà degli anni Venti, tendono a farla rientrare
in quel processo di costituzione di un'arte nazionale ufficiale: un’annessione
ai pittori non pienamente condivisa dall'artista che è esplicitata nel saggio
di Sarfatti apparso sulla Rivista Illustrata del Popolo d’Italia e che
contribuirà a determinare una lettura della pittura di Casorati divisa
“tra estetica e lettera- tura”, destinata a rimanere ancora per molto
tempo identificativa del suo lavoro. Intorno agli anni Trenta
il lavoro di Casorati rientra già nell'ottica di una ricostruzione storica più
ampia dell’arte italiana ed internazionale: le pubblicazioni di Sarfatti,
di Guzzi, di Costantini, di Brizio e di Nebbia,
esaminano Casorati secondo una prospettiva generale (con le inevitabili
ed ulteriori opinioni contraddittorie), ma sono tutte piuttosto concordi a
identi- Gost, Casorati pittore, VENTURI, Il pittore Casorati, Dedalo Mostra
individuale di Casorati, Esposizione d'Arte, Venezia, catalogo della
mostra, Venezia, Ferrari, Venezia PACCHIONI, Casorati, in Exposition
d'’artistes italiens contemporains, catalogo della mostra (Ginevra, Musée
Rath), Foa, Torino, Rossi, Felice Casorati, in Artistes Italiens, exposition,
catalogo della mostra (Ginevra, Galerie Moos), Richter, Ginevra
BERNARDI, 25 opere di Felice Casorati nel salone de La Stampa, catalogo
della mostra (Torino), La Stampa”, Torino. Per una ricognizione sulla
fortuna critica Casoratiana si veda P. THeA, La critica e Casorati:
profilo e antologia, in LAMBERTI, Fossati, Casorati, catalogo della
mostra (Torino, Accademia Albertina), Fabbri, MilanoSARFATTI, Pittori. Felice
Casorati, in Rivista illustrata del Popolo d’Italia In. Storia della pittura
moderna, Cremonese, Roma; Guzzi, Pittura italiana contemporanea. Origini
e aspet- il, Bestetti et Tumminelli, Treves, Roma-Milano; COSTANTINI,
Pittura italiana, Ulri- co Hoepli, Milano; Brizio, Ottocento Novecento,
Utet, Torino NEBBIA, La pittura, Società editrice libraria, Milano
ARTE MODERNA ITALIANA G. CASORATI HOEPLI. MILANO EDITORE
Casorati, Ulrico Hoepli, Milano ficare nell'opera del medesimo una tendenza
interna e personalissima alla corrente novecentista. Le difficoltà nel
rintracciare una linea condivisa per la sua arte era già stata
evidenziata da Debenedetti (filosofo torinese, come Gobetti, prestato anche lui
alla critica d’arte) con l'articolo Casorati e la critica d'arte, nel
quale sottolineava come L'arte di Casorati pare fatta apposta per
isconcertare gli schemi che la più scientifica critica d'arte s'è data
come sicuri oramai ed incontrovertibili, evidenziando nelle conclusioni tutte
le contraddizioni di una generazione: “Linea, dunque, no: forma
plastica, no: colore, no: o quanto meno né la linea, né la forma,
né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurienti, nell'accezione data
dai critici, che di quegli schemi si sono fatti, non pure gli interpreti,
ma i banditori. E questa è l’involontaria polemica del Casorati contro
la critica d’arte. Davanti a questo insieme di opinioni e
approcci differenti, G. si dimostra sin da subito molto perplesso verso i
suoi predecessori, affermando in maniera categorica come Ciò che è
mancato più ad una critica concludente su Casorati è appunto una
comprensiva ‘lettura’ delle sue pitture, e sintetizzan- DEBENEDETTI,
Casorati e la critica d'arte, L'Italia letteraria G., Casorati do poi, nelle
prime pagine della monografia, i termini di questa fortuna critica che è
anche incomprensione sedimentata verso l’artista, almeno fino alla metà
degli anni Venti: Casorati ha goduto di un momento di fortuna quando
la sua pittura, forse proprio perché meno urtante a prima vista di
quella di altri pittori di avanguardia, ebbe tutti i suffragi e
specialmente a quelli della critica che voleva essere alla pagina, ma
salvando il rispetto per la tradi- zione [...] Erano i tempi in cui la
pittura del novecento appariva come uno sforzo neoclassico in polemica
con l’arte futurista da una parte, con l’aneddotismo elegante
dall'altra, la pittura di Casorati ha una sua funzione in Italia per
liberare il medio pubblico dagli en- tusiasmi per Grosso, per Sartorio,
per Dall’Oca Bianca. Rispetto ai precedenti studi la posizione di G. è fin da
subito ben chiara: risiede nell'approccio preferenziale con cui affronta
l’opera di Casorati, total- mente inedito sino a quel momento, che viene
ribadito in più punti della monografia. In apertura del
volume il critico-pittore sottolinea come la sua analisi non si
circoscriva a una rilettura analitica e distaccata della produzione casoratiana,
ma si sviluppi attraverso una consapevolezza fondata sul ricordo
della propria formazione: Casorati pittore scrive richiamandosi ai suoi
rapporti col maestro è stato per molti della mia generazione una
esperienza di importanza capitale in ordine alla formazione del
gusto e all'orientamento di una cultura non soltanto limitata a fatti di
specie figurativa. La pratica di di- scepolato presso di lui e la
frequente consuetudine di Casorati uomo, hanno valso ad alcuni di noi
come un'esperienza fra le più profonde e decisive anche per quanto
riguarda la vita morale. L'insegnamento di Casorati, oltre a fornire
una solida base di rudimenti pittorici insieme agli stru- menti per
uno sviluppo individuale delle personalità artistiche, è la chiave sempre
secondo G. per la comprensione stessa dell’opera del maestro,
chiarita metaforicamente in un passaggio del testo. Casorati è uno
di quei pochissimi artisti che dopo il rapimento delle muse non rimangono
incoscienti di quanto in loro è avvenuto; lo capiscono ed aiutano a
capirlo agl’altri. Un concetto che viene ribadito, in maniera
ancora più chiara, verso la fine del suo lungo contributo per Scheiwiller. Non
molti di noi allievi hanno saputo da quelle parole imparare a dipingere
decentemente, ma certo tutti a leggere i suoi quadri un poco
meglio. Con queste premesse G. vuole dimostrare come la vicinanza
al maestro gli permetta di avere una visione privilegiata, lucida e fedele
del suo lavoro, elevando la lettura delle opere ad un’originalità
vicina alle intenzioni del maestro, più di quanto gli altri possano
avere. Al di là degli schieramenti e dei tentativi di categorizzazione
che, a più riprese, hanno interessato il lavoro di Casorati tra assimilazione
al gruppo novecentista, ascendenza neoclassica o, ancora, appartenenza
alla poetica metafisica, G. sceglie il sostantivo platonismo per
riassumere gli esiti figurativi ottenuti dall'artista, un’indicazione che gli
permette di liberarsi da ingombranti etichette sino a quel momento attribuite
all'opera del pittore. È un'affermazione di Casorati a suggerire a G. le
basi per un'interpretazione platonica delle sue opere: il critico
recupera esplicitamente una dichiarazione del maestro espressa a margine
di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale chiarisce le proprie
intenzioni quasi programmatiche di esercizio pittorico. Dipingere la
verità, dimenticando la realtà superficiale. Un concetto che viene
successivamente ribadito da Casorati, spogliato delle sue implicazioni
categoriche (rinnegate in un secondo tempo dallo stesso pittore) in una
successiva dichiarazione, riportata nel catalogo della prima
Quadriennale romana, con la quale l’ar- tista sottolinea ancora una volta
come il suo distacco dalla realtà dei soggetti sia prerogativa fondante
del suo lavoro: la mia pittura è staccata dalla vita. La posizione
platonica di G. pone il lavoro di Casorati in netto contrasto con la pittura
degli Impressionisti (che godono invece di una notevole for- tuna,
verso gli anni Trenta, a Torino), collocando il movimento francese e il maestro
torinese su due fronti opposti sia da un punto di vista lirico che tecnico:
un sto di Casorati preferiremmo ad ognuna quella di platonismo. Casorati,
[Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea, catalogo della mostra
(Milano, Galleria Pesaro), Alfieri et Lacroix, Milano Scritti interviste
lettere, cura di Pontiggia, Abscondita, Milano Scrissi allora nel catalogo
alcune parole per spiegazione del mio lavoro e quasi per contrappormi
all'arte di quel tempo: affermavo di voler dipingere la verità,
dimenticando la realtà apparente; di voler indulgere agli errori che
spesso sono la sola ragione dell’opera d’arte. Queste parole furono
definite un’eresia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il
carattere di immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma,
in con- trapposto al più o meno degenere impressionismo di
sfarfalleg- giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del
movimento nel vibrare continuo della luce CASORATI, in G. MascHERPa
[a cura di], Casorati e il religioso, catalogo della mostra
[Milano, Galleria San Fedele, Milano, Milano CASORATI, Presentazione, Arte
nazionale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle esposizioni), Pinci, Roma
Scritti interviste lettere, E infatti se dovessimo trovare una parola per
definire il gu- IN rifiuto che è categorico e si muove sulla
falsariga delle indicazioni già enunciate dall'artista nella citata
presentazione: “non ho mai capito il movimento qui déplace les lignes’, e
adoro invece le forme statiche la mia pittura nasce, per così dire, dall'interno
e mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi-
derazioni che vengono caricate di significati filosofici, anche in questo
caso, da G.: Al protagorico impressionismo per cui misura di tutte
le cose è l'uomo individuale, si contrappone dunque il platonico Casorati
richiamandoci all'ordine di una pittura dove le cose appaiono reali in
quanto hanno la maneg- giabilità di ciò che dal flusso delle sensazioni è
ritagliato per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste o seni varranno
come categoria. Al degenere impressionismo Casorati contrappone, secondo G., i
suoi caratteri di immobilità, di impassibilità, di contorni decisi, di
forma. Alle premesse teoriche fanno seguito le prime verifiche sulle
opere che, a differenza dei precedenti Studi, non seguono uno sviluppo
strettamente cronologico ed organico della produzione casoratiana, ma si
Muovono più liberamente, procedendo secondo l’andamento del discorso. Come
nelle antecedenti occasioni di studio, l’ini- z10 dell'attività pittorica
viene fatta coincidere con le Opere che gli valgono le prime attenzioni
da parte della critica alla Biennale di Venezia ed alla moStra degl’Amatori
e Cultori di Roma. Le considerazioni che investono il dipinto Le vecchie e La
cugina sottolineano nelle ricerche di Casorati un senso drammatico della
vita teso in un’acuta analisi psico- logica in cui non manca una punta di
sensualità, Ma temperata in una specie di serenità letteraria, Motivi che
si pongono in continuità con le formulazioNi espresse in precedenza sia da
Gobetti che da Ventu- Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione
psicologica ed il senso letterario di queste prime composizioni. Il salto
a questo punto si fa subito brusco: l’esclu- Silone di tutta la
produzione degl’anni della guerra, che coincide con il suicidio del padre di
Casorati e con le nuove responsabilità di capofamiglia verso le due sorelle
e la madre, è in linea con le volontà dell'artista, che sceglie di non
conservare le opere di quel periodo, contraddistinte da un simbolismo e
sintetismo decorativo piuttosto anomalo. G., Casorati, (Bertolino, Poli G.,
Felice Casorati, Cfr. Gobetti, Casorati pittore, VENTURI, Mostra di
Casorati, Esposizione d'Arte della Città
di Venezia, cUn passaggio su Le signorine, che libero questa volta da
preoccupazioni di ordine realistico ed orientato verso una completa
subordinazione alla composizione, permette a Galvano di transitare
direttamente su Tiro al bersaglio, anticipando i problemi di annullamento
della terza dimensione già evidenti nel dipinto. Per G. Tiro al
bersaglio rappresenta un’opera cruciale, da cui parte tutta la produzione
più celebrata dell'artista, quella del periodo immediatamente
sucCESSIVO: l’opera significativa Tiro al bersaglio. In essa il
colore e la linea collo scomparire di ogni ricerca della terza dimensione
assumono per la prima volta una organicità che è davvero il segno
dell’impostarsi nella pittura di Casorati dei problemi di cui anche oggi
essa si nutre. Ridotto il qua- dro, colla completa scomparsa delle
ricerche chiaroscurali e mancando ancora l'ulteriore ricerca spaziale, ad
un semplice tappeto di tinte piatte, si comprende facilmente come linea e
colore divengano funzione l'uno dell'altro, tendendo a uno stato in cui
la visione inquietante del pittore raggiunge uno dei più intensi suoi momenti Il
dipinto, in realtà, aveva sino a quel momento goduto di una fortuna
alterna: tacciato di futurismo nella prima presentazione pubblica è
per Gobetti un’opera dai rapporti formali indecisi ancora legata alla
produzione dalla prima metà degli anni Dieci, un lavoro insomma, che
Casorati realizza come prova per testimoniare a se stesso la fine
del suo estetismo e la sua incapacità di fermarsi ormai all'episodio.
La rivalutazione di Tiro al bersaglio, nei fatti trova, prima di G., un
precedente mol- to prossimo all'uscita della monografia
Scheiwiller: Cremona (anch’egli vicino a Casorati, pur non essendo
mai stato allievo della sua scuola), in maniera analoga a G. ragiona
sull’importanza del colore e sul principio di astrazione presente nel dipinto,
che anticipa le opere più compiute e celebrate degli anni
Venti: sottrarre le cose dai variabili accidenti della luce per penetrare
invece il colore secondo un processo di intelli- gente astrazione. In
quella curiosa vetrina di oggetti vivono infatti quei bianchi spettrali,
quei colori —finti-, che sovente ritroveremo nell'aria rarefatta dove respirano
le sue figure, anche quelle delle parate familiari che Casorati ha
sovente composto con sincera affettuosità ma che appaiono pur sempre affacciate
a una ribalta, in uno scenario freddamente preordinato, sul mondo
dal quale l’artista le ha volontariamente allontanate. Bertolino, Poli
Bertolino, Poli G., Casorati, GOBETTI, Casorati pittore, CREMONA, Felice
Casorati, in “Primato. Lettere e arti d’Ita- La rivalutazione del
dipinto si pone verosimil- mente in linea con le volontà dello stesso
Casorati: l’o-pera, che trova collocazione stabile nell’abitazione
dell'artista, è ripresentata ad una mostra degli allievi e riprodotta per
volere dello stesso mae- stro come prima tavola nella monografia
Scheiwiller. Un interessamento che viene letto da G. come un segno
che una pittura senza volume ed una pittura di colore sembra ancora a
Casorati rivelatrice del senso profondo della sua arte. Le opere
aprono la discussione sulla funzione e l’importanza del colore per
Casorati, che viene ampiamente discussa nel testo e che caratterizza da
qui in poi tutta la monografia come lettura univoca del decennio
successivo. Accanto ad una premessa platonica, che si confronta
nuovamente con le opere Meriggio, Lo studio e Concerto, allontanandole da
facili letture estetiche, G. vede in quegli slarghi formali di pittura un
anticipo d’un’esperienza di tono che è chiarissima. Contrapponendosi alle
interpretazioni che vede- vano nella linea e nella forma plastica le
caratteristiche fondanti dell’opera di Casorati G. valuta la pittura del
maestro come una pittura essenzialmente di colore,” spingendosi a
verificare le intenzioni dell’artista e giustificare la scelta di determinati
soggetti e forme piuttosto che altre, proprio in funzione del colore: Vi
sono dei quadri di Casorati, e talvolta proprio i più formali a prima
vista, come Daphne che non si afferrano in tutto il loro valore se non
riferendoli al colore. Casorati ama le forme semplici perché sono quelle
che permettono al colore di stendersi con la sua migliore ampiezza. È strano
come questa semplice verità sia stata tanto spesso fraintesa, non
mancando del resto di contribuirvi la stessa interpretazione che il
pittore ha dato della propria opera”. Una sensibilità tonale che
porta il critico ad accostare come esempio di ‘“straordi- lia”, è quanto
mai significativo a questo proposito il fatto che il pittore abbia tenuto
in tempi recenti non lontani ad esporre, ad introduzione e quasi chiave
di sue opere più recenti, quel ‘Tiro a segno’ piatto e ritagliato fra
tutti che volle anche ad inizio di queste riproduzioni G., Casorati, Il
nudo e gl’analoghi Concerto, Meriggio, Studio, ci presentano un mondo che
si presta ad essere interpretato in modo equivoco, come estetistico, da
chi non tenga presente che per Casorati quelle platoniche accolte di figure
femminili ignude, anche se esse presentano molta eleganza, non hanno
veramente valore per questa eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei
volumi Cfr. (Bertolino, Poli G., Felice Casorati, La forma serve a distruggere
la linea ed a passare al colore: essa è, se si vuole, il punto di
partenza, ma è proprio il colore è il punto di arrivo Bertolino, Poli. G.,
Casorati, ARTE MODERNA ITALIANA CASORATI II ed. del volume Casorati,
Ulrico Hoepli, Milano. nario pre-casoratismo” l’opera di Vermeer e diTour
piuttosto che quella di Ingres, riferita dallo stesso pittore come
modello di riferimento alla propria pittura nel “Referendum sul quadro
storico. A sostegno di questa sua tesi sul colore G. recupera ancora una
volta i ricordi dell’insegnamento del maestro, affrontando questioni di
metodo e di pratica pittorica vissuta nello studio dell'artista, dove
l’osservazione dei modelli veniva condotta non tanto sulla forma degli
oggetti, ma sui valori tonali dei medesimi: ci limiteremo a notare come
quanto resti nel ricordo di chi è stato alla scuola di Casorati verta
essenzialmente su due punti: l'insieme e il tono. E soprattutto l’insieme
come forma il più sintetica possibile in funzione del tono. La forma
intellettualistica di un oggetto, proprio ciò che interessa di più al
pittore formale o classico, è ciò che Casorati consiglia all'allievo di
disimparare, la for- ma che l'allievo deve imparare a vedere il più
semplice- mente possibile è la forma di quella determinata massa
tonale, di quella determinata massa chiaroscurale, non la forma
dell'oggetto. CASORATI, [Risposta al referendum sul quadro storico Le arti
plastiche; Scritti interviste lettere, .G., Casorati, cit., p. 14.
Analoghe impressioni sì ritrovano in L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in
L'Arte La discussione sul colore offre a G. il punto di partenza per
affrontare le influenze cézanniane che, secondo una critica assodata
ormai da tempo, avrebbero avuto un ruolo capitale nell'evoluzione del
lessico pittorico casoratiano, soprattutto per il genere della natura
morta. È Venturi a offrire per primo quest'interpretazione, individuando
nell'esperienza diretta di Casorati alla Biennale, dove, su dipinti
di Cézanne presenti, sono ben sette le nature morte, il passaggio di svolta tra Le uova sul tappeto
verde e Le uova sul cassettone: Le uova sono un motivo di bianco su verde, le
uova sono un motivo di forma geometrica solida e chiara sopra un volume
scuro. Per G., l'avvicinamento al maestro di Aix è da intendersi come
esperienza più morale che pittorica, nella quale l'evoluzione delle sue
natu- re morte rappresenta un processo interno alla pittura stessa
piuttosto che il risultato di quest’incontro. Uova sul cassettone non si spiega
con un riferimento al costruire tonale del Provenzale nella sua essenza
stilistica, puntualizza G., ma solo col metterlo In relazione a quello
che la pittura di Casorati fu prima d'allora Secondo il critico, più che
un precedente stilistico, la lezione di Cézanne offre la verifica di
nuove possibilità espressive; un punto di vista che trova conferma più
tardi nelle stesse dichiarazioni del pittore, che ripercorrono l’incontro
con i dipinti alla Biennale: Tutta la grandezza del Maestro di Aix mi si
manifesta improvvisa. L'emozione che ne provai fu enorme e non fu
un'emozione di sbalordimento o di stupore, che anzi mi sentii preso da
quel senso di calma, di fermezza, di equilibrio, che solo le opere dei grandi
può dare. Equilibrio! Compresi che nella sua pittura trovava il giusto
equilibrio il problema posto e sviluppato in un senso
dell'Impressioni- smo e il grande opposto risolto da tutta la tradizione;
compresi l'aberrazione di una certa critica che non si staccava di
insistere sui problemi di Cézanne: capii che proprio, che Specialmente in
quei difetti è il germe della sua grandez- Relativamente a questo genere
si vedano Fossati, Nature morte di Casorati, LamBERTI (a cur.), Casorati.
Mostra antologica, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Electa,
Milano BERTOLINO, Dal repertorio di oggetti alle prime nature morte PoLI
(cur.), La natura morta nella pittura di Casorati, catalogo della mostra (Iseo
[Brescia], Sale dell’ Arsenale, Electa, Milano VENTURI, Il pittore Felice
Casorati, Dedalo, Bertolino, Poli; relativamente alle opere si veda In
particolare LAMBERTI, Scherzo: uova (o Le uova sul tappeto verde) e Le
uova sul cassettone, Fossati, Casorati VENTURI, Il pittore Casorati, Dedalo G.,
Casorati za. Compresi che Cézanne è il pittore della rinuncia e che
la rinuncia è la forza della pittura. Non cambiai modo di
dipingere, ero troppo inconsciamente orgoglioso per tentare un
cambiamento di rotta che non avrei potuto fare in alcun modo. Credetti allora
di approfittare della grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi
sulle mie posizioni e cercando solo in profondità. La monografia
Scheiwiller, pensata per aggiornare la precedente di Giolli, in realtà affronta
solo marginalmente la più recente produzione del maestro, sostenendo per le
opere più prossime la piena attuazione del proposito coloristico în nuce
già nei primi anni Venti. Ai ricordi della Biennale, e soprattutto
a quella, G. contrappone le opere esposte nei primi anni Trenta: per La
lezione, Susanna e Lo straniero pone l'accento su come prevalgano in
questi dipinti certe note di rossi improvvisi, il taglio in controluce,
il gusto, almeno nei due primi, di accostare il nudo ad una figura
maschile vestita, un desiderio di atmosfera serena che suggerisce
lontananze chiare e assolate. Motivi pittorici che, spogliati degli
elementi accessori (come la copertina del Selvaggio nella Lezione o,
ancora, le pantofole rosse di Susanna), trovano un'ulteriore compiutezza
in Daphne e Ragazza in collina” delle collezioni dei Musei Civici di
Torino, soluzioni più aneddoticamente umane dove il motivo del controluce sulla
finestra aperta so- stituisce figure familiari o umilmente umane ai
mani- chini, mentre il paesaggio si fa sereno [...] ricavato da
quei campi di Pavarolo ormai cari all’artista”. Come già sottolineato da
Maria Mimita Lamberti, l'apporto di G. si dimostra poi piuttosto
illuminante nell'individuare nel tema del nudo una possibile linea di
lettura della sua produzione, sino a quel momento trascurata rispetto al genere
più discusso della natura morta. Il passo è riportato in Caruccio,
Casorati, quaderni d'arte del Centro Culturale Olivetti, Ivrea,
All'insegna del pesce d'oro, Milano Noi veniamo dall'esperienza della
generazione per cui i quadri rappresentarono lo scandalo che ancora
confonde la classicità coll’accademismo e che scorgeva in quei quadtri,
visti alle esposizioni colla famiglia deplorante o pronta al riso di
fronte alle stranezze dell'arte moderna, pur qualche cosa di inquietante e di
tentatore che non si poteva dimenticare i quadri della biennale rappresentarono invece la scoperta del
mondo nuovo e spregiudicato che si apriva alla nostra cultura G.,
Casorati, Bertolino, Poli, Erroneamente G. attribuisce il titolo Lo studio al
dipinto La lezione esposto alla Biennale. L’opera verrà distrutta nell'incendio
del Glaspalast di Monaco. G., Casorati (Bertolino, Poli). G. indica il
secondo dipinto con il titolo Estate. Cfr. A. G., Felice Casorati, LAMBERTI, I
nudi nello studio, in (cur.), Casorati. Mostra antologica, G. vi riconosce
una traccia di continuità che, a partire dalle Signorine, opera che,
secondo il critico, non è d’intendersi come gruppo SINTAGMA (cf. I
LOTTATORI della TRIBUNA di Firenze) ma come insieme di figure isolate),
arriva sino alla Venere bionda, punto di arrivo e di dissoluzione di
quello che si potrebbe chiamare il tonalismo di Casorati secondo G. il
motivo del NUDO in Casorati si presenta come figura essenziale, come una
forma elementare, categorica, simile a quelle delle scodelle, delle uova,
dei libri”, caratteristiche che, alla pari dei semplici oggetti che popolano i
suoi dipinti, permettono quegli slarghi formali di pittura, oltre alla
possibilità di un tono uniforme capaci di confermare la sua sensibilità
di colorista. Il saggio di G. su Casorati viene ristampata, aggiornato
in alcune sue parti e rivista totalmente per quanto concerne l'apparato
iconografico. Tra la prima uscita e la riedizione, l’interessamento che il
discepolo dimostra nei confronti del maestro è continuo e si attesta con
modalità simili a quelle che avevano contraddistinto il suo precedente
impegno sulle riviste nazionali. Vi si affiancano però nuove prospettive
lavorative. Accanto alla sua attività di pittore e di critico che in
questi anni, oltre alla corrispondenza per Emporium e alla collaborazione per
Il Selvaggio, si amplia con due contributi sulla rivista Le Arti, G. è
impegnato nella nuova veste di assistente alla cattedra di pittura di
Paulucci presso l’accademia Albertina di Torino, assegnata
contestualmente anche a Casorati per l'insegnamento di composizione
pittorica. Incarichi che vengono entrambi costituiti ad personam dal ministero
dell'istruzione nel contesto dei provvedimenti avviati da Bottai a
favore dell’accademie artistiche. Sono questi, inoltre, gli anni
nei quali G consolida una sicurezza economica stabile tanto auspicata
grazie all'insegnamento nelle scuole: prima come professore di figura
disegnata nei licei artistici piemontesi e poi, come docente di FILOSOFIA
nei licei classici. La mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata
alla Galleria Cigala di Torino, è l’oc- casione per tornare a parlare di
Casorati sulle pagine di G., Casorati,
cfr. (Bertolino, Poli). sa: Casorati, Arte moderna italiana, Serie Pittori,
Hoepli, Milano. Cfr. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in LAMBERTI,
Fossati, Casorati Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati
Menzio Paulucci, Carlo Accame, Torino. Emporium”, presente in questa
circostanza con due pittori torinesi protagonisti della scena artistica
cittadina (reduci entrambi dall'esperienza del gruppo dei sei, sicuramente
vicini a Casorati ma mai allievi diretti del maestro: Menzio e Paulucci,
con il quale Casorati intraprende da tempo un rapporto di stretta
collaborazione. Il sodalizio dei tre artisti, che non vuol essere
un principio di ricerca comune ma piuttosto un impegno di politica
culturale condivisa, si ripropone più tardi, in modo analogo, con una
mostra allestita alla Galleria Genova del capoluogo ligure. La
circostanza è anticipata da una pubblicazione autonoma di G., intitolata Tre
nature morte e stampata dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica,
nello G., Casorati, Menzio, Paulucci, Emporium”, la monografia su
Casorati di Cremona), in un elegante edizione in folio che riporta come
Sottotitolo i nomi dei tre pittori torinesi. In questa occasione che si propone
di presentare sinteticamente tre opere dei rispettivi pittori, con tanto
di riproduzioni a colori G. sceglie la natura morta come genere
esemplificativo della produzione degli stessi. Un'operazione che
nell’introduzione viene definita come didattica e che si pone in aperta
polemica nei confronti della tendenza a considerare questo genere
come motivo poco adatto alla pittura moderna: ad Ogni esposizione abbiamo
sentito deplorare l'eccessiva presenza di nature morte o esaltare per il
loro scomparire di fronte ai quadri di figura. Una difesa per l'autonomia
e dignità del genere pittorico, che non si risparmia nel chiamare in
campo i precedenti noti di Cézanne, Manet ed ancora Renoir. La
questione non è nuova, ma prende le mosse da un pensiero espresso dal
maestro anni prima, che rappresenta verosimilmente il pretesto per il
contributo di G., che mostra questo taglio così inaspettato. Sulle pagine del
quotidiano torinese La Stampa, Casorati lamentava nell’artico- lo
La crisi delle arti figurative i medesimi problemi di accettazione della
natura morta da parte di pubblico € critica, con presupposti che
sembravano essere gli stessi avanzati ora da G. nella sua
introduzione: Ho sentito dire ed ho letto purtroppo parecchie volte
questa frase: troppe nature morte, troppe mele, troppi aranci, troppi
pomodori ecc. poveri oggetti, vo1 siete i modelli più docili e più esigenti
degli artisti Nei momenti più disperati della mia vita di arti-
Sta, io ho potuto riconciliarmi con la pittura dipingendo umilmente una
scodella, un uovo, una pera. La scelta della natura morta casoratiana verosImilmente selezionata da G. ricade su Le
pere verdi, presentata probabilmente per la prima volta in questa
sede: un’opera che gli permette di riba- dire il principio coloristico
sostenuto nella monografia, che viene qui chiarito con un'attenta
analisi Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo Accame,
Torino La presentazione di Nature morte, dovute a tre fra i più autentici
pittori operanti oggi a Torino, potrà anche apparire, ed essere
criticata, come una iniziativa a carattere tendenzioso e polemico. Non sarà
forse il caso di affermare che essa ha piuttosto un intento didattico? E
proprio di educazione del pubblico: degli intelligenti (almeno in
potenza, chè degli ostinati per limitazione Naturale di possibilità, per
passione di parte o per difficoltà di Sclogliersi da presupposti
culturali privi di validità non occorre Hr a comprendere le ragioni per
cui, su di una falsa impo- azione di presupposti, può passare per
atteggiamento polemico, peggio, di conventicola, il semplice intento di
chiarificazione Intellettuale e critica” (Ivi, p.n.n.). i CASORATI,
La crisi delle arti figurative, La Stampa, Scritti interviste lettere, cit.,
Bertolino, Poli. CY della sua pittura (non priva di tecnicismi del
mestiere), che si concentra sui valori tonali e sugli accordi cromatici
presenti nel dipinto, che sottendono sempre secondo G. a problemi ed
equilibri di natura compositiva: Sul fondo rosa e paglia un
accordo di due verdi: crudo e spento, e le chiazze rugginose e calde
della putredine che intacca i frutti; solo dal colore prende realtà il
fascino di questa natura morta, eppure il colore qui non evocherà a
nessuno la categoria della forma aperta o la scioltezza di un
pittoricismo abbandonato: chè Casorati è anche ora il pittore delle forme
assolute e degli elementari geometrici, ma il colore ne rivela, per
distinguersi dei campi continui e dilatati, la purezza, anzi il purismo,
di impaginazione e ce ne propone la più castigata presenza. i colori
si subordinano ad una ragione compositiva a priori in essa si giustifica
quel disporsi graduale di intensità pittorica che può far apparire
persino sordo (e tale veramente sarebbe se non servisse a concentrare
ogni attenzione sull’interno ordinarsi del gruppo centrale, ma
pretendesse di disporsi sul medesimo piano di bel colore dei toni vicini) il
colore locale; necessario a staccare nel castigato e serrato gioco
compositivo della frutta ritagliati sul fondo chiaro, dove più i toni non
si distinguono nella vibrante luminosità, la bruciata profilatura delle
foglie. Di respiro ben diverso, invece, è il contributo Casorati e i torinesi
apparso sulla rivista Pattuglia di Forlì. Nel numero dedicato interamente alle
arti figurative e curato da Testori, G. traccia un bilancio della
situazione artistica torinese: accanto a considerazioni su Casorati in
linea con la monografia Hoepli, abbandona i ricordi della scuola di
via Galliari proponendo una lettura totalmente rinnovata, alla luce
dei più recenti sviluppi espositivi. Menzio e Paulucci rappresentano qui
(insieme agli altri sei, che però non vengono nominati) i pittori
che si sono stretti intorno a Casorati e che, seppur non
direttamente allievi dell'artista, non rinnegano il debito contratto col
primo ideale maestro, né sono da lui sconfessati. Anzi la stima,
l'amicizia e la valutazione dei diversi ed ugualmente validi risultati,
da parte del più anziano rimanevano intatti od accresciuti. Una G,,
Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Casorati e i torinesi, Pattuglia.
La rivista, mensile del Guf di Forlì, viene inaugurata e riporta nel
sottotitolo la dicitura mensile di politica, arti e lettere. Il saggio di
G. viene pubblicato nell'ultimo numero della rivista, curato Testori e
intitolato “Omaggio alla pittura”, che si proponeva di fornire un
bilancio dell’ARTE ITALIANA. LA RIVISTA VIENE INTERROTTA E SEQUESTRATA DA
MUSSOLINI per i suoi contenuti non in linea con le direttive in campo
figurativo imposte dal regime. 07 ee (E I TORINESI) E
condizioni che determinarono a To- : sei anni dopo l'altra polemica fra
rino l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a proposito del di
quest'ultimo, di eu- proposito del valore positivo tentici pittori.
Condizioni in cui la eri. tivo delle influenze parigine sull'arte tica ai
pose di per se stessa come po- ita'iana non ha significato diverso. Ora
lemica: © in cui da polemica fu l'one- Gobetti e Venturi sono appunto stà
stessa della critica. La guerra del tra | primi ad esaltare l'opera di
Ca è terminata. Lo stile libe-
sorati. A dispetto danque delle av ty » in architettura, il
neo-pre-ralfuel- versioni del borghese e delle ammira lismo tipo In arte
libertas da cui zioni dell'aggiornato, che esalta insie pure avevano
mosso î primi passi pit- e Carrà 0 © Casorati, l'e tori validi come
Modigliani e Spadini figurativa di quest uveva esaurita ogni pretesa alla
forma- —srebbe un significato diverso, e in certo zione di una coscienza
figurativa nella senso opposto, n quello in cui si è banalità di
un'acquiescenza in cui i svolta la comune esperienza della più fermenti
di possibilità che più tard' vi viva pittura italiana? In parte si deve
scoprirà l'accorto senso del « perver- rispondere affermativamente pEr eg
sai 16 gin lettuale per quello Hgurativo sano ogni evasione
dal fatto pittorico, E che sioo al 1928 la pittura di Casorati quanto per
queste esperienze avveniva anche nelle punte di estrema avanguar- ordine
a le possibilità della linea cur-.ija come in certi distrutti. di- me di
questo è quel complesso frea- —pinti, n quanto si dice. sotto l'influenza F.
Casorati: “Ragazza,. diano avveniva, in modo anche più vol- gel gusto di
Kandiski, cerca i proprii gare è fatuo, mancati Sant'Elia e Boocio
riferimenti non in un mondo mediterra- : ma in uno nordico {quasi a
fedeltà i H È È; i figurativo di
Martino Span- Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e di Defendente
Ferrari che guard Memet o di Bestlovea, a confeadero assai più che
quello, volto verso il l'eleganza lineare di MODIGLIANI (si veda) con di
Gaudenzio), non in un'umanità l'imperizia del bambino (e se mai si assertrice
di proporzionata statura mul sarebbe dovuto rimproverargli un'ele- rondo
det orizzonte, ma nel panza sin troppo vicina preoccupazio- tormento di
sentirai oppressa da È ni ostetistiche e contenutistiche simili amine
mirror quelle che limitavano fl eritico) inau- ciò di dramma per la
propria persona, guraodo quella tradizione di contenu- in quanto finita,
Il sottile linguaggio tismo ad oltranza e di cauto e garbato, formale, la
ricerca d'equilibrio compo- ma fondamentalmente deciso, fin de sitivo,
l'astratto rigore della sintesi po- non recevoie » mel riguardi di una
vi- Loveno sì! suggerire, insieme @ certo conda pittoricamente valide a
cui si at- codenze illustrative (i libri aperti, i tiene con
un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli accorgimenti ‘tecnici, meno
2 merito della consequenzialità come l'uso della tempera verniciata, ri-
quel poco di csi valga la pena di rorimenti al quattrocento, mostro. sn
menzione della critica d'arte del quo- non poteva sfuggire ad ‘una
tidiani oggi ancora a Torino. più accorta l'assoluta continuità spi- Un
panorama, come si vede, sostan- rituale che legava il mondo d'allusioni
rialmente simile a quello del resto crepuscolari è le eleganze
cstotizzanti d'Italia, in cui tuttavia, in quegli delle « Vecchie» o
delle Signorine anni dell'immediato dopoguerra, Tori. attraverso 1
paradossi pseudo-formali ba ipo ipa delle
Scodelle è delle Uova nella maniera particolare e gerto senso,
doppia redazione, a tappeto ed s vo- fispetto al resto d'Italia, polemica,
su tume. a questo muovo mondo di non di un doppio piano, intellettuale e
figu: 1meno quintessenziate definizioni umane Rene a pi o spaziali, anche
se nel silenzio di IO) essere esemplificata PO quelle quinte prospettiche
ora quei pro- sizioni reciproche de La Ronda fili proponessero le loro
cadenze non di rivoluzione liberale. Cinscuno più per la via analitica
dei compisci vede quanto diversi gli orientamenti menti particoleristici,
ma per quella umani e culturali. Ma è tipico che pro? delle sintesi
ellittiche. prio fra Cardareti un'occe. Eppure una così diversa
afferma- sione polemica, su Leopardi, porta a zione in ordine a scoperte
pittoriche, una discussione do andava ben una tanto dialettica decisione
nel de- oltre i termini della cortesia. Siamo nel finire il proprio mondo
indipendente. Casorati: “ Bambina. Casorati e i torinesi, Pattuglia, lettura
della scena artistica cittadina che esclude totalmente i primi discepoli
dell'artista che continuano nel frattempo a dipingere ed esporre, non
solo a Torino preferendo invece soffermarsi poi sull’anomalie figurative
intese rispetto al tracciato casoratiano proposte da Spazzapan e Cremona. Il rapporto tra allievo e
maestro, che è innanzitutto di amicizia, rimane solido negli anni a
seguire, nonostante le scelte di G. si avviino, nel frattempo, verso un
fronte non figurativo della pittura, che lo vedono abbracciare
l’astrazione ed aderire al “Movimento Arte Concreta”, fondando
insieme ad Biglione, Montalcini, Parisot, Rama e Scroppo la sezione
torinese del gruppo. Accanto alla sua attività di critico militante,
più orientata verso le verifiche nel frattempo ottenute con-
testualmente in pittura, tornerà solo raramente ad interessarsi di Casorati,
soprattutto in occasione di letture complessive e bilanci di un'epoca, che
sembra ormai essere lontana nel tempo Cfr. G., Casorati, CAIROLA
(cur.), ARTE ITALIANA del nostro tempo, Istituto Italiano d’Arti
Grafiche, Bergamo, La pittura a Torino, Letteratura. Rivista di lettere e
di arte contemporanea, La pittura, lo spirito e mente da ricerche solo
per certi riguar- questi sforzi d’uomini della cultura mona, Anch'egli amico di
Casorati: ma pre riuscito a cogliere il momento di di parallele, grazie
all'autenticità della universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha
appreso. spontanen concretezza pittorica. Senza realizzazione figurativa
è della schiet ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del
resto questo gli abbia impedito tezza di linguaggio fantastico da essa Nasce
così il gruppo dei sei: tidenza di segno, una predilizione per quell'accorta
coscienza teorica della po- presupposia, s'inseriva nel dialogo della
Menzio, Chessa, Levi, Paolucci, Galanta quei profili nettissimi che gli
permettono sizione di gusto in cui il suo mondo fi- italiana di quegli
anni con una © Jessie Boswell., Fntro e fuari le vidi dare evidenza allucinante
d’inganno gurativo sì determina e del rapporti di validità di proporzioni
che tuttavia man. cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla riproduzione
dei i og- esso col movimento surrealista, di tiene integro il valore
dell'esperienza risulta allora e tale si mantiene, come i: distribuiti poi
questi in un ardine cui, per una curiosa e significativa a della la
personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza suggest
vicenda gli interessi destati a Torino memoria 0 più rigorosa- parsa, da
Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia dei
col monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di
compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente
pittura. Tutti da Fanciullo ad- menti
delicati, d’edonismo controllato rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano
Seleaggio, per brev'ora torinese dormentato allo Studio del © schivo, sceglie usa sun umanità d'ele-
i oniriche e dei senza si ppunto, sino alle recenti realizzazioni, al Concerto
»ne henno zione in volti di donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si
itettoniche, nella sede della società nti i risultati più vivi. Poi el si
bambini. Da questo punto di partenza dà lettura, ma cl Ippica di Mollino) che tatti 1 suoli
hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due esperienze opposte, ma
frata» per via di quegli emblemi pit- lettori conoscono, ma erano pur
utilizzabili în assai più concordanti nella dissoluzione di ogni e- torici in
cui però Cremona è quasi sem- G. concreto discorso di quanto non si
lamento estrinsecamente contenutistico, facesse dagli epigoni del peggior
otto- del rigoriamo formale casoratiano in- cento. Si afferma che i
Macchiaioli tu-, e del fervore cromatico de rono fra gli artisti
autentici della no- gl’impressionisti per- stra tradizione; si riconobbe
che un ar- misero a Menzio di scontare in puro tista ostile o almeno
appartato di fron- sollecitazioni pittoriche quei dati del te a ricerche
futuriste, metafisiche © sentimento, si defini una visione tanto
neoclassiche era un grande pit- personale quanto coerente dove la mu i si
riscopri l'im- sicalità del colore e la freschezza del pressionismo. Îl
necclassiciamo, nel È È «po vecento » milanese, che
qualcuno git si che delicati non impedirono, anzi fa- definiva
nooromantico, sì innestava, con vorirono lo spiegarsi di una confes-
Tosi, in una tradizione di pittura a- sione umana piena di melanconica
no- perta. Soffici non più cubista predica biltà nel reiterato e come
ansiosamento ed esemplificava un ritorno alla natura interrogato indagare
intorno alla con- in cui l'esperienza di Cézaane non eselu- sistenza
pittorica di quelle persone di deva quella di Fattori: a Torino, do-
drumma, così sottilmente lirico e di ve già intorno a Casorati una scuola
cosi pausate parole, che si muovona tendeva a ridurre a grammatica il sua
nelle composizioni famigliari di Menzio. figurativo, attraverso l’inse-
Tanto Casorati che Menzio del resto guamento universitario, Îl
mecenatiamo qutt'altro che paghi o chiusi nell'au di un collezionista, i
più rapidi con- tosoddisfazione: anzi entrambi sempre tatti con Parigi,
rapporti col gruppo sofferenti dei limiti o della milanese di Persico
anch'esso partito contiagenti stanchezze che potessero cc- in battaglia
contro il neoclassicismo, appannare il gelido speo- la lezione degli
impressionisti è at- chio di formalismi eidetici del primo, tinta
direttamente ai grandi modelli: © Manet, Renoir, Cézanne, in un preciso
pida dell'altro. inquietudine che ci spie senso importante due notevoli
carollari). ga il piegare verso più riscntite ao Paolacei: Piazza Navona
l'affermazione che Cèzanne non meno nitide pro- veva reagito
all'impressioniamo, ma lo filature lineari di Casorati, veva continuato e
che perciò la tradi- come le | ritorni, e, meno zione più viva di movimento
an-, da monotonia le ripetizioni dava proprio cercata in quel discorso
1delle cose meno valide di Menzio. ln rapido ed atmosferico si, ma
tutt'al. modo assai diverso, ina con accanita tro che occasionale e
vedutistico che è commovente dedizione ad un'ideale stato proprio dei
pittori che abbiamo di pura pittura che esclude tanto citato piuttosto
che dei Monet, dei Pis- ogni intrusione intellettualistica
quento surro, di Sisley. Secondo: che quel- ogni dispersione decorativa
Pao l'adesione all'impressionisno non po. Iucci è venuto sempre più
approfon teva che importare, da una parte, con- dendo una visione grata ©
improvvisa, Gogh al più libero fsuvinmo, rivivere il gusto degli
impros- che-dn qualche modo e sia pure unilate; sionisti, proprio di
questa fase della ralmente, il linguaggio di Cizanne ave- pittura
torinese, possono essere riat- ivano continuato, Gli strilli dei varii
taccati, in senso diverto, Mar- Ojetti per i salti in lunghezza da tina,
temperamento delicato di colorista Giorgione n Braque naturalmente non eu
cui è stata decisiva l'influenza di si contarono! Ma intanto quello che
te nf gie gi importava fu che la esemplificazione cento personale una
trepida, © vitale dei frutti di quest'esperienza cul- come smorzata,
elaborazione di ogni da- turale fosse data proprio da quei gio- to tonale
degli oggetti, e Spazzavani pittori che sì erano stretti intorno pan la cui
origine è le cui esperienze è Casorati, pur non più così ragazzi istriano
diedero ad una veramente pro da diventar suoi allievi nel senso sco-
digiosa capacità di trasfigurare |pit- lastico della parola, © che ora
nell'inì-1toricamente, attraverso la rapidità della ziare un lavoro
diversamente orientato, acchia e del segno, ogni dato ogget- e vano il
debito contratto col tivo una truculenza cspressionistica re- primo
ideale macatro, nè sono da Jui mota dal raccoglimento degli altri to-
sconfessati: anzi la stima, l'amicizia rincsi e dalla pacata visione
dell'im- © la valutazione dei diveral ed ugual pressioniamo. È di questo
suo pecu- mente validi risultati, da parte del liare atteggiamento ci
restano molti mo- più anziano rimanevano intatti od ec- menti
d'espressione mirabile, speci cootrapporre ai della mano facile è
dell'illustra incomprensioni fra chi incegue un me- tone
occasionale. desio sforzo d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per
intento e per ri verso divergenti esperionze di gusto. È
all'impressionismo l'esperienza i sultato, altrettanto si può dire
dell'attenzione a Dittorica inieressantiesima di Italo Cre- Menzio: Ritratto Alla scomparsa del pittore, G.
traccerà un ricordo del maestro, a margine del catalogo della mostra d'arte
contemporanea di Torre Pellice. Non più il colore o il tono, ma quei valori
umani e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni di
via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo omaggio di discepolo:
poiché è anche la coscienza di questa libertà, prima ancora morale che
estetica, che da Casorati alcuni di noi ricevettero come l’insegnamento
più prezioso, ci è caro chiudere col richiamo ad esso questo saluto al maestro.
Chè le sue opere parlano, per il rimanente, senza bisogno di commento. il
sangue, cur. Mantovani, Quadrante, Torino G., Omaggio a Casorati, mostra
d'arte, catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese), Tipografia
Subalpina, Torre Pellice. Gli occhi fervidi e il sapore di cenere G.:
Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Olivieri Approssimarsi
all'opera letteraria di un uomo di cospicua cultura quale è G.,
significa penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-
dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita e ricorrente
oggi nella ferma e attenta riflessione di pochi storici. Come ebbe a
dichiarare G. stesso In una autopresentazione, non gli si perdona
l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle stigmate
dell’intellettuale, categoria in cui finì suo malgrado per vocazionale
passione per la cultura. Proprio nell’ambiguità, nel marcare un
confine ideologico sottile, ordinandosi orgogliosamente in disparte insieme
alla generazione degli eclettici Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che G. trova
un eccentrico terreno di appartenenza sul quale edificare una propria
filosofia personale sistematicamente relata all’erudizione antropologica,
filosofica, religiosa e pedagogica. Formazione altresì integrata
agli interessi misteriosofici G. stesso ebbe a definire le proprie opere
evocazioni esoteriche vagamente connessi alla cultura torinese d’inizio
secolo e, in modo maggiormente probante, con lo studio di Casorati in via
Galliari dove conosce Daphne Maugham che, dopo avere respirato l’aria
mistica della parigina Académie Ranson, si è trasferita a Torino
dove la sorella con Salice, e Markman si dilettavano già, oltre che
di danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico, G. che
inizia ad interessarsi a Steiner e Madame Blavatsky batté gl’argomenti
indigesti alla cultura del suo tempo facendo di sé un intellettuale
atipico che, come ricorda Sanguineti, ispira idee ereticali nei propri
allievi. Autore di pochi saggi, che punteggiarono una carriera meno
prodiga di quella del compagno di studi liceali Argan, conosce Venturi
che lo accolse come collaboratore dell’Arte facendogli inoltre
pubblicare alcuni saggi sulle civiltà extra-europee. L'equivocità tra
critica militante e pratica pittorica fu un banco di prova sul quale
verificare, tra continui rilanci e azzardi, la reciproca tenuta delle
parti. In questo assiduo riversarsi delle specificità discipli-
nari consiste per G. il senso estremo della sua Pittura, votata alla
vanità dell'atto privato, smagata d’ogni velleità economica e
promozionale ma cro- S!uolo rovente dal quale estrarre i concentrati
succhi di un'urgenza creativa. L'incessante ritorno all'arte. ni n G., La
pittura a Torino, Letteratura, La pittura, lo spirito e il sangue, P.MAN-
ia cur., Il Quadrante, Torino, G., Diagnosi del moderno. Scritti scelti, UFFINO
(cur.), Aragno, Torino, L'arte egiziana antica, Firenze; L'arte dell'Asia
occidentale centrale, Firenze; L'arte dell'Asia orientale, Firenze è, Al
Gioberti di Torino dA EdO a ad. come artificio, come fare in sé
autosufficiente, è per G. un difettivo rimedio all’insanabile
scissura della natura umana divisa tra spirito e materia, tra
razionalità e intuizione, e un’imperfetta occasione di confronto tra
individui sul piano partecipabile ed empirico dell'immagine che, pur
sempre aderente alla condizione fabrile, trova la propria natura
più autentica nell'essere essa stessa divisa tra creazione e
imitazione. L'attività poietica, l'agire sulla materia intesa sui
presupposti estetici gettati da Alain (pen- satore scomunicato da Croce),
sottrae il discorso di G. dall’osservanza teoretica idealistica
come dall'impegno etico esistenzialista e, abrogando di fatto la
condanna platonica dell’arte, accetta il va- lore estetico come simbolo
del male. L'arte trova allora la propria eretica ragion d'essere nella
forma materiata, così come l’idolo o il feticcio sarebbero la
divinità in presenza e non l’ipostasi divina. Per questo la pittura per
Galvano rappresenta enigmaticamente il dio visto di spalle. Quando Mosè
chiede al Signore di mostrargli la sua gloria il Signore gli risponde:
Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio
nome. Soggiunse: Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun
uomo può vedermi e restare vivo. Tu starai sopra la rupe: quando
passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò
con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie
spalle, ma il mio volto non lo si può vedere. L'espediente divino
narrato nell’Esodo biblico, fatto laicamente La Sacra Bibbia Saccaggi,
Alma Natura, Ave!, pastello su carta applicata su tela, 68x125 cm., GAM
Torino. reagire con esperienze disposte alle proiezioni, tra cui l’idea
del dio pagano che non tace non parla ma accenna, sarebbe da intendersi
per G. che si era laureato presso
la facoltà di magistero di Torino discutendo con Gambaro e ABBAGNANO (si
veda) una tesi sulla pedagogia della religione” come metafora
dell'immagine (il “dio visto di spalle” appunto), quale unica possibilità
mondana di riconquistare l’unità primigenia dell’uomo. L'azione
esercitata dall'artista nelle condizioni oggettive della materia è, più
di una tecnica operativa, un’alchimia ai filosofi G. preferisce
Helmont e Della Riviera che permette il verificarsi di un'unione tra
l'esperienza concreta bloccata nell'immagine e l’'epifania del dio inteso
non in senso devozionale. Sì tratta in sostanza dell’allontanamento dall'idea
crociana di un'arte che esisterebbe autenticamente solo nell’intuizione e
non nella funzione estrinsecante della materia. L'arte sfugge così al
concetto di rappresentazione candidandosi come opportunità che
contemporaneamente apre allo sguardo rinserrandosi nell’enigma, nella
manifestazione del trascendente. G. percorre incessantemente questa terra
di frontiera: COME FILOSOFO, come storico, come pittore. Prodromo
del percorso pittorico è l’alunnato presso Casorati, scelto peril
linguaggio sufficientemente decantato, sintetizzato e affrancato dal
dato naturalistico per mezzo di un'operazione intellettuale capace
di conferire un ordine platonico agli oggetti dispensati dalla
polverizzazione cromatica impressionistica. Una lezione estetica essenziale
quanto l’austero contesto della scuola. Esemplarità che si
concretizza inunalto profilo morale e umano che Galvano ritiene in
dissolvimento nell'arte moderna con la quale si conclude un ciclo
plurisecolare aprendosene un altro, tumultuoso nel bene ma anche nel
male, dal quale si sentì definitivamente estraneo. Il mondo del secondo
dopoguerra sarebbe affetto da una crisi di moralità alla quale
potrebbe unicamente fare fronte una presa di responsabilità
politica, artistica, religiosa, speculativamente limpida ed esente da
posizioni compromissorie e accomodanti come quelle sostenute dagli
artisti che vogliono salvare i valori della tradizione pur dichiarandosi
moderni. L'intera modernità e l’idea stessa di progresso tecnico a G.
risultano ree di edificare, intorno a un fulcro di ragioni economiche
(Marx) e sessuali (Freud), un presente depauperato dall’opportunità della
variazione imprevista. A una totalità di costruzione legata alla forma,
tipica del Medioevo, si avvicenda insomma una totalità d'impiego legata
allo scopo, decisamente avvilente come comproverebbe per inverso il
moderno carattere apologetico della narrazione tecnica e scientifica.
Giudizio estendibile al fatto estetico per cui all'arte come atto
fabrile, tipico del Medioevo, si avvicenda l’arte come atto
intellettuale, peculiare del Rinascimento. Segue il periodo
reazionario e tradizionalista del romanticismo, caratterizzato dal
recupero programmatico degl’archetipi (Jung) medievali ma rivissuti Per
un'armatura, Lattes, Torino. Senza il contesto sociale entro il quale
quegli ideali si erano formati. La spontaneità medievale diviene nel
Romanticismo programma culturale e come tale è ereditata dal decadentismo
e dal simbolismo, il soggettivismo dei quali impronterà di sé l'espressionismo.
Le avanguardie appaiono dominate dalla pulsione oppositiva alla tradizione
elevando a sistema l'efficienza produttiva di un nuovo codificato
come autoreferenziale, programmatico e inintelligibile ma incapace
di emanciparsi dal dato naturale nonostante esaurirsi dell'esperienza
storica dell’arte illusiva. Gl’epigoni dell’astrazione storica, i concretisti, sono
nvece esonerati da questa soggezione insieme alle retoriche idealistiche
riuscendo, in piena ricostruzione etica e umana, a calarsi completamente
nel dato residuale figurativo, ossia all'evidenza del fatto pittorico. È l’esperienza
che G. intraprende con l'adesione alla branca torinese del MAC, esauritasi
per lui nella spontanea affermazione delle forme curvilinee tipiche del
Liberty su quelle rette e Spigolose dell’astrazione concretistica. In
una sorta di personale contropartita agl’intelessi spiritualistici e
antropologici, G. pensa a Artemis Efesia, Adelphi, Milano. un'arte come
luogo del verificarsi del mito capace di portare a definitiva
decantazione la sua inclinazione espressionistica (rubricata dal
Pallucchini) estraendo- ne la forza panica trasfigurata in una rinnovata
spinta metafisica. Sein ambito artistico risulta evidente come egli
ha risolto insé l’apprendistato casoratiano non assorbendone che un clima d'insieme,
metabolizzando l'aspetto decadentistico della pittura del maestro
celata sotto la rigorosa adesione a una norma di cristallina
evidenza estetica ed etica, sul piano dell'esercizio critico volle
incrinare dialetticamente il sapere con- solidato al fine di cogliere
unitariamente il senso più autentico della modernità. Accostandosi ai
testi suoi maggiori, nei quali dispiega un cospicuo sforzo storico
ma editati in un periodo a loro sfavorevole Per una armatura e Arthemis
Efesia, si ha la sensazione di essere dinanzi a un affascinate
quanto indefinibile prodotto letterario saggio, DISQUISIZIONE FILOSOFICA,
colta divagazione, eccentrico soliloquio, introspezione analitica che,
pensando alla continua permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe
a pensare a una creazione letteraria con statuto indipen-
denteecreativo rifiutato da Galvano incline, viceversa, a una critica intesa
come emanazione di un'attività immanente all'atto creativo. Permane
tuttavia l’eco dell'idea crociana della storiografia e della critica
che, pur non aggiungendo nulla all'opera ma limitandosi a sancirne
la validità poetica secondo l’idea del philo- sophusadditusartifici-
contrapposta all'idea dell’artifex additus artifici sostenuta da Annunzio
e Conti sulla scorta di Ruskin e Pater, attribuisce facoltà filosofiche e
artistiche alla soggettiva sensibilità intuitiva dello storico.
Coscienza temuta e avversata Croce è, per G., un'autorità
intellettuale che in cambio di una piattaforma teoretica esige la
partecipata condanna delle opere che, passate al vaglio di un
accurato approccio metodologico, risultino prive di valore poetico.
Nell’acido corrosivo dell'ironia e dialettizzando gli argomenti con lo
storicismo, Croce condanna il decadentismo nell’accezioni mistiche,
estetizzanti, irrazionalistiche e in quella che crede inconsistenza
filosofica e spirituale, includendo in quel termine tutto ciò che tende a
sviluppi formali astratti e condannando di fatto la fitta rete
culturale e relazionale della modernità. Nonostante ciò Croce ha il
merito di avere reso accessibile e ripercorribile questa fitta topografia anche
nella declinazione contraddittoria e fragilmente raffinata del
vituperato decadentismo. Accettando la condanna crociana, G.
confessa la propria passione per decadenti, esotici, erotici e apostoli
misteriosofici, ponendosi scientemente in una giurisdizione infernale
come critico e come artista nato dalla linea evolutiva del simbolismo.
Identifica anzi quello straordinario momento storico come un estremo
malinconico balenio della civiltà al crepuscolo, un'epoca di
transizione divisa tra spirito e carne, abitata da alcuni tra i più
eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni difformi ma compiute e
che lo sperimentalismo modernista delle avanguardie esaurirà. In una
sorta di ribellione alla figura paterna, G. trasgredisce la
raccomandazione crociana di non leggere Rimbaud, Mallarmé, Valéry e
riscopre, anteriormente a Cremona, il modernismo e la linfa vitale del decadentismo
attraverso il quadro metodologico del filosofo abruzzese inclusivo di
fatti estetici anche diametralmente opposti alle sue idee. G., come
alla sua generazione, fu quindi impossibile non dirsi crociano proprio per
l'opportunità G., Perché non possiamo non dirci crociani, in Numero Arte
e letteratura”, Omaggio a G.”, catalogo della mostra, Circolo degli’artisti,
Torino, Fossati, GARIMOLDI, Munpici (cur.), Electa, G., “Diagnosi del moderno CREMONA, Il tempo
dell'Art Nouveau, Firenze, che quella metodologia offriva nel
sistematizzare l’intera storia. Quello che invece depose fu lo
spirito conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a banalizzarsi
nell’idea d’un museo immaginario. Quando ha il proposito di
approfondire l’immagine cultuale e psicologica dell’efesina Arte-
mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui da un pastello di
Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!” (1898), opera collocabile allora,
quando uscì il libro, e tuttora, in un filone di gusto piuttosto
sospetto. Con una serie di pubblicazioni’, si renderà così protago-
nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato interesse per l’arte
Liberty dalla quale trarrà ben più diuna semplice ragione di studio
quanto invece, nella pratica pittorica, una viva permutazione in
allusioni enigmatiche irriducibili a ogni interpretazione, quali il
fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore e sim- boli. Questa
continuità formale si chiarisce anche come continuità semantica quando si
consideri come G. e Cremona abbiano ricondotto l’arte astratta in
un comune svolgimento con il Simbolismo e con il Liberty che, di
quest’ultimo, ful’espressione impiegata sul piano della fabbricazione. Da
cui il transitare di G. dalla fase concretistica a quella informale
e, più in là negli anni, a quella araldica di nastri e bandiere per
giungere appunto agli iris. Trascorrere stilistico da non leggersi come
eclettismo quanto piut- tosto come legittimo susseguirsi tra la carica
allusiva assegnata ai reticoli cromatici astratti e la sensibilità
decorativa trasformata in materia fermentata fino alla disgregazione
dalla quale estrarre infine nuovamente il ritmo danzante delle forme
arabescate. Il simbolismo gli consente di riversare il misticismo nella
propria opera di pensatore e, soprattutto, di pittore. L'arte
assume quindi un valore emersivo di forze morali (leggi spirito) del bene
nel momento crociano, del male più tardi in modo nietzschiano prima
ancora che estetiche (leggi sangue); diade debitrice al suo filosofo di
riferimento Klages, altro intellettuale trascurato in ITALIA quanto sospettato
di avere incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece più
coerentemente dovrebbe essere pensato come un epigono del romanticismo
intuizionista. L'arte tenta un'indiretta conciliazione tra spiritualità e
artificio consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica-
mente creatrice e non solo la copia di una copia; non una rappresentazione
ma un esserci immanente. La volontà di accogliere quel male come
necessario gli viene dalla presa coscienza di un'’artisticità, che
arde G., Dal simbolismo all'astrattismo, in “Galleria di lettere ed
arti; Le poetiche del simbolismo e 1‘origine dell'astrattismo figurativo,
Studi in onore di Venturi. Articoli specifici ai quali aggiungere: L'erotismo
del liberty e la sublimazione astrattista, Cratilo, Gabetti Isola, Casa
di Erasmo, Torino. inlui, radicata proprio nelle opere Create nelle
elaborazioni più irrazionalistiche. Come quella immoralità sia
aperta a fertili risultati lo si comprende appoggiandosi all’in-
terpretazione che Galvano offre delle Artemis: bianca come simbolo
coadiuvante di perfezione conchiusa ma Statica, nera come simbolo avverso
di imperfezione e INCompiutezza ma dinamica e che in potenza può
Jenerativamente aprirsi a una riserva di possibilità eventualmente
immanifeste. Per traslato, quindi, la hegatività del Simbolismo si apre a
una plenitudine di risultati. Permane tuttavia il concetto di fondo che
la pittura, come prodotto di una volontà impossibilitata a
realizzarsi nell’ideale, sia il risultato di una caduta la Cul spoglia
materiale sarebbe prova di vanità e disviamento. Come s'accennava sopra, G. si
smarca dall'idea di un'arte quale esempio del bello estetico e del
bene morale, per lui non più coincidenti, ma accetta la disperata
affermazione dell'immagine come a l Me. È
È n IS 18 la . t LI è ®
î unico possibile risultato dell'impulso proiettivo delle
aspirazioni individuali o sociali. Pittura che in ultima istanza è anche
piacere sensoriale, vocazionale istinto a testimoniare (Baudelaire),
“vizio assurdo”, vanitas; pittura come atto cultuale che mantiene in
gioco la proiezione degli archetipi, la ricchezza delle imma- gini
aderenti al mistero, almeno per quel poco che la contemporaneità
consente, poiché ilmondo nega ogni giorno più spazio alla pittura mentre
il pensiero bor- ghese, incapace di slanci estetici e metafisici,
permette che in questa duplice assenza si innesti la tecnica, la
pianificazione, la sterile sistematicità. Per G. la nostra epoca è
irrimediabilmente scissa dal significato più autentifico della vita, dalla
sua forza feticistica poiché ha fatto di quel mondo, in cui la presenza
del divino è costante, una favola bella l'iconografia della quale
non è che una lontana immagine idealizzata priva, per i moderni, di ogni
accenno oracolare. Queste ragioni filosofiche, di estremo
interesse, doveno apparire perlomeno eterodosse all'atto della loro
formulazione, divise tra esistenzialismo e fenomenologia e affacciate
all’abisso del mondo preclassico, alle profondità eraclitee. Scostatosi
dall’irrazionalismo di Klages, G. non intende fare di sé un
anti-razionale quanto piuttosto un convinto a-razionale, come indica la
personale concezione d’arte in equilibrio tra ragionevolezza e vaticinio,
secondo un fare né pienamente consapevole poiché eroticamente privo
di volontà intellettiva, né tantomeno completamente incosciente poiché
contemplativo. Pertanto l'ipotesi di G. è più aderente alla poetica di
Mallarmé piuttosto che al pensiero di Valery, perché dove il primo
disidratando e affinando la parola poetica pone le condizioni per un
superamento del modello simbolistico aprendo di fatto alle avanguardie,
il secondo immagina la creatività come un processo logico
ricondotto alla piena luce della razionalità, alla consapevolezza
dell'atto. Esaltando cartesianamente l’intelletto e la coscienza, il
processo creativo per Valery è un'attività spiegabile analiticamente
senza ricorrere a misticismo, vitalismo e spiritualismo. Carnalità,
sessualità e sensualità – CROCE (si ved) aveva biasimato la sensualità
nell'opera di Mallarmé come priva d’anelito d’innalzamento sono invece le
pulsioni vitali del SIMBOLISMO che interessano G. e che la
razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti- co, dovrebbe
avocare a sé integrandole senza ripulse pregiudiziali. Speculazione
intellettuale e artistica che rivela tutta l’enigmaticità di G. che
oscilla tra i termini affermati da Mallarmé, e ripresi da Alain,
di “vision”, intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”, intesa
come concretezza dell'oggetto in sé risolto. Se da una parte,
sull'esempio di Mallarmé — il quale pre- cipitò le parole nell’assoluta
perentorietà delle pure idee aspirando infine a una “poésie sans les
mots”, G. pare decidersi per la “vue” aderendo al concretismo astratto
come pars construens dalla quale pretendere risposte formali di esito
certo, dall'altra, per mezzo del multiforme divenire della sua
pittura, apre obliquamente alla possibilità allusiva dell’apparire,
accettando di fatto unesito provvisorio prossimo al concetto di “vision”.
L'oscillazione dalla vaghezza creativa all'evidenza intellettuale di
forme e colori è l’unica risposta contingente possibile per G. che
decide di non decidere tra i termini antitetici asseriti, approfondendolo
sguardo nell'oscurità della creazione e della vita. Medesimamente il G.
scrittore affronta il passato eludendo la descrizione analitica
delle epoche storiche portandone bensì all’emersione CROCE, Poesia e non
poesia, Laterza, Bari, MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier,
Fasquelle, Parigi i reconditi meccanismi, le contraddittorie spinte pul-
sionali; un’organica prassi opportuna a increspare la ricerca storica
attraverso una molteplicità di punti di vista culturali posti in
reciproco dialogo e liberamente sollecitati. Il rischio
nell’approcciare oggi la figura di G. è quello di appiattirne il
pensiero, come avverte Sanguineti. L'illustre allievo aveva
compreso come il decadentismo pittorico di un Moreau o letterario di un
Huysmans fossero considerati dal maestro un indispensabile momento
storico. G. mostra insomma un’idiosincrasia per quelle
“mortificazioni crepuscolarmente schifiltose” che impedeno ai CAMPANA
(si veda), agli ONOFRI (si veda), agli UNGARETTI (si veda) e ai MONTALE (si
veda) di superare, senza rifiutarne la carica panica e mitica, il
naturalismo panteistico dell’Alcyone dannunziano. InItalia, l'assenza del
dissolutivo lavacro simbolista si era in sostanza ripercosso nella
crociana deplorazione categoriale per l’arte moderna insieme
all’illusione di potere produrre un'opera estetica autenticamente
nuo- vaeludendo il peccato originario del Decadentismo. Il
tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates latine che aveva
tentato D'Annunzio richiamandosi ai romantici tedeschi, apriva gli occhi
di G. ai pre-socratici e alla filosofia moderna (dall’irrazionalismo alla
scuola ermeneutica) che del classicismo aveva assunto il senso
vitalistico, indefinibile e misterioso di una natura come rivelazione del
divino. Da cui l’idea di una suprema ragion d'essere trascendente
alla quale l’arte, per G., dovrebbe aprirsi ma che invece nelle
enunciazioni contemporanee gli pare, con buona pace di Eco, rinserrarsi
in un'opera chiusa. Con un piglio da lettura sociale dell’arte, G.
scrive dell’esaurimento dei rapporti storici tra committenti e artisti e
di come ciò abbia mutato l'originaria destinazione d'uso delle opere,
ridotte così a gratuite provocazioni. Conseguentemente proponeva le
dimissioni delle categorie di giudizio elaborate perle arti visive del
passato da sostituirsi con un equivalente delle letture psicanalitiche
tentate da Sartre su Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre
un pittore tradizionalista, G. si dichiara disinteressato a certi sviluppi
artistici lasciando intendere come il problema dell'effimerità dell’arte
compreso l'amato astrattismo geometrico sia anche un problema della
storia dell’arte come disciplina. Su come debba essere poi questa
storiografia G. non si pronuncia se non dichiarando che il problema
della storia dell’arte debba essere anche e SANGUINETI, Contro la
ragione, in La Stampa, G., catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Torino,
soprattutto il problema dell’uomo! Sovvengono le parole destinate a
grande fortuna critica che scrive Belting nei pamphlet intitolati “La
fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte e nel successivo
Das Ende der Kunstgeschichte. Eine Revision nach zehn Jahren nei quali
auspica la fine della storiografia artistica tradizionale a favore
di proposte olistiche e antropologiche avvedute delle mutate circostanze
sociopolitiche, del rimescolamento di cultura alta e bassa, della
suggestione determinata dai linguaggi mediali, dell’emergere di realtà
culturali prima marginalizzate, dell’obsolescenza della funzione
assegnata al lavoro manuale, dell’alterato ruolo di musei e gallerie
d’arte. La prospettiva delineata da G. si tinge di accenti acri quando
denuncia la pacifica cittadinanza ottenuta dagli ismi ridotti alla
non nocenza di prodotti da supermarket immersi in una rete di opportunità
economiche e di complicità professionali. Un terreno culturale desolante
che assume una disillusa trasposizione nella sua pittura ultima,
nei paesaggi desertificati, nella scelta estrema del silenzio creativo
come opzione possibile nonché parzialmente intrapresa. Facendosi
anticipatore di posizioni storiografiche di superamento della canonica
divisione tra antico e moderno e concentrando il periodo rivoluzionario
dell’arte d'avanguardia, in una sorta di personale à rebours G. esprime
l'opinione secondo cui i movimenti artistici successivi si sarebbero
attestati su posizioni di assimilazione manieristica piuttosto che di
irriverente Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi della
tradizione rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte moderna parallela più
complessa e connettiva come avrebbero potuto scriverla gli artisti ai
quali infine delega idealmente il compito futuro di creare un'ar-
te che, restando nell’ambito non figurativo e senza Impossibili riflussi,
riesca coerentemente a ristorare i Valori artistici e umani del passato.
G. insomma invoca il diritto anon essere moderno, o peggio ancora d
avanguardia, evitando di lavorare sulla contingenza e rifiutando
l'egemonia della critica per privilegiare, In senso dichiaratamente
anticrociano, la poetica degli artisti che al lavoro intellettuale
uniscono la prassi. Insieme alla proposta per un rinnovamento della
Storiografia artistica G. ne affianca un’altra di Natura conservativa
consistente nell’idea di salvaguar- dare le opere minori del modern
style, perlomeno gli Oggetti e gli arredi non ancora distrutti (di
Cometti Per esempio). Immagina la documentazione degli edifici
Liberty finendo per invocare l'allestimento di Una retrospettiva sull’Art
Nouveau internazionale, ma ù G., Cosa nostra, Sigma, Omaggio a G., Diagnosi
del moderno”, avveduta del caso italiano
e piemontese nel dettaglio, da allestirsi nella rinata Galleria di Arte
Moderna di Torino. Caduta nel vuoto la proposta sarà proprio G. a
scrivere un articolo sull’Art Nouveau a Torino e poi, insieme a Balmas e
Guasco, a curare al foyer del Piccolo Regio una mostra dedicata alla
pittura torinese. Sorta di doveroso omaggio a uno stile di vita prima
ancora che d’arte nel quale confluirono la vita delle forme collettive e
l’individualità creativa. Dissentendo da CROCE (si veda), l'interesse di
G. per gl’oggetti si approssima alle idee espresse da GENTILE (si veda) nella
prolusione al corso universitario di storia della ceramica pronunciato
nel Palazzo Comunale di Faenza nel quale il filosofo, saldando arte
e vita, rivendica la dignità estetica dei prodotti artigianali e
industriali di qualità. Si consuma qui l'ennesima contraddizione di un
crociano affine alle idee di GENTILE (si veda) che pur biasima per
densità retorica. Sensibile alle arti dei periodi di transizione e
avveduto della caducità dei giudizi, compresi i propri, per G. ogni
critica obiettiva deve essere sempre un’autocritica. Augurandosi
l'avvento di un esegeta capace di rileggere l’arte tra i due secoli, così
come Sanguineti seppe fare con la letteratura, G. rammenta come la
sua generazione abbia vergato parole sferzanti su Bistolfi fino a pochi
anni addietro valutato un artista di statura europea. Ma fu anche
la generazione di quei giovani i quali, raggiunti gl’anni quando
dovetteroimmaginare una ribellione la fantasticarono conle parole di
Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans il cui Des Esseintes sembra essere
allora il prototipo di un esteta come MOLLINO (si veda). Dell’amico,
stimato oltre che come professionista di genio anche come
dilettante d'eccezione, G. ammira la capacità di governare con la
formazione culturale crociana (CROCE (si veda)) e il rigore razionale
tipico della sua professione, gl’umori sensuali, avventurosi e ambigui
del suo animo capace di ri-evocare il ritmo aperto e biologico del
Liberty restituendolo nella voluttà degli interni arredati, nell'armonia
architettonica dei pieni e dei vuoti, nella eterogenea e immaginosa
commistione di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità che il
termine “surreale” illustra solo parzialmente e che trova una segreta
corrispondenza nelle opere di Cremona come nei molluschi, nelle
conchiglie, negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere
barocche che G. dipinge. L'identità autopoietica generata da Torino si
manifesta nella condivisione spirituale prodotta da G., Per lo studio
dell'Art Nouveau a Torino, Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e
Belle Arti] questa generazione d’eccentrici intelletti, nella speci- fica
formazione di un genius loci come G. e nel progetto della Bottega
d’Erasmo che Gabetti e Isola disegnano in forme intellettualistiche
neo-liberty. Proprio in quell’anno, “A Rebours” di Huysmans diverrà per G.
il pretesto per puntualizzare le proprie posizioni all’interno del Mac e
più in generale nel modo di intendere il Decadentismo! Quando Borgese
consiglia agl’astrattisti concreti, in chiusura della recensione alla
mostra di G. allestita presso lo Studio di Milano, di rileggersi il
celebre romanzo di Huysmans nel quale, a suo parere, ci sarebbe stato il
necessario per decodificare la loro poetica, gl’aderenti al gruppo
accolsero l'esortazione come una blasfemia da respingersi integralmente.
G. ritenne legittima la protesta dei compagni astrattisti apparendogli
chiaro come Borgese incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante
vita del protagonista narrato nel romanzo, di esprimere un'epidermica
quota d’edonismo e di sensualismo ribelle ai disvalori della società
positivistica industrializzata e scientifica, votata al profitto, al
commercio, al nuovo capitale borghese. Dopo di che G., confessando
di aderire parzialmente al pensiero del capitano della brigata
anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura sorprendentemente
sincretica aperta al riconoscimento dell’ambivalenza del rapporto tra
astrazione e SIMBOLISMO (SEGNO ASEMANTICO). Al rifiuto delle suggestioni
emotive del SIMBOLISMO, l’astrattismo, secondo G., ne
intellettualizza le allusioni ele corrispondenze, termine apertamente
rimontante a Baudelaire, come strumento oppositivo al dilagare prosastico
del realismo. L'astrattismo del dopoguerra ridurrebbe quindi ai minimi
termini la carica letteraria aumentando quella metafisica, riscattando la
tradizione dei padri nobili dell’astrazione e tesaurizzando nel
contempo (sulla scorta della ricostruzione filogenetica di Pevsner) la
lezione di Toorop, Gauguin, Munch e Klimt insieme a quella degli
antesignani Runge, Blake, ANTONELLI (si veda), Ciurlionis, Kupka; in
sostanza dei precursori che evocarono ancora le leggi del
mondo fisico consentendo agli evoluti linguaggi non figurativi di
divincolarsi più recisamente dalla mimesi. Tra le due guerre, sull'onda della
fenomenologia e della psicologia della forma, si assista a un
aurorale revisionismo storiografico dell'Art Nouveau, anche Persico
ha in animo di scriverne una storia! G. (asterisco di) in, Pitture di G. in
un esperimento di sintesi (testo anonimo), Milano Studio, Arte
Concreta, bollettino Poi in Fossati, “Il movimento arte concreta.
Materiali e documenti”, Martano, Torino, BorcEse, “Corriere della Sera, Pica,
Revisione del Liberty, Emporium, ma sarà con gli anni Sessanta e Settanta che
diverrà condivisa acquisizione la carica anticipatoria ricoperta da
Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire da Blake. Anima nera del
concretismo, Galvano assume un ruolo sovversivo nel movimento proponendo
ine- dite e intelligenti aperture di senso che tuttavia non
giungeranno a ispirare un prolifico dibattito all’interno del gruppo
infragilito dalle difformità tra la posizione intellettuale rigorosamente
metodica dei milanesi e gli arrovellamenti sulla materia fortemente
allusiva espressi dalla linea torinese. Risalendo alle sorgenti
dell’arte astratta, G. riannoda, in antitesi alle letture formalistiche, le
affinità con le fonti spiritualiste di decadentismo e SIMBOLISMO e
pensando alla densità mistica nell'opera di Huysmans sfogata in
occultismo e cattolicesimo con le citazioni della Blavatsky e di
Steiner scritte da Kandinsky, con la prossimità di Mondrian ai circoli
teosofici, con il lirismo magico di segni e colori dell’orfismo di Kupka
e, non ultimo, con uno dei primi testi dedicati all’astrazione scritto d’EVOLA
(si veda). Dandy auto-ironico votato alla marginalità, G. dissemina il
proprio percorso di tracce sulle quali indugiare, trascorrendo
liquidamente da una disciplina all'altra in modo stupefacente per un
intellettuale animato da pura vocazione pedagogica ma riottoso alla
metodicità dello studio scolastico. Attribuire un senso univoco al suo
pensiero equivarrebbe a fraintenderne la filosofia e l’idea stessa di
un'arte come autosufficiente e spontaneistico operare nella ferita aperta
tra vitalismo e intelletto che l’atto artistico non riesce tuttavia a
cicatrizzare. La civiltà intera corrisponde per lui alla fenomenicità
delle immagini da essa prodotte che, in sostanza, aprirebbero al mistero
quale autentico evento metafisico. Intendendo come piani dell’emersione
archetipica i segni dell’arte della quale l’idealismo si limiterebbe a
coglierne l'aspetto teoretico, Alain quello pratico e l’Esistenzialismo
quello etico è troppo semplicistico archiviare la passione di G.
per decadentismo, SIMBOLISMO e modern style, come l'infatuazione
culturale per un'epoca vesperale. Egli si sente invece custode ed erede di
quella lacerante contraddizione, di quella genesi oppositiva, di quella disperata
tensione verso uno spirituale fatalmente arreso alle forme dell’estetismo,
di quella magnifica e perduta sfida, tanto da riversarne la forza vitale
nella personale proteiforme pittura così come nelle progressive illuminazioni
della sua letteratura filosofica e artistica. Opere esposte Lettrice
sdraiata olio su tela 63,5x81 cm Autoritratto olio su tela 23,5x18
cm Astrazione olio su tela 50x60 cm et adi Il giorno olio su
tela 100x80 cm Pacato olio su tela 90x110 cm Composizione in nero
olio su tela 90x110 cm SENZA TITOLO olio su carta 34x48 cm Ercole ed
Anteros olio su tela 85x115 cm Omaggio a Van De Velde olio su tela 80x90
cm 10 Ir1s olio su tela 105x95 cm 10Y1olio su tela 95x110
cm Calligramma olio su tela 100x85 cm Fiori di lago olio su tela
100x120 cm Le jardin de cet astre olio su tela 132x116 cm Ireos olio
su tela 130x115 cm Proposta olio su tela 135x122 cm Pavese olio su
tela 120x110 cm Farfarello e Malambruno olio su tela 80x60
cm Gonfaloni olio su tela 95x80 cm Nastro olio su tela 90x80
cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri colorati olio su tela 110x100
cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri olio su tela 60x50 cm
MALI Nastri 60x50 cm ter» IG MOFBEE sie
Tre ir" Saitta SEGNO ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio
su tela 110x90 cm pari #1 =$ Re |a te n ; 26 SEGNO
ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio su tela 110x90 cm Artemis olio
su tela120x110 cm Maioresque cadunt olio su tela 90x80 cm
TITO sal olio su tela 70x50 cm SENSA TITOLO olio e carboncino
su tela 80x60 cm Ireos olio su tela 70x60 cm Iris acquarello su
carta 40x30 cm Sa Cespu glio acquarello su carta 40x30 cm Glotre du lon g
desir idees acquarello su carta 40x30 cm Fiori acquarello su carta 40x30
cm VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I BEILET DART DIG SPARI DIO RR
pia I I LITIO ODE LIL Fiori acquarello su carta 40x30 cm Une Fleur
olio su tela 70x70 cm Scrittura acquarello su carta 60x50 cm Sassi e
foglie olio su tela 80x80 cm Foglie morte olio su tela 80x80 cm Ciottoli
acquarello su carta 40x30 cm Labrit, © di DASIO LT R EDLI u
DILODIAT Ciottoli e rocce acquarello su carta 48x35 cm Ciottoli acquarello
su carta 48x35 cm hu ro iiriiRRRE Rocce e ciottoli olio su tela
80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su
tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Opere in
mostra Lettrice sdraiata olio su tela 63,5x81 cm Autoritratto olio su
tela 23,5x18 cm Astrazione olio su tela 50x60 cm Il giorno olio su
tela 100x80 cm Pacato olio su tela 90x110 cm Composizione in nero
olio su tela 90x110 cm s.t. SENSA TITOLO olio su carta 34x48
cm Ercole ed Anteros olio su tela 85x115 cm Omaggio a Van De Velde
olio su tela 80x90 cm Iris olio su tela 105x95 cm Fiori olio su tela 95x110 cm Calligramma olio
su tela 100x85 cm Fiori di lago olio su tela 100x120 cm Le jardin de
cet astre olio su tela 132x116 cm Ireos olio su tela 130x115 cm
Proposta olio su tela 135x122 cm Pavese olio su tela 120x110 cm
Farfarello e Malambruno olio su tela 80x60 cm Gonfaloni olio su tela
95x80 cm Nastro olio su tela 90x80 cm Nastriolio su tela 60x50
cm Nastri colorati110x100 cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri
olio su tela 60x50 cm Nastri olio su tela 60x50 cm SEGNO ASEMANTICO
Segni asemantici (dittico) olio su tela 110x90 cm Artemis olio su tela
120x110 cm Matoresque cadunt olio su tela 90x80 cm SENSA
TITOLO olio su tela 70x50 cm SENSA TITOLO olio e carboncino su tela 80x60
cm Ireos olio su tela 70x60 cm Iris acquarello su carta 40x30
cm Cespuglio acquarello su carta 40x30 cm Gloire du long desir idees
acquarello su carta 40x30 cm Fiori acquarello su carta 40x30 cm Fiori
acquarello su carta 40x30 cm Une Fleur olio su tela 70x70 cm Scrittura
acquarello su carta 60x50 cm Sassi e foglie olio su tela 80x80
cm Foglie morte olio su tela 80x80 cm Ciottoli acquarello su carta
40x30 cm Ciottoli e rocce acquarello su carta 48x35 cm Ciottoli
acquarello su carta 48x35 cm Rocce
e ciottoli olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela
80x80 cm Rocce e sassi olio su
tela 80x80 cm GARABELLO ARTEGRAFICA, SAN MAURO TORINESE. Grice: “I don’t see why
Italians are obsessed with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza
thinks conceptual artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth
analysing. In his more snobbish ways, he thinks to mould the male body was
Pliny’s idea of art – bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes
only second or third, and only because of the desegno – i.e . the line of
beauty, which is – as shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi,
Peirce, Grice. By uttering x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s
use of gesture. il concreto, l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa, l’implicatura di
Sraffa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura concreta”– The
Swimming-Pool Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”.
Grice e Gangale: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del dia-letto e la dia-lettica – scuola di Crotone – filosofia crotonese – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza
No comments:
Post a Comment