Grice e Galimberti: la ragione conversazionale,
l’implicatura converszionale, e l’imaginario sessuale – filosofia monzese –
filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo monzese. Filosofo Lombardo. Filosofo
Italiano. Monza, Lombardia. Grice: “I
like Galimberti: he has philosophised on amore, amicus, amicizia – all topics
of my interest – while I am into vyse, he is into the seven capital vyses! He
also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’ and the ‘equivoci’ of the
‘anima.’ – In general his philosophy is about nihilism and the idea of man in
the age of ‘techne’ (ars).” Il suo
maggior contributo riguarda lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso
come la base primeva e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce
a Monza, la mamma maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della
famiglia l’obbligano a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario.
Terminati gli studi liceali classici, si iscrive al corso di laurea in Filosofia a Milano. Si
laurea quindi con Emanuele Severino con lode, con “La logica di Jaspers”. Fra i
suoi maestri, anche Bontadini. Studia fenomenologia del corpo con Borgna a
Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia con Trevi.“E se "filo-sofo"
non volesse dire "amante del sagio" ma "saagio dell'amore",
così come "teo-logo" vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’,
o come "metro-logo" vuol dire scienzato delle misure e non misura
della scienza?” “Perché per la forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione*
della morfologia nella implicatura? Perché il filosofo greco si struttura come
un logico che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per
rinchiudersi nell’academia, dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a
discepolo quesso che lo face un ‘sagio,” e che non ha nessun impatto
sull'esistenza e sul modo di condurla. E per questo cheda Socrate, che indica
come la sua condotta "l'esercizio di morte", ad Heidegger, che tanto
insiste sull' “essere-per-la-morte”, il filosofo si e innamorato più del saper
morire che del saper vivere. Al centro della sua riflessione sta il corpori
degli uomini, che, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica, si sentono un
"mezzo" nell'"universo dei mezzi", riuscendogli sempre più
difficile trovare e dare un senso alla sua vita, alla sua esistenza. Si deve
trovare un senso al radicale disagio, alla tragicità del suo esistere, anche
attraverso il recupero dell'ideale antico greco-romano, evitando mitologie.
Il suo maggior contributo consiste nel porre la dimensione del simbolo (coniactum
– the idea is that you throw two things together so that the recipient may
compare them, one becomes the ‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice
on Peirce on symbol) alla base primordiale della ragione conversazionale, che
ha inteso ordinare il simbolo (mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle
cose ma non l’equivalenza generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il
sustratto pre-razionale. Rappresenta un caos originario che ragione tenta di
arginare. Siamo razionali (apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto
fondamentale del simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza.
Riprende Freud e Jung, fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante
è stato il costante riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione”
(verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang
for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia
filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una
trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze
naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale,
fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria. Contrario, poi, al
dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo
fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia
filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di
quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al
significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad
abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e
”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale
fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia,
cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera
coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza
e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due
invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi
in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e
sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata
rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi
per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di
questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente
l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza
naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una
risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione
strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un
animale sui generis. Riconosce la cristianità come il carattere di una
scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il
presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo
semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme
occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi
(disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione,
scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a
profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello
scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della
sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha
modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano
endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma,
in fondo, la loro esistenza è preposta a questo. Non si definisce né
"credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma
"greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del
mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda
anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco
arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e
la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra
vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci
te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite. Approfondisce
molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua
indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica
-- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era
associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo
ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è
destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che
l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i
propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei
cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel
ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la
forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon,
l'opera, ciò che è compiuto. Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi
dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e
maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il
dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute
in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza
divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei
vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria
e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare
il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal
greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo
vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi.
Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di
gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria
esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se
l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti
posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli
si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto
dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita
il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e
nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre
l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i
mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento
che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos,
il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno
l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il
tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza
favorevole, e in essa espandere sé stesso. Questo equilibrio tra tempo
naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della
tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad
annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos,
l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul
mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per
portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della
tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato,
determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco
ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è
più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione
di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico. Riflettendo
sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di
‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano
antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma
sema -- mette in contrasto le diverse
modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora
– corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza
lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per
la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come
supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere
per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un
corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica.
L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una
implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo
significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre
assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo
sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria
psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex
di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito.
Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano,
significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i
corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità
o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui
i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa,
ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il
significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione
tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva
infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una
legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma
anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron). In questo modo i corpori conservano la sua
oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi
tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente,
il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito
conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla
restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro
effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì
quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza. Si è sempre
schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi
inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a
volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri
autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli
in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso
che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha
ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò
non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto
un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare
del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su
Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva
l'ammissione da parte di G. dell'indebita appropriazione intellettuale nelle
successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non
tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati
testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione
però, c'è uno scatto di novità". L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha
accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati
copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si
accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi
per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a
farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e
che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli
accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere G., nel suo interesse, a
chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a specificare le
sue posizioni.”Nel giugno la rivista
L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un lungo articolo su
altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è stato indicato come
costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi scritti precedenti, per
il restante 25%, una ristesura di intere frasi e paragrafi, presi da altri
autori, quasi identici agli originali. Le accuse mosse a G.i sono poi diventate
un saggio, “La mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci,
elenca i nomi dei pensatori da cui avrebbe tratto parti di testi senza citare
la fonte. Vattimo ha dichiarato al Corriere della Sera: «si scrive anche a
distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore
la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza
virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico. Noi si lavora su altri testi,
si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nella
filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da sé stesso».Altre
opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire (Milano, Apogeo); Amore. Assisi, Cittadella Editrice,.Tra il dire
e il fare. – dire e una forma di fare --
Il viandante della filosofia, con Marco Alloni, Roma, Aliberti,.Parole
d'ordine, Milano, Apogeo,. Amore.
Milano, AlboVersorio. Amante, amato, amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA),
Orthotes,. “Il bello” Napoli-Nocera
Inferiore (SA), Orthotes,. Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella
Editore. Fenomenologia del corpo, Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ –
in “Personal Identity” “I fell from the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo,
Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano, Feltrinelli); Parole nomadi, Milano,
Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli. Amore,
Milano, Feltrinelli. Treccani. G., nato a Monza, è stato professore incaricato
di Antropologia Culturale e professore associato di Filosofia della
Storia. Professore ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia, titolare
della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le cose dell'amore. Il
libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere letterario dei saggi.
Sommario: Riassunto per capitoli: “Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è
sempre stata collegata alla metafora dell'amore, nel senso che senza la
presenza della trascendenza, cioè che è al di là dei limiti di ogni conoscenza
possibile e quindi superiore alla ragione umana, l'amore perde la sua forza e
la sua capacità di leggere il mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio
la sua trascendenza, e Dio vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non
presenta sentimentalismi ma solo il nesso tra amore e trascendenza. I “Amore e
sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di immortalità
e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della
totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la
morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale,
durante il quale l'Io e il Tu si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla
fiducia reciproca. “Amore e sessualità”:
Il sesso non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone
l'Io, aprendolo così alla crisi. Nella sessualità, la meta non è il
godimento dell'Io, ma il suo perdersi negli abissi dell'anima, i quali si pensa
siano rimasti disabitati, e che invece possono riapparire durante quel
rinnovamento della vita a cui l'Io cede ogni volta che ha un rapporto sessuale
e quindi nesso con l'altra parte di sé. “Amore e perversione”: La perversione è
sempre stata giudicata negativamente, perché concepita come sinonimo di
devianza, degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la
trasgressione, ma la sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è
soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione e dl'universo
di differenze da cui prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del
perverso non deriva dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite
oltre il quale c'è l'incontro con la morte. “Amore e solitudine”: La
mitologia greca aveva divinizzato la masturbazione, perché era
espressione di autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne
condannato, nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima
sosteneva che essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno
spreco. Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa
da queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare
come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare gradualmente
la sessualità. "Amore e denaro": La prostituzione è uno scambio
di sesso e denaro che caratterizza il regime sessuale della nostra società, e
che viene alimentato da un desiderio di rapido miglioramento delle proprie
condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa merce: quando
un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua propria,
arrivando a considerarla più come un "genere" che come
"individuo". "Amore e
desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento
necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la
quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della sicurezza e
della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non
prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la
passione. "Amore e idealizzazione": La percezione della realtà è una
costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui
l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i dati della
realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti
la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante
illusioni create dalla passione per evitare la delusione. "Amore e seduzione": Nella vita
quotidiana, la trasparenza riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario
dischiuso dall'immaginazione. Infatti il desiderio si trova in ogni fessura
della realtà che lascia trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e
de-reale. Il corpo dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro
desiderio, e questo corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si
esprime attraverso le vesti, gli accessori, i gesti, la musica. "Amore e pudore": L'amore prevede
che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due soggettività
presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica, impone
la barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la
individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza
riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un
sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone
alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato. "Amore e gelosia": Nella nostra
società, dove la sussistenza dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli
familiari, la gelosia è vista come un sentimento arretrato che ostacola
la libertà e la sincerità dei singoli. Essa, cha affonda le sue radici
nell'infanzia non per la progressiva rinuncia da parte del bambino al
possesso esclusivo del padre o della madre, ma perché durante questo periodo
chiunque ha provato sentimenti come la solitudine e la paura di essere
abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero e il
comportamento. Per avere controllo su questo potente stato d'animo, bisogna
separare progressivamente l'amore dalla ossessività, cioè civilizzarla.
"Amore e tradimento": Il tradimento risiede nella fiducia originaria,
dove non c'è traccia neppure del sospetto, perché non sorgono ne
l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta di quest'ultimo segna la nascita
della coscienza, e questo atto è indicato dal tradimento. Sono presenti diverse
reazioni al tradimento: la vendetta, che non emancipa l'anima ma la
irrigidisce; la negazione, in cui l'individuo che ha subito una delusione tenta
di negare il valore dell'altro; il cinismo, che fa credere che l'amore sia
sempre una delusione; il tradimento di sé, che porta a tradire sé stessi e le
proprie esperienze emotive; la scelta paranoide, un atteggiamento legato più
alla sfera del potere che a quella dell'amore.
"Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, e
la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto dalla capacità
di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di pericolo in cui si
trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e oltrepassarla. In
amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la persona amata, oppure
per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione aggressiva, carica di
odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a meno di questa
persona. "Amore e passione":
A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il
governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è
possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La
passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita,
rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare
e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il
destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per
la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e dell'incertezza.
"Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro per amore di sé
approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta alla perdita della
propria identità, o nel possesso della persona amata, con la tendenza ad
escluderla dal mondo. Gl’amanti chiamano amore questa reciproca
immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime
solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di
alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita
l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se
stesso. "Amore e possesso": La
passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si
indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in
cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita
sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del
corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata
lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente
identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio
di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione
si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé.
"Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata
dall'individualismo, in cui l'individuo vive in base alla sua personale
idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali. Attualmente,
l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e religioso, e si sta
diffondendo la figura de "l'uomo della passione", che attende
dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in generale. Da una
parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal mondo per
raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione che fonda
il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio impegno.
"Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare espressione
a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del linguaggio
dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la normalità e la
quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso, l'insolito, e non può
farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo eccesso concede
all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce quando è
totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la totalità, dove
odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro. "Amore e follia":
L'amore è quasi sempre stato considerato come un qualcosa posseduto dall'Io.
Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una ragione onnipotente che guida
la volontà che governa le ragioni, in quanto la psiche umana non è razionale.
Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole della ragione e agli abissi
della follia. Egli con il termine follia indica un'esperienza dell'anima che
sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarla e disporla in
successione. B) Tesi dell'autore:
L'amore non può esistere senza un raggio di trascendenza. C'è una
profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore. L'amore non rinnega il
sesso e l'erotica. L'amore deve sapere accettare anche la perversione. La masturbazione è segno di solitudine. Con
la prostituzione ciò che si vuole comprare non è il sesso ma il potere su
un altro essere umano. E' importante saper conciliare il bisogno di sicurezza
(l'amore) e il desiderio di avventura (la passione). L'idealizzazione amorosa
influenza la nostra percezione della realtà.
La vera seduzione è possibile solo quando il corpo non si riduce a quel
significato univoco che è il sesso. Il
pudore è quel sentimento che difende l'individuo dall'angoscia di perdersi
nella genericità animale. La gelosia è il rovescio della passione,
dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore. Il tradimento è il lato oscuro dell'amore,
che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende
possibile. L'odio è il compagno
inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è
l'amore. A differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole. L'amore non prevede la rinuncia di sé. L'amore come passione è il desiderio di
potenza assoluta su di una persona. Il matrimonio non è supportato da alcuna
buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in
capitolo. L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della
nostra anima. L'amore è un cedimento
dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate
nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato
molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di
vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno scrittore,
riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella banalità e
nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di proseguire la
lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi affrontati si
riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci riguardano da
vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore legato al
denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema diffuso in
Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere in comunità,
che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la quale è
vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo
l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli;
l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta
diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la
lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle
difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è
fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri
occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera
corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a
comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre
più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una
frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella
comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi
sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che
ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono:
ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria,
parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni
relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché
entrambe sono temi importanti affrontati. Era dunque necessario approfondire il
concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di
questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di
riflettere in modo più attento e accurato sul termine
"immedesimazione", che era già stato per me oggetto di studio in
alcune discipline, ma non era mai stato così legato alla quotidianità, così
vicino al nostro ambiente di vita. In conclusione, questo libro mi ha dato
l'opportunità di ampliare il mio sapere, e soprattutto mi ha dato l'occasione
di approfondire il concetto di alcune parole, elencate precedentemente, prima a
me estranee. Scheda del libro Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende
a definire l’amore legandolo a significati che, in realtà, non gli
appartengono completamente. G., attraverso un’attenta analisi, s’introduce
all’interno del sentimento più incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi.
Egli non definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi sinonimi
che gli vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini non sono
equivalenti ma solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi
sinonimi potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte
compenetrata, ma non sovrapposti. Il risultato evidente risulta
essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di
amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene analizzato in
tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla perversione,
seduzione, denaro, dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione,
possesso al matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più
oscuro sembra nascere da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un
essere la persona amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà,
finisce col produrre una disillusione delle aspettative, trasformando la
passione, l'idealizzazione, iniziale in un affetto privo di partecipazione e
trasporto. Le conseguenze, talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da
tramutare la passione in una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli
psicologi. La vicenda divina è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo
trasgredisce, eccede, cadendo sotto il peso della passione che non rappresenta
solo uno smarrimento del desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio
patire. "il desiderio, per quel che ancora le parole significano, rimanda
alle stelle: de-sidera" (Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore,
l'amore e la trascendenza vanno di pari passo e dal momento che il significato
della parola desiderio rimanda alle stelle, quando esso con il tempo si
estingue, non c'è più elevazione dell'anima che è in grado, trascendendosi, di
lasciarsi superare. L'amore e la trascendenza, dunque, sono legati non da un
rapporto reciproco, ma dal sentimento che viene sviluppato per le cose che non è
possibile possedere. Il saggio risulta essere molto interessante nelle
tematiche e negli accostamenti tra gli argomenti e permette, attraverso l'uso
di un linguaggio comune di poter essere compreso da diversi tipi di lettore,
trattando,infatti, un tema senza età e senza la necessità di particolari
conoscenze umane o scientifiche permette a tutti di immedesimarsi, interrogarsi
ed interagire conil testo ed è proprio questa compenetrazione del lettore che
crea una polisemia di significati e sempre diverse chiavi di lettura sia da
altre persone sia dal tempo che muta le circostanze della vita. L'autore riesce
a non abbandonarsi mai in trattati banali o superficiali finendo in discorsi
pesanti ed inconsistenti ma inserisce diverse tonalità che mantengono viva la
curiosità e la voglia di proseguire la lettura. La contemporaneità in cui vive
gli permette di rapportare al testo l'esperienza personale, permettendo che
venga identificata o differenziata da quella altrui. Le tematiche attuali, lo
stile concreto e il narratore in cui è possibile identificarsi mostrano,
dunque, l'ottima riuscita del libro. "Amore non è solo vicenda di
corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella
pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta." (Le cose
dell'amore). conseguenza si tende ad innamorarsi solo delle persone che la
fantasia porta a sognare ed idealizzare e a cadere in depressione o nel
deprezzamento di se stessi se il sentimento non è ricambiato, poiché, senza
l'immaginazione, che influenza la percezione ed esalta la realtà il desiderio
di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere l'amore per la paura di non
essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue molteplici identificazioni ha
anche un lato oscuro, riconosciuto nel tradimento. Esso rappresenta sia il
dolore per fine della fiducia, che l'inizio dello sviluppo della coscienza,
infatti, solo chi si concede senza avere la sicurezza di non essere tradito può
provare il vero amore. La coscienza può, emancipandosi, portare al perdono e
decidere di passare oltre oppure può svilupparsi in vendetta, cinismo,
svalutazione o malattia, e dal momento che questa è la strada più percorsa
generalmente è bene che non si realizzi come pratica insincera ma come
reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non cerca scuse e chi ha subito
prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento poiché tradire qualcuno,
qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una possessione che inizia il
processo di arresto della propria crescita. L'amore e l'odio, invece,
coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare e solo chi odia
veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che, per vivere bene,
non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e veri sentimenti.
"Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con
l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi stessi" l'amore e
le caratteristiche che gli vengono associate mettono in relazione l'uomo con la
parte folle del proprio essere da cui si era discostato nel tempo. " Ora
che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne sappia più di voi: il
ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me. L'unica differenza è che
lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede ancora a ciò che lo
tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di esperienza, cerchiamo di
affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre illusioni. Eppure con
tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M. Chebel "Il libro
delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera con questa breve
citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato dell'amore. Un
sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né completamente né in
modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che gratifica i bambini,
poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e ansietà pur conoscendola
come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore delizioso, ma bisogna
avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un abisso spaventoso"
(le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più importante tra tutti i
sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a tutti gli altri. Esso è
difficile da trovare e spesso viene confuso con altri molto simili ma mai
uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di mettersi in gioco,
di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in ogni caso non
vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che cercano
continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La fatica di
condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale, più
complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire grandi
sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente non è
in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene non
sempre è il vero bene. Nella Introduzione al suo celebre libro del 1983
Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si
esprimeva: È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se
stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone
come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la
grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora
sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica. Ma
pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo
terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe.
Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici,
scavando il fondo su cui si impianta il radicamento. Questa operazione
che rimuove la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è
data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine
storica. Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e
precisamente in quel momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta
all'ambivalenza delle sue espressioni corporee per essere riassunta in
quell'unità ideale, la psyche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente,
sarà il luogo del riconoscimento dell'unità del soggetto, della sua identità.
Ma questo luogo di identificazione contiene già il principio della
separazioneperché, come coscienza di sé, la psyche incomincia a pensare per sé,
e quindi a separarsi dalla propria corporeità. La prima operazione metafisica è
stata un'operazione psicologica. Nata con un significato semplicemente
classificatorio per designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo
(µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto
e coerentemente un significato topico che designa un al di là della natura,
quindi una scienza dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi
perché, contro il loro divenire e mutare, rappresenta l'immutabile e
l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa separazione e
contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee, incomincerà a
considerare il corpo come suo carcere e sua tomba. Una volta che la
verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile, tra anima e
corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori logici e
valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha creato e
la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice
metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei
metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori». A questo punto per
la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo
della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori
che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato
se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come
residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso
l'Occidente come suo lungo errore. Da questo errore la filosofia si è
emancipata con Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là
inventato per meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così
rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per
metafisica intendiamo il pensiero della separazione, il puro d?a ß???e??,
da cui nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate
dal discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e
follia. Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla
disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere
coerente a se stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non
per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda
l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui
questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato,
non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia
potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo
statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la
psicologia è nata, ha fondato se stessa come scienza, e ancora si
conserva. Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla
simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per
ribadire un'altra separazione, quella tra conscio e inconscio, dove
nell'inconscio si ritrova il rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero'
significato di ciò che si manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha
separato l'anima dal corpo inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra
significa mettere assieme, s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo
abolisce la psicologia come storicamente s'è pensata in Occidente, la
sradica dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e
idealistiche, e così la costringe a pensarsi contro se stessa. Questo
pensiero che è contro, perché pensa fino in fondo, fino alle radici, incontra
la corporeità che, nel suo sorgere immotivato e nel suo ambivalente apparire,
dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza così dischiusa non è
ambiguità, ma è quell'apertura di senso a partire dalla quale anche la ragione
può fissare l'opposizione dei suoi significati,e quindi quell'antitesi dei
valori in cui si articola la sua logica disgiuntiva quando divide il vero dal
falso, il bene dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla
materia, l'anima dal corpo. Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza
(?µf?) con cui la realtà corporea originariamente appare nel suo duplice
aspetto, come un Giano bifronte, per instaurare quella bivalenza (bis) dove il
positivo e il negativo si rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da
cui traggono origine tutte le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la
realtà non può mai di per sé essere negativa se non per effetto di una
valutazione. Ma se il negativo è da interpretare semplicemente come il
«valutato negativamente», allora la negatività attiene essenzialmente al
giudizio di valore. Proponendosi come questo, ma anche quello, il corpo, come
significato fluttuante, che si concede a tutti i giudizi di valore, ma anche si
sottrae, con la sua ambivalenza li fa tutti oscillare. Luogo e non-luogo del
discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne rivela tutte le
stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nella comunità primitiva,
il corpo, infatti, è diventato in Occidente «il negativo di ogni valore» che il
gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del
corpo di Platone alla «maledizione della carne» nella religione biblica, dalla
«lacerazione» cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della
scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a
«forza-lavoro» nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel
segno dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del
corpo sul registro dell'ambivalenza. Qui «sfida» non significa che il
corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a
una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che
qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché
quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da
un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità,
dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che
dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché
questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il
corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura
metafisica del sapere psicologico l'ha confinato. Questo recupero è
possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere
metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo,
questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco
conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può
sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e
fermarlo per sempre. Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è una
riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha
individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno,
una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso
ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché
in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di
ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla
costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere
psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della
rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la
sovrabbondanza dei segni produce. Se ciò non accade, se la psicologia non
si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca
in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non
giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà
costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua
fondazione epistemica, della sua nascita come scienza. Si tratta di un
errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale
quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come
asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come
ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale
dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per
porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per
dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno
perverso. Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura
polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come
forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere,
all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne
da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo
rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie,
che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro
senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario,
abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile
ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta
l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche
l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o
l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente
dissolvimento del loro valore accumulato. Per sfuggire a questa
alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di
prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione
preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il
terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole
riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno
del sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo
significato. Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi
rifiutare il sapere razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa
andare alle radici di questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di
più che un tentativo per far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che,
così riscoperta, è ciò che dà ragionedelle molteplici ragioni. Queste
ragioni che i saperi tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta
verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra
l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che
l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le
decisioni scientifiche. Si tratta di un senso che sta prima di ogni
significato, e che nessun significato promosso dalla decisione scientifica può
abolire, perché è prima di ogni inizio e continua oltre ogni conclusione.
Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza produttrice di quei
significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel
preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle
cui determinazioni sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il
gioco dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima
della decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo
delle loro iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la
sua presa, perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato
si è simbolicamente con-fusa. Questa è la sfida del corpo, una sfida che
è già iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee»
denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella
violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una
generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni
parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione
disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio
sapere. Ma quando la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni
polari in cui si articola ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare
per realtà vera, in quel gioco di specchi che si frantumano a contatto con la
polisemia della realtà corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non
per una contrapposizione dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché
là dove tutte le maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza
codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito
simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono
le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla
geo-grafia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella
che non accorda privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del
discorso, ma l'ambi-valena della cosa. Fra tutte le numerose
pubblicazioni di G., questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato
visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della
filosofia italiana contemporanea. È anche un'opera caratteristica, perché
in essa G., curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate,
si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di
scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in
fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo
rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità. Il punto
da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che
quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è
nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone,
percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo
l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della
psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità. Ma il corpo,
per G., è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a
precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non
si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli -
evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita
dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto
vaga del questo e quello), grazie alla quale la ragione ha la possibilità di
fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei
valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal
falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo. Tale antitesi dei valori
è, per G., la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il concetto da
Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della schizofrenia
del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica per mostrare
- con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole errore, in
quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il dualismo, si
capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal quale poter
meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più razionali,
perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di sulfureo
(d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del Diavolo,
«colui» che separa). Questo, dunque, è un punto centrale della argomentazione
di G.: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo; dunque, tutto il pensiero
dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e dalla metafisica, è un
pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze. La ricetta per uscire
da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare, la logica unitiva,
bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e anche quelle, allo
stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può essere interpretata,
volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la psicoanalisi è una scienza
metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché reintroduce, attraverso la
contrapposizione di conscio e inconscio, la lacerazione platonica e cristiana
tra anima e corpo, tra spirito e materia; e fornisce una immagine distorta
dell'uomo. È a partire da questo punto che il ragionamento di G. si fa
propriamente filosofico, oltrepassando il campo ristretto della
psicologia. Invece di accettare l'ambivalenza del corpo, la logica
disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e della
psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo si
rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida
contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché
interpretazioni? Perché, per G., non esistono il positivo e il negativo, bensì
la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e situazioni che
potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti punti di
vista. Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante, dove le
cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo) che esse
siano. Come in un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e PIRANDELLO
(si veda), noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci
confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un
modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca
d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da
Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un
giudizio di valore. Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di
pensiero irrazionalistica, G. sostiene che ogni ragione si serve di una logica
disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere. Così,
la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter
affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica
afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per
poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).
Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in
realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella
dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa
realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà
(immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non
essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa
considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei
valori». G. non affronta esplicitamente la questione, ma sembra intuire
la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che, quando il
pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza, che è tutt'altro)
delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini alla loro realtà.
O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»; glorifica
l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente; gli basta
impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a farsi
passare per la «realtà vera». Ma questa «realtà vera», in ultima analisi,
esiste o non esiste? G. non risponde, l'abbiamo già detto; si limita ad
osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano nel
pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere in
ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una
controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che
l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per
affermare il proprio sapere». Vi sono echi minacciosi in questa
affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove
precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po'
patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla
per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una
razza che si è estinta. Si tratta di una posizione quanto mai radicale,
poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale,
da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è
un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene
condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».
Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono
le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque
non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi
sono sempre strumentali, parziali, relativi. È incredibile: siamo in
piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa
ventitré secoli fa; ma G. ci presenta le sue conclusioni come se fossero
qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un continuatore
radicale dell'opera di Nietzsche. Queste ragioni che i saperi tendono a
soddisfare - afferma G. con la massima disinvoltura -non possono più proporsi
con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta
tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che
l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte
le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si tratta di un senso che sta prima
di ogni significato»; ma, di novo, non ci spiega in che modo egli arguisca
l'esistenza di questo «senso originario», dato che tutti i sensi che noi diamo
alle cose forzano la loro vera essenza. Arrivati a questo punto, possiamo
fare alcune osservazioni conclusive. Punto primo: che il pensiero
idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava sforzarsi di
dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro interamente
dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale errore. Punto
secondo: che non esista alcun criterio di verità, è posizione filosoficamente
rozza e semplicistica. Altro è affermare che la verità è difficilmente
accessibile, altro è affermare che ogni verità è una forma di violenza che i
saperi cercano di imporre per fondare se stessi. LA FILOSOFIA è frutto di
sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per le sfumature; ma qui,
sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a colpi di martello (e non
è un complimento). Punto terzo: che il corpo sia il luogo privilegiato in
cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente, aiutandoci a liberarci dalle
pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è - ancora una volta - posto ma non
discusso, e tanto meno dimostrato. Eppure è fin troppo facile osservare
che, se l'introduzione della psyche ha relegato il corpo al ruolo di negativo,
l'esaltazione del corpo che fa G. sembra ribaltare la prospettiva, senza
modificarla «alle radici» (come egli sostiene di voler fare). Ossia, a questo
punto è la psyche che rischia di diventare il negativo o, quanto meno, il luogo
dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente
inutile muovere una simile obiezione a G.: egli vi risponderebbe, come ha fatto
in più occasioni, che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa,
perché tutto è corpo. La sua intera filosofia non è che una
assolutizzazione della corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva
a sostenere, senza batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani,
avvenuta nel IV secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo G. e la
morale, Arianna. Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare
l'antitesi dei valori e restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?)
ambivalente, dove le cose sono finalmente se stesse e non quello che noi
giudichiamo che esse siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello
immediato e quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso
affrettati, imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia,
non discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i
valori e l’inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si
dice curare il mal di testa con le decapitazioni. Esistono altri livelli
di esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con G. -,
ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza
possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al
gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza. Se non credessimo
a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a
ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole,
dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma
anche filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti del
ragionamento di G.: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non
la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla
filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a
ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono
controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là,
secondo il nostro umore del momento? Si badi: quello che propone G. non è
un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale,
giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo,
gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io
dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io,
domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io
ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe
possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno. Il
relativismo è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare
filosofia. Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della
cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale,
l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need to distinguish between
‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo,
simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale – immaginario
sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore, platone, il
convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Galimberti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Galli: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru). Filosofo italiano. Celestino Galli. Interesting
philosopher. Not to be confused with Galli.
Grice e Galli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’amore – scuola di Montecarotto – filosofia anconese –
filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo italiano. Montecarotto,
Ancona, Marche. Compiute gli studi classici con assoluta regolarità, si iscrive
alla Facoltà di Filosofia a Roma, dove ha come maestri, tra gli altri, Varisco
e Barzellotti. Da Varisco apprende il rigore del metodo negli studi filosofici.
Da Barzelotti aprende la passione per le ricerche storiche e le vaste
esplorazioni letterarie. Si laurea sotto Barzellotti con il massimo dei voti
dopo aver discusso “Kant e SERBATI” (Lapi, Citta di Castello); Insegna a
Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii della scuola, con particolare riguardo
alla scuola elementare” (Il Risveglio Scolastico, Milano). Insegna a Cagliari e
Torino. Figura centrale della filosofia italiana, G. esordisce con una ricerca
sullo sviluppo della filosofia kantiana e quella di SERBATI; temi che non solo
non si stanca mai di ampliare ma affina in ulteriori indagini. Esegue vaste
indagini sulla storia della filosofia. Socrate, Platone, Aristotele, Cartesio,
BRUNO (si veda), Leibniz, e Renouvier.
«L'uno e i molti” (Chiantore, Torino) certifica la teoria. Gli procura
l'interesse di larga parte del mondo filosofico italiano per le conclusioni sui
rapporti tra il sentimento e la reflessivita. Ampie le discussioni, e talora
vivacissime, su autori contemporanei, dai quali esige rigore, chiarezza e
intransigenza speculativa. Organo di polemiche e di interventi nella vita della
cultura italiana contemporanea è «Il Saggiatore», da lui fondata, Privo di
ambizioni mondane, sempre affabile, ama la compagnia delle persone colte e la
conversazione delle anime semplici, destinate al bene e alla verità. Confida
soprattutto nella scuola, veicolo ideale per dare alle generazioni nuove
volontà, serietà, cultura adeguata ai tempi. Una scuola che studia, senza
divagare e che sappia attingere costantemente alle fonti del sapere, ama
ripetere. Grazie al suo ininterrotto lavoro di studioso, il mondo accademico
italiano ha beneficiato di un numero impressionante di sue pubblicazioni, fatto
di saggi, manuali per le scuole, opuscoli e articoli per riviste specializzate.
Si dedica all'arte e alla religione, completando, in questa maniera, il
panorama delle sue indagini. La Scuola media statale di Montecarotto ha
aggiunto all'intestazione il nome di "G.". Altre saggi: La filosofia teoretica dei
manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito” (I., Oderisi, Gubbio); “Lineamenti
di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La dimostrazione dell'esistenza del mondo
esterno e il valore pratico delle qualità sensibili secondo Cartesio, Oderisi,
Gubbio); Renouvier. II. La legge del numero, D. Alighieri, Milano, Le prove
dell'esistenza di Dio in Cartesio (Valdes, Cagliari);:La dottrina cartesiana
del metodo, D. Alighieri, Milano); “La filosofia di Leibniz: Facoltà di
Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi cartesiani, Chiantore, Torino); “Cartesio,
Chiantore, Torino, “Dall'essere alla coscienza, Chiantore, Torino); “L’idealismo”
(Gheroni, Torino); “PComenio, Gheroni, Torino); “La Filosofia greca: I sofisti,
Socrate, Platone. Torino. Facoltà di Magistero. heroni, Torino, Leibniz, Milani,
Padova); “Carlini ed altri studi; da Talete al "Menone" di Platone; il
problema di Cartesio, per la fondazione di un vero e concreto immanentismo,
Gheroni, Torino, Corso di storia della Filosofia: Aristotele, Gheroni, Torino, Da
Talete al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre studi di filosofia: pensiero
ed esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità, Gheroni, Torino Socrate
ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito, Lachete, Eutifrone, Liside, Jone,
Giappichelli, Torino, Linee fondamentali d'una filosofia dello spirito, Bottega
d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di scienza fisica da Talete a Galileo,
Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto, Giappichelli, Torino, La vita e il
pensiero di Giordano Bruno, Marzorati, Milano Sguardo sulla filosofia di
Aristotele, Pergamena, Milano, Platone, Pergamena, Milano; Di carattere
pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo, spiritualismo ed
esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia. Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Persée. Portail de revues en sciences
humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also did
philosophical studies – but his brother was more famous, the author of Tabula
philologica. Platone FEDRO
FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, e vado a fare una
passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal
mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio
delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza
più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia
era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da Epicrate, nella casa di
Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete
trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi?
FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come?
Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete
trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4)
FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate,
l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era,
non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene
tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in
modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama
piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere
un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte
quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i
suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di
ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo
Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te.
FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò
in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri
contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi!
Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco
Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra
cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una
volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e
quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è
bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti
bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è
stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il
discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è
avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la
malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di
avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad
accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si
è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche
a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro,
pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me,
veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace,
poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia
parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò
così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola:
ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali
lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non
ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però,
carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho
l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente che
io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione
di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila!
Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove
vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo
l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A
quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei
sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi
nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora.(8)
SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO:
Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una
brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE:
Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche
parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE:
Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci,
pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa
due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di
Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2 Platone Fedro
FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto
che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i
sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei
dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con
Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea
(oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da
là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma
proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato,
se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli
Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di
tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla
natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di
questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà
bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il
motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo
l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo
esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò
mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede
riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me
stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta
fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per
natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso,
amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto
frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed
essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il
platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può
sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un
luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e
molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro
delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in
dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi
perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo
eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero
strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e
non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi
sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io
sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla,
gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina
per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati
agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu,
tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai
in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento,
ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui
pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a
conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che
queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo
perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici
che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non
viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici
secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per
provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano
considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici
che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver
reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non
amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per
questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli
amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non
resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito
quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande
considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di
coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più
speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per
di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di
diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per
via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non
hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre
spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di
piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se
dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del
piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone
di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma
irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie
e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di
un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa
esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere
in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci
amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale
passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi
ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai
migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno
la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private
è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di
essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno,
verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca
gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi
è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo
chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua
giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno
partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne
vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non
coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo
stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16)
FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io
scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma
dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra
i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che
le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche
scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo,
divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse
dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto
ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche
altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per
indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai
detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da
chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai
promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto
a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti
prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza
naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente
d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è
possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare
neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo
all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere
coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire
quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la
dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano
concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da
lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non
necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche
l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo
opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio
che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto
altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come
statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi!
(19) SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho
attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di
diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo
proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi
parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a
fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non
volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco
Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava
dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui
prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due
soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò,
dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto
che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo
improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a
confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila
di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico,
ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la
dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su
quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non
pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e
non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante!
Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare
ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più
indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi
da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò?
FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per
svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo
per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al
resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per
l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei
Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo
bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima
gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un
fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati.
Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva
convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di
persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che
chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio
per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte
la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono
l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro cosa. Perciò, nella
convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e
proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con
se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo
agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare
in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune
accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo
presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta
un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a
tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da
che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere
presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci
guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio
dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta
questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono
in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando
l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria
ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione
verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La
dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti;
e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il
soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi.
Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e
sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga
chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce
in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche
per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a
seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene
chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso
precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta
detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il
sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto
verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso
congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome
dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro Fedro, non sembra anche a
te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti
ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE:
Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non
meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe:
le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici
cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché
forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo
provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al
fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni,
è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto,
ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da
uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed
è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a
sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre
tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà
di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo
inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile
rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie,
chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se
nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di
più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del
piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande
danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie
alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo
allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto
assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene
lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre
macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo
amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per
lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda
l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e
come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura
ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire
il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non
vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta
di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed
effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri,
intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non
meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi
passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre
occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi
amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è
evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o
quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è
chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più
d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più
divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli
causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se
possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da
conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente
che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze,
e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza
moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di
cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6 Platone Fedro
sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior
parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o
molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono
essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso.
FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole
per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando
quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei
accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio
mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che
farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi
hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti
sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti,
che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi
si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io,
attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te
a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata
la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota?
Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più
fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e
semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante
la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di
persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio
eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E
ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora
non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando
stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino
che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per
fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di
andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa
verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo,
ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò
comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un
che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il
discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo»
nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi
sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7 Platone Fedro
SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come
quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e
sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di
questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che
Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si
dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato
pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è,
un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi
pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque
hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è
proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle
arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno
fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi;
per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito
purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato
della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da
amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo
discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti
alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato
Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di
loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato
Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non
velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più
dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale
impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal
libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno
come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli
amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi
nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare
persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero,
e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros?
FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi
confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine
che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a
Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni,
conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che
sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che
Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso
argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti
coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in
modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi
favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è
accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel
ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di
Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di
Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è
veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve
piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a
"mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania
fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci
vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa
di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania,
procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre
quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla
(30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un
dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone
verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente
di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che
coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole;
altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la
quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola
una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre
gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno
chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli
uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo,
dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla
"oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono
"oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la
"o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò, quanto più l'arte
mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una
rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la
testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza
che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui
doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene
più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di
antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi,
attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il
tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per
chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto
vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece
dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra
più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa
deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se
stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la
terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da
cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si
muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati
da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi
guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli
d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la
guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi
bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e
immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto
il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in
alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù
finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e
assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da
sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il
soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato
con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera
adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di
un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si
dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita
delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca
questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è
pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa
del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli
che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria
schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i
percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente
felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi
sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando
poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità
della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da
guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo
che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso
l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la
prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte
alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui
rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta
fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in
modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti
avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità):
l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può
essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale
verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la
mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella
di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo
un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché
la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel
giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la
scienza, 9 Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e
neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da
quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che
è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri
che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del
cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i
cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere
del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una,
seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il
capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua
rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora
solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a
forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che
aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono
sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e
cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una
lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli
aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne;
tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la
contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo
dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è
sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore
dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala
con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea. L'anima che,
divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno
fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per
sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto,
e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a
causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non
si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima
che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo
destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o
incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re
rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che
viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le
ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi
ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita
di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la
vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione,
alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di
un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra
tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte
migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti
ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché
non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che
ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo
filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre
volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere
dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al
termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate
le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le
altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in
modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le
une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono
quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita
animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima
che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti
deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una
molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la
reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere
assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il
capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo
mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è
sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo
che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a
misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si
distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso
dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo
dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania,
quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera
bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace
guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così
subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine
questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva
dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è
chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha
contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente.
Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla
portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per
breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al
punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà
che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in
misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù,
restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano,
perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della
temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è
splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle
immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del
modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo
splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro
dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a
quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in
perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano
attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica
visioni perfette, semplici, immutabili e 10 Platone Fedro beate in
una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo
corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica.
Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio
delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza,
come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati
qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in
quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta
delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di
vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla
nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà
degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò
che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o
è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza
in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza
quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a
montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza
non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è
iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un
volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma
ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle
paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno,
è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta.
In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la
stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare;
ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare
ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui
che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso
d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa
di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di
questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene
in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di
tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina
perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di
cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con
lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio;
infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza
l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge
il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi
invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti
metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi
da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non
del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros
alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può
credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è
proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus,
riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle
ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui,
quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono
sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno
conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e
imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima
esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati
e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo
il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e
l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro
amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per
natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono
innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si
erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e
imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le
tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono
stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando
entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne
assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo
partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa
all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le
Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il
più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era
cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose.
Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo
il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una
volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione
e 11 Platone Fedro l'ammaestramento portano l'amato ad assumere
l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza
comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma
cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con
il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente
amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle
e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in
stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo.
Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna
anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga,
questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli
diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il
vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque,
quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e
ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli
occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama
veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e
la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio
e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di
sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede
a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la
visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed
è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce
docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si
trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli
dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza,
e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li
costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri
d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti
ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al
male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare
quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione
folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla
natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo
assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che
le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le
redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno,
spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro
voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta
l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla
caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare,
coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e
debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di
nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di
rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi
fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e
trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i
medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la
coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora
più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al
cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del
cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a
terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo
malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza,
umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo,
muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante
segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere
pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non
simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico
di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone
che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a
chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del
tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia;
infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un
buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere
accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza
dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che
tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a
confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò
nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri
luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di
Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante
dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un
soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là
dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso
gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la
incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle
crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama,
ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di
dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in
grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso
nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa
esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed
è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è
sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno
come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo,
giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando
dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire
all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante
fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio
e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua
grande benevolenza. Così, nel momento in cui si congiungono, non è più tale da
rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare;
ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12 Platone Fedro si
oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti
migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla
filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché
sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male
dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e
leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la
temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più
grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di
filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro
momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le
anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la
scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta
che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente,
poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono
in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne
sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più
grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe
all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col
desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro
mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il
cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino
sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il
viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme
per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti
darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama,
mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere,
dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù,
la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila
anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa
palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a
causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole
poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per
queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera
l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei
fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo
detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del
discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla
filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo
amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros
in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera,
Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il
tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che
Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso.
Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo
proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò
forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo,
la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi
che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava
dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva,
Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il
massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a
lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere
chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso
il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli
uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare
propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a
tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li
devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non
capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico
per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il
consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o
entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita
se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare,
mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto
assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso
scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge,
l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo
scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni.
FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa
attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o
un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario
(45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse
egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la
stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi
allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia,
lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO:
Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il
proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé
lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe
questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi
tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati
servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in
questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in
questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte;
se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene
senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che
per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono
che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero
a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un
tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse;
quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così
colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza
accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale,
che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin
dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino
alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di
quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che
l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha
onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha
ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei,
riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro
musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani,
emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a
mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare.
SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come
è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro.
SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono
forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui
intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo:
per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è
realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non
ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere
il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da
buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare
se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar
cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo
dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a
difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un
cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un
cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe
ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per
convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo
cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata
sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il
combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre
cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio
essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare.
SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a
persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non
l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male
come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la
persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in
seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono.
14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato
l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai
andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca
il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere
me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi
voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non
saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se
parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi che si presentano le rendono
testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che
vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di
arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo
Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi
discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo.
SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50)
che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di
parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica,
in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo
nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle
private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è
affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in
quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per
Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si parla e si scrive
con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più
ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo
delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei
periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche
di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di
Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere
costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno
affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo.
SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi
opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone
ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in
un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora,
al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede
di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le
stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma
certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e
nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe
questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di
rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è
possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo
nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in
questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle
cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In
quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di
essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a
grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un
altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la
somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma
se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza
dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO:
Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla
realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua
attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile
allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere
attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo
contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia
ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui
che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte
dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì .
15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia
che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo
prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi
parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per
un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che
recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa
condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa
agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra
la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo
partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega
ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO:
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...»
SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte,
non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno
questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre?
FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più
chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o
"argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo!
SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"?
Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto
gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE:
Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In
quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior
potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE:
Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto
con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le
forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella
in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso
un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna
cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale
delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no?
SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse
oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti
sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che
è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei
beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a
causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso
ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero
insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che
dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio
di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo
discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà
unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine
tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti
sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che
ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro
passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che
cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando
supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato
quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia
testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone
il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano
state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che
per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un
altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo
scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu
sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale
lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei
troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo
così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni
discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo
proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di
mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al
tutto. FEDRO: Come no? 16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il
discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che
non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla
tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di
particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di
Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba
di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci
senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene
recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso,
Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi
sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione,
cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In
essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è
conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano
opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO:
E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con
mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è
una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di
mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento
divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro
parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito
l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa
è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa,
forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada,
abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo
levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in
onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E
almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE:
Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal
biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il
resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a
caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a
coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel
ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in
uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui
si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa
su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o
male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato
chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici,
SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le
idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna
parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa
concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da
un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti
si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi
indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E
lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da
tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande
ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al
contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le
prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo
da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i
discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO:
Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che
anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come
parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la
ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei
nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59)
FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo
tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle
cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la
povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo
d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi
nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e
potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci
sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni
danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare
per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli
argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da
aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena
di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto
in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e
quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del
popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro
trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri.
SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo
padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da
riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli
vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento
che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare
medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che
direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche
a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura?
SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi
ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che
chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri
ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i
loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre
ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme,
come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia
proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini
insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia
detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è
veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un
perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario,
che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai
un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di
una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò,
non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e
Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo,
che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica.
FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di
discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa
capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da
qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche
questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di
discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione,
argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò
quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò?
SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica.
FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella
del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in
modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore
somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione
che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle
leggi. FEDRO: è verosimile che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che
sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza
conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a
Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile
neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia
bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si
accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura
Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla
natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui
vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia
semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha
per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel
subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e
vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che
cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a
subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il
metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi
invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o
a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti
con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà
i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no?
SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di
produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco
e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto
descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è
una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che
questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In
secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su
cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no?
SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le
loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
19 Platone Fedro FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto
pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo
non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento.
Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia
quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di
conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che
le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche
le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini
di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo
su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai
niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando
sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali
discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se
stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a
suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così, per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello
o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la
verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo
coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e
servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione,
mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la
propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito
materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette
con arte sono più o meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO: Come no?
SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di
un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia
di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? 20
Platone Fedro SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che
tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei
più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la
verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da
dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò
che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro
che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le
forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte
dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire
queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare
i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose
che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto
è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha
intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se
non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni.
Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere
grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice
il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei
traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo
bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi
intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di
soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e
della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come
no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza
della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no?
FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai
acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole?
FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata
dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe
ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda
ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque
raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del
luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità
era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e
l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la
scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città
della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il
suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che
dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse
l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo
ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza,
o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa
è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re
rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi
intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il
contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di
esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la
dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori
mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della
sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando
per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte
cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché
sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu
pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E
pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel
tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato
che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità,
ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te
fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente
a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e
mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe.
SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua
volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di
chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il
vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del
riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per
la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di
fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in
venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti
anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se
domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo
qualcosa suona sempre e 21 Platone Fedro solo identico. E, una
volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra
le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da
spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso
e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non
è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche
queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un
altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per
sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e
come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la
conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e
sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente
e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire
un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha
senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli
stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli
crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa,
quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul
serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto,
sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi?
FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli
altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle
cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue
sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente
nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di
difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la
verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a
quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li
scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso
giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa
orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri
giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi,
egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in
ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate,
rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi,
narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così
è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più
bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi
pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di
venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma
abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri
discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede
sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più
bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare
quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e
per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero
rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero
scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non
lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è
parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno
non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è
in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non
sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più
divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura
dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il
discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima
variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non
sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe
dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in
precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così
. SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e
scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no,
non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo
detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti
d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica,
nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il
biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere
realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero
evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse.
FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su
qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso
con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e
neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22
Platone Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per
aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei
discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo
scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza,
compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano
essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca
in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli
di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il
loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro,
è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io
voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per
quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da
Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e
abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi
altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o
lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia
scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste
opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene
messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la
debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere
chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è
dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo
sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un
dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più
adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece
non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto,
rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o
separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore
di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno!
FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno.
SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui,
Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro:
tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi
sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e
che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe
affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi
cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono
dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino
lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro
amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose
da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo
Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più
mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di
metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di
questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di
fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il
sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante,
possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da
parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per
me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23 Platone
Fedro NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto
secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che
gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo,
originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è
ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore
democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un
cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente
bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto
poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita
"salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel
Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano
caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre
vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9)
Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio
concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata
poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo
dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove
aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di
carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati
dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera
era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di
serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime
due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo
sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato
dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto
Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto
scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del
Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine
di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è
ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome
comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un
gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene
paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare',
'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a
"tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa
uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella
traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei
fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre
ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una
locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la
famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C.,
autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in
nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e
parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del
sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui
restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa
si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica,
giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a
Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di
Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui
si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro
intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21)
Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco
gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e
"ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico
è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del
canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e
"róme" ('forza'). Il ditirambo, componimento lirico corale associato
al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine
ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata
da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25) L'immagine è
ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco
dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a
seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o
inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge
l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli
interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale
del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro,
poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la
vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò
per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride
non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze;
questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non
avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà
una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio
dalle accuse che gli aveva mosso. 24 Platone Fedro 29) A Delfi, in
Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca
della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di
Zeus. Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di
Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla
di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike",
viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il
composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a
"oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal
volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere
ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento
della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga
alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga
rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due
cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il
cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima
impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione
dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel
Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre
qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale,
come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e
bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a
quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti
opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di
conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella
cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era
immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le
divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34)
L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo
metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità
trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35)
Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione
del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene
qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi,
argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo
della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente
determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della
verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di
verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato
su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per
assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'),
"mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice
di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi
nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero.
Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i
due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e
Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'),
probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404;
libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le
cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella
traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo
"dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o
Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede,
bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece
il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota
36. 41) L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia,
né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno
del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima
analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica,
più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere
nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e
fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni.
43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che
obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio,
avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'),
che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni
di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il
termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto
equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai
compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un
po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata
una difficile. Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la
tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i
sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma
dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base
al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della
prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione
platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre
discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene
ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le
cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla
scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno
nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con
Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25 Platone
Fedro 48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e
lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli
altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era
famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore
era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto
vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica;
a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano
pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto
nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in
modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro
di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un
trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo
a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i
concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e
di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per
avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro
tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere
diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma
citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e sofista
contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme
a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più
importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate.
58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi
di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di
Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si
allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a
proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo
dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale
esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo
religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo,
sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane
delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei
sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile
oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8
Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio
contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto
secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al
massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità
oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni
ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale
del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al
mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos,
vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina
antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui
e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel
cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un
emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio
dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la
testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna
alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la
considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la
trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66)
«La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re
dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle
principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e
identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a
Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano
recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e
subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il
bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di
scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di
gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione
orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338
a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di
lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città
greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione
contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste
del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia
e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come
protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la
preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza
della sapienza. Platone Il Convito APOLLODORO Credo proprio di essere bene
informato di quello che mi chiedete. Infatti, l'altro giorno, me ne stavo
venendo in città, da casa mia, dal Falero, quando uno che conoscevo, vedendomi
di spalle, mi chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi fa: «Apollodoro il
falerese, m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e quello: «Ti stavo
cercando ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere qualcosa di preciso sui
discorsi che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti gli altri, al
banchetto, discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un tizio che ne
aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse che ne eri
al corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto. Raccontami tutto tu,
quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i discorsi del tuo amico.
Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella riunione?» «Si vede proprio che
questo tizio ti ha male informato se credi che quella riunione di cui stai
parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi, vi abbia potuto
partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo, Glaucone? Non sai
che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e che, d'altra
parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con Socrate, che
gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che fa? Prima
d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa, mentre ero
l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te, adesso,
che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è poco da
prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa riunione.»
«Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la sua prima
tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli del coro
vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del tempo! Ma a
te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la stessa
persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo,
uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché era un patito
di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto mi riferì
costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro m'aveva
raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa strada
che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada facendo,
così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto in
principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a
voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne parli
io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere dal
vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i
vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba,
ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate
il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero
diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo
soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre
che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate,
tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a cominciare da
te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non riesco a
capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e te
stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque,
bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato?
AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e,
come t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E
va bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che
incominci dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo. Egli mi riferì di
aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali ai piedi
(cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così bello. E
Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la sua vittoria,
riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio, ma gli
promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello: lui è
un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non sei
stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E
allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal
buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo
l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti,
mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao,
invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza
essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un
sacrificio e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un
valoroso.» E Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio,
non come dici tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da
nulla, senza essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci
porti, come devi metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto
da me, ma che sei stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la
strada a quello che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava
Aristodemo, quando si posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece
pensieroso, meditando chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui
si fermava per aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo
giunse alla casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò
un fatto curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i
convitati erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena
Agatone lo vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per
mangiare un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto,
lascialo per dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono
riuscito a trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,»
continuò a raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero
con lui e che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto
benissimo, ma dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei
proprio curioso di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo,
non ti sbrighi?» fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo,
siediti là, vicino a Eressimaco. Continuò a raccontare così, che mentre un
servo gli dava da lavarsi per mettersi a tavola, un altro venne a dire che quel
bel tipo di Socrate se ne era andato nell'atrio della casa vicina e se ne stava
lì tutto immobile: «L'ho chiamato,» riferì, «ma lui non vuol venire.» «Ma che
sciocchezze stai dicendo?» gridò Agatone. «Torna a chiamarlo, insisti.»
«Allora, intervenni io,» mi raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo di
lasciarlo tranquillo perché era una sua abitudine quella di isolarsi tutt'a un
tratto, e di restarsene immobile dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che verrà,
ne sono certo, ma ora non lo disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah, va bene,
va bene, se lo dici tu,» commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora portateci da
mangiare. Voi mi mettete in tavola sempre quello che vi passa pel capo, se non
vi si sta addosso, ed io non me ne son mai presa troppo la briga; ma oggi, fate
conto come se foste stati voi ad invitare queste persone e me e quindi,
trattateci bene e fatevi onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a
mangiare e che Socrate, intanto, non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva.
perché lo mandassero a chiamare, ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate
fece la sua comparsa e non s'era mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di
solito faceva: cioè quando il pranzo era circa a metà. E Agatone che stava
seduto in fondo: «Qua, qua,» esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me,
così, gomito a gomito, con un sapiente, io potrò godere della grande scoperta
che hai fatto davanti ai portoni; è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre
scoprire, altrimenti mica ti saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe
una bella cosa, Agatone, se la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a
chi ne ha di meno, soltanto che ci si mettesse uno vicino all'altro, come
l'acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se
anche per la sapienza è così io sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco;
sono convinto che sarò colmato da parte tua di tanta e bella sapienza, perché,
vedi, la mia, seppure ne ho, è ben misera, assai discutibile, vaga come un
sogno, mentre la tua, invece, così luminosa, così ricca di possibilità, tanto
che, proprio ieri, nonostante la tua giovane età, s'è rivelata e ha brillato in
tutto il suo fulgore davanti a più di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu,
Socrate,» fece Agatone, «ma fra poco ce la vedremo, io e te, in fatto di
sapienza e giudice sarà Dioniso. Intanto, per ora, pensa a mangiare. E così,
continuò a raccontarmi Aristodemo, Socrate si sedette e quando ebbe finito di
mangiare, insieme agli altri, fece le libagioni, poi cantarono tutti in onore
del dio, compirono gli altri riti dovuti e poi si misero a bere. A un tratto,
mi riferì Aristodemo, Pausania se ne uscì in queste parole: «Ehi, amici, non
possiamo andarci più piano? Francamente devo dirvi che mi sento male dopo la
gran bevuta di ieri e che devo pigliare un po' di respiro; e così, penso anche
per molti di voi: ieri c'eravate un po' tutti. Guardate, dunque, com'è che ci
possiam moderare un po'.» E Aristofane: «Pausania ha ragione. Non scherziamoci
troppo col vino; io mi sento ancora come una spugna zuppa, per ieri.» E allora
intervenne Eressimaco, il figlio di Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio
sentirne qualche altro; e a te, Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io
niente bene.» «Benissimo,» s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per
me, per Aristodemo, per Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto
di bere ce la mettete tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi,
infatti, siamo dei pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava
benissimo sempre; sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato
che, mi pare, qui, oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi
parlassi dell'ubriachezza e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita;
come medico, è chiaro, devo dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei
mai bere più di un tanto e darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando
il giorno prima s'è alzato un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro,
quello di Mirrinunte; «sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da
medico; e farebbero bene ad ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di
giudizio.» E così si trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per
quella volta e bere ciascuno per quel che gli andava. E poiché, ora,»
riprese Eressimaco, «siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello che
vuole senza che nessuno stia lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a spasso
la suonatrice di flauto, che è entrata ora (che se ne vada a suonare per conto
suo o, dentro, dalle donne) e noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a
chiacchierare insieme; potrei anche dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora,
almeno così riferì Aristodemo, approvarono e lo esortarono a proporre l'argomento.
E così, Eressimaco, incominciò: «Inizio come la Melanippe di Euripide, non sono
mie le parole che sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È Fedro che ogni volta,
tutto sdegnato, mi dice: ‹Non è una indecenza, Eressimaco, che i poeti si
mettano a comporre inni e canti a tutti gli dei e che per Amore, invece, per un
dio di quella specie, per un dio così grande, non ce ne sia uno, tra tanti, che
abbia scritto un solo verso di lode? Se pigliamo i sofisti di fama, quello
stesso grand'uomo di Prodico, per esempio, ti scrivono in prosa di Ercole o di
altri; e questo sarebbe niente se non mi fosse capitato tra le mani il libro di
un gran cervellone nel quale, costui, non faceva niente po' po' di meno che
l'elogio sperticato del sale e della sua utilità: di questi elogi ne puoi
trovare dovunque, in abbondanza. E pensare che si spreca tanta fatica per
simili argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora trovato nessuno, almeno fino
ad oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente: ecco come si tratta un dio
simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione. Quindi, è mio desiderio fargli
questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello stesso tempo, profittando
dell'occasione, niente di meglio, a mio avviso, per tutti noi, di rendere onore
a questo dio. Se siete d'accordo anche voi potremmo passare il tempo così:
ognuno di noi, cioè, io penso, per esempio partendo da destra, dovrebbe fare un
discorso in lode di Amore, si capisce meglio che può; e che cominci proprio
Fedro che è il primo della fila e che, d'altro canto, è stato lui proprio a
darci l'idea per un simile argomento.» «Nessuno sarà contrario, Eressimaco,»
intervenne Socrate, «a cominciare da me che affermo di essere un esperto
soltanto in cose d'amore, né Agatone, né Pausania, figuriamoci poi Aristofane
che tra Bacco e Venere, ci passa la vita, e nemmeno questi altri a quanto vedo.
C'è un fatto però, che noi che siamo seduti quaggiù, per ultimi, veniamo a
trovarci in svantaggio; comunque, se i primi diranno quel che devono dire e lo
diranno bene, a noi basterà. E, allora, buona fortuna, Fedro, comincia a fare
le lodi di Amore.» Al che tutti quanti approvarono e fecero eco alle parole di
Socrate. Ora, quello che ciascuno disse, Aristodemo non lo ricordava bene e,
dal canto mio, io stesso, ora, non ricordo più, tutto quello che lui mi riferì,
tranne le cose più importanti e, perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi
che mi parvero più degni di ricordo. E, così, il primo a parlare, mi
raccontò, fu Fedro che incominciò presso a poco col dire che Amore è un dio
possente, meraviglioso, tanto fra gli uomini che fra gli dei per molte e tante
ragioni ma, soprattutto, per quel che riguarda la sua nascita: «Egli ha il
vanto,» continuò Fedro, «di essere, fra tutti, il dio più antico e, prova di
questo è il fatto che non ha genitori e mai nessuno ne ha parlato, prosatore o
poeta che fosse. Esiodo ci dice che ci fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio
petto, sicura sede e poi per tutti sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo
poeta, dopo il Caos ci furono queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide
così narra la genesi: Primo di tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda
Acusilao. Quindi, da più fonti, si conviene che Amore è antichissimo. E, così
com'è il più antico, è fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so
se vi sia un bene maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da
amare o anche viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare
all'uomo quei principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la
nascita, non gli onori, non la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi
voglio alludere?, mi chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio
di buone, senza dei quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa
di grande e di bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a
commettere una brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di
difendersi, non proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o
chiunque altro, quanto se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per
quest'ultima, che se fa qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da
chi la ama. Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di
innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini
rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi,
messi uno al fianco dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero
il mondo intero. Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il
suo reparto, a gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla
persona amata, piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde,
abbandonare la persona cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non
c'è nessun uomo tanto vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario
coraggio, come se fosse posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è
coraggioso di natura. Insomma, lo stesso soffio divino che, a quanto dice
Omero, un dio infonde in taluni eroi, Amore, come un suo dono, suscita in
quelli che amano.E poi, solo quelli che amano sono pronti a morire per gli
altri e non solo gli uomini ma anche le donne. Vedi Alcesti, per esempio, la
figlia di Pelia che per noi greci è la più bella prova di ciò che dico, la
quale fu la sola a voler morire al posto del suo sposo che aveva pure un padre
e una madre; costei fu tanto più sublime, nel suo cuore di donna, acceso,
appunto dall'amore, da far apparire i parenti di lui quasi degli estranei al
loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal nome. E questo gesto fu giudicato
così bello non solo dagli uomini ma anche dagli dei, che questi, pur concedendo
solo a pochi, tra i tanti che compiono belle imprese, il privilegio di vedersi
restituita alla luce la loro anima, consentirono a questa fanciulla il ritorno
alla terra, commossi del suo gesto; questo dimostra che gli dei apprezzano
moltissimo lo zelo e la virtù che nascono dall'amore. Orfeo, invece, il figlio
di Eagro, te lo rimandarono fuori dall'inferno senza che avesse ottenuto nulla,
mostrandogli solo la falsa immagine della sua donna, per la quale egli era
sceso nell'Ade e non gliela restituirono, considerandolo un debole (suonatore
di cetra com'era) perché non aveva avuto il coraggio di morire per amore, come
Alcesti, ma, vivo, era riuscito a penetrare nell'Ade e con l'astuzia. Ecco
perché gli inflissero questa punizione e lo fecero morire per mano di donne.
Non così Achille che onorarono invece e mandarono alle isole dei beati perché
per quanto egli fosse già stato avvertito dalla madre che se avesse ucciso
Ettore sarebbe morto mentre se l'avesse risparmiato sarebbe ritornato in patria
e lì avrebbe finito vecchio i suoi giorni, preferì scendere in campo per
Patroclo, per l'amico che amava e vendicarlo e morire per lui, non solo, ma per
lui morto; per questo gli dei profondamente ammirati gli resero onori
grandissimi, come quello che aveva tenuto così alto nel suo cuore l'amico
amato. Eschilo dice un'inesattezza quando afferma che era Achille l'amante di
Patroclo, lui che non solo era più bello di Patroclo ma di tutti gli altri
eroi, imberbe ancora e quindi molto più giovane di lui come dice Omero. La
verità, però, è che gli dei pur onorando assai questo sentimento d'amore,
volgono più la loro ammirazione, le loro lodi a colui che ricambia l'amore di
chi lo ama, piuttosto che a quest'ultimo. Colui che ama è cosa più divina di
chi si lascia amare, perché un dio lo possiede; per questo gli dei onorarono
maggiormente Achille che non Alcesti e gli dischiusero le isole dei beati. Per
concludere io affermo che Amore è il più antico degli dei, il più degno di
onori, quello che più può infondere agli uomini virtù e felicità, sia mentre
vivono che dopo la loro morte.» Questo, presso a poco, a quanto mi riferì
Aristodemo, fu il discorso di Fedro. Dopo di lui parlarono altri, però non ricordava
molto. E così passò a riferirmi il discorso di Pausania che prese a dire: «Non
mi pare che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, così come hai troppo
semplicisticamente fatto le lodi di Amore. Se, infatti, Amore fosse uno solo,
la cosa sarebbe potuta anche passare; ma il fatto è che non è uno soltanto e
quindi è più giusto precisare prima qual è che bisogna lodare. Ed è a questo
errore che io cercherò di rimediare, in primo luogo dicendo quale Amore
convenga lodare e poi facendone in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono che
non si può concepire Venere senza Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola, lo
stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma poiché due sono le Veneri, due saranno anche
gli Amori. Non sono forse due le dee? Una, la più antica, che non ebbe madre,
la figlia del Cielo, che appunto chiamiamo Celeste, l'altra, più giovane,
figlia di Giove e di Dione, che chiamiamo Pandemia. Ne consegue che l'Amore che
convive con quest'ultima, giustamente vien chiamato Pandemio, l'altro, Celeste.
Gli dei, in verità, bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi due, occorre pur
dire quali sono gli attributi. Intanto, ogni azione ha questo di
caratteristico: che per se stessa non è mai bella o brutta. Per esempio: quello
che noi ora stiamo facendo, cioè bere, cantare, discutere, in se stesso, non è
che sia bello, ma lo diventa dal modo con cui questa azione viene compiuta:
onestamente e rettamente, è bella, altrimenti, la stessa azione è cattiva. Lo
stesso è quando si ama: non ogni Amore è bello o degno di lode, ma solo quello
che spinge a nobilmente amare.«Orbene, l'Amore che convive con la Venere
Pandemia, è ovvio che sarà anch'egli Pandemio, cioè volgare e si comporta un
po' alla carlona; questo tipo d'Amore vien prediletto dai mediocri che non fan
differenza a giacersi con donne o giovincelli di cui amano, oltretutto, più il
corpo che l'animo, anzi preferiscono gli esseri sciocchi, tutti presi come sono
dall'atto carnale, senza un briciolo di buon gusto, e accade così che finiscono
per comportarsi come capita, bene o male che sia. Questo perché un simile Amore
deriva dalla Venere più giovane che, nascendo, s'ebbe i caratteri della femmina
e, insieme, quelli del maschio. L'altro Amore, invece, deriva dalla Venere
Celeste che anzitutto non partecipa della natura femminile ma solo di quella
maschile (e questo è l'amore per i giovinetti) e, in secondo luogo è più antica
e immune da ogni forma di libidine. Così, quelli che sono infiammati da questo
Amore, volgono le loro predilezioni al sesso maschile presi come sono da ciò
che, per natura, è più vigoroso e dotato di più aperto intelletto. E in questa
passione per i giovani è facile riconoscere quelli che sono nobilmente
infiammati da questo Amore; costoro, infatti, non si legano ai giovani se non
quando questi hanno già una loro maturità intellettuale e vedono spuntare la
prima barba. Io penso, infatti, che chi per amarli attende che essi giungano a
questa età, lo fa per poter convivere poi tutta la vita con loro in una dolce
intimità e non per ingannarli, per approfittare della loro ingenuità e
sbeffarli, piantandoli poi in asso per correre dietro a un altro. Anzi ci
vorrebbe proprio una legge che vietasse di aver relazioni amorose con i
minorenni, per evitare che si sciupi tempo e fatica per un esito incerto; con i
ragazzi, infatti, non si sa mai come vada a finire, se faranno una buona
riuscita o meno, sia per quel che riguarda le doti fisiche che per quelle
morali. I galantuomini se la pongono da sé questa legge, ma per i dongiovanni
da quattro soldi, sarebbe proprio necessario far qualcosa in proposito, così
come abbiamo impedito, meglio che s'è potuto, che avessero rapporti intimi con
donne di condizione libera. Sono questi che han fatto degenerare la cosa a tal
punto che ora c'è gente che afferma che è brutto corrispondere chi ci ama; e lo
dice proprio perché ha davanti agli occhi l'esempio di questi tipi, privi
affatto di buon gusto e di un minimo di pudore, giacché nessuna cosa, se è
fatta nei dovuti limiti e secondo onestà, può giustamente tirarsi dietro un
qualche biasimo. Negli altri Stati, intanto, le leggi sull'amore non sonio di
difficile interpretazione, regolate da principi assai semplici, così come
concettosi e ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide, per esempio o a Sparta o
anche in Beozia, dove la gente non è abituata a far bei discorsi, viene, molto
semplicemente, riconosciuto che è bello corrispondere chi ama e nessuno,
giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di dire che è cosa brutta; questo, a
mio avviso, perché non vogliono pigliarsi troppo la briga di persuadere i
giovani, inesperti come sono nell'arte del dire. Nella Ionia, invece, e in
molte altre parti dove predominano popolazioni non greche, la cosa è ritenuta
vergognosa; presso i popoli stranieri, del resto, proprio per i loro regimi tirannici,
anche l'amore che uno può portare alla sapienza o alla ginnastica, è cosa
disonesta. Infatti, io penso che ai governanti non convenga che sorgano tra i
sudditi nobili e forti proponimenti o salde amicizie o identità di vedute,
tutte cose, queste, che è proprio l'amore, di solito, a far nascere. E
questo l'hanno imparato anche qui da noi i nostri tiranni, come l'amore di
Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio, abbiano distrutto il loro
potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa disonesta corrispondere chi
ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori, dall'arroganza dei
governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la cosa è ritenuta
senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di chi ha fatto la
legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che altrove ma, come
dicevo prima, non è facile, però, interpretarla. «Si pensi, infatti, che
da noi si reputa più bello amare alla luce del sole che di nascosto, amare,
poi, soprattutto, chi è virtuoso e nobile anche se è più brutto degli altri e
che si dà un incoraggiamento straordinario a chi ama, non ritenendo affatto che
la sua sia un'azione vergognosa, anzi è motivo di orgoglio riuscire nel proprio
intento ed è quasi un disonore, invece, fallire nella conquista e che la legge
accorda all'amante, per le sue imprese amorose, la libertà di fare cose
addirittura straordinarie e di riceverne lode, cosa che se uno facesse con
altre intenzioni e per altri fini, si tirerebbe addosso il biasimo di tutti. Se
uno, infatti, volendo farsi dare del denaro da qualcuno o desiderando ottenere
un pubblico impiego o qualche carica, si mettesse a fare quel che gli amanti
fanno per i loro fanciulli, suppliche, scongiuri, per ottenere quello che
bramano, i giuramenti che fanno, tutte le notti che passano fuori davanti
all'uscio del loro amore, tutti i servizi a cui si piegano, quelli più infimi,
cui nessuno schiavo s'adatterebbe, costui si vedrebbe ostacolato in questo suo
modo di fare, non solo dagli amici ma anche dai suoi avversari che gli
rimprovererebbero queste smancerie e questo servilismo, richiamandolo al dovere
e vergognandosi per lui; se tutto questo uno, invece, lo fa per amore, acquista
addirittura pregio e la nostra legge glielo consente, senza che su di lui
ricada biasimo alcuno, come se, in effetti, compisse una cosa bellissima. Ma
quello che è ancora più straordinario è che, a quanto dicono i più, solo a chi
ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il giuramento, di ottenere il
perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore non c'è giuramento che
valga. È per questo che sia gli dei che gli uomini hanno concesso, a chi ama,
un'assoluta libertà, come ci provano le nostre leggi. Tutto questo
autorizzerebbe a credere che in questa nostra patria, amare e corrispondere chi
ama è ritenuta cosa bellissima. Eppure quando i genitori ti mettono alle
calcagna dei loro figlioli un pedagogo, col preciso incarico di tenerli lontani
dai loro corteggiatori, quando i compagni e i coetanei fanno quasi succedere
uno scandalo se si accorgono di qualcosa del genere, mentre i più anziani
lasciano che dicano e non intervengono a queste esagerate reazioni, a guardar
bene tutto questo sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia considerato
cosa del tutto disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta invece
così: non c'è nulla di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o brutto
per se stesso, ma diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o male.
Così, l'amore diventa cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si
concede a un essere spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa
onestamente con persona onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui
che ama più il corpo che l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso
com'è da cosa che non dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo,
di quel fiore che amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e
belle parole. Chi, invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli
resta fedele per tutta la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le
nostre leggi si prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli
uni, ogni favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli
amanti a insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando
così, per questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie
appartengano gli uni e gli altri. Per questo motivo è ritenuta gran brutta
cosa, prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza
dar tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in
secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche
politiche, sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si
metta in condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di
far denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente:
infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che
da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra
legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e
compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante,
per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è
una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per
oggetto la virtù. «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si mette al servizio
di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo migliore nel campo
del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione volontaria non è
vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due norme, quella
sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar sapienza o
qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia veramente una
cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante. Infatti quando
l'amante e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una sua precisa
condotta, cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha concesso i suoi
favori e a servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà, a seguire la
volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente
capace di dare senno e virtù e l'altro veramente desideroso di educarsi e
d'acquistar, in ogni modo, sapienza, quando questo avviene, quando queste due
direttrici convergono a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella che la
persona amata conceda i suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da fare. In
questo caso essere ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli altri
casi, ingannati che si sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un giovane,
infatti, in un miraggio di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro e poi
resta ingannato perché s'accorge che il suo seduttore è povero, questo giovane,
compie un'azione molto spregevole, perché s'è rivelato quel che egli era: un
uomo capace di darsi a chiunque per sete di denaro e questo non è bello. E per
un ragionamento analogo, se lo stesso giovane, invece, si fosse concesso a
persona virtuosa, riconoscendo che sarebbe divenuto migliore proprio in virtù
di quella corrispondenza e poi fosse stato ingannato perché il suo amante s'è
rivelato persona del tutto mediocre, priva di qualsiasi virtù, ebbene questa
delusione è motivo di compatimento; infatti, egli ha dimostrato di esser pronto
a dar tutto se stesso a chiunque, ma per la virtù e pur di diventar migliore, e
questo, certo, è tra tutte, cosa bellissima. In conclusione, il concedersi per
ottenere, in cambio, virtù, è bello. Questo è l'Amore della dea celeste,
celeste egli stesso, degno in tutto di venerazione da parte dello stato come
dei singoli individui, che spinge gli amanti e le persone amate, ciascuno per
quel che gli compete, a preoccuparsi soltanto d'essere virtuosi. Quanto agli
altri amori, provengono tutti dalla Venere Pandemia, volgare. Questo è quanto
ho improvvisato, Fedro, così su due piedi, a proposito di Amore.» Dopo la pausa
di Pausania (guarda un po' che giochetti di parole ti sto a fare, che
m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a riferirmi Aristodemo, toccava ad
Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di stomaco, vuoi per qualche altra
causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi, era nell'impossibilità di parlare.
Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico, che gli era seduto accanto: «Cerca
di liberarmi da questo singhiozzo, Eressimaco,» gli disse, «o, almeno, prendi
tu la parola, finoa quando non si sarà calmato.» «Cercherò di venirti incontro
in un modo e nell'altro; parlerò io al tuo posto e poi interverrai tu quando ti
sarà passato; intanto cerca di trattenere il respiro per qualche minuto e
vedrai che il singhiozzo se ne andrà, oppure bevi un sorso d'acqua, fai dei
gargarismi e, se persiste, prendi qualcosa che ti solletichi il naso e cerca di
starnutire e vedrai che, con un paio di starnuti, per quanto ostinato, ti
passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a parlare,» insistette Aristofane, «intanto io
cercherò di fare come tu dici.» E così Eressimaco incominciò: «A mio
avviso, mi par necessario che cerchi di concludere il discorso che Pausania ha
iniziato così bene ma che poi non ha portato a termine. Che Amore sia duplice,
ci sembra distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini
attratti dalle belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi
per altre forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte
le creature viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte
e, altresì, come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in
ogni cosa umana e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto
di vista medico, anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che
essi hanno in sé questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute
sono, come tutti sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali, perciò,
non appetiscono e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole, altro è
il desiderio che prova la parte sana, altro quello che sente la parte malata. E
come Pausania diceva poco fa che è bello concedersi a un amante virtuoso e
vergognoso è, invece, darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i corpi per
cui è cosa bella, anzi doverosa, favorire lo sviluppo delle parti sane di
ciascun organismo (e, in fondo, proprio questo è il compito del medico) ed è
male, invece, farlo per le parti malate per le quali occorre agire con
intransigenza, se si è veramente capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina,
per dirla in breve, è la scienza che studia le tendenze affettive
dell'organismo nel suo riempirsi e svuotarsi e chi sa distinguere in queste
tendenze, le buone dalle cattive, costui è un gran medico; chi, poi, queste
tendenze le sappia anche modificare o suscitarne una al posto dell'altra o
stimolarne qualcuna laddove non ve ne siano e invece dovrebbero esservi o,
addirittura, cancellare quelle che vi sono, costui, allora, sarà proprio un
maestro eccellente. Bisogna, infatti, che le parti di un organismo che sono tra
loro incompatibili si riconcilino e trovino una loro reciproca armonia. E gli
elementi più incompatibili sono quelli contrari, freddo e caldo, amaro e dolce,
secco e umido e così via; e poiché ad aver saputo conciliare ed armonizzare
tutti questi contrari è stato nostro padre Asclepio, egli, come dicono questi
poeti e come anch'io sono convinto, è il fondatore di questa nostra scienza.
Tutta la medicina, dunque, come vi sto dicendo, è governata da questo dio, come
del resto la ginnastica e l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un
minimo di riflessione perché tutti comprendano che essa si comporta alla stessa
stregua delle altre arti, come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire,
sebbene non si esprima in termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice,
‹con se stessa s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è
assurdo pensare che l'armonia sia mancanza di accordi o che nasca da elementi
ancora discordanti tra loro. Egli, forse, voleva dire che essa nasce da
elementi prima discordanti, l'acuto e il grave, per esempio, che si son poi
accordati per virtù della musica; infatti, non è certo possibile che l'armonia
risulti da suoni tuttora discordi tra loro quali l'acuto e il grave. In verità,
l'armonia è consonanza e la consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi
sia accordo da cose discordi finché restino tali, come impossibile è che vi sia
armonia quando gli elementi discordanti non abbiano trovato il loro accordo;
così come anche il ritmo, del resto, che risulta dal veloce e dal lento prima
discordi tra loro ma poi armonizzati insieme. E l'accordo fra tutti gli
elementi, come per quelli di prima era dato dalla medicina, così per questi è
dato dalla musica che produce, quindi, tra loro, reciproca armonia e
corrispondenza. La musica, quindi, per quanto riguarda il ritmo e l'armonia, è
scienza d'amore. Non è difficile, poi, individuare nella stessa costituzione
del ritmo e dell'armonia questa sua peculiarità, in quanto in essa non vi sono
le due specie d'amore. Quando però si compongono ritmi e armonie per la gente
(ed è questa, propriamente, ciò che si chiama composizione musicale) o si
eseguono fedelmente melodie e partiture altrui (e questo è virtuosismo), allora
sì che viene il difficile e occorre un bravo artista. E qui si torna al
discorso di prima, cioè che bisogna compiacere alle persone per bene o a quelle
che ancora non lo sono ma vogliono diventarlo e conservarsi il loro amore che è
poi quello bello, quello celeste, l'amore di Afrodite Urania; quello di
Polimnia, invece, è l'amore pandemio, volgare, cui bisogna concedersi con
prudenza e che dobbiamo, a nostra volta, con prudenza concedere per goderne
senza tuttavia farne abuso. Del resto, anche nella nostra scienza è molto
importante sapersi ben destreggiare con i desideri per la buona cucina in modo
da saperla gustare senza poi ammalarsi. E così nella musica, nella medicina e
in tutto il resto, sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tener
presenti, per quanto possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque contenuti
entrambi. «E anche le stagioni dell'anno, nella loro successione, son
colme di questi due amori e quando gli elementi contrari di cui parlavo prima,
il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto l'influenza dell'amore
benigno che li armonizza e li compone sapientemente, allora le stagioni recano
abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle piante e non portano alcun
danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro amore, con tutta la sua
violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque, ecco la causa di
pestilenze e di molti altri simili morbi per gli animali e le piante; e,
infatti, il gelo, la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e dal
disordine con cui si manifestano queste tendenze d'amore. La scienza che,
attraverso il moto degli astri e il succedersi delle stagioni indaga questi
fenomeni, si chiama astronomia. Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui presiede
l'arte profetica, nel loro insieme (sono essi a mantenere un rapporto tra gli
uomini e le divinità) non hanno altro scopo che di custodire e salvaguardare
l'Amore; ogni scelleratezza, infatti, nasce perché non si dimostra buona
disposizione nei riguardi dell'amor benigno, né, in quel che si fa, lo si tiene
nella dovuta stima e lo si onora. Cose, invece, che si concedono tutte
all'altro amore, sia per quel che riguarda i rapporti con i propri genitori,
vivi o morti che siano, sia quelli con gli dei. A queste cose, appunto, l'arte
profetica è destinata, per cui deve sorvegliare gli amori e apprestarne i
rimedi; e la divinazione è all'origine dell'amicizia tra gli dei e gli uomini
in quanto, delle tendenze umane, conosce quelle che si volgono alla giustizia e
alla pietà. Dunque, tanto grande e vasta, anzi, universale è la forza d'Amore,
ma quello che si volge al bene con saggezza e giustizia sia nei nostri rapporti
umani che in quelli degli dei tra loro, ha forza ancora maggiore e ci dà la
felicità e ci fa vivere nella concordia e nell'amicizia con tutti e con chi è
migliore di noi, cioè con gli dei. Forse anch'io ho tralasciato molte cose, mio
malgrado, in questo elogio d'Amore; se l'ho fatto, è compito tuo Aristofane
rimediarvi; se, invece, vuoi onorare il dio in altro modo, fallo pure, dato che
il singhiozzo t'è passato.» E così, mi riferì Aristodemo, cominciò a parlare
Aristofane che disse: «Veramente è passato ma solo con lo starnuto, tanto che
io mi meraviglio come il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di
tanto rumore e solleticamenti, come lo starnuto. Sta di fatto, però, che il
singhiozzo è cessato appena ho starnutito.» «Ma, mio caro Aristofane,» ribatté
Eressimaco, «sta un po' attento a quel che fai; ti metti a far dello spirito
proprio ora che devi parlare e così mi costringi a stare sul chi va là per ogni
tua parola, nel caso ti saltasse in mente di dirle grosse, e sì che potresti
parlar tranquillamente.» «Hai ragione, Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo,
«fingi come se non avessi detto nulla. Ma non stare sul chi va là mentre parlo
perché io ho proprio paura, non tanto perché, forse, con quello che sto per
dire, farò ridere, il che potrebbe essere anche piacevole e coerente con la mia
musa, ma perché mi farò invece deridere.» «Sì, sì, va bene, Aristofane, tu
prima lanci il sasso e poi nascondi la mano; mettici attenzione, invece, e
parla come se dovessi dar conto di quello che dici; da parte mia, intanto,
vedrò di lasciarti tranquillo.» Per dir la verità, Eressimaco,»
cominciò Aristofane, «io avrei in mente di fare un discorso diverso da quello
tuo e di Pausania. Io credo, infatti, che di tutta questa potenza dell'Amore,
gli uomini non se ne siano accorti per niente, altrimenti gli avrebbero
innalzato templi grandiosi, altari, gli farebbero sacrifici magnifici e,
invece, nulla di tutto questo mentre sarebbe la prima cosa da fare. Nessuno
come lui, tra tutti quanti gli dei, è amico degli uomini, viene in loro aiuto,
cerca di curarne i mali, la cui guarigione, forse, sarebbe la più grande
felicità del genere umano. Quindi, io cercherò di svelarvi la sua potenza e
voi, a vostra volta, la rivelerete agli altri. Per prima cosa, dovete rendervi
conto cosa sia la natura umana e quali siano state le sue vicende; per il
passato, infatti, essa non era quella che è oggi. Nel principio, tre erano i
sessi dell'uomo, non due, il maschio e la femmina, come ora: ce n'era un terzo
che aveva in sé i caratteri degli altri due, ma che oggi è scomparso e del
quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito. Esso, infatti, era un essere a sé
stante che, nell'aspetto esteriore e nel nome, aveva dell'uno e dell'altro,
cioè, del maschio e della femmina; oggi, ripeto, non resta che il nome che, per
di più, ha un significato infamante. Inoltre, la figura di questo essere umano
era arrotondata, dorso e fianchi formavano come un cerchio; aveva quattro mani
e quattro erano pure le gambe; aveva anche due facce, piantate su un collo
anch'esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto, a un
unico cranio; aveva quattro orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto
questo, possiamo immaginarci il resto. Camminavano in posizione eretta, come
noi, volendo potevano spostarsi in qualunque direzione e, quando correvano,
facevano un po' come i nostri saltimbanchi che gettano in aria le gambe e
capriolettano su se stessi: e poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di
essi, procedevano, a ruota, velocemente. I sessi erano tre, perché quello
maschile aveva avuto origine dal sole, quello femminile dalla terra e l'altro,
con i caratteri d'ambedue, dalla luna, dato che quest'ultima partecipa del sole
e della terra insieme: perciò avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando,
perché somigliavano a quei loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza
prodigiosa, nonché un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con
gli dei e quel che dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il
cielo, va riferito a costoro. «E così Giove e gli altri dei si
consigliarono sul da farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di
ucciderli, infatti, come i Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di
fulmine (il che sarebbe stato come far sparire onori e sacrifici agli dei da
parte degli uomini) e del resto non era possibile continuare a sopportare oltre
la loro tracotanza. A furia di pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho
trovato il sistema,› esclamò, ‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso
tempo, divengano più deboli e la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li
taglierò, ciascuno, in due,› continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato
che aumenteranno di numero potranno esserci anche più utili. Cammineranno su
due gambe e, se non si metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li
taglierò ancora e cosi impareranno a camminare su una gamba sola, come nel
gioco degli otri.› Detto fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si
tagliano le sorbe quando si mettono a seccare, o come si divide un uovo col
crine. E via via che tagliava, poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli
rivoltasse il viso e la metà del collo dalla parte del taglio in modo che
l'uomo, vedendosi sempre la sua spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo,
infine, provvedeva a chiudere le altre parti. Girava la faccia e, tirando la
pelle, tutta verso quel punto che noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per
chiudere coi lacci una borsa, faceva una specie di groppo, che legava proprio
in mezzo alla pancia, quello che noi chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le
molte rughe e modellava il petto usando un arnese un po' simile a quello che
adoperano i sellai per spianare, sulla forma, le grinze del cuoio: ne lasciava,
però, qualcuna, nei paraggi del ventre e intorno all'ombelico, in ricordo
dell'antico castigo. Fu così che gli uomini furono divisi in due, ma ecco che
ciascuna metà desiderava ricongiungersi all'altra; si abbracciavano, restavano
fortemente avvinti e, nel desiderio di ricongiungersi nuovamente, si lasciavano
morire di fame e di accidia, non volendo far più nulla, divise com'erano, l'una
dall'altra. Quando, poi, una delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se
ne cercava un'altra e le si avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso
femminile (che oggi noi chiamiamo propriamente donna) che una di sesso
maschile; e così, morivano. Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo
espediente: spostò il loro sesso sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla
parte esterna e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma alla
terra, come le cicale. Dunque, trasferì questi organi sul davanti e, così
facendo, rese possibile la procreazione attraverso l'unione del maschio nella
femmina; lo scopo era quello di far generare e di perpetuare la specie grazie a
un simile accoppiamento tra maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata
fra maschi, dopo un po' sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una
volta separatisi, sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della
vita. Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li
riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando,
così, l'umana natura. «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di
un unico contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e
va continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son
derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come
l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì
provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa
origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che
son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei
riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui
sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di
un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto
che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti
abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati
di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli
svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché
sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è
la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e
partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli
e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse
dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei
figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui
nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo
sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua
metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro,
sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore
per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per dire.
E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più dire
quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia soltanto
l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo che l'anima
loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente intuisce. Se,
per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto, con gli
strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini, l'uno
dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate, forse,
diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di giorno né
di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una stessa natura
così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate come un essere
solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere uno solo invece
di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è questo che
desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero queste
parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno mostrerebbe di
voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le parole che da
tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola cosa, unirsi,
confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è che tale era
la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento per quella
perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto, noi, prima
eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo stati divisi,
un po' come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. E c'è da
temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo ancora tagliati e
vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo, segate in due lungo la
linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come dadi a metà. Occorre,
perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii verso gli dei, sia per
evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale Amore ci volge e ci
guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli dei); perché se gli
saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi riusciremo a trovare e a
congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che oggi capita a pochi. E non
insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto dicendo, che io voglio
alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente essi sono tra questi
pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io dico, in generale, di
tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice nella misura in cui
ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura amata, ritornando
così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande, ne consegue che,
nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più gli si avvicina:
incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se, dunque, vogliamo
levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che dobbiamo
inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci è affine
e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo
riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci
renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su
Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a
canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi
gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.» «E
va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché il tuo discorso m'è
proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone son ferratissimi
in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel che s'è detto, che
rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo, invece, mi sento
sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché tu hai già detto
la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o meglio nella
posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui di fare il suo
bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche, come ce l'ho io
adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone, «tu vuoi proprio
confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui ad aspettare
chissà cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato, Agatone,»
replicò Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam qui in
pochi. Ho visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul podio
con gli altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro pieno
zeppo, poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra, questo,
Socrate?» ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per una
rappresentazione teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di buon
senso, poche persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?» «Non
sarebbe bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi capace
di un pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra persone
che tu ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in mezzo a
un mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto, c'eravamo
anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti incontrassi
veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti accorgessi
di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,» ammise. «E se tu la
brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti vergogneresti?» A questo
punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse, «se stai lì a rispondere a
Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo, ma tanto a lui non gliene
importa niente, basta che abbia qualcuno con cui discutere, specie poi se è un
bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti volentieri una discussione di
Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore l'elogio di Amore e avere, da
ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate al dio il vostro debito e poi
discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene, Fedro,» esclamò Agatone; «niente
mi impedisce di parlare; con Socrate non mancheranno certo le occasioni per
discutere.» «Io desidero prima dirvi com'è che intendo impostare
il mio discorso, dopo entrerò nel vivo della questione. A me pare che tutti
quelli che hanno parlato finora non abbiano celebrato il dio ma soltanto posto
l'accento su quanto gli uomini siano felici per quei beni di cui, appunto, quel
dio è la causa; nessuno ha detto chi sia propriamente costui che ci offre tutti
questi beni. Orbene, l'unico metodo giusto per far qualsiasi elogio, di
qualunque cosa, è quello di illustrare prima chi sia, in effetti, quello di cui
si parla e poi di quali beni sia la causa. Ecco perché noi dobbiamo prima
lodare Amore per quel che egli è, poi per i doni che ci reca. Intanto io
affermo che tra tutti i beatissimi dei (se m'è lecito dirlo e non è peccato)
Amore è il più beato perché è il più bello e il più buono. Il più bello soprattutto
perché è il più giovane degli dei, Fedro. Egli stesso ce ne dà la prova
migliore fuggendo dinanzi alla vecchiaia che, tutti sanno, è veloce e ci casca
addosso più presto di quel che dovrebbe. Naturalmente Amore la odia e non le si
avvicina nemmeno da lontano. Giovane com'è, invece, sta sempre con i giovani e
ha ragione l'antico detto che il simile s'accompagna sempre al suo simile. Ed
io, pur consentendo con Fedro in molte cose, non condivido il fatto che Amore
sia più antico di Crono e di Giapeto. Ripeto, invece, che è il più giovane di
tutti gli dei, eternamente giovane e tutti quei vecchi fatti tra gli dei che
raccontano Esiodo e Parmenide, accaddero per opera di Necessità, non di Amore,
ammesso pure che quei due abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state,
infatti, mutilazioni, catene e tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato
in mezzo a loro, ma solo amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna
sugli dei. Dunque egli è giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli
manca un poeta, un poeta come Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate,
per esempio, Omero dice non solo che è una dea ma che, appunto, è delicata
(almeno i suoi piedi sono tali), quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che
non accosta alla terra ma ella procede sfiorando le teste degli uomini. E mi
pare che egli ci abbia dato una bella prova della sua delicatezza col dirci che
non cammina sul duro ma sul morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello
stesso indizio a conferma che è delicato; egli, infatti, non cammina per terra
e nemmeno sulle teste degli uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le
più tenere delle cose che esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha
posto la sua sede nel cuore e nell'animo degli uomini e degli dei; non
però in tutte le anime indistintamente. Se, infatti, ne trova una rozza, fila
via, se gentile invece, vi resta. Dato, quindi, che egli è sempre a contatto, e
non solo con i piedi ma anche con tutto se stesso, con le più tenere tra le
tenerissime cose, necessariamente deve essere delicatissimo. Il più giovane,
dunque, e il più delicato; ma oltre a questo è duttile. Non potrebbe piegarsi
in tutte le direzioni e entrare di soppiatto nelle anime e così uscirne se
fosse rigido; la leggiadria, per consenso comune, è la prova evidente delle
fattezze armoniche e flessuose che Amore possiede. Infatti, fra l'amore e la
bruttezza c'è sempre reciproca guerra. La bellezza del suo incarnato ci dice
che egli indugia tra i fiori, poiché Amore non resta dove non v'è cosa in fiore
o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro, ma dove tutto è fiorito e
olezzante, là si posa e dimora. «Sulla bellezza del dio può anche bastare, per
quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma ora parliamo delle sue virtù. La cosa
che prima di tutto bisogna notare è che Amore non fa torti a nessuno, né a
uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli non subisce violenza (ammesso che
subisca qualcosa), perché essa non lo tocca, né con prepotenza fa quel che fa,
ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni cosa; e quando c'è accordo
reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le regine degli Stati›, dicono
che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore possiede in sommo grado anche la
temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare che la temperanza consiste nel
dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è nessun piacere più intenso
dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno intensi, sono inferiori a lui
che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni e sui piaceri e, come tale,
è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda la forza, ad Amore ‹neanche
Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte che conquista Amore, ma
Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si dice; e chi possiede è più
forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo chi è più forte degli altri,
egli è il più forte di tutti. Della giustizia, quindi, della temperanza e della
fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da dire della sua sapienza: per
quanto è possibile, bisogna cercare di non tralasciare nulla. Intanto, per
prima cosa per rendere onore alla nostra arte, come Eressimaco ha fatto per la
sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente da far diventare tali anche gli
altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è toccato da Amore, anche se non ha
mai avuto prima a che fare con le Muse. Da qui possiamo trarre la conferma che
Amore, in generale, è buon poeta in ogni genere di produzione artistica.
Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non può certo darlo, né insegnarlo a
nessuno. E, infatti, chi è che vorrà contestare che la creazione di tutti gli
esseri viventi non avvenga per la sapienza d'Amore che genera e fa crescere
tutte le creature? E, inoltre, nell'attività artistica non sappiamo forse che
chi ha per maestro questo dio diviene famoso e illustre, chi invece non è
toccato da Amore resta oscuro? L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza nella
medicina, l'arte profetica, Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del desiderio
e dell'amore, così che anch'egli può dirsi discepolo di questo dio, come le
Muse per le loro arti, Efesto per l'arte di forgiare metalli, Minerva per
quella del tessere e Giove, infine, per quella di governare sugli dei e sugli
uomini. Fu cosi che tutte le questioni tra gli dei si appianarono, da quando
Amore comparve in mezzo a loro, si capisce, Amore della bellezza, perché delle
cose brutte non c'è amore; mentre, come ho detto, prima d'allora, molte e
orribili cose, a quanto si dice, accadevano tra gli dei, perché regnava
Necessità. Ma dopo che nacque questo dio, si amarono le cose belle e ne venne
per gli dei e per gli uomini abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio
che Amore, bellissimo e buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e
bontà. Quasi quasi mi vien da dire in versi quello che fa, per esempio così:
pace agli uomini reca, calma sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il
sonno. Egli ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un
senso di calda intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a
feste, a danze, a sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la
benevolenza, allontana ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità,
benigno, buono, esempio ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici,
posseduto dai fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della
Grazia, del Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei
malvagi, nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è
guida, guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di
tutti gli dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno
deve seguire e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col
quale egli ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio
discorso in omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata
gravità, secondo le mie capacità.» Quando Agatone ebbe finito di
parlare, raccontò Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti
i presenti che riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di
lui e del dio. E, allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di
Acumeno, ti sembra ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse
previsto giusto, poco fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo
e che io mi sarei trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose
Eressimaco, «ti do anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone
avrebbe parlato bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio
non lo credo.» «Ma come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque
altro dovesse parlare dopo un discorso così bello e così interessante? Certo in
qualche parte non è stato stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non
sarebbe rimasto sbalordito di fronte a tanta bellezza di vocaboli e di
espressioni? Quasi quasi, pensando che non sarei mai stato capace di dire
qualcosa che solo si avvicinasse a tanta bellezza, stavo per fuggirmene dalla
vergogna. Perché il suo discorso m'ha fatto venire in mente Gorgia, tanto da
farmi sentire nella stessa situazione di cui parla Omero, temevo proprio, cioè,
che alla fine Agatone con il suo discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia,
di quel formidabile oratore, togliendomi l'uso della favella e facendomi
diventare di pietra. E ho capito, allora, di essere stato proprio un ingenuo
quando ho accettato di celebrare, insieme a voi, Amore, dicendo che ero un,
esperto su questo argomento, mentre invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo
un bel niente, persino come si fa un elogio qualunque. Da quell'ingenuo che
sono credevo che nel fare l'elogio di chicchessia o di qualcosa si dovesse dire
la verità e che questa era la cosa fondamentale; poi pensavo che bisognasse
scegliere, tra le cose vere, le più belle e disporle nel modo migliore; ed ero
tutto contento del fatto mio, sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che
conoscevo esattamente il modo di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare,
non è così che si fa un bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più
sperticate e più belle, corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo
d'accordo di lodare Amore, così, per burla, non di farne l'elogio seriamente.
Ed è per questo, credo, che voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li
affibbiate ad Amore e affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un
sacco di cose in modo che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi
non lo conosce, non a quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel
panegirico è presto fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli
elogi e proprio per questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io,
seguendo il mio turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora,
statevi bene, perché io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più
forte di me. La verità, invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo
mio, senza far gare con nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere
dietro. Vedi tu, quindi, Fedro se è proprio necessario un discorso di questo
genere e sentire come veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con
quei termini e con quello stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.»
Ma Fedro e gli altri, mi riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come
volesse. «E va bene, Fedro, però lasciami prima fare una piccola domanda ad Agatone,
perché voglio mettermi un po'd'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,»
commentò Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così:
«Dunque, mio caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso
quando hai detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore
e poi passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora,
dato che hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura
d'Amore, dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada
che non ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo
chiedere se Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi
a proposito del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi
risponderesti, se volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve
essere necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare? Ah,
certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo
anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa
per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello,
come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello
o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di
Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.»
«Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi,
invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel
che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio
perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose.
«Sta attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è
necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha
una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne
sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben
detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande?
E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è
impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha
già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser
forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser
sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a
casi del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità,
tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre
in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono
queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le
posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano
voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero
questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già
ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire,
giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po'
se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece,
semplicemente, che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi
già possiedi.› Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che
Agatone lo ammise. Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci
siano preservate le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare
quel che ancora non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,»
ammise. «E quindi, se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui
ancora non dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi non sono o
di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro amore?»
«Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto.
Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si
è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che
cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non
sbaglio, tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono
grazie all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo
che hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto
opportunamente, mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore,
che altro è se non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non
abbiam detto che si ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece.
«Dunque, l'Amore, non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi
è privo di bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose
stanno così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio, Socrate,
di non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone. «Eppure hai
parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra cosetta: quello che
è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se, dunque, Amore non ha
la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli sarà anche privo di
bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e quindi sia pure come
tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi contestarla; Socrate,
invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per niente difficile.» «Ma sì,
via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che sull'Amore,
mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta sull'argomento e
su un'infinità di altre questioni. Figuratevi che una volta, con i sacrifici
che fece fare agli ateniesi, prima della peste, riuscì a ritardare l'epidemia
di dieci anni. Fu lei a erudirmi nelle questioni d'amore e quindi, partendo
dalle conclusioni che Agatone ed io abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come
posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu
dicevi, Agatone, bisogna definire prima chi sia Amore, quale la sua natura e
poi le sue opere. Ora io penso che la cosa più facile per me, sia quella di
seguire lo stesso metodo che usò quella straniera quando discusse con me.
Anch'io, infatti, le dicevo un po' le stesse cose che ora mi ha ripetuto
Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che è amore di cose belle ed ella
cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti, precisamente, che io ho usati
ora con costui, cioè che Amore non è né bello (per usare le mie parole) né
buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima? Allora Amore è brutto e
malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?» fece lei. «Credi forse
che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» «Sicuro, io sì.»
«E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che c'è
sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza? E quale? Avere un'opinione
giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione; non sai,» fece «che questo
non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa dare una spiegazione?), ma non
è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe se coglie nel vero?). Insomma,
la retta opinione è qualcosa di simile, una via di mezzo tra la sapienza e
l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io. E quindi non insistere a
credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti i costi, brutto e ciò che
non è buono, debba esser malvagio. E così anche a proposito di Amore, visto che
anche tu sei d'accordo che non è buono né bello, non pensare che debba essere
malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra questi due estremi.» «Eppure,»
obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio potente. Tutti chi?» ribatté
lei, «quelli che non sanno o anche quelli che sanno? Tutti quanti. Ma come
fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece lei, ridendo, «se affermano che non
è nemmeno un dio?» «E chi sono questi? Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io. Ma
come fai a dir questo?» «Semplice. E tu, infatti, rispondimi: non affermi che
gli dei son tutti beati e belli? avresti il coraggio di dire che qualcuno non è
bello o non è beato?» «Santo cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non
sono quelli che hanno bontà e bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che
Amore desidera le cose buone e belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.»
«E, allora, come può essere un dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no,
assolutamente.» «Vedi, dunque,» concluse, «che anche tu affermi che Amore non è
un dio. Ma, allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente
affatto Ma allora? Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale
e l'immortale. E cioè, Diotima? Un demone possente, Socrate, che come tutti i
demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello
di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e,
agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel
suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli
altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta
l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i
sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la
magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli
parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il
sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende
d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è
che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo
padre e sua madre,» chiesi, chi sono? È, una cosa lunga,» fece, «ma te la
racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto
e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di
pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il
banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il
vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e,
mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue
angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si
stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e
ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è,
nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto,
per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa
condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i
più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo,
vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle
strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la
miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e
buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre
pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita
dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista.
Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso
alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù
della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così
che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e
ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar
sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla
filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né
ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non
è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente;
naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello
di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli
che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?»
«Ma è chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son
quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra
questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore
ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale,
sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto
questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è
affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu
immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire
dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama.
Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente
bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha
un altro aspetto, quale io ti ho descritto. Ed io: «E sia, straniera, tu parli
bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini? È questo che ora
cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così è nato: Amore del
bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che senso, Socrate e
Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi ama le cose belle,
ama, ma ama che cosa? Che diventino sue, risposi. Ma questa tua risposta, mi
precisò, esige che si ponga un'altra domanda, di questo genere, per esempio:
Che cosa gliene viene a chi possiede le cose belle? Io risposi che, a una
domanda simile, non sapevo sul momento che dire. «E immaginiamo, allora,
incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e che chiedesse: ‹Via,
Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa? Che diventi suo,» risposi. E
che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A questo,» dissi, «mi è più
facile rispondere: sarà felice. E, infatti, concluse, è proprio per il possesso
del bene che le persone felici sono tali e non è proprio il caso di star lì a
chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi pare che la domanda abbia già
avuto la sua risposta definitiva. È vero quello che dici, ammisi. E allora,
questo desiderio e questo amore, credi siano un po' comuni a tutti gli uomini e
che tutti desiderano sempre possedere il bene o pensi diversamente?» «Sì, io
credo proprio che siano comuni a tutti, feci. E, allora, Socrate,» continuò,
«come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini amano dato che tutti
desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che solo alcuni amano ed
altri no?» «Anch'io me ne meraviglio, ammisi. «E non devi stupirtene,» riprese,
«siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto un aspetto e a questo
solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il resto usiamo altri
appellativi. Cioè, chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è creazione ed ha un
significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui qualcosa passa dal non
essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa è poesia e tutti
i creatori sono poeti. È vero. Ma intanto,» continuò lei, «sai che non tutti
sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di tutte le attività creative, solo
alcune e precisamente quelle che si occupano della musica e della metrica, noi
chiamiamo poesia; solo questa è poesia e poeti, solo quelli che si dedicano a
questo particolare aspetto della poesia. È vero,» ammisi. E così è anche per
l'amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è, per ognuno,
‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli che cercano di realizzarlo per
altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o l'educazione fisica o la
filosofia, noi non diciamo che amano né che sono amanti, gli altri, invece,
quelli che seguono e preferiscono un particolare tipo d'amore, ne prendono
anche il nome generico: amore, amare, amanti.» «Sembra proprio che tu abbia
ragione,» confermai. Eppure va in giro un certo discorso secondo il quale gli
amanti sono quelli che cercano la loro metà. La mia opinione, invece, è che non
esiste amore né per la metà, né per l'intero, a meno che, mio caro, non si
tratti di un bene; perché gli uomini si lascerebbero tagliare volentieri e mani
e piedi se li credessero dannosi per loro, perché io credo che nessuno ami le
cose proprie a meno che ciò che ci appartiene non sia il bene e ciò che ci è
estraneo, invece, il male; infatti, gli uomini non amano altro che il bene. Non
pare anche a te? Per Giove, a me sì, ammisi. E, dunque, possiamo senz'altro
affermare che gli uomini amano il bene? Sì, confermai. Ebbene, non bisogna
aggiungere che essi, questo bene, desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non
solo possederlo per un momento, ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna
aggiungere,» feci. «Per concludere, l'amore è possesso perenne del bene. È
verissimo quello che dici, feci. Ora, se questo è l'amore,» proseguì,
«quando è che la sollecitudine e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in
ogni azione, lo perseguono, può chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma,
che questo succede? Sai rispondere? Se lo sapessi, Diotima, non sarei così
pieno di meraviglia per la tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar
tutto questo. E, allora, te lo dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da
parte del corpo che da parte dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,»
azzardai io, «per capire quello che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi
spiegherò più chiaramente,» fece. «Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro,
nel corpo come nell'anima, un seme fecondo e quando giungono a una certa età,
come per un bisogno naturale, desiderano produrre qualcosa; concepire nel
brutto, però, non è possibile, nel bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo
con la donna è procreazione ed è veramente quest'atto una cosa divina, questo
concepire e generare è veramente ciò che di immortale ha la creatura che pure
ha vita mortale. Ma tutto ciò non può avvenire nella disarmonia; e disarmonia,
rispetto a tutto ciò che è divino, è il brutto, come il bello è armonia. Quindi
la bellezza fa da Parca e da Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando
chi ha dentro di sé un seme fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno, atteggia
a letizia l'animo suo e allora crea, produce; quando, invece, s'accosta al
brutto, allora, s'incupisce, si chiude in se stesso tutto afflitto, si ritrae,
si ravvolge e non genera ma resta col suo seme fecondo e ne soffre. Di qui,
nella creatura feconda e già ricca, sorge un intenso desiderio per tutto ciò
che è bello perché il bello soltanto libera chi lo possiede da atroci doglie.
Infatti, Socrate, conclude, Amore non è amore del bello, come tu credi. Ma,
allora, cos'è? produrre e creare nel bello. E sia, ammisi. Sicuro, conferma lei.
E perché questo generare? Perché generare è quanto di sempre rinascente e
immortale vi possa essere in una creatura mortale. E l'immortalità è naturale
che si desideri come il bene, almeno da quel che abbiamo convenuto se è vero
che amore è possesso perenne del bene; ne consegue, inoltre, da tutto questo
discorso che l'amore è amore di immortalità. Queste cose ella mi insegnava,
quando indugiava a parlarmi di questioni d'amore e, un giorno, mi chiese:
«Quale pensi, Socrate, sia la causa di tutto questo amore, questo desiderio?
Non vedi in che terribile stato son tutti gl’animali, sia quelli che camminano
sulla terra che quelli che volano nel cielo, quando son presi dal desiderio di
generare, malati tutti d'amore, prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro,
poi per la cura e per l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere
per essi, perfino i più deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a
lasciarsi morire di fame per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini,
si può dire, che facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli
animali, donde proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io
ancora ad ammettere di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di
diventare un esperto nelle questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma
proprio per questo, Diotima, come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho
bisogno di maestri. Dimmela tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò
che riguarda l'amore.» «Orbene, se tu sei convinto che l'amore, per natura,
tende a ciò su cui più volte s'è discusso, non devi meravigliarti; anche ora
vale il discorso di prima che cioè la natura mortale tende, sempre, per quanto
le sia concesso, di essere immortale. E le è possibile in un modo soltanto,
attraverso la procreazione, per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto
del vecchio, il che succede anche nella vita di ogni creatura, quando si dice
che resta sempre la stessa; si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa
persona, da quando è bambino fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è
sempre lo stesso individuo, benché in lui molte cose si mutino; ma si rinnova
continuamente, perdendo sempre qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo
sangue, insomma in tutto il suo corpo. E non solo nel corpo, ma anche
nell'animo: sentimenti, abitudini, modo di pensare, desideri, piaceri, dolori,
timori, ognuna di queste cose non resta sempre la stessa in un individuo, ma si
rinnova e poi muore. Ma quel che è ancora più straordinario è che anche le
nostre cognizioni non solo nascono e periscono e quindi noi non siamo sempre
gli stessi nemmeno per quel che riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa
in se stessa, segue, anch'essa sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice
esercitarsi nello studio presuppone che qualche cognizione possa sfuggire;
dimenticare, infatti, vuol dir perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio,
invece, suscita un nuovo ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il
sapere in modo che esso appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si
perpetua tutto ciò che è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se
stesso, come ciò che è divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno -
qualcosa di nuovo al suo posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate, conclude,
in che modo tutto ciò che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità
di partecipare dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non
stupirti, quindi, se ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo
seme, perché in tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio
dell'immortalità.» Ed io sentendola parlare così, tutto stupito,
le chiesi: Ma sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella
con un fare tipicamente cattedratico: Persuaditi pure, Socrate, che è proprio
così; basta che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se
tu non riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia,
considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar
gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre
tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare
fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe morta
per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il regno ai
figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la loro
memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo che
ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e
questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così
quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro
modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro,
immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece,
che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non
lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma
quale? la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti
sono gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori;
la più alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento
dello Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza
e di giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da
giovane, ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta,
desidera creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello
in cui generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è,
sentirà maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte,
figuriamoci poi se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si rallegra
di questo felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà tutto un
fervore di ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene debba
comportarsi, iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso che a
contatto con una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia alla
luce ciò che da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le stia
lontano, sempre la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è nato
dalla loro unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più profondo
di quello che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato che hanno
in comune figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli simili
piuttosto che creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri grandi
poeti non può non provare invidia pensando quale progenie, immortale essa
stessa, essi hanno lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria eterna o,
se tu vuoi, diceva, figli come quelli che Licurgo lascia a Sparta, a salvezza
di Sparta o meglio ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è onorato
Solone per avervi dato le leggi e così altrove, altri grandi uomini, sia
in Grecia che nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte e
belle opere, realizzando ogni sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già
stati tributati ad essi molti onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di
carne e di ossa. Ebbene, Socrate, io penso,» continuò, «che anche tu potresti
essere iniziato alle cose d'Amore, ma fin qui; a un grado più alto, a quello
contemplativo, cui si giunge appunto passando attraverso questi stadi, sempre
che si proceda sulla via giusta, non credo tu sia adatto. Tuttavia te ne
parlerò egualmente e farò del mio meglio,» disse; «tu cerca, intanto, di
seguirmi come puoi. Dunque,» incominciò a dire, «è necessario, prima di tutto
che chi vuol tendere a questo fine, debba, fin da giovane, avvicinarsi alla
bellezza fisica e, sin dall'inizio, se chi lo guida lo dirige bene, amare una
sola persona e ad essa rivolgere i migliori discorsi; successivamente dovrà pur
rendersi conto che la bellezza che alberga nel corpo di una persona, è sorella
di quella che può esservi in ogni altra e che quindi se bisogna ricercare
quella bellezza che è insita nelle forme visibili, sarebbe sciocco pensare che
essa non sia identica e uguale per tutti i corpi; convinto di questo deve,
allora, sentire trasporto per tutti quelli che hanno belle sembianze e frenare
un po' la sua passione nei riguardi di una sola persona, riconoscendo come ciò
sia meschino e mediocre. Ma, infine, deve ben comprendere che la bellezza
spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica, di modo che se dovesse
incontrare una creatura dall'anima bella ma dal corpo non florido, se ne
contenti egualmente ed ugualmente se ne innamori e le mostri sollecitudine e
sia l'autore di discorsi tali che rendano migliori i giovani, per cogliere poi,
da qui, la bellezza che è nelle azioni e nelle istituzioni umane e comprendere
come essa sia, ovunque, sempre se stessa e persuadersi come la bellezza fisica sia
ben piccola cosa. Dopo le attività umane, si rivolga alla scienza per
conoscerne la bellezza e ammirarne l'ampio dominio sul quale ormai ella si
spande: così non sarà più come uno schiavo, preso d'amore per un sol giovinetto
o per un solo uomo o per una sola attività, non sarà più succube inetto e
meschino ma, rivolto allo sterminato oceano della bellezza e contemplandolo,
potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri concepiti
nell'amore infinito per la sapienza finché egli stesso, rinvigorito e
arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che ha per oggetto la
stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò, «più che puoi, di farmi
attenzione. Chi è stato, via via, guidato fin qui nelle questioni d'amore
attraverso la contemplazione delle cose belle, quando sarà giunto al termine di
questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto, una meravigliosa bellezza,
quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua precedente fatica, una
bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine, che non cresce né si
consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un altro brutta o che a
volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta da un altro, né
bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri no, né, questa
bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come qualcosa che possa
riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o come dottrina, né
come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in altri esseri viventi,
per esempio, o nella terra o nell'aria o altrove, ma quale essa è, in sé e per
sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose belle che di quella
partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione di sorta, in più o in
meno, non subisce mutamento. E così, quando sollevandosi dalle cose terrene, in
virtù anche dell'amore che si porta ai giovinetti, uno comincia a scorgere
questa bellezza, allora potrà dire di essere vicino alla meta. Infatti questo è
il retto cammino per procedere da soli o insieme a una guida verso le questioni
d'amore, cominciare, cioè, dalle cose belle di quaggiù e, avendo come fine
ultimo questa bellezza, innalzarsi continuamente, come su una scala, da uno a
due, da due fino a tutti i bei corpi e da questi alle belle occupazioni e poi
alle belle scienze, finché non si giunga a quella scienza che di null'altro è
scienza che della stessa bellezza e finché non si conosca, giungendo, così,
alla meta, il Bello in sé. Questo, caro Socrate,» diceva la straniera di
Mantinea, è il momento della vita che più di ogni altro, per un uomo, val la
pena di vivere: quando giunge alla contemplazione della Bellezza in sé. Se una
volta sola tu riuscirai a vederla, oh, ti sembrerà assai più preziosa dell'oro
o di una veste o degli stessi bei fanciulli e giovinetti che ora guardi non
senza un palpito e per i quali, tu e molti altri, se fosse possibile,
rimarreste anche senza mangiare e senza bere, pur di poterveli sempre
contemplare e stare in loro compagnia. Cosa succederebbe allora, continua a
dire, se uno riuscisse a vedere la bellezza in sé, in tutta la sua adamantina
purezza e non già quella offuscata dalla carne, dai colori, da tutte le altre
vanità terrene, se gli riuscisse, insomma, di scoprire la Bellezza in sé,
divina e uniforme? Credi forse che sarebbe miserabile la vita di quest'uomo che
fissasse quel punto, lassù e lo contemplasse come va contemplato, congiunto con
esso? Ed è soltanto in quel punto,» continuava, «contemplando la bellezza con
quella facoltà che la rende visibile, che egli potrà dar vita non a parvenze di
virtù, dato che non è a una falsa immagine di bellezza che egli si è accostato,
ma a una virtù vera, per il fatto che egli è nella verità; non pensi, del
resto, che avendo dato vita alla virtù vera e avendola continuamente
alimentata, costui potrà diventare caro agli dei ed essere anch'egli immortale,
se mai altro uomo lo è stato? Queste cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi
ha detto ed io ne sono rimasto persuaso e come tale, quindi, cerco ora di
persuadere gli altri che per il conseguimento di tanto bene, non è facile che
l'uomo trovi chi possa meglio soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che
ogni uomo deve onorare Amore, come io stesso faccio esercitandomi nelle sue
discipline ed esorto gli altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la
potenza e la forza d'Amore, nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo
discorso giudicalo, se credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo
pure come meglio ti piace.» Quando Socrate ebbe concluso, continuò
a riferirmi Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane
stava per intervenire, perché Socrate aveva a un certo punto, fatto
un'allusione sul suo conto a proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un
tratto, si sentì picchiare alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come
di gente allegra e la voce di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi,
non correte a vedere?» esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela
pure entrare, altrimenti dite che abbiam già finito di bere e stiamo riposando.»
Dopo un po' si udi nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco fradicio, che
urlava a squarciagola chiedendo dove fosse Agatone e che lo conducessero da
lui. Egli, infatti, comparve sulla soglia, sostenuto dalla suonatrice di flauto
e da alcuni della compagnia e s'avanzò verso i convitati, incoronato da una
folta ghirlanda di edera e di viole e con la testa piena di nastri. Salve,
amici, esclama, «lo volete con voi, a bere, un uomo già completamente ubriaco?
Oppure possiamo soltanto mettere questa corona in testa ad Agatone, dato che
siamo venuti per questo e poi filarcela subito? Ieri non mi è stato possibile
venire e così eccomi qua ora, con questi nastri in testa, per passarli su
quella di uno che, senza offesa per nessuno, è il più sapiente e il più bello
di tutti. Ma voi ridete perché sono ubriaco? E ridete pure, tanto lo so; ma,
piuttosto, ditemi, posso o non posso entrare? Berrete con me, o no?» Tutti
allora si misero ad applaudirlo e gli dissero di entrare e di prender posto in
mezzo a loro. Anche Agatone lo invita ed egli si fa avanti sorretto dai suoi
amici e, togliendosi dal capo i nastri, fa le mosse di incoronarlo senza
accorgersi che Socrate era proprio lì, sotto i suoi occhi, al punto che, quando
egli si pose a sedere in mezzo a loro, questi dovette scostarsi per fargli
posto. Non appena si fu accomodato, cominciò ad abbracciare Agatone e a
cingerlo di ghirlande. Ragazzi, veniva, intanto, dicendo Agatone, slacciate i
sandali ad Alcibiade, ché si metta comodo e sia terzo tra noi due.» Benissimo,
approva Alcibiade, «ma chi è questo terzo?» e così dicendo si volse e vide
Socrate; a quella vista fece un balzo: Santi numi, esclama, ma chi è questo?
Proprio Socrate? Ti sei messo qui per giocarmi ancora qualche tiro e mi compari
davanti, al tuo solito, quando meno me l'aspetto. Che sei venuto a fare? E
perché ti sei messo qui e non vicino ad Aristofane o a qualche altro che voglia
fare lo spiritoso? Ma tanto hai fatto che ti sei piazzato vicino al più bello.»
E Socrate: «Vedi un po' di difendermi tu, Agatone, perché l'affetto di
quest'uomo mi sta dando non pochi fastidi. Da quando, infatti, mi sono legato a
lui, non posso più guardare una persona di bello aspetto, né stare un po' a
conversare con nessuno perché, geloso e invidioso com'è, mi salta su e me ne
dice un sacco e poco ci manca che non mi metta le mani addosso. Sta attento,
quindi, che anche ora non me ne faccia una delle sue e cerca di mettere un po'
di pace tra noi e difendimi, se egli vuol farmi ancora qualche sfuriata, perché
comincio proprio ad aver paura delle sue manie e del suo temperamento
eccessivo.» «Niente affatto,» gridò Alcibiade, «fra te e me, nessuna pace e di
quello che hai detto faremo i conti dopo. Ora tu, Agatone,» riprese, «dammi un
po' di questi nastri, ché incoroni anche lui, questa testa meravigliosa, in
modo che non s'abbia poi a lagnare che ho cinto te di ghirlande e lui niente,
lui che nel parlare vince tutti e sempre, non una volta sola, come te,
ieri.» E così dicendo prese dei nastri e incoronò Socrate,
mettendosi, poi, comodo. E allora signori, esclama quando si fu messo a
suo agio, «mi sa che qui volete fare gli astemi; non ve lo posso permettere;
bisogna, invece, bere, così eravamo d'accordo. Fino a quando non avremo preso
l'avvio, i brindisi li dirigo io. Avanti, Agatone, fa portare una bella coppa,
di quelle grandi, anzi, anzi, non ce n'è bisogno; invece, ragazzo, dà qui quel
vaso per tener il vino in fresco.» Ne aveva, infatti, intravisto uno che
conteneva più di otto quartini abbondanti. Dopo esserselo riempito, se lo scolò
per primo; poi disse di riempirlo per Socrate, soggiungendo: Amici belli, con
Socrate, però, non c'è niente da fare: più gli se ne versa e più ne beve e non
c'è caso che si ubriachi. Infatti, appena il servo versò, Socrate prese a bere.
Ma Eressimaco, intervenendo. Ma così che facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio
starcene coi bicchieri in mano, senza dire una parola, senza cantare un po',
vogliamo proprio darci sotto come tanti assetati? Salve, mio caro Eressimaco, esclama
allora Alcibiade, «ottimo figlio di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute
anche a te,» rispose Eressimaco, «e, allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini,
siamo qui per obbedirti: poiché un medico regge da solo il confronto con molti.
Perciò, comanda quello che vuoi.» «Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco;
«prima che tu venissi si era stabilito che ognuno di noi, partendo da destra,
facesse un discorso in lode di Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo
già tutti quanti parlato, tu, invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che
ora tocchi a te; dopo, potrai proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua
volta, passerà l'invito al compagno che è alla sua destra e così gli altri.»
«Oh, un'ottima idea la tua, Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi mettere
a confronto il discorso di un ubriaco con quello di gente che s'è mantenuta
sobria; e poi, mio caro, tu ci credi a quello che Socrate ha detto un momento
fa? Non lo sai che è invece, tutto il contrario? Questo qui, se io mi metto in
sua presenza a fare le lodi di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per il fatto
che non si tratta di lui, mica me le risparmia le legnate.» «Ma la vuoi
piantare? fa Socrate. «Per mille tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è inutile che
protesti; in tua presenza io non posso lodare nessun altro.» «E allora, fa
così,» intervenne Eressimaco; «se vuoi, loda Socrate. Come dici? fa Alcibiade.
Vuoi proprio, Eressimaco, che io me la pigli con questo tipo e mi vendichi
davanti a voi? Ma che ti salta in testa,» intervenne Socrate, «di prendermi in
giro con la scusa dell'elogio? Ma che intenzioni hai?» «Dirò la verità e tu
vedi se ti garba.» «Allora, sicuro, la verità te la concedo, anzi voglio che tu
la dica.» «Eccomi subito a te,» fece Alcibiade, «e tu, intanto fa una cosa: se
io non dico il vero, interrompimi se vuoi e dì pure che sto mentendo, per
quanto io, di bugie, non ho intenzioni di dirne. Se, poi, nel riferire i fatti,
io non andrò per ordine, non meravigliarti, perché non è certo facile, nello
stato in cui sono, fare l'elenco ordinato e completo di tutte le tue stranezze.
Ebbene, signori, io, Socrate comincerò a lodarlo così, per immagini. Lui,
crederà che io voglia continuar nello scherzo e invece, le immagini mi
serviranno per precisare la verità, non per scherzare. Comincio col dire,
infatti, che egli somiglia a quei sileni che si vedono nelle botteghe degli
scultori, che hanno in mano zampogne e flauti, fatti in modo che, aprendosi a
metà, mostrano, all'interno, immagini di divinità; e soggiungo anche che
somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate, ci somigli proprio, almeno
nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a sentire come poi ci somigli
anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti posso portare i testimoni se non
vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di flauto? E come assai più portentoso
di Marsia. Lui aveva bisogno dello strumento per incantare gli uomini a forza
di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol suonare le sue
melodie; (quelle che suonava Olimpo, infatti, erano di Marsia, che gliele aveva
insegnate). Insomma le sue melodie, sia che le suoni un flautista di vaglia o
una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a commuoverci, a farci quasi
sentire il desiderio di dio, divine come sono e di iniziarci ai suoi misteri.
Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza strumento, con le sole parole,
ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando ascoltiamo qualcuno che parla,
fosse pure il più bravo oratore di questo mondo, di quello che dice, non ce ne
importa niente, per così dire, proprio niente di niente; quando invece
ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i tuoi discorsi, fosse
pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o giovani, restiamo tutti
sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non temessi di passare
completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento, quello che ho provato e
provo ancora quando questo qui comincia a parlare. Quando lo sto a sentire, il
cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello dei Coribanti, alle sue
parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli altri, ma tutti, quanti ne
sono, che provano la stessa impressione. Quando invece sentivo parlare Pericle
o altri bravi oratori, mi rendevo conto che anch'essi parlavano bene, eppure
non provavo niente di simile, non mi sentivo l'anima in tumulto, né turbata al
pensiero di essere una ben povera cosa. Ma per costui, invece, per questo
Marsia qui, quante volte mi son sentito come se non mi fosse più possibile
vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che tutto questo non sia vero?
Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi di ascoltarlo, non riuscirei
a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli, inevitabilmente, mi farebbe
persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò, invece, di badare un po' a
me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E così, mio malgrado, io mi
tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene e scappo via perché non
voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti a quest'uomo io ho
provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti a
lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di contraddirlo,
di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena mi allontano da lui,
ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e lo
fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi ha convinto,
arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe addirittura piacere che non
fosse più a questo mondo, anche se poi, so benissimo che questo mi addolorerebbe
assai di più e così, con un uomo simile, non so proprio come fare. E così,
questi sono gli effetti che io e tanti altri proviamo per le melodie che questo
satiro sa tirar fuori dal suo flauto. Ma state ancora a sentire come egli
somiglia anche nel resto a quelli cui l'ho paragonato, e quale straordinario
potere egli ha. Mettetevelo bene in testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo
farò conoscere io, dato che mi ci trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre
a innamorarsi dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la
testa; mica poi che capisca qualcosa, non sa proprio niente, almeno
dall'apparenza. E questo non significa essere un sileno? Altro che: lo stesso
aspetto esterno di una di quelle statuette di sileni; ma dentro, se lo aprite,
ve la immaginate, commensali miei, la saggezza che ha? E poi, dovete sapere che
a lui, non gliene importa niente se uno è bello, anzi lo tiene in così poco
conto, che non ne avete l'idea; e se uno è ricco e ha tutto quello che, secondo
la gente fa beato un uomo, egli dice che tutto questo non vale un bel niente,
anzi che noi stessi siamo addirittura delle nullità, questo ve l'assicuro io. E
per giunta passa la vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco
di tutti. Se poi fa sul serio, però e si lascia veder dentro, non so se l'avete
mai viste le bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate
così divine, così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato
e pronto a fare tutto ciò che Socrate avesse voluto. Credendo che egli
s'interessasse alla mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una
bella fortuna la mia se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da
lui tutte le cose che sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia
bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene
da solo con lui, senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio
schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi
fate attenzione e se dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi
solo soletto con lui ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei
discorsi che di solito un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a
tu per tu ed ero tutto contento. Invece, niente da fare ma, come al solito,
parlò con me e giunta la sera, se ne andò. Vedendo questo, lo invitai, allora,
a far ginnastica insieme a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di
concludere qualcosa. Anche lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me
e lottavamo insieme, spesso senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo
devo dire? Non ne cavai un bel niente. E quindi, visto che in questo modo non
combinavo nulla, pensai che con un uomo simile bisognasse adoperare le maniere
forti, altro che lasciar perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po'
come andava a finire la faccenda. E così lo invita a cena, addirittura come fa
uno spasimante quando vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò
subito; tuttavia, dopo qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne,
però, volle andarsene subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un
po' e lo lasciai andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che
finimmo di mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a
tarda notte e così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai
s'era fatto tardi e quindi lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare
in un letto accanto al mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro
avrebbe dormito tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi
potrei continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo punto,
io non vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto
(aggiungeteci pure i bambini o meno) non vi fosse la verità e poi perché mi
sembrerebbe proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di
Socrate, passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a
questo, ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a
quel che si dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono
stati anch'essi morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i
suoi gesti e tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io
che sono stato punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole al
cuore o all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti
filosofici che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie
quando afferrano l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a
dire qualunque cosa... io che mi vedo dinanzi un Fedro, un Agatone, un
Eressimaco, un Pausania, un Aristodemo, un Aristofane (e bisogna anche
nominarlo Socrate?) e tanti altri, tutta gente un po' patita e fuori di sé per
la filosofia. Eh, sì, per questo, ora, voi tutti, mi starete a sentire. E mi
compatirete per quello che è accaduto allora e per quanto sto per dirvi ora. E
voi, famigli e quanti ne siete, rozzi o villani, tappatevi con grossissime
porte le orecchie. Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi
se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma
di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli
chiesi scuotendolo. «Nient'affatto,» mi rispose. «Sai cos'ho pensato? Cosa? Che
tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a
dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non
esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno,
dei miei amici per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più
a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far
meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle
persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla
gente ignorante se gli cedessi. E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col suo
solito fare un po' ironico. Mio caro Alcibiade, risponde, può darsi proprio il
caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che tu dici e
se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare migliore. Se è
così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran lunga superiore
alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con me, di metterci
le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così concludere, alle mie
spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma, di pigliarti una
bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi proprio di scambiare
oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione, ché tu non t'inganni
nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il fatto è che l'occhio
della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce quello del corpo e
per te, ce ne vuole del tempo. Ed io dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi
riguarda, le cose stanno cosi ed io non ho detto nulla di diverso da quello che
penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio per te e per me. Così
va bene, mi risponde. In seguito vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio
per tutti e due a proposito di questa faccenda e anche per il resto. Quanto a
me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo udito la sua risposta, come se
gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così,
senza dargli la possibilità di dire una parola di più, balzai su e gli gettai
addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto
quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia (sì, proprio costui,
questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la notte gli stetti
disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene,
nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò
beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di non essere
mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene,
sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo aver passato la
notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con mio padre o con
mio fratello maggiore. Dopo tutto questo, ve lo immaginate come ci rimasi.
Da una parte l'idea di essere stato disprezzato, dall'altra la mia ammirazione
per le sue qualità, per la sua saggezza, per la sua forza d'animo. Mi resi
conto di aver proprio incontrato un uomo quale non avrei immaginato, per
rettitudine e per fortezza. E così non riuscii né a pigliarmela con lui e,
quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro canto, a trovare il modo di
conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non c'era niente da fare: è più invulnerabile
d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora anche l'unico modo con cui pensavo di
poterlo conquistare, m'era fallito. Privo così d'argomenti, schiavo quasi di
quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun altro, gli stavo sempre dietro.
Tutto questo accadde prima della campagna di Potidea, durante la quale
combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa. Ricordo che alle fatiche
era più resistente non solo di me ma di tutti quanti gli altri; quando poi si
restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso in guerra e così ci
toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli altri non era niente al
confronto della sua; quando invece c'era abbondanza, lui era il solo a
godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché ci fosse portato,
ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario è che mai nessuno
ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete anche ora una
prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il gelo non
scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta, durante una
gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se qualcuno
usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con panni di
feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito
mantelluccio che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai
meglio di quelli che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in
cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare. E a questo
proposito, bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne
quest'uomo animoso, laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali
pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino
presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a
restarsene tutto assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati
cominciarono a farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate,
pensando a chissà cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col
calar della sera, alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori,
all'aperto, i loro pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al
fresco ma anche per star lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto
immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino
e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E
in battaglia, poi, se volete sentire, perché anche questo bisogna
riconoscergli. Quando ci fu quello scontro in cui i generali mi dettero una
ricompensa al valore, nessun altro mi salvò tranne costui che non volle
lasciarmi lì ferito ma riuscì a portarmi in salvo con le mie armi. Ed io,
Socrate, in quell'occasione, insistetti perché la ricompensa la dessero a te
(neanche in questo caso tu potrai riprendermi e dirmi che sto mentendo). E
poiché i generali, considerando il mio rango, volevano dare a me la ricompensa,
tu fosti più zelante di loro perché venisse a me attribuita invece che a te. E
non è finita, signori miei, perché bisognava vederlo Socrate, quando il nostro
esercito è rotto a Delio. In quell'occasione io ero col mio cavallo, lui a
piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle truppe in fuga, dunque,
egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso sopraggiungo e, vedendoli, grido
di farsi coraggio, assicurandoli che non li avrei abbandonati. In quella
occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare Socrate, anche perché, a
cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto dimostrava un controllo
superiore a quello dello stesso Lachete; secondariamente parve anche a me
quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di lui che cioè anche là egli
camminava come qui, tutto altero gettando occhiate di traverso, tenendo sempre
sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti, anche a distanza, che se
qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si sarebbe difeso
strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno, perché è proprio
vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici nemmeno li toccano,
mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per molte altre cose, tutte
straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente, però, queste altre
qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello che invece è
meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del passato né del
nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in un certo qual
modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa somiglianza con
Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni se ne potrebbero
far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare, per i suoi
discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno lontanamente, né
tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo volesse paragonare,
appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai satiri, ma non certo
a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero dimenticato di
precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si aprono. Infatti, se
uno si mette a sentire i discorsi di Socrate, all'inizio, gli sembreranno
addirittura ridicoli, come sono tutti inviluppati per il di fuori, da termini e
da sentenze, una specie di pelle di satiro petulante; infatti, non fa altro che
parlare di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori e sembra che dica
sempre le stesse cose, tanto che se uno non se ne intende o è uno sciocco, gli
riderebbe dietro. Ma se cerchi di aprirli, i suoi discorsi, e di guardarvi
dentro, prima di tutto ti accorgerai che sono i soli, tra tutti, ad avere un
loro senso profondo, poi che sono addirittura divini, ricchi di ogni virtù
possibile e immaginabile, volti al sublime o meglio a ciò che deve tener
presente chi voglia diventare un vero galantuomo. Questo è quanto ho da dirvi
in lode di Socrate, amici miei. Quanto al biasimo io ve l'ho già mescolato,
riferendovi le offese che mi ha fatto; del resto egli non s'è comportato così
solo con me, ma ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone e con
Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti altri, tutta gente che egli ha
ingannato fingendo, appunto, la parte dell'innamorato, con la conseguenza che
furono, invece, costoro ad innamorarsi di lui. E questo lo dico anche per te,
Agatone, ché non debba cascarci anche tu in modo che, fatto esperto dalle
nostre disavventure, tu possa stare in guardia da costui e non debba imparare,
da citrullo, a proprie spese, come dice il proverbio. Appena Alcibiade ebbe
concluso, l'ilarità fu generale, proprio per quel suo modo franco di parlare,
anche perché, così, aveva fatto capire di essere ancora innamorato di Socrate.
«Mi sembra, invece, che tu, Alcibiade, non abbia proprio bevuto per niente,»
esclamò a un certo punto Socrate, «altrimenti non l'avresti rigirata tanto
abilmente, nascondendo il vero scopo del tuo discorso e alludendovi solo alla
fine, come un di più, come se tutto il tuo parlare non fosse stato per seminar
zizzania tra me e Agatone, fissato come sei che io debba amare solo te e nessun
altro e che Agatone devi amarlo soltanto tu e gli altri niente. Ma non t'è
andata bene e questa tua farsa a base di satiri e di sileni è apparsa evidente.
Mio caro Agatone, costui non deve spuntarla e bada tu che, tra me e te, nessuno
venga a mettere disaccordo.» E Agatone, di rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai
proprio ragione. Ora capisco perché s'è venuto a piazzare tra me e te, proprio
per dividerci. Ma sta fresco, anzi, eccomi qua che ti torno vicino.» Oh,
benissimo, fa Socrate, mettiti qua, al mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò
Alcibiade, «quante me ne fa passare quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma,
almeno, mio straordinario amico, lascia che Agatone resti tra noi due.»
«Impossibile,» fece Socrate. «Infatti tu hai fatto, in questo momento, le mie
lodi ed ora tocca a me farle a quello che mi sta a destra. Quindi, se Agatone
se ne viene vicino a te, non può mica mettersi a fare il mio elogio prima che
io non abbia fatto il suo, ti pare? Piantala, quindi, tesoro, e non essere
geloso se elogerò questo giovane: io desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh,
iuh, Alcibiade,» si mise a fare Agatone, «non è proprio il caso che io me ne
resti qui, anzi, mi alzo subito perché le lodi di Socrate io le voglio avere. Eh,
già, commenta Alcibiade, la solita musica; quando c'è Socrate, niente da fare
con i belli. Guarda un po' anche adesso, come ha saputo trovarsela facilmente
la sua ragione, in modo che costui gli si strofini al fianco. E così Agatone si
alza per mettersi vicino a Socrate, quando a un tratto, una numerosa brigata di
buontemponi si fece sulla soglia e trovando la porta aperta perché qualcuno era
uscito, irruppe dentro di filato verso di noi e ognuno si trovò comodamente il
suo posto. Ne nacque un baccano dell'altro mondo e si perse ogni misura, tanto
che ci demmo a bere a più non posso. Allora Eressimaco, Fedro e qualche altro
se ne andarono, continuò a raccontarmi Aristodemo. Quanto a lui è vinto dal
sonno e dormì profondamente anche perché le notti erano lunghe; si svegliò
ch'era giorno e che i galli cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che gli
altri o dormivano ancora o se n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane e
Socrate erano svegli e bevevano da una grande coppa che si passavano da
sinistra a destra. Socrate stava discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che
non ricordava quello che si dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal
principio e, poi, perché (almeno così disse) era tutto insonnolito, ma che, in
conclusione, Socrate stava persuadendo i due amici ad ammettere che uno può
comporre ugualmente sia commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta
tragico, sarà anche poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza
capir molto, sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per
primo, poi, a giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide
addormentati, si alzò e se ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo
seguì. Giunto al Liceo si lavò e, come al solito, trascorse il resto della
giornata, poi verso sera se ne andò a casa a riposare. Educazione
guerriera Il filosofo G., voce narrate dell'educazione fascista scriveva:
"La possibilità, la necessità della lotta armata è immanente alla
coscienza nazionale, è presente in ogni momento di questa. E non c'è dunque
educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia ache educazione
guerriera."Una delle caratteristiche fondamentale – e forse la piu nuova e
significative – che la scuola italiana e andata gradatamente acquistando e che
sta per trradursi in aao nella piena chiarezza e precision delle idee direttive
e della organizzazione tecnica, e l’impronta guerriera. Nel dominio
dell’educazione, in cui tutta la vita di un popolo si riflette e da cui insieme
trae alimento e vigorose affermazione, si fa valere, cosi, quell’attuarsi
categorico della coscienza nazionale, che e la missione del Fascismo nella storia
d’Italia. La coscienza militare, lo spirito guerreiero, non e qualcosa di
diverse della coscienza nazionale; bensi costituisce con questa un duplice
aspetto della elevazione dell’individuo al disopra del bene proprio
particolare, per attuare le ragioni ideali della vita: un duplice aspetto in
quell concetto della vita come missione, onde l’individuo perisce nelle sue
forme superficiale e caduche e si sostanzia de realta universal ed eterna. Al
dispora della nazione non esiste, invero, non puo esistere una organizzazione
che equamente diriga e governi l’atttivita dei singoli gruppi sociali-nazionale
e instauri, attraverso la composizione dei contrasti, un armónico equilibrio. La
possibilita, la necessita della lotta armata e immanente alla coscienza
nazionale, e presente in ogni momento di questa; e la coscienza di essa e la
preparazione dell’animo atto a combatterla sono; diremmo quasi, una seconda facia
della coscienza nazionale. E non c’e dunque educazione veramente, vigorosamente
nazionale, che non sia anche educazione guerriera. Ma non basta. Il compito
specific dell’educazione guerriera, la preparazione alla lotta armata, ha un
suo proprio carattere – in connessione con la natura e le esigenze di tale
lotta – per cui non e soltanto il riflesso o, direbbesi, l’ombra
dell’educazione nazionale, ma da questa in certo modo si distacca e su essa
reagisce, aumentandone e integrandone il valore; e aumentando e integrando,
inoltre, il valore anche dell’educazione generale. La preparazione alla lotta
armata e in vero preparazione: 1) alla rinunzia piu complete al proprio io
particolare; poiche si tratta di ninunzia alla vita, il primo ed il massimo dei
beni e da tutti presupposto; 2) alla rinunzia – sia pure momentanea e quale
mezzo a una superior affermazione – anche alla propria personalita spirituale,
mediante l’obbedienza pronta ed intera: poiche la lotta e azione e nulla v’ha
di piu dannoso e folle che discutere quando e il momento d’agire. Fornisce
quell’agilita e pronezza di movimenti e quella resistenza alle fatiche e forza
muscolare, in cui la lotta armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali. Non
solo; per il riscio che e inerente a molti esercizi ginnastici, anche si
rifugga dale acrobazie – con le quali si sarebbe fuori dal dominio educativo –
essa e buon addestramento dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un
contenuto per ricchezza ed importanza infinitamente superior a quello
dell’educazione fistica; ma include questa necessariamente dentro di se.
Giovera in ultima accentare agli sports, in quanto non significhino
virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita fisiche prese come fine a se
stesse, ma si dispongano nel Quadro generale dell’educazione quale stimolo allo
sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono il naturale sbocco dell’educazione
fisica, o meglio l’educazione fisica nella pienezza della sua attuazione;
poiche accentuano il momento del rischio e del consequente necessario dominio
di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al valore degli sports in ordine
all’educazione guerriera. Questa ha il suo fondamento in un mondo ideale che a
quelli e compiutamente estraneo; e si riferisce ad una condizione di cose in
cui ben altro sir ischia che non qualche slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe
non attende il plauso, ma si vota sereno e deciso al sacrifizio che, anche,
rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords: il fedro, sull’amore, metafisica
dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi dell’amore, dialoghi sull’amore,
sul bello, l’uno e i molti, unum et multa – the one and the many – Plato –
Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears, “Universals” in Flew, Rosmini, Bruno,
ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo, idealismo critico, dialettica
dello spirito, Renouvier, educazione guerriera, Sparta, Platone, Siracusa,
dorio, guerriero, sacrifizio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gallio:
la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Giunio Gallio – An orator
with a reputation for his knowledge of philosophy. He adopted Lucio Anneo
Novato, the elder brother of Seneca.
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