Grice e Gracco: la
ragione conversazionale e il concetto di stato -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A Roman statesman and reformer, a
friend of Blossio di Cuma. He may have followed the Porch himself. He was
killed by a mob. He was influenced by Blossio di Cuma. Tiberio
Sempronio Gracco.
Grice e Gramsci: la ragione conversazionale contro
Croce – partito socialista italiano – il comune – l’élite – Mosca -- filosofia
italiana – filosofia sardegna -- Luigi Speranza (Ales). Filosofo italiano. Filosofo sardo. Ales, Oristano, Sardegna. Grice:
“Some Italians don’t consider Gramsci Italian on account of the fact that
Gramsci is not an Italian last name!” Fu
tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo
piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi.
In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la
libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni
di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei
suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista,
analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il
concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri
valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di
saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le
classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano
originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in
Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti
d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo G., sposato con Blajotta,
possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari,
delle terre poi ereditate da G.. Questi sposa Fabbricatore, e dal loro
matrimonio nacque a Plataci G., che intraprese la carriera militare nella
gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposa
Gonzales, figlia di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu
Francesco, il padre di G. Le origini albanesi sono conosciute dallo
stesso G., che tuttavia le immagina più recenti, come scrive alla cognata
Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di
origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra, ma si
italianizza rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente
questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due
mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi è
albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio
Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare
subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del
registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti,
conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune
terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che
consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto
di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza
elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco G. fu
trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce secondo il
registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di
Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San
Pietro nasce il giorno dopo, e viene
registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu
trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero
gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott,
una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli
impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza;
i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e
anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute
delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai
medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.
Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità
in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve
valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del
sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema
miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a
pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo
camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia
a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il
massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al
ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo
all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di
Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo
«registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi
doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre
mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in
un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in
conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del
catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli
abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel
Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti
professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque
classi». Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a
prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico
Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via
Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme
con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino,
lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo
sardo. La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire,
perché inizialmente G. nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma
riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi
impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe
potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito
che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici,
né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline
umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento
ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la materia. Nel
frattempo, il giovane G., iniziò a seguire le vicende politiche. Il fratello
Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, divenne cassiere
della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una
grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva
a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche
un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei
giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili
e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando
folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva
Il Marzocco e La Voce di Prezzolini,
Papini, Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di
ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e
Salvemini». Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di
lettere italiane del Liceo salì Garzia, radicale e anticlericale, direttore de
L'Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in
Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero
di Luzzatti. G. instaurò con Garzia un buon rapporto, che andava oltre il
naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale,
ricevette la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie
di pubblico interesse. Ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo
scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel
paese di Aidomaggiore. In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è
conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il
commercio, non per la civiltà la Rivoluzione francese ha abbattuto molti
privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una
classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i
privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della
natura, possono essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui
chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione
all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia
delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze sociali,
l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali venivano
compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi
operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori
salariati. Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una
grande città del Nord: il conseguimento
della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un nove in
italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Il
Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli
studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna
equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino. Fu uno
dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a
Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo
55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100
avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo
posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. Si
iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano
nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve
pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora
Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce,
della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i
pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone
per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo
non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i
piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima
gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte
sua, non se la passava di certo molto meglio. L'Università degli Studi di
Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Einaudi, Ruffini,
Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di amicizia con
Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Cosmo, contro il quale indirizzò però un
articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in
carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo
pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande
sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che
è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con
molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado
divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in
tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in
Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno
può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro
si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla
cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si
ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca
contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima
volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse
delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base
elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le
forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico
da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti"
si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. G. scrive di
quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista
torinese, il quale affermò che G. «era stato molto colpito dalla trasformazione
prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle
elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro
della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece
definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino, andando ad affittare
una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento
nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito
socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il
contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che
mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per
ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul
letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo».
Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli
esami nella sessione di primavera. Prese anche lezioni di filosofia da Pastore,
il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già
mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi voleva rendersi
conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione come fa
il pensare a far agire come le idee diventano forze pratiche». G. stesso
scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di
pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del
secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da
villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il
superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo come il
Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che aveva le sue profonde radici
nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». L'iscrizione
al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora
frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti,
Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni di partito mentre gli ultimi
nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo le nostre discussioni,
intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel
regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che ha dichiarato la propria
neutralità nella Prima guerra mondiale in corsoneutralità affermata anche dal
Partito socialistascrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese
Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità attiva e operante in risposta a
quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di Mussolini Dalla neutralità
assoluta alla neutralità attiva e operante, senza però poter comprendere quale
svolta politica stesse preparando l'allora importante e popolare esponente
socialista. Sostenne quello che
sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università; il suo
impegno politico si fece crescente con l'entrata in guerra dell'Italia e con il
suo ingresso nella redazione torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte
delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa
Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre
stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le
redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell'Avanti!, che
comprendeva la rubrica della cronaca torinese, Sotto la Mole; in entrambi i
giornali Gramsci pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed
estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica
politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica
teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo «tante
righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma
esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» e di aver
contribuito «molto prima di Tilgher» a rendere popolare il teatro di
Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da mettere insieme un volumetto di
duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: Pirandello
era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Della commedia di
Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo,
di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo
binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di
approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in
una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la
caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia,
più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con
l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista
e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che
visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà «il prodotto migliore dell'energia letteraria
di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue
abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso troppo
spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude
retorica di una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità
inutile». Il fu Mattia Pascal, secondo G., è una sorta di prima stesura
del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica della vita, si è rinnovato
diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si riattacca ai drammi
satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte
figurativa vascolare è una vita ingenua,
rudemente sincera una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale
la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità
irresistibile prorompe da tutta la materia organica». Severo fu invece il
giudizio sul Così è (se vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in
sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a
rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un
significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice
fatto di letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una
verità né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha
accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita,
l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come
pedine della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da
solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui
mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua
formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce,
superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto
di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e
io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente
rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee,
che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato
governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di
rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa
del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani
«borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di
democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese,
mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed
essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista i rivoluzionari socialisti non possono essere
giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che
gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in
Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della
consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. G. è convinto
che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni
bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il
socialismo». G. nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni
obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi
«sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il
pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte
le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua
realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e
integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito
dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre. Anche in Italia
la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di
mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la
stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a
Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal
governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di
guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena
che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche
gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della
sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In
conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista
torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte
anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà
le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per
settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate,
finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La
rivoluzione contro il Capitale, firmato da G.: «La rivoluzione dei bolscevichi
è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione contro il
Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi,
più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che
in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si
instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse
neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua
rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare
gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto
svolgersi secondo i canoni del materialismo storico se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni
del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non
sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una
dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del
pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli
ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al
socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare
tanto la visione di G. ancora idealistica, volontaristica, dell'azione
politica, quanto la critica che di fatto G. rivolgeva ai dirigenti socialisti
europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo
meccanicistico. Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti
torinesi del partito, G. lavora unicamente all'edizione piemontese
dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni
giovani colleghi: Amoretti, Leonetti, Montagnana, Platone; ma egli e altri
giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano
ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove
nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione
nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre
riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura
proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un
orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando
pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero
dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della
rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu
l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi
concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale
letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per
"cultura" intendeva "ricordare", non intendeva
"pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose
logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura
astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline
orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei
suoi primi numeri». G. intende invece definirlo su posizioni nettamente
operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle
fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica,
sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale;
il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7
della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna divenne
problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come
problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della
"libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci
seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono
l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se
stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli
dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore:
"Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?".
Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture
intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori,
elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle
Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano
elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano
essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto
degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma
porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della
gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT
furono eletti i primi Consigli. La Confindustria, nella sua Conferenza
nazionale, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro
attinga in se stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e
illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De
Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere
all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue
esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia
sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne
furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione
degli industriali metalmeccanici rispose con la serrata di tutte le fabbriche
torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino e in alcune province piemontesi, mentre il
governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli
ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei
maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai
furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla. Lo
sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in
cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla
costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i
lavoratori torinesi; l'8 maggio G. pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua
relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza
e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione
dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che
desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa
nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari
terrieri, appoggiati dallo Stato, G. rilevava che «le forze operaie e contadine
mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli
organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere
assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e
internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste da
spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere
non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo
generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito socialista
è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare,
che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese».
Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di omogeneità nella
composizione del partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e
«opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo:
«mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione
del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel
giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e
hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro
posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non realizza l'unità e la
simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo
burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente
tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche ».
Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione
di quanto sta avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente,
non partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui
tesi non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non
stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato
e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista
acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo
borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta
per l'avvenire della società comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere
eliminati dal Partito ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e
internazionale deve essere immediatamente commentata per trarne argomenti di
propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie le sezioni
devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative,
nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti l'esistenza di un Partito
comunista coeso e fortemente disciplinato [.è la condizione fondamentale e
indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet il Partito deve
lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico
sia posta in modo esplicito ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che
chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa
dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e
dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso
dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di
Bologna, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta
politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra. In Italia, le
rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non
trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a
seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli
operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le
fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema
iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle
trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano
occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo
rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di
Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di
fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande
fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario. Giolitti
Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della
Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide
riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi
ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito,
che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la
proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del
paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un
accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla
fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche. Quell'esperienza
dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione
degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano
organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del
Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista
crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati
dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili,
liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare
contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di
dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro
fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro
positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di
organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà». NSi riunì
a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e
Bordiga, Repossi, Fortichiari, G., Bombacci,
Misiano e Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione
comunista del Partito Socialista. La fondazione del Partito
comunista Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro
San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione
italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli
astensionisti (Bordiga, Grieco, Parodi, Sessa, Tarsia e Fortichiari), dagli
ex-massimalisti (Bombacci, Belloni, Gennari, Misiano, Marabini, Repossi e
Polano) e dagli ordinovisti G. e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo,
divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste
e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto
deputato alle elezioni: G. non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche
la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti
elettori. Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare
il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già
malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di
Mosca. Qui conobbe una degente russa, Schucht, membro del Partito, figlia di
Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva
vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Julka che, violinista, aveva abitato diversi anni a
Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia. Giulia, ventiseienne, è
bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il
primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al
giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada
attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare
tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo
grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi
hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso
cattivo e torbido. E quell'immagine di
lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di
distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco
d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto
a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi
brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così
pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di
quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica
medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La
moglie di G e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a
salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a
qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci
guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le
contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano
rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di
Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è
allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926
ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la
dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si
riscontrano critiche al regime sovietico. Nel III Congresso
dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria
rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria,
si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la
maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di
Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. G. vi
adere ma scrive di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano
presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale
comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così
unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse
fare ad Amadeo questa concessione senza nuove crisi e nuove minacce di
scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale,
di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu
posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista
degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di
costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario
a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia e, a
Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: G. resta
così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a Vienna per seguire più da
vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere
con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino
all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di costruire il partito ed il
centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di
principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la
polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad
ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista
l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il
titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità
dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e
dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo
italiano nella lotta contro il fascismo. Alle elezioni venne eletto deputato al
parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare.
Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei
dirigenti delle Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano
dipendenti di un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici
discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi
del partito. Nel convegno si affrontò il caso Bordiga, il quale aveva
rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza
dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze
politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre
correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di
Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della
grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il
rivoluzionario napoletano godeva nel Partito. Il 10 giugno un gruppo di
fascisti rapì e uccise il deputato socialista Matteotti; sembrò allora che il
fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni
percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea
sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione
dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia, che non
venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi
ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. G. avanza al «Comitato dei
sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo
sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal
«Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo G., non aveva alcuna
volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e
quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti
Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, G. crede che la caduta del
regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è
riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle
classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi
consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito,
il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola
impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si
è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato
industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un
abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione
dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e
politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa
nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza
nella zona industriale. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella
ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio
dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni
un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel
Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si
ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la
maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le
opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette
la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un
normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del
dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della
vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla
storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che
nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché
l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in
cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i
fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una
delle tante viene aggredito anche Gobetti. E quando il militante comunista
Corvi uccide in un tram il DEPUTATO FASCISTA Casalini, per vendicare la morte
di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose
vanamente che l'opposizione aventiniana si costituisca in Antiparlamento, in
modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento
di soli fascisti; ipartì per la Sardegna, per intervenire al Congresso
regionale del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò
dalla madre, che non avrebbe più rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò
in Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per
commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; vi rientrò anche tutto il
gruppo parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana.
Il quotidiano di Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Rossi, già capo
ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è
successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la
complicità del duce» e MUSSOLINI, in un discorso rimasto famoso, a confermare
quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il
via a una nuova azione repressiva. In febbraio G. anda a Mosca, per stare
con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia tenne
il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito MUSSOLINI,
ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo che «è
divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e
ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel viso: conosciamo
quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro
ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato.
Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. MUSSOLINI è il tipo
concentrato del PICCOLO BORGHESE ITALIANO, rabbioso, feroce impasto di tutti i
detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli
stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il
dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica».
Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un
disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti:
continuamente interrotto, G. respinse il pretesto che il governo si era dato,
«perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una
tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di
grandi organizzazioni operaie e contadine». E ironizzando: Qualche
fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri,
di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa
rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere,
senza che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte
migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione
degli insegnamenti marxisti». Conclude: «Voi potete conquistare lo Stato,
potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di
esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere
sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete
che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin
oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire
al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le
forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido
sogno non riuscirà a realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il
III Congresso del Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori
responsabili, Bordiga, G., Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi
era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era
stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale,
Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con
Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia
nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e
proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della
maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale
omogenea e organizzata rispetto alla PICCOLA BORGHESIA URBANA e rurale, che ha
interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che
per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la
società.» Secondo G. il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga,
l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della
piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il
potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione
della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori
del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società
italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria,
una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due
forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del
Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito anda
bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una
"disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità dell'esistenza
delle frazioni. Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza (oltre
il 90%) ed elesse il Comitato centrale con G segretario del Partito. Da allora,
la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo influente nel Partito.
Le Tesi di Lione, realizzate da G., ribadirono con una certa durezza le
posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base
sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia
e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala
destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come
tale deve essere smascherata». In questa relazione venne sviluppata la
cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo una funzione
predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale communista. La
organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita
del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale
non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve
regnare nelle sue file. La centralizzazione e la compattezza del partito
esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano
carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo
profondamente dai partiti socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si
era trasferito in via Morgagni ebbe il tempo di passare alcuni mesi con la
famigliala moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache
abitano tuttavia in un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste,
superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena
libertà d'azione e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili
aggressioni; a Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano
Pilati, la stessa casa di G. era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20
ottobre. Mentre gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via
dell'emigrazione Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate
squadriste, Amendola, Salveminiun processo farsa condanna a una pena simbolica
gli assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci.
La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e
il mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio
Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto. Giustino Fortunato
Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò
a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla
quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico
italiano dai moti dei contadini siciliani, seguito dall'insurrezione di Milano
repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia
italiana, impersonata politicamente da Giolitti, di fronte all'insofferenza
delle classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord,
piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare
una politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di
favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del
protezionismo doganale, unita a concessione di libertà sindacali. Di
fronte alla persistenza dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i
dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini
cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di perseguire una politica di
opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi
ultimi in un'alleanza con la classe operaia. La società meridionale,
secondo G., è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini
poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano
la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in
città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il
lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini
poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a
loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con
personalità del valore di Croce e di Fortunato e sono, con quelli, i principali
e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario. Croce
e Fortunato sono, per G., i reazionari più operosi della penisola, «le chiavi
di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi
figure della reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe
la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del
consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini
poveri con il proletariato urbano. Tuttavia G. non ha un'opinione positiva sui
contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina
meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho
mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e
non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho
dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli
qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono
conservare il loro onore e la loro dignità di uomini» (Antonio Gramsci,
Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza
di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata
da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale
favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla
rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un
solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il
dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del
Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in
frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito
comunista tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su ispirazione
di Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul
carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la
carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio
politico, G. scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del
Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che
potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni,
non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i
principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se
essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a
tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di
essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie
di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi
degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il
partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare
che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli
aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che
i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel
quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del
fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente
«dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe
«dominata» G. appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile
fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la
quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli
del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo
elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei
pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella
pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della
socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato
occidentale di organizzarsi in classe dirigente». G, conclude esortando
all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito
potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A
loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale
situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato
centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e
sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello
di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie
mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere
disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito
unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata
condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti,
allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le
ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le
responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità
di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora
in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai
difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per
approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale
comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, MUSSOLINI subì a Bologna
un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione
poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto
per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia. Il governo
sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. In
violazione dell'immunità parlamentare, G. venne ARRESTATO NELLA SUA CASA e
rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo è dichiarato
decaduto, insieme agl’altri deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a
Ustica, dove ritrova, tra gli altri, Bordiga, è detenuto nel carcere milanese
di San Vittore. Qui riceve la visita del fratello Mario, le cui scelte
politiche sono state opposte alle suegià federale di Varese, ora si occupa di
commercio e, soprattutto, quella della cognata, la persona che si manterrà
sempre, per quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le
lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: è
anche fatto avvicinare da due agenti provocatori prima un tale Romani e poi un
certo Melanima senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i
quali Terracini, Scoccimarro e Roveda, inizia finalmente a Roma. MUSSOLINI ha
istituito il TRIBUNALE SPECIALE FASCISTA. Presidente è un generale, Saporiti,
giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l'avvocato Buccafurri
e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in uniforme. Intorno all'aula, un doppio
cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la
baionetta in canna G. è ACCUSATO D’ATTIVITÀ COSPIRATIVA, istigazione alla
guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Il pubblico
ministero Isgrò conclude la sua requisitoria con una frase rimasta famosa. Bisogna
impedire a questo cervello di funzionare; e infatti G. venne condannato a la reclusione.
Raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trova
in carcere a Milano, è intenzionato a occuparsi intensamente e sistematicamente
di qualche soggetto che lo assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore. Il
detenuto 7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e inizia la stesura
dei suoi quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza
di argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri
ancora svolti solo in parte. Caratteristico è il suo modo di lavorare. Quasi
tutti i giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, riflette
sulle frasi da scrivere e poi si china sul tavolino, scrivendo senza sedersi,
un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare.
A fare da tramite tra G. e il mondo esterno, e in particolare con SRAFFA e
tramite questi col Pcus e il PCd'I, è la cognata Schucht, essendo la moglie di
G. tornata in Unione Sovietica. Intanto, il Congresso dell'Internazionale
comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la social-democrazia,
che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi di Stalin il
quale, liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche l'influenza di
Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era rimasto il suo
principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento dell'Internazionale,
riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo ndovevano adeguarsi i Partiti
nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il Partito comunista
d'Italia si adegua alle scelte dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in
settembre e in successione, ma con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi,
ifu la volta di Leonetti, Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei
"colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette
testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta»
politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un
rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al
Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della
necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già
stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati
diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra parte,
senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio
movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe
operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene
conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di
sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile
comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito
una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo
al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo
attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li
porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità
della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve
improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario.
Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola
d'ordine della Costituente». Ma l'azione del partito deve essere intesa a
svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe
lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione
proletaria». La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa
politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente
una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è
difficile considerare tale linea politica come «social-democratica», durante le
discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che
egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni
erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano
apparire in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito
comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del
PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri
politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la
scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le
tristi condizioni di salute che lo stroncavano. G., oltre al morbo di Pott di
cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così
ottenere una cella individuale; cerca di reagire alla detenzione studiando ed
elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia
le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ha un'improvvisa
e grave emorragia. Anche la moglie, in Russia, è sofferente di una seria
forma di depressione e rare sono le sue lettere al marito che, all'oscuro dei
motivi dei suoi lunghi silenzi, sente crescere intorno a sé il senso di un
opprimente isolamento. Scrive alla cognata: Non credere che il sentimento di
essere personalmente isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito
il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia
vita tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato
un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi
sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la
meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà.
Quando la madre muore, i familiari preferirono non informarlo. Ha una seconda
grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni
sul suo immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire,
pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più
così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma
significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna
riserva di forze. Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176,
prevede la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi
condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte,
fra gli altri, Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri
detenuti politici, ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di
Civitavecchia e poi nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in
camera e all'esterno. MUSSOLINI accolge finalmente la richiesta di libertà
condizionata, ma G. non rimane libero nei suoi movimenti, tanto che gli è
impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo teme una sua fuga all'estero.
Solo il poté essere trasferito nella clinica Quisisana di Roma, dove giunge in gravi
condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffre di
ipertensione e di gotta. Passa dalla libertà condizionata alla PIENA
LIBERTÀ, ma era ormai in gravissime condizioni. Muore d’emorragia cerebrale,
nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i
funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le
ceneri, inumate nel cimitero del Verano, sono trasferite nel cimitero
acattolico di Roma, nel campo Cestio. I quaderni del carcere, non destinati da
G. alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati durante la
reclusione. Sono definitivamente interrotti a causa della gravità delle sue
condizioni di salute. Sono numerati, senza tener conto della loro cronologia,
dalla cognata Schucht, che li affida all'Ambasciata sovietica a Roma da dove sono
inviati a Mosca e, successivamente, consegue Togliatti. Dopo la fine della
guerra i quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione
di Togliatti, sono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere
dal carcere indirizzate ai familiarii in volumi, ordinati per argomenti
omogenei, con i titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”; “Gli intellettuali e l'organizzazione della
cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo
Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”. I quaderni sono pubblicati Gerratana secondo
l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in volume
anche tutti i saggi scritti da G. nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne
L'Ordine Nuovo. Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire
che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la
politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale
politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia. Vi è distinzione
fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio della forza
repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a
liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi
affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima
di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali
per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se
lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere
anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo
il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più
a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i
problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo.
A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare concrete
soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare
dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati
sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze
sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un
momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovra-struttura
in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa
nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e
dunque tutto il «blocco storico», termine che indica l'insieme della struttura
e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro
riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e il Risorgimento in
particolare, rileva che la classe popolare non trova un proprio spazio politico
e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì l'unità
nazionale come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della
dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene
che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere
rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in
particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione.
Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere
capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne,
appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della
reazione aristocratica. Il partito politico italiano allora più avanzato è
il Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema
dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi
in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini
repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare
l'egemonia contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il Partito d'Azione
avrebbe dovuto legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino
specialmente per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse
classi rurali che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi
ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire
ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due
direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e
sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani
liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo
tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché
i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che
erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi
rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso
fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. Il Piemonte assunse
la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe
dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere
nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli
interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e
ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una
funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima
importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo
sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato
come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente
e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza
politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel
dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio”
e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto d’egemonia
si distingue da quello di dittatura” La dittatura uesta è solo dominio, quella
è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura del proletariato”
né espresse critiche significative al regime sovietico in Russia. Le
classi subalterne Courbet, Lo spaccapietre Le classi subaltern esotto proletariato,
proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesianon sono
unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo stato,
altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della
società civile dei singoli stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti
anche quando ad essi si ribellano. Il "blocco sociale",
l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da
industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia,
non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica
opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che
quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano
provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica
dell'intero sistema di potere. In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle
classi dominanti è ed è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla
conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere
l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici,
tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che
tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di
controllare. La Chiesa è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire
che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella
delle anime semplici, una lotta che ha fatto risaltare la capacità
organizzatrice nella sfera della cultura del clero che ha dato derte
soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo
così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei
semplici, sebbene esse appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli
"integralisti" ».Anche la dominante cultura d'impronta idealistica,
esercitata dalle scuole filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare
una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali,
tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non
ha nemmeno «entato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione
nell'educazione infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non
confessionali e atei, concedono l'insegnamento della religione perché la
religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia
non metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché
non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle
dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.
Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.
Annota in un Quaderno, che il folklore non
deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una
cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria
e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della
vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del
popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni
forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle
ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra
gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non
tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune,
ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica
realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per
l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi
alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni
a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra
intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per
mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un
blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che
conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e
morale della società. Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe
operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né
della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara
coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo
trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso
opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato,
accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso
una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo
dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della
propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una
determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva
auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza
significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché
per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste
organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate
nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni
Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per
superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola
dalla fine del Quattrocento. Il Principe di Machiavelli non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di
immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo,
del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e
diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente
esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la
nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una
situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme
di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e
non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a
Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha
fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la
«borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo
sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi
sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà
possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le
grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita
politica. Ciò intende MACHIAVELLI attraverso la riforma della milizia, ciò
fecero i giacobini nella rivoluzione francese. In questa comprensione è da
identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno
fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il
Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto,
ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il
partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà
collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è
l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si
manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un
laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i
rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente
necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un
elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla
disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente
organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza,
disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si
annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo
principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo
elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo
elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più
facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio,
che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo
fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i
principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina
ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e
sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del
regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non
c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn
si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente
della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista,
un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole
linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la
funzione dell’ intellettuale. Storicamente si formano particolari categorie
di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti
e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo
sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per
l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto
più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i
propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il
filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati,
filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre
modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di
intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il
vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e
momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla
tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza
la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale
emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare
alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo,
forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura
con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento.
Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui
si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del
consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della
popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società
politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello
Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del
gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia
sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle
grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal
gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale
che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come
lo stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali
tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito
politico, ancor più compiutamente e organicamente dello stato, elabora i propri
componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico,
fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti,
organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo
di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma
intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali
organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando
la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova
organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva
di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione
politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è
intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e
dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve
costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi
dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non
si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro
astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai
voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. In
molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini
«nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un
significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con
popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè
dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai
stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione
è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad
Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si
è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice
del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi
inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e
di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino
ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In
Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza
di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento
intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.
Fa eccezione, per G., il melodrama
verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in
Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico
icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana:
è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni
popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può
essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È
questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di
carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani
grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia
straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto
di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza
morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La
insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima
rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato
miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La
religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora
nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione,
tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono
rimaste famose le note di G. su MANZONI: lo scrittore più autorevole, più
studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere
elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere,
confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal
compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare
in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto,
Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno
vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni
è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione
di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito
evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi
popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di
condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo
tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono
popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in
alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso
in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il
Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il
popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista
dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa
espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare
la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che
interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che
entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che
prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima non
avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto,
nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà
letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio
privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è
la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della
vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle
opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti
rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in
ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire
in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti
morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale,
in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce,
che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro
affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella
serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori
culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra
una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e
la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e
pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria
marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve
fondere, come Sanctis fa, la critica estetica con la lotta per una cultura
nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia
della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli
scrittori si trovavano a operare. Non a caso, progettava nei suoi
Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani»,
dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà
Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi,
L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli
intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia
reazionaria con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente
confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai
dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo
supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono
-- l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile --
teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria
coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo
politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di
gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che
il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia;
tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti. La vecchia
generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.)
ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle
brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da
piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, da alla
borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i
confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il
movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e
combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale
che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio
italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità
nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale
di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di
dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla
comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità
dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del plusvalore. Per
Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto
al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in
realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la
differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della
forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx
deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria
del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché
allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una
constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di
educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla
solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come
storicismo, ossia, seguendo VICO (si veda), la realtà è storia e tutto ciò che
esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica
della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia
speculativa, di astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non
è la storia concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può
essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno
ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in
discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso
Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco
storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si
identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è
niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti,
ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro,
dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie
dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il paio con
quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era una
dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per
contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare
la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un
annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si
presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua
Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese
e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo
della grande rivoluzione che si iniziò in Francia, traboccò nel resto d'Europa
con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi
regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la
corrosione riformistica. Analoga è l'operazione operata da CROCE nella sua STORIA
D’ITALIA la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime
dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui
si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto in cui un sistema
etico-politico si dissolve e un altro si elabora in cui un sistema di rapporti
sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece
Croce assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o
etico-politico. Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore
di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel
vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era
destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa
concezione mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna,
incapace di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia. Anche
il manuale del bolscevico russo Bucharin, e La teoria del materialismo storico
manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico. La
sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza
storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo
evoluzionistico è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di
descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri
costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un
tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società
umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede
che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla
base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col
passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e
ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La
comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile
utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del
Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro
provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica
che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx
aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non
esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se
prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il
rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra
struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che
operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria,
la prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente
economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè
l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza
degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e
dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia
l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà,
in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove
iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così il punto di partenza di tutta la filosofia
della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono
risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di
indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della
realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina
della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della
politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia
integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo
mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali)
sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie
società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che
subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova
dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il
vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva,
esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato
dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si
trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà
oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica dal momento
che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo
la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la
conoscenza e la realtà stessa sono un divenire. Come potrebbe esistere
un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività?
La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità
dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze
naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre
alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre
umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente
soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per
tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario;
ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle
contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono
la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è
dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e
fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del
genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza
ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione
concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La
formazione linguistica di G. inizia durante gli anni universitari a Torino con
la frequentazione delle lezioni di BARTOLI (si veda). G. apprende che LA LINGUA
è un prodotto sociale e che non può essere studiata senza tenere conto della
storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di
una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici della
popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le teorie apprese da
Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo
all'ideologia tedesca di Marx, dove Marx afferma che il tessco, il tedesco, come
la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli istituti sovra-strutturali,
cioè al mondo dell'organizzazione politica e giuridica della società. Le più
interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni
del carcere e riguardano da una parte la questione delle lingue in Italia,
ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una LINGUA
per la nazione o tutta la poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento
linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale
importanza per G., perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle
grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di
superare ogni forma di particolarismo regionale. I Quaderni del carcere
sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di
caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della
lingua italiana e racchiudono le riflessioni di G. in merito alla cosiddetta
questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un
altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli
intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A
tal proposito G. scrive: mi pare che, intesa LA LINGUA come elemento della
cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della
nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e
puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende
linguistiche italiane G. cerca dei termini di confronto con altri paesi europei
come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima volta
nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere
politico-istituzionale, IN ITALIA il volgare appare per la registrazione di
documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche. L’origine della
differenziazione storica tra ITALIA e Francia si può trovare testimoniata nel
giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla
storia (il popolo-esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati
tra i discendenti di Carlo Magno. Il popolo-esercito garantisce giurando in
volgare, cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una
funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come
elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei carolingi di
appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per
comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ha la
monarchia come fattore nazionale. IN ITALIA i primi documenti di volgare sono
dei GIURAMENTI INDIVIDUALI per fissare la proprietà su certe terre dei
conventi, o hanno un carattere ANTI-POPOLARE. Traite, traite, fili de le putte.
Quaderni del carcere, Gerratana, Torino, Einaudi. In Francia i gruppi dirigenti
si rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia
di cui parla G. è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche
come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi una propria civiltà
statale integrale, in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e
governanti. Il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo
giuramento. Ricorda nei suoi appunti come IN ITALIA l'uso del volgare si
diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di DOCUMENTI
PRIVATI, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione di opere
letterarie: in particolare, il volgare toscano, LINGUA DELLA BORGHESIA, ottiene
un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze esercita una EGEMONIAculturale,
connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria. Bonifazio dice che i
fiorentini sono il quinto elemento del mondo. C'è uno sviluppo linguistico
unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi
scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano
diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata
storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione della lingua. I
promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non scrivono più
nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non intrattengono più
nessun rapporto, nella visione di G. essi “vengono assorbiti dalle classi
reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici. In questo
senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione graduale del volgare toscano
su scala nazionale, occasione compromessa soprattutto dalla frammentazione
politica della penisola e dal carattere “elitario” del ceto intellettuale
italianio. Affronta con maggior vigore la questione delle lingue in relazione
al periodo post-unitario. Nella seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per
gran parte dialettofono, mentre La LINGUA DELLA NAZIONE venne usata solo a
livello letterario e come lingua dell’istituzioni. La scarsa diffusione di una
lingua per la nazione testimonia la frammentazione politica e culturale della
popolazione italiana. Questo fenomeno venne avvertito come un problema
politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze democratiche come Manzoni.
Nella sua ricostruzione storica G. scrive che “anche la questione delle lingue
posta da MANZONI (si veda) riflette questo problema, il problema della unità
intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato nell'unità della
lingua. Eppure, sebbene G. riconosca a MANZONI di aver compreso la questione
linguistica italiana come una QUESTIONE POLITICA e sociale, si distingue da lui
nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante il suo
apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di confrontare le
posizioni del Manzoni con quelle d’ASCOLI (si veda), dell’Archivio Glottologico.
Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello
fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di
origine toscana, ASCOLI concepiva la nascita di una lingua nazionale come il
frutto di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica. Secondo
ASCOLI l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro
irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui
provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo,
stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici,
ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico
e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza,
il suo particolare idioma. Per ASCOLI, una LINGUA NAZIONALE altro non può e non
deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte
coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di
quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi
stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la
Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica
di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia
attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo
in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal
vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa
civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la
Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha
naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si
commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è
necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci
ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di
formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria
avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere
consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di
intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non
bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno
tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata
lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento
organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere
questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di
irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale
linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili
alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali.
Terzo, gli scrittori d'arte e quelli
popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto,
le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti
di conversazione tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti.
Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi, dai dialetti più
localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così
il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la
Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per
tradizione, a scuola, gl’insegnanti introducono gli alunni allo studio di una
lingua attraverso la grammatica normativa. G. definisce la GRAMMATICA
MORFO-SINTASSI normativa come una fase esemplare, come la sola degna di
diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in
lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le
riflessioni gramsciane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto
con la riforma della scuola realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma,
in linea con l'impianto idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della
lingua della nazione nelle classi elementari si basasse su quello chi Gentile
chiama l’espressione viva o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata
questa come una disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di G. il metodo
apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere classista
o elitista, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte
sono avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli
scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare
realizzata esclusivamente in dialetto In questo senso la grammatica normativa si
presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo
a tutti la conoscenza della LINGUA della nazione. Secondo G. la
conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è
fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato dialettofono non
può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi
un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali
tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di
comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al
suo sistema, la comunicazione di un contenuto culturale universale,
caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. G. presta
attenzione anche alla LINGUA DELL’IMPERO ROMANO. Espressa in più occasioni che
lo studio del LATINO è particolarmente utile nella formazione filosofica, in
quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente.
Contesta il nazionalismo degli studi e critica ripetutamente gl’intellettuali
che, durante la grande guerra, chiedeno che fossero messe al bando le edizioni
dei testi romani e la grammatica latina compilate DA AUTORI TEDESCHI! Anche nei
Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca
della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase
della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento
"disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però,
sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto
essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma
necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale. Scrive
in un Quaderno: Bisogna sostituire IL LATINO e il greco come fulcro della
scuola formativa e lo si sostituirà, ma non è agevole disporre la nuova materia
o la nuova serie di materie in un ordine didattico che da risultati equivalenti
di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo
fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo
studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai discenti)
disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve
essere formativo, anche se istruttivo, cioè ricco di nozioni concrete. MACHIAVELLI
influenza fortemente la teoria dello stato di G. Marx, filosofo, storico,
critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels
Lenin, Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la
principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto
nesso fra la storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il
principio dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e
sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria
sull'interazione fra masse ed élite. CROCE — liberale italiano, filosofo
anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica
attenta e approfondita. Pensatori influenzati da G. Gramscianesimo. Zackie Achmat
Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio Angioni Michael
Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Bhabha, Gordon Brown Alberto Burgio, Butler
Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky Cirese Costa Cox
Benoist Biagio de Giovanni Martino, Eco Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin
Eugene D. Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris
Harman David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo
Jaar Bob Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini,
Pigliaru, Pira, Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward
Saïd Ato Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson
Giuseppe Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein
Eric Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto
Matteotti, regia di Vancini, G. I giorni del carcere, regia di Fra, G., regia
di Maielloserie TV, G., film in forma di rosa, regia di Gabriele
Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e
terribile, regia di Maggioni, Perria e Laura Perini. G. nel teatro Compagno G.,
di Boggio e Cuomo, regia di Boggio, G. nella musica Quello lì (compagno
Gramsci), canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi.
Canzoni di morte. Canzoni di vita, Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung
contenuta nell'album Pietre della mia gente Nino, canzone dei Gang contenuta
nell'album Sangue e Cenere G., il teatro e la musica È nota la passione di G.
per il teatro e per la musica, che si può leggere nelle lettere scritte a
Tania. Egli ha scritto circa il melodrama “verdiano” che per lui segnava
l’apertura dei teatri al pubblico, svolgendo una funzione conoscitiva,
pedagogica e politica in senso generale. Per Gramsci l’opera diviene l’arte più
popolare e i teatri aperti i luoghi dove si esercitava parte del conflitto
politico. Una frase quasi ironica di Gramsci da citare, per quanto
riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia: “siccome il popolo non è
letterato e di letteratura conosce solo il libretto d'opera ottocentesco,
avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle sue lettere si può
leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli sostiene che questa
musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e aveva creato un vero
fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione meridionale, in Lo Stato
Operaio, Opere, Lettere dal carcere,
Torino, Einaudi, premio Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I
quaderni dal carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Croce (Torino,
Einaudi); “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi,
Il Risorgimento, Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo
stato moderno, Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato
e presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti
giovanili. Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e
fascismo. L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista.
Torino, Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo,
Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R.
Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci,
Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla
situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di
Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano,
Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione
dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La
guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma,
Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del
Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia
e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti
Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La
nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa
pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla
produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito
comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori
Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo,
Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano,
Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano,
Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino,
Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato
critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e
folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e
dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi
politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla
fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni G., Scritti
sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,
I consigli di fabbrica, Milano, Amici
della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze,
Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino,
Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove
lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di SRAFFA (si veda), Roma,
Editori Riuniti, Forse rimarrai lontana. Lettere a Iulca, Roma, Editori
Riuniti, Gramsci al confino di Ustica.
Nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue
idee nel nostro tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere
in parte inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma,
Delotti, Il giornalismo, Roma, Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una
preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola
interna di partito, Napoli, Laboratorio politico, Scritti di economia politica,
Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi, Disgregazione
sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo
ladro. Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro
la legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino,
Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica,
Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma,
Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare
l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria
familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti
rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano,
Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, Epistolario, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Antologia, Antonio A. Santucci, prefazione di Guido
Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro lancia bombe nei
cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione, Mimesis Edizioni. La
taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione, NovaEuropa Edizioni,.Note
Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci, Marmilla Cultura, International
Gramsci Society, su international gramsci society.org. Genealogia dei G., su albanianews. Manias, Ma quando è nato G.?, Marmilla Cultura, Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi,
Marmilla Cultura, Così Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera
dal carcere alla cognata Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero
risuscitato quando lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a
una Madonna e perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi
rimproverava aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita» Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque
doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito
rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci,
in Fiori, Lettera a Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non
eccedere nelle sue preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera
prosegue infatti: Ho conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della
vita e me la sono sempre cavata, bene o male
Lettera a Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al
padre: gli scrive di essere «proprio
indecente con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi
non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, che «per
non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi» Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza
della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato
in G., Scritti politici G., Dizionario
di Storia, Treccani [«io pensavo allora
che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare
i continentali". Poi ho conosciuto la classe operaia di una città
industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che
avevo letto prima per curiosità intellettuale. Cfr. G., lettera a Schucht, in
A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola laboratorio, La Nuova Sardegna G. Lettere. Progettando, in carcere, uno
studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla
cognata Tatiana, ricorda come «uno dei maggiori rimorsi intellettuali della mia
vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli
dell'Torino, il quale è persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare
definitivamente i neo-grammatici della linguistica. Tuttavia già l'economista
Sen avanza l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Wittgenstein
nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal carcere. In G.
and Wittgenstein: an intriguing connection, Pipero aggiunge nuovi elementi che
dimostrano il collegamento fra G. e Wittgenstein TRAMITE SRAFFA. Infatti il
filosofo viennese venne a conoscenza di un quaderno, grazie proprio al suo
amico SRAFFA (si veda) che conosce a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa G.
ricorda ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a
causa di quell'articolo che fa piangere come un bambino e stette chiuso in casa
il Cosmo per alcuni giorni, essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a
Berlino, dove il professore è segretario. Il Cosmo mi si precipita addosso,
inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché!
Tu capisci perché! È in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fa capire
quanto dolore gli avessi procurato e come egli intende l'amicizia per i suoi
allievi di scuola. Lettera dal carcere a Schucht In Fiori, In G. Scritti politici, Davico. Lettera dal carcere a Schucht Lettera dal
carcere a Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note sulla
rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in G., I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano,
La rivoluzione contro il Capitale, nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva a
Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata
dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici. Per
salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione
scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze
vive del paese nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento,
allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della
società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx
ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di
partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso
della lettera alla Zasulič, che G. all'epoca non poteva conoscerne il contenuto.
Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, G., Ordine Nuovo,
G., ibidem Corriere della Sera, Archivio
Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen. PS, Ordine Nuovo, in Scritti
politici, Concluso con un ordine del giorno che prospettava la conquista
violenta del potere e la dittatura del proletariato Per un rinnovamento del Partito socialista,
ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso all'Internazionale
Comunista, invitando a espellere dal partito socialista l'ala destra
riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde
l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo dell'attuale
maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare».
Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La sposa mandata da Lenin Lettera, in G., Lettere Lettera dal carcere. Un
profilo di Antonio Gramsci junior, su channelingstudio.ru. Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico
Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere a conoscenza di un
tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte di Nitti in
accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche la
conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in
persona: cfr. Link archivio del Corriere
Amendola, In Togliatti, In
Togliatti, Lettera di G. a Schucht, Lettera a Schucht, La crisi italiana, ne
L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, legislatura
del Regno d'Italia, Capo, in L'Ordine Nuovo, pubblicato successivamente col
titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, Capo, ne L’ordine Nuovo, in
Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso.
Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito comunista italiano, Spriano, Spriano,
Spriano, Spriano, G., Tesi di Lione,
Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, «Alcuni temi della quistione meridionale».
Stato operaio, Citato in Rosario
Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale,
Roma-Bari, Laterza, Antonio G., Cinque anni di vita del partito, L'Unità, Fiori, Spriano, Lepre, Il prigioniero. Vita
di G., Editori Laterza, Bari, La lettera, non datata, si ritiene sfu pubblicata
per la prima volta in Francia da Tasca. Su tutta la questione della lotta
interna nel partito comunista sovietico di questo periodo Spriano, cit., II, ca
3 e 5 G., Lettere Lettera di Togliatti a
Gramsci, Commissione di assegnazione al confino di Roma, ordinanza contro G.
(“Dirigenti e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini,
L'Italia al confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle
Commissioni provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori, In Fiori, Sentenza contro G. e altri
(“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione
alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e
antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di
consiglio emesse dal TRIBUNALE SPECIALE FASCISTA contro gli imputati di ANTI-FASCISMO,
Milano (ANPPIA/La Pietra),
Amendola142. Spriano, Lettera a
Tatiana Schucht, Fiori, Fiori, Fiori, Risoluzione
per l'espulsione di Amedeo Bordiga
Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit. Dalla biografia di Pertini pubblicata dal Circolo
Pertini di Genova. Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la
scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me
ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato G., un uomo
che ho sempre ammirato per il suo coraggio. A Turi incontro G. in un angolo del
cortile dove coltiva un'aiuola di fiori. È piccolo di statura e con due gobbe:
una davanti ed una di dietro. Mi avvicina a lui, mi presento, gli affermo che
vengo da Santo Stefano e che sono onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo
del lei e lo chiam0 Onorevole G. Lui si mette a ridere, dicendomi, Perché mi
dai del lei? Siamo ANTI-FASCISTI, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io
gli ricordo che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Dice
di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parla
di TURATI e TREVES in maniera che mi sembra offensiva ed io rispondo con durezza.
Il giorno dopo si scusa, dicendo che il suo è un giudizio politico, non ha
intenzione di offendere le persone, e capisce la mia reazione in favore di due
compagni che si trovavano in Francia. DA ALLORA DIVENTAMMO BUONI AMICI. Parlamo
a lungo insieme anche perché è stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro
lo considerano un traditore e chiedeno la sua ESPULSIONE DEL PARTITO, come poi
fecero anche con Ravera. In cella G. è perseguitato dai carcerieri. L’ordine di
NON LASCIARLO DORMIRE arriva direttamente da Roma. Io ando dal direttore del
carcere a protestare perché i carcerieri, OGNI VOLTA CHE G. SI ADDORMENTA, lo
svegliano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la
scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dico
al direttore che se la situazione non cambia, avrei scritto una lettera al
ministero. Il risultato è che G., GIÀ GRAVEMENTE MALATO DI TUBERCULOSI PUO
DORMIRE TRANQUILLO. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di
Turi a concedere a G. anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una
sedia. Così poterono nascere I QUADERNI dal carcere. La mia amicizia mi mette
in contrasto con il direttore del carcere e forse non è estraneo al mio
trasferimento a Pianosa. Lettera a Schucht, Lettera a Schucht, Cominciò a
circolare la voce secondo la quale G. in punto di morte si sarebbe convertito
alla fede cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso
religioso che l’ha inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto
della smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le
chiare argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu
riproposta da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di
prove testimoniali, la teoria della conversione di G. non è mai stata
avvalorata dagli storici. Cfr. S.Fio., G. e il sacerdote pentito, La
Repubblica, Il Vaticano: G. trova la fede, Il Corriere della Sera, Daniele,
Togliatti editore di G., Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento,
Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di CROCE Quaderni del
carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Note su MACHIAVELI, Gli intellettuali e l'organizzazione
della cultura, Quaderni del carcere, cLetteratura e vita nazionale, Il
materialismo storico e la filosofia di Croce, Rosiello, Problemi e orientamenti
linguistici nei saggi di G., Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A.
Gramsci, V. Gerratana, Torino, Einaudi, G., Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci,
Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, G., Quaderni del
carcere, Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', Gerratana, Torino, Einaudi, Rosiello, LINGUA
nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone, Leonardo, Cinque anni che
paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a ed, Carocci,, Fonzo, Bosi, Antonio Gramsci, su scuolalo
divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La passione
sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio letterario
Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma, Editori
Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Angioni, G. e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Aqueci, Il G. di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento AGON,
Rivista Internazionale di Studi Culturali, Linguistici e Letterari, Aqueci,
Ancora G. [cf. Speranza, “Ancora Grice”], Roma, Aracne, Auciello, Socialismo ed
egemonia in G. e Togliatti, Bari, De Donato, Badaloni e altri, Attualità di G.,
Milano, Il Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col
presente, Roma, Carocci, BOBBIO (si veda), Saggi su G., Milano, Feltrinelli,
Calamandrei e Calogero, La conoscenza di G. in Inghilterra. Una lettera di
Calogero e una nota di Calamandrei, L'Unità, Canali, Il tradimento. G.,
Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio, Carrannante, Sull'uso di
'galantuomo' in G., Studi novecenteschi,
Carrannante, G. e i problemi della LINGUA ITALIANA, in
"Belfagor", Chambers,
Esercizi di potere. G., Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese,
Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Clementi, Le
ceneri di G in Stalinismo e grande terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino,
Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia
Stato partito in G., Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, G. Una nuova biografia,
Torino, Einaudi,. Dubla, Giusto (cur.), Il G. di Turi, Testimonianze dal
carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, G. globale. Guida pratica agli
usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,. Fiori, Vita di G., Bari, Laterza, Fiori,
G. Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio Fonzo, Il mondo antico negli
scritti di G., Salerno, Paguro, GARIN, Con G., Roma, Editori Riuniti, Valentino
Gerratana, G. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, G. nel
cieco carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, G. jr., La storia di
una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. GRUPPI (si
veda), Il concetto di EGEMONIA in G., Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci
in Europa e in America, Roma-Bari, Laterza, Lepre, Il prigioniero. Vita di G.,
Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, Piparo, “I
due carceri di G.”, Donzelli, Roma, LOSURDO (si veda), G.. Dal liberalismo al
comunismo critico, Roma, Gamberetti, Manacorda, Il principio educativo in G..
Americanismo e conformismo, Roma, Riuniti, Michele Martelli, G filosofo della
politica, Milano, Unicopli, MONDOLFO, Da ARDIGÒ a G., Milano, Nuova Accademia, Mordenti,
G. e la rivoluzione necessaria, Roma, Riuniti, Onnis e Mureddu, Illustres.
Vita, morte e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi,
G. e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione
sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, G. e il blocco
storico, Bari, Laterza, Rapone, Cinque anni che paiono secoli. G. dal socialismo
al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, G. tra MUSSOLINI e Stalin, Roma,
Fazi, Angelo Rossi, G. da eretico a ICONA. Storia di un cazzotto nell'occhio,
Napoli, Guida editore, Rossi, G. in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli,
Guida editore, Santhià, Con G. all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, SANTUCCI,
G.. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino,
Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I, Torino, Einaudi, Spriano,
Storia del Partito comunista italiano,II, Torino, Einaudi, Spriano, G. e GOBETTI.
Introduzione alla vita e alle opere, Torino, Einaudi, Spriano, G. in carcere e
il partito, Roma, Riuniti, Stamboulis, Costantini, Cena con Gramsci, Padova,
Becco Giallo, Tamburrano, G.: la vita, il pensiero e l'azione, Bari-Perugia,
Lacaita, Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista
italiano Roma, Riuniti, Togliatti, Scritti su G., Roma, Editori Riuniti, Vacca,
G. e Togliatti, Roma, Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione
Istituto G. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When
Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when
Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so
relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’
and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire,
Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday evenings
– I had just been born on the wrong side of the track. So it was particularly
obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist! Perhaps he had
read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” egemonia della
filosofia del linguaggio ordinario – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Grandi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del progresso all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura
infinita – filosofia lombarda – filosofia cremonese – la scuola di Cremona -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cremona).
Filosofo italiano. Filosofo lombardo. Filosofo cremonese. Cremona, Lombardia. Grice:
“I like Grandi – and Grandy – for one, Grandi (if not Grandy) proves that
geometry is a branch of mathematics with his rose curve – a geniality!” – Figlio
di Piero Martire, ricamatore, e Caterina
Legati, compì i suoi primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi
nel locale Collegio dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero
camaldolese di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli
originari Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti. Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna
a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole”
al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (serie di G.)
a segni alterni di numeri può non convergere (serie di G.). Divenne membro
della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la curva
algebrica da lui chiamata rodonea per la forma che ricorda il rosone delle
chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide, Venezia, Savioni. Fu
il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis infinitorum”; “Trattato
delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum problematum”
(Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus
disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de momento gravium
in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la controversia
eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad exceptiones clari varignonii
libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum
plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli contactus” (Pisa, Bindi); “Del
movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze); “Relazione delle
operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini); “Trattato
delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni coniche
d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze, Tartini);
“Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di aritmetica
pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze, Giovannelli);
“Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva
rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo onore. G. Ortes,
Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre camaldolese matematico. Francesco
Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I have two ways to deal with ‘mean’:
‘no sneaky intention allowed, including this – (o) all intentions are open
ones, including this one – self-reference; or ‘optimal infinite’ potential
infinite/actual infinite – titular versus de facto. In any case, both are
better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say, “Schiffer and others,” it
should be pointed out that the first to show this was, of all people, my tutee
Strawson – Stampe and Patton came close! (I love them guys! Patton is a
gentleman, and Stampe, too! Both
brilliant philosophical gentlemen, too!” -- In geometria è detta rodonea
la curva algebrica o trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie
di avvolgimenti attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali
avvolgimenti producono figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il
nome rodonea (dal greco rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa
di G. da G., il matematico che la battezzò e studia. Rodonee
ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega ={\frac
{n}{d}}} Tartapelago rosa Grandi 04.gif Vari modi per la costruzione di
Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea si può
considerare un caso particolare di ipocicloide. Equazione della
curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho,\theta
)}è: {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un numero reale
positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro degli
avvolgimenti, e \omega è un numero reale positivo che determina la forma
della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle \rho =R\cos
\omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un angolo pari a
{\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti. Proprietà Se
\omega è un numero intero, la curva ha un numero finito di avvolgimenti,
tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie di
"petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei petali
è pari a: \omega, se \omega è dispari; {\displaystyle 2\omega }, se
\omega è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose con un numero
di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene
un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata nell'origine.
L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac
{\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k
dispari. Se \omega è un numero razionale {\displaystyle {\frac
{n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in
più punti creando una serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a
fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come
caso particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il
folium di Dürer. In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è
algebrica; se invece \omega è un numero irrazionale, la curva è
trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e
formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del
cerchio di raggio R. Pietrocola, Curve storiche, Rose di G., su Tartapelago,
Maecla, Rhodonea Curves, in The MacTutor History of Mathematics archive, School
of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland. Voci
correlate Ipocicloide Figura di Lissajous Sistema di coordinate polari sistema
di coordinate bidimensionale Atomo di idrogeno atomo dell'elemento
idrogeno Metodo simbolico Il progressus in infinitum (in
italiano progresso all’infinito o regressus in infinitum regresso all'infinito,
è un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare
logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale
però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore
termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione
ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele
e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione.
La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad
esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad
esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti
progressus o all'indietro regressus. Un esempio di un procedimento logico
basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo
uomo" di Aristotele. Kant nella settima sezione della sua Critica
della Ragion Pura chiama progressus in indefinitum questo infinito per
addizione che non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli
può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo.
Si tratta di un infinito irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente
infiniti numeri naturali. Per questo motivo Aristotele nel LIZIO afferma
che il numero è infinito in potenza, ma non in atto. come appare chiaro se si
rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si
susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel
senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come
assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di
questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il
terzo, e così via. L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto
per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiama regressus
in infinitum, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata:
dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta
evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e
presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad
una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati
durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.
La differenza tra progressus in infinitum e regressus in infinitum
secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gl’elementi vanno cercati al
di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di
ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente. Note Dizionario
internazionale Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus in infinitum Bocconi
- Aristotele e l'infinito Mathesis Portale Filosofia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di Filosofia. Luigi Guido Grandi. Grandi. Keywords:
infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura
infinita” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grassi: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- d’Ovidio a Vico: la metafora inaudita e il
concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista – la scuola di Milano -- filosofia
lombarda – filosofia milanese – scuola di Milano -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo italiano. Filosofo
Lombardo. Filosofo milanese. Milano, Lombardia. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did,
on the metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora
inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored
Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach
rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica
platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of
metaphysical Platonism --. “Apparire
ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger
e umano – Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora”
(Mucchi, Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi,
Napoli). “La follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza
dell'immagine -- ivalutazione della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora
inaudita, -- cf. la lingua inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza
della fantasia” Guida, Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo,
Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio,
Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole,
Napoli; “Tra antropologia, logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico
nell'antropologia di G.”; “Platone nell’onto-antropo-logia di G. Dizionario
Biografico degli Italiani. “La risposta (Antwort)
del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a
Che cos’è metafisica?“L’espressione metaforica è in sé e per sé una
risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo
carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. G.,
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocaleAccostandoci ai lavori di
Ernesto G. possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di
trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di
esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe
culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile G.ano,
che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici
contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e
Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce
le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento d’anabasi e
catabasi, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce
la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza
e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del
pensiero di G. abbiamo seguito come filo conduttore il tema
dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per
comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che
la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una
ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita.
La RISPOSTA (ANT-WORT) del pensiero è l’origine della PAROLA (WORT) umana,
M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica? “L’espressione metaforica è in
sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e
con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica
dell’esistenza”, E. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale
Accostandoci ai lavori di G. possiamo avere, non senza qualche fondamento,
l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e
minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte
le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello
stile G.ano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli
ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a
Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di
portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il
movimento d’anabasi e catabasi, dalla superficie al fondale, dal suolo al
sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano
l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante.
Nella nostra analisi del pensiero di G. abbiamo seguito come filo conduttore il
tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata
per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch
che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una
ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita
dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il
coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti
toccati dal filosofo: Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica,
ermeneutica e umanesimo nel pensiero di G., Palermo, Centro Internazionale di
studi di estetica, Civati, Un dialogo sull’umanesimo. Gadamer e G., l’Eubage,
Aosta 2003; R. J. Kozljanic, G.. Leben und Denken, München, Fink; W. Büttmeyer,
Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di G., in “Giornale
critico della filosofia italiana”, G.. Humanismus zwischen Faschismus und
Nationalsozialismus, München, Alber; J. Sànchez Espillaque, G. y la filosofìa
del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora; S. Limongelli, Il
problema dell’umano nella filosofia di G., Vaprio d’Adda, GDS, La svolta
metaforica dell’ontologia fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, Marassi,
Introduzione a E. G., I primi scritti, La città del Sole, Napoli] mitico/metaforologico,
antropologico, filosofico, storia delle idee e storia della cultura. In questo
contesto teorico emerge la centralità del concetto di Lichtung, il quale
consente di comprendere la direzione metaforologica del pensiero G.ano che nei
saggi giovanili si era concentrato maggiormente su una tematizzazione
dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di evidente sapore
heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura e sulla
società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La nostra
attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter G.ano dall’ontologia
alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti
resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni storico-politiche
(magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori
e quei temi che più ci appaiono attinenti con l’argomento G.ano che vogliamo
mettere in risalto. Dal nostro punto di vista la prospettiva G.ana va
interpretata come il tentativo di approntare una nuova filosofia, nell’epoca in
cui se ne è decretata la morte, che sia innanzitutto esperienza del mondo e non
solamente conoscenza. O meglio: di conoscenza pur sempre si tratta, il punto di
riferimento è pur sempre la ragione, ma una ragione non classica: una “ragione
fantastica”. La svolta G.ana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria
del concetto a una teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota
espressione blumenberghiana. Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua
problematicità l’eredità di quel discorso posto a partire dal Settecento in
modo sistematico all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e
sentimento che agita le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica
kantiana fino alla tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta
quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a
un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della
razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura
si intersecano. Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di G. cfr.,
S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit. !
5! In questo orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di
demitizzazione: una delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della
ratio e dell’atto dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma
tale operazione decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben
nota metafora nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno
opposto, della crisi della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e
civilizzazione si sono definitivamente separate, con la conseguenza di una
dilagante inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in G. una
rassegnazione al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico
della dissoluzione delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro
inizio del pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle
immagini. Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3,
esemplarmente condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve,
raccontato agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e
ricordato da G. in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della
questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio
dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica dalla
riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a
ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta
definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa
definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa,
del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora
riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che
l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto
l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che
essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5.
L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al
senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni
qualitative proprie. Husserl ha parlato non G. usa il termine immagine nella
sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. G., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p. 17. 4
Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17. ! 6! a caso di sintesi passiva come
genesi del simbolico, lezione che G. accoglie nel suo tentativo di ricostruire
un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati, senza il
sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La concettualizzazione messa a
punto da G. dei grandi temi della filosofia, dell’arte e della letteratura,
mostra l’attenzione verso le dimensioni del mondo storico, delle passioni
dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’Occidente.
La luce gettata su questi campi di esperienza spesso è offuscata dal tono della
polemica e della rivendicazione degli ideali del passato, che spiegano anche
l’andamento della pagina G.ana: si tratta di uno stile sempre mosso da
un’inquietudine esistenziale, che si traduce in un’espressione non sempre
pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola che ora è invettiva, ora
icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la trasparenza della
deduzione sillogistica o della spiegazione logica, configurandosi piuttosto
come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse trova una spiegazione nella
critica G.ana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis
universalis. Il discorso non può prendere che una piega allusiva e indicativa,
propria di un altro modo di relazionarsi alla realtà. G. in qualità di cultore
attento delle scienze umane, mostra quella partecipazione esistenziale ed
emotiva ai temi cruciali per l’esistenza dell’uomo tipica di coloro che
esperiscono la filosofia come bios pratico e teorico, e solo secondariamente
come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua prospettiva la ricerca
logico-deduttiva urta definitivamente contro l’indimostrabilità dei principi,
tema, questo, che ricorre in gran parte dei suoi saggi. Ma, allora, qual è la
via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci governa? Come esperire l’archè
originaria? Non attraverso la ratio si accederà ai principi, ma attraverso il
pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si limita ad usare i principi,
ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si rivela attraverso un vedere
che è patire poiché “la passione svela la realtà del nulla che chiama a
decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il senso segreto che in
esso ci parla” 6 S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia
fondamentale, cit., p. 4. ! 7! A una pars destruens, a cui è
dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars
construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del
sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il
pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della
critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione
della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme.
Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come
fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria
del mondo originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per
pistis G. intende non un’opinione o una forma di persuasione ma il modo di
realizzarsi in noi dell’originario che comanda. La pistis diviene il fondamento
della retorica originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il collegamento
istituito tra nous/ingenium e archè mette in luce la stessa matrice originaria
dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano
attraverso segni indicativi colti attraverso la passione. Secondo G. ogni
discorso dimostrativo razionale si radica nel discorso arcaico puramente
semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous,
dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che
presiedono al mondo umano”9. Quella che G. definisce come noetica è la forma
originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni
dimensione deduttiva e storica. Il fondamento del reale, del mondo storico e
del mondo umano, è quell’abissale fondamento di ogni fondamento, che, sulla
scia heideggeriana, il pensatore individua sia in Il dramma della metafora,
quando la riflessione si concentra sull’abissale nous passionale, sia in Das
Reale als Leidenschaft. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico
del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso, non compromettono
tuttavia lo spessore speculativo della proposta di G. che resta 7 E. G., Significare arcaico, in “Archivio di
filosofia”, Roma, 1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491. ! 8!
filosofica proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto
miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni,
indicazioni. La sua prospettiva, che abbiamo scelto di definire
onto-antropo-logica, può essere annoverata all’interno del più ampio dibattito
che anima la filosofia del ‘900: quello che vede incrociarsi i temi
dell’antropologia filosofica con quelli della riflessione sulla retorica. Sullo
sfondo agisce il paradigma dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il
filosofo, sensibile alla riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi
a lui coevi, è convinto che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è
caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua
dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a
cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso
degli animali, ad un ambiente preciso; da qui il suo disorientamento e
condizione di estraneità. Per il pensatore “la differenza essenziale tra vita
animale e umana sta nella razionalità di quest’ultima che (contrariamente a
quanto siamo soliti credere) in un primo tempo non segnala una superiorità,
bensì una certa inferiorità dell’uomo di fronte all’animale”10. Tale
inferiorità – il paradigma della carenza – appare in tutta la sua evidenza se
si tiene in considerazione che nell’animale la “regia dei sensi”11 restituisce
il significato immediato dei fenomeni. Il disancoraggio umano da un ambiente
dai contorni definiti e fissi rende l’umo compito a se medesimo, lo sottopone
ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione
deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita.
Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in funzione a fini da realizzare”12,
e l’episteme, che “delimita i fenomeni in funzione a principi, a ragioni”13. La
prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon, come compensazione alla struttura
morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo
culturale, come umanizzazione Ivi, p. 489. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13
Ibidem. ! 9! dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale
processo antropogenetico per G. la retorica occupa un posto tutto particolare.
La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano
al posto dei codici mancanti. Essa ha un doppio ruolo: quello di mostrare come
la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia
contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei
fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la
fondazione della comunità umana. All’interno di questa prospettiva la
riflessione retorica diviene teoria dei SEGNI (SEMATA), SEMIOTICA, e teoria del
senso, SEMANTICA arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del SEGNO
e del senso per il filosofo dove essere in grado di elevarsi al livello di
filosofia in quanto dottrina del SEGNO sulla base dei quali si manifesta il
lavoro specificamente umano, ergon anthropinon. La questione linguistica si
intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione
all’agorafobia primordiale della Lichtung, la SEMIOSFERA da cui si dipartono
mondi possibili dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella
sua ricchezza tematica si staglia la questione della rivalutazione
dell’umanesimo, connessa alla tematizzazione della co-originarietà di logos e
pathos (dove il trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a
fondare la stessa vita cogitativa), e alla critica del moderno.
L’interpretazione G.ana dell’umanesimo è lontana dai presupposti teorici e
metodologici a lui coevi che privilegiavano il contributo ficiniano nel
superamento del pensiero immaginifico e retorico: lo scopo di G. è quello di
mostrare come l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con
l’attività razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia
e della parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e GENTILE ad essere
messa in discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di
spostare i termini della questione sul versante ontologico- Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli; La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1988, pp.
17-36. ! 10! ermeneutico che si concreta nella retrodatazione
dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro la tesi che
individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la questione
della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione linguistica. A
partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano nei confronti
dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata o
piuttosto come Weltanschauung inautentica, G. porta avanti la direzione della
Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla pubblicazione di
cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca, Salutati, Valla,
Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini della paideia che
ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una vocazione
metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello svelamento. Come è
stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata verso l’Umanesimo
problematico anziché verso quello sistematico, verso la ricchezza del possibile
e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori prediletti da G. mostrano
tutti una critica verso gli schemi astratti ed aprioristici e un’apertura verso
la giurisprudenza, la retorica, la religione dei miti e la politica. La
dimensione retorica va considerata secondo il filosofo non come elocutio ma
come inventio: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una
celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo
del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura
l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in G.
alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile
e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”17. Il magistero degli
umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della
funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della
metafora, consente a G. di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del
pensiero, più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente
attento alla natura delle cose, che altro non è che Cfr., A. Battistini, Vico e
l’umanesimo inquieto di G., pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di G., La
Città del Sole, Napoli] “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza
Nuova, Degnità), G. rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione
optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e
ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico che divengono le due
allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare
quale bersaglio polemico di un discoro che vuole scardinare l’impostazione
razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa impostazione l’agire delle
categorie interpretative del maestro degli “anni mitici”, Heidegger, il quale
sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione
ontologica, valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo18,
tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non
ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile
leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da
Cartesio19avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla
domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il
problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale
fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle suggestive pagine di Il
nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del
pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo.
Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un
primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa
subiectum22, il fondamento e la misura di ogni Sull’interpretazione
heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e
Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del
pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de
Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È
fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul
metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale
espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non
ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una certezza
intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile,
poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della
filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte
I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G. Mori,
Cartesio, Carocci, Roma; Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p.
158. 22 Ivi, p. 168. ! 12! certezza e verità. “La tradizionale
domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio
della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale,
[...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23. Tale metodo è il
cogito e le sue strutture. G. fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che
occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno
poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos.
Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse
scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione
umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24. Il dualismo di
dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico
una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della
retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il
problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, è
posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente articolato
nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum del quale G.
ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della critica del
napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un primo vero
attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del
verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della
dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono
all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi
per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di
impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica,
immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo
puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si
presenti come un problema storiografico e filosofico complesso26 si può
senz’altro convenire con G. sull’opposizione vichiana alla critica Ivi, p. 169.
24 E. G., Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano; Badaloni, Introduzione a G. B. Vico,
Feltrinelli, Milano 1961. ! 13! cartesiana nel contesto della
rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli
argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la
dottrina topica dev’essere preposta a quella critica” Non è la deduzione che
precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile
unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte
“topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui
Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in
Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti
e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia
possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è
ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della
realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da
interpretare in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare,
circostanziale, storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons
riguardo alla centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale
si comprende la proposta retorica G.ana. Si tratta di un agire situativo che
alla formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32: non
“penso, dunque sono”, ma “sono costretto, G. B. Vico, Sul metodo degli studi
del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa 2010,
cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in G. Cfr. G. Cantillo, Ratio e
inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV., Studi in
memoria di G., cit. ivi, A. Verri, G.: Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405-
423; ivi, S. Roic, Vico, G. e la metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e
l’umanesimo inquieto di E. G., cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione
dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di G., pp. 437-446; ivi, L.
Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La
ripresa G.ana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr.,
sull’incidenza dell’interpretazione G.ana di Vico nel panorama degli studi
vichiani contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia.
Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n.
2, 2011, pp.1-15, riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos
para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega,
soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, G. y el
problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. G., Vico e l’umanesimo, cit., p. 34. 30
Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il pensiero di G.. Una breve sintesi,
pp. 75-98, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto G., cit., p. 81. 32 R.
Wisser, Ricordo di G.. Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria
di G., cit., p. 188. ! 14! quindi agisco”. Proprio la
ricchezza del reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace
di apprendere maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato
all’interno della catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è
quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma
a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di
ragionamento esatto. Si comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici
che per il filosofo sono la base del discorso retorico e filosofico. La
metafora è il luogo, lo spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività
dell’essere e il suo appello. Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo
significato è trasposizione la parola metaforica sarà l’unica in grado di
accogliere l’appello dell’essere34. Al filosofo non interessa dunque il
meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche, ma ciò
che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce. Su questo sfondo si può
comprendere la declinazione antropologica della retorica in base alla quale
quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della
concreta situazione di vita”35 in cui la metafora riveste un ruolo particolare.
Essa si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il
pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda. Seguendo le tappe
fondamentali della sua ricerca teoretica riscontriamo che l’elemento riflessivo
– sia esso orientato verso l’attualismo, sia esso ispirato dalla “metafisica
immanente” di Heidegger, sia, infine, caratterizzato dalla propria originale
prospettiva del filosofare noetico non metafisico – è tutto spostato verso la
pratica filosofica nel suo farsi e compiersi e non verso un astratto
razionalismo. Accompagnandosi costantemente ad una filosofia attenta alla
correlazione uomo-essere, mai chiusa in una dimensione esclusivamente
ontologica, G. si misura con una continua operazione di E. G., Retorica come
filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990,
p. 62. Sul tema della metafora in G. cfr., D. Di Cesare, Metafora e differenza
ontologica. G. versus Heidegger, pp. 25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: G.,
Aesthetica, Palermo 1996. 35 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro
rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi
in memoria di G., cit., p. 113. ! 15! storicizzazione delle
strutture del mondo storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade
concettuale alla quale il filosofo riconduce la totalità del mondo storico.
L’avventura filosofica di G. mette al centro il soggetto umano e la sua
coscienza – la coscienza temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo
vecchio e nuovo, né in un soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché
la coscienza per il pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti,
questi, che scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano
e vanno ad intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza
temporale umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa
in Il reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una
connotazione ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il
processo dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica G.ana37
– fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli
sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima
co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che:
“l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in
seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e
tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto
dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di
schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale.
Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se
stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38.
L’esistenza interpretante secondo G. ha carattere trascendente, dove la
trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di
formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della
formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla luce
dell’origine del nostro divenire; G., I primi scritti, e Id., Prefazione a Der
tod des Sokrates di Guardini, Retorica come filosofia, Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. ! 16! diventa una
ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi fondamentali
(archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi G.ana mira a proporre
un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è obiettivo
dichiarato della sua proposta neo-umanistica. G. sostiene che “il fine degli
studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo,
dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si
concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità delle
fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo
occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità
differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte
quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo
sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il
sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo
liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può
realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche
l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42.
L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui
riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni
giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo circostante
caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo fondamento
nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove
connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche,
artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi G.ani muovono dal rifiuto di
assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere
ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di
mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che potremmo
definire ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles di
Tucidide, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.! 42 Ibidem.
! 17! fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda gli
scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza dell’immagine,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia
dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della
metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale della fantasia
che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza
storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo
questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi
(Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante,
Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner,
Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner,
Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (CICERONE (si
veda), Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene
quello slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della
sua filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come
una fenomenologia metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore
che ha prodotto la storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso
azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e
al processo del metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione
concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una
staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria G.ana pone in luce
l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera il
mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due
livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione
della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite
pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si
sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale
si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono
nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria
mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel
corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la sua
funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana e
il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della
Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens
sylva, che dice del fondamento il suo essere al contempo puro apparire e
progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi dell’abissale
potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos lontano
dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico,
che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso
all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di
ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre
l’orizzonte di comprensione dell’essere. In G. si ravvisa la traccia di un
pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della
ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si
costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e distinzione
delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul luogo e le
modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della realtà. Il logos
metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere, come espressione
della dualità creativa e patica dell’esperienza dell’originario. Un’esperienza
in cui “la poiesis diventa un momento della praxis”43, e non un gioco
effimero del dire, e la metafora si tramuta nella “serietà del pensare
filosofico”44. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale,
non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il
concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare”45.
Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel silenzio tragico dell’aperto, quello
spazio abitabile dall’uomo. E. G., La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, in “Quaderni di italianistica”, La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale] Jaspers in una lettera indirizzata a
Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, G., di Milano, desidera parlarle
di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una
conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle
interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente
approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere.” Heidegger risponde: “G. mi ha fatto in un
primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una
particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una
natura giornalistica” Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto
poco benevolo definendo G. un brillante intervistatore ma non di certo un
filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli
di CALOGERO (si veda), il quale in riferimento al primo libro di G., Il
problema della metafisica platonica, pubblicato dall’editore Laterza grazie
all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe
fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece
che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger. Croce scrive:
“insegnante in Germania, G. si propone il problema di avvicinare e indurre a
concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema non
ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma
solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a
italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo” Heidegger-Jaspers, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina.
Calogero, Recensione a G. “Il problema della metafisica platonica”, Bari, in
“Giornale critico della filosofia italiana”. B. Croce, Pagine sparse, Laterza,
Bari. E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in
cui il filosofo milanese ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella
cerchia degli intellettuali più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee
non furono troppo favorevoli. G. appare un brillante intervistatore a caccia di
filosofi, la cui opera è da considerare al massimo come prova cattiva di un
ingegno Ottimo. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in queste
affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve ripercorrimento
dell’itinerario speculativo di G. consentirà di comprendere la plausibilità o
meno dei giudizi critici ora ricordati. Dopo aver brevemente assistito ai corsi
di Scheler e di Jaspers – andai a
Marburgo da Heidegger che si dichiara disposto a seguire il mio lavoro di
libera docenza. I luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che tene il
suo ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che assume la cattedra di filosofia), G.,
ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia intellettuale,
pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta, infatti, degli anni
mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale G. guarda sempre –
nonostante le prese di distanza di natura politica – come ad un autentico
maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo di G. è stato preceduto da un lungo
periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti,
come CACCIATORE a definire quella di G. filosofia del viaggio. Ruggiero, G.,
Recensione a E. G., Il problema della metafisica platonica, Bari, “La Critica”,
Ottaviano C., Recensione a E. G., Vom Vorrang des Logos, München, in «Sophia»,
Napoli, Vanni-Rovighi S., Recensione a G., Vom Vorrang des Logos, München, «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano,
E. G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale Sul tema del viaggio e del resoconto di viaggio in G. come
fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo cfr., G. Cacciatore,
América latina y pensamiento europeo en la “filosofìa del viaje”de Ernesto G.,
pp. 79- 91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofia
hispanoamericana, ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa
entonces un error garrafal esperarse del libro de G. elementos meramente
descriptivos o G., nativo di Milano, dopo aver conseguito la laurea in
filosofia con MARTINETTI (si veda) discutendo una tesi dal titolo L’unità
formale della vita e l’impostazione del problema teologico, trae orientamento
decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con CHIOCCETTI, uno dei primi
maestri della neo-scolastica milanese aperto al confronto con i temi della
modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di CROCE, frutto di
studi, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del
pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e VICO che affascinano
molto G., i cui primi lavori apparsi sulla rivista Rassegna Nazionale, di
stampo nazionalista, conservatore e cattolico, mostrano idee ispirate al
pensiero del carissimo ed onorato Chiocchetti e a valori liberali e
cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un volume
dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio alla
ricerca di idee che affratellino i tedesci e italiani; Il partito popolare
italiano. momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida,
costumbres, mentalidades hay que leer las pàginas G.anas ante todo como una
experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus
movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el
retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en
busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente,
con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn,
precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza espacio-temporal
distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de naturalezas
diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones visuales y
tàctiles que nunca han sido experimentadas”. Mi
permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne Anzukommen.
Eine Konfrontation mit Sudamerika -- G., pp. 323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo
(a cura di), Magister et discipuli: filosofìa, historia, polìtica y cultura,
Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa
sudamericana dell’onto-antropo-logia di G. in cds in “Studi Interculturali”,
Trieste, Proposito della rivista era quello di collocarsi a metà strada tra i
contributi dedicati unicamente ai settori storici e scientifici e quelli di
carattere politico-religioso: “Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le
convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a
conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche
dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente
devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la
religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i
diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di
rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si
offendono o prima o poi anche i diritti della civile società”, La rassegna
nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E. G., L’impatto con Heidegger, in
Olivetti (cur.), La recezione italiana di Heidegger, pp. 73-82, Cedam Padova
1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, ora contenuta in E. G., I
Primi scritti. I successivi lavori G.ani, a partire da Il tragico – che espone
in nuce nodi concettuali che il filosofo avrebbe più estesamente tematizzato
negli ultimi lavori: La metafora inaudita e Il dramma della metafora – per
proseguire con Scolastica e storia dello stesso anno e Il pensiero di
Machiavelli e l’origine del concetto di STATO, mostrano uno slittamento da una
concezione negativa del principio di immanenza ad una considerazione molto
positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di emancipazione umana dopo
la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto dopo la stesura del saggio
su MACHIAVELLI (si veda) possiamo riscontrare una “prima svolta” G.ana dovuta
con molta probabilità ad un’analisi dettagliata del pensiero di CROCE (si veda),
GENTILE (si veda) e degli umanisti, primo fra tutti ALIGHIERI (si veda). Ci
sembra convincente l’ipotesi di MESSORI secondo la quale a partire da questo
momento, ossia da quello saggio, l’Umanesimo diviene il terreno privilegiato
della riflessione G.ana, la quale, grazie al pensiero politico di MACHIAVELLI
(si veda), riscopre un altro inizio del pensiero, un altro ingresso alla
filosofia, non gnoseologico e teologico, ma unicamente antropologico. Si tratta
di un risultato di grande importanza poiché il filosofo milanese mette a tema
quell’endiadi concettuale – il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come
a priori dell’esperienza umana nella sua totalità, e dunque anche del momento
cogitativo – che ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella
successiva produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
a Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, a Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, fino ai Heidegger e il problema dell’umanesimo,
Umanesimo e retorica. Il problema della follia, La filosofia dell’Umanesimo: un
problema epocale, Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi
pubblicati singolarmente. Almeno in questa fase, tuttavia, occorre sottolineare
che la considerazione dell’antropologica umanistica si pone ancora fortemente
come una visione antropocentrica, mentre solo [Messori, Le forme dell’apparire,
cit., soprattutto I cap. ! 23! successivamente all’incontro con
Heidegger e alla scelta del concetto di Lichtung quale filo conduttore del
nuovo approccio all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico,
tale visione sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere.
In questo periodo G. collabora anche con l’informatore bibliografico del Circolo
Filologico milanese, la Rassegna di coltura, sul quale pubblica una serie di
contributi dai quali traspare uno studio di CROCE e dell’attualismo gentiliano.
Conseguita la laurea, incomincia per il filosofo l’ambiziosa avventura europea,
in Francia e in Germania, alla ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In
seguito al soggiorno a Aix en Provence, durante il quale conosce Blonde, scrive
La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, in cui la
filosofia dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non
nega i valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di
possibilità della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il
platonismo cristiano di Blondel, il cui merito sarebbe stato quello di liberare
la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo saggio che
si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe
coniugato con la questione filosofica heideggeriana e che spinge G. ad
approfondire la cultura filosofica tedesca. Ad un peccato di ambizione si deve,
con buona dose di probabilità, l’adesione di G. al PARTITO FASCISTA. Secondo la
documentata ricostruzione di Büttemeyer, l’iscrizione al fascio è fatta per
ottenere la tessera senza la quale non è possibile partecipare ai concorsi in
Italia. Cfr., Büttemeyer, G. Humanismus ZWISCHEN FASCHISMUS UND
NATIONALSOZIALISMUS. Sui rapporti G.-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino,
La metafisica di G. tra Platone e Blondel, in P. Pagani- S- D’Agostino- P.
Bettineschi (cur.), La METAFISICA IN ITALIA TRA LE DUE GUERRE [cfr. Urmson,
Philosophical analysis between the two wars], Istituto della Enciclopedia
italiana, Roma. Cfr., Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e “Studia
Humanitatis” di G.. La prima formazione filosofica di G. è dovuta al suo tutore
CHIOCCHETTI (si veda), la cui concezione di una neo-scolastica moderata si
mostra negli scritti dell’allievo. Mediata da Chiocchetti, vi si aggiunge la
conoscenza dell’estetica di CROCE e della sua gnoseologia nonché del modello
dialettico della storia della filosofia che si concretizza nell’interpretazione
gentiliana del Rinascimento. G. mostra momentaneamente simpatie per Unamuno,
per il concetto martinettiano – MARTINETTI (si veda) dell’Unità assoluta e per
la filosofia di VARISCO (si veda), che gli è stato anche maestro con i suoi saggi;
ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane invece escluso
l’attualismo e immanentismo di GENTILE (si veda): pur avendolo conosciuto nei
seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce positivamente soltanto
dopo aver già presentato una ventina di pubblicazioni. Dopo aver
affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via
al filosofare G. approda finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione
heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung più ampia
rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente
neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di
filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea;
Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, in cui G. rimprovera a Husserl la mancanza di una solida base
storico-filosofica, in particolare una superficiale interpretazione
dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della filosofia italiana, da
SPAVENTA (si veda) a GENTILE, pur riconoscendo alla fenomenologia il merito di
aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista e
naturalista e storicista. Secondo G. “da un canto la scuola neo-kantiana si era
isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente concepiti e
quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica, naturalizzando le
categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali. D’altro canto lo
storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di Dilthey non aveva
portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale crisi e
disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo di
Prossnitz, in quello che per G. è quasi un deserto filosofico – psicologismo,
neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale che, tuttavia, ha
molti limiti e non solo di natura storico-filosofica: l’astrattismo, e la
disattenzione per il pensiero pensante a favore del pensiero pensato,
l’incomprensione del pensiero concreto. Per G. gli aspetti negativi sono tali
da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo spazio di vent’anni e
cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza che solo Heidegger
avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo “realizzando per primo in Germania
la critica della fenomenologia di Husserl”E. G., Sviluppo e significato della
scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in “Rivista di
filosofia”, Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi
scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi, p. 187. ! 25! In questo periodo
G. opera quella collocazione della proposta filosofica heideggeriana
all’interno della propria formazione intellettuale, formulando l’ipotesi del
possibile incontro tra la teoria gentiliana dell’atto e la questione del
Dasein, quale luogo storico del disvelamento dell’essere di stampo
heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di destrutturare quella categoria di
coscienza rappresentativa che dal cogito cartesiano era rifluita nelle teorie
di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger diviene il perno principale attorno al
quale gravita l’attenzione filosofica di G. che si concretizza nella stesura
del saggio del 1930 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger e de
Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger del 1937. Il merito del
filosofo di Messkirch sarebbe stato quello di proporre una visione dell’uomo
come Dasein, come esistente, atto immanente, metafisico e autorealizzantesi62
che amplifica l’interesse per la concretezza e la fatticità dell’esistenza
contro ogni razionalismo e astrattismo, superando la contrapposizione tra
soggetto e oggetto. Intanto appaiono i saggi Il problema filosofico del ritorno
al pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate
in Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della
proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano
del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e
umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso
l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della LATINITÀ,
per G.. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana circa il tema del
neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra l’ontologia
fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile. In
Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca
contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono
espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato G. in tutto il suo
cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non 62 Id., Il problema della metafisica
immanente di Heidegger, Giornale critico della filosofia italiana”, Milano-
Roma, ora in Id., Primi scritti, contraddizione, fondamento di ogni
dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio;
concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come
abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di G. fu di carattere
neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la
trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il
filosofo milanese afferma che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta
dalla propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto
perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una
“grazia” proprio nel senso teologico della parola”63. Un’impostazione di questo
tipo spiega anche una originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della
sua scoperta fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce G. a
porsi come un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la
difesa della trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da G.
come insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che
diviene quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello
stesso attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra
essere e ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare
nel suo stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non
come oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di G. il superamento
gentiliano della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione
dell’esperienza approda allo stesso risultato husserliano e Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di
Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie,
vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La
sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol.
XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia
può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64
Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio
caratteristico della realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente
o trascendente del reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del
pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano.
Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste
più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di
ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso
stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso stesso l’unico
illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più grande scoperta di
tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di Giovanni Gentile.
In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori
del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio
il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere”. Per una
ricostruzione della presenza di GENTILE in G. cfr. R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit. ! 27! heideggeriano: quello
dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione
che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65:
l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo
spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di
indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla
nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di G. aver sottolineato.
Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di
pensiero di G. in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la fase
giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica emergenti nei
saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui abbiamo la
correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo blondeliano della
filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e dell’autonomia delle
forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale heideggeriana67; la fase
matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già Sottolinea molto bene questo
aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati
Boringhiei, Torino. Gentile attraverso la radicalizzazione dell’immanenza
supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge
a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato
dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della
fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un
lato supera l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne
tiene tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello
è quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza,
di svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti
d’esperienza appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire
andare alle cose. Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da
sempre compromessi. L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano
dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di
nessuna epochè”. 66 Cfr., E. G., A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8, in
Id., I primi scritti, cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp.
27-48; Scolastica e storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi, pp.
89-128; Tilgher e La visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il
pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La
più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162;
Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163-
179; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp.
235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia
tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp.
371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp.
419-435; La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi, pp.
553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp.
753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la
tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero
moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850;
Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom
Vorrang des Logos. Das Problem der
Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher
Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Id., Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico, ivi, pp. 255-271; Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369;
Filosofia tedesca, filosofia italiana e l’antichità. Il problema di una
tradizione filosofica, ivi, pp. 851-864; Sul problema ! 28!
ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina la metafisica
immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del logos, del
pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici
dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della
retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso
speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la
“passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della filosofia diviene
una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa, dell’esistenza in
situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale, impegno nella
circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per acquisito, dunque,
che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione di G. un’ipotesi di
accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che incide profondamente sulla
successiva analisi dell’apparire dell’originario e della manifestatività nelle
sue diverse forme e che coglie un aspetto critico paradigmatico che rende i
numerosi contributi G.ani non una collezione di posizioni filosofiche
eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda filosofica71, come i
giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio sembravano voler asserire.
della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione
italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema del sublime, ivi, pp. 917-943; Studia
humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, ivi, pp.
945-950; Del vero e del verosimile in VICO, ivi, pp. 951-966; 69 Come tenteremo
di spiegare nel secondo capitolo, per l’impostazione del problema umanistico
risultano fondamentali le osservazioni espresse da G. nel saggio su MACHIAVELLI.
Messori così riassume l’incrocio G.ano di attualismo e fenomenologia: “le due
filosofie si intersecano su almeno tre punti essenziali [...] rifiutano di
attribuire l’originarietà all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in
secondo luogo entrambi avvertono la necessità di identificare l’originario con
un processo che, divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che
lo si intenda in senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il
superamento della logica tradizionale e quindi del principio di identità e di quello
correlato di non contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire.
Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto G., cit., p. 34. 71
Si sofferma su questo “merito” G.ano Marassi nelle pagine introduttive a I
Primi scritti: “così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra
inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività
kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la
trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto
alla nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che
piega il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo
svelamento dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico
di G. dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la
trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini
si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria
di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M.
Marassi, Introduzione a E. G., I Primi scritti, cit., p. 44. ! 29!
Si impone all’attenzione teorica di G. la tematica della multiformità del reale
(metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità che affannosamente il
filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di fuori dei parametri
tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di cogliere l’essere
nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale e, pertanto,
mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la metafora). Da un lato
il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la manifestatività dell’essere
heideggeriana, consentono a G. di guardare all’idea di fondamento come a
quell’originario indeducibile razionalmente che può essere patito e vissuto
nell’esperienza della parola più autenticamente che in quella del pensiero
tradizionalmente inteso. Secondo G. “l’originario non può venire inteso come la
svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a
sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e
proprio per questa identità di manifestazione e processo, di essere e divenire,
è possibile radicare la trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e
non in un oltre, ciò che non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il
filosofo “il processo deve quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È
importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci
permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”74. Il punto di
partenza è quell’indeducibile originario che si mostra e si rivela in un
metamorfismo e polimorfismo della realtà che non è un dato semplicemente
presente, bensì un divenire storico che continuamente si distingue, Occorre
sottolineare che il pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una
impostazione soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come
puro evenire, spazio di esperienza, cfr., sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90:
“l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il
Dasein, tra la determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come
esperienza del puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce
per non occupare né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno
spazio di indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei
termini della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi,
dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di
una semplice presenza”. 73 E. G., Il problema del logo, in “Archivio di
filosofia”, Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora
in Id., I Primi scritti, cit., p. 376. 74 Ibidem. ! 30! si
differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità
nell’esperire patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo
di tale posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre
ripensare il logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà
monolitica e cosale? Come superare una concezione oggettivistica e
soggettivistica? Si tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente
dense di Il problema del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in
cui G. si chiede: “Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la
manifestazione può solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di sé –
giacchè ogni apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve
essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i
vari termini con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia
effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione,
oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il
quale urtiamo definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia
heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una
mossa teorica insostenibile76, è per G. la condizione di possibilità per
sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio
a GENTILE e a Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una
visione del logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità
antitetica al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la
stessa dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da
alcuni interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero G.ano, ma
che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione
complessa e ampia che G. ha del reale – offre a G. l’opportunità di delineare
un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla manifestatività
senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì tramite una
pre- 75 Ivi, pp. 376-377. 76 Nella Recensione
all’articolo di G. Il problema del logo afferma Ottaviano: “dirò subito che la
tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica del pensiero
sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per mio conto
insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. G., Il problema del logo, cit.,
p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in G. e l’esperienza del fine, in
AA. VV, Un filosofo europeo. G., cit., pp. 7-24. ! 31! intelligenza
pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione dell’affettività, del
patico e della Stimmung. Emerge così un programma filosofico ambizioso che
giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e della cultura
umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e latina in senso
lato. G. si chiede: “in che senso possiamo affermare che il logo come atto,
come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai quali ci
troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e in che
relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto un nuovo
punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza dell’essere.
Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione oggettivistica nel
suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e approfondita
determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78. Tale precisa
e più approfondita determinazione dei molteplici significati del logos avviene nella
metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia d’Europa e per le vicende
personali dello stesso G. Che si iscrive il 3 maggio 1933 al partito fascista più
per motivi di “opportunismo” accademico che per convinzione, e in un clima di
generale espansione europea delle ideologie fasciste. Ricordiamo che soltanto
dodici professori in quegli anni rifiutarono di prestare giuramento e che
l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce resta isolato e chiuso nelle
mura di palazzo Filomarino, mentre GENTILE raccoglieva intorno a sé il meglio
della filosofia. In tale contesto bisogna inquadrare il compito teoretico e
culturale che G. da alla sua ricerca di una ri-valutazione della FILOSOFIA
ITALIANA. Così ritroviamo G. a Berlino, dove assume il ruolo di professore
incaricato di FILOSOFIA ITALIANA nei suoi rapporti con la filosofia tedesca.
Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e
italiana fino a Del Vero e del verosimile in Vico G. Il Problema del logo, Cfr. la dettagliata ricostruzione di
Büttmeyer, Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr., Cacciatore,
Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana,
in A. d’Orsi-F. Chiarotto, Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una
categoria, Aragno, Torino] passando per i contributi sul poetico e sul politico
nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento, sale in
superficie la questione della parola, indagata, secondo G., dagl’umanisti non
con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico, bensì
con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo
storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto
una vita attiva, in cui i valori del passato romano, che gl’umanisti
sostenevano di aver scoperto CONTRO le interpretazioni ebbraizanti medievali,
potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha
sottolineato Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera G.ana Heidegger e il
problema dell’umanesimo: “G. considera vero problema centrale dell’umanesimo
italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto
piuttosto l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in
cui appaiono l’uomo e il suo mondo dalle analisi di G., svolte in un ampio
arco, da ALIGHIERI a BOCCACCIO e a SALUTATI, da BRUNI a VICO, emerge un tema
costante: la poesia epica degl’antichi eroi – ENEA E ROMOLO -- come fondazione
della COMUNITA umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e –
soprattutto in VICO – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua
inquietante presenza storica. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce
dell’ESPERIENZA LINGUISTICA che caratterizza il mondo umano e della
individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che G. ri-elabora
sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di LICHTUNG – lume
-- si tratta di un umanesimo onto-antropo-logico, che non è un approccio
antropologico antropocentrato, poiché la relazione primaria èquella di uomo e
mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un
piano gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico-ontologico spinge G. ad un
più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna
dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che ogni umanismo rimane metafisico.
Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la
questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino
che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza
metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende. Vasoli, Introduzione
a G., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida; Heidegger, Lettera
sull’umanismo; Segnavia, a cura di Volpi, Adelphi, Milano. Tale critica in
Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai
avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero
che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e
alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in
considerazione il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana G. ha dato una
caratterizzazione per così dire non umanistica in senso heideggeriano
dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con Heidegger. In questo
modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno decostruttivo, quale
è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese l’umanesimo resta
schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima propria ma
interpretato solo in riferimento ad altre epoche. G. si chiede se sia
plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già accaduto
per Cassirer, Kristeller, SPAVENTA, Hegel e altri, di un errore di prospettiva.
Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore negli anni
Quaranta, G. impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante testo, apparso
in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della collaborazione con Otto e
Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza
dell’originario, G. porta avanti una vigorosa critica del cogito cartesiano che
non tiene conto di quella passione a partire dalla quale soltanto avviene il
theorein che è proprio della filosofia. Un theorein che non ha una costituzione
razionalistica ma è una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica,
che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente. A
fondamento del pensiero c’è una necessità esistenziale che non può CHE
rivelarsi e apparire attraverso l’esperienza della parola poetica e META-FORICA.
Unicamente la META-FORA (TRAS-LAZIONE) può rendere conto del poli-morfismo
ontologico, che non è un fatto, ma un continuo divenire, all’appello del quale [G.
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo
capitolo, Il problema della parola poetica; Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica. “L’essenza della presenzialità immediata – che
dov3 essere l’essenza della svelatezza empirica – non è dunque ciò che è
diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il
manifestarsi il dato originario, come immediata presenza di alcunchè, è il
divenire, il processo, cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in quanto
già l’uomo è chiamato a rispondere in modo plurale e non univoco. G. afferma
che poiché il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni
procedimento razionale si attuano attraverso una META-FORA (TRAS-LAZIONE).
Allora la META-FORA (TRAS-LAZIONE), che ricorre per lo più alle immagini non va
considerata un mezzo solo letterario ma è INDISPENSABLE per esprimere
l’Originario [cf. GRICE, ESCHATOLOGY]. Oltre alla collaborazione all’annuario,
occorre segnalare anche la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in
cui la partecipazione degli esponenti della cultura italiana e tedesca è
inquadrata anche alla luce di un intento politico-culturale: quello di
affermare la specificità della ROMANITÀ nei confronti degl’ideali del mondo
tedesco privilegiando soprattutto tre ambiti problematici. In primo luogo, l’antichità
nel suo particolare significato per LA TRADIZIONE ITALIANA. Inoltre il
rinascimento e l’umanesimo infine, una terza questione riguarda il modo in cui si
ha compreso e giudicato l’umanesimo e il rinascimento. Per G. fin dall’inizio
gli studia humanitatis hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si
realizza soprattutto nella comunità politico-sociale. G. si reca in Svizzera in
cui progetta con Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore
Francke di Berna incomincia la sua attività di insegnamento a Monaco e di
direzione del Centro di Studi Filosofici. In conclusione di questa breve
introduzione alle idee dell’emigrante con la vocazione per la filosofia, basti
dire che negli anni densi e intensi dell’apprendistato filosofico si gettano le
basi di quei grandi temi che percorrono i decenni successivi: la rivalutazione
dell’umanesimo e della latinità come luoghi di riflessione sulla questione
onto-antropo-logica, sul nesso uomo-essere; LA CENTRALITA DEL LINGUAGGIO E
DELLA PAROLA POETICA, DEL DIRE METAFORICO e della svanito, non più presente. Il
dato come oggetto, e quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì
una falsa interpretazione del dato. G. Il Problema del logo; Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica; Studia humanitatis come essenza
della tradizione spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des
Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin,
verlag Helmut Küpper, ora in I scritti. Del
periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata con
l’appoggio di Küpper.] retorica. La questione è, ancora una volta, quella di
riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, ma di
attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e
della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo
struttura si intersecano. L’umanesimo della complessità offerto da G. può
essere concepito come un atto di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare
è quella della preminenza della ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si
risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione. Del
tramonto della civiltà, in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente
separate; del tramonto dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale
carente, diventando, infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come
testimoniato dagli attuali studi post-umanisti, segmento di un processo
ibridativo con la techne. Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le
tappe G.ane del discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un
itinerario onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia
indissolubilmente con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli
scritti nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile
comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante
attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da G. costituiscono un
contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare
alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come dai
giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere,
ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie
strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo. Uno dei risultati più importanti della
indagine filosofica G.ana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la
scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica
dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito cogitativo.
Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica al pensiero
moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli effetti
negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la ricerca di
un certo “luogo” della tradizione culturale umanistico-rinascimentale che il
dibattito storiografico ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico, o
almeno non carico di una serie di motivazioni teoriche che G. rintraccia.
Secondo il pensatore milanese il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di
fatto, un momento epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e
storico del linguaggio poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di
uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso
di ragione e passione è possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed
autentica. Ma come nasce per G. l’esigenza di rinnovare la questione dell’uomo
e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso fosse il
problema: lo dimostra la tenacia speculativa che, in qualità di direttore della
Humanistische Bibliothek dell’editore Fink, mostra patrocinando la
pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a temi umanistici, nella
speranza che la conoscenza diretta di Petrarca, Salutati, Valla, Pontano,
Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad un’immagine dell’umanesimo
lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre, [Affronteremo la questione
del nesso pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. il nostro
autore, sotto il patronato dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e
dirigere l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino, anche grazie
all’interessamento di CASTELLI ZUBIENA (si veda). Accanto a questa opera di
edizione e direzione c’è il percorso di ricerca teorica portato avanti per
tutta una vita e che pone G. in un confronto serrato con i più noti interpreti
dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due autori in particolare secondo la
convinzione di gran parte degli interpreti: Vico e Heidegger, ma noi vorremmo
aggiungere anche Cartesio, Aristotele e LEOPARDI (si veda). Da un lato Cartesio
ha avuto un ruolo centrale nell’analisi G.ana del logos attraverso la fecondità
individuata nei concetti di dubbio e cogito che rivestono un’importanza
fondamentale nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro Aristotele ha espresso
concetti, quali quelli di archè e pistis, che secondo G. gettano luce su un
altro percorso possibile per il pensiero: il filosofare noetico non-metafisico
in cui si condensa la proposta retorica del filosofo tutta gravitante intorno
al nesso phantasia-ingenium-metafora che costituiscono la triade della retorica
del significare arcaico. Poi c’è Vico che appare come l’erede della tradizione
umanistica: il De antiquissima e la Scienza Nuova ci guiderebbero verso un
mondo la cui nota dominante è costituita dalla fantasia e dall’ingegno, che con
spirito anti-cartesiano VICO (si veda) avrebbe contrapposto alla ratio
calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in difesa delle humanae
litterae. LEOPARDI (si veda) con il concetto di illusione avrebbe teorizzato
una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe raggiunto le vette di una
tematizzazione poetico-filosofica che guida la riflessione verso il tema del
fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il più fiero
oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua di
espressioni di una mera antropologia ontica che ha come centro della riflessione
l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul linguaggio e
sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento del disvelamento
dell’essere, sono richiamate all’attenzione da G. che con Heidegger va oltre
Heidegger compiendo un vero e proprio iter di oltrepassamento, nel duplice
senso di Verwindung (accettazione-approfondimento) e Überwindung (superamento).
Secondo l’interpretazione G.ana, quella di Heidegger sarebbe una prospettiva
che, nonostante la messa in mora della modernità e l’opera decostruttiva
condotta nei riguardi dell’impostazione soggettocentrica, cade preda di quel
pregiudizio hegeliano e di tutta la concezione idealistica dell’umanesimo.
Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “Heidegger sottolinea
che il termine umanesimo si affermò per la prima volta al tempo della
repubblica romana come equivalente del termine greco paideia. Per Heidegger è
un dato di fatto che ogni umanesimo principia col definire l’essenza dell’uomo,
quindi con una filosofia antropologica”90. L’umanesimo come mera antropologia è
l’equazione posta da Heidegger che G. mette in discussione attraverso
un’analisi storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni sul linguaggio
un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato una concezione
del linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento dell’essere, la
tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non era ritenuta
funzionale al discorso relativo alle “circostanze della manifestatività” ma
frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da
Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. G. tenta di
ricostruire con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso
tecnico, la tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e
Landino che mostrano una ricchezza del possibile in alternativa
all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà
di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in evidenza
quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere dalla
situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione aprioristica
e razionalistica, quegli autori costituiscono per G. il polo ineludibile di una
riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che
talvolta sono presenti nelle riflessioni G.ane sono state sottolineate da
Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. G., Heidegger e il
problema dell’umanesimo: “G. è infatti convinto – e lo ripete nel modo più
esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte ripresa
della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del Cinquecento,
siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o, almeno, alle
sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti problemi di
natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il giudizio
umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici loci platonici
e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad alcune
notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante
nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia
originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. G., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the
question of Renaissance Humanism, Centre for Medieval and Early Renaissance
Studies, Binghamton, New York[ pensiero: non solo la logica e la teologia, ma
la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono
oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire
dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche G.
segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco, la
lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola poetica
lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una
definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo G. è nelle
parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo linguistico non
chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo attingere la res
e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti,
transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova filosofia
umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo “del
processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione
(horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal
luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso la parola
storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un apparire)
del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono
nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che
si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera G.ana non
suscettibile di sistematicità: leggere G. tentando di rintracciare nelle sue
pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre piuttosto
seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della meditazione94. Del
resto questo è un risultato, più che un
Id., La filosofia dell’umanesimo un problema epocale, cit., p. 37. 93
Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D. Pietropaolo l’assenza di
sistematicità nella filosofia di G. costituisce un limite, uno “svantaggio
considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si tratta di un riflesso
dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da G.. Se la realtà è
multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale realtà procederà per
aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, G., Vico, and
the defense of the Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5. Opposto il giudizio di A. Battistini secondo il quale
quello di G. è un metodo che “rispecchia una ricerca sempre in progress,
inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di G., p.
391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di), Studi in memoria di G., cit.,
pp. 385-404.] limite, raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli
umanisti che con la riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte
da bisogni concreti elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più
importante di altre rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno,
che interviene nelle diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates
e dell’hic et nunc, tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo
catalizzatore del sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale che “l’umanesimo, non muovendo più dal
problema della definizione razionale del reale, realizza un rovesciamento dei
procedimenti del pensiero filosofico ben più radicale della così detta moderna
“rivoluzione copernicana” del pensiero cartesiano e idealistico”95 e ciò è
espresso, dal nostro punto di vista, in conformità alla generale impostazione
onto-antropo-logica del pensiero di G., che vede nella indagine linguistica e
poetica la possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge l’uomo
a rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze esistenziali.
In tale contesto l’agire umano per G. “implica la necessità di realizzare non
cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una metafisica metaforica,
fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva alle urgenze vissute
differentemente nelle varie situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale
siamo partiti: come giunge G,i alla domanda sull’uomo e sulla correlazione
uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli “anni mitici di
Friburgo”? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è
la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in
G. è una operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un
iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione
“onto-antropo-logia” per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di
quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto
nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di
pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal
filosofo di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al E. G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale, cit., p. 96. 96 E. G., VICO (si veda) e OVIDIO (si veda). Il
problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi
Vichiani”] contesto onto-antropo-logico
ci consentirà agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa
sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera
espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. G.
affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel
saggio Il pensiero di MACHIAVELLI (si veda) e l’origine del concetto di stato
apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con
Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio G. offre
un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui
concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua
prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria.
L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare
credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità
umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema
concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica
della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di
Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di
immanenza che permea tutta la riflessione moderna. G. afferma che “il medioevo
e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come espressione di
due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero antico, medioevale
cercava la razionalità del reale – ossia il principio di ogni realtà in un
principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di cui il
rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità
del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur accogliendo tale
distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il
limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica e
filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non
tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli
intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare
essere !! Cfr., l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla
prospettiva filosofica di Ernesto G., pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo
europeo. G., cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in
particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. G., Il
pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi
Scritti] un Giano bifronte, proteso sia verso l’impostazione classica e
medioevale, che rintraccia nell’“essere per essenza – o per seguire la loro
denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in funzione del quale
tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e causa”100; sia verso
un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca successiva un dispiegamento
considerevole. Secondo G. nella concezione politica di Dante abbiamo un primo
embrione della modernità: “la nuova epoca non si – può – far nascere dal secolo
XV, ma molto prima, come ci rivela l’espressione volgare della Divina Commedia,
del Convivio, e il ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della modernità
matura sarà contraddistinta da una serie di elementi che metteranno in crisi
l’impostazione medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio gli
umanisti proporranno nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo G.
lo stesso classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che “semplice
scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda cenere sotto
cui troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che ricerca e trova
se stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di MACHIAVELLI (si veda) è
assunta come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima generale
della critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli umanisti
Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a
tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità
effettuale che, secondo G., riveste un’importanza massima: “l’affermazione
della verità effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente
col suo metodo induttivo alla concezione della storia come creazione umana”. La
centralità della nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in
correlazione con la teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il
verum storico è conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio
della convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze
giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di VICO
(si veda), viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum
ratione. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico:
“pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si
presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì
il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la
facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo. Vorremmo sottolineare
che il “vichismo” di MACHIAVELLI (si veda) individuato da G. in questo saggio
risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo di
Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere
del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al
Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica in cui CROCE (si veda),
trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce
Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato la
politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei
precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che
la questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente
identici” è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo
pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore
spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza
della ulteriore determinazione morale” Per una sintesi ben documentata della
storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr., M. Martirano,
Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il criterio del vero
e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero e del fatto dopo
Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura
di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce, Filosofia della pratica.
Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p. 266. 107 ivi, p. 267.
Secondo Croce solo a partire dall’analisi critica di Francesco De Sanctis si è
cominciato a comprendere il carattere complesso della tesi di Machiavelli e
quindi a valorizzare il pensiero del Principe giustificandolo a dispetto delle
condanne provenienti da correnti moraliste. Nella recensione dell’edizione del
Principe curata da Federico Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario
non tanto affermare che la politica si identifica con la forza bensì “insistere
e mettere bene in chiaro che cosa sia veramente la forza, e come quella forza,
che è la virtus politica, rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno,
ma un aspetto solo della totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La
Critica”, giugno 1924, p. 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel
secolo decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica] Su
questo sfondo crociano l’interpretazione di G. pone in luce il nesso di verità
effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo:
dire che “coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente
l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum
di Vico”, significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e
realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo
innovativo di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è
degna di nota se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie
concettuali che ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano
quanto già a partire dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse
viva nella riflessione del filosofo. Risulta evidente allora che la questione
onto-antropo-logica, il problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e
Sein nell’orizzonte della Lichtung non compare in G. solo ed unicamente a
partire dall’incontro con Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo
G.” ma affiora già nelle riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La
“scienza nuova” offerta da Machiavelli secondo il pensatore milanese è
innanzitutto una scienza induttiva e non deduttiva, è una intelligenza dei
fatti che può realizzarsi solo abdicando al principio di autorità e
all’a-priorismo e la denuncia della mera attività politica senza responsabilità
è lampante: “se alla libertà si toglie la sua anima morale...si toglie la
purezza del fine; se alla disciplina interna alla quale essa si sottomette
spontanea si sostituisce quella della eterna guida e del comando non rimane se
non il fare per fare, il distruggere per il distruggere...ne vien fuori
l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione riduzione e triste parodia
che in termini materialistici compie di un ideale etico, sostanzialmente una
perversione dell’amore per la libertà” – CROCE (si veda), Storia d’Europa nel
secolo decimonono, Laterza Editori, Bari. CROCE risolve in maniera definitiva
la questione posta da MACHIAVELLI (si veda) saldando assieme l’etica alla
politica sia nella sua concezione della storia, sia nella sua filosofia
politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica i precetti morali
alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita VICO (si veda) come
il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli, ritenendo che
i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una precettistica
della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi commistione tra
politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato sulla pura bontà e
giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra politica e morale ma
la relativizza a carattere meramente accidentale della storia. Vico è ai suoi
occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito, che egli chiarifica e
purifica, integrando il suo concetto della politica e della storia, componendo
le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B. Croce, Etica e politica,
Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione verità effettuale
compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio scrivere cosa
utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità
effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N. Machiavelli,
Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della verità effettuale
della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al XV capitolo del
Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e contingenza, a
cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa 2006. 109 E. G.,
Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi
scritti] logico. La grandezza del segretario fiorentino risiede nella
ricostruzione politica del Rinascimento, che è allo stesso tempo una
restituzione alla storia di una razionalità intrinseca. Ma in che modo è
possibile offrire al dominio di Dio o del caso – la storia – una propria
razionalità? La domanda che secondo G. Machiavelli si pone trova nelle pagine
del Principe una risposta, l’unica possibile. Assodato che con il Rinascimento
registriamo una rottura, un crollo dell’impalcatura teorica e pratica del
Medioevo, la dissoluzione dei valori religiosi e l’affermazione della forza
dell’individuo, come garantire l’integrità della vita activa, come riparare la
nuova idea di azione umana dal pericolo di una dispersione irrazionale di
energia? Secondo G. la stessa affermazione del soggetto empirico va superata e
si supera con Machiavelli: “l’affermazione del soggetto empirico andava
superata e condotta a un concetto di unità di individualità superiore, ma il
problema doveva essere posto negli unici termini possibili: superare
l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione dell’individualità
stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un dato di importanza
considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto l’ascesa del soggetto è
individuata come un tratto distintivo della modernità, sebbene in questo
contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva che in seguito
perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella compagine
soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra l’aporia
aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione G.ana
successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che successivamente
sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento razionale e logico. Il
Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo di coniugazione
estremamente importante: “l’affermazione del Principe di Machiavelli è così il
passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità empirica, a quello di
nazione”111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto Machiavelli percepisse
“l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il contrasto delle varie
affermazioni di tirannidi”112 e che rende la sua opera una sorta di “fisica
delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel Principe si struttura
come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità del principe-centauro;
e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il conflitto socio-politico
e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata positivamente da
Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non sono elementi
esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e proficue114.
Alla figura di MACHIAVELLI (si veda), all’importanza della sua teoria politica
nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e all’impronta
innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al “cambiamento di
paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione kuhniana, G.
dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è testimoniato dalle
pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul politico del 1939, in
cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli consiste quindi
nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il suo imporsi,
come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma del
dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del politico è
ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte, bensì la
concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene espresso
quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale esercita
sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché quello di
Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a costituire
una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di G., la quale ha di mira
l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei dispositivi che
sono fortemente radicati nella situazione particolare, nell’Appello dell’essere
e Ibidem. 114 Cfr. Barbuto, Il pensiero
politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008, in particolare le pp. 39-75
dedicate a Machiavelli. 115 E. G., Pensieri sul poetico e sul politico, in Id.,
Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare originariamente in tedesco con il
titolo Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung
der geistigen Tradition Italiens nel 1939 in Schriften für die geistige
Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben von G., Berlin, Verlag Helmut Küpper,
1939. Nel saggio rifluiscono due conferenze, Deutsche Dichtung und die
italienische Tradition des Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken
in der Italienischen Tradition.] del reale, la cui carica di estraneità è
oltrepassabile solo tramite l’azione concreta e storica che ha struttura
metaforica. L’attività metaforologica ha infatti una connotazione
onto-antropo-logica in G.: riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il
modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo
circostante. Non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per
G. un dispositivo antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come filosofia.
La tradizione umanistica: “alcuni limitano la funzione della metafora alla
trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro.
Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata
delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella
di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la
visione di qualcosa ancora nascosto ma dobbiamo andare più a fondo del piano
letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si
radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi
tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro
mondo”116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di
Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono
in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo
paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna –
la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di
commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire
politico119. Questi elementi ci dicono che “non Id., Retorica come filosofia.
La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., GIUCCIARDINI (si veda) e il
concetto della politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione
tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti, cit., p. 891. Il
saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der
Politik in der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe
der “Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118
Id., Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in
Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio appare con il titolo Theorie der
Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”,
Jahrgang, Morgenausgabe, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze
per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi scritti] possiamo
sottrarci di fronte all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente
di prendere posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra
situazione si trova sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un
aut-aut ci costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come
impegno e compito come G. afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata
allo “stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un
metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione
con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo
impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto
alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso
anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella
consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos
che può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico. Umanesimo
e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso G.ano. La riflessione
sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da G.
a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel saggio
su MACHIAVELLI (si veda) proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al
1924. In queste ultime è presente anche un intento di chiarificazione
storiografica e di presa di distanza dalle coeve interpretazioni della
“tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca storico-culturale, come quella al
centro della riflessione Id., Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana. A Walter F. Otto,
pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912. Il saggio appare in tedesco
nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und des individuellen
Lebens. Erwägungen aus
der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto
und Karl Reinhardt, herausgegeben von G., Berlin, Verlag Helmut Küpper] Husserl,
La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a
cura di Filippini, il Saggiatore, Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come
potremmo dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La
nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella
nostra vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il
vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un
telos, e che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia.
È possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire?”] di G., significa
innanzitutto prendere in considerazione un “mito storiografico”. Inoltre, il
concetto G.ano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come
categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori
precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende
una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco
burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di
Michelet Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti
distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori
immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento
e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi
umanisti che per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i “barbari
medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato i classici, ma per non
averli compresi nella verità della loro situazione storica”124. Posizione,
questa, che importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo
profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età
della sperimentazione e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale
raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo, contro un
atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché
in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un
altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la
prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove
negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie
dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del
clero. Nell’altrove Cfr., per una
discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e
del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp.
3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino,
Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma- Bari
1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi,
L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C.
Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna,
2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni dell’antirinascimento
della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il rinascimento tra mito e
realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. ! 50! positivo ci
sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate, cavalieri fedeli e principi
magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del medioevo come generica
premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo G.ano faremo riferimento
innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione dal pensatore milanese,
soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e infine sul capo di
imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la riflessione sull’umanesimo
riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia G.ana. II. II. Che cos’è
l’umanesimo? G. parte dal quesito: “che cosa significa umanesimo?” e risponde
individuando la genesi del termine nell’ambito politico: “questo termine nasce
per la prima volta in Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti
politici di Coluccio Salutati, il primo segretario politico di Firenze”128. La
domanda è il punto di partenza di un saggio scritto in occasione di una
conferenza tenuta nel 1938 durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a
Quedlinburg, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus,
rifluito insieme ad un altro saggio, Politisches und begrifflisches Denken in
der Italienischen Tradition, in Gedanken zum Dichterischen und Politischen.
Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens. Per G. durante
l’epoca umanistica si esprime per la prima volta un nuovo atteggiamento
dell’uomo verso il mondo, si tratta del passaggio dall’“uomo greco”, a quello
medievale”, per finire con l’“uomo del Rinascimento”. Una linea evolutiva che
può essere condensata nelle note ed efficaci immagini proposte da Vernant, Le
Goff e Garin: la transizione dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di
Aristotele129, all’homo viator e penitente130 e all’uomo moderno131. Cfr., G.
Sergi, op., cit., p. 5. 128 E. G., Pensieri sul poetico e sul politico. Due
conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in
Id., Primi Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant,
Introduzione, in Id., (a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp.
3-23. 130 Cfr., J. Le Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo
medievale, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del
Rinascimento, in Id., (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari]
Per quanto sia discutibile l’ipotesi G.ana di una frattura così radicale tra
due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi
scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del
presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono
entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto
Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da G. accomunate in un disegno
sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza.
Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di
un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su MACHIAVELLI
(si veda), e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al pensiero
antico in cui si afferma: “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto
di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in
Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno.
Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo
soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve espresse con
convinzione tuttavia non impediranno a G, di assumere una prospettiva teorica
di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento
dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in
gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta
dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza
umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una
mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come
concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la
filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un
nuovo mondo storico “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di
filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in
Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno.
Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo
soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti] Infatti, per G.
lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel
contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale
soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto
circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto
comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme
dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica,
prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà
possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema
dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico
non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza
chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si
tratta della coniugazione “inaudita” che G. cerca di realizzare lungo tutto il
suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in
Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle
sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del
pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale
come passione e l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire
con gli scritti sul valore della metafora e del pensiero noetico non
metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica
determinata e come proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata
dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la
quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio
di questa problematica compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare
ontologia, distinguendola dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo
termine il rapporto che lega gli enti in situazione all’origine comune che li attraversa
e perciò insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma
situazionale”134, ontologia noetica e non metafisica, e pertanto
metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola umana che costruisce
universi di senso. La critica di G. si appunta innanzitutto contro
l’assolutizzazione di un aspetto particolare della filosofia
quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della modernità
che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale posizione se, da
un lato, può sembrare a Id., Il problema
della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in
E. G.-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don
Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina] prima vista contraddittoria
rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la
centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna
che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione
se la critica che va conducendo G. a certi luoghi del moderno viene inserita
nel contesto più generale di una messa in questione della supremazia che
l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche analizzate. Si
tratta di una messa in discussione dello stesso concetto di ragione e di logos,
che non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che cerca di istituire
una relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi sulla china
dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di costruire o
ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico e logico
trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e vissuta. In
Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale G. passa in rassegna diverse
tappe interpretative rifiutate per una sostanziale misinterpretazione
dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità con il saggio
L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare. Il macigno che
pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi da questo
fardello è il compito verso cui il pensiero di G. sarà rivolto sviluppando le
problematiche degli scritti onto- antropo-logici di G.: Macht der Phantasie
1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosophy; Heidegger and the question
of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo aggiungiamo, sebbene nell’elenco
stilato direttamente da G. non fosse annoverato135, Vico e l’Umanesimo136.
Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger offre all’attenzione del suo allievo
eterodosso? Prima di rispondere a questa domanda, analizzeremo di seguito le
nove posizioni “inautentiche” proposte da G. in La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale. Sullo sfondo della polemica diretta contro precisi personaggi
abbiamo anche la censura al pensiero della filosofia analitica di cui, almeno
in questo La filosofia dell’umanesimo:
un problema epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente G. non poteva annoverare
questa opera perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si
tratta di una raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione
filosofica, dal 1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di G.. Cfr, D.
P. Verene, Prefazione a E. G., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è
pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism.
Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Lang New York] luogo, G. non esplicita
i rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento
polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e
autore di quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade:
dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono
con la nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138.
Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione
esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di
formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia
travagliata scompaiono. Afferma G. che “è considerato scientifico quel pensiero
che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera della
dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti in modo
significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...] al di
fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e mistero”139.
Dalla prospettiva G.ana nell’orizzonte wittgensteiniano della filosofia l’unico
linguaggio accettabile è quello del calcolo, della formalizzazione, della
logica che esclude dall’orizzonte di significatività la dimensione retorica del
logos ordinario – che esprime il sensus communis – e del logos patetico della
poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo il livello connotativo
del linguaggio, quella dimensione del mistico e dell’etico, relegati nel
Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la riflessione che si condensa
nelle Ricerche filosofiche. G. non prende in considerazione la riflessione
wittgensteiniana contenuta in questo testo, che possiamo definire come una
sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di Wittgenstein contro se
stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del Tractatus. Afferma
Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e il suo correlato,
la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un gioco linguistico a
sé. Ciò Cfr., L. Perissinotto,
Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L. Wittgen stein, Tractatus
logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi,
Torino 2009, proposizione 7. 139 E. G., Retorica come filosofia] vuol dire
propriamente: veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” –
e a ciò segue la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare
come un particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter
con l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco
linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme
più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è
una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso
“dall’ambito della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia,
poesia e retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il
linguaggio filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di G. diviene un
altro bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni contenute
negli scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate
postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola
cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare si deve
fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi
congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed
evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza”145.
Secondo G. in questo passo si afferma che il ricorso all’esempio degli Antiqui
è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che produce storia, mai scienza.
Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza
dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge dalla
riflessione matematica. Secondo G. l’emarginazione dell’esperienza, lo
svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono
riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In
questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile, Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R.
Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo
spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino
1986, § 391. 142 E. G., La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, cit.,
pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni
compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae
cfr., G. Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la
guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche,
Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21. ! 56! che
pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze
certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I
principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo
consacrarci seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le
verità che siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i
pregiudizi, e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo
accolte in nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in
seguito una rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per
vere se non quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro
intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui
si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio.
Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio
iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei
saperi, gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni
della formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed
errori che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non
potevano non contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire
che leggere i libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri
secoli147, dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo
esito più compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo,
della scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema
tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di
impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre
liberarsi per G. che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio, che
“egli rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti – di
turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza del
pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso comune,
giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare” Cartesio, I principi
dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e
M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M.
Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295, “Conversare con
gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si passa troppo
tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio paese; e quando
si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli passati, si resta per
lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno d’oggi”. 148 E. G., La
filosofia dell’umanesimo] Vorremmo sottolineare tuttavia che il filosofo
italiano non tiene conto di una certa riabilitazione da parte di Cartesio dei
concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio nell’ambito della riflessione
morale, come si evince dal Discorso, dai Principi e dalle Passioni dell’anima,
oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra interpretazione ciò accade
per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide l’impostazione idealistica
che G. riceve negli anni di apprendistato alla Cattolica, per cui l’inizio del
moderno e la nascita del soggetto avrebbero in Cartesio un punto di partenza
fuori discussione149; inoltre, l’impostazione heideggeriana che, come è noto,
si concentra molto sulla critica a Cartesio, interpretato come colui che
avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio cruciale nella storia della
metafisica, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della
domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la
comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti,
Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione
dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il fondamento e la misura di
ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si asserisce che “la
tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma
all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la
quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”152: tale
metodo è il cogito e le sue strutture. Infine la forzatura G.ana della
contrapposizione Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una nuova via
d’accesso alla filosofia le cui radici storico-culturali egli rintraccia
nell’Umanesimo di matrice latina e mediterranea in senso lato. Ritornando a
Cartesio e agli aspetti meno teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da G.,
possiamo prendere come riferimento il significato della nota metafora della
casa153 del Discorso che “Devo
richiamare alla mente la situazione filosofica della filosofia italiana negli
anni ’20, periodo in cui compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia
hegeliana predominava in Italia grazie a Croce e Gentile ed era stata
introdotta fin dalla fine del XIX secolo da Bertrando Spaventa”, E. G.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 31. 150 M.
Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p.
158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di cominciare a ricostruire
la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e
architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato
inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un altro alloggio dove
si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per
non restare indeciso ! 58! vuole comunicarci la necessità di
prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente era precluso
in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a ciò che sembra
ragionevole e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è consentito in
ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non intendo che noi ci serviamo
d’una maniera di dubitare così generale, se non quando cominciamo ad applicarci
alla contemplazione della verità. Poiché è certo che, in quel che riguarda la
condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle
opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione vuole che ne scegliamo
una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se l’avessimo
giudicata certissima”154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine è
bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui
fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale
l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una
co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di
giudizio: “con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi
[...] non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso
che pensare”155. Del resto lo stesso G. riconosce la portata più ampia del
cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo portata avanti nel
saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese afferma che “la
metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si
tenga presente che cosa egli concretamente intenda con “cogitare”. Pensiero,
cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma
è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un
momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma anche di
sensazione, immaginazione, volontà, per G. si profila il problema del rapporto
e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di manifestazione
dell’essere157. Ancora più discordante rispetto all’interpretazione di Cartesio
esposta negli scritti maturi è l’affermazione presente in L’inizio del pensiero
moderno. Della passione nelle mie azioni
mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere
perciò di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria,
riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp.
305-306. 154 Id., I principi della filosofia] G., Dell’apparire e dell’essere,
cit., p. 289. 157 Ivi. ! 59! e dell’esperienza dell’originario in
cui il cogito – a cui precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere
elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di
principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima
connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza
dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio
non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il
vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino
al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende
possibile [...] di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il
compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra
come il vero fondamento del sapere”159. La posta in gioco che emerge è quella
del riconoscimento della priorità della manifestatività dell’essere quale
fulcro tematico della filosofia. Il reale come punto di partenza della
riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle vie di accesso, che per G. –
questa volta non in opposizione ma in linea con Cartesio – ci pone di fronte ad
una molteplicità di forme che sono in un rapporto di intima co-appartenenza.
Nelle riflessioni appena ricordate traspare un’immagine di Cartesio più
articolata rispetto alla semplicistica riduzione caratterizzante gli scritti
tardi che si condensa nella opposizione Vico /Cartesio (pensiero topico e
pensiero critico) e che sorregge anche l’idea G.ana della presenza di un
cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana. Hegel160 avrebbe
riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa e l’opera che G.
prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia in cui l’Umanesimo
appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa, che non realizza
in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia e dell’arte, e le
cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il pensatore
milanese “Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa
riferimento l’Umanesimo, di essere Ivi,
pp. 286-287. 159 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti,
cit., pp. 817-818. 160 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale] volgarizzatrice
(eine Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo
sviluppo del diritto romano abbia un valore filosofico”161. Nell’ambito della
definizione del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la
scienza e la religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: “sembra
che vi sia un terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e
formale della scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della
religione –: cioè la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti
universali, filosofeggia su Dio e sul mondo però anche questa filosofia
dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si devono ascrivere gli scritti di
CICERONE. Lo stesso CICERONE, al quale Montesquieu avrebbe voluto assomigliare,
definito come l’esponente dell’umanesimo universalista è al centro anche delle
riflessioni di Mommsen – come ricorda G. nel catalogo delle interpretazioni
inautentiche dell’umanesimo – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo
stile giornalistico”. Altra vittima degli strali di G. è il romanista Curtius,
annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica a mero
esempio d’esercitazione stilistica. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel,
Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per G. è inaccettabile o
perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre la filosofia sotto
l’egida del problema della conoscenza non consente di rintracciare nell’età
dell’umanesimo alcuna innovazione [Hegel, Introduzione alla storia della
filosofia, introduzione di Pareyson e Plebe, Laterza, Roma- Bari; Montesquieu,
Discorso su Cicerone, in P. Ciaravolo, La personalità filosofica di CICERONE, Aracne,
Roma. Il primo, presso I ROMANI, che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti
e la liberata dall’intralcio di una lingua straniera. Egli l’ha resa COMUNE a
tutti gl’uomini, come la ragione, e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati
si sono trovati d’accordo con LA GENTE COMUNE [cf. Grice, “The lay and the
learned”]. Io non sono in grado di ammirare abbastanza la profondità dei suoi
ragionamenti in un tempo in cui i saggi non si distinguevano che per bizzarria
dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse venuto in un secolo più illuminato
e che avesse aiutato a scoprire la verità. Uso l’espressione di Battaglia
contenuta in Le virtù moderne di CICERONE. Appunti sulle Tusculanae
disputationes, in P. Ciaravolo; G., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale; Mommsen, Storia antica di Roma antica, Sansoni, Firenze; G., La
filosofia dell’umanesimo] significativa. I testi citati polemicamente da G.
sono Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento e Storia della
filosofia moderna. Curtius, di formazione neo-kantiana, si occupa intensamente
dei problemi matematici e fisici della modernità, e la predilezione per alcuni
autori, quali GALILEI, Keplero, Newton, Cartesio, Spinoza e Leibniz, ci fa
comprendere quanto potesse valere nel tragitto filosofico tracciato da Cassirer
il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo G., per Cassirer laddove
nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non si giunge nella
filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo. Se prendiamo in considerazione
il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che raccoglie i contributi
cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo
all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa
lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del FICINO nella
storia della filosofia – recensione al libro di Kristeller La filosofia di
Ficino – Cassirer afferma che, alle sue origini e per il suo scopo principale, l’umanesimo
non può dirsi un movimento filosofico. Tra gl’umanisti più noti non troviamo
grandi filosofi veramente indipendenti. Il loro interesse e l’erudizione e la
letteratura, non la filosofia. L’unica importanza dell’Umanesimo e del
Rinascimento e la mutazione della dinamica delle idee e lo slittamento dal
particolare all’universale. In questa fase la riflessione sui principi della
conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente e la filosofia sembra
avere una efficacia limitata. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale; Cassirer, Il FICINO nella storia del pensiero, in Dall’Umanesimo
all’Illuminismo, a cura di Kristeller, Federici, La Nuova Italia, Firenze; L’originalità
del Rinascimento, in Dall’Umanesimo all’Illuminismo; Storia della filosofia
moderna; Dall’umanesimo alla scuola cartesiana; La rinascita del problema della
conoscenza, Arnaud, Einaudi, Torino. Sembra trovare una parziale
giustificazione allora la critica G.ana rivolta al pensatore tedesco: Cassirer
preoccupato di rintracciare nella tradizione umanistica ciò che per lui
costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il problema della conoscenza –
dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce nell’Umanesimo. Ma si tratta
di una critica solo in parte condivisibile poiché G. e Cassirer non sembrano
tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso il mondo del SIMBOLICO. Nonostante
questo punto di contatto G. pone una netta differenza tra la sua teoria di una
logica della fantasia e quella cassireriana della FORMA SIMBOLICA. Afferma G/
che e un errore e un fraintendimento molto grave interpretare VICO come se la
logica della fantasia e limitata a una pura logica di la FORMA SIMBOLICA nella
maniera che Cassirer usa quest’espressione. In particolare all’interno
dell’opera Filosofia delle forme simboliche, Cassirer analizza la funzione del
mito, inteso come originaria forma di vita, essenziale per la scoperta e la
comprensione del mondo storico. Le produzioni mitiche prendono evidentemente
origine dall’immaginazione, anche se il filosofo non si sofferma sulla relazione
specifica tra mito e immaginazione, bensì insiste sulla relazione tra mito e
immagine. Quest’ultima ha una funzione più importante del mero SEGNO in quanto,
secondo il filosofo, l’immagine contenne l’essenza stessa delle cose. L’immagine,
espressione di un fenomeno, non ha un semplice carattere di rappresentazione,
che indica qualcosa di oggettivo al di là di essa, ma in essa si dà per noi
qualcosa di reale, in essa qualcosa di demonicamente vivente viene colto e
posto dinanzi a noi in piena presenza. Dal passo sopra citato emerge la ricerca
di una struttura originaria che permetta la ri-elaborazione dei processi
storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire dalle sue creazioni
mitico-simboliche. G., La filosofia dell’umanesimo. La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza filosofica di VICO oggi, in Vico e
l’umanesimo; Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Arnaud, La nuova
Italia, Firenze. Queste strutture non hanno una funzione solamente COMUNICATIVA
ma agiscono da mezzo col quale si determina la compiutezza dei loro contenuti.
A partire da questa premessa dobbiamo considerare il mito, la religione, IL
LINGUAGGIO, non come forme di dominio sul mondo, bensì come forme essenziali per
la scoperta del mondo storico dell’uomo. La formazione simbolica costituisce
così il medium tra l’elemento trascendentale e il mondo storico-reale. La
funzione di sintesi, affidata alla formazione simbolica, diviene fondamentale
strumento di concezione della storia che vuole liberarsi da una visione
assolutistica e assoluta o da qualsiasi riduzionismo empirico- descrittivo. Dice
Cassirer in Saggio sull’uomo che, per semplice che esso possa sembrare, ogni
fatto storico può venire determinato solamente in base ad una preliminare ANALISI
DI SIMBOLI. La prima e più immediata materia della conoscenza storica non è
costituita da cose e da avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto
grazie alla mediazione e con l’introduzione di questi DATI SIMBOLICI si può
avere una idea della realtà storica, degli avvenimenti e degli uomini del
passato. Riprendendo la teoria vichiana del mondo storico come creazione
dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro campo, la mente dell’uomo è più vicina a
se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è creato
dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà. Il campo di studio elettivo dell’uomo
non è dunque il mondo matematico né quello fisico, ma il mondo storico, la
società civile. Quel che VICO chiede è una filosofia della civiltà: una
filosofia la quale sveli e spieghi le leggi fondamentali che governano il corso
generale della storia e lo sviluppo della cultura umana”180. Se non sapessimo
che è Cassirer l’autore potremmo pensare che questo passo esce direttamente
dalla penna del G. autore di VICO e l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i
linguaggi del mito e della fantasia permettono agli studiosi moderni di
comprendere la coscienza storica dell’umanità. Il mito è una forma
comunicativa, espressiva e esplicativa di eventi e fenomeni e va ben oltre una
Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umna, a
cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma; Desartes, Leibniz e VICO, in Id.,
Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, Ferrara, Laterza, Roma- Bari] rappresentazione
illusoria che nasconde il vero stato delle cose. Cassirer lettore di VICO
mostra non pochi punti di contatto con G. che del filosofo napoletano
sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti mitici, poetici, simbolici,
fantastici su cui il filosofo delle forme simboliche a lungo si è soffermato.
Se G. esplicitamente menziona la presenza di una logica della fantasia in Vico
– in cui il concetto fantastico e immaginativo cristallizza un essere
attraverso l’atto dell’ingegno, con una visione diretta di una totalità
pittorica –, Cassirer si riferisce a VICO indicandolo come il creatore di una
logica dell’immaginazione. L’umanità, secondo lui, non poteva cominciare con il
pensiero astratto e il linguaggio razionale. Dovette passare per lo stato del LINGUAGGIO
SIMBOLICO, del mito e della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in
concetti ma in immagini poetiche; in realtà il mondo in cui vive sia il poeta
che il foggiatore di miti sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati
dello stesso potere fondamentale, del potere di personificare. Non possono
contemplare nessun oggetto senza dargli una vita interiore e una forma
personalizzata – “Those spots mean measles, dark clouds mean rain, smoke means
fire]. La breve sosta sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di
istituire un interessante confronto G.Cassirer che ha come scopo quello di
mettere in luce un comune terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del
simbolico, del mitico, del poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti
dal filosofo milanese nell’elenco delle interpretazioni inautentiche
dell’umanesimo sono Apel e Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto
l’essenza autentica dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel sostiene
la tesi che gli umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un
armamentario filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali
asserzioni patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica
polemica d’un nuovo G., Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo,
G. La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il
problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti,
cit., 255- 271; Id., Paideia ed umanesimo, in Id., Primi scritti, cit.,
357-369. La filosofia dell’umanesimo] metodo gnoseologico, così come essa è
caratteristica dell’epoca umanistica di passaggio fra scolastica e scienza
moderna, non si potrà trarre una profonda intelligenza della logica formale
(una sensibilità per il formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le
autentiche acquisizioni della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti
gli umanisti)”185. Dal suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio
umanista a mera prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le
origini dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti
italiani del Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger
dichiara che l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale
culturale che ha per meta la formazione dell’uomo, Jaeger, infatti, asserisce
in Paideia che “sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo
al centro del loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del
problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il
procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello
dell’uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il
cui tema inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo
in tutta la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la
natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua
esistenza: tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si
tratta di “manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova
ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello
spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza
[...]. Siamo ora in grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca
l’originalità dei Greci. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io
soggettivo, ma l’acquisita coscienza della legge universale della natura umana.
Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo”
Apel, L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo d’ALIGHIERI a VICO, il
Mulino, Bologna; Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Emery e Setti,
Bompiani, Milano. La concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico,
intendendo l’attività educativa come punto di incontro tra antichità e
presente. Secondo l’esponente del cosiddetto terzo umanesimo. Per l’età
moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione consapevole della
nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua volta, se non sul
fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo ha colà, appunto,
la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una
creazione dei Greci. La paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger,
sia il Cristianesimo che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la
formazione di una umanità superiore. 187 G., La filosofia dell’umanesimo. Infine,
nel catalogo G.ano degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che
secondo il pensatore italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo
non platonico che al contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di
mettere in luce. Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al
Rinascimento che “gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro
scritti su diversi argomenti mancano della precisione terminologica e della
consistenza logica che abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di
professione in altre parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia
coerente per un determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune
a tutti gli umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in
termini di dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo G. Kristeller “al
quale dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo
[...] valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della
tradizione platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici
di Friburgo Il confronto G.ano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi alla
filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte. Il
testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente
dedicato alla memoria di Heidegger eletto da G. a suo maestro. Eppure
Heidegger, come ricorda G. stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore
alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale
romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di
paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza
dell’uomo. Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento,
Gargano, Bibliopolis, Napoli. Afferma Kristeller: che, diversamente dalle arti
liberali del primo Medioevo, gli Studia humanitatis NON INCLUDENO la logica o
il Quadrivium -- aritmetica, geometria, astronomia e musica --, e diversamente
dalle Belle Arti del Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le
arti figurative o la musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano
neppure le materie principali che si insegnavano alle università del tempo,
cioè la teologia, la giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche
all’infuori dell’etica, cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica.
In altre parole, diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo
non costituisce il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma
soltanto un suo settore parziale, ben limitato, per quanto importante.
L’umanesimo ha il suo centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre
materie del sapere, compresa la filosofia, con l’eccezione della filosofia
morale, hanno un loro sviluppo separato, che e in parte determinato dalla
tradizione medievale, ma che fu poi lentamente trasformato da osservazioni,
problemi e teorie nuove, trasformazione in cui anche l’umanesimo ha la sua
parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e indirettamente”, Id., L’umanesimo
italiano del Rinascimento e il suo significato,Gargano, Istituto italiano per
gli studi filosofici, Napoli, G., La filosofia dell’umanesimo. Dedicare un
testo sull’umanesimo ad un anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita
poiché effettivamente Heidegger appare molto duro nei confronti di una
tradizione culturale che avrebbe meritato, se non un giudizio differente,
perlomeno una più attenta riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale. Il lavoro è dedicato alla memoria di
Heidegger che è stato il mio maestro: anche il mio saggio sotto la sua direzione
e pubblicato (Il problema della
metafisica platonica) e dedicato proprio a lui. Il magistero filosofico di
Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo
sollecitano in G. tematiche speculative che renderanno possibile la
problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes
(1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy, ma anzitutto in Heidegger and the
Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo
Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo
pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in
cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica.
Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la
risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende
qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente
[...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment
nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come in Sein
und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a
principalement l’Etre”194. La
tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo
francese in L’esistenzialismo è un umanismo195, ed è inserita nel contesto
della metafisica dell’umanismo che ! Ivi, p. 17. 193 Ivi, p. 29. 194 M. Heidegger,
Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 61.
195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1996, p.
40. ! 68! “non pone l’humanitas dell’uomo ad un livello abbastanza
elevato. Una metafisica di questo tipo, che eleva l’uomo a soggetto despota
dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo Heidegger, a comprendere il legame
dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il soggiorno dell’uomo197, la radura-
Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando all’auto-interpretazione
heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né inumano. Non è umanistico
perché la questione fondamentale del suo pensiero è l’essere, la Lichtung,
l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad accidente periferico dell’essere?
Umano e inumano sono concetti inadeguati per un pensiero che vuole andare oltre
l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste ultime sono per Heidegger
sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro di G. con Heidegger a
Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella tormentata e difficile
rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La connessione istituita da
Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia l’umanesimo in quanto
interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo tedesco, erede del
greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come renascentia
romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono rintracciabili nel
contesto più generale della critica alla metafisica che Heidegger conduce:
“ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di
una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che
presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, l’interpretazione
dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere [...] nel
determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione
del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga
una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è un’antropologia ontica
che muove da un ente senza tenere conto del riferimento all’essere – il grande
impensato della tradizione metafisica occidentale, rea di un doppio
occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι); oblio della
ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente).
Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.
56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 43.
! 69! al nesso essere-uomo significa pensare innanzitutto a quell’uomo
oggetto dell’orazione pichiana che accende un dibattito filosofico, promosso
proprio da PICO (si veda), e che è dominata dalla centralità dell’uomo
all’interno della realtà, peculiarità riconducibile all’essenza particolare del
suo status ontologico. A differenza degli altri enti l’uomo è quell’ente che
non ha una essenza specifica, una natura propria e definita, chiusa e
circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha
che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà”200. Il problema posto
da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare
indifferente G. che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e che trova in
Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto teorico importante
per il tentativo di risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in
Heidegger e il problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che
la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica
razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli
enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella
tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale circa il
problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può fare la
sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare le
categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare”202. Occorre precisare,
secondo G., che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la
prospettiva onto-antropo-logica G.ana ha come scopo teorico proprio la
chiarificazione del Cfr., GARIN, L’UMANESIMO ITALIANO, Garin, L’umanesimo
italiano] Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di
Heidegger nel pensiero di G. D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. G.
versus Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. G., cit., p. 25: “la
Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per G., non solo nel
confronto con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua attesa è
rimasta delusa: non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento critico, o
meglio autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e italiana,
di quel che G. chiama Umanesimo [...] per G. si produce allora una difficile e
tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura
costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua
originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione
filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal nostro punto di vista,
l’incontro a Todtnauberg tra G. eHeidegger, sebbene significativo, non
costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle
affermazioni sull’umanesimo espresse da G. nella produzione giovanile. Infatti,
la questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del
1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che
intercorre tra il 1924 e il 1946 G. ha già maturato le coordinate fondamentali
del suo itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger riveste un ruolo
centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70! significato filosofico
dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al centro
della sua riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In Il
tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: “sia dunque ben
chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e
non storico [...] che significato può dunque oggi avere un umanesimo?”203.
Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge G. a misurarsi con le
questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si tratta di accenni
polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma che ci consentono
di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del declino di una visione
globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento dalla realtà che le
scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario contribuiscono ad
espandere a dismisura: “qui nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo
crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il
disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico è per G. responsabile di
quella trasmutazione del mondo vero in favola, di una de-realizzazione del
reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione dell’oggettivo
svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che invece mediano le
scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il risultato di un
interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi presupposti”205.
Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è la ricerca
filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in cui motivi
etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente in quel
contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale che
l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del
discorso G.ano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme
una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il
coacervo delle interpretazioni analizzate da G. ci aveva condotti: esaminate
Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV, Umanesimo e
scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi umanistici, a cura
di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205 Ibidem. !
71! tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione storica
dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo attorno al
quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il percorso
onto-antropo-logico di G. staziona a lungo presso il concetto di Lichtung, e
non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni friburghesi”.
La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della prospettiva
onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di vista, il plesso
teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che successivamente avremo
modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia; quella sulla metafora e
la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero G.ano della Lichtung
ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di questo concetto, ciò ci
consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si staglia la particolare
declinazione che della Lichtung offre G.. II. V La Lichtung in Heidegger Come
ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung heideggeriana è un esempio di
etimologia per antifrasi come il latino lucus a non lucendo, dove il lucus, il
boschetto sacro, viene fatto derivare per antifrasi da lucere, perché esso ha
poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali: al luminoso (Licht e lux),
all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il termine Lichtung non ci
riferiamo ad una espressione metaforica per indicare ciò che si sottrae
all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di base di cui fanno
parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua capacità di creare
corrispondenze ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la concettualizzazione
filosofica della Lichtung si dipana nell’arco di più di 35 anni di speculazione
filosofica: dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno
di Resta ancora aperta tra i critici la
questione di una possibile traduzione efficace del termine che conservi il
senso filosofico originario senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e
foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da Cicero circa la
traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né l’affinità fonica e
verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte inapparente di ogni
apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è noto sono quelli di
Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che rende con
radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella di
Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita;
Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici
significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso,
Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg e Sellier, Torino 1993. Per una
ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali
di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, in M. Heidegger, Introduzione
alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di Cicero, Bompiani, Milano 2010. Mi
permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in M. Heidegger,
pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche”, Giannini,
Napoli] pubblicazione di Tempo ed Essere, e oltre. Le sue molteplici
“apparizioni testuali” hanno sensi e significati di volta in volta diversi, ma
sempre interconnessi e riferiti alla problematica della ostensione della
correlazione e coestensione di Da-Sein, Sein, e aletheia. Tale correlazione se
nella prima fase di pensiero del filosofo è pensata più a partire dall’esserci
e dall’analitica esistenziale, nella fase tarda, invece, è tematizzata a
partire dal legame stesso, da quel plan di cui si asserisce l’identità con
l’essere, come possiamo leggere a partire da Lettera sull’umanismo207. La
Lichtung heideggeriana ha una articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii)
arte, (iii) mondo-spazio, (iv) verità e (v) nulla sono i poli con i quali la
Lichtung si converte di volta in volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung
appare come Da-sein nel senso di Erschlossenheit208 con evidente correlazione
all’immagine classica del lumen naturale, dunque alla luce. La caratteristica
della non-chiusura o dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note
distintive: la spazialità propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana
– benchè si tratti di un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta
mai al modo dell’ente semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura
dell’essere. Inoltre, l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché
ha una connotazione duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla
Entdecktheit, che contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice
presenza ha come nota caratteristica quella di essere uno svelato che non può
aprire un mondo di significati ma che si trova già sempre immerso in una
totalità di appagatività. L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo
rende quell’essere che può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che
può essere scoperto. Si tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che
esprime sia il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto
essenziale dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale. “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si
dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment
l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo
stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208
L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in
un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la
spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non
chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale.
Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con
l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso
aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro
ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo,
tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165. ! 73! (ii) La
relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il
termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità
stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del diradarsi
ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si evince
dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in L’arte e lo
spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la messa in
opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene
declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera
d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera
accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in
opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della
Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come
mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della coniugazione
della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io
trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale
sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e
di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso,
come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di
manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del
soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha
più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la
condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci
all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica
esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento
dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello
spazio Il termine Offenheit è impiegato
soprattutto in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al
contempo aprente contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il
mondo, infatti, come l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione,
donazione e fondazione le quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente,
facendo sì che l’ente “insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione
della donazione di senso. 210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id.,
Seminari, tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p.
158. 212 Cfr., V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della
storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino,
Argalia, 1976. ! 74! omogeneo naturale213. Inoltre, risulta
impraticabile la deduzione dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono
fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di
cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi
dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il
concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e soggiorno è
strettamente connesso al concetto di Lichtung che dirada il luogo di ogni
manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e oscurità,
l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. (iv) Il legame di Lichtung e
verità si pone con forza in un suggestivo paragrafo di Essere e Tempo, che reca
il significativo titolo di Esserci, apertura e verità214. Qui Heidegger afferma
che un’asserzione è vera innanzitutto perché è apofantica, ossia è
manifestazione dell’ente215. Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità
è connessa ad un concetto di Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit
(come uno stare aperto da parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser-
manifesto da parte dell’ente). La grande sfida che si apre alla riflessione del
filosofo tedesco è quella di portare al linguaggio quello sfondo sul quale si
staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e
oscuro su cui si pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale
possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità. Preminente
secondo Heidegger nella dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi
della cosa, e non il Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale
separazione tra il contenuto dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha
generato per il filosofo tedesco quel “riferimento al vedere, all’apprensione,
al pensare e Ma soprattutto
dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul fondamento della
temporalità. Nel noto § 70 di Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta
subordinazione al tempo, alla temporalità estatico-orizzontale, che sola rende
possibile l’entrata dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso
Heidegger ad avvertire l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione
espressa in Essere e Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità
dell’esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più
sostenibile”, M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci
conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger afferma nel contesto della
disamina di “ciò che è vivo e ciò che è morto” del pensiero diltheyano che «lo
spazio del mondo ambiente non è quello della della geometria. Esso è
essenzialmente determinato dai momenti usuali della vicinanza e della
lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea dello spazio geometrico»,
Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione
storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di Essere e
Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265. ! 75! all’asserire”216 della verità
che è caduta sotto il giogo dell’idea, con il conseguente mutamento della
verità in orthotes. (v) L’altro concetto fondamentale intrinsecamente connesso
a quello di Lichtung è quello di nulla, di cui Heidegger parla soprattutto in
Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è contraddistinto da una peculiare
relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung divengono sinonimi perché la
peculiare funzione di diradamento della prima, e il ruolo di annientamento
della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua luminosità, consentendo ad
esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono quella “notte chiara” in
cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno, radura e nulla non
vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano in quella differenza
nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di questa incursione
nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per acquisito che essa
si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica. Si tratta del mero
“che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così originario, che nel suo
regressus verso l’inizio retrocede verso un indisponibile e pre-teoretico darsi
può ancora edificare? Su quali fondamenta e a quale scopo? Quale telos l’“uomo
della radura” può porsi e come può orientarsi?
Id., La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, a cura di F.
W. Von Hermann e F. Volpi, Milano, Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il
discorso si dipana su un piano che è più strettamente analitico-esistenziale,
nella prolusione Che cos’è metafisica (1929) la questione si pone sul terreno
ontologico. Qui il discorso sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica
del rapporto tra essere e nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è
tanto l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello spaesamento – propria
dell’angoscia, quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di apertura dell’essere
– della stessa: «solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge
quell’originaria apertura dell’ente come tale [...] il niente è ciò che rende
possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano”, M. Heidegger,
Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia, cit., pp. 70-71. ! 76! II.
VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta G.ana Queste sono le sfide che
il pensiero heideggeriano pone e che G. rimedita in modo originale coniugando
Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva un
pericolo per l’esperienza autentica dell’originario G. individua una
possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non
metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e razionalistica.
Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi
del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo –
nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo
conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni
elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio
razionale e scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni
dell’uomo; il suo ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la
razionalità genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà”218.
Per il filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa
prospettiva e la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso
all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo
di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per G. quello compiuto da
Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che
tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella
Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare, portare
a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto del
quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel quale
ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione,
forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in
quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio
come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro
intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli
antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva
metaforologica originale che coniuga l’analisi
E. G., La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77! della
metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno
globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel
contesto della Lichtungsgeschichte di G. emergono in primo piano i temi del
non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e
il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto
heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, G. afferma che
“uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del
contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo
mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico mediante
un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in
termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da questo passo
emerge la precisa declinazione che G. conferisce a tale idea: si tratta di una
declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung heideggeriana pone
è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base dell’evento, della
manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere al quale è chiamato
l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota linguistica perché l’appello
dell’essere che avviene nella dimensione della Lichtung coinvolge innanzitutto
il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, G. rimarca più volte la retrodatazione
della concettualizzazione della Lichtung: interpretata come riflessione
sull’evento originario del rapporto uomo-essere la Lichtung compare già nelle
riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle che riguardano il linguaggio.
L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il collega di corso di G. durante gli
“anni mitici di Friburgo”221 faceva risalire al 1914222, in realtà è molto più
antica per G.: precede Heidegger e Ortega di secoli. Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo,
cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono nostri. 221 Id., La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21. 222 Ortega ha sempre
rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune intuizioni filosofiche
fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti importanti di Heidegger che
non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità di tredici anni, nei miei libri”,
Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932), in Id., Goethe, tr. it. di A.
Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47, nota 2. I concetti sui quali
Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si sarebbe espresso con anticipo
rispetto ad Heidegger sono quelli di essere, verità, cura e lingua. Per una
analisi approfondita dei concetti ora ricordati rimando a G. D’acunto, Ortega
critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi interculturali”, 1/2015 Trieste.
Vorremmo richiamare all’attenzione i passi orteghiani del 1914 in cui si dice sia
prefigurato il concetto heideggeriano di Lichtung, ! 78! Secondo il
filosofo milanese, infatti, il problema della radura risale alle riflessioni
dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi umanistici un secolo fa,
con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e Garin, gli studiosi hanno
costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e
dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione, largamente diffusa, è la
ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente impegnato in polemiche
contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un ingenuo antropomorfismo. E
tuttavia uno dei reso con la metafora
della radura nel bosco, e che esprime al contempo l’idea di verità come αληθεια
e non nascondimento. Ortega, già nel 1914, affermava che: “la verità è
caratterizzata da una pura illuminazione subitanea che possiede, però, solo
nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo nome greco, aletheia –
che in origine ebbe lo stesso significato della parola più tarda apocalipsis –,
vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento, toglimento di un velo”,
J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, tr. it. a cura di
G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p. 68. In Ortega, dunque,
sarebbe presente quella metaforica presente anche in Heidegger: la radura nel
bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre lo spazio che lascia
entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo Ortega “il bosco è una
natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo nome conserva un alone
di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il bosco è sempre un po’
più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco si trova davanti a noi
in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e
distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come l’importanza della
metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole capacità di
espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da una chiara
coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte nell’estetica
del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe di testi quali
Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes metàforas, La
deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della metafora che
travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente
filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo
estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si
materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura
viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un
naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di
affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare
le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un
movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua
funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset,
Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco
e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una
“pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà possibile
constatare che il tema della metafora svolge una funzione fondamentale
nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché tenta di
ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo nelle pagine
di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione, una metafora
elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera nell’ansia di evitare
o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”. J. Ortega y Gasset, La
disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia, Sossella, Roma 2005, p.
45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è un’operazione metaforica: “il
logos stesso è un’espressione metaforica [...] così, se quanto diciamo non
coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere che perlomeno lo
suggerisce. E tale dire che è suggerire è la metafora”, J. Ortega y Gasset, La
disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46. Cfr., G. Cacciatore, Sulla filosofia
spagnola. Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013 soprattutto il saggio “La
zattera della cultura. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset”, pp. 47-77; G.
Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive
critiche sul pensiero di J. Ortega y Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F.
J. Martìn, Teoria del linguaggio e linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, pp.
313-327, in F. Ratto-G. Patella (a cura di), Simbolo, metafora e linguaggio
nella elaborazione filosofico- scientifica e giuridico-politica, Sestante 2000;
G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora come parola esecutiva, pp. 39-51, in
“Studi interculturali”, n. 2, 2014; F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in
Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung.
Studi critici, Unicopli, Milano 2007, pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a
cura di) Omaggio a Ortega, Guida, Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio
Un intellettuale di vocazione. A proposito di La vocazione dell’arciere.
Prospettive critiche sul pensiero di Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi
interculturali”, Trieste 2014; G. Ferracuti, Il punto di vista crea il
panorama: molteplicità di sguardi e interpretazioni in Ortega y Gasset, pp.
96-118, in “Studi Interculturali”, Trieste 2015. ! 79! problemi
centrali dell’umanesimo non è l’uomo bensì la questione del contesto originario,
dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura
originaria, definita altrove come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle
speculazioni umanistiche coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione
tra cosa e pensiero. Oltre all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero
per G. abbiamo una tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico
dell’ente attraverso il linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel
rapporto di co-estensione ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che
cos’è il logos per G.? Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della
razionalità, del concettuale, del deducibile? Si tratta unicamente di una
polarità irrimediabilmente antitetica al pathos? Ma soprattutto in che
relazione è l’idea di logos con quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo
capitolo in maniera più dettagliata occorre analizzare i molteplici significati
di logos offerti da G. e connetterli con le questioni dell’apparire e della
passione dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung
nel pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo
anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese
sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si
tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos
è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni
del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a:
“l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti
precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di
una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita.
Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad
una molteplicità [...] E. G., Heidegger
e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la versione
tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens,
Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi, G.
e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto G., cit., p.
10. Completamente opposto è il giudizio di Rita Messori che sostiene con
fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr., R. Messori, Le forme
dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di E. G., cit.,
soprattutto le pp. 66-84. ! 80! è radicato nella differenza
ontologica, col che si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del
logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella
differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico,
bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il termine retorico” – che in
G. indica l’ambito di progettazione del pathos – “assume un significato
essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una
persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del
pensiero razionale”227. Come conciliare allora il periodo a -! “si conferma la
nostra originaria tesi della precedenza del logo [...] il sentimento non è un
momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein” con il
periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che costituisce la base del
pensiero razionale” G. stesso avverte durante tutto il suo iter di pensiero la
necessità di una ricomposizione di queste due vie del filosofare tanto che
giunge ad affermare che le analisi svolte sull’umanesimo sono da concepire come
“uno sforzo per gettare un ponte tra logos e pathos”228. A questo punto si
impongono una serie di osservazioni: G. non parla in maniera univoca di logos –
così come non parlerà in maniera univoca di retorica – anzi, individua due
logoi differenti, o meglio due forme di logos: una disgiunta dal pathos,
l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio sull’opposizione tra un logo inteso
secondo una modalità logico-formale e un logo intrinsecamente legato alla
dimensione patica che si può comprendere il suo pensiero. Abbiamo un
significato di logos da interpretare come “processo del manifestarsi”, in cui
si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un nuovo concetto di
identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla logica del pensare,
dell’atto E. G.., Il problema del logo,
cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id., Retorica e filosofia, pubblicato
in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The Pennsylvania State University Press,
ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 228 Id.,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 170. !
81! pensante, che porta a manifestazione. La lezione heideggeriana di
L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica coniugata a quella
gentiliana della Logica è evidente. G. intuisce la convergenza tra l’atto
immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia
dell’essere e forte di questo connubio è in grado di porre il vero problema che
potremmo definire autenticamente fenomenologico229. La questione che la
Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è quella
dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto fondativo del
reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade la differenza
ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che appare? Come
esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio? Se da un
punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta connesso
strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso logos-pathos
(poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della manifestatività
dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una connessione molto
interessante risulta essere quella istituita d G. tra la Lichtung heideggeriana
e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben più complessa della
secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza del momento
patico e di quello logico determina la forma della manifestatività. Il tema
dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale per G.
e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo esplicito
negli anni della maturità), sia già presente nella produzione giovanile
riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività e
dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo
sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di riferimento
centrale all’interno della prospettiva G.ana, sia per quanto riguarda il
valore della parola poetica Analizzeremo in modo approfondito questo aspetto
nel prossimo capitolo. ! 82! come linguaggio originario, sia per il
parallelismo istituito tra la Lichtung e le luci vichiane230. Contro
l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come metafisica dell’ente uomo G. –
a sua volta con categorie ermeneutiche mutuate dal maestro – individua
un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche degli umanisti. In questo
percorso di riabilitazione del pensiero retorico231 latino Vico risulta essere
una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che
“il problema della verità logica [...] deve essere sostituito dal problema
molto più originario del disvelamento, dal problema della schiarita (aletheia)
nella quale primariamente appare ciò che è, l’essente. Ciò assegna un nuovo
compito alla filosofia: quello di sostenere il primato e l’originarietà del
linguaggio poetico rispetto al linguaggio razionale; rammentiamo a questo
proposito la spiegazione heideggeriana della Lichtung. La tesi di Heidegger ci
riporta a quel pensatore del XVIII secolo con il quale la tradizione umanistica
raggiunge la sua più profonda espressione e significanza filosofica: VICO (si
veda). In Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, la
questione dell’apparire, della fantasia, del lavoro e della Lichtung è
esplicitamente connessa con la figura dell’“ultimo umanista”: Vico. G. pone il seguente problema: “quando, come e
dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla
natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung.
Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal
caos originario) è un processo che parte dalla originaria estraneazione
dell’uomo, intesa da G. come “angoscia originaria dello smarrirsi nella foresta
primordiale”234 e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo
antropologico, approda all’istituzione della comunità umana mediante la parola.
Questa più che configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso
saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad
essa connesso Cfr., L. Amoroso, Vico,
Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di G.,
cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para
una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y Ortega, cit., pp.
146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. G., Potenza della fantasia. Per una storia
del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi, p. 253. ! 83! –
assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando una virtù
onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale
per fondare il primo luogo umano”235 G. rintraccia l’autentica caratura
onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per G. la Scienza Nuova
vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare l’uomo e il suo
mondo e solo secondariamente affronta la questione della storicità e
dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina heideggeriana
della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza Nuova appare la
problematica principale del filosofo napoletano: quella del disvelamento del
modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso l’interrelazione della
parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto linguistico stesso si
istituisce. L’affermazione G.ana fa perno sul passo vichiano della Scienza
nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung comparirebbe. In Vico e
l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello vichiano della
“schiarita della foresta primordiale”236. Mettere insieme Vico e Heidegger
segnatamente al tema della Lichtung è per G. un’operazione che ha come esito un
esame della metafisica in generale e non solo di una metafora, per quanto
importante, della filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di non
secondaria importanza. Il gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che possiamo
ricostruire – come di fatto è stato ricostruito magistralmente da Amoroso237 –,
per quanto interessante, rischia di rimanere molto generico se non calato in un
orizzonte teorico più ampio che fa interagire i due autori sul terreno della
metafisica. Conscio della grande distanza che corre tra il tentativo vichiano
di una riforma della metafisica e di quello heideggeriano di un suo
superamento, ma nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi alla
“barbarie della riflessione” e ai trionfi della ratio, G. pone l’accento sul
tema della Lichtung quale terreno di confronto tra due autori che alla
ritematizzazione di un rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato
gran parte delle proprie opere. La metafora che
Ivi, p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 127. 237 Cfr., L.
Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Studi in
memoria di E. G., parzialmente modificato in Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa
1997, pp. 99-122. ! 84! G. eredita dal maestro degli anni mitici di
Friburgo, come abbiamo visto, declina la dimensione della luce con quella
dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene rintracciata in Vico. Ovviamente
la metafisica della luce, che è a fondamento della scienza nuova, va intesa nel
senso di un neoplatonismo cristianizzato. Nella metafisica del suo De
Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la chiarezza del vero è come
quella della luce. Qui la luce vale come metafora della verità metafisica di
Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il
vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e
pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché è il principio
infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè formate e
finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico”238. L’alternanza
di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un neoplatonismo
cristianizzato e non come l’esempio di quell’impensato della tradizione occidentale
contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore heideggeriano. Perché
dunque G. mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe definito Vico un
appartenente alla costituzione onto-teo-logica della metafisica – su un tema
che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio
poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al
Geschick, quel destino che genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al
ruolo fondativo della poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico
quale casa dell’essere – è significativo il tema della intima co-appartenenza
di luce e oscurità nella analisi della genealogia del mondo umano. Secondo G.
“l’unico pensatore che [...] avrebbe potuto aprire la comprensione per il
pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger”239 poiché la Lichtung heideggeriana è
molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un
pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto
linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime città, quali
tutte si fondarono in campi Vico, p. 84,
La metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica
Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della
Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura femminile della
metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei
caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere
la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e civile.
Cfr., L. Amoroso, VICO (si veda), Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 G.,
Vico e l’umanesimo, p. 194. ! 85! colti, sursero con lo stare le
famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi
religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e,
conl’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre
bruciate dentro il chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale
sorprendente convergenza di temi G. sottolinea come la dimensione di apertura
del lucus vichiano analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette in
questione il tema dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e del
sacro. Il Vico di G., antropologo delle origini, avrebbe attribuito una
centralità a quella dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo
comune241. La ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto
originario – la Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche
linguistiche che in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e
sull’etimologia e in Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana
secondo G. è una mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei primi
uomini allo stato di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla
genesi del linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della storia.
La questione della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi
umanisti che si sono interessati alla questione della radura, del contesto
originario all’interno della disamina del valore della parola poetica. Se la
questione della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema
dell’individuazione e dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno
originario dell’antropo-poiesi allora la suggestione G.ana circa la possibilità
di retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica non sembra
tanto peregrina. Secondo G. con Vico abbiamo un distacco dalla metafisica
tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire non una nuova
teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la scienza “del
disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse interpretare
G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano
2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La
sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. G., Vico e l’umanesimo,
cit., pp. 115-117. 243 Ibidem. ! 86! il pensiero del napoletano
come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe poiché “il
problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La questione del
contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del “disvelamento
della foresta primordiale” che altro non è che il problema del fondamento del
mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni” che soggiacciono
al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato il filosofo
milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria heideggeriana della
Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e l’angoscia originaria
dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della natura. In questo
“atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine dell’umano e la
fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa terra”245. Il
passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo all’animale, mette in
moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata dalle menti primitive –
i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano verso un percorso faticoso
che va dalla barbarie agli ordini civili. Il significato della luce vichiana è
infatti innanzitutto civile, politico e comunitario. Come sottolinea Carillo
“il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto
all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del termine vichiano luce G.
mette in rilievo soprattutto la valenza di interruzione nella frequenza della
selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e Heidegger nel terrore che coglie
l’uomo, nell’esperienza della sua alienazione dalla natura, questi crea e fonda
il primo luogo umano nella storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno”247.
Nel bosco primordiale – in cui si fa esperienza dell’alterità della natura –
l’uomo crea il luogo della storicità. Appare il tema del disvelamento e del
disoccultamento come punto di partenza per una Id., Vico, Marx e Heidegger, in
Id., Vico e l’umanesimo, Vico, La Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo,
Vico. Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284.
247 E. G., Vico, Marx e Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 181. ! 87! ricerca dell’umanità delle origini che non ha
solo il significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di una
ricerca fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di
uscire dalla metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da G. pone in luce
che il concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui
gli esseri appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui
appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta
(schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e
l’uomo nella sua umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema
dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica
dell’ipotesi interpretativa G.ana: il tema della Lichtung non è altro che la
metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e
dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della
manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il
già citato Dell’apparire e dell’essere in cui la manifestatività si costituisce
non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è
colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non in una condizione
di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di progettazione e
umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene per G. un
pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la metafisica non
deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti ma dalla
parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua filosofia
risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il filosofo
milanese afferma in VICO (si veda) filosofo epocale che “la sua opera – quella
di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a poco
appaia (phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose
sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del
termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – G.
si Ivi, p. 177. 249 Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in Id., Vico
e l’umanesimo, cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto interessante
risulta la ricostruzione etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De
Constantia philologiae “donde il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani
custodirono queste altre vestigia di una siffatta antichità. Dai ! 88!
sofferma sul senso ontologico-trascendentale del termine vichiano
coniugando in maniera originale i temi heideggeriani e vichiani in una
prospettiva che vuole essere l’occasione per un ripensamento della filosofia
che riconosce la propria matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si
tratta di un pensiero che passa “dalla metafisica degli enti a quella
dell’agire, della prassi umana”252: per G. occorre partire dalla tematizzazione
delle necessitates come fonti naturali dei mondi umani. Egli definisce
l’ingegno – che non esclude mai il processo razionale – come teoria che “scopre
ora e qui similitudini, connessioni, apre la premessa per un processo
razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le conseguenze e quindi
costruisce un mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria capacità di vedere il
simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali alle quali l’uomo
deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di civilizzazione.
L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e multifunzionale
a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento celati accoppiamenti
degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli (latibula) che
offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la sua prima
origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere giuridiche,
introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p.
524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e
l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che
“abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu
inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo
al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e
così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui
non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte
dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit.,
p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del
termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia
dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al
termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in
Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di
suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco,
venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione
nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno
slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il
senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare,
attraverso uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia
trarne gli auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il
primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De
Costantia philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto
semantico opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In
quest’accezione in cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per
antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di
qui la possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi
sacri ai primi abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si
combina alla descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è
che la trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco
diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p.
203. ! 89! definiscono come problem solving254: si parte da una
condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano
strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero
creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto
la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo
stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da G. nella sua
identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che,
come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità
delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come
universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza
che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto
mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura
razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora.
La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte
“d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo
quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. G. sostiene che
“se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le
necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259.
Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per G. non è astorico,
razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende
come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non
hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti
indicativi, semantici, anche il tacere, acquistano Per un’analisi del problem
solving cfr. il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica.
Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr.,
Significare arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199.
257 Ibidem. 258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro. !
90! significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che
ci riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come
nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la
storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica;
mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si
compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della
ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere
dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività
all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario
– la Lichtung – spinge G. a definire tale apprensione del reale non nei termini
di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli “invii
dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione specifica
dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della comunità
sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica –
corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del
reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi
e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del
reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione
del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione
(Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e
di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non
viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta
il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera
esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx
si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si
chiede G. se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella
filosofia di G., cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e abbandono.
Lettera a Ernesto G., pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria di G., cit. !
91! aprioristica scolastica – con la conseguente attenzione alla
giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica – possano essere in definitiva
considerate valide e concrete o ricadano dell’astrattismo medievale: “Tutti
questi canoni, che gli umanisti oppongono alla filosofia aprioristica della
scolastica, soddisfano realmente la loro pretesa di essere concreti? Qui è
pertinente l’obiezione del marxismo. La sorgente originaria del divenire umano
si trova nella trasformazione originaria, e perciò, nella umanizzazione della
natura mediante il lavoro. La giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono
concrete solo in quanto manifestazioni della storia di classe [...] la storia
del lavoro è la storia dell’evoluzione dell’uomo”262. G. analizza
dettagliatamente l’idea del lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei
Manoscritti economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del
lavoro: 1-) il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è
espressione di una volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza
che secondo Marx l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione
con ciò che produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno
con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La
seconda definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta
il superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo
del lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò
che diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa
l’appropriazione della natura a favore dell’uomo” E. G., Marxismo, Umanesimo e
problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e l’umanesimo,
cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma
1976, Vol. III, p. 303 265 E. G., Vico e l’umanesimo, cit., p. 84. !
92! 3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito come essere
libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia libero.
Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la natura in
nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il lavoro ha
una funzione sociale. Secondo G. l’importanza del lavoro come fattore di
umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è
rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della
giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il
cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della
fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico
considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due
fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il
pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della
fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la
triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria
libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la
fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a
costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il
filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime
connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare
un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di
concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della
filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge
una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci,
dall’altro G. sottolinea come una teoria del lavoro priva di una teorizzazione
antropologica e filosofica dell’umano
ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269 Ibidem. ! 93!
sia concettualmente monca e praticamente inutilizzabile. Afferma G. che “Marx
considera il lavoro – come il superamento dell’immediato impatto con la natura,
come l’adattamento di essa – l’origine della storia. Se però, tale adattamento
nell’interesse dell’uomo differisce da quello degli animali per il fatto che
l’animale lavora solo per il proprio nutrimento e la conservazione della
specie, e in accordo con i suoi modelli congeniti, allora il problema circa il
significato dell’adattamento della natura da parte dell’uomo non può essere
risolto col dire semplicemente che l’uomo è un essere che media e accomoda, né
col riferimento alla sua attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo
scopo specifico di questa mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di
questo problema, ci troviamo ridotti a dire che l’animale è un essere molto più
alto dell’uomo”270. In quest’ultimo passo G. esprime l’idea secondo la quale se
è vero che il lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella
misura in cui non si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il
metabolismo della natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri
come atto di mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel
concetto di lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del
telos che la sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale.
Secondo il filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un
mezzo in vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la
fantasia rivela il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie
alla facoltà di visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare
la natura implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso.
L’intima coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di
quella fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione G.ana
del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo storico
sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium e la sua
phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale nel suo
significato umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal modo il reale
diventa storico, si umanizza quale opera dell’ingegno”271. Se, da un lato,
allora, il presentarsi della manifestatività rende affetto l’uomo, e,
colpendolo, ne rivela la componente di passività, il suo essere soggetto-a,
tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è
quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il
lavoro. Per G. infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura, l’essere
“appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è altrettanto vero che
non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La
constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la natura dà entro
i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra progettazione, del nostro
lavoro, della nostra opera – che per G. non è un’operazione soggettivistica e
arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in volta mutevoli,
alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo – significa entro
i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività ordinatrice della materia
primordiale che per G. “ci impedisce di trovare una qualsiasi unità; essa è
materia della facoltà ordinatrice del pensiero”273. Il tema della
determinazione concreta del reale risulta strettamente intrecciata a quello del
lavoro umano nel suo significato ontologico trascendentale e a quello della
fantasia come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base della
visione delle somiglianze”274 e non come “attività che ci presenta qualcosa di
irreale”275, come “rappresentazione dell’irreale, come pura facoltà della finzione,
E. G., Politica e religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43,
in “Archivio di filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni G.ane sul lavoro
mostrano molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come
ergon e come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV
Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di
filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In
relazione all’attività ordinatrice della selva originaria G. in questo saggio
parla di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile –
il significato secondario – sia come attività del lasciar apparire –
significato ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e
leghein. 274 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276.
! 95! come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo
caso essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa
e combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il
referente reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La
fantasia ontologicamente intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro
è capace di istituire il mondo storico. Per G. “la trasformazione della natura,
che l’uomo realizza con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque
dall’attività fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si ritrova
nella teoria vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del
senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il
senso comune, secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo
ciò che gli è utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come
l’ingegno e la fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista
fra di loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo
umano e dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il
lavoro, catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole
ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono
una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione,
cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del
successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come
la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come
un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della natura,
estranea al contesto generale delle funzioni umane” Ivi, p. 191. 277 Cfr., M.
Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. G., Potenza della
fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della fantasia:
l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and Contemporary
Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p.
51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52. ! 96! Il labor appare
strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di significato al
mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani vengono
soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del linguaggio
poetico secondo G. soggiace anche nel lavoro nel quale si intrecciano il sensus
communis – che non “consiste, quindi, in un modo di pensare popolare o
comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione storico-
esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove si presta
attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della
situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione
del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro
attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è
possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte
della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza
filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio
questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista
costituisce per G. la dimostrazione che “il problema concernente il significato
del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”, che in
qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a “semplice
sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286. Volendo
trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può asserire che
nella prospettiva onto- antropo-logica di G. assume un ruolo centrale la
relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di Vico e Marx.
Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger qualche Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284 Parla di
connotazione etica del lavoro in G. S. Limongelli in Il problema dell’umano,
cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle
opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s Science of
Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland) 1976, ora in
Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93. ! 97! anno dopo287
– concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero teoretico
contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle origini del
divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288. La critica
all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia per il
filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale. Leggiamo in
Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che Marx riteneva
di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo schema del pensiero
tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur ritenendo
fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di radici
dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica
all’umano G. – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile
l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale
identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a
pensiero della tecnica”292. E sappiamo che G. accoglie la lezione heideggeriana
per la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma occorre
andare oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che di volta
in volta supera, secondo G., i limiti delle prospettive toriche degli autori –
in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che coniuga
giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della Lichtung.
Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un adattamento
dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento mediante il
quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di Ercole e Cadmo
come simboli di essa”Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso in origine in Vico
and Marx. Affinities and
contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (New Jersey) 1983, ora in Vico
e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288
Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit.,
p. 92. 289 Id., Vico, Marx e Heidegger, cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi,
p. 190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia
nelle opere di Vico, cit., p. 86. ! 98! L’uso vichiano
dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia poetico-simbolica
utilizzata ai fini della comprensione delle origini mitiche della storia
dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla rappresentazione
della faticosa impresa umana della costruzione della società il cui mito,
narrato nella Scienza nuova, non appare a G. come una concessione al gusto
antiquario della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il simbolo
“dell’assoggettamento della natura [...] che porta all’autoaffermazione
dell’uomo”296. Secondo G. “Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli
universali fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi
termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari [...] così il concetto
fantastico cristallizza un essere attraverso un atto dell’ingegno con una
visione diretta di una totalità pittorica. Esso rappresenta una figura
contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale logica della fantasia
fondata sui generi universali e fantastici assume il ruolo di primo
coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante rispetto
alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo degli
universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il ruolo
di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica dell’uomo.
Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al
genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del
pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose
naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id.,
In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne
danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle
Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e
fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del
Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose,
ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o
universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali
tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G.
B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua
ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale
menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle
città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44 che
“questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi,
dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si
poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’
lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII.
Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G.
Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178,
in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. G., Marxismo, umanesimo e problema
della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p.
54. ! 99! Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola
attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano.
L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella
quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di
fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura
afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole
[...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298.
Attraverso la lettura del mito di Ercole G. rintraccia in Vico una prima
teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la
fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con
l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il pensatore:
“quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà
rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera decisione di far luce
nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”299. Quale
importanza G. annetta al ruolo, al contempo storico e filosofico-speculativo,
che svolge, nel complesso del suo itinerario onto-antropolo-logico, la
questione dell’origine dei processi storici dell’umanità è testimoniato dalla
collocazione del tema della Lichtung – che accomuna Vico e Hiedegger – accanto
a quello del lavoro – che vede fianco a fianco Vico e Marx. Sostiene il
filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo l’opinione di Vico, grazie alla
radura aperta nella foresta originaria”, attraverso il lavoro, “divengono possibili
non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il
tempo”300. Si intrecciano indissolubilmente le questioni del
disvelamento/Lichtung – la vera “chiave maestra” della lettura G.ana degli
umanisti – quella del lavoro nel suo significato esistenziale e quella delle
strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva del pensatore milanese è
attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della natura – il disboscamento
G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. G., Potenza della fantasia, cit., p. 251.
300 Ibidem. ! 100! della selva primordiale – che si apre quello
spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose” dicibili
solo attraverso un linguaggio poetico. Come è emerso dalle precedenti
riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della
Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa
concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana.
Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora
ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della
metafisica immanente o ontologia situazionale G.ana e sul nesso
essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di
ricerca G. enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che
contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica
dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti
– e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di
critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in G. è
analizzata da due punti di vista: storico e teoret ico. Egli afferma
l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia sul
terreno speculativo sia su quello storico in un saggio su Jaeger Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo G. “questa essenza della
natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire concepita come
qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo può avere il suo fondamento [...]
solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo deve essere oggi
filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche storicamente”E. G.,
Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo
Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi scritti, cit., p. 258. !
102! La ricerca G.ana si configura, da un lato, come riflessione storica
sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti ha l’aspetto di una
re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo essenziale – la
Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger. L’attenzione
accordata alla filologia, che per G. non si riduce a “una mediazione delle
opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’essenza
dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola304, conduce
verso una dilatazione del periodo storico dell’umanesimo sia in direzione del
passato sia in direzione delle epoche successive. Entrano così a far parte
della tradizione umanistica anche gli autori della latinità quali Cicerone e
Quintiliano; quelli barocchi come Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi
e, in ultimo, lo stesso Heidegger, il quale ha concettualizzato in forma
teoretica densa ed esplicita il tema della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro
lato, accanto alla lettura testuale, affiora un’indagine teoretica sui temi
dell’essere, dell’apparire e della manifestatività e sulle strutture d’essere
dell’uomo. Proprio su questi aspetti ci concentreremo maggiormente in questo
capitolo prendendo in considerazione due gruppi di saggi. La selezione di
questi saggi – tutti risalenti al periodo compreso tra gli anni Trenta e la
fine degli anni Cinquanta – è stata guidata dall’idea di una presenza nel
filosofo di un’attenzione alle strutture dell’esistenza umana, connesse alla
questione di quella che potremmo definire “ontologia Id., Il confronto con la filosofia tedesca in
Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p. 883. 304 Per G. occorre
distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto
classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come
meditazione sull’uomo e sulla sua formazione: “come è noto, la tradizione
filosofica italiana ha inizio proprio con l’umanesimo e il rinascimento. Come
ho già accennato altrove, il filosofare italiano non comincia con il problema
della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al
compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo
antico [...] ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della
parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario,
ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari
antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione
dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava
un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle
parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza
quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente
all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il
formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo,
praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”, ivi, p. 881.
Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, p. 72:
“Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle moderne scienze
scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito delle scienze
dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della formazione non è
tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo sviluppo della
capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi tramandatici
stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e soltanto in questa
e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium, in quanto siamo
esseri storici.] FENOMENOLOGIA SEMANTICA [cf. AUSTIN] di G., in cui il tema
dell’essere [GRICE, IZZING], identificato con quello della manifestazione e
delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello SEMANTICO, come
campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel fondamentale saggio
SIGNIFICARE ARCAICO in cui è condensato tutto il valore della proposta retorica
G.ana. Solo partendo dall’analisi del contenuto tematico di questi contributi è
possibile una più profonda comprensione delle indagini G.ane sull’Umanesimo e
sul Rinascimento storici su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente.
Del gruppo comprendente Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger,
Dell’apparire e dell’essere, Il problema del logo, Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger, L’inizio del pensiero moderno. Della passione e
dell’esperienza dell’originario, Il reale come passione e l’esperienza della
filosofia, saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività, i quali mostrano la volontà G.ana di recuperare un’esperienza
dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad
un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace
di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. In
questo tentativo G. coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica
crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,305 rielaborando
tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e
dell’ambito estetico in generale non come esempio di gnoseologia inferior o
teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività
dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Apocalisse
e storia, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, Assenza di mondo. In
quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che
trovano un’articolazione in una analitica Per una ricostruzione dettagliata
delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di G. cfr.,
Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra
filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica,
pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. G., I primi scritti] esistenziale
che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le
osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico
– l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di G.
dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione G.ana
sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili
dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse
di disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività,
dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, G. mostra nella sua disamina
degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture
storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio
idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema
onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella
prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai
polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di
un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un
punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione
umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque
di delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione
di fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra
attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un
umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là
della polisemia che inevitabilmente lo connota, per G. significa affrontare il
problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica
nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la
svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione copernicana”308.
Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà degli anni Venti
emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in precedenza – per
rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola come ricerca
dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel processo di
determinazione di una teoria dell’uomo che !E. G., Potenza della fantasia,
cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne,
cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento della filosofia,
la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con Descartes né con Kant, ma
con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che derivano dalla nuova
valutazione della fantasia, dell’ingenium, della preminenza dell’immagine,
possono essere discusse solo sulla base di un’ulteriore ricerca sull’essenza
della tradizione umanistica italiana”. ! 105! mantenga l’originaria
integrità e unità delle sue strutture fondamentali. Negli stessi anni in cui i
maggiori esponenti dell’antropologia filosofica del Novecento – Scheler309,
Plessner310, Gehlen311 – Max Scheler in
La posizione dell’uomo nel cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca
antropologica come scienza fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali
dell’uomo. Esplorare la dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta
un confronto con le dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare,
del volere. Per Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le
mosse da ciò che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza:
“è compito di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo
scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le
funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale,
lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di
guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la
storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura
di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo
“privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle
piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un
comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il
processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e
dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea
ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la
facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra
l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che
rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo
svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di
un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è
organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della
sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con
quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più
legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo.] Per
Plessner occorre partire dal concetto di vita che costituisce la “parola chiave
di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini,
Bollati Boringhieri, Torino. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo
è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la
disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del quale si trova
de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione
all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi antropologiche
fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive
in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale,
costruendo a partire da una natura una cultura; la legge dell’immediatezza
mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato in precedenza in
modo immediato attraverso forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte,
conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che l’uomo prende le
distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un fondamento assoluto
del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma che “la sua forma
eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere
soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme
imprime loro il marchio della caducità.] Gehlen si pone sulla linea di ricerca
scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il
suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze
positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più
semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo
la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua
indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un
indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della
percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola
latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo
autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto
l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per
poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di
assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una
serie di caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e
istintuale; la sua “incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già
Herder aveva tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava
all’uomo come ad un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un
essere privo persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la
“deficienza organica” e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò
considerate alla luce dell’idea cardine della “non-specializzazione”: [...]
primitivo è = non specializzato = originario, o in senso ontogenetico
(embrionale) o in quello filogenetico (arcaico). Per specializzazione è da
intendersi la perdita della pienezza delle possibilità esistenti in un organo
non specializzato, a vantaggio del grande sviluppo di alcune di queste possibilità
a spese di altre, cfr., A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel
mondo, Mimesis, Milano 2010, pp. 127-128. Accettando il paradigma
interpretativo della carenza si pone il problema di coniugare questa non
specializzazione umana con il suo esser collocata all’interno di una catena
biologica evolutiva. La dotazione organica non specializzata dell’uomo e i suoi
primitivismi rendono problematica la sua esistenza che solo grazie all’azione e
alla costitutiva apertura al mondo continua e progredisce. Categoria
fondamentale all’interno ! 106! elaborano le note teorie sull’uomo,
G., forte della sua formazione culturale a metà strada tra filosofia italiana,
filosofia tedesca e francese, sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia
di un approccio scientifico all’uomo sia i limiti di una impostazione
speculativa classica mediata soprattutto dalle letture heideggeriane di cui
abbiamo già detto. Attraverso l’analisi delle teorie degli esponenti
dell’antropologia gehleniana è quella dell’esonero Entlastung che indica la
capacità umana di distaccarsi dagli oneri del mondo esterno. L’esonero
costituisce il primo atto per spezzare il cerchio dell’immediatezza e per
liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve allontanarsi dalla
pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una distanza sempre
maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt, l’ambiente, in un mondo
abitabile, la Welt. ! 107! della biologia teoretica quali
Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315, G. cerca di porre in
luce gli aspetti negativi che derivano dalla confusione del “contributo delle
scienze con quello della filosofia”316 . Accogliendo la critica crociana alla
perdita di autonomia del filosofo che [Driesch è un biologo e filosofo tedesco.
Egli lavora a NAPOLI presso la stazione zoologica e successivamente insegnò a
Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a
Colonia e Lipsia. È convinto assertore del vitalismo contro la teoria
meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la
valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento
dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata
come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti
ricordiamo Storia del vitalismo, Filosofia dell’organismo, Corpo e anima, Il
problema della libertà, Metafisica. Di Driesch G. mette in luce il
neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita organica e l’importanza
del concetto di entelechia esposto da Driesch in Philosophie des Organischen. G.,
in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, sostiene che
“in molti ambienti la filosofia rimane concepita sul fondamento delle scienze,
cioè sintesi e classificazione di fatti, ed è perciò stesso incapace di
raggiungere in questa forma un reale valore conoscitivo e metafisico.
L’influenza di concezioni simili si scorge oggi in tutta quella corrente
speculativa della filosofia tedesca contemporanea che ha vivo l’ideale
empiristico di una scienza naturale elaborata in filosofia, filosofia della
natura, che in realtà non diventa che un prospetto empirico di scienze naturali
e di arbitrarie ipotesi naturalistiche. Appartengono a questa corrente di idee
Driesch, o zoologi come Plessner – che con osservazioni scientifiche e
biologiche tentano di raggiungere una costruzione metafisica nella sua
Philosophie des Organischen a mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme
dell’organismo e mettendo in luce con osservazioni biologiche l’originalità della
vita organica, egli giunge ad una concezione neovitalistica. Le sue
osservazioni biologiche, la sua teoria dei sistemi equipotenziali, assumono
un’importanza scientifica ed egli concluse che accanto ai fattori fisici e
chimici, per spiegare un organismo, è necessario ammettere un nuovo fattore,
che egli chiama entelechia”, in Id., I primi scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr.,
anche Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit.,
pp. 299-332, in particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305.
313 Di Plessner G. evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico
all’umano inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una
filosofia fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come
Plessner, scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit
der Sinne. Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un
altro volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die
philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le
osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una
concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e
affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della
realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e
risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito,
ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione G.ana – di evidente
ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie
filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono
collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea
di atto e non di dato. 314 G. richiama l’attenzione sul concetto uexkülliano di
cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie sia nel saggio Il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p. 205) sia più
diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in Actas del
Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos
Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., pp. 67-69. G. sottolinea la connessione istituita da Gehlen tra
apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della metafisica immanente di
M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. ! 108! si è
messo a servizio della scienza espressa in Logica317 G. asserisce che la
concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa “si traveste oggi
assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318. L’empirismo va messo da
parte, così come gli altri modi di accedere all’umano che la coeva filosofia
tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi del procedere
naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle generalità
scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il riferimento
polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano, alla
fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica
esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto
appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e
Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione
dell’atteggiamento speculativo G.ano. In Il problema della metafisica immanente
di M. Heidegger G. mette insieme storicismo, fenomenologia, metafisica
esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch “presenta
una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due pensatori,
l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio del XX
iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che senso
si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella metafisica
immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza l’attualismo323? B. Croce, Logica, Laterza, Bari 1920, p. 264:
“perché quando non si tratta d’altro che di classificare e di sistemare quei
risultati, lo scienziato sente a ragione di non aver bisogno del soccorso dei filosofi”.
318!E. G., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p.
205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem. 321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo
e fenomenologia gli articoli di indole informativa generale che seguono: Id.,
Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id.,
Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine
G.ane su Heidegger del saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N.
Abbagnano, Philosophie des menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den
Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323 Già nel saggio del 1929 Sviluppo e significato
della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea (in Id.,
Primi scritti, cit., pp. 181-202) G., sviluppando in forma più articolata le
poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia
tedesca contemporanea (p. 174), afferma quell’identità di problemi tra
attualismo ! 109! La “meditazione diltheyana” di G. si focalizza
soprattutto sui concetti di Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di
psicologia324. Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il primo a intravedere
il problema della realtà e della storia come problema della realtà vivente,
rivendicando l’importanza dei sui scritti speculativi e tralasciando quella dei
testi a carattere maggiormente storico325. In Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il problema dal quale muove
Dilthey, quello della distinzione tra Geisteswissenschaften e
Naturwissenschaften, di scarsa importanza in sé rileva G., va ricondotto alla
più generale operazione teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale
delle scienze dello spirito individuato in “una scienza di carattere
psicologico. Gli elementi del mondo storico sono gli individui, quindi lo
studio di essi e la descrizione dei vari tipi di vita spirituale diventa la
base della comprensione storica [...] l’esame della struttura della vita dello
spirito cerca di conquistare nella molteplicità di situazioni coesistenti la
sua caratteristica unità”326. La psicologia diltheyana per G. ha il merito di
ricondurre ogni concreta realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di
coscienza in cui si realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il e
ontologia immanentistica heideggeriana che in Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger del 1930 troverà una articolazione teoretica più
approfondita. Infatti, in Sviluppo e significato della scuola fenomenologica
nella filosofia tedesca contemporanea leggiamo che “Heidegger realizzò una
delle più importanti speculazioni metafisiche immanentistiche ed una delle più
rigorose critiche del tentativo di Husserl. L’interpretazione e o sviluppo
attualistico del pensiero fenomenologico assume un significato storico e
teoretico tutto particolare”, p. 198. 324 Per una analisi dettagliata di questi
temi diltheyani rimando alle osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e
filosofia in Dilthey, 2 Voll., Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione
psichica e connessione storica, pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la
psicologia, Il Poligrafo, Padova 2003; Id., Vico e Dilthey. La storia
dell’esperienza umana come relazione fondante di conoscere e fare, pp. 17-58,
In Id., Storicismo problematico e metodo critico, Guida, Napoli 1993; cfr., ivi
anche Id., Spirito oggettivo e oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, pp.
105-125; Id., La tipologia delle visioni del mondo tra critica storica della
ragione ed essenza della filosofia, pp. 153-172; Id., Il fondamento
dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, pp. 249-287; Id., Ortega y Gasset
e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 177-187,
in Id., Saggi di filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013;
Id., Dilthey tra universalismo e relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo
storicismo allo storicismo, ETS, Pisa 2015. 325 “Durante la sua vita i suoi
sforzi teoretici passarono quasi inosservati e anche dopo la sua morte,
avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per alcuni anni completamente dimenticato
come filosofo, mentre i suoi lavori storici venivano molto apprezzati [...] i
primi suoi lavori sono tra i più notevoli della storia e della filosofia dei
suoi tempi: l’acutezza delle indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o
di una personalità danno ai suoi saggi grandissimo valore e molti lo
considerano come il più grande “Geistesgeschichtsschreiber” dopo Hegel [...] ma
l’importanza e l’interesse che Dilthey desta in seno alla filosofia tedesca –
per cui dobbiamo fermarci in modo particolare sulla sua figura – è dato non dai
suoi lavori storici, ma dai suoi scritti di carattere speculativo e polemico”,
E. G., Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., pp.
171-172. 326 Ivi, pp. 172-173. ! 110! passaggio auspicato dal
pensatore milanese da una “teoria dell’atto di comprensione” ad una “metafisica
immanente” rimane incompiuto nel filosofo tedesco che “non giunse alla chiara
coscienza che una volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto
completo di comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto
che impedisce ogni relativismo”327. Così per il filosofo italiano Dilthey
ricade nell’astrattismo di una “tipologia che prese il posto della
filosofia”328, la quale riduce la fondamentale categoria della
Lebenzusammenhang a forme astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le
riflessioni su Dilthey pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta
e le strutture psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico
umano, quelle su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il
rigore alla filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un
rigore metodologico, che invera “la psicologia fenomenale di F. Brentano”330.
In Linee della filosofia tedesca contemporanea G. sostiene che “la meta di
Husserl fu la conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire
con sicurezza la ricerca filosofica [...] egli scorse con chiarezza
l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze”331. Una critica radicale
in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di “raggiungere
il concetto della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni
empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del
reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla
critica G.ana al concetto di tipologia anche, E. G., Linee della filosofia
tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id., I primi scritti, cit.,
soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla nella filosofia di M.
Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e significato
della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, pp. 181-202,
in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id., Linee della filosofia tedesca
contemporanea, cit., pp. 313-314. 332 Ibidem. ! 111! giudizio di
esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza indubitabile: “il mondo della
coscienza pura coi suoi vari momenti e significati [...]. Non c’è più il mondo
dommaticamente affermato e poi la sua rappresentazione, ma solo l’immediato
essere del mondo come oggetto ideale della nostra coscienza”334. Questo mondo
trascendentale è il Vorurteil, il quale condiziona ogni nostro giudizio di
esistenza e rende possibile quella scienza fenomenologica che coniuga la
ricerca sulle proposizioni formali della logica con i temi etici ed estetici.
Il cuore della fenomenologia è colto da G. nell’andare zu den Sachen selbst
tramite la Wesenschauung. Infatti, sempre in Linee della filosofia tedesca
contemporanea, il filosofo sottolinea come la fenomenologia non sia una
metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si isolano degli elementi assoluti,
trascendentali, coi quali ciascuno può e deve costruirsi con rigore scientifico
un concetto della realtà [...] le essenze logiche non possono venirci
dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse a mezzo della loro
evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La fenomenologia non
vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame intuitivo, uno
“schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e pretende di
andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti husserliani su cui
egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè, riduzione fenomenologica,
Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da un lato, sottolinea
l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia husserliana –
poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al naturalismo
rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro, G. riesce a cogliere in poche battute tutto
il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un
fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di
raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il
nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni
altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere
trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni
giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di
molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così
o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso
come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare
il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315.
335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia,
Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è
caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli
universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali,
storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112! getta
luce sui limiti intrinseci di ciò che G. definisce “positivismo
razionalistico”. La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce
il “dato empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di
fatto dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di
positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti
della filosofia tedesca coeva secondo G. – non hanno declinato queste ricerche
in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo storico,
processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha con
Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno dell’orizzonte
metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della metafisica immanente
di M. Heidegger G. afferma che nel lavoro del pensatore di Messkirch
“confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi di Husserl e Dilthey:
la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di rapporto e il suo
dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le varie forme di
esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...] la ricerca del
significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è sufficiente a
mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che non ha una componente
intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione eidetica husserliana o nel
senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma si pone come ricerca della
concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia diviene Hermeneutik der
Faktizität. Solo sulla base di un’analitica dell’esistenza è possibile porre la
questione ontologica e fenomenologica – dove per fenomenologia dobbiamo
intendere l’analisi di stampo hegeliano dei vari momenti e sviluppi della
realtà storica. G. afferma che il pensiero di Heidegger assume una particolare
rilevanza per quanto riguarda il problema metafisico mostrando una certa
affinità con i pensiero segnò un momento fondamentale in seno alla filosofia
tedesca contemporanea contrapponendosi con maggiore chiarezza di Dilthey
all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più varie forme”, E. G., Linee della
filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323. Cfr., anche le pagine dedicate a
Husserl in E. G., Was ist Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91.
338!Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339
Ibidem. 340Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit.,
p. 209. 341 Ivi, p. 223. ! 113! temi dell’attualismo. Il filosofo
italiano sostiene in Il problema della metafisica immanente che “pur essendo
nato da problemi e posizioni speculative completamente lontane dalle premesse
del pensiero immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano
un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella
originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a
qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta
nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha
in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare
per G. ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla
questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa
posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo
idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo
comprendere come nelle analisi G.ane degli anni Trenta siano molto vivi i temi
dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli
dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane
che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di
Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste
problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero G.ano:
ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della
trattazione, il pensiero di G. si configura come riflessione ontologica perché
si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso: l’essere è
inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da Heidegger)
come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il piano
ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare nella
sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità
dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana G.
coniuga il problema Ivi, pp. 226-227.
343!Ibidem.! 344 Ibidem. ! 114! della trascendenza, così vivo nella
sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase
gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui
immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni
sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro
non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di
immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il
problema dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di
intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo
afferma che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza
dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e
tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la
questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono
l’uomo e il suo mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va
concepito come una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto
originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come
ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca G.ana, accanto
all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger,
ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen –
che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a
favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della
filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera
autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in G.
riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento autentico
dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi umanistici. La
riflessione di G. è poi antropologica perché attenta all’orizzonte umano a
partire dal quale si pone la domanda sul senso dell’essere: l’universo
linguistico e artistico del mondo umano in cui accade la verità dell’essere. In
Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che l’analisi del Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo,
cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115! contesto originario si
declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la cosa sorprendente, alla
quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto
originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico
mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma
piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...] il
problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra
parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo
nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo
significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si interroga più
circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito
del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è
quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua
prigione. G., infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res
ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente –
e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli
enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente
è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico
dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al contrario, è capace di
restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma,
proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate
sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono
“cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...]
l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione
umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela
nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore milanese, la
forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo
manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso classico
dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in G. in ricerca dell’unità
di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La delucidazione del nesso
logos-on o, per usare i termini Ibidem.
I corsivi sono nostri. 347 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., p. 80. 348 Ibidem. ! 116! G.ani, della correlazione
di verbum e res, induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica,
della metafora, della fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come
l’ontologia G.ana sia un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il
processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi,
scorci, campi, forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché
il metapherein – la trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà
di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a G., del nostro
atteggiamento verso il reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del
reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne
metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del
filosofo, ossia in Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un
tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e
l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una
rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui
possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la
traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei
segni indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che
per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo
l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una
momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia
non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza
dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per G. un modo di
superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura
temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui 349 Id., Il
dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina
tipografica, Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I
corsivi sono nostri. 353 Ivi, p. 15. ! 117! la preminenza della
semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli
asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione
(hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle
dimostrazioni”354; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel
fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra
ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe
quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della
ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una
“chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos
ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della
dimostrazione. Ritornando al nesso metafora-concetto G. afferma che a
quest’ultimo “spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno
in riferimento al suo fondamento universale. Il significato di hòros può essere
colto nella sua portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino)
che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di
horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione
(horismòs) esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che
esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se
stesso, il singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in
quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della
metafora, non “più gioco letterario ma originaria, prima forma
dell’ingegno”357, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine
della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella
filosofia G.ana la fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico
interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro 354Id., La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id.,
Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494.
358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit.,
p. 202. ! 118! carattere palesante e immediatamente indicativo”359,
profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft
kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene G. non citi
nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La potenza
della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli conosceva
benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di immaginazione
kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della metafisica
definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto ad
introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua
terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria
kantiana da parte di G. sia dovuto a un’interpretazione del kantismo
sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui G. si sofferma a più
riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra
i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante,
intellettualistica ed astratta, G. riconosce l’importanza di Cassirer che “ha
[...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che questa
scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo umano,
emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità cairologica
come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in cui i tre
momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il raggiungimento del
secondo livello di oggettività: quello della coscienza temporale umanistica
(l’oggettività di primo livello è quella della physis in quanto diastema), in
cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come espressione della storicità
del mondo umano e della sua formazione (Bildung), che in questo modo 359Id., Significare arcaico, cit., p. 494.
360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-
Bari, 2004. 361 Cfr., E. G., Heidegger e il problema della metafisica immanente
di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le riflessioni sul “ritorno a Kant”
contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea,
cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee della filosofia tedesca
contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p. 165. ! 119! acquista
un carattere esistenziale. Infatti “esistere significa sopportare la
problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo, senza
evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico dinamico in cui il
discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle forme dell’apparire
dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso nell’orizzonte umano di esistenza
– semantica – si comprende la critica G.ana alla struttura soggettocentrica e
logicista della filosofia. Per il filosofo “si manifesta sempre la preminenza
dell’urgere della passionalità, in quanto continuamente affiora nell’ambito
della contraddizione logica dell’esperienza che l’essere non si rivela mai
completamente nel divenire degli istanti. È in questo divenire del metaforico
traslarsi del reale che viene passionalmente vissuta la contraddittorietà della
logica astratta. Questo ritmo arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa
mai, è esso che ordina – nei limiti di storiche, differenti radure – che
appaiono in istanti – i tumulti che incombono”365. Solo attraverso
un’esperienza originaria della filosofia secondo il pensatore – esperienza
preclusa alla logica astratta che è solo un determinato atteggiamento
filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura per difenderci dal “vento
del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La filosofia di G. tuttavia
non va interpretata come una forma illogica di irrazionalismo. Anzi ciò che, a
nostro avviso, va sottolineato è il valore logico della sua ricerca che tenta
di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si
rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario
del reale e della sua esperienza. Sorretta da una simile struttura
onto-antropo-logica, la ricerca G.ana mira a sondare “la legittimità di tutti
quegli pseudo-umanesimi che credono di poter dedurre secondo i canoni delle
scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La messa in discussione
dell’impostazione scientifico- naturale del problema dell’uomo avviene
attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e oggettività, angoscia
e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a quelli di logos,
pathos 364Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma della metafora,
cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id., Heidegger e il
problema della metafisica, cit., p. 203. ! 120! e manifestatività.
Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi teoretici
essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero G.ano. III. II. Essere,
apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia dell’accusa di
dualismo Secondo G. è possibile fare esperienza dell’essere non solo attraverso
il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la contraddizione. In La
preminenza della parola metaforica egli riprende il tema già affrontato in
Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema dell’essere come
fenomeno linguistico e espressione della contraddizione originaria che
caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere – in funzione
del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige il principio
di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è quello della
contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere preme,
si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il campo in
cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come evento
della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la
contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre
soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per
mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto
dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo G.”, dominato dalla
questione del logos in pieno clima
368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister
Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di
Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero
di G. e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto
dualismo. Egli afferma in G. e l’esperienza del fine che “ancora nei primi
scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica, costituiva una
forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una dignità
peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza quasi
ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo, G. non
tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In effetti egli
avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo capace di
elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato dalla
preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno del
dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, G. e l’esperienza del fine,
cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo la quale il pensiero
di G. va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o ontologia dell’agire
storico situativo. Pur accettando parte della ricostruzione del cammino di
pensiero di G. – soprattutto le sezioni che mettono in rilievo la presenza di
Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la tesi secondo cui in G. è
riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in riferimento a Vom Vorrang des
Logos che “tale scritto del G. ! 121! attualistico, e un “secondo G.”,
sensibile alla tematica linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che
coniuga la disamina storica delle opere G.ane con l’indagine teoretica sul tema
onto- antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca
si identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In
questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma
vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si
caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci
appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il
dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei
dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione
novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito,
ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva G.ana “se si parte
dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare successivamente un
ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una radice comune
dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una radice che
fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione G.ana di
delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza dell’originario, del
fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di un’unità complessa
che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle morse della
definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di coloro che
leggono il pensiero di G. come un passaggio da una preminenza del logos a una
del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del dualismo. La “questione
uomo”, intrecciandosi strettamente con quella dell’essere, non può che
collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le forme dell’apparire dell’uomo
e del mondo sono indagate in una sostanziale unità, quella del reale372.
L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla caratterizzazione rappresenta non solo il punto di svolta nel
suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il manifesto teoretico del
suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il problema dell’umano nella
filosofia di G., cit., p. 95. 371 E. G., Potenza della fantasia. Per una storia
del pensiero occidentale, cit., p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto
unitario e non dualistico Rita Messori in Le forme dell’apparire. Estetica,
ermeneutica e umanesimo nel pensiero di G., cit. Afferma la studiosa che G.
lega “pensiero e passione ! 122! complessa di logos e pathos in G..
Ma prima di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema
dell’essere e della manifestatività seguendo le tappe del discorso G.ano al
fine di mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del
logos e del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del
presunto dualismo G.ano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione
di G. l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va
identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato.
L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi
di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione
dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con
Gentile, al quale G. fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore
(1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà
soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata
all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio
Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità
dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza
umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora inaudita
e Il dramma della con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è una
fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi nel
logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca appartenenza”,
ivi, p. 66. 373 In questo saggio G. si autodefinisce ancora come oppositore
dell’immanentismo (E. G., La dialettica dell’amore, pp. 89-128, in Id., I primi
scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene collocata dal pensatore milanese
proprio sul terreno esistenziale. La questione del dolore in questo periodo
ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo importante. Essa attesta da un
lato l’attenzione verso la dimensione concreta dell’esistenza che in G. emerge
già in questi anni attraverso le letture di autori quali Unamuno, Ibsen,
Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo confronto con l’immanentismo
avvertito ancora come distante dal proprio orizzonte speculativo. Afferma G. in
La dialettica dell’amore: “Il dolore assurge a un’importanza senza pari, è esso
l’anima di tutto il divenire della Realtà in quanto ci permette questo essere
una personalità, ossia coscienti e coscienza, che è l’essenza della nostra
umanità in quanto in ciò si innesta la possibilità della libertà [...]ora al
moderno pensiero immanentista che afferma la realtà, considerata come processo
di coscienza, risolve ogni antinomia ed irrazionalità, noi dobbiamo chiedere
che esso risolva anche il problema del dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si
pone come nota distintiva dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia
immanentista attestando una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere
risolta nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni. !
123! metafora – tanto che G. giunge ad affermare che “il dolore è in
realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano
il legame ancora profondo di G. con il concetto di trascendenza, che andrà
dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere
completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della
questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo
periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un
avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa
fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni
esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del
trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi G.ani scritti a distanza di
pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore che “se la
realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e
quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto
di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e
lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375. In polemica con
l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal filosofo come la
più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di Giovanni Gentile) G.
asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare
a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi
stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da
controbattere, che esso proprio costituisce lo sbocco e l’affermazione alla
quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per interna necessità logica
giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore si pone in opposizione
all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla riduzione della realtà alla
forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i limiti di una teoria che risolva
il dato empirico-individuale, come quello del dolore e del tragico, nella
trasparenza del pensiero che dissolve ogni contraddizione. Nel novembre del
1928, appena quattro anni dopo le affermazioni appena ricordate, egli asserisce
in una lettera inviata all’amico Enrico Castelli Gattinara 374Ivi, p. 118.
375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem. ! 124! di Zubiena che la sua
posizione speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo dell’attualismo
italiano gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur riconoscendo il
punto di partenza cattolico della propria formazione filosofica. Scrive G.
all’amico: “Durante le mie peregrinazioni germaniche nell’anno scorso ho
trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori contemporanei [...]
il mio filosofare è partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero
cattolico, ma siccome in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la
conquista realizzata, non posso dare quello che oggi non ho ancora [...] la mia
posizione attuale è il riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più
coerente e matura del pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero
di giungere a nuovi orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla
filosofia tedesca è animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e
concretamente dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la
mia posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far
emergere un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della
questione onto-antropo-logica in G.. Durante gli anni della formazione
giovanile la questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della
componente della trascendenza, della realtà del dolore e del tragico,
dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione
dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme
distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza,
tutta votata all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di
categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta
degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi
frutti: il problema G.ano della coniugazione di immanenza e trascendenza si
incontra con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel
tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo.
Sebbene G. non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra
interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le
esplicitate fonti heideggeriane Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in
Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto G., pp. 287-299, in “Idee”, 28/29,
Lecce 1995, pp. 292-293. ! 125! e gentiliane, ma anche la questione
fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana
378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla
Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del
movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a
creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi,
p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di
tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i
concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl
non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità,
nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti,
l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli
vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e
non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger,
Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di
intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il
contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra
un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto
che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato.
Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma
non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di
questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in
cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che
l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la
coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo
maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo
dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia
dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come
possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il
nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere?
[...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato
nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito.
Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere
per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova
scienza – della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo
passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta
la sua intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi,
un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività
costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del
mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza,
l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni
altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è
l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in relazione
alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia
del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di riguadagnare il
terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta all’epochè husserliana
e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione originaria di ogni
possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto. Il mondo non è
un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce proprio questo. La
seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è l’intuizione categoriale,
interpretata da Heidegger come il radicarsi dell’intenzionalità
nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la categoria come dato, come
oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che “la scoperta
dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, che c’è un semplice
coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si delineano
tradizionalmente come categorie [...] in secondo luogo è soprattutto la prova
che questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni
esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è presente, cioè, in ogni
percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare in che
modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto “l’ente percepito si mostra sempre
soltanto in un determinato adombramento”, p. 62. La percezione non è mai
adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. In
altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato, attraverso
la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un oggetto.
Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua identità
oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite un’eccedenza,
costituita appunto dall’intuizione categoriale. É possibile istituire un
parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla nei
Prolegomeni e quello dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema
della metafisica se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella
pura, consentono quel darsi dell’oggetto che secondo Heidegger è reso possibile
dalla sintesi a-priori dell’immaginazione e che ritroveremo in G. nei termini
di fantasia e ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta
fondamentale della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto
all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la
fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato
alla soggettività”, ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo
qualcosa di “immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”,
ibidem, e nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla
realtà”, ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in
una semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori,
ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in
luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè
l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in
quella Lichtung che è il mondo. Sarebbe un’operazione forzata includere in seno
alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche
G. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei metodi di
ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di interessi di
innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e dei gradi
dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica all’obiettivismo.
Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il ripensamento del tema
della manifestatività nella sua identità con la questione ontologica. In Il
problema del logo si afferma che la ricerca della manifestatività si identifica
con la questione dell’essere: “L’originario vero non può venire inteso come la
svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a
sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se
il processo di distinzione non fosse il primo, non sarebbe possibile passare
dal non manifesto a ciò che è manifesto [...] il processo deve quindi essere
inteso come un auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca
dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra
manifestazione ed essere”379. In questo passo si profila un’idea di essere come
processo e automanifestazione lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce
l’essere al dato. Comprendere l’essere è possibile soltanto se lo si identifica
con il processo di manifestazione. L’originario, il fondamento a cui
l’antropogenesi è indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma
come processo, atto della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica
che G. fa partire da una messa in discussione del concetto oggettivistico
dell’essere in quanto dato inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca
del vero della prospettiva empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al
dato, allora questa concezione sottintende un’aporia che G. prontamente mette
in evidenza: “l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare
la propria verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci
porga veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza
non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama,
sarebbe proprio per esso irraggiungibile” E. G., Il problema del logo, in Id.,
I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374. ! 127! La
contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come
l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe
qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e
che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il
manifestarsi, ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si
richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi
poiché “il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di
qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente,
nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché
vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente
[...] l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza
della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è
cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381.
Dalle tesi G.ane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica
immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie
l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che
l’essere per G. non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è
fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e
trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del
Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per G. “ciò che
sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita
nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che
comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto
afferma G. che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più essere
razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul
fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene
originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché
si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda,
cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in
quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui
parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente”
Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città
del Sole, Napoli 2002, p. 81. ! 128! III. IV. Metodo statico e
metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale,
quello che per G. mira alla definizione del concetto che dice della cosa
unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo
contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la
verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico,
ma quella di un processo. Su questo aspetto G. si sofferma soprattutto in Il
problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche” G.ane
sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della manifestatività e della
pluralità delle forme, che qui trovano una prima esplicazione sistematica
correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema di Il problema della
metafisica platonica è individuato da G. nell’ambito della problematizzazione
del concetto di forma. Il tema dell’eidos è coestensivo a quello della ricerca
del ti esti e si viene configurando secondo il filosofo milanese come risposta
da parte di Platone all’oggettivismo sofistico. La ricerca sulla forma è in
generale la ricerca dei modi della manifestazione del reale come modi di
determinabilità383. Scritto nel 1931, il testo è pubblicato grazie a Benedetto
Croce nel 1932 presso l’editore Laterza ed è dedicato a Heidegger, il filosofo
al quale G. si sentirà legato per tutta la sua esistenza e che insieme a
Gentile ha maggiormente influenzato il suo pensiero. In questo testo G.
analizza il dialogo platonico Menone in polemica con le interpretazioni
tradizionali che guardano a Platone come il rappresentante di un astratto
razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una interpretazione
oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se, invece, non si
debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo dalla teoria della
reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del dialogo. Il filosofo
sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica platonica “è di porre
solo in discussione il problema della legittimità della tradizionale
interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente Platone a un
oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello empiristico della
sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa, quella metafisica,
la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito avere alcun dubbio
riguardo Id., l problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932,
p. 60. ! 129! all’affermazione che egli come filosofo, ha cercato
di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una teoria del sapere come
reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione di Socrate verso
l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva dell’ipotesi
eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò che non si
conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si saprebbe cosa
cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la tesi platonica
attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive G. che “se il processo
di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del processo di
ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò che si
manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi quell’atto
medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma si
identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del
vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come
entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al
contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare
in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del
vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non
in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel
logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in
questo caso nel dialogo la Ivi, p. 8.
385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto
tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non
abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle
altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta
quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla
impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano
appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di
qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e
apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F.
Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo
cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che
non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti
imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non
conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai richiamando
l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile ricercare né
ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe ciò che conosce
– perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca –, e neppure
cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà cercare”,
ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. G., Il problema della metafisica
platonica, cit., p. 116. ! 130! contesa, !"*-, diventa ed è
essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno della nostra
ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un “secondo G.”
rispetto ad un “primo G.” dominato dal problema del logos – che già in questo
testo del 1932 la problematica retorica appare centrale come discussione
intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della verità in
opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di retorica”389.
Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico esposto nel
Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella ricerca390, come
possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema filosofico del ritorno
al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos, fatta derivare
dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo interpretativo, nella
fatica costante del pensare la realtà, il mondo oggettivo. In tale sforzo, in
tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza del neoumanesimo G.ano: “Se
con atteggiamento umanistico si intende un ritorno alle radici della nostra
umanità, e se questa non sta in una realtà storica esteriore ma in noi, allora
quel ritorno non può essere fecondo che portando alla luce la nostra umanità
nell’atto filosofico educato allo sforzo interpretativo”391. Ritornando al tema
della funzione del dialogo e della sua capacità di aprire l’ambito
dell’oggettività e della determinazione possiamo rilevare come in G. “la
determinatezza dell’oggetto da cui parte una domanda, non è solo il fondamento
della sua oggettività, ma anche il fondamento dell’oggettività di un dialogo, e
quel ti esti è l’unica base di una ricerca comune Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390 “Questo nome,
ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che vedono non
indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano attentamente),
l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha visto) – anathrèi e
ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra gli animali, è
stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà òpope (osserva
attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr. it. a cura di F.
Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. G., Il problema filosofico
del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”, Milano XXVIII,
aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi scritti, cit., p.
271. Corsivo nostro. ! 131! positiva”392. La determinatezza della
cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella nostra ricerca che ha
origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il ricercare. “L’aporia come
ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la co-appartenenza dell’aporia con
il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il pensatore milanese il punto di
partenza della ricerca è la situazione di dubbio in cui si trova colui che
ricerca e afferma che “se la determinazione si dà attraverso l’attualità
aporetica [...] questa attualità aporetica, è il fondamento delle determinazioni”394.
L’attualità aporetica, il dubbio, è il fondamento reale della manifestazione,
dell’essere ed è l’essenza di ogni possibilità di discriminazione e
comprensione395: qui risiede il valore metafisico-esistenziale delle teorie
platoniche, le quali non vanno interpretate alla luce di un dualismo che fa
capo alla dottrina dei due mondi ma come metafisica della finitezza396. Viene
in primo piano in questo testo anche la centralità del tema del dialogo che,
per G., non gioca solo il ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili,
ma va a costituire la struttura e l’architettura del pensiero platonico che è
intrinsecamente aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua
essenza autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere
capaci di domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una
)!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica
del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento
caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo”
Id., Il problema della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86.
394!Ivi, p. 71.! 395 Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la
sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere
che appare è sempre finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si
può fare, è l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza
dell’essere non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica,
né un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso
di dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del
finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74. ! 132! La
fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero G.ano va di
pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della
filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i
contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta,
sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei
cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In
un testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a
carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a
diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la
pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare
riveste per G.. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare all’atto
linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il filosofo è
mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal colloquio, al
fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a monologo
scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un monologo,
emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali sono
l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo dal
colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come un
monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto di
partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il filosofo
un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in cui l’uomo
agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e la
situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come
de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un
evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica,
esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla
verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del
domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere
continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda. Cfr., R. Messori,
L’affettività del colloquio, pp. in E. G., Il colloquio come evento, cit., e V.
Mathieu, I temi di G. nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di G.,
cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo, ibidem, pp.
315-323. 400 E. G., Il colloquio come evento, cit., p. 61. Corsivo nostro. !
133! L’unico metodo per il filosofare nasce dall’aporia,
dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte del
dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo intrinseco
della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione del senso. Il
senso autentico della metafisica immanente di G. emerge proprio nel
dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere,
che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso
della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione
l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto,
rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la
teoresi. Infatti, G. afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua
funzione storica è metaforica.”401 L’importanza della tesi di libera docenza
del 1932 è emersa in tutti i suoi aspetti teoretici fondamentali facendo venire
in superficie temi centrali in tutto il cammino di pensiero di G.. In questo
testo l’essenza della verità è ricondotta alla struttura del dialogo. G. tenta
quell’accordo tra apofansis e poiesis, tra manifestazione e creazione, tra
enunciazione della verità e la condizione che la rende possibile, tra verità e
significatività attraverso l’analisi della questione metodica da cui risulta
un’idea di verità extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché
il vero è il processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia,
che non è una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente
a G. anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci
solo se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di
sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio,
fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o
non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La
riflessione G.ana su metafora e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è
guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce
come trascendentale del linguaggio. In Il problema della metafisica platonica
il tema della determinazione del ti esti,
Ivi, p. 71. ! 134! incrociandosi inevitabilmente con quello
della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della
verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma è raggiunto nel processo
di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un sapere concettuale che
fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca, ma un sapere noetico
che, per G., è arcaico e indicativo. Qui risiede il valore semantico
dell’ontologia fenomenologica di G. che gravita intorno al concetto di nous,
sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di una “intelligenza
senziente” o di una sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale,
insieme a G. e Ortega, è uno degli allievi “latini” di Heidegger, come ricorda G.
in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta
originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in
un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto
di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del
Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa
è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima
di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è
da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere
ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo
discorso si inserisce anche il tema del nulla. La funzione metafisica di nulla
e angoscia G., in Il problema del logo, sostiene che “se la svelatezza
dell’essere si chiude in un processo, allora esso [...] deve contenere in sé il
nulla e l’essere, giacché ogni processo, ed anzitutto quello metafisico,
realizza sempre un passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i
concetti del nulla e dell’essere determinano il nostro concetto di
processo”403. L’importanza della questione del nulla come co-fattore, insieme
all’essere, nella Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del
logo, cit., p. 377. ! 135! determinazione del divenire è centrale
nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di
manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la
manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, “come deve
essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i
vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo”404. La centralità del logos,
quale modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere
confusa con un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia G.
distingue un significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di
svelamento dell’essere. “Il logo come oggetto della logica tradizionale è il
logo in quanto pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un
atto concreto, come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di
giudizio [...] in quanto il manifestare logico, come verità di giudizio, si
fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la legittimità di
distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità del giudizio
(come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza originaria degli
enti”405. É precisamente in questa direzione che il filosofo conduce la propria
ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e il pensiero
heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al di fuori
dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza
riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è
passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire
è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza
cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$-
/*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema
è quello di guadagnare un “nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica
formale”406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e
di esperienza. Si chiede G.: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere?
L’Essere sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza
contraddizione che il Nulla sia?”407.
Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406 Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380. !
136! L’importanza del nihil all’interno dell’indagine ontologica è
direttamente conseguente all’assimilazione del processo di manifestazione
all’auto-distinzione, dove lo svelamento contiene in sé già l’essere e il
nulla, la possibilità di mostrarsi ed occultarsi, come quella dell’errore e della
verità. Ora se la logica tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione
scientifica del nulla per i motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo
in cui il nulla si manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la
questione dell’essere al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso
empiristico o razionalistico – e secondo G. in questo tentativo di ripensamento
di una via di accesso al nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della
priorità della Stimmung dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con
quella attualistica del logo come atto. Si chiede G.: “esiste dunque il nulla,
e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il
presupposto dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica
dell’angoscia che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos
e manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di
logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto
trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno
anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per G.
si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla sorge
[...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente medesimo
nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia
esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un
completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la
realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di
determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel
sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta
alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno I
termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da G., tuttavia egli usa il
termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del 1929
Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in Id., I
primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia viene
sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329. ! 137! stesso del
fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere
nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come
il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di
pensare [...] è allora proprio che l’esistente si manifesta e può diventare
oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia
nella sua convertibilità con l’essere, e che connota l’intero atto di
manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la condizione
trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della
co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi
inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento
dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare
come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e
atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di G. che
mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel
senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il
radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza
umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica
che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e
quindi verso la scelta, la decisione. In G. più che agire una temporalità
contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione
verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione
con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il
reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in
molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme
dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del
filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e
un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se
si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la
logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano
il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca? Ivi, p. 329. ! 138! III. VI.
Logos et pathos convertuntur G. distingue un doppio significato per entrambi i
concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il logos
inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo deduttivistico,
dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello ridotto a
fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella singolarità.
Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero pensante e concreto,
che sperimenta la manifestatività dell’essere nell’autodistinzione, e il pathos
autentico che va inteso in senso metafisico. L’angoscia costituisce appunto
questo pathos autentico. Per G. il pathos è sempre già connotato
ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente
sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della
Lichtung e dell’evento della differenza ontologica: secondo il filosofo nel
pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”412. Esso è “passione
abissale”413 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo
sottrarsi: il pathos metafisico indica il nostro lasciarci afferrare dalla
realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di
sottrarci al suo appello. Nell’esperienza patica l’uomo si trova di fronte al
proprio disancoramento e alla propria angoscia in cui “questo vanificarsi della
realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta
l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere
di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità
e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra
come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di
pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità
di trascendere l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di
domanda”414. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la
possibilità allo stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e
creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio
perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della
dismondanizzazione e di assenza di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono
il regno dell’Aperto Id., La metafora
inaudita, cit., p. 92. 413 Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329. !
139! in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento.
Il filosofo asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a
quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui
gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più
aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un
mondo, e comincia la sensazione del precipizio”415. A caratterizzare maggiormente
l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica:
nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un
significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che
la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non
possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire
il significato di ogni ente”416. Essa consente di prendere coscienza
dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come
schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica: in questo
contesto ontologico si installa la visione antropologica di G.. L’esperienza
dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere rende
possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella dell’umano.
Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da parte dal
filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione dell’oggettività
dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere all’evento va di pari
passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo diventa uomo e l’Umwelt
diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione della natura. A parere del
filosofo “noi ci troviamo di fronte al compito di un ordinamento solo perché
circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali dobbiamo riconoscere di
non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia primordiale dell’assenza di
mondo. Questa esperienza della negatività, della mancanza di mondo è il primo
ed originario aspetto della necessità della trascendenza, in funzione alla
quale solo incontriamo un materiale per la formazione del nostro mondo”417. Sulla
base di quanto detto è emersa una prospettiva che lega indissolubilmente la
tematica dell’essere e quella del nulla alla Stimmung dell’angoscia generando
una rinnovata idea di logos. Se Id.,
Assenza di mondo, cit., p. 226. 416 Id., Il dramma della metafora, cit., p.
131. 417 Id., Mito e arte, cit., p. 147. I corsivi sono nostri. !
140! il reale è processo di manifestazione, divenire e passaggio
dall’essere al nulla, allora il logos capace di dire questo processo, questo
apparire, questa manifestatività autodistinta, non può essere il logos logico
inteso in senso tradizionale. Occorre ripensare il logos al di là dei cardini
di un riduzionismo logico, tenendo conto della co-originarietà delle forme del
manifestarsi del reale. La funzione del logos in G. ha destato non pochi
problemi per gli interpreti, come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il
problema del logo del 1936 il logos è considerato nella sua preminenza rispetto
alla Stimmung, nei saggi successivi come Il reale come passione e L’inizio del
pensiero moderno abbiamo un capovolgimento di questa posizione soprattutto
sulla scorta dell’analisi del dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che
possono aver suscitato l’idea di dualismo. In Il problema del logo il filosofo
afferma che “la Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza,
nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o
prelogico, bensì un particolare modo del legein”418. Da questo passo pare
emergere la riconduzione della questione del patico all’interno dell’orizzonte
logico: il pathos viene visto quale modalità del logos. Qualche anno dopo G.
sembra cadere in contraddizione affermando l’esatto opposto di quanto asserito
in Il problema del logo. In L’inizio del pensiero moderno si sostiene che “nel
dubbio qualcosa è per noi originariamente non indifferente [...] in questo
orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza
come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra appunto
il carattere patetico e passionale del pensiero”419. La difficoltà per
l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione delle tesi appena citate
e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una modalità del logos,
un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È possibile uscire
dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza dell’originario?
La complessità di una loro possibile connessione viene esplicitata e avvertita
dallo stesso G. che già in Il problema del logo si chiede: “possiamo dire che
il logo sia Id., Il problema del logo,
in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio
del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 824. I corsivi sono
nostri. ! 141! effettivamente il Primo, la Ragione e il fondamento
di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento pre-logico? Questo è
il problema contro il quale urtiamo definitivamente”420. Infatti egli
interpreta il logos come legein, cioè come atto del portare a manifestazione
sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di questa manifestatività
originaria, di questa svelatezza originaria degli enti (aletheia ) si può porre
il tema della verità logica tradizionalmente intesa come connessione di
soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella svelatezza originaria
l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal convincimento che
ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime sull’on, sia già sempre
radicato in un vero più originario: quello appunto della svelatezza o
manifestatività. Per G. “la logica tradizionale vorrebbe essere proprio una
logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto l’essenza del logo non
sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e così nel divenire,
nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto razionale od
empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può venir
dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un
manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va
contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa
logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge
un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria
importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente
altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che G. rivolge a gran
parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di
intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la
superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo
modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità. G. ha in mente
piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che
però non troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo
pensiero, restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo
interpretato all’insegna del concetto di Lichtung. Id., Il problema del logo, in Id., I primi
scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378. ! 142! Si chiede G. in Vom
Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva (Stimmung) deve essere
dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto
come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La questione è
comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza
dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in G. più
che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con la
metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto
dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica
heideggeriane423. Qui G. individua la possibilità di una corretta
interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento
del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un
aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in G. la
questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma
un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con
tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo
originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si
differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente
originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza
è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un
divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme
alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La
co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso
sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul
terreno dell’ontologia e della “Muss nun
diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir
als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom
Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr.,
R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die
Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit
vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm
unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der
Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit
prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines
Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit
Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der
Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. G., Vom Vorrang des
Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra. ! 143! manifestatività.
L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle riflessioni heideggeriane
di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und Zeit, mostrando una netta differenza
di interpretazione rispetto a quella seguita dagli studiosi della analitica del
Dasein degli anni ‘40425. L’articolazione del nesso logos-pathos trova una
prima via d’uscita nella riflessione sulla fantasia, reciprocabile con
l’intuizione e con l’intelletto, in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma
di organizzazione a priori dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il
pathos. La questione della correlazione di pathos e logos comporta per G. anche
un ripensamento dell’identità (un’identità
Ha sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme
dell’apparire, cit. (p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni
di G. e di Henry Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico
a-priori del pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di G. e
quella di Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo
critico rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della
distanza di vedute tra Bollnow e G. occorre mettere in evidenza come Bollnow in
Das Wesen der Stimmungen pone la ricerca antropologica sotto il segno della
critica al concetto di fondamento heideggeriano, insistendo sull’infondatezza
del dualismo autentico-inautentico insito, secondo Heidegger, nella dimensione
della quotidianità. Nonostante la messa a distanza del tema ontologico nella
“antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è riscontrabile un punto di
contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di
Bollnow e G., alla storicità come fondamento di ogni antropologia filosofica
che guarda all’umano come continua produzione di forme. Nel filosofo tedesco
ritroviamo “l’idea che la storicità della vita significa creatività, produzione
di forme che portano a espressione la vita in manifestazioni specifiche” – (S.
Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica della vita nell’opera di O. F.
Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che converge con l’impostazione
generale del pensiero di G. che punta ad un rinnovamento del problema
antropologico seguendo il filo conduttore delle espressioni storiche del
fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia teorica di entrambi è il
tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia, influenzata dallo
storicismo diltheyano e dal contesto generale della Lebensphilosophie, “non
muove da principi astratti [...] ma considera ipoteticamente i fenomeni della
sfera educativa come parti dotate di senso in una connessione più generale e
rintraccia tale senso nella originaria relazione attraverso cui l’uomo come
produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p. 137). Bollnow, in Die Macht
des Worts, afferma che la questione antropologica è connessa al potere
formativo della parola e “la questione circa l’essenza del linguaggio diventa
in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza dell’uomo in
generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts. Sprachphilosophische
Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue Deutsche Schule
Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato in S. Giammusso,
op., cit., p. 154. Anche in G. il tema pedagogico è correlato alla questione
della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione dell’essenza
del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che permea sia il
sapere sia il linguaggio. G., nella prefazione alla traduzione tedesca del
Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P. Landmann, sostiene che
“questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da cui siamo legati,
filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra maestro e allievo,
fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo dall’asservita
ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che tutti ci trascina
si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio abbiano inizio i
pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine. Questo accadere
autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce a penetrare ogni
isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso il logos,
attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile sentimento
dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo dell’amicizia
si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. G., Prefazione a Die
Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi Scritti, cit.,
p. 977. G. enuncia in poche battute un’idea di pedagogia legata ai temi della
fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi (Anvertrauen) e del dialogo che
mostrano molte affinità tematiche – pur nella diversità degli approcci – con
Bollnow, più numerose delle pur evidenti differenze sottolineate da
Messori. ! 144! che contenga in sé l’elemento della differenza e
della non-identità) e una ricerca sulla costitutiva co- appartenenza di essere
e nulla nel processo di manifestatività. Secondo la prospettiva tradizionale:
“il nulla non può diventare oggetto del pensiero, perché il nulla esclude in sé
una interpretazione oggettivistica. Un oggetto che non è, è una
contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre aprire un varco
nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate oggettivanti del
pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte all’impossibilità di
renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al nulla: la sua
esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che cos’è
metafisica anche G. crede che “il nulla non si rivela dunque come un oggetto,
come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale stato
d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto d’appoggio”427.
Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il filosofo già a
partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con la discussione
sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede se a partire
dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la priorità
dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con
l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?
In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che
l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un
oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema
dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che
si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li
trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame
tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in
un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il dualismo
è solo apparente se guardiamo all’idea G.ana di logos che si distingue da
quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per G. accade quella
scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di
pensare la coappartenenza di logos e pathos.
E. G., Il problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi, pp.
383-384. ! 145! Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto
dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo G. ci giunge dalle
analisi G.ane di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno G. porta
avanti le sue analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in
Dell’apparire e dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio
vada rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso
l’analisi del dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una
realtà complessa che va identificata come atto, attività del cogitare. In
quanto atto il cogito è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e
l’essere, che in G. sono sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito è
l’unico primo ed originario essere che incontriamo e fondandosi sul quale solo
si può ricostruire e ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La metafisica
di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente
che cosa egli concretamente intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti
sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e
modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento [...]
l’atto del cogito – come originaria unità, monade – contiene in sé già
tutto”429. Appare qui evidente la funzione ontologica del dubbio come “apertura
esistenziale” della questione della manifestatività. La suprema attività del
cogitare, il cogito in quanto atto, non è altro che il dubbio, il dubitare che
nel momento in cui dubita, in cui attua l’attività del dubitare, porta in
superficie “l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile”430.
Nell’atto del dubitare si compie un’urgenza: quella del reale che non ci è
indifferente ma che ci affetta, ci riguarda e nel quale siamo da sempre immersi
e compromessi in quanto esseri gettati nel mondo e “di conseguenza anche il
cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione
di un’urgenza originaria, che si mostra così come il vero fondamento del
sapere”431. Pertanto il pensare (logos) si rivela nella sua identità
costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme di espressione
dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi appelli. Per
il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza dell’originario, e
non si può pensare ogni volta Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., pp.
289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit.,
p. 818. 431 Ibidem. ! 146! che lo si desidera o lo si vuole. Perché
l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una
urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e urgenza rende il logos convertibile
con il pathos quali modalità di apprensione dell’originario. Se “solo questa
costrizione, questa urgenza è l’evidenza dell’originario”433 allora noi ci
troviamo in una situazione di pura passività rispetto al reale? In che modo è
possibile coniugare questo essere soggetti a con il concetto di atto? L’atto,
come abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico tra piano
ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno nell’altro.
A tale dinamica processuale prende parte anche la tonalità affettiva che appare
come il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere nella molteplicità
delle sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si
rivela una Leidenschaft. Un altro termine con cui G. si riferisce alla passione
è, infatti, Leidenschaft, di cui è importante sottolineare il leiden, il patire
nel senso di soffrire e penare. Usando tale traduzione l’accento è tutto posto
sulla dimensione della gettatezza e passività originaria che contraddistinguono
il Dasein, l’uomo che è tale nella misura in cui si riconosce esposto
all’apertura dell’essere, all’assenza di codici interpretativi precostituiti e
innati e pertanto intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del
reale possibili e mai date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal
reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza
che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla Nötigung, da G. interpretati come
due fenomeni dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da
essa non possiamo liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di
possibilità per il nuovo inizio del pensiero auspicato da G.. Per il filosofo
“in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella
sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si
mostra il carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos
metafisico e originario è un’urgenza che non può essere Id., Il problema del
sublime, pp. 917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434
Id., L’inizio del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.
! 147! dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia
platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e
il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero
moderno. Per G, Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha
il merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del
dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad
epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano,
invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere
in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per G. non ha portato fino in fondo il
suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica del
sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti. Le
riflessioni G.ane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò che è
primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione:
“l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o
anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione
in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di
ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o
individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo,
all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il
reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso
il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione
istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi
umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la
politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In
ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno,
il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo
Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il
mondo circostante. Ivi, p. 846. 436 Ivi,
p. 847. ! 148! Secondo G. “in ogni atteggiamento originario non
possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già
sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma
sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437.
Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il
buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in
cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei
distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale,
pur tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue:
esse sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono
Lichtungen del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati
dall’azione di ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della
non- indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del
vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo
strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità
dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia
il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come
gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non
latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene
sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli
opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo
sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in
questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una
ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere
costrittivo e urgente del fondamento è ciò che G. trova teorizzato nel concetto
aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime Aristotele
quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama, che sono il
fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico, bensì
elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si mostrano da se stessi
in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e impiegarli. Così questi
principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura in cui non ci lasciano
liberi”4 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e l’esperienza della
filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p.
1005. ! 149! Possiamo dare per acquisito che in G. non c’è un
rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile del logos
si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I due momenti
sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale unità che è al
tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a individuare il
problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità
che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto
unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura in cui quest’ultimo
si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque essenzialmente una
realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene tratta dalla
fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo
l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo G. l’accadere,
l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori dell’opposizione
logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata, poiché primario e
originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua processualità dinamica:
in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in sé-per noi”,
“uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di polarità
antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire realtà
mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa dal
filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento
(Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto
concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena, l’allestimento,
prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento è dunque
l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano visibili in
virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena originaria regge il
fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale. Essa è definita
anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si configurano come un
tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via primaria relazioni,
atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta possibile, così come la
fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena. La fantasia in G. va
intesa come la facoltà di formazione della veduta/scena (schau) che ha la
funzione di schema trascendentale: “l’elemento originario dell’esperienza
sensibile – come in generale di ogni forma dell’apparire dell’ente non è quindi
una dualità di oggetto e soggetto né una
Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p. 1013. ! 150! molteplicità di
esperienze sensibili, bensì una unità che si compie, che rivela se stessa nel
discernere e nel separare [...] la scena fantastica, il mostrarsi, non vale
soltanto per la determinazione filosofica dell’ente o per quella dell’ente
sensibile, bensì per l’ente nella sua totalità”442. Interpretata in questo modo
la fantasia appare come facoltà del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che
è al contempo il Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo
svelarsi originario dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si
manifesta nell’istante indeducibile perché arcaico-fondativo della “visione
pato-logica. La realtà nella sua automanifestatività si impone nella sua Nötigung,
nell’accadere dell’attimo della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III.
VII. L’analitica esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza
temporale umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica
esistenziale elaborata da G. vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana
del filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa
fondamentale nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal
filosofo: dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale
umanistica; natura. Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il
tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza
di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati
al tema della manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali
Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e
dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20,
L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119;
Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164;
Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147. !
151! del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del
pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo
visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere,
dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà G.ana di
recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una
forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico,
ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme
dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo G. coniuga il tema attualistico
gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza
ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della
Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come esempio
di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento dell’esperienza
della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico si
segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che si viene ad istituire
tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e
l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare,
oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza
dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi
che G. ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII. L’importanza del viaggio in
Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia pragmatica che
“ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia appartiene il viaggiare”446 e G.
non sembra sia stato insensibile I saggi
sono raccolti in E. G., I primi scritti 1922-1946, cit. 445 Per una
ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane
nella filosofia di G. cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit.,
soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca:
l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi,
Introduzione a E. G., I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant,
Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. !
152! a questa affermazione kantiana: lo attestano i numerosi viaggi
che per tutta la vita ha condotto in giro per il mondo alla ricerca di
occasioni di riflessione sul “tema uomo”. Viaggio e riflessione antropologica:
l’accostamento non risulterà peregrino se si accantona – come fa il filosofo
italiano– un’idea di natura umana fissa e immutabile, chiusa nei confini di una
razionalità auto-riferita, per accogliere l’idea di una condizione umana, tema
di un neo-umanesimo attento alla multilateralità della vita, alla
polidimensionalità del reale, e, dunque, alle molteplici forme di apprensione
dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame tra il viaggio e l’elaborazione
di categorie esistenziali volte ad un rinnovamento neo-umanistico della
filosofia è del resto esplicitato dallo stesso filosofo che nella Prefazione a
Viaggiare ed errare afferma che le “annotazioni sull’incontro con il continente
sudamericano sono sorte dalla verifica costante di categorie e concetti
fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di rinuncia al nostro
mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà sudamericana. Spazio,
tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente un significato
originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447. Corredato da una fitta
trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni emotive, di relazioni,
presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva suscitato nel filosofo il
testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla narrazione di esperienze
comuni, una interpretazione prospettica di una realtà nuova, fatta di rovine
antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non costituiscono solo
allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma sono l’occasione
di esperire il “totalmente altro”. Per G. il viaggio può avere questo
significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è avvenuto: il
Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in Sudamerica non è
il primo viaggio né l’ultimo di G., eppure in questo territorio si realizza una
presa di coscienza molto forte dei limiti e delle possibilità della filosofia
occidentale. Su questi limiti e possibilità il pensatore ha ragionato una vita
intera, ma Le citazioni riportate di seguito fanno riferimento all’edizione
italiana del testo di G.: E. G., Viaggiare ed errare. Un confronto con il
Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole,
Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen.
Südamerikanische Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen.
Eine Konfrontation mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974;
Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger,
1982. ! 153! lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione
della foresta, sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta
non è un ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria:
storicità e astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si
consuma la dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di
riflettere sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: “una volta
si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della
tradizione, ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si
ritornava a casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo,
allora, non è un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un
resoconto autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a
Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più
interessanti circa il viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne
anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In
questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui viviamo, come
condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate “non vogliono
essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle
seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con
mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore
che ha dedicato al tema G.ano del viaggio un saggio: América latina y
pensamiento europeo en la “filosofia del viaje” Ivi, p. 33. 449 Il testo, edito
per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und Mythos, Hamburg,
Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e ampliata
dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che G. pubblica nel
1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo Mito e Arte,
cit., pp. 140-164. 450 E. G., Viaggiare ed errare, cit., p. 34. 451 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”,
cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America latina e
pensiero europeo nella filosofia del viaggio di G., in “Cultura
latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto, nella
vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento alla
figura di G. compare soprattutto nei lavori vichiani dello studioso in cui
l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della sapienza poetica, del
ruolo antropogenetico della fantasia, di quello arcaico-fondativo del mito e
dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con le analisi svolte da G.. Al
riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G. Cantillo, Studi vichiani in
Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a cura di), Vico in Italia e
in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id., Poesia e storia in Vico, in
F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000,
p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione storica e narrazione
fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di),
Il sapere poetico e gli universali fantastici, Guida, Napoli 2004, p. 120, nota
10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’, in Il corpo e le
sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M.
Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in «Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab),
I, 2005, ISSN 1824-9817, p. 104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154!
de G., concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne
anzukommen. Lo studioso mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio:
è possibile individuare un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo;
simbolico-metaforico. Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in G. individuati
dallo studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio
sudamericano non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce
nel cuore della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella
messa a fuoco dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che
insieme a quelli di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono
le categorie dell’analitica esistenziale G.ana. Cacciatore afferma che il senso
ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen
ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”.
El viajero [...]
llega a un nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales, orgulloso y seguro de
su patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E tuttavia al cospetto di un mondo totalmente
estraneo G. sente di non poter più fare affidamento sul proprio corredo
categoriale. Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto
viaggiatore in terra straniera G. si sente anche viaggiatore nell’interiorità,
e il malessere vissuto dal filosofo per l’opposizione tra un’idea di Europa da
cui ritiene di doversi congedare e la volontà di ricostruire un neoumanesimo
all’insegna di un rinnovamento dei concetti di Vico tra sapienza e prudenza, in
C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli
2007, p. 225, nota 1; Id., Il mare metafora del limite e del confine, in S.
Amendola- P. Volpe (a cura di), Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli
2010, p. 49; Id., In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
2015. 452 Ovviamente le categorie ora menzionate risentono della trattazione
heideggeriana di Welt e Umwelt e in generale della riflessione degli esponenti
dell’antropologia filosofica e della biologia teoretica coeve, che G. conosceva
molto bene: Scheler, Plessner, Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. G., Linee di
filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp.
299-332, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp.
203-228, La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer
Congreso Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires,
1950, Tomo III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152;
Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453
G. Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155!
fondamentali del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine
dedicate al concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e
assenza di mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della
dismondanizzazione ci sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla
completa apatia. Ogni processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore
avvertito per la scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine
esistenziale che sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria
patria. Si tratta del terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico
secondo il quale “grazie alla radura aperta nella foresta originaria divengono
possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di
computare il tempo”455. Il filosofo ritiene che “anche in Europa si prende
congedo dal proprio mondo. La speranza di liberarci in qualche modo, in chissà
quali paesi lontani, dai nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci
sentiamo più a casa negli spazi della nostra storia”456. Nel pathos
dell’angoscia e della noia per G. noi esperiamo la dismondanizzazione e la
possibilità allo stesso tempo di generare ordini di realtà, progettazioni e
creazioni, per arginare quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato
proprio perché privo di orientamenti precostituiti. I due concetti –
dismondanizzazione e assenza di mondo – indicano due fenomeni diversi, ma
connessi, che possono essere compresi meglio ricorrendo ad una metafora molto
cara a G., quella della luce: “assenza di mondo” come aurora e
“dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo. La condizione di assenza di mondo
(aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle origini, immerso nella realtà
circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e di cui G. crede di poter fare
esperienza nell’ingens sylva sudamericana, che in realtà Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 126.
Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251. 456 Id.,
Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49. ! 156! si rivela essere solo
una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di assenza di mondo
inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una svolta decisiva”457.
L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di mondo si caratterizza
per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non appena quest’ordine
comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che le direttive
consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta inizia la storia
dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo G. “la storia dell’uomo è
quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente [...] a stare su una
soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di confine tra scelto e non
scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e non ordinato. A partire da
questa soglia si aprono i confini del mondo in cui viviamo. Il progetto,
attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a ciò che ci riguarda e
ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio spirituale in cui ci
muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo, come l’animale, è
totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad un certo punto si
disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo costringe a
trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla natura e
in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei quali
costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione (tramonto) è
quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi strumenti per
abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno delle proprie
categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia volontaria al
mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di dismondanizzazione nasce dallo
sgomento che tutto quello che di solito ci circonda, e che con gli anni abbiamo
costruito come un nostro ambito, viene a mancare” Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459
Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di mondo, cit., p. 222. ! 157!
Nel primo caso si tratta di una situazione di privazione originaria che
dice della gettatezza dell’uomo nell’aperto – la Lichtung – della propria
esistenza, privazione che al contempo è condizione di possibilità affinchè
l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale divenga mondo. Nel secondo caso siamo
di fronte ad una dimensione di perdita delle coordinate categoriali classiche
del pensiero occidentale. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di
mondo non sono nient’altro che il regno dell’Aperto in cui è assente ogni
direzione, ogni coordinata, ogni orientamento ma in cui Angst e Langweile
agiscono quali operatori metafisici nel contesto della Lichtung che, come ci
ricorda Agamben, “è veramente in questo senso, un lucus a non lucendo:
l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a una chiusura e colui che
guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un non-vedere”462. G.
asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella
apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli
oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più
aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un
mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel viaggio in generale e
in quello sudamericano in particolare noi facciamo esperienza di una epochè
dell’abituale e del consueto e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il
nostro non poterci tenere a niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza
dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che l’alterità radicale del mondo
sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la questione non marginale del
pathos: per G. esso ha una componente metafisica e non psicologica, dal momento
che grazie ad esso facciamo esperienza dell’originario. Come è noto, la
passione per il filosofo ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo
poiché consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere,
dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della
concreta situazione storica. Afferma G. che “si è costretti a riconoscere che
la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non
possiamo liberarci da essa, incombe ! G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale,
Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 71. 463 E. G., Assenza di mondo, cit., p.
226. ! 158! come destino e nella sua luce fa apparire il
significato di ogni ente”464. La Stimmung che consente l’esperienza
dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare un secondo
senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno
de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la lineas de una
autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en la
significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones de
los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento
storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano
forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca
contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale
sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il
suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve
storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con
l’idea di paesaggio. G. si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo
paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia
in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder,
Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che
cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il
paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il
piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a
questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione
filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e
fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che
schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini,
a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della
filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se
tutti Id., Il dramma della metafora,
cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p.
80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173. ! 159! credono che
esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non
richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza
riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta
nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e
la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra
incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle
che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come
i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti.
Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il
paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore
significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica
di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con
l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la
cesura, lo iato. Come afferma
Cacciatore in America latina “en esta experiencia cognitiva [...] el viaje y la
partida misma tienen sentido en la medida en que remiten immediatamente al
retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la confrontatiòn de G. con
Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el Otro, però tambièn un
hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in
tutte le sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità
rispetto al nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo
fondamentale quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare
si realizza. Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un
tema che nella filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle
distanze è l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire
tutta la “potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a
Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò
che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica,
che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà
completamente nuova, che ancora non si vede, Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81. !
160! che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non
può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta appresso.
Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è attraverso
l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470. L’esperienza
cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento verso
l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro può
avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare
alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare del tutto
della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente problematico:
l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e storia, tra
Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline a
mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello
europeo. Occorre prendere “la expresiòn G.ana naturaleza no historica con mucha
cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni che
cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e
immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –,
bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio
sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello
strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di G. che guarda
all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica
come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra
tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin
mundo del humanista G., e Humberto Giannini, in Experiencia y Filosofìa473, non
potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano senza qualche riserva.
Tuttavia G. intende questa assenza di storia in modo più complesso e
articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se l’Europa ha esaurito
tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il primitivismo che la
contraddistingue, 470 E. G., Viaggiare
ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G. Cacciatore, América latina y
pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una ricostruzione dell’intera
vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474 E. G., Viaggiare ed
errare, cit., p. 24. ! 161! non è ancora stata sopraffatta
dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia, aspiriamo
all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia non
troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente estranea a
noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente nell’atmosfera di
fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora riuscito a diventare
definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro presente, ma sembra
estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è quello
simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri orientamenti
conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca delle proprie
origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi dell’umanità si fa
esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà notevolmente
diverso. Quando G. descrive il passaggio per la grande catena montuosa delle
Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il vichiano
“divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza Nuova. Ma non
si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel momento G. non
cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva ipotizzato: “vagando
in questo territorio, si aprono continuamente nuove prospettive. É l’accesso a
un mondo inquietante: come potrebbe infatti un essere vivente storico ritrovare
il proprio orientamento in questo silenzio, in queste ombre, in queste fosse?
[...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il caos inteso non nel senso di
disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può essere impresso un ordine
[...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo di pure possibilità”476.
La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la metafora di quello spazio
edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di possibilità inedite di
instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo con cautela possiamo
opporre alla natura. Un mondo in cui la questione onto-antropo-logica viaggia
sul doppio binario dell’oggettività data – la natura, il mitico, l’astorico,
l’essere – e dell’operazione di determinazione di tale oggettività – la
progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della storia, quella che G.
definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo percorso di transizione,
che è il viaggio, verranno in superficie, contro la ragione totalitaria, la
ragione Ivi, p. 69. 476 Ivi, pp.
80-81. ! 162! frammentaria, inquieta, balbettante, critica e
discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste del
logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella fantasia.
Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione,
e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di G. e pone
in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il luogo geografico di
elaborazione di questi innumerevoli significati del viaggio, il Sudamerica, e
l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea che si costruisce intorno
ad un progetto di riattualizzazione della problematica umanistica e dei
concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo itinerari poetici,
teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un senso della parola
poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad
una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo G. è
nella pluralità delle parole, nei verba che possiamo attingere la res e i suoi
modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti.
L’attenzione alla multilateralità del reale, che si rivela nella
polidimensionalità linguistica, si colloca nel contesto più generale della
domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo. Si tratta del problema
onto-antropo-logico a cui gli scritti G.ani di retorica, metaforologia,
umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il Sudamerica diventa l’occasione
per un ripensamento del proprio passato filosofico e per gettare luce su un
presente avvertito come estraneo. G. ha voluto confrontare la sua esperienza di
europeo con il modo di vivere sudamericano, assillato dal dubbio intorno alla
validità universale delle categorie della storicità e della tecnica dominanti
in Europa, scoprendo una serie di aspetti inediti della cultura americana:
innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è la pura e semplice empeiria, ma
il luogo visibile del dissidio e della contraddizione, come testimoniano gli
scorci descrittivi delle località cilene. Il filosofo asserisce in riferimento
al soggiorno cileno di trovarsi in una realtà che è al contempo unità e
molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel nord del Cile, nella contrada
delle grandi miniere di rame, !Cfr., soprattutto E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale,
cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il problema della follia, tr. it., di E.
Valenziani e G. Barbantini, Mucchi, Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione
della retorica, cit.; Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo,
cit.; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit. !
163! in prossimità del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi
confonde il fatto di essere abituato a costruire la realtà mediante una
combinazione di diverse esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che
i sensi, abbandonati a se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il
contraddittorio nella sua essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e
una molteplicità senza relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro
concetto importante che emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello
di oggettività: i sensi non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di
transeunte, ma l’oggettivo. I concetti di natura e oggettività si legano
profondamente a quelli di mito, di cominciamento, di originario che solo la
poesia può dire e non la filosofia, che si muove nell’ambito del deduttivo e
dunque del non-originario. Per G. “non basta il sapere, cioè giungere al
riconoscimento di quei principii nei quali ancorare tutti i nostri progetti”479
ma bisogna tentare di ricostruire le tappe di una “sapienza arcaica”, o di una
“sapienza poetica”, per usare un binomio vichiano, in cui si rinnovano i
significati di teoria e prassi e si fa spazio ad un concetto di pistis che
esula dai limiti definiti della religione per rivelarsi come il fondamento
della retorica originaria: “questo riconoscimento capovolge diametralmente il
rapporto tra pistis e logos. La pistis, intesa come fondamento
dell’inspiegabile perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo
originario”480. Nell’esperienza sudamericana l’oggettivo appare come una natura
che non è più umanizzata e soggiogata, ma che domina l’uomo. Essa diviene
smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e si sottrae ad ogni
orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione ciclica, in un eterno
presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico della natura può quindi
suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante. Una volta spezzata la
coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si distinguono più come
momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si precipita nello
smisurato” Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit., p. 490. 481
Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116. ! 164! Entriamo nello
spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra
improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che G. sente appartenergli nel
modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità “ha luogo un
rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa,
perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine “di una
pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non
sono che momenti di un duraturo presente”483. G. si sta riferendo ad una realtà
eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il Sudamerica è il simbolo
dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che, prendendo in
prestito le parole di Vico, “è affatto impossibile immaginare, e a gran pena ci
è permesso di intendere”: qui è possibile guardare autenticamente al mito non
alla luce della demitizzazione, non come “prestazione arcaica della ragione”,
per dirla con Blumenberg485, ma come “realtà in cui viviamo”. É ancora
consentito vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in quel
viaggio dal vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare aperto
dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è principio
arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà inizio come
leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo Stagirita,
sostiene che “il principio deve invece avere veramente il carattere di archè,
cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo carattere apodittico, bensì
elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni
tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487. L’atto fondativo e mitico
del reale è secondo G. indicibile dal logos metafisico e la narrazione di
quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo
trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima
forma dell’ingegno, del nous “e come tale Id., Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem.
484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro del mito, tr. it. di G.
Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. G., Significare arcaico, cit., p. 486.
487 Ibidem. ! 165! unica espressione delle archai nel loro
carattere palesante e immediatamente indicativo”488. Perché come diceva Vico,
uno degli autori prediletti da G.: “di questa logica poetica sono corollari
tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più
necessaria, e più spessa è la metafora [...] – che – vien’ ad essere una
picciola favoletta”489. L’analisi delle “meditazioni sudamericane” di G. ha
messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso come evento
semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale G.ana:
dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale
umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio
in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per
comprendere il senso della proposta neo-umanistica G.ana: essa si struttura
come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo
che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia
ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il
viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata
nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che
occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che
essere un itinerario geografico perché “in quanto viaggiatori in terra
straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità [...] oggi,
viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto
a un esame il mondo della nostra lingua, dei nostri pensieri e dei nostri
sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene allora una meditazione
sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza dell’oggettività: la nascita della
coscienza temporale L’analisi del viaggio nel suo significato tetravalente e la
focalizzazione sui temi della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci
consente di inquadrare meglio le altre due idee
Ivi, p. 494. 489 G. B. Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V.
Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. G.,
Viaggiare ed errare, cit., p. 124. ! 166! centrali nell’analitica
esistenziale G.ana: i concetti di coscienza temporale umanistica e di
oggettività. Secondo il pensatore milanese l’esperienza del disancoramento
originario dalla realtà è l’elemento principale che caratterizza la “situazione
umana”. L’angoscia e il terrore della foresta primordiale, l’agorafobia
originaria che genera la paura dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta
in volta i codici di decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti
considerazioni sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale
simbolico e sulla distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla
funzione di apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne che “la situazione umana è caratterizzata dal
fatto che l’uomo ha la esperienza originaria di essere disancorato dalla
realtà. Il problema del metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè
esso consiste nella ricerca della via per giungere un dato fine. Le prime forme
di metodo, cioè di ricerca di un orientamento nella realtà nascono
dall’esperienza del carattere ingannevole e relativo e mutevole di ciò che
mediano i sensi”491. La situazione in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal
nesso disancoramento-metodo- orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza
dei sensi, che provoca il disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del
metodo, G. individua la nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita
del rapporto immediato con la natura. Emerge un elemento concettuale di non
secondaria importanza: il tema della nascita della coscienza e delle scienze si
intreccia indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca
della sua determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole
naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più
chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di
un metodo, di un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che
avviene nella nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento
che caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza
originaria della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della
ricerca di Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492
Ibidem. ! 167! un’oggettività “stabilita dai principi in funzione
ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà
fenomenica”493. L’assenza di coordinate e orientamento mette l’uomo in una
condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra mondo animale e
mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone nel contesto
dell’onto-antropo-logia G.ana quale condizione di possibilità della nascita del
mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo “la storia umana
comincia nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura in quanto
l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della non
indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è
espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi”494.
L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo
livello di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per
oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? I gradi
dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una
volta quello della “condizione umana” che “si distingue nettamente dalla
condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e
progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il
mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo”495. L’indagine sulla situazione
del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato
l’individuazione di due livelli di oggettività. “Per giungere alla soluzione
della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto
partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta”496.
Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai
nostri parametri e dai “limiti da noi progettati” Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495
Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497
Ibidem. ! 168! -! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del
proprio divenire”498 Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e
organica la natura appare nel costante ritmo temporale dell’identico, in un
diastema, ossia in “ciò che sta (istemi) tra limiti (dià)”499, dettato dal
fenomeno stesso della vita e non da modalità molteplici di ordinare i fenomeni
naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo umano infinite unità di misura di
questa natura. Per il filosofo “della natura possiamo solo parlare in quanto
essa appare entro i diastema stessi, cioè entro determinati limiti”500 e
tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni fenomeni “il cui apparire non
dipende dalla nostra proiezione di diastema”501. G. riporta l’esempio dei
molteplici stati di un corpo502: un corpo può apparire in una forma solida o
liquida ma la modalità in cui esso appare non dipende da noi: la nostra
proiezione di diastema non è l’unica via di accesso all’oggettivo, all’essere,
alla natura. “Se è vero che la natura appare solo entro i limiti da noi
progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha
una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività dei fenomeni
naturali è la condizione dell’esperimento, è la risposta che la natura dà entro
i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo ricorre a Leonardo per porre in
luce il concetto di natura entro i diastema. Nello scienziato G. individua un
via di accesso alla natura mediata dall’esperimento che mostra il senso
autentico del concetto di diastema. Nel Trattato sulla pittura e Sull’anatomia
dell’uomo “l’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una
teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso
l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per
un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa
soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua
interezza Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68. 500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503
Ibidem. ! 169! ma solo quelle parti che si danno nel contesto della
teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e
alle sue capacità”504. La natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che
viene svelato in funzione della domanda impellente”505, quindi mantiene una
zona di opacità residua. Essa ha una propria oggettività che non può essere
colta in maniera esaustiva e definitiva. Il tema della doppia oggettività della
natura mette insieme l’idea dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e
inaggirabile, e l’idea della natura come banco di prova dell’esperienza umana
che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio
indissolubile tra il tema ontologico della oggettività, della natura,
dell’essere e quello etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei
progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle circostanze. In questo percorso
di superamento dell’oggettività della natura, di trascendimento della sua
alterità e di ricerca di principi di determinazione, l’uomo elabora le proprie
strategie di contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per il
pensatore italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di quei
principi primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere al
riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti, ma
bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i nostri
progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo umano”506.
La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi nell’angoscia
esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella di guidare
l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria
situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea
del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è
ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 259. 504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der
heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra. !
170! passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità
tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale
fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il
filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono
strettamente correlati nella concezione G.ana del tempo. Come leggiamo in
Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e
l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico
aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e
sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro,
presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una
concezione del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di
percepire il tempo dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi).
Osserva G. che una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non
nel senso di ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende
possibile le nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana –
quella dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino
corrispondente ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione:
attentio significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile
nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento
dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di
intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni
in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono
il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è
a Id., Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit.,
p. 13. 511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14. ! 171!
fondamento del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di
misura come strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai
quali dobbiamo corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della
coscienza umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la
potenza delle quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di
soggetto e oggetto. La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè
tra soggetto e oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che G.
si propone di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena
per una “semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo potere
originario che strappa l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del
semplice segno biologico e la colloca in una situazione di esistenza e di
possibilità umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di quel
disancoramento primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come
produzione tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo
divenire e del suo superamento dell’immediatezza della natura allora il suo
compito fondamentale – il compito del vero umanesimo – sarà quello di
riscostruire la storia “di quella realtà originaria che l’ha strappato dalla
immediatezza della natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si
costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura
originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali,
tecnica, filosofia, arte517. Per G. “di qui sorge la necessità di ricostruire –
con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello umano. L’uomo può
realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda originariamente e
se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]: sorge per l’uomo
il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo umano”518.
Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni singola
esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che escatologica
della temporalità G.ana, attenta all’istante
Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota distintiva dell’uomo
distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico contro Freud: creatività e
inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo, cit. pp. 142-145. 515 Ivi,
p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 203.
517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 12. ! 172!
giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza di fronte alla quale si
trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale ma innanzitutto quella
del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando, come, dove, di fronte a
chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe “mancanza di misura, di
discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche capaci di mostrare l’intima
correlazione tra vita etica e politica come realizzazioni dell’opera umana,
come risposte alla scomparsa del mondo olistico, intatto, della vita organica.
Per G. resta sullo sfondo un grande interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù
di che cosa può originarsi il mondo umano, se all’uomo non appartiene alcun
ambiente immediato, se quest’ultimo dev’essere sempre costruito da ogni singolo
individuo; qual è la radice dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al
tema antropologico delle origini della storia umana emerge quello del
linguaggio e della funzione della retorica G.ana come ricerca sul significare
arcaico o semantica antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata
connessa ai problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono
la parola, il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. Id., Il tempo
umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della
fantasia. PALAIÀ DIAPHORÀ: PENSARE E POETARE. Il significato della proposta
retorica. Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del
pensiero di G. seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che
si è rivelata una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le
riflessioni sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo
rintracciato a fondamento della proposta neoumanistica un’analitica
dell’esistenza che tocca i temi della coscienza temporale, della
dismondanizzazione e dell’assenza di mondo. La focalizzazione su queste
problematiche fa emergere un’idea di umanesimo che viaggia sul doppio binario
della rivalutazione storica – come dimostra l’analisi dei testi umanisti
dedicati al tema della Lichtung, del linguaggio e della poesia – e della
chiarificazione teoretica delle categorie dell’esistenza. In questo ultimo
capitolo prenderemo in considerazione i temi del filosofare noetico-non
metafisico e quelli della retorica ingegnosa come critica delle devastazioni
dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e assoluti del positivismo
logico, cui G. contrappone una logica del discorso diretto, del pensiero come
comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non come luogo del falso, ma
come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo sfondo della prospettiva
retorica G.ana emerge il paradigma dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è
di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal
punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e
non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo
vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio
da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se
medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di
una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione
della vita. L’azione, come E. Raimondi,
La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna] compensazione alla struttura
morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo
culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In
tale processo antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La
retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al
posto dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non
soggettivo, non è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto
essi si manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo
così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato
continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad
agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca
menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma
dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si
intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo
privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare
come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo
sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi
dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è
la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico
di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza
dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento
provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora
costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno
strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della
tecnica retorica guida il discorso di G. relativo anche alle istituzioni: la
vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come
oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione
retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso,
semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e
del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello E. G., Vico e l’umanesimo, cit., p. 242. 524
E. G., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 135. !
175! di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si
manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon). La questione
linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano
come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si
dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica della
retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è
aperto alla chiamata della concreta situazione di vita pone in luce come la
retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può
essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il
discorso che costituisce la base del pensiero razionale. Essa è la base di quel
theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione
razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica,
immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi
retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico
Il nucleo singolare dell’opera di G. si rivela come una nuova e specifica
prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della
filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come
dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis
(inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il
Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto
dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y
Tarea, G. propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194.
526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione:
la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di G., cit.,
p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97.
I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte nel II
capitolo. ! 176! non riduce tutto l’umanesimo al recupero del
platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non
platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza
dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola
poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo
studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità
storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la
questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che
riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis.
Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una
concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una
nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e
quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica
dell’umanesimo italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla
prassi, alla negazione della parola astratta, razionale – presuppone il
superamento della dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo
corrispondente alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile
divaricazione di teoria e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la
tradizione umanistica – fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della
filosofia che per G. nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello
dell’Abissale, poiché “conservare un passato (è indifferente che si tratti di
pensieri, monumenti o avvenimenti), non considerato in relazione a un compito
da assolvere nel presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni
cultura, ogni tradizione, nella quale il passato perde questa promettente
considerazione, decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella
comprensione del presente. All’interno di questa prospettiva il filosofo milanese
afferma che il vero umanesimo è quello che incomincia con ALIGHIERI (si veda) e
BOCCACCIO (si veda). Contro l’indirizzo “platonico” costituito dal versante
ficiniano – FICINO (si veda) -- dell’umanesimo per G. permane attraverso i
contributi di Vives, NOZOLIO (si veda), PEREGRINI (si veda), TESAURO (si veda),
Graciàn, VICO (si veda), MURATORI (si veda), LEOPARDI (si veda), una tradizione
non-platonica ma retorica, che resiste a quello
Cfr., E. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo
VI “Antiplatonismo e platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza
dell’immagine, cit., pp. 259-260. 532 Ivi, p. 133. ! 177! spirito
razionalista che la relega nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione
di retorica e filosofia. Il punto di vista G.ano sull’umanesimo italiano emerge
in netto contrasto all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate dal
paradigma scientifico. Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la conoscenza
oggettiva sia l’unico modo per comprendere la realtà. Questo tipo di
impostazione logico-analitica, caratterizzata dall’utilizzo del metodo
scientifico, non è attenta all’hic et nunc della situazione concreta ma crede
di trovare assiomi autoevidenti universalmente validi: rispetto al discorso
retorico “il discorso razionale invece è fondato sulla capacità una di trarre
deduzioni e quindi di legare delle conclusioni a delle premesse. Il discorso
razionale raggiunge la sua funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante
la dimostrazione logica”533. Ne deriva che il discorso retorico non può avere
alcuno spessore filosofico all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine
fondamentale tra l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede
nella ricerca dei principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi
principi e la scienza si arresta alla constatazione delle premesse. Se il
discorso dimostrativo è quello che lega la definizione di un fenomeno
riportandolo ai principi ultimi, alle archai, “è chiaro che le prime archai di
qualsiasi prova, e quindi conoscenza, non possono essere esse stesse essere
provate, in quanto non possono essere oggetto di un discorso apodittico,
dimostrativo e logico”534. Da qui sorge il problema dell’individuazione del
tipo di logos adatto ad una ricerca sui primi principi, sulle premesse
indimostrabili. La risposta G.ana è nota: “l’uso di tali espressioni, che
appartengono all’originario, al non-deducibile, non possono avere carattere e
struttura apodittica e dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere
indicativo delle archai che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La
ricerca sul metodo adeguato per accedere al reale conduce G. a tematizzare
l’infondatezza di quella opposizione tra filosofia topica e critica. Id., Filosofia critica o filosofia topica? Il
dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534
Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p.
97. ! 178! IV. III. Retorica tra filosofia critica e filosofia
topica La dimensione retorica va considerata secondo G. non come elocutio ma
come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di
una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al
polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che
tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in G. alla centralità della metafora, stabilendo con la
topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a G. di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che
altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova,
Degnità) G. rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando
per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione
si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare critico e
un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del rimedio
per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un
discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. G. fa
sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle Meditazioni
all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando l’operazione
metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res extensa
un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di
ricomposizione della frattura come è possibile Cfr., sulle parti della retorica
dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo di Liegi,
retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica,
Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione heideggeriana
dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, cit.,
§§ 19-21. ! 179! leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21.
Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un importante
passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della
domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la
comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle
suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come
estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica
che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti,
Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione
dell’uomo, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la misura di
ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale
domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio
della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale,
[...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il
cogito e le sue strutture. G. fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che
occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno
poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos.
Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse
scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione
umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di
dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico
una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della
retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il
problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica,
viene posto per la prima volta secondo G. in modo teoricamente articolato nella
filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce
minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio
Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi,
Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. G., Filosofia critica
o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e
l’Umanesimo, cit., p. 25. ! 180! e ragione. Le questioni poste sul
tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo
vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione
del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva
della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono
all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi
per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di
impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica,
immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo
puro aspetto cogitativo. G. pone l’attenzione sul passo vichiano del De Ratione
in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè, come
l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro
veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544.
Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali
parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà,
limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo
critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la
sua unilateralità razionalistica? Non è la deduzione che precede l’inventio, ma
al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di
un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia l’arte
dell’invenzione di cui CICERONE (si veda) e Quintiliano ci hanno parlato e su
cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la
capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da
quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a
disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da
una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli
forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La radicalizzazione
dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di un’esigenza Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B. Vico, Sul metodo
degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. G., Filosofia critica o
filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. ! 181!
di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che mira a
gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e scientifico.
Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della filosofia si
riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto perché esso
presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire, che lo
precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento comune di
retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace di tenere
conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire del linguaggio,
come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli scopi
dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano che
esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos
metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale.
Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni G.ane non è
dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma
è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza,
costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di
ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme
come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci
dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della
mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua
espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia G.ana ritroviamo un Da-sein
che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi alla
motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe che
caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e di
costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come
sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia G. può essere
collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette in luce
uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella E. G., Filosofia critica o filosofia topica?
Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 33.
548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. ! 182! della coerenza.
Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes, Derrida,
Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di G, ragione per la quale egli
scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura circostanziale del
pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550. Tale slittamento mette
in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga storia della retorica, da
Aristotele a CICERONE (si veda) e Quintiliano, d’ALIGHIERI (si veda) a BRUNI
(si veda) e VALLA (si veda), da VICO (si veda) a Nietzsche e UNGARETTI (si
veda), uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella storia
e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di enucleare
alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria retorica G.ana
mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per dirla con McPhail551
che si fonda su una riconsiderazione del tema della credenza/pistis. Il
magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il mondo della storicità
umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno, della metafora, il ruolo
civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione politico-economica dei
miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di convertire la natura in
cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine retorica il momento aurorale,
arcaico: i punti di partenza, i presupposti dell’agire, il momento genetico,
còlto nelle sue implicazioni gnoseologico- pratiche e antropologiche.
Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo della vita, il momento che
precede quello razionale, le archai originarie, di natura topica e non critica,
indicativa e non Mette in luce l’ipotesi
dello slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della coerenza in
G. M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of
Kenneth Burke and G., pp. 76-118 in AA. VV, Kenneth Burke and contemporary European thought:
rhetoric in transition, Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di G. nella retorica contemporanea
cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on Rhetoric,
Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp. 54-74. Per un approfondimento
dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie della verità cfr.,
M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica,
ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of
Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech
69, n. 2 (May 1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of Richards, Burke, Barthes,
Derrida, Ijsseling and many others ring through G.’s pages, for he writes in
the tradition of those who believe in the circumstantial nature of thought and
the underlying unity of idea and image”, p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M.
L. McPhail, op. cit., p. 77. “A comparison of the rhetorics of Burke and G.
shows that both writers’ conceptualizations of language exemplify the evolution
from correspondence to coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche di Burke e G.
mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli autori esemplificano
l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria della coerenza nella
teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra. ! 183!
dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli dedica
attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le cui
riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della
civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas
all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al
procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e
distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei
tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla
pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare
noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la
focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi
epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani
-! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana
in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in quanto
forza propulsiva nella Menschwerdung G. vede “l’esistenza umana come
essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo
dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi
temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta
l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni
drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare
considerazione G.ana dell’umanesimo e della retorica che lo contraddistingue
emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma scientifico sulla
ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico tradizionale si
basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la via da preferire
per accedere al reale. La critica G.ana al deduttivismo logico e ad un sapere
schiavo della mathesis universalis lo conduce verso l’individuazione del
momento critico del pensiero razionale nell’indimostrabilità dei principi. Ivi, p. 79. “G. similarly sees human existence as
essentially rhetorical, and explores metaphor as his representative anecdote”. Traduzione nostra. ! 184! IV. IV. La
struttura della presupposizione Come leggiamo in La priorità del senso comune e
della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la logica tradizionale distingue tra
due modi per fondare la conoscenza. Il metodo deduttivo comincia da premesse e
deriva le inferenze già presenti in esse. Qui è indispensabile che le premesse
risultino universalmente valide e necessarie ma le premesse sono
necessariamente presupposte nella deduzione”553. A fare problema è la struttura
della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il filosofo “quando si tratta
di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè originaria, dominante –
siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può avere un carattere
dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele – noetico”554. I
primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si tratta del
mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il soggetto
parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei termini G.ani,
dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di essere e linguaggio, di
mondo e parola di ontologia e logica. Per il filosofo i principi non possono
essere dimostrati perché essi sono alla base di ogni dimostrazione. Non
attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il pathos, che non è il
contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un sapere arcaico. Dalla
prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le asserzioni originarie non
sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso con cui le esprimiamo?
[...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale del carattere che ha e
deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle basi”556. Il discorso
apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi), pone la definizione di
un E. G., La priorità del senso comune e e della fantasia: l’importanza di Vico
oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and Contemporary Thought, Vol. I, Humanities
Press International, New Jersey 1976, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p.
43. Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare noetico non metafisico, cit., p. 17.
555 Sul problema della presupposizione come mitologema originario della
filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016.
556 Cfr., E. G., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
97. ! 185! fenomeno riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è
chiaro che le prime “archai di qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non
possono esse stesse essere provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una
riflessione sul mito – come “principio instauratore originario di una
comunità”558 – sulla dottrina topica-inventiva – interpretata come “dottrina
della visione originaria”559 –, sulla metaforologia – come “prassi linguistica
e biologica”560 –, sull’ingenium –come “proprietà comprensiva più che deduttiva
dell’uomo”561 – e sulla phantasia intesa nella sua funzione ontologica come
“attività originaria che scopre le relazioni sulla base delle visioni delle
somiglianze”562. L’apogeo della critica contro la deriva razionalistica del
pensiero si colloca nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni
aristoteliche di nous e di episteme. G. infatti istituisce un collegamento tra
nous e archè, mettendo in luce la stessa matrice originaria dell’episteme:
l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni
indicativi, colti attraverso la passione. Quella che G. definisce come noetica
è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori
trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Leggiamo in Significare
arcaico che nella sfera dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e
nell’ambito dei segni indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e
con ciò estatica, patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di
sapere e di pathos non ha luogo nella sfera
Ivi, p. 96. 558 Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e
mito, cit. 559 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p.
93. 560 Cfr., Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero
occidentale, cit., p. 192. “La facoltà del trasferimento di senso, il
metapherein, è fin dall’inizio essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia
dell’umanesimo. In problema epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo
carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il
divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre
connessa con il caso particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per
sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza
della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id.,
Significare arcaico, cit., p. 491.! ! 186! dell’originario”564 –
palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare
che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente
semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous,
dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che
presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo
logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono
tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di G. che resta integro proprio
nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine,
su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le indagini sulla
retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di riabilitazione
della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di Perelman. La
riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria dell’argomentazione
e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica che si pone è tra un
eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della retorica. La questione
che G. pone travalica l’alternativa tra rifiuto o accettazione566 e ha come
fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di sapere collocato tra retorica e
filosofia. La domanda che il filosofo si pone è: esiste questo e tra retorica e
filosofia? L’opposizione tra retorica e filosofia che è oggetto di Retorica e
filosofia del 1980 già si profila a partire da L’inizio del pensiero moderno in
cui il LINGUAGGIO vive la contrapposizione tra la sua veste
scientifico-dimostrativa e quella metaforico-indicativa. Nella nostra analisi
prenderemo in considerazione le diverse definizioni di retorica offerte dal
filosofo, che corrispondono a funzioni differenti a seconda del contesto nel
quale l’argomento retorico è trattato, Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla
concezione della retorica in G. cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed
umanesimo, pp. 199-216, in E. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit.; M. Marassi, Introduzione, pp. 11-27, in E. G., Retorica come
filosofia. La tradizione
umanistica, cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: G.’s response
to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, pp.
261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of
Kenneth Burke and G., pp. 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and
contemporary european thought, University of Alabama Press, 1995. ! 187! allo scopo di mettere in luce non la
compromessa unità del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca
capacità di generare significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la
tripartizione del discorso Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di
discorso G. parte dalla messa in discussione della riduzione del discorso
retorico a semplice tecnica di persuasione. Secondo il filosofo il problema
retorico può essere affrontato da due punti di vista: si può considerare la
retorica in senso tradizionale, “quindi come arte, come tecnica di
persuasione”567 o da una prospettiva più generale di interazione con il sapere
teoretico. Per comprendere il senso autentico della concezione retorica dovremo
prendere le distanze dall’approccio speculativo che la riduce ad arte della
persuasione, privandola della componente filosofica. A tal proposito G.
individua TRE TIPI DI DISCORSO: il discorso retorico esteriore, IL DISCORSO
RAZIONALE [cf. H P. Grice, The rules of rational discourse], e il vero discorso
retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano
le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è
il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero discorso
retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è
indicativo. ! E. G., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit.,
p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem. ! 188! Tralasciando il secondo
tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra – vorremmo
soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica della
persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo è
quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base del
quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione sia
il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga il
proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto della
retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei fondamenti del
sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria classicamente intesa.
Quella di G. è non è l’ennesima sistemazione tassonomica del materiale
discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a filosofia generale e che
ha come oggetto di riflessione i fondamenti pre-teoretici, pre-categoriali,
ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla non a caso di significare
arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il discorso indicativo o
allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può nascere la prova. Inoltre
se la razionalità è identificata con il processo di chiarificazione, noi siamo
costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale,
e a riconoscere che il linguaggio corrispondente, nella sua struttura
indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il pensatore milanese tale
tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è una Darstellung, una
esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione fantasia e teoria si
identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo il discorso che
realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai) un
significato”571. Il sistema retorico G.ano mira a costruire il ponte tra
retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo
individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già
soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi
posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere
delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera
retorica è la Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo. ! 189!
filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista G. non pensa che
la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce
dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume
un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la
tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero
razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo
procedimento. La genesi della struttura del LINGUAGGIO razionale, dialettico,
dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se
il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova,
la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il
linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel
primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare. La retorica
come punto di partenza della scienza e della razionalità è contrassegnata da
una nota antropologica che si configura come compensazione
dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una
situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in
mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg assioma di ogni
retorica è il PRINCIPIO DI RAGIONE INSUFFICIENTE e ciò vale anche per G. che
conosceva bene Blumenberg e che asserisce, con una sorprendente consonanza
teorica, che la retorica nasce dall’insufficienza del pensiero razionale. La
retorica allora mostra l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un
lato l’insufficienza e dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono
da quell’insufficienza originaria e che non possono essere messe da parte in
nome di una scienza della verità e dell’evidenza. E. G., Retorica come
filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id., La filosofia dell’umanesimo:
un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id.,
Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg, La realtà in
cui viviamo, Feltrinelli. Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. Cfr.,
E. G.-H. Blumenberg, Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur
Archiv di Marbach. ! 190! Se in Blumenberg abbiamo una distinzione
tra retorica dell’ornatus e retorica come prestazione metaforica, tale che la
retorica come compensazione di una mancanza non si articola anche come
compensazione di una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in
ultima istanza una piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in G. la
compensazione entra in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di
evidenza, per eccesso di verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente,
che ci incalza e ci chiama – l’appello dell’essere – appare nella sua evidenza
abbagliante che possiamo solo patire. Come possiamo leggere in La metafora
inaudita: originarietà e paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono
gli enti ma ciò che in funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore
– si impone sempre carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto
l’impeto di segni indicativi, cioè dell’abissale di cui i sensi sono strumenti.
Das Reale als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo G. è il
reale, il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa
scattare il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della
vita che è evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è
caratterizzata da un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione
esistenziale – sia essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in G.
retorica e filosofia, pathos e logos non sono che due approcci
metodologicamente distinti ma che hanno una medesima origine: il reale che
genera angoscia, la quale indica la “fondamentale esperienza esistenziale
dell’inadeguatezza del codice biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale
puramente biologico e [...] a mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza
di tale potenza, cioè alla consapevolezza della propria condizione strana e non
addomesticata”583. La proposta retorica e
Quella dell’uomo ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo
povero che non possiede la verità e che fa della retorica una tecnica
compensativa. 581 E. G., La metafora “inaudita”: originarietà e paradossia
della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1, 1988,
p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono
nostri. ! 191! linguistica del filosofo si pone in antitesi alla
coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria
dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione abbiamo una definizione del
discorso proprio in relazione al suo rapporto con l’evidenza: “la natura stessa
dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e
all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né
s’argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del
verosimile, del probabile, nella misura in cui questo sfugge alle certezze del
calcolo”584. Secondo questa concezione il campo dell’argomentazione è la
prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere è quello dell’incertezza.
In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte rientrano tutte quelle opinioni,
giudizi di valore, inquietudini, incertezze che non si qualificano come errori,
non si oppongono in modo irrevocabile ad una verità (che risponde solo ai
criteri della scienza) ma che rientrano a pieno titolo in quell’idea di ragione
integrale in cui il vero si declina come verisimile. Emerge il tema dell’eikos
concettualizzato anche da G. nella sua lettura di VICO e che mostra il progetto
di una nuova retorica che fa appello ad una idea di ragione e verità che non si
misura solo con il criterio dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di
verità delle questioni morali, sociali, politiche e religiose. Afferma il
filosofo in Retorica come filosofia che il logos della nuova retorica è quello
capace di dire “il fondamento del mondo umano, il mondo come espressione di
disperazione nella situazione specificamente umana”585. Tale logos in quanto
onoma e rhema, in quanto nome e verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la
totalità di significatività nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo
che “questa distinzione – quella di onoma e rhema – acquista un significato
fondamentale. La parola in quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto
(objectum). Ma un oggetto non esiste mai isolato, poiché appare sempre solo
nella dinamica di un compito da adempiere rispetto a certi bisogni”586. La
parola allora non definisce e non isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in
cui accade la loro relazione reciproca e la connessione con C. Perelman-L.
Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi,
Torino 2001, p. 3. 585 E. G., Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586 Ivi,
p. 192. I corsivi sono nostri. ! 192! l’essenza umana. “La parola
in quanto presupposto e annuncio [...] viene perciò espressa nel linguaggio
retorico, in quel linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e
patetico, dal momento che la preoccupazione principale è quella di formare
l’esistenza umana”587. Proprio perché massimamente evidente nella sua
poliedricità il reale trova la sua dicibilità nella multiformità linguistica:
attraverso il dire metaforico. Secondo il filosofo la “metafora agisce come una
luce perché presuppone un’intuizione di relazioni. L’essenza della parola
risposa nella sua struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di
indicare il trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la
metafora. G. sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha originariamente
un significato linguistico e tanto meno letterario: il termine metapherein
indica il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità – il che
presuppone un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè
gettare da un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589. La questione non
è tanto quella di congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni
per una riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti
dell’argomentazione. La nuova retorica G.ana prende congedo da un’idea di
evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come
certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro
sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di
persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo
asserisce in Il ripudio del razionale la pistis “non è opinione né conoscenza
[...] poiché non ha le radici nell’indicazione di una ragione, ma è il
risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale
atteggiamento scaturisce dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice
senso della parola: l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione
nei riguardi dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei
tratti antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in
techne retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p.
167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora,
cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 165. ! 193! lunga “preistoria” umanistica
dell’antropologia filosofica per G. possiamo comprendere il fondamentale
incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione
della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una
tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si
scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie
indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il
discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno
del processo linguistico che rende possibile la fondazione della comunità.
L’apertura è verso una considerazione della retorica come meccanismo
antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione
metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto
di vista antropologico, come fa G., significa rintracciare il fondamento
tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un
sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una
Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva
ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni G.ane dell’umanesimo. Come si
afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della
logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”1 e per comprendere
questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie
che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione
politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma
paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è
costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso
come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una
retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono
subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi
possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso
di G. relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni. Id., Retorica come filosofia, cit., p. 133.
592 Ibidem. Corsivi nostri. ! 194! La radicalizzazione
antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un aspetto fondamentale
dell’interpretazione di G.: il comportamento tecnico dell’uomo che genera la
retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante, non esce dalla
logica compensativa. La retorica rimane per G. – proprio per la sua valenza
antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione
finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla metaforologia e in
prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione antropologica
operata da G. comporta che il fenomeno storico “retorica” sia privato della sua
storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella storia della cultura e
della società, e sia eletto a metafora assoluta della conditio humana.
Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di G., che rimane chiuso in
un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a considerare il
comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione sostitutiva/esonerante,
non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo in alcun modo una lettura
adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di quella stessa interazione
natura/ars da cui pure muoveva l’interesse antropologico per la retorica. La
salvaguardia delle molteplici forme di apparire dell’essere – il vero, il
buono, il bello –, della metamorphè costitutiva del reale, induce G. a
ricercare la forma linguistica adeguata a dire tale metamorphè. Il filosofo si
pone i seguenti quesiti: -! “attraverso che cosa sorge il mondo umano se
l’uomo, a differenza degli animali, non ha un ambiente immediato, se questo
deve essere costruito ogni volta dall’individuo? In altre parole, qual è la
causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come si rapporta questa
costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del logos?”594 -! “è
possibile superare la concezione puramente formale della conoscenza?” Ivi, p.
183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo nostro. ! 195!
Le domande che vengono poste riguardano tre livelli della riflessione: il
livello antropogenetico della fondazione della civiltà; il piano linguistico dell’espressione
del rapporto uomo-mondo; il tema epistemologico della natura della conoscenza.
Cercare di risolvere questi problemi comporta per G. un’analisi della storia
dell’umanesimo che propone una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere
ridotto al suo aspetto formalizzato, logicista, scientifico. Una questione
fondamentale è quella del passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente
contraddistinto dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo
umano. Secondo il filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni
indicativi e costrittivi senza la mediazione della razionalità e del
linguaggio: si tratta del mondo organico. L’analisi del mondo organico mostra
degli aspetti che possono essere ritrovati nel mondo sacrale e retorico.
Nell’ambito dell’organico ogni genere e specie vivente sta sotto i propri segni
determinati e indicativi. Tali codici/diastema mostrano che “la realtà appare
alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni. Le selezioni
(codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale simbolico
della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica “un’unità intatta
di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il filosofo l’analisi
del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle analogie con le
strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce su un’idea di
filosofia rinnovata in senso non intellettualistico. Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp.
180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181. ! 196! Dal punto
di vista G.ano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano
un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di
guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti
del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione.
“Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un
significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento
di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce
la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi
di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco
come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per
l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in
cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene
meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla
genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della
“comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio
si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui
vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi
immediati del mondo olistico e non problematico. L’esperienza della frattura –
la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di
fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che si presenta
nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice
immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale?
Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o
prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? 600 Ibidem. 601
Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem. !
197! IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo G. occorre
rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per
eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola
gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il
loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la
dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos –
un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se
l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e
oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può
essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già
sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò
si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia
indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della
separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa
con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice
pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice
immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè,
un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di
un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non
addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da
G. dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla voce
e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una concezione
della retorica. La phonè come elemento indeducibile del 606 Ivi, p. 185. Il
riferimento polemico G.ano è alla tesi di R. Thom esposte in Modelli matematici
della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp. 187-188. 608 Ivi, p. 188.
609 Ivi, p. 189. ! 198! linguaggio, in La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora e nel testo La metafora inaudita.
Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al problema del
linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné. Prendendo in
considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II libro del De anima
circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi del linguaggio611
il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura metaforica della voce
– il suono semantico – che va a costituire il linguaggio. “Aristotele distingue
fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce (phoné) per poi [...]
definire la voce come suono indicativo (psophos semantikos). Da ciò dovremmo
dedurre che la voce costituisce qualcosa di completamente nuovo in confronto al
suono, non solo, ma che la voce è una metafora, cioè nasce dal trasferire
(metapherein) un significato, un segno indicativo (sema) al suono
(psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce è ciò che assegna al suono
un significato – è fortemente criticata da G. che invece ha come scopo quello
di superare il dualismo mettendo in discussione l’idea che il suono non abbia
un intrinseco significato. Si chiede il filosofo “è dunque valida la concezione
tradizionale dualistica di suono senza significato e voce, suono semantico
indicativo, phoné?”613. G. dispprova la spiegazione aristotelica
tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non tiene conto
che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo è “l’organo
uditivo”614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono “ci appare
solo entro l’ambito di un codice che si impone”615; bisogna considerare la
mutevolezza del codice616. Come Id., La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele, De anima II, 420 b 29.!
612!E. G., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora,
cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43. 615 Ibidem. 616
Ibidem. ! 199! è noto Aristotele definisce il suono come ciò che è
“sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché
ciò che lo produce è una percussione. É pertanto impossibile che si abbia un
suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il percuziente e il percosso sono
distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in voce occorre tenere in
considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può produrre il
suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti della voce
sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo carattere
interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per G. occorre risalire
all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio l’operazione di
radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce al filosofo ad
affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che manifesta il mondo
attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia voce”619, ossia non
esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un suono dotato di un
significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici schiudono “il teatro,
nel significato originario di questo termine, cioè il luogo del vedere, del
theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito significativo testimoniato dal
suono? Per G. innanzitutto nei sensi. Riprendendo le teorie del fisiologo J.
Müller621 sull’energia sensoriale specifica – ossia quella legge secondo la
quale ogni senso produce solo il tipo di sensazione che ad esso è
specificamente pertinente indipendentemente dal tipo di stimolazione a cui è
sottoposto – G. individua la possibilità di rintracciare innanzitutto nei sensi
la genesi della significazione. Egli afferma che “ogni sensazione è carica di
significato”622 e la significatività della voce (che traspone un significato al
suono) si radica 617!Aristotele, De
anima, II libro, 419 b 10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un
suono dell’essere animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una
voce, ma per somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. G., La
metafora inaudita, cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale G. fa
riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826,
pp. 4-5. 622!E. G., Prolegomena, cit., p. 45. ! 200!
originariamente nella significatività già presente nei sensi. Questi ultimi
dotati di un’energia specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito
originario di formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i
sensi, entro i limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo
ai sensi, non è un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa
come parousia”623. Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito
originario ha una struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la
metaforicità del reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in
cui l’uomo fa esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in
cosa consiste il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella
passione, nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e
dolore – fa l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere
a ciò di cui è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di
corrispondere all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta
si presentano all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas
esistenziale”625, del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il
proprium dell’uomo, ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò
che ci è consueto, ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci
sentiamo a nostro agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma
quale linguaggio, quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la
parola nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta,
aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la
spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce
quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per G. è
l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi
!Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. G., Ermeneutica dell’estraneità.
Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di
estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21. ! 201! della
metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come espressione
della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il
filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di
ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si
chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un
mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628.
La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente
onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il
modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo
circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per
G un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che “alcuni
limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una
parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può
essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono
nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una
proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora
nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora
sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra
cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa
contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”629. Siamo al
cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi della metafora come
espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo
cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una
momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo una riforma della filosofia
non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione
della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma della
metafora, cit., p. 14 ! 202! l’importanza dell’esperienza
storica”631. La riflessione sulla metafora è per G. un modo di superare le
falle dell’hòros, del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale,
storica e metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica,
come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli
asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione
(hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle
dimostrazioni”632; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel
fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra
ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe
quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della
ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una
“chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos
ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della
dimostrazione. Secondo il filosofo “il termine metafora è esso stesso una
metafora; deriva dal verbo metapherein, trasferire, che originariamente
descriveva un’attività concreta. Alcuni autori limitano la funzione della
metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo
a un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza
un’intuizione immediata delle somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare
il concetto al quale spetta come compito quello di afferrare, comprendere un
fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Nella ricostruzione
etimologica G.ana il significato di hòros può essere colto nella sua portata
originaria mediante il riferimento “al verbo orìzo (determino) che sta alla
base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io
vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione
(horismòs) Ivi, p. 15. 632 Id., La
potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem.
Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr., sull’analisi
della metafora in G. M. Marassi, G. e il primato della parola metaforica, pp.
264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press,
2011. ! 203! esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è,
ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in
se stesso, il singolo”635, che è compito della retorica autentica illuminare,
in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della
metafora non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”636,
grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità
umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia G.ana
la fantasia e l’ingegno che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua
di “unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e
immediatamente indicativo” 638, costituiscono la triade del significare
arcaico. Il senso autentico della metafisica immanente di G. emerge proprio nel
dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere,
che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso
della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad
espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al
concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si
dispiega la teoresi. Infatti, G. afferma che “la forma originaria del colloquio
nella sua funzione storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica:
metafora e metapherein La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora
come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora
non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia,
atto traspositivo. La riflessione G.ana su metafora e retorica è guidata
proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come
trascendentale del linguaggio. Come 635Id., Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., SIGNIFICARE ARCAICO, Potenza
della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id.,
Significare arcaico, cit., p. 494. 639 Id., Il colloquio come evento, cit., p.
71. ! 204! emerge già a partire da Il problema della metafisica
platonica il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi
inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà,
pone anche il tema della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico
del reale è secondo G. indicibile dal logos metafisico e la narrazione di
quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo
trasformazionale della metafora, che per G. non è un gioco letterario ma la
prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale unica espressione delle archai
nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo. Il polimorfismo
ontologico viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico,
ingegnoso, in grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità,
questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della catena
delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello
di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a
partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di
ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo
strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere
descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti
riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò
che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del
modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la
“realtà”. Per G. la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un medium
attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed
è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le culture
interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo afferma in
Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento
indeducibile del linguaggio che “non va dimenticato che il traslare
(metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario;
il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro luogo e
Id., Significare arcaico, cit., p. 494. ! 205! ciò presuppone un
passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio,
gettare un ponte da un luogo ad un altro. L’approccio antropologico-filosofico
descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso attraverso la metafora,
e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia della fondazione del mondo
della vita e della comunità umana individuando nei processi di metaforizzazione
e di concettualizzazione i congegni antropogenetici e i fenomeni di base
dell’umanizzazione. Nella semantica metaforica di G. non trova posto l’usuale
contrapposizione del senso traslato con il senso letterale di un’espressione.
Infatti “il termine metafora indica originariamente presso i Greci un’azione
concreta e per la precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un
altro; soltanto più tardi il termine compare anche nell’ambito del
linguaggio”642. Se l’idea che riduce la metafora ad orpello linguistico – senza
tenere conto della sua matrice pratica – va messa da parte occorre anche
rifiutare la prospettiva che tenta di sostituire la metafora al concetto. Per G.
la metafora non si trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del
concetto, fornendo un significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa
di esser sostituito da quello proprio dei termini logici. La particolarità dei
termini logici – l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di
polisemia, potremmo dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di
senso. Essi sono contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un
unico percorso interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente
proporzionale alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare
per una filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora
equivale perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico
soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si
mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la metafora
sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla
filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben 641
Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id.,
Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p.
72. Corsivi nostri.! ! 206! guardare quella che per il pensiero
logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento
distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di
una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di precisione
della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui carattere di
epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della metafisica in
ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano dell’homo non
intelligendo fit omnia G. asserisce che “se con la metafora [...] si risponde
alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di elementi fantastici è
originale, preciso, a differenza di quello astratto che si allontana”645 dal
reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una metafora drammatica e
inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una feconda espressione di
Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e va a strutturare i
codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose.
Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica del giudizio (1790),
trattando il procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il
simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora G.ana. Essa determina un
comportamento, un tipo di orientamento nel mondo che si trova a esser
strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora un’epoca esprime le proprie
certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le
azioni e gli interessi. Essa assume la Id., Prolegomena, cit., p. 41 645 Id.,
G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 202. I
corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Il dramma della
metafora, cit.; Id., Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola
poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica
del Giudizio, tr. i. di A. Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza,
Roma-Bari 2008, pp. 183- 385. “A torto e con uno stravolgimento di senso i
logici moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di
rappresentazione opposto a quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere
cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono
ipotiposi, cioè esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le
intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o
simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde
indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una
analogia [...] in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di
applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in
secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella
intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo non è che il
simbolo [...]. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate
sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del
concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione”. ! 207!
funzione del codice. Per il filosofo occorre “sollevare la questione, di solito
trascurata, della relazione tra codice e metafora”648. Sostiene il pensatore
che l’atto di leggere e interpretare la realtà con un codice specifico – ossia
con “un sistema di segni, gli elementi dei quali ricevono un significato entro
il sistema”649 – “costituisce una sorta di attività metaforica”650. L’attività
metaforica mostra un’analogia con il codice poiché rende possibile la visione
degli enti e soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti.
Riprendendo la teoria aristotelica esposta nella Poetica secondo cui “l’usare
bene la metafora significa percepire con la mente l’oggetto affine”651 G. pone
strettamente in relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La
metaforizzazione va identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma
dall’altro libera la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me
phaneròn. Ciò che è nuovo nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente
in precedenza. “La metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza,
lo porta alla luce, in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza”652.
Proprio qui risiede la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno
di decifrazione653 codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del
novum. Sostiene G. che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione,
perché un codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già
date, e sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un
codice che conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è
l’invenzione, scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo
codice”654. Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di G. è
paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un
metodo che risale verso archetipi, i quali !E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele,
Poetica, 1459 a 7.! 652 E. G., Potenza della fantasia, cit., p. 74. 653!Id.,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp. 76-77.
Corsivi nostri. ! 208! fungono da paradigmi esplicativi dei
comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura
occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di
riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e
i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso,
soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore
attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla
metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi
portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione
tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde
l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede
“come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655
alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o
proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di
“visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione
del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia G.ana indica
un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di un
correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o
l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente
l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. G. elabora una semantica
metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e
sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere
calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei
suoi ultimi testi, La metafora inaudita, G. si mostra meno interessato al
percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come
accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta
sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo
della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene
contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del
mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che
traducono queste Id., Potenza
dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem. ! 209! prestazioni, la cui
funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il
dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di
metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo
strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a
rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica
parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che
sorge laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della
res – il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se
“l’essenza della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre
un traslato, necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida
deve venir sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella
storia”659. La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di
volta in volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in
quella dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti
mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È
questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a
distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni.
Sostiene G. in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano a
determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale
dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di
Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. G. è
mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche
del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere
verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di
erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle 657Id., Il dramma
della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica,
Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la
phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri.
660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80. ! 210! passioni e
delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui G. vuole opporre una
priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a Aristotele.
Contro una simile impostazione che separa scienza e vita G. vuole proporre
un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un ruolo
preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi fondamentali:
le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va respinto in quanto
“ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza razionale e verità
rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia disadorna,
impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in considerazione
l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola, come ciò che
apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale all’interno
degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve essere
considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663.
Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero
umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola
su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va
inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non
designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal
contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica
stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla
parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare.
IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico
individuate da Vico La proposta G.ana di ripensamento della retorica nella sua
identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso esistenziale
e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto a ricerca
delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su basi
deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica intesa
come argomentazione debole o Id.,
Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza
dell’immagine] tecnica del bel parlare – induce il filosofo a ripensare la
correlazione retorica-filosofia a partire dal nesso vero-verisimile. Il tema è
al centro di un saggio su Vico, Del vero e del VEROSIMILE in Vico, che mostra
come la figura del filosofo napoletano sia una presenza costante all’interno
dell’iter di pensiero G.ano – e non uno sbocco finale della filosofia di G. – e
costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In
Vico G. rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico,
che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium.
Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera
fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, G. sottolinea come a
differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica
vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà
di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il filosofo
italiano che la fantasia vichiana “è l’espressione dello spirito umano in
quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere,
quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A
riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase
dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo;
è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più
vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione”666. A
differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico
il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è
legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e
filosofia che “solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel
senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che
consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale
capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo
umano di !Id., Del vero e del verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi
scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in G. cfr., R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di
E. G., cit.; J. Sanchez-Esquillace, E. G. y la filosofìa del Humanismo, cit.,
J. M. Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In
dialogo con Vico, cit. 666!E. G., Del vero e del VEROSIMILE in Vico] apparire”667.
Conseguentemente la fantasia si esprime originariamente nelle metafore “cioè
nel conferimento figurato dei significati [...]. La metafora è quindi la forma
originaria dell’atto interpretativo stesso che assurge dal particolare
all’universale attraverso la rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente
sempre riguardo alla sua importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è
sempre un atto metaforico e ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in
tal senso lavoro erculeo”668. É evidente che l’attenzione posta sulla prassi
metaforica669 va oltre il piano linguistico. La metafora non è solo
rappresentazione immediata di un’immagine poiché per la sua struttura
traspositiva assume un ruolo storico-politico: quello della formazione del
mondo umano come traspare dalla correlazione atto metaforico-atto erculeo. Il
riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel secondo capitolo – cela il
riferimento alla dimensione politica della fondazione della civiltà e si
staglia sullo sfondo di una prospettiva che si basa sulla priorità della topica
e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una impostazione di questo tipo
consente al pensatore di guadagnare una concezione integrativa della sapientia
come ars vitae in cui filosofia e retorica si identificano nell’orizzonte ampio
e più alto di formazione civile670. Il sapere noetico-non metafisico è uno
strumento di formazione dell’essere umano nell’interezza delle sue esperienze
storiche. In questo contesto si comprende come la poesia per G. – sulla scia di
Heidegger e Vico671 – rivesta un ruolo fondamentale: essa non ha solo la
funzione storico-filologica ma anche un compito etico-politico. Abbiamo visto
come il concetto vichiano di fantasia assuma per G. una funzione decisiva. Vico
afferma in Le orazioni inaugurali che la fantasia “immaginò le divinità
maggiori e le minori, essa immaginò gli eroi, essa ora svolge le sue idee, ora
le collega, ora le distingue; essa pone sotto i nostri occhi terre infinitamente
lontane, Id., Retorica come filosofia,
cit., pp. 38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una concezione della
retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 670
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti G. distingue la Bildung dalla
Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo aspetto fondativo
e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella
filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 18.
! 213! abbraccia quelle distinte fra loro, valica quelle inaccessibili
scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle impervie”672. L’importanza
della fantasia nella teoria della conoscenza vichiana è sottolineata da G.
nell’ambito di una proposta ermeneutica di analisi della fantasia e delle sue
forme di funzionamento come paradigmi per delineare una storia del pensiero
occidentale673. La rivalutazione della fantasia mira a sottolineare quella
straordinaria forza formatrice che la mente umana riesce ad attivare tramite le
sue azioni simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer filosofo delle
forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi della creatività
spirituale sono capaci di costruire “uno specifico libero mondo di immagini: un
mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in sé il colore del
sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e quindi dominata
dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente dato e trovato,
ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una qualche forma del
libero immaginare”674. Secondo G. nella tradizione umanistica la vis plastica e
cosmica della fantasia e la relativa attività metaforica vengono interpretate
come fonti originarie dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla
quale partire è: “qual è l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è –
come abbiamo visto – il metapherein?”675. Nel tentativo di risolvere la
questione G. ricorre a VICO, considerato l’ultima vetta dell’umanesimo. Egli
offre con le sue riflessioni sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune,
l’occasione fortunata per un ripensamento della storia del pensiero occidentale
al di fuori dei cardini dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta.
L’autore della Scienza Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una
logica della fantasia al fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua
singolarità e concretezza –, un accesso che la logica tradizionale, con G.
Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX, a cura di G. G. Visconti, il Mulino,
Bologna 1982, p. 83. 673 E. G., La potenza della fantasia. Per una storia del
pensiero occidentale, cit. 674 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,
I, La Nuova Italia, Firenze. Cfr. per una correlazione tra la riflessione
vichiana sulla facoltà mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia
delle forme simboliche cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e
Cassirer, pp. 85-104, in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi,
Armando Siciliano, Messina 2005. 675 E. G., Potenza della fantasia, cit., p.
239. Corsivo nostro. 676 Ibidem. ! 214! la sua ricerca rivolta
esclusivamente all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore
milanese con Vico siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di
penetrare la realtà del mondo storico umano e individuale con maggior successo
di quanto non faccia la logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato
il centro speculativo della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia
ma antropologia innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende
possibile la nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle
attività che liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per G. il problema
fondamentala di Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario
all’interno del quale soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia
il mondo umano come tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura
dell’esistenza umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato
ci consente di apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un
Vico antropologo delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico –
e dall’altro di cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage
onto-antropo- logica G.ana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione
all’ursprünglich Rahmen – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen
Daseins681 – l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente
capitoli. La questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a
quella dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il
ruolo di elemento fondativo delle istituzioni politiche. G. punta a
sottolineare non tanto l’aspetto metodologico e Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su
questo aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della
fantasia, Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the
Institute of Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che
la comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività
razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla
forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto
vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio
Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M.
Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e della
sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In dialogo con
Vico, cit. 679 E. G., Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680 Ibidem. Cfr.,
anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte
abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.
! 215! storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella
Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono
all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del
mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e
talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto
alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di
produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della
realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e
dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione
del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il
suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio
vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma
pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena
conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore
all’uomo. Pur accogliendo la prospettiva G.ana della rivalutazione del tema
della fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il
mezzo di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola
capace di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al
mondo reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero.
Qui si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De
ratione, per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di
educare il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta
l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto,
distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e
dell’esperienza acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza
specifica e una preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la
fantasia, negli adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella
vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e
davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare Per una lettura antropologia della Scienza
Nuova cfr. L. Amoroso, Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. G., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 53 e sgg.!! ! 216! quella che è sempre stata
considerata l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale
dei fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente
fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità
umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli
enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di
minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo,
senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico,
sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase
originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è fondamentale
per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia sotto la
categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte fasi:
memoria come attività dell’intelletto umano che “rimembra le cose”; fantasia
come attività che “altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno come
attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò che è stato
precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere
presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce
la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del mito;
dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della
ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia
all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo G. propende per
l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici
interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime
analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le
definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento
della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione
dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. G. individua tre
significati fondamentali della fantasia
G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi,
Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico.
Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. G., Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 89. ! 217! vichiana: -! “nella fantasia e mediante
la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non
soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato
inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere
l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la
terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore
che dà un significato al lavoro”689 Secondo G. la fantasia intesa nel primo
significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo
senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento
della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione
alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il
proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la
fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio
dell’ingegno. Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune
costituiscono la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e
della Scienza Nuova. Secondo G. Vico ricostruisce la storia del mondo storico
umano attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso
comune e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio
vichiano il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane,
dagli elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di
intervenire nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire
istituzioni umane, comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di
questa struttura ritroviamo il senso comune
Ivi, pp. 88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del
senso comune, cit., in Id., Vico e l’umanesimo] che è guidato dall’ingegno. Per
G. l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e basata sulla facoltà
dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati alle percezioni
sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce la facoltà
originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà che
appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico
nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da
cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare.
Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso,
fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il
filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e
ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di
definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le
affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo.
L’interpretazione G.ana della fantasia, anche definita “l’occhio dell’ingegno”,
si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale l’ingegno umano
riesce a riformulare i vari concetti, mediante una rielaborazione delle
immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra essi, che permette di
avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della verità. Se per Vico è vero
che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché usandola, noi foggiamo le
immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la facoltà del congiungere in unità
cose distanti, diverse”,694 è altrettanto indiscutibile che nel momento in cui
l’uomo incomincia ad affinare il suo intelletto e tende ad essere più razionale
(in quella fase storica che Vico fa corrispondere all’età degli uomini),
incomincia a limitare l’utilizzo della sua capacità immaginativa e a diventare
più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo “stato di ignoranza”, dunque, più cambia
anche il ruolo e l’intensità della fantasia all’interno della esistenza. La
fantasia, allora, si trasformerà in un’affinata facoltà poetica, in !Ivi, pp.
49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica del 1710, a cura di A. Corsano,
Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694 Ivi, p. 114. ! 219!
una forza creativa che aiuta l’immaginazione dei poeti e la loro capacità
inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la trasformazione dell’uso della
metafora dalla sua precedente valenza filosofica a quella prettamente
artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una vivida fantasia, segno
di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia che, tuttavia, deve
essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece caratterizza il
pensiero filosofico. G. avverte la possibilità di interpretare attraverso la
lente del progresso razionale l’ingegno e la fantasia ma sposta l’attenzione
verso l’ambito più originario della formazione del mondo umano. Egli asserisce
che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca al discorso fantastico e
metaforico solo il significato di un parlare improprio, che diventa appropriato
solo attraverso la logica, poichè egli restringe l’uso del parlare metaforico e
fantastico a un primo periodo della storia. Noi possiamo rispondere a questa
osservazione guardando ai fatti, cioè chiarendo la relazione tra l’attività
ingegnosa e immaginativa e senso comune, o esaminando più profondamente il
concreto dominio in cui l’ingegno e la fantasia sono capaci di costruire il
mondo umano”695. Con la fantasia, l’ingegno e il senso comune è in gioco il
tema della fondazione della civiltà che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI.
L’ora di Pan e la morte di Pan: mito e arte come genesi del mondo umano
L’analisi del linguaggio poetico come fondazione della comunità politico
sociale ci consente di comprendere l’estensione del discorso G.ano sul mito. In
linea con l’interpretazione di Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico
che il mito riveste in G. alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella
Introduzione al testo di G. Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel
1957696, ristampato nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che G.
pubblica nel 1956 con il E. G., La
priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in
Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg,
Rowholt, 1957; seconda edizione riveduta e ampliata E. G., Kunst und Mythos,
Frankfurt a. m. Suhrkamp] titolo Mito e arte in Rivista di filosofia, Gentili
affronta il problema del mito in G. quale evento originario che fonda una
catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il lavoro condotto da G. sul
mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva di demitizzazione che non è
omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella misura in cui – G. – legge il
mito alla luce delle sue relazioni, porta allo scoperto il nesso intrinseco tra
mito e demitizzazione”697. Come interpretare allora la relazione complessa e
articolata tra il mito e i suoi prodotti alla luce del nesso
mito-demitizzazione? G. analizza il mito quale atto di fondazione originario,
arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni che lo stesso mito fonda:
relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche filosofiche. Tuttavia la
filosofia interpretata come sapere dedotto e non originario non può avere il
ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per G. il “mito fonda
(begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo”698. Nella
ricostruzione G.ana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto che è
alla base delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia, ma
persino della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di mito
come storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che “il mito
esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima,
originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in sé
compiuto. Mito è ciò che dà ordine”699. L’essenza del mito va collocata
nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e
ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della
prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica
poiché nel mito “domina il tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo
italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, Otto,
individua due significati fondamentali del mito701: Id., Arte e mito, tr. it. a cura di C.
Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698 Id., Potenza dell’immagine,
cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150. Corsivi nostri. 700 Ivi, p.
166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 221! -! il mito come
favola e creazione artistica -! il mito come realtà religiosa esemplare Nel
primo significato – il mito come favola e creazione artistica – G. si rifà ad
Aristotele e all’analisi condotta nella Poetica sul mito come “sintesi delle
azioni” in cui è sovrapponibile la sua valenza di fatto con quella di
composizione di fatti. Accanto all’idea di mito come realtà vivente, sacrale,
in cui la temporalità infinita è sospesa in un orizzonte chiuso e circolare
compare il tema dell’arte come favola, racconto, mito, composizione dei fatti.
Qui occorre sottolineare un aspetto di non secondaria importanza. L’arte si
pone come demitizzazione poiché “nasce nell’istante in cui l’ordine assoluto –
espresso dalla realtà religiosa – viene infranto. Nel momento in cui ci si
distoglie dall’ordine eterno e in sua vece si manifesta l’ordine possibile,
sorgono i progetti umani, individuali”702. L’arte si pone come articolazione
specifica di una possibilità intrinseca al mito – il suo divenire possibilità
umana – e non come razionalizzazione della dimensione mitico-sacrale
originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno strappo, una lacerazione, una
rottura: la temporalità e la spazialità sacre dell’universo mitico si
disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo artistico. Nel secondo
significato il mito appare come realtà sacrale, religiosa ed esemplare. Per G.
“questo mondo mitico è sostanzialmente distinto da quello profano, in quanto il
profano presuppone una temporalità, una caducità, un essere-sempre-diversamente
[...] perciò lo spazio profano non è neppure mai chiuso, ma si perde in una
dimensione sterminata e senza confini”703. Tra il mito e l’arte dunque
ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei due tipi di temporalità
e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in comune l’esigenza di
riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili sotto un ordine, una
legge, un kosmos. Scrive G. che “il mito esige di sottomettere la molteplicità
dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria, onnicomprensiva,
costituendo in questo modo un Ivi, p.
158. 703 Id., Arte e mito, cit., p. 159. ! 222! kosmos in sé
compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando a questa concezione, il mito
racchiude gli elementi eternamente esistenti dell’esistenza umana e li
rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente presente”704. Nel mito viviamo
quella connessione con il mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già
parlato in relazione all’esperienza sudamericana di G. – che appare a G. come
“l’ora in cui la realtà frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed
attualità terribile, fuori del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà
che incombe sul singolo e non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui
l’uomo si trova, come l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è
esemplificato con la metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece
come la morte di Pan, come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla
disintegrazione del mondo mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai
ritrovati tecnici” – l’arte come poiesis e come techne – “quando ha perso di
vista i riferimenti a una realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo
istante sorge l’empeiria, la necessità di trovare un guado attraverso il fiume
delle impressioni sensibili che si sono staccate dall’ordine originario”707.
L’emepiria va interpretata come una realizzazione del logos (non inteso come
ragione o intelletto) e non in senso materialistico. Secondo il filosofo si
tratta della prima fase di ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il
primo passo nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è
impressione”708. Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e
ordinamento dell’empeiria possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti
il filosofo giunge a chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in
questo aspetto ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel
carattere di produzione insito dell’arte.
Ivi, p. 150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707
Ibidem. 708 Id., Arte e mito, cit., p. 92. ! 223! Se con
l’emepeiria siamo di fronte ad una constatazione, per quanto ordinata, dei
fenomeni – il termine usato da G. è fest-stellen in riferimento all’empeiria709
– con l’arte siamo di fronte alla produzione di un modo umano a partire dal
mondo frantumato resoci accessibile attraverso l’empeiria. “L’empeiria sembra
avere la sua radice nella necessità di ordinare i fenomeni sensibili, ma non è
in grado di conferire ordine complessivo. Essa comunica di volta in volta un
mondo frantumato, nei cui frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille
parti rilucenti. La potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre
un cosmo, un mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il
mito è “il progetto universale delle possibilità umane”711 e soprattutto la
poesia assurge per G. a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è
possibile attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito?
Oppure la dimensione poetica in G. è una forma della ricezione mitica, una
forma demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione
del mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove
il mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un
mito razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un
movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il
mito in quanto “topos atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta
ma detta attraverso la poesia. G. parte da una idea di mito come fondazione
origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il
mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e
quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore
originario di una comunità [...] con l’ordine – che pone una molteplicità di
movimenti entro un’unità – si preannuncia la realizzazione dell’aspetto
sociale”712. L’interpretazione G.ana della Poetica di Aristotele pone in luce
l’aspetto di Ivi, p. 90. 710 Ivi, p. 94.
711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 224!
secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle
possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata:
l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in G. l’individuazione di una via di
accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare della
storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia dell’umanesimo
che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung dell’essere. IV.
XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e Langweile nelle
meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi due concetti
chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del disvelamento: si
tratta delle questioni supreme a cui G. dedica gran parte della sua indagine
storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo orizzonte teorico due
figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da G.: Vico – come abbiamo
già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è soffermata. Entrambi
appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo umano attenti alla
ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione politico-civile i
cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso G.ano di
ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione civile e del
disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani e la funzione
trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos della noia come
sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano le tappe
fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in G. si concretizza come
formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica. Nel corso della sua
lunga ed operosa esistenza filosofica G. si è spesso misurato con le
riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la centralità che il
concetto di pathos assume all’interno del pensiero di G. è possibile
comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense al poeta di
Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli Id., Arte e
mito, cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito di G. e
il mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. G., cit., pp. 61-76, p. 62. 715 Ivi,
p. 64. ! 225! argomenti del piacere e del dispiacere; del principio
di realtà e del principio di illusione; dell’edonè) poi con Schopenhauer (sui
concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In questa sede si è ritenuto
di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con il padre della psicoanalisi
e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal G., quanto piuttosto di
prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il poeta sollecita nel
cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza dell’originalità e
discutibilità delle tesi G.ane su Leopardi che, come vedremo, non seguono i
dettami del “filologicamente corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi
con i concetti chiave del suo sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può
avere Leopardi all’interno dell’iter di pensiero G.ano e qual è il valore della
teoria dell’illusione a cui il pensatore conferisce tanta importanza da
giungere a definire il poeta italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo
sottolinea quanto l’approccio leopardiano sia distante dal razionalismo della
metafisica astratta del “secol superbo e sciocco” insistendo soprattutto su
quei concetti, quali illusione e noia, piacere e dolore, natura e passione in
cui Leopardi assume un atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e
il tema della civilizzazione. Il Leopardi G.ano come critico del tempo moderno
e delle devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che
si iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico
costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica
di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi
può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si
tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta
dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che
la lettura G.ana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al
grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante
prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in
considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che
egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti
1922-1946. La lettura dei saggi risalenti
G., La metafora inaudita] al periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40
mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche dello Zibaldone, che
resta il preponderante testo di riferimento delle note G.ane sul poeta.
Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di riferimento
registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei concetti di
formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se consideriamo
quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e
l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come fattore
antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi antropologica G.ana.
In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa cenno a
Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung degli studia
humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera educazione
filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una
pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della
parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e
sulla sua formazione. Egli afferma che “il filosofare italiano non comincia con
il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in
relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti
antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il compito umanistico della
mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico,
letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i
testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una
formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si
affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato
delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza
quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente
all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il
formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo,
praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La
distinzione tra Bildung e Erziehung mostra come la posta in gioco nella nuova
idea di umanesimo sia la messa in discussione dell’essenza dell’uomo, della sua
condizione, che accomuna, secondo il filosofo, le figure di Bruno, Vico e
Leopardi. Così come per Bruno “ogni rapportarsi
Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in
Id., I Primi scritti 1922-1946, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718
Ivi, p. 881. ! 227! originario nei confronti della realtà, sia nel
senso politico come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire,
dal patire qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi
differenti”719 anche per Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del
pathos consente un rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei
temi filologici e antropologici implica una rivalutazione del concetto di
pathos da parte di G. che tuttavia non indulge ad una forma più o meno celata
di irrazionalismo illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca emerge
laddove egli tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude
il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos
nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Nella sua prospettiva
il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o
all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della
nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza
ontologica. Secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico
della storia”721: esso è “passione abissale”722 in cui accade il fenomeno
dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi. Nella prospettiva G.ana il
pathos metafisico è ciò che Leopardi chiama illusione e natura. “Le passioni
hanno un carattere trascendentale, esse sono cioè condizione delle esperienze e
da esse non deducibili”723 e per il poeta indicano il nostro lasciarci
afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza
possibilità di sottrarci al suo appello. G. afferma che “l’espressione
illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto alla terminologia
tradizionale Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721 Id., La metafora inaudita, cit.,
p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale
moderno, pp. 156-175, in AA. VV, Tradizioni della poesia italiana
contemporanea, Edizioni Theoria, Roma] che si serve della espressione a-priori,
il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del
trascendentale”724. Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello
Zibaldone l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria
angoscia – che nelle “meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui
“questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale
manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da
esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come
essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione.
L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità
dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere)
e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’ esistente
nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”725. Nel pathos
dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso
tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti
precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo a
cui il filosofo fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è assente ogni
direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che “in
quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non
essendo la nostra dimensione, ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti
diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a
loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia
la sensazione del precipizio”727. Ivi,
p. 168. 725 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id.,
I primi scritti, cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di
filosofia”, Roma, pp. 217-247, p. 226 727 Ibidem. ! 229! A
caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente
metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario.
La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è
costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica,
che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e
nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”728. Essa consente di
prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi,
dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione
storica. É proprio questo concetto metafisico di pathos che G. ritrova nel tema
leopardiano dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul
problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla
tradizione italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter
Otto il cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il
singolo (l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo G. trova una
risposta nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del
problema della parola come massima espressione della vita individuale, la quale
però “non ha proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce
alla questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca G.ana sulle
modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana
e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in
una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò
che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto
molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito
all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il
comune”732. Id., Il dramma della
metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi
scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem. !
230! L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario
che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce
G. verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il
trascendentale che conferisce ordine – infatti G. parla di bella illusione – e
che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone come
necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del reale733.
Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945 dedica una
sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di noia e
passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela
inaspettatamente come passione poiché la vita è sempre nella sua essenza
impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai
sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte
della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è
pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza.
Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura G.ana di Leopardi
presente nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die
Kritik der modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi,
Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e
illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle
illusioni Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale
come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p.
1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si tratta
di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik
der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da R.
Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale
moderno; Der italienische Schopenhauer; Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? (1989)738. Il testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo
Zibaldone, considerato da G. come lo strumento per gettare uno sguardo
“all’officina poetica di Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung
und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema determinati problemi
della tradizione umanistica, che, come è noto, per G. sono quelli della
rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium.
Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen
Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch G. prende le distanze
dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal
Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di
Recanati G. ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico
contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla
scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che
ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo
conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina
antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di
illusione. Secondo G. “generalmente le tesi pessimistiche del Leopardi, Id., Passione e illusione. Il principio
freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in “Nuovi Annali
della Facoltà di magistero dell’università di Messina” presentato in redazione
differente al Congresso su Leopardi a Roma nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora
in E. G., La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische
Schopenhauer, pp. 125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart,
Piper Munchen 1987 a cura di Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C.
Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le
affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla
letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver
asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre
intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma
che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non
sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e
A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del
pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica
fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal
Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica
marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione. !
232! così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione
nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe
essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto
quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato
sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta
chiarezza: G. si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi
pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame
tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo
Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non
sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania,
pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo
Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione
e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione
ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se
si prendono in considerazione le affermazioni G.ane sui concetti di ordine, di
costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo
Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la
scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante
nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal momento che
l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il
ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come illusione, come
ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine, poiché è la
ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica.
La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione. Per il
filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed esplicitamente alla
filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è al passo zibaldonico
sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui G. crede di trovare
traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico, che si identifica con
una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità della natura [...] si
esprime attraverso la passionalità come E. G., Illusione, natura e critica del
mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi sono nostri. 742 Id., Leopardi e
Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 743 Id., Der
italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione nostra. 744 Id., Leopardi e
Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6 ottobre 1821. ! 233!
illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale il filosofo guarda allo
Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della ragione, del logo, ma è
il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi alla ragione – ingegnosa
illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello della natura Leopardi
contrappone così non solo alla ragione ciò che egli chiama illusione – perché
razionalmente non deducibile– ma identifica questa con l’attività
ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria, l’Abissale,
realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della realtà, il suo
phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti nella lettura di
Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il filosofo giunge
ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e illusione
coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia è stata
interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il lavoro, il
limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa di
intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno
carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria generatrice
di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e dolore749 entra
in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di G. la Langeweile assume
quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello di chiusura
mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo stesso tempo di
apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è l’aperto, la Lichtung
nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è innanzitutto
temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e dell’indistinto, è il
contrario della vita. La vita invece è esperienza della distinzione e della
singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo G. è caratterizzata da
una positività originaria che la rende ben più profonda di una semplice
tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una costituzione
metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla componente
soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e sulla E. G., Leopardi e Freud, cit., p. 32. 747
Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale
moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160. ! 234! Leidenschaft. La
noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di patire”. Afferma G.
che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e di essi possiamo avere
esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la noia – nella misura in
cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non possiamo vivere nel non
limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto ciò che è e di cui
parliamo può presentarsi solamente a condizione che si mostri entro certi
limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora anche la noia può
essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere nel non-limitato,
nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare
emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e dell’illatenza:
il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della manifestatività,
che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di patire allora
diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente scade a povertà
di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del mondo storico
dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e del mondo, in
cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente. Qui si installa
un altro tema centrale della lettura G.ana: la critica del mondo moderno
presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche la qualità
umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo, G.
afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere
l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli studiosi hanno
costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e
dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali
dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario,
dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”751. Il
problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o
meno larvata di antropocentrismo tout court, è la problematizzazione del tema
della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del contesto originario
dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca
sulle strutture del mondo umano. Ivi, p.
161. 751 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida, Napoli. Alla
metafora fotica nell’accezione heideggeriano-G.ana sopra delineata fu sensibile
già Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di
un Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette
morali e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce diretta
e accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare piacevole e
sublime. G. non sottolinea l’importanza della metaforica della luce né
l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone,
privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature
storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un
accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica
latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e
della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole
per la vastità della sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e
tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né
ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità
trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di
donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in
Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a G. – e al suo maestro Heidegger
– ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica della metafisica757,
rivalutazione della poesia. Temi G.
Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno
originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco
dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come
vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è
significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè
divenir aperto, mentre hio significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i
detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non
si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o
a fare quella tal cosa o azione. Perché la mancanza delle vive e grandi
illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale
come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà
delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra
astratta metafisica, e derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla
ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della
immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’
quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul
pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze,
sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto
che fare colla matematica sublime che colla poesia”, fondamentali, questi, che
corroborano l’idea, in altro modo proposta da G., di un Leopardi filosofo
dell’esistenza umana interpretata come oltrepassamento dell’immediatezza e allo
stesso tempo come natura che si apre alla storia. Come abbiamo visto,
l’indagine G.ana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, si concentra
sulla dimensione ontica delle concrete Lichtungen, che si converte in analisi
del linguaggio. Per il pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di solito
non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario,
orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un
confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in
termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del
linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto,
tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a
mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con
l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica
e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico
della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad
un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti,
distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la
metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per G.
occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui
l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del
razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la
ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo G., è
capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del
pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e
variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non
esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle
[...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso
l’azione umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si
rivela nell’azione, nella e con la praxis”760. E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione
della retorica, Guerini e Associati, Milano Infatti, per il filosofo milanese,
la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il
suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Entra sulla scena
assieme al concetto di prassi e di parola quello di situazione. Eccoci giunti
ad un nodo concettuale di grande spessore che coinvolge la figura di Leopardi:
la co-estensione del mondo (l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un
rapporto pratico (la fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i
limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si
ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai
temi centrali per G. della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per
Leopardi “attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della
situazione, noi dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato
sempre differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua
identità con l’ingenium. Per G. con la teoria dell’illusione “di cui con
estrema lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha
compreso che il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una
situazione concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e
dell’ora, che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta
razionale, universalmente astratta, ma solo passionale. Con il poeta italiano
abbiamo una riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta
linguistica e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos
polisemico che restituisca la multilateralità e polidimensionalità di un reale
che si dà fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di
fronte ad una Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il
processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi
e forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il
metapherein, la trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di
apprensione della realtà o, per usare un termine caro a G., del nostro
atteggiamento verso il reale. 761 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica?, cit., p. 33. 762 Id., La metafora inaudita La metafora è
l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e
in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo
leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il dramma della metafora, “la
parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo
mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche
espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il
kairòs, l’istante giusto in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico
dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio
questo: “annotazione dei segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’
abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere
silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale
l’angoscia perché vivremo l’indeterminato. Anche in LEOPARDI (si veda) G.
intravede le tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale,
l’Originario, l’Essere in cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso
dell’illusione come ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione
all’agorafobia primordiale. “Nel gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio
in cui quel gioco viene parlato) si liberano molteplici possibilità, ognora
rinnovate, imprevedibili, e dunque tali da frustare qualsiasi tentativo di
prevederne razionalmente il senso. Ma che cos’è l’illusione di Leopardi se non,
appunto, un in-ludersi, un entrare nel ludus, uno stare al gioco
dell’esistenza?”766. Come è emerso da queste considerazioni il “Leopardi di G.”,
teoreta dell’illusione, è il Leopardi portavoce di una filosofia umanistica che
si traduce nell’idea di una antropologia che contiene in sé i temi del
linguaggio e dell’essere. Afferma G. in La metafora inaudita che “Leopardi
insegna [...] che l’unica filosofia in grado di tentare questa spiegazione”767,
il gioco dell’esistenza, “è una filosofia dell’esistenza; una filosofia cioè
che, senza pretendere di risolvere il
763 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio,
L’Officina Tipografica, Napoli 1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766
Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. 767 Ibidem. ! 239! problema
razionalmente, prenda atto dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La
focalizzazione sui temi dell’illusione e della natura, della noia e della
passione, che solo marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il
legame con il grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è
l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano
l’onto- antropo-logia G.ana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che
diviene ulteriore occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano,
Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo
che permea la sua prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi G.ano può essere
interpretato, allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che
l’umanesimo autentico come pensiero poetante, come meditazione noetica e non
metafisica, ha ancora una possibilità di essere esperito a partire da una
tradizione a cui non è stata conferita la dovuta importanza. La traccia
leopardiana nell’iter G.ano ha fatto emergere, attraverso il concetto di
ingegnosa e bella illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con
l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene con le produzioni umane della
civiltà, della storia, della cultura. Solo illudendoci sperimentiamo la nostra
forza, la nostra umanità, come insegna Leopardi, e diveniamo artefici del
nostro mondo. La filosofia dell’esistenza proposta da Leopardi diviene un
experimentum vocis, una poesia pensante o un pensiero poetante. La
)&0&*& '*&2o"& descritta da Platone nella
Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato da G.
da un angolo prospettico differente: non da quello di una epistemologia o
gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline al vago ed
indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al fallimento –
ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in cui la
connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione
umano-civile-politico. 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b. !
240! Come è noto il plesso disegnato da G. di metafora-fantasia-ingegno
ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario.
Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che sempre precede nella
storia del mondo, come in quella dell’individuo, l’operazione mentale della
critica, l’arte del giudicare. Memore delle riflessioni vichiane della Scienza
Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, G. affida
all’ingegno la capacità di sintesi e connessione del molteplice empirico fino
al punto di farne la caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva mancare
di sottolinearne l’importanza teorica e pratica presente in Leopardi770.
Ingenium come capacità di ritrovare; fantasia come facoltà di visione delle
somiglianze; metafora come atto di trasferimento del significato e quindi
creazione di una pertinenza semantica – e non come tropo linguistico, sia esso
di sostituzione o di comparazione – concorrono a delineare i prolegomeni per
un’idea di neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si dispiega tra
razionalità e fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di attivazione di
procedure di formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà di apprensione
del reale attraverso una struttura pato-logica, o un’intelligenza senziente –
per usare un’espressione di Zubiri, collega di corso in Germania di G. Essa è
il catalizzatore dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti
figurativi, simbolici e semantici del logos G. non rinuncia mai tuttavia alla
filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più
metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di
giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da un’ontologia
che culmina in una metafisica, quella di G. ha come scopo l’elaborazione di
un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 – che ha come oggetto
il G. Leopardi, Zibaldone, G.- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico.
L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p.
20. ! 241! reale, “l’ontologia non logica ma situazionale”773 in
cui la metamorfosi del mondo non può che trovare espressione in un orizzonte di
dicibilità che è metaforico. L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la
secca alternativa tra un tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza
poetica e l’impresa di epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva G.ana
l’opposizione può trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di
umanesimo contrassegnato da un filosofare che sia pratica esistenziale, non
sterile sapere erudito privo di vitalità e utilità. In questa ricerca di
un’idea autentica di umanesimo Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco
sottolineata, a nostro avviso, dalla critica, che si è maggiormente concentrata
sul G. lettore di VICO e Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non
metafisico si poggia su un ripensamento, da un lato, della filosofia –
sostituzione della metafisica con l’ontologia non statica ma dinamica, non
logica ma situazionale; ripensamento del tema della verità connessa alle sue
espressioni storiche – dall’altro, della filologia, che non si riduce a “una mediazione
delle opere antiche” ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’
essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola. La
ricostruzione di un’essenza dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del
Leopardi G.ano teoreta dell’illusione, il cui significato sociale etico e
politico viene ribadito contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la
civiltà, la scienza e l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in
mente il mondo vichiano dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze
autentiche dell’uomo, la natura e le illusioni, hanno perduto la loro
virtualità politico- fondativa per lasciare spazio ad un sapere chiuso nei
limiti del mos geometricus. Siamo di fronte all’idea di tenere insieme linguaggio
poetico e linguaggio filosofico come due tensioni inseparabili e irriducibili
all’interno dell’unico campo del linguaggio umano che tenta di dire non
l’indicibile. Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821. 775 Ibidem. !
242! l’indicibile non è altro che una presupposizione del linguaggio – ma
il dicibile con cui di volta in volta ci si misura. L’attenzione G.ana verso il
poetico, che restituisce le circum-stantiae della res attraverso la
molteplicità dei verba, va interpretata come l’ennesimo tentativo di dire la
cosa stessa della filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è in questione nella
parola e nel pensiero, la res che, attraverso la parola e il pensiero, è in
gioco fra l’uomo e il mondo. “Così poesia e filosofia stanno l’una accanto
all’altra: chi non ha immaginazione, sensibilità, capacità di entusiasmarsi o
facilità a vivere belle rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la
verità, perché ogni analisi può essere portata avanti solo dove la materia
della vita è riccamente delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a
posteriori ma di giungere a conoscenza dei principi agenti, dai quali
innanzitutto può avere origine ogni mondo, anche quello della filosofia”776. E
Leopardi con le sue riflessioni ha insegnato, contro le devastazioni
dell’intelletto, questa filosofia dell’esistenza che guarda al phainesthai,
all’apparire nel quale viviamo, non con l’occhio della metafisica ma con quello
dell’ingegno, l’unico in grado di cogliere “l’appello che ci chiama da questo
abisso, L’appello dell’origine. G., Illusione, natura e critica del mondo
intellettuale moderno, Id., La metafora inaudita. Traduzione di G. Natur,
introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg,
Rowohlt. Il nostro concetto di “natura” deriva dal termine greco [Questa parola
proviene dalla radice “phy” (latino “fio”, “fui”, tedesco “bin” – H. P. Grice,
“Heidegger is the greatest living philosopher, whereas Kaspers is a has-been.”),
di cui indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e
così comprende il cosmo nella sua totalità. Noi traduciamo !341*1 con il
termine “natura”, dalla espressione latina “natura”, il cui SIGNIFICATO (SENSO)
esprime quello della parola greca (nasci, esser nato, crescere, affine a
gignere). Secondo l’originario concetto greco ciò che è immediato in quanto
cresce è visto come una realtà eccellente. Tuttavia occorre ricordare che per i
greci il crescere NATURALMENTE realizza sempre la legge insita ad ogni
sostanza. Pertanto sotto il termine “natura”, come principio del divenire, è
compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il concetto di “natura”, la
rappresentazione quindi che lo spirito umano si costruisce attraversa una lunga
e movimentata storia. La conoscenza dei fenomeni NATURALI muta e di conseguenza
cambia anche la concezione della natura. L’età pre-filosofica della cosmogonia
(sei secoli prima della nascita di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito
sull’origine del cosmo, del Tutto, è pervasa da rappresentazioni mitiche, in
cui già sempre la relazione dell’uomo con la natura gioca un ruolo centrale. Un
primo inquadramento non più mitico, ma filosofico del concetto di 341*1, di
natura, si ha nell’età antica con la Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e
Prodico, i più giovani contemporanei di Protagora) e la filosofia socratica.
Non più l’intera realtà è inclusa in questo concetto ma ora solo un suo settore
specifico. Per prima cosa i Sofisti hanno messo in gioco la 341*1 contro
il!%$μ$1 (legge), hanno posto il “naturale” solo in ciò che è fissato e posto
dall’uomo in sua contrapposizione.! Socrate nel porsi domande di natura etica
professa una bassa considerazione per una scienza della natura e vi contrappone
l’idea di una scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra
l’uomo con la sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero
occidentale si pone già il problema se sia più importante conoscere la natura o
l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e
Platone si arriva al grande progetto finale della filosofia della natura greca
con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di questa
dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche
come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono
variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito
e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro,
si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo
abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di
entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo
alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come
una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi
Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico aristotelico
di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si perda giacchè
la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come creazione di
Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio autonomo della
natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura caratterizzata
dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto quella
aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i filosofi e
gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della natura
medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale partendo dal
pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed esauriente.
Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova concezione della
natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla natura è cercato
soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto specificamente moderno che
per la prima volta con Vinci assume una chiara forma teoretica (i suoi scritti
più noti sono il Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo).
L’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria
stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso
l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per
un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa
soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua
interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle
domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue
capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo
corrisponde anche la nuova ! 245! fondamentale teoria di Bacone.
Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna
conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo
dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della
moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la sua
azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il concetto
di esperimento si perfeziona con GALILEI (si veda) e grazie a lui e a Keplero
noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di Universo. Il
grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo fu Giordano
Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal concetto copernicano
di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il nuovo sistema solare al
vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà non un solo mondo ma
infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa trattazione) qui appare
doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema del mondo vigente traeva
origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso dagli eruditi alessandrini,
da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo. Questo sistema
aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la terra cioè
giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno una forma
sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza di dieci
sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle. La più
lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni
pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla
terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine
del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium
coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la
Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al
Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione
anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma
soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere
finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia
tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo
che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine
solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il
problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni
sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246! esperienza della natura, si
riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo;
categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà
necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore
della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua
libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui
oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di
esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra
più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia
post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il
modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale
della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente
una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il
materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga
durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari
passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso
di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un
punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma
in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque
restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua
ricerca non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei
fisici si allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena
qualche secolo prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del
sole. In seguito ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei
nostri occhi. Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del
vero si è trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo
arrivati a credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui
scorrono solo ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante
ha qui l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso
lo sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo
processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli
risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina in modo
smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi permane
l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. Traduzione di Der
italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im Denken der Gegenwart, cur.
Spierling, München-Zürich, Piper. Il Problema Ha un senso, in un volume su
Schopenhauer, occuparsi di un altro autore, e precisamente di uno che proviene
da una tradizione e da una lingua completamente diverse rispetto a quelle
tedesche? Non solo: quest’altro autore è uno dei più grandi poeti del
diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato filosofo. D’altra parte,
quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come questo, non dovrebbe esso
essere strutturato nella forma tradizionale, in modo tale che si pongano in
luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e le differenze tra i due
autori – e perché no, in maniera strettamente meticolosa – che allo stesso
tempo implichi una interpretazione di Schopenhauer? C’è una questione
ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento qui è particolarmente noto in
Germania per le sue affermazioni poetiche e per questo è diventato oggetto di
indagine e trattazione prevalentemente nel campo della storia della
letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si tratta di Giacomo
Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato filosofico generale,
e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi che dovremmo
rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui argomentazioni e
dottrine trovino luogo nella storia della filosofia ma per questa parte, che è
quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se non sparse
osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e
preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è
riallacciato a questo giudizio. Questa reazione di Croce non è fortuita: Hegel
quasi con le medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti in
quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani si
sono CROCE, Poesia e non poesia, Bari 1 [CROCE, Poesia e non poesia. Note sulla
letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari]. [G. si riferisce al
testo di K. Vossler, Leopardi, tr. it. di Gnoli, Ricciardi, Napoli]. arenati in
un pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza del concetto.
Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti fondamentali dei sistemi
che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel tanto che
concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò che è
particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione
dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo la concezione di Hegel
l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso
permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della
metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per
rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale,
ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’“incapacità di
rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti
per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia umanistica, secondo
Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono alla filosofia poco
beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco
con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione
poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo
più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita
negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione
umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la
valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da
una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente
dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe
ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di
Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione Hegel,
Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner,
Suttgart [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R.
Bordoli, Laterza, Roma-Bari]. G., Einleitung in philosophische Probleme des
Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986 [E. G., La
filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi
moderni, Napoli]. G., Heidegger and the question of Renaissance Humanism,
Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. [G., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli]. tra
Schopenhauer e Leopardi. Io farò riferimento alle tesi di Leopardi senza
discutere il parallelismo e la differenza con Schopenhauer. Gli
schopenhaueriani possono prendere i testi di Leopardi come motivo per un
confronto tra entrambi. A giustificazione di un metodo di analisi di questo
tipo sarebbe determinante una parola di Schopenhauer. Nella scorsa metà del
secolo scorso Francesco De Sanctis ha notato per primo in un saggio785 su
Schopenhauer e Leopardi la rilevanza filosofica del poeta, ma soprattutto ha
contribuito a mettere in circolazione quell’immagine del pessimismo
leopardiano, come noi oggi ancora comunemente pensiamo. Schopenhauer si
espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente con il suo amico Lindner:
“mi devo stupire molto nel vedere quanto questo italiano (De Sanctis) si sia
impossessato della mia filosofia e come l’abbia capita bene. Non fa come i
Professori tedeschi, specialmente Erdmann, sunterelli ed estratti dei miei
scritti, senza vera comprensione e secondo il numero delle pagine. No, egli li
ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha sulle punte delle dita per
adoperarli dove occorre. Io qui strutturerò i livelli di pensiero di Leopardi
in modo che gli specialisti di Schopenhauer possano discutere la questione
delle affinità e diversità tra i due autori. Innanzitutto perché è possibile
accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra prospettiva, diversa rispetto a
quella tradizionale che si trasmette con Kant e l’idealismo tedesco. I temi di
Leopardi – il rigetto della priorità della ragione, la natura, l’analisi della
noia, il significato filosofico delle passioni, l’illusione, la mania – sono
gli stessi di Schopenhauer. G. si riferisce al saggio desanctisiano in forma di
dialogo Schopenhauer e Leopardi che trae origine dalla lettura da parte di
Sanctis dell’opera di Schopenhauer. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista
contemporanea”, e confluisce in Saggi critici. Cfr., F. De Sanctis,
Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id., Leopardi, a cura di C.
Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino GBr, [Lettera di Schopenhauer a Lindner del
23 febbraio 1859, in A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur,
Milano]. I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono dal
cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era
destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo
originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo,
per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa:
consta di un manoscritto di 4526 pagine. La prima edizione è pubblicata da
Giosuè Carducci con commento critico e filologico con il titolo di “Pensieri di
varia filosofia e letteratura” (un titolo che era tratto da un’indicazione di
Leopardi). La seconda versione migliorata, che si accorda a questa traduzione,
appare negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura Flora, Milano.
Io cito dalla traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della
riflessione di Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha
chiamato natura, criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di
decifrare la realtà sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha
a che fare con i sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta
nel suo significato filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò
che noi possiamo dimostrare e dimostrare significa mostrare e determinare
qualcosa sulla base di un fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui
voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri
animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia
miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di
condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della
ragione”788. Ogni vita umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla
base di fondamento e dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter
prevedere anche l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi
mettere a riparo da esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso,
il sorprendente, non solo non vengono presi in considerazione ma cancellati,
allorché G. fa riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns
und Kritik der modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von G., aus
dem italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke Leopardi,
Zibaldone] si manifestano, e giudicati alla stregua di un fallimento delle
nostre forze umane e razionali, delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di
sicurezza e certezza. Ora da questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire
solo attraverso una certezza sicura e razionale e che tutti i momenti della
vita sociale, politica e spirituale devono derivare da un fondamento di tal
sorta: perciò poi anche l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire
i fondamenti originari dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche
prestabilire tutte le possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il
seguente): “e pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo
in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria
direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma
la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la
sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per
intervalli”789. “ Ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra
i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la
stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più
impiccoliscono quanto ella cresce. Partendo dalla tesi della priorità del
pensiero razionale, ogni passione, ogni impulso, viene considerato in realtà
come un momento da oltrepassare, come un momento che deve essere corretto o
annientato. Di conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile, del
sicuro, del giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la stessa
vita politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire al suo
sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una simile
concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico, corrisponde a
una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una posizione, che
analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine del mondo
occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è realizzata
proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando ci si è
allontanati già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato l’esito
della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? “Anche
nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei
costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati,
laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle
grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli. In un mondo
razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non
anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma
già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto
può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna
opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? “La
superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si
fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione. Per
Leopardi i concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro
rapporto profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? “
La ragione è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica della natura. Qual
cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai
né pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda né vive con se stesso
(se anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794. In che cosa risiede la potenza, la capacità
della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi
riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce
l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così
sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita,
che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare,
secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che
mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è
il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma
Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente,
dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di
distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è
meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della
vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti
dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui
odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza
un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire
deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire
l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e
la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello
sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a
riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il
dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà
in esso animo, come non si dava in natura o vogliamo dire che il vuoto stesso
dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia, la
quale è pure passione. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti
attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e
senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto
alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione
di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che
non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di
suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né speranza,
né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo stato in cui
si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale. Al suo posto
la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione, dunque, della
passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere insieme a
Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere della
passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il
desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita,
anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e
quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta
immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è
sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma
piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi
sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e
nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li
rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che
potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il
fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché
credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci
rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore
di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E dal
momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo un’affermazione
della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva attraverso il
dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione, presentandosi nei miti, i
quali non hanno conosciuto ancora nessun sentimentalismo. “Così importanti
stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle
divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano I dei in comunione della
nostra via e dei nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre
felicità ed imprese, come i nostri simili, non dubitando che elle non fossero
degne della invidia degl’immortali. Da questo punto di vista la vita in ogni
suo stadio, sia sensibile che spirituale, non attinge a ciò che è sicuro,
sperimentato, calcolabile, non attinge alla certezza razionale e dimostrabile,
bensì all’ambito del creativo, dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima
possibilità dell’esperienza sorge da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra
successo e fallimento, se inoltre siamo disposti alla realizzazione delle
nostre capacità, allora qui si radica la nostra autoaffermazione, che
nuovamente richiama l’attenzione all’appello oggettivo e trascendentale a cui
dobbiamo corrispondere. Leopardi pone l’attenzione sul fatto che tutte le
grandi imprese oltrepassano l’ordine esistente e consueto, infatti dal momento
che istituiscono qualcosa di nuovo non possono essere dedotte dal già noto. Già
nella vita quotidiana appare impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile.
Gli stessi sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni
cosa feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità
storica che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le
passioni, ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano
sempre su quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo
significato già spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le
passioni possibili, solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano
l’inaspettato. Così Leopardi passa alla descrizione e approvazione delle
passioni del mondo antico. Allora quelle forze imperanti fanno tutte parte
dell’imprevedibile, di ciò che non è razionalmente deducibile. Si tratta di quelle
capacità di mostrare il nuovo sotto forma di immagine, di linguaggio, di
azioni, di miti. Quegli stessi esercizi fisici, le lotte, le competizioni
sportive e le cerimonie favoriscono la fantasia, destano i miti che non sono il
“vero” ma celano in sé il significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli
antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla
guerra, o a eccitare l’amor della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari
a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che
non saranno mai in un corpo debole, insomma quelle cose che cagionano la
grandezza e l’eroismo delle nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale
ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate
o formate di essere uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava
per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane
etc..., entrandoci e vedendoci tutto solitudine, pur credevi tutto abitato. L’Illusione
Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di
Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si
forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione,
l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o
spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non
è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così
essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è
generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni
grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai
nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra
nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della
storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al
quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di
ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una
concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a
fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è
determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione
del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che
ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza
misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la
nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non
mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie
non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le
illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile le
illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o
quasi affatto, l’uomo è snaturato. La potenza dell’illusione colpisce pertanto
sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché
anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di
dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione,
ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso
la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la
consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi
rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria
dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta
in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni,
dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza
(che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie.
Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi
vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto
noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla
cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’
pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel
giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi
diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui
tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile,
di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie
leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta
civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del
settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo
si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o
nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e
grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda”804. “Le quali cose se
ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le
dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente
e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno
altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro.
Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale
sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca
e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo
ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da
parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso
da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo
l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo
solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile
e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso
deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente
l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione,
di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di
fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non
mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi
della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello
al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di
ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una
concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a
fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è
determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione
del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che
ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza
misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la
nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non
mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie
non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le
illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...]
le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o
quasi affatto, l’uomo è snaturato. La potenza dell’illusione colpisce pertanto
sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché
anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di
dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione,
ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso
la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la
consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi
rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria
dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta
in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni,
dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza
(che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie.
Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi
vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto
noto, ciò Ivi, p. 34. ! 260!
che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui
descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure
una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non
abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come
oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto
sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora”806. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante.
“L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni] popoli civili saranno lor
preda”807. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte
le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli
occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza
umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò
nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla
natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di
qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di
un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo
indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se
avranno posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati
sorge una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer:
la conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana,
è tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico
dell’uomo, non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto
abissale? Oppure: la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è
l’illusione e non la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza
che lascia apparire e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante
misteriosa ha solo riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma
nessun interesse per il destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il
suo ruolo in questo dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui
l’Abissale conduce l’uomo verso il teatro del mondo? Dove risiede allora
l’essenziale identità o differenza tra la teoria dell’illusione di uno
Schopenhauer e quella di Leopardi? La formulazione e la risposta a queste
domande si discostano radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer,
così come tradizionalmente viene eseguita, quando si parte da Kant e
dall’Idealismo tedesco per intendere Schopenhauer. Per me era profondamente
importante qui mostrare il significato della teoria dell’illusione – che gioca
un ruolo così profondo in Schopenhauer – alla luce di una prospettiva
completamente diversa e poterne discutere.
Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der
Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, München,
Beck, La ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità,
Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del
Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile
dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate
ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una
ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto
tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la
filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in
maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere
un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se
evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa
ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile
verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero?
All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare
quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della
verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe
possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa
questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità dell’indagine,
la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del riconoscere la
verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della verità. “Come
potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non conosci ti
prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come riuscirai
ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”. Tuttavia
ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa,
già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda
difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si
dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare
sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più
nel dettaglio ci si accorge immediatamente che essa in realtà fornisce già una
prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al quale
riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come punto di
partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la verità in sé
ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza dell’indagine
appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è già esistente e
non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo sia e non sia è
valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio
dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito
dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito
in maniera oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al
Divenire poiché in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e
non essere. Da ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene
identificato con l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la
possibilità della ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità:
la semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non
ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad
interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata
concezione di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la
concezione di verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un
oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella concezione di verità che
tradizionalmente per analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la
verità è verità logica essenziale e che in quanto tale appartiene solo al
pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale,
come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale come
nell’espressione dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il
congiungere, l’atto di unire del pensiero, che si esprime nella concezione di
unità come connexio di soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel
momento in cui uniscono o separano ciò che si appartiene o non si appartiene,
così com’è nell'Essere. In primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base
di una tale concezione il fondamento della verità appare innanzitutto come
l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il
fondamento della verità del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di
fuori di esso e che per questo la preminenza del Logos come pensiero viene
negata; in terzo luogo che la definizione del fondamento della verità in una
tale concezione deve essere necessariamente caratterizzata in maniera
oggettivistica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento
empiristico o razionalistico. L’interrogativo circa il dove storicamente questa
concezione si presenti realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da
sciogliere. La semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora
in maniera più approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della
verità (così come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha
ciò che rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità
(così come della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un
qualcosa, alla sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente
di un qualcosa non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di
semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico
o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale
non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con
l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si
richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo
Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento
concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa,
con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere
ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in
questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso
considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e attraverso
una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità di fare
riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un processo di
appropriazione, ossia mediazione intenzionale della semplice-presenza, diviene
il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi in quanto tale. Hegel
respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il processo dell’apparire
inteso come mediazione intenzionale affermando, con la terminologia che gli è
propria e che deriva dalla questione al superamento del dualismo
teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se il
conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta allora
è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto non lo lasci
inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma bensì porti con sé una
forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non sarebbe più strumento
della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo passivo attraverso il
quale la luce della verità può arrivare a noi, non così com’è in sé stessa ma
così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro che solo mediante la
conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre rimedio a questi
inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile escludere da ciò che si
ottiene quella parte di definizione che a partire dall’assoluto deriva dall’uso
dello strumento e conservarne così solo il Vero puro. Basterebbe questo
miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci trovavamo in precedenza.
Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto che su di essa ha avuto
lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a noi così com’era prima di
tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico della verità appare
dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la verità può almeno
spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un oggetto, così come è
stata considerata anche la sua essenza, essere preso per un altro se esso si
manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una concezione
empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per una
razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di un
qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare
immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per
questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e
manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come
quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità.
Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla
non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si
conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò
che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante”
porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che
riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né
cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo
o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della
verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento
della conoscenza come un qualcosa di immediato, oggettuale, simile a
un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile
un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento
del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti,
quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità
dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter
riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento
della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul
fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio
non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi
immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale
rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel
manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta
dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di qualcosa.
Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del concetto
più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo assoluto:
questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di qualcosa, di ciò
a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse su qualcos’altro
al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le difficoltà già esposte in
maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del manifestarsi di qualcosa
mettesse radici in un processo, in un divenire, in un avere e non avere,
bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene dalle origini e allo
stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi deve quindi
contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il processo del
manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire, è il
primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è un
qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo
stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per
quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di
scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la
conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della
conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la
prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che
nella logica tradizionale l’essenza della verità è stata ricercata nel Logos,
nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue forme e
nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si mostra qui
in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come
l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa
ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque
evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche
se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità
fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è
oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un
qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare
una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà
fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità
nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa
può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità
oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero
inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita
da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo,
motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di
conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria
della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere
fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo
sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione
del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due
pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e
soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che
mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro.
! Differenza ontologica e disposizione d’animo, Non dobbiamo perdere di vista
il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di un
elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso
solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve
essere inteso come strettamente oggettuale. Attraverso ciò siamo poi giunti
alla definizione del problema del Logos: il fondamento del manifestarsi può
essere interpretato unicamente come un processo o un atto che non è altro che
unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci sulla base del
significato originario del termine. La questione circa la preminenza del Logos
deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé né le sue forme,
così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del completare,
possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di svelatezza di
Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come sembra, il
processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal quale
deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale,
nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger
neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla
mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della logica
così come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico dalla
disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del pensiero
di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il fenomeno
della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se abbia
origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame originario).
Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo Heidegger, il
manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per poter essere
riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere manifesto in
tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non è che un
separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa primordiale
disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento determinante del
processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza? Tale
processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente a totalità che
attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il dispiegarsi di
questa radice originaria come processo contiene in sé già la possibilità
dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale ed è
possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa
procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si
fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché?
Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema innanzitutto
la definizione tradizionale di verità che si orienta alla proposizione, alla
connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta rimanda al fondamento e
alla ragione. Per tale motivo il problema della verità è strettamente legato a
quello della ragione. La verità della proposizione (anche verità ontologica)
non consente però la comprensione dell’Essere dall’Ente ed essa stessa è
possibile unicamente sulla base di una svelatezza originaria, definita come
verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità o la Non-Identità
di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La stessa verità ontica si
fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque alla disposizione d’animo,
nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa non può però essere mai
originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è stata una comprensione
dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità ontica affondano dunque
le loro radici in una verità pre-ontologica la cui natura resta ancora da definire.
Heidegger sottolinea come tra la comprensione dell’Essere pre-ontologica e
l’espressa problematica dell’afferrare la concezione di Essere vi siano diversi
passaggi che possono già fornirci un esempio di una qualsiasi precomprensione
dell’Essere originaria. Ad esempio i principi basilari delle singole scienze,
come ad esempio il fondamento del domandarsi che è proprio ad ognuna di esse,
indicano e delimitano un determinato campo come ambito di una possibile
oggettivazione attraverso la conoscenza scientifica, senza essere loro stessi
oggetto di indagine scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi
basilari delle singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso
l’indagine e dal momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone
una determinata precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda
sorge quindi spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere
rispetto all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e
quindi l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume
un’importanza fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende
da un modo di riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora
con la risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi
pre-comprensione, che è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente,
dobbiamo necessariamente ottenere anche lo scioglimento della questione
dell’essenza della disposizione d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica
della svelatezza rispetto all’Ente. Heidegger afferma che la svelatezza
dell’Essere è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza
dall’Ente è sempre tale del suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente
sono separabili l’uno dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo
grazie al manifestarsi dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra
unità (dell’essere) e molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come
processo, come atto e per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la
congiunzione e la separazione. Tale atto inteso come fondamento della
svelatezza è la differenza ontologica, laddove essa non si determina
precedentemente o successivamente al manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì
nel suo compimento. Heidegger dichiara che “la così definita e necessaria
sdoppiata essenza ontico-ontologica della verità è possibile solo in unione con
l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò si evince innanzitutto che il
fondamento della svelatezza si presenta come atto e poi che Heidegger definisce
tale atto come Logos, come leghein in senso più ampio, poiché afferma, facendo
riferimento alla pre-comprensione originaria dell’Essere dell’Ente, che esso è
“tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere in senso
ampio”. Il fondamento della svelatezza, che dunque rende possibile ogni
comportamento all’Ente (verità pre-ontologica che è così fondamento della
verità ontica e ontologica e disposizione d’animo laddove essa è intesa come
ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non inteso in senso tradizionale
come atto del pensiero che si deve necessariamente basare su un’originaria
semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione di una verità logica che
deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì come processo del
ricongiungere e del separare, processo del distinguere come un
venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro
affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento
della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine
mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una
concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa
di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla
precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava
origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza
ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento
della svelatezza dell’Essere rispetto all’Ente non sia che trascendenza: ma
cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di un
qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la differenza
ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto deve essere
necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che si svela.
Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine fondazione e
fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato separatamente da
esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della differenza
ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla svelatezza, è
svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità, in un mondo,
in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è nell’essenza del suo
Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea Heidegger, non è dunque
inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra l’altro appartiene
anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui e per cui anche
l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si manifesta non precede
o segue immediatamente un atto originario allora una qualsiasi svelatezza non
risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò permette di comprendere lo
stretto legame esistente tra trascendenza e disposizione d’animo. Trascendere
ovvero Esserci in senso metafisico è così fondamentalmente un
Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne deriva che l’Esserci
stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli Enti ad esso
appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci si
afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il secondo
modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa che
precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che
presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma
bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo.
Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per
mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa
appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché,
terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger.
Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come
processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la
comprensione della necessità dei tre modi nei quali è insito il fondamento, e
della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La possibilità
dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, L’episteme come
doxa alethes. Da un’approfondita critica dell’oggettivismo naturalistico si è
approdati a una prima definizione di leghein in cui compare l’Essere. Nella
necessità di una definizione ossia di un’affermazione generale (giudicare,
pensare) si è giunti al superamento del relativismo e attraverso di essa a una
prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò non risolve né il problema teoretico
del Logos né la questione interpretativa del testo di Platone. Come dobbiamo
considerare dunque nel dettaglio questo atto inteso come pensiero, come
giudizio? E come lo definisce Platone? Ma soprattutto com’è da considerare una
qualsiasi necessità? Come una ricerca di soddisfacimento al di fuori di essa
stessa? È dunque il pensiero solo una forma esteriore per impossessarsi
dell’Essere come suo contenuto e la verità il risultato dell’equivalenza del
pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa è la questione che partendo da
un punto di vista storico e sistematico dovrebbe portare con la sua risoluzione
ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di Platone. Che l’anima abbia
un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad appagare unicamente
aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora modi e modalità di
alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo del leghein, che si
fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il fenomeno
dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla verità;
poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale da
rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe
essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo,
dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno
l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il
processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto
l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa
essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una
condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un
rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo fondamentale processo.
Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del pensiero è
ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e che dunque
deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione per cui la
doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale pensiero ci si
riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa teoria
relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque questo
nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri sono veri
solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa che
veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma non
ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato generale
di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una conoscenza
motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità. Da qui
nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o
fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione
vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le
opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di
false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e
il suo significato ontologico. Legame tra ricerca del fondamento del
manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In precedenza
abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come tale un atto o
processo del leghein, il cui carattere resta però ancora piuttosto generico:
con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire, il
circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo
elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della
differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi
del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato
un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento
alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un
qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento
originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione
dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come
momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa il suo
rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo ancora come definire
il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso l’interpretazione del pensiero
di Teeteto e la discussione su quei problemi sistematici in esso contenuti
siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos come necessità originaria, che
si autoimpone, di affermazione del generale e dunque del giudicare, del
pensare. Il processo dell’originario del leghein assume così un primo e
determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di
Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia
riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può apparire come tale,
in senso generale, ma bensì come un ben determinato ricongiungere e riunire:
quello del pensiero che si manifesta nella necessità di affermazione del
generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del
generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che esiste. Il
fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella parola, nella
lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa attraverso il legame
con la necessità di affermazione del generale. Questa necessità originaria si
manifesta in una ben determinata forma di problematicità dell’Ente ogni
qualvolta non si sa come intendere una determinata cosa. Dell’origine di tale
atto, dell’impossibilità di dedurlo dal pensato, così come è inteso da Hegel,
abbiamo già discusso nel capitolo precedente, riassumendo a tal proposito la
critica di Gentile al pensiero del filosofo tedesco. Per quanto riguarda il
pensiero di Heidegger, va sottolineato che fino a quando non riusciremo a
stabilire se egli ha assegnato all'atto della trascendenza (intesa come “Logos
in senso ampio) una determinata forma (quella del pensiero pensante) o se ha
lasciato la questione irrisolta, anche la nostra interpretazione non potrà
essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti avesse in qualche modo
iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme di svelatezza, senza
fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e l’essenza della poesia”
in cui egli parla della funzione della parola poetica nel suo carattere di
manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente trascurata. Tale
questione non può essere discussa se prima non si definisce il carattere fondante
della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un interrogativo rilevante: il
processo originario che si manifesta nella necessità di affermazione del
generale è l’unica forma della svelatezza? Dobbiamo attribuire al Logos, alla
parola, alla lingua unicamente la necessità di affermazione del generale? A
questo punto è necessario far notare che in nessun caso le forme della
svelatezza posso essere classificate sulla base di ciò che appare per mezzo del
pensiero pensante. Questo perché nel momento in cui dovesse emergere una
distinzione nelle forme della svelatezza ciò dovrebbe essere presentato
mostrando che oltre alla necessità di affermazione del generale esistono altre
forme del fondamento originario del manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare
all’Ente. Dobbiamo quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come
pensiero pensante e dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto
altre forme: ovvero se la parola, il Logos abbiano solo un significato
“logico”. È evidente come un tale problema si ponga solo se, come nel nostro
caso, in precedenza si è definita in maniera chiara una prima manifestazione
della forma del Logos ad esempio come necessità di affermazione del generale.
Ma come possiamo sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria
ricollegandoli alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le
questioni che si presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger
chiedendoci se il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca
l’essenza delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per
determinare l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel
discutere di ciò Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo
potremo determinare definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di
Heidegger e la nostra posizione in merito. Successivamente andremo a verificare
le tesi proposte nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera
particolare dietro gli assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il
problema della parola e il problema dell’arte. Va notato come la questione se
la parola abbia o meno solamente un significato logico è l’essenza della
seconda corrente critica di Hegel in Italia la quale lega strettamente tale
questione con l’interrogativo se la parola ad esempio in poesia non abbia una
propria forma del manifestarsi dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di
risolvere la questione, nella contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna
di nuovo in Italia al piano ontologico. Questo dal momento che se la parola, la
poesia e dunque l’arte hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla
parola così come per la filosofia quale necessità di affermazione del generale
ciò ha UN DOPPIO SIGNIFICATO: innanzitutto che tra l’arte come forma del
manifestarsi dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel,
non vi è alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si
oppone alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era
della filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione
dialettica tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va
scomparendo e che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che
questo quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica,
ontologica in quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica
del fondamento del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante.
Il problema ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa
interpretazione dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della
poesia” andremo a discutere dell’imporsi del problema della forma del
manifestarsi. La domanda se il Logos come parola, come lingua debba essere
inteso solo come unione così com’è nel pensiero, si pone in questo scritto
congiuntamente al problema del fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger
afferma: “La lingua per prima accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo
della manifestazione dall’Ente”; “Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora
aggiunge: “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi come
tale nell’opera e di custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve
essere attribuita unicamente la determinazione dell’espressione del generale?
Già nello scritto “Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il
manifestarsi dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È
dunque la differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola
nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così
come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque
ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta?
Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello
sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo
prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è
innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata
spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto
proprio da questo punto di vista. Dal momento che la discussione heideggeriana
sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un poeta, in un
primo momento la questione appare essere considerata da un punto di vista che è
al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che l’ambito non sia
estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si evince però dalla
scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della sua
interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento
considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo.
Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza “è
colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione non si vuole
qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la
determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve testimoniare l’uomo? “La sua
appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione risulta difficile da
comprendere in quanto nella nostra comune concezione di uomo la sua
appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere dimostrata dal
momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque inspiegabile come essa
possa essere considerata un suo compito, un’attività da compiere che si impone
costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione della parola. Da
ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger l’uomo è tale solo
in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza non si manifesta
nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e realizzarsi. Tale
atto viene definito da Hördelin come testimonianza “dell’intimità” con la
terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin “intimità” è da intendersi
ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose. La
“testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la
creazione di un mondo la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo
compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il
necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però intendere
l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa
creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger
afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come
storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò
ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una
qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si
lega alla parola). Il mondo che appartiene all’uomo è solo il mondo della
parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si appropria della
realtà esistente così come percepita considerandola il proprio mondo solo
attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo mondo, il suo
cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi dell’uomo.
Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe sbagliato in
quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di denominare
qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del significato,
ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta l’Ente e lo fa
solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che l’uomo possiede
insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto la possibilità di
stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è lingua può esserci
mondo”. La lingua ha il compito di permettere all’ente di manifestarsi
nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola acquisisce un nuovo
e determinato significato: essa non è più la parola pronunciata, il mondo che
esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità di espressione ma bensì
parola significa qui prima manifestazione dell’Ente: parola, Logos come
fantasia, come apparizione nel senso più originario del termine. Heidegger
aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e nella parola”. Ma
cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in termini filosofici
(termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva e proprio
per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non
presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a
posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene
per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere
così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal
presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera
donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria
manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così
come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come
libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul
suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da
intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere,
nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però
solo sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale possiamo
comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella propria lingua,
nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come afferma Heidegger,
l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e dunque sempre presente.
In questo modo però la lingua si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però
solo in poesia la manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella
parola per poter definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è
necessario sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla
parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della
parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale
significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto
segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger
una determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una
definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al
fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza
ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione
in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il
manifestarsi nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione
del generale così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del
manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di
essenza della poesia così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo attraverso
la risposta a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria forma e
necessità e dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel momento in
cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza del fondamento” e “Hölderlin e
l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta essenzialmente della definizione
di fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la differenza
ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma che la
svelatezza dell’Essere “è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la
svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella dell’Essere”
(“Dell’Essenza del fondamento), per cui il fondamento della svelatezza si trova
nell'atto come differenza ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo
illuminante della comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio. Questo
svelamento si realizza solo per via di tale originario atto del distinguere,
così che la sua essenza sia trascendenza e fondazione e dunque fondamento di
tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì lo rende
possibile. In questo modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza, resta
però aperta la questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi atto.
Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la questione
heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il più veritiera
possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di Teeteto. Nella
sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle parole la
manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa identità
delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in poesia e
nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto consente
la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente e che la
poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola” (“Hölderlin e
l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza ontologica
(origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma qui che
“essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata.
Heidegger afferma ancora che: “SOLO DOVE VI È LINGUA VI È MONDO e ciò è
possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’ente come ente così
conosciuto. Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza è comprensione
illuminante dell’essere (Dell’essenza del fondamento), fondazione “di un
qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque possibile, e se in
conclusione l’atto della differenza ontologica (il quale svela la sua essenza
nell’Ente) è nella sua essenza creatore di mondo qual è la differenza tra
fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza
ontologica come fondamento della verità ontologica nella sua generica
concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di esistere e di
manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati
nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla definizione di
Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter attribuire alla
poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da quella verità
ontologica generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere
chiarito anche il significato di fondazione, mondo, istituzione,
manifestazione. Tale problema relativo alle forme della realtà si è manifestato
nel corso della nostra indagine laddove siamo stati costretti a decidere se
attribuire o meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o
anche altri. Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei
concetti heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e
così via sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come
svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del
fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle
diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta
dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si
attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento
ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione
di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone
come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione
circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera
critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la
necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali
questioni. Il problema delle forme del Logos. Sulla scia del pensiero
filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince anche in
Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato essenzialmente metafisico
ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo però dimenticare che già nel
pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si oppone alla visione di
Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi poiché ne
riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli afferma che tutto ciò
che può essere definito, differenziato, circoscritto attraverso l’atto del
pensiero, a cui egli attribuisce un significato ontologico originario, dunque
appare. Se ammettessimo diverse forme del manifestarsi senza riconoscerne la
loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo con un insieme di forme diverse
considerabili unicamente da un punto di vista empiristico. Una differenziazione
è possibile solo sulla base di un atto originario nel quale e per mezzo del
quale la distinzione appaia come atto del pensiero. Dimostrazione di ciò è che
ad esempio il processo nel quale l’Ente si rivela all’artista coincide con
quello dell’esistere dal momento che per egli la realtà è ciò che gli si
manifesta. Unicamente nel momento in cui egli esce dalla sfera artistica e fa
di un qualsiasi mondo l’oggetto del giudizio solo allora la realtà gli apparirà
come un qualcosa di ottenuto, di soggettivo, come arte e non realtà. “Questa
stessa irrealtà e idealità dell’arte diviene realtà viva e presente se la si
considera così come la fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che
vaga nella fantasia dell’artista, la realtà assoluta che non può essere
separata da quella a cui si fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è
per l’artista, fin tanto che si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo
Gentile l’arte si cela dietro il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale
che si ripropone sempre del pensiero pensante. Non possiamo però approfondire
la questione. L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza
di diverse forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo
attraverso un atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale
conclusione opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione
sia possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia
come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il
senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del
manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la
cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato
queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la questione
metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il problema dell’essere
dell’ente si ricollegava allora espressamente a quello dell’unità e della
molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità separatamente
dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il rivelarsi della
molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento dell’apparire, è un
processo che si compie da sé, un atto che nel momento in cui è ben circoscritto
non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza (ciò che Heidegger
definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così come abbiamo visto
nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale. Laddove la
svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa conoscenza come
pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così come Platone la
identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la svelatezza del proprio
fondamento. Questa avviene nella trascendenza filosofica, nella conoscenza
dell'essere come conoscenza del proprio fondamento: l’ineluttabile necessità di
affermazione del generale. Da questo generale e dalla conoscenza che ne deriva
non è stata ancora mai creata poesia. Nella conoscenza del fondamento c’è
l’essenza dell’atto filosofico. Questa conoscenza riguarda anche la creazione
dell’arte ma da essa non deriva alcun tipo di arte: questa conoscenza del
fondamento non appartiene all’arte in quanto tale tantomeno si riscontra in
essa un inizio di ciò. Questa necessità, che ci costringe alla conoscenza del
fondamento e quindi alla conoscenza come asserzione generale, è
fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi necessità che spinge
l’artista alla creazione della sua opera. Con l’affermazione di Gentile secondo
cui qualsiasi differenziazione si fonda nell’atto del pensiero non si va ancora
a toccare il nocciolo della questione che ci riguarda. Il problema delle
diverse forme del manifestarsi può essere sollevato o negato solo se non ci si
limita a considerare ogni distinzione come atto del pensiero: se ogni
differenziazione si realizza per mezzo di un atto, il quale per via della sua
origine non può essere né dedotto né motivato (dal momento che esso stesso è il
presupposto di ogni motivazione, domanda o risposta), allora dobbiamo chiederci
se la necessità nella quale si manifesta l’Essere logico come aspirazione
all’affermazione del generale è la stessa necessità per la quale ad esempio si
compie la differenziazione poetica. Ogni atto come fondamento del manifestarsi
di qualcosa è necessariamente fondazione, trascendenza e dunque possibilità di
apparire di una molteplicità, di una differenziazione che non presuppone
l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in una molteplicità ordinata, in un
mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la manifestazione di un qualcosa
nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si ottiene dunque attraverso il
dubbio, dalla necessità di affermazione del generale una differenziazione
poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si trova” in un mondo delle differenze
e delle determinazioni che è identico a quel mondo che deriva dal pensiero?
Abbiamo definito l’Essere che si manifesta nel pensiero pensante essenzialmente
come necessità di affermazione del generale. Da ciò possiamo dedurre che la
questione circa la molteplicità delle forme del manifestarsi non può essere
sollevata o risolta se si afferma che ogni differenziazione non è altro che la
realizzazione di un atto del pensiero ma bensì solo domandandosi se la
differenziazione poetica, la determinazione siano da ricondurre alla necessità
di affermazione del generale. Rispetto a che cosa misura il poeta la parola,
l'espressione? Non da qualcosa che è all’esterno altrimenti come sarebbe
possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da ciò che in esso si manifesta. Da ciò
che è in sé confrontare, scegliere, differenziare, decidere ed è possibile solo
sulla base di una necessità, attraverso la quale il poeta capisce se
l’espressione è adeguata o meno. Solo ciò che è necessario, fisso ed esistente
può essere misurato. Questa necessità che si cela nell’oggetto poetico si
manifesta nell’immediatezza dell’originario, del primo che per questo deve
essere sempre qualcosa di istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo
presente e unico. Solo grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è
già e ciò che ancora non è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre
temporalità di un determinato manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico
e il suo paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico
non deve essere considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì
come qualcosa in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella
quale all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo
pensante non misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si
trova al di fuori della necessità di affermazione del generale dato che
l’Essere logico è e appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è
solamente quello che riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da
essa poiché ricorre a una determinazione che in sé non può giustificarla. In
ciò consiste il profondo carattere etico che ogni verità possiede. Già il
riconoscere di non sapere è una risposta all’originaria necessità. Allo stesso
modo in cui l'uomo pensante guarda solo a una qualsiasi necessità che possa
fargli riconoscere la verità della propria determinazione, verità che si cela
con la forza attraverso la quale la necessità si manifesta, così il poeta
paragona e sceglie la parola poetica non paragonandola all’Ente esteriore ma
bensì alla necessità che si manifesta in esso: questo non è però mai un momento
di conoscenza del fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci siamo posti
sulle forme della necessità, sulla base della quale può essere distinta una
molteplicità, si evince, contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i
tre modi del fondamento che egli ha indicato come motivo del manifestarsi,
fondazione (trascendenza), Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del
perché, solo in questo contesto possano essere definiti chiaramente. È
importante precisare che attraverso il carattere originario e ! 285!
immediato della necessità dell’Essere dall’Ente, il problema delle forme
dell’Essere si cela dietro quello dei diversi attimi per l’ambiguità della
parola tedesca Augenblick che può essere intesa sia come visione e dunque
manifestazione dell’Ente sia come espressione temporale di attimo, momento.
Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine che nel dubbio si manifesta
originariamente come necessità di espressione del generale ci offre una ben
determinata visione di svariati Enti. Questa molteplicità in quanto tale è
solamente un momento del compiersi di una qualsiasi necessità. Da ciò si evince
anche un ben determinato arco temporale: poiché sulla base dell'imporsi di una
qualunque necessità si manifesta un determinato “prima” e “dopo”, una visuale
di ciò che vediamo “già” e di ciò che non vediamo “ancora”, un passato e un
futuro. Saggi: “Il problema della metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire
e dell’essere”; “Linee della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed
errare -- un confronto” (Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come
anti-arte. – il bello nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza
dell’immagine – ri-valutazione della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della
fantasia” “Per una storia del pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema
dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo e retorica. Il problema della follia,
Modena, Mucchi, La filosofia dell’umanesimo. un problema epocale, Napoli, Tempi
Moderni, La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart,
Novalis, Modena, Mucchi, La metafora inaudita, a cura di M. Marassi, Palermo,
Aesthetica, Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini, Filosofare noetico, non
metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte” (Lecce, Congedo, “Il dramma della
metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, Roma, L’officina tipografica, A
proposito di un Cinquantenario, in «Rassegna Nazionale», Roma; Germania, in
«Rassegna Nazionale», Roma, I giovani e il Partito Popolare Italiano, in
«Rassegna Nazionale», Roma, Il Tragico,
in «Rassegna Nazionale», Roma Scolastica e storia. A proposito di due articoli
di Saitta, in «Rassegna Nazionale», Roma Machiavelli e lo stato, in «Rassegna
nazionale», Roma La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in «Rassegna
Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano
Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della
fenomenologia «Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente «Giornale critico della filosofia italiana»,
Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo
«Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di
filosofia», Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana»,
Firenze “Paideia ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno Sophia,
Napoli Logo, in «Archivio di filosofia», Roma La nulla «Giornale critico della
filosofia italiana», Firenze La tradizione speculativa in «Giornale critico
della filosofia italiana», Firenze Esistenzialismo e marxismo, in Atti del
Congresso di Filosofia (Roma), Il
materialismo storico, a cura di E. Castelli, Milano, Castellani Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, in Tradizioni della poesia
italiana contemporanea, a cura di R. Copioli, Roma, Theoria, La filosofia nella
tradizione umanistica, in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, I, a
cura di L. J. Guerrero, Mendoza-Buenos Aires.Il concetto di “realismo politico”,
in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, cur. Guerrero,
Mendoza-Buenos Aires, Il fondamento esistenziale dell’Umanesimo, Archivio di filosofia, Umanesimo e
Machiavellismo, Padova Il tempo umano. L’umanesimo contro la “techne”, in
Umanesimo e scienza politica. Atti del Congresso Internazionale di Studi
Umanistici (Roma-Firenze), a cura di E. Castelli, Milano Esperienza europea
nell’ambito sud-americano. Il problema di un filosofare sud-americano,
«Archivio di filosofia», Filosofia e Psicopatologia, Milano L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività, in «Archivio di Filosofia», Il compito della
metafisica, Milano Apocalisse e storia, in «Archivio di filosofia», Apocalisse
e Insecuritas, Padova L’esperienza dell’assenza del mondo, in «Aut-Aut» Mito e
arte, in «Rivista di filosofia», Torino, Assenza di mondo, in «Archivio di
filosofia», La diaristica filosofica, Roma Significare arcaico (Fede e
ragione), in «Archivio di filosofia», Mito e Fede, Roma Filosofia critica o
filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in «Archivio di filosofia»,
Campanella e Vico, Padova Il nome di Dio: un problema filosofico o teologico?
La morte di Dio «Archivio di filosofia», L’analisi del linguaggio teologico. Il
nome di Dio, Padova L’infallibilità. L’aspetto filosofico e teologico, Padova La
mania ingenosa. Il significato filosofico del manierismo, in L’umanesimo e La
Follia, cur. Castelli, Roma, Abete «Studi di Estetica», Bologna, Rivoluzione e
realtà nell’arte (Il caso Wagner), in «Il Verri», Bologna, Idealismo, marxismo
e umanesimo, in «La Cultura», Marxismo, umanesimo e il problema della fantasia
nelle opere di Vico, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Premessa a P.
Polito, Lamartine a Napoli e nelle isole del Golfo, Napoli, Fiorentino, La priorità
del senso comune e della fantasia in Vico, in Leggere Vico, a cura di E.
Riverso, Milano, Spirali, La priorità del senso comune e della fantasia.
L’importanza filosofica di Vico oggi, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini
Risposta dell’autore, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Il terrore della
secolarizzazione. La metafora vuota, in «Archivio di filosofia», Ermetica della
secolarizzazione, Padova Una morte, in «Archivio di filosofia», L’Ermeneutica
della Filosofia della Religione, Padova Preminenza del linguaggio razionale o
del linguaggio metaforico? La tradizione umanistica, in «Archivio di
filosofia», L’Ermeneutica della Filosofia della Religione, Padova,
Testimonianza, in Ricordando Luigi Scaravelli, Firenze Politica e religione. La
riscoperta della tradizione latina, in «Archivio di filosofia», Religione e
Politica, Padova Religione e Politica, Padova La priorità del senso comune e
della fantasia in Vico, in Leggere Vico, a cura di E. Riverso, Milano, Spirali,
La facoltà ingegnosa e il problema dell’inconscio. Ripensamento e attualità di
Vico, in Vico oggi, a cura di A. Battistini, Roma, Armando, Vico contro Freud.
Creratività e inconscio, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini La notte,
introduzione a E. Castelli, Itinerari e panorami, Padova, Cedam, Esistenza –
Mito – Ermeneutica II, Ermeneutica e demitizzazione. Storia della filosofia,
filosofia della religione, Cedam, L’umanesimo italiano e la tesi di Heidegger
della fine della filosofia, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Storia del
dramma teatrale come dramma del pensiero occidentale. Dramma sacro, profano e
assurdo, in La rinascita della tragedia nell’Italia dell’Umanesimo, Atti del convegno
di studio, Viterbo, Sorbini Filosofia e
religione di fronte alla morte, Padova, Cedam, Vico, Marx e Heidegger, in Vico
e l’umanesimo, Milano, Guerini Il concetto di storia umana nell’Elogio della
pazzia di Erasmo, in «Res Publica Litterarum»,Il ripudio del razionale, in Vico
e l’umanesimo, Milano, Guerini Ermeneutica dell’“estraneità”. Originarietà
della parola poetica. Heidegger, Ungaretti in «Studi di Estetica», Come
conosciamo oggi l’opera d’arte?, Bologna Vico filosofo epocale, in Vico,
Poesia, Logica, Religione, a cura Santinello, Brescia, Morcelliana, Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Joyce e Vico.
La demitizzazione del reale, in «Il Verri», Bologna, La funzione demitizzatrice
della parola metaforica. Joyce e Vico, in «Quaderni della fondazione S. Carlo»,
Immagini e conoscenza, Modena, Vico e l’Umanesimo, Milano, Identità e
differenza del pensiero metaforico, in «Il Cannocchiale», Napoli Il sublime e
l’esperienza della parola, in Da Longino a Longino. I luoghi del Sublime, a
cura di L. Russo, Palermo, Aesthetica, La metafora inaudita, Palermo,
Aesthetica, Perché la retorica è filosofia, in Vico e l’umanesimo, Milano,
Guerini Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria
leopardiana delle illusioni, Nuovi Annali della Facoltà di Magistero
dell’Università di Messina, Roma La metafora inaudita, Palermo, Aesthetica,
L’umanesimo retorico e il primato della parola poetica, in «Helikon. Rivista di
tradizione e cultura classica dell’Università di Messina», Roma La metafora
“inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, in «Quaderni
d’italianistica», Toronto, L’opera di Proust è letteraria o filosofica? in Lo
stile della ragione e le ragioni dello stile. Atti del Congresso di Estetica, a
cura di F. Fanizza, Napoli, Tempi Moderni, L’antiumanesimo e il
nazionalsocialismo di Heidegger. «Intersezioni», Bologna Il “De Deo abscondito”
di Cusa. Nel decennale della morte di E. Castelli, in «Archivio di filosofia»,
Teodicea oggi?, Padova La filosofia
italiana nelle sue relazioni con la filosoifa europea oggi. Una discussione, in
«La Provincia di Napoli. Rivista dell’Amministrazione Provinciale», Napoli
Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento
indeducibile del linguaggio, in «Il Verri», Modena, Leopardi e Freud. Attività
metaforica o schizofrenica? In Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C.
Ferrucci, Milano, Feltrinelli, La metafora come linguaggio originario. L’“E” di
Delfi e l’attività ingegnosa di C. Salutati, in «Quaderni della fondazione S.
Carlo», Gli stili dell’argomentazione, Modena, Mucchi, L’impatto con Heidegger,
in «Archivio di filosofia», La recezione italiana di Heidegger, Padova
Heidegger e le vendette del tempo, in «Il Mattino», Napoli Presentazione a
Aristotele, Scritti sul Piacere, a cura di R. Laurenti, Palermo, Aesthetica, La
filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, in Italian
Echoes in the Rocky Mountains, a cura di S. Matteo, C. Donatelli Noble e M. U.
Sowell, Brigham Young University,
Hölderlin e il divenire come trapasso, in Pensare l’Arte, a cura di L.
Russo, «Aesthetica Preprint»,
L’abissalità del linguaggio. Considerazioni intorno a Hamann e Kant, in
Il romanticismo tedesco, a cura di L. Rustichelli, Modena, Mucchi, “Pensare l’arte” in funzione dello scritto di
Hölderlin “Il divenire come trapasso Synthesis philosofica, Zagreb, Ricordi di
Husserl e di Heidegger, intervista a cura di V. Mathieu, C. Rugafiori, C.
Campagnolo, videocassetta e testo scritto, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, Esperienza come conoscenza. La poesia. Per Eugenio Mazzarella, in E.
Mazzarella, Il singolare tenace, Porretta Terme, Zampighi.Calogero G.,
Recensione a G., Il problema della metafisica platonica, Bari, in «Giornale
critico della filosofia italiana»; Ruggiero G., Recensione a E. G., Il problema
della metafisica platonica, Bari, La Critica; Gadamer H.-G., Recensione a G.,
Il problema della metafisica platonica, Bari, in «Kant- Studien»; Preti G.,
Recensione a E. G., Dell’Apparire e dell’Essere, Firenze, in «Sophia», Napoli; Ottaviano
C., Recensione a E. G., Vom Vorrang des Logos, München in «Sophia», Napoli; Kudszus
H., Der italienische Geist und die deutsche Philosophie. Zu dem Vortrag von
prof. G., «Deutsche Allgemeine Zeitung», Berlin; Croce B., Recensione a E. G.,
Vom Vorrang des Logos, München in «Critica», Napoli; Gadamer H.- G., Recensione
a E. G., Vom Vorrang des Logos, München in «Deutsche Literaturzeitung», Berlin;
Bollnow O. F., Recensione a E. G., Vom Vorrang des Logos, München, in
«Göttingische gelehrte Anzeigen», Göttingen; Gehlen A., Recensione a E. G., Vom
Vorrang des Logos, München, in «Blätter für deutsche Philosophie», Berlin; Luporini
C., Recensione a E. G., Vom Vorrang des Logos, München, in «Giornale critico
della filosofia italiana», Firenze; Vanni-Rovighi S., Recensione a E. G., Vom
Vorrang des Logos, München 1939, in «Rivista di filosofia neo-scolastica»,
Milano; Fabro C., Recensione a E. G., Vom Vorrang des Logos, München, in «Divus
Thomas»; Müller M., Recensione a E. G., Vom Vorrang des Logos, in
«Philosophisches Jahrbuch»; Croce B., Recensione a E. G., Vom Vorrang des
Logos, München, in B. Croce, Pagine sparse, Bari, Laterza; Croce B., Recensione
a Geistige Überlieferung. Ein Jahrbuch, a cura di G. et al., Berlin, in B.
Croce, Pagine sparse, Bari, Laterza; Garin E., Recensione a E. G., Der Beginn
des modernen Denkens, in Geistige Überlieferung. Ein Jahrbuch, a cura di E. G.
et al., Berlin, in «Giornale critico della filosofia italiana», Vegas F.,
Recensione a E. G. e T. von Uexküll, Von Ursprung und Grenzen der
Geisteswissenschaften und Naturwissenschaften, München 1950, in «Rivista
Critica di Storia della Filosofia»; Popper K. R., Humanism and Reason,
Recensione a E. G. e T. von Uexküll, Von Ursprung und Grenzen der
Geisteswissenschaften und Naturwissenschaften, München 1950, in «The
Philosophical Quarterly»; Wisser R., Der Mensch ist wesentlich Seinsfrage, in
«Frankfurter Allgemeine Zeitung»; Die Kunst im Aufbau der menschlichen Welt, in
«Frankfurter Allgemeine Zeitung», Literaturblatt; Caracciolo A., Recensione a G.,
Kunst und Mythos, Hamburg, Rivista di Estetica»; Wisser R., Liebe zum Logos.
Zum 60. Geburtstag G., in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Id., Jenseits des Ästhetischen,
in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Literaturblatt; Rivano J., La América
ahistórica y sin mundo del humanista E. G., in «Mapocho»; Wisser R., Das
Mehr-als-Ästhetische der Kunst. Ernesto G. Theorien über Wirklichkeit und
Möglichkeit als Wesen der Kunst, in «Zeitschrift für Religions-und
Geistesgeschichte»; Garin E., Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza; Santucci
A., Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino; Seeger H.,
Antwort an G. in «Jahrbuch der Komischen Oper», Berlin; Pareyson L., Studi
sull’esistenzialismo, Firenze, Sansoni; Carchia G., Recensione a G., Macht des
Bildes, Köln Rivista di Estetica»; Bartoli F., Recensione a E. G., Arte come
antiarte, in «Il Verri»; Bonelli G., Recensione a E. G., Arte come antiarte, in
«Rivista di Studi Crociani Felsenstein W., Für G., in Studia Humanitatis. G.
zum Geburtstag, a cura di E. Hora e E. Keßler, München, Fink, Hora E.-Kessler
E. (a cura di), Studia Humanitatis. G. zum 70. Geburtstag, München, Fink; Amà
R., - Cervi D., presentazione di Rivoluzione e realtà dell’arte, in A. Banfi,
Introduzione a Nietzsche. Lezioni a cura
di Formaggio, Milano, ISEDI, Krois J. M., Comment on Professor G.’s Paper, in
«Social Research»; Cantillo G., Recensione a G. Humanismus und Marxismus. Zur
Kritik der Verselbstständigung von Wissenschaft, Reinbek bei Hamburg, «Bollettino
del Centro di Studi Vichiani»; Giannini H., Experiencia y Filosofia. A
proposito de la filosofia en Latinoamérica, in «Revista de Filosofia», Santiago
de Chile, Battistini A., Recensione a G. Humanisme et marxisme, Lausanne, «Bollettino
del Centro di Studi Vichiani», Napoli; Bareló J., Tradicionalismo y Filosofia,
in «Rivista de Filosofia», Santiago de Chile; Kerènyi M., Ingenium contra
Ratio, Recensione a E. G., Die Macht der Phantasie, Königstein/Ts. Neue Zürcher Zeitung»; Verene
D. P., Recensione a G., Die Macht der Phantasie, Königstein/Ts; Id. Recensione
a Rhetoric as Philosophy, University Park London; Wesseler M., Phantasie und
Wissenschaft. Zu einem neuen Buch
von G., Recensione a E. G., Die Macht der Phantasie, Königstein/Ts, «Prisma. Zeitschrift der
Gesamthochschule», Kassel; Battistini A., Recensione a E. G., Rhetoric as
Philosophy, University Park and London 1980, in ! 306! Lingua e Stile,
Bologna; Petrovic G., G.jeva apologija mastovotog misljenje i djelovanja,
Prefazione a E. G., Móc maste, Zagreb, Skolska knjiga; Hora E., Der Philosoph
als Reisender. G. wird 80, in «Süddeutsche Zeitung», München, Black D. W.,
Recensione a E. G., Rhetoric as Philosophy, University Park and London New Vico
Studies, Atlantic Highlands N. J., Humanities; Mattioli E., Retorica e
filosofia, Recensione a G. Rhetoric as Philosophy, University Park and London
1980, in «Studi di Estetica»; Neubaur C., Poetisch inspirierter
Wissenschaftler. G.s Humanismus, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Heim M.,
A Philosophical Correspondence on Heidegger and Taoism, (tre lettere di E. G.),
in «Journal of Chinese Philosophy», Honolulu; Mercier A., G., Dictionnaire des
Philosophes, Paris, P.U.F., Veit W., The Potency of Imagery. The Impotence of
Rational Language. G.’s Contribution to Modern Epistemology, in «Philosophy and
Rhetoric», University Park and London Foss S. K. Foss
K. A. Trapp R., Ernesto G., in Contemporary Perspektives and Rhetoric, Prospect
Heights/Illinois, Waveland; Vasoli C., Introduzione a E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Napoli, Guida; Barceló J., Recensione a E. G., Heidegger and
the Question of Renaissance Humanism, Binghampton/N.Y.in «Trilogia», Santiago
de Chile; Biuso A. G., Heidegger e l’Umanesimo, in «Alfa-beta Verri A., G. e la
rivalutazione dell’umanesimo, in «Discorsi»; Cantillo G., Intorno alla prima
recezione del pensiero heideggeriano in Italia, in «Criterio. Nuova serie filosofica»,
Napoli Hirsch E. F., Recensione a E. G., Heidegger and the Question of
Renaissance Humanism, Binghamton Journal of the History of Philosophy
Macciantelli M., Intervista a G., in «Incontri», Bologna, Neubaur C., Die
Weiterbewegung der Wahrheit. G. über philosophische Probleme des Humanismus, in
«Frankfurter Allgemeine Zeitung», Verene D. P., Response to G.. Remarks on
German Idealism. Humanism, and the philosophical Function
of Rhetoric, in «Philosophy and Rhetoric», University Park and London; Amoroso
L., Recensione a G., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli Teoria Bartolone
G., Realizzare la filosofia attraverso la parola metaforica. Intervista al
professor G. protagonista del pensiero contemporaneo ed acuto studioso
dell’Umanesimo, in «Gazzetta del sud Brügger P. A., Der “andere” Humanismus.
Ein Buch von G., Recensione a E. G., Einführung in philosophische Probleme des
Humanismus, Darmstadt 1986, in «Neue Zürcher Zeitung Gentili C., Recensione a G.,
Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli Studi di Estetica», Modena
Cascavilla G., G.. Dalla “differenza ontologica” al primato della metafora, in
«Idee. Rivista di filosofia Nobécourt J., Dopo le documentate rivelazioni
dell’ex discepolo di Farias. Un Heidegger indecente e servile, in «La Stampa»,
Wehowsky S., Versuche der Vielfalt. Ernesto G. 85, in «Süddeutsche Zeitung»,
München Alunni C.-Paoletti C., Heidegger, la piste italienne, in «Libération»,
Paris Bono M., Si stampi, disse il Duce. Caso Heidegger. Un retroscena
italiano. Intervista con G., in «Panorama», Fabre C., E Bottai usò Heidegger.
Intervista con G., in «L’Unità Pietropaolo D., Heidegger, G. e la
riabilitazione dell’umanesimo, in «Belfagor», Firenze Pons A., G. E IL FASCISMO
Express Rossi L., Premessa a G., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, Napoli Marassi M., Retorica, storicità ed umanesimo, postfazione a G.,
La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, Napoli, Bons E., Integratives
Denken – Antirationalismus – Vico-Interpretation. Eine Untersuchung zur
Philosophie G.s, Mainz, Amoroso L., Recensione a Anspruch und Widerspruch, a
cura di E. G. e H. Schmale, München 1987, in «Theoria Heim M., G.’s Experiment.
The Renaissance through Phenomenology, in
«Research in Phenomenology ABBAGNANO Amor mi mosse che mi fa parlare (G.
filosofo di passioni e follia Il Giornale», Inserto Lettere e Arti, Abbagnano
N., Non sono strenne, Giornale, Inserto Lettere e Arti. Bottiroli G., Le parole
e le cose, in «L’indice dei libri del mese», D’Acunto G., G. e l’ermeneutica
della parola metaforica, in «Il Cannocchiale Flisfisch M. I., Dr. Ernesto G..
El humanismo retórico y la primacia de la palabra poética, in «Limes Grammatico
G., G., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, in «Limes Rella
F., Recensione a E. G., Potenza dell’immagine, Milano 1989, in «La Repubblica.
Mercurio, Supplemento settimanale di lettere, arte e scienza», Bons E., Der
Philosoph Ernesto G. Integratives Denken. Antirationalismus. Vico-
Interpretation, München, Fink, Carravetta Retorica ed ermeneutica. Il
contributo di E. G., in «Paradigmi», Galimberti U., Tra ragione e passione c’è
un ponte, in «Il Sole 24 ore», domenica Lorch M., Recensione a E. G.,
Renaissance Humanism, Binghamton/New York, in Italian Echoes in the Rocky
Mountains, a cura di S. Matteo, Donatelli Noble e Sowell, Utah, Provo, Marrone
G., L’Umanesimo svelato ai sordi, in «Il Giornale di Sicilia Miccoli
L’Umanesimo, “alba incompiuta” della tradizione latina, in «L’Osservatore
romanoNiewöhner F., Recensione a G., Renaissance Humanism, Binghamton/N. Y., Wolfenbütteler
Renaissance Mitteilungen», Wiesbaden Rosenfield L. W., Recensione a E. G.,
Renaissance Humanism, Bighamton/N.Y., 1988, in «Philosophy and Rhetoric»,
University Park and London Verene D. P., Preface, introduzione a E. G., Vico
and Humanism, New York Cuadernos sobre Vico», Sevilla Bitter R., Der Zwist als
Ursprung der Menschheit. G. eröffnet Vorlesungsreihe in München, in
«Süddeutsche Zeitung», München Cascavilla G., La filosofia ingegnosa e la
struttura arcaica della storicità. G. B. Vico nell’interpretazione di G. in
Vico e il pensiero contemporaneo, a cura di Antonio Verri, Lecce, Milella Cotroneo
G., L’inquieto discepolo di Heidegger, in «Il Messaggero», Roma Acunto G.,
Vico, l’umanesimo, la retorica, in «Il Cannocchiale», Droit R. D., Le savoir
des pòetes, Recensione a E. G., La métaphore inouie, Paris 1991, in Le Monde,
Paris Gabetta G., Il racconto della teoria, in «Immediati dintorni», Haas A.
M., Die Macht der Bilder. Zum Tode von G., in «Neue Zürcher Gespräche Miccoli
P., Humanitas e retorica in G., in «Rinascita della Scuola», Neusch M., G.
contre le rationalisme, Recensione a E. G., La métaphore inouie, Paris La
Croix», Paris P. K., Mort du philosophe italien G. Le Monde», Paris Pinchard
B., Recensione a G., La metaphore inouie, Paris Les Etudes, ottobre Pons
Avant-propos, Introduzione a G., La metaphore inouie, Paris Ritter H.,
Bildkräftiges Denken, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung Sevilla-Fernàndez J.
M., Nota necrologica. G., in «Cuadernos sobre Vico», W, Sevilla Soetje E., Eidos, logos e pathos.
Nota su G. Rivista di Estetica», Vattimo
G., G. tra Vico e Heidegger. Il filosofo morto a Monaco, in «La Stampa»,
Torino, Verene D. P., Premessa a G., Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini, Verri
A., Introduzione all’edizione italiana di E. G., Vico e l’umanesimo, Milano,
Guerini, Vincenzo J., Discovery of Italian Humanism. The case of G., in
«Italian Culture Vitiello V., Un umanista attento al linguaggio dei poeti. La
scomparsa del filosofo E. G., in «Il Mattino», Napoli Zecchi L’ultimo allievo
di Heidegger, Giornale Cacinovic-Puhovski N., Bildlichkeit. G. und die Folgen,
Synthesis philosophica, Zagreb Traduzione serbocroata Slikovnost. G. i nakon
njega, in «Filozofska istrazivanja», Zagreb Cassinari F., Recensione a G., Il
dramma della metafora, Napoli Informazione Filosofica», Napoli Hidalgo-Serna
E., L’ultima metafora di G., postfazione a E. G., Il dramma della metafora,
Napoli Hidalgo-Serna E., In memoriam G., in «Synthesis philosophica», Zagreb
Trad. serbo-croata In memoriam G. Filozofska istravanja», Zagreb Hidalgo-Serna
E., Ha muerto G., el filósofo del Humanismo, Anthropos. Revista de
documentación cientifica de la cultura», Barelona Hidalgo-Serna E., Die
Unbleitbarkeit der Sprache bei Vives, Synthesis Philosophica, Zagreb
Neizvedivost jezika kod Vivesa, Filozofska istrazivanja, Zagreb Konnersmann R.,
Zeit für einen Gegen-Aristoteles. Auge blinzt und Ohr erstaunet. G.s Apologie
der Metapher, Recensione a E. G., Die unerhörte Metapher, Frankfurt Frankfurter
Allgemeine Zeitung», Mattioli E., Ricordo di G. e Gianfranco Folena, in «Testo
a Fronte», Napoli Miccoli P., Una acuta rivisitazione della tradizione
umanistica, in «Tempo Presente», Müller W. J., Ereignis. Gespräch. Zum Tod G.s, in
«Bayernkurier Petrovic G., Marx, Arbeit und Gelassenheit. Ein Brief an G., in
«Synthesis philosophica», Zagreb Arbeit und Gelassenheit. Zwei Grundformen des
Umgangs mit Natur. Zürcher Gespräche III, a cura G.-Hugo Schmale, München,
Fink, Marx, rad i opustenost. Pismo G., in «Filozofska istrazivanja», Zagreb
Pietropaolo D., G., Vico and the Defense of the Humanist Tradition, in «New
Vico Studies», New York, Atlantic Highlands, Pons A., G., in «Enzyclopedia
Universalis, Paris Skoric G., Zum Thema. Zur Erinnerung an G. Synthesis
Philosophica», Zagreb Uz temu. U spomen na Ernesta G.ja, in «Filozofska
istravanja», Zagreb Veljak L., Rehabilitierung der lateinischer und
humanistischen Tradition. G. versus Hegel, in «Synthesis Philosophica», Zagreb Traduzione
serbocroata Rehabilitacija latinske i humasticke tradicije. G. versus Hegel, in
«Filosofska istrazivanja», Zagreb Verri A., Ricordo di G. Informazione
Filosofica», Napoli Wisser R., Erinnerung an G.. Schwerpunkt Kunst und Welt, in
«Synthesis Philosophica», Zagreb Trad. serbo-croata Sjecanje na G.. Teziste:
Umjetnost i svijet, Filozofska istrazivanja, Zagreb Banic-Pajnic E., The
Problem of “Humanism” of Humanism in «Prilozi, Compadre C., Recensione a G. La
filosofia del humansimo, Barcelona Naturaleza y Gracia, Salamanca Fuentes R.,
La esperanza humanista, Recensione a G., Barcelona in «ABC literario», Madrid
Hidalgo-Serna E., G. y la primacia de la palabra en el Humanismo, introduzione
a G., La filosofia del Humanismo. Preeminencia
de la palabra, Barcelona, Anthropos, Malagoli E., A Ischia convegno di studi su
G. in «Il Golfo», Ischia Marassi M., Metafora, dramma dell’umanità, Il Giornale
di Napoli, Napoli, Mate R., Un modo espanol de pensar, Recensione a G., La
filosofia del Humanismo, Barelona El Pais, Madrid Tommasi R., “Essere e tempo”
di Martin Heidegger in Italia, Milano, Glossa, Verri A., G. sull’Umanesimo e
Heidegger, in «Il Veltro Ricordo di G., in Storia e Humanitas. Momenti del
pensiero filosofico moderno e contemporaneo, Galatina, Congedo, Huelva
Unternbäumen E., Kunst und Logos. G.s Ästhetik als Vermittlung zwischen
italienischer und deutscher Philosophie, in «Widerspruch», München Muller P.,
Profils de G. in «Revue de Theologie et de Philosophie Fierz C. L.,
Philosophical Implications of G.. A New Foundation of Philosophy?, in «Philosophy and
Rhetoric, University Park and London, Moore J. G., Recensione a E. Bons,
Integratives Denken – Antirationalismus – Vico-Interpretation. Eine
Untersucbung zur Philosophie G., Mainz, Philosophy and Rhetoric», University
Park and London, Fontane-De Visscher L., Un débat sur l’humanisme. Heidegger et G., Revue philosophique de Louvain, Simonetta,
Filosofia e potere: su G., in «Intersezioni», Mooney The Tragedy of the
rationalistic Process, Semiotica, Marassi, Esperienza e passione. G. e il
problema del fondamento, in Studi in memoria di G., a cura di E. Hidalgo-Serna
e M. Marassi, Napoli, La Città Del sole, Gentili C., Concezione e funzione del
mito nel pensiero di G., in Studi in memoria di G., Bons E., Il pensiero di G..
Una breve sintesi, in Studi in memoria di G., Veit W. F., Critica radicale
della ragione – O l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, in
Studi in memoria di G., Petrovic G., Lavoro e abbandono. Lettera a G., in Studi
in memoria di G., Wisser R., Ricordo di G.. Arte e mondo, in Studi in memoria
di G., Pietropaolo D., Bottai e la fondazione dell’Istituto Studia humanitatis,
in Studi in memoria di G., Schwerin Gli anni di fondazione e la prima attività
promossa dal Centro Italiano di Studi Umanistici e filosofici di Monaco: un
ricordo, in Studi in memoria di G., Kessler E., L’attività di G. all’Università
di Monaco di Baviera, in Studi in memoria di G., Barceló J., G. e la sua
esperienza sudamericana, in Studi in memoria di G., Neher M., G. curatore della
Rowohlt Deutsche Enziklopädie. Radici critico-culturali, programmi e primi
inizi, in Studi in memoria di G., Verene D. P., G. in America, in Studi in
memoria di G., Mathieu V., I temi di G. nei “Colloqui zurighesi”, in Studi in
memoria di G., cSchmale H., Lo spirito dei Colloqui di Zurigo, in Studi in
memoria di G, Keßler E., Il vero, il buono e il bello. L’ascesa del bello nella
filosofia del Rinascimento, in Studi in memoria di G., Vasoli C., Speroni e il
luogo della retorica nel sistema del sapere, in Studi in memoria di G, Cantillo,
Ratio e iventio nell’interpretazione dell’umanesimo, in Studi in memoria di G.,
Tagliacozzo G., L’istante iniziale della carriera vichiana di G., in Studi in
memoria di G., Battistini A., Vico e l’Umanesimo inquieto di G., in Studi in
memoria di G., Verri A., G.: LINGUAGGIO e civiltà in VICO, in Studi in memoria
di G., Amoroso L., Heidegger e la metafisica, in Studi in memoria di G., Vincenzo
J., La ripresa G.ana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, in Studi in memoria
di G., Mattioli E., La teoria del bello nell’antichità secondo G., in Studi in
memoria di G. Lombardo G., G. lettore del “perì hypsos”, in Studi in memoria di
G. Bornschauer L., La filosofia nell’orizzonte della tragedia attica.
Riflessioni sull’opera di G. Il dramma della metafora, in Studi in memoria di G.
Simonetta M., Il dramma della metafora. G. filologo del poeta, in Studi in
memoria di G.Di Cesare D., Note al “Monologo” di Novalis, in Studi in memoria
di G., Kaiser H., Il problema della metafora vuota in G.. Un’osservazione sulla
sua interpretazione di Jean Paul in Studi in memoria di G., in Studi in memoria
di G., Contini A., Esperienza e verità delle passioni: il Proust di G., in
Studi in memoria di G., Russo L., G. e CROCE, in Studi in memoria di G., Acunto,
L’appello della parola. La rilevanza filosofica del problema della metafora
nella Auseinandersetzung di G. con Heidegger, in Studi in memoria di G., Messori
R., Differire e trasferire. La spazialità del linguaggio metaforico, in Studi
in memoria di G. Baer E., G. e la parola poetica di Paul Célan, in Studi in
memoria di G., Hidalgo-Serna E., La poetica dell’Umanesimo di Paz, in Studi in
memoria di G., Gentili C., Introduzione a Arte e Mito, Napoli, La Città Del
Sole, Russo L., Presentazione a Un filosofo europeo. G., Æsthetica, Marassi M.,
G. e l’esperienza del fine, in Un filosofo europeo. G. Cesare D., Metafora e
differenza ontologica: G. vs Heidegger?, in Un filosofo europeo. G., Amoroso
L., Da Aristotele a Vico. A proposito di G. e il mito, in Un filosofo europeo. G.,
Modica G., Oltre Heidegger e VICO. Sulla prospettiva filosofica di G., in Un
filosofo europeo. G., Mattioli E., Appendice: Prefazione alla seconda edizione
di Die Theorie des Schönen in der Antike, Messori, R., Recensione a E. G., Arte
e mito, Napoli, La Città Del Sole, Poetiche. Letteratura e altro», Modena,
Fasano T., Recensione a Studi in memoria di G., a cura di E. Hidalgo-Serna e
Marassi, Napoli, La Città Del Sole, Studi di Estetica, Bologna Pons A., G. lecteur
de VICO, in Présence de Vico, a cura di R. Pieri, Montpellier, Prevue, Messori
R., G. e l’estetica dell’ingenium, in
Studi d’Estetica, Bologna, Baer E., Noetic philosophing – Rhetorics
Displacement of Metaphysics Alcestis and Don Quixote, Philosophy and Rhetoric,
University Park and London, Ratto, Recensione a Studi in memoria di G., a cur. Hidalgo-Serna
e Marassi, Napoli, La Città Del Sole, Philosophy and Rhetoric», University Park
and London, Crivano F., Recensione a G., Arte e mito, Napoli, La Città Del
Sole, in «Studi di Estetica, Bianco Recensione a Un filosofo europeo. G. in
«Aesthetica Studi di Estetica», Bologna, Messori R., Critica e difesa
dell’estetico in G., in Un nuovo corso per l’estetica nel dibattito
internazionale, Arezzo, Trauben, Marassi M., Introduzione a Viaggiare ed
Errare. Un confronto col Sudamerica, Napoli, La Città Del Sole, Messori R.,
Paesaggio ed esperienza estetica, nota a Ernesto G., Viaggiare ed errare,
Napoli Studi di Estetica», Bologna, Marassi Introduzione a G., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, La Città Del Sole, Cacciatore G.,
America latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di G., in
«Cultura latinoamericana», Annali Esiste una versione spagnola del saggio
Amèrica latina y pensamiento europeo en la filosofia del viaje de G., in Id.,
El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofìa hispanoamericana, Planeta,
Bogotà Pardo G. reivinca la figura de VICO par su oposición al cartesianismo,
El Pais, Madrid Messori Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e
umanesimo nel pensiero di G., Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo
Kozljanic R. J., Kunst und Mythos. Lebensphilosofische Untersuchungen zu
Ernesso G. Begriff der Urwirklichkeit, Igel Verlag, Oldenburg Bisin Recensione
a Kozljanic, Kunst und Mythos. Lebensphilosofische Untersuchungen zu G. Begriff
der Urwirklichkeit, Igel Verlag, Oldenburg Rivista di filosofia Neo-
scolastica, Raimondi R., La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna Sevilla J. M.,
Retòrica como filosofìa. Ernesto G., Vico y el problema del humanismo retòrico,
Època», Monteagudo, Kozljanic G.. Leben und Denken, München, Fink, McPhail M.
L., Coherence as Representative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and G.,
Kenneth Burke and Contemporary European Thought: Rhetoric in Transition,
University alabama Limongelli S., La svolta metaforica dell’ontologia
fondamentale, GDS, Edizioni di Vaprio d’Adda, Milano, Rubini R., Philology as
Philosophy: the sources of G.’s Postmodern Humanism, in «Annali d’italianistica
Büttmeyer G. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, München,
Alber. Id., Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di G., Giornale
critico della filosofia italiana Barnes S. D., Between Chaos and Cosmos: G.
Faulkner, and the Compulsion to speak, Janus head», New York, Sànchez
Espillaque J., La filosofìa ingeniosa de G. y la rehabilitaciòn del humanismo
retòrico renacentista, Cuadernos sobre Vico», Sevilla Ead., G. y la filosofìa
del Humanismo, Fenix Editora, Sevilla Cacciatore, G., Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del
neoumanesimo, in “Noema, /riviste.unimi.it /index.php/noema. Sevilla
Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problematica. Motivos en Vico y
Ortega, Anthropos, Barcelona Limongelli S., Il problema dell’umano nella
filosofia di G., Ici, Napoli; Blum, P. R., Rhetoric is the Home of the
Trascendent: G.’s Response to Heidegger’s Attack on Humanism, in Intellectual
History Review, Routledge, London; Barcelò Lenguaje poético y metáfora en la
obra de G., in Revista de Filosofía; Agostino S., La metafisica di G. tra
Platone e Blondel, in Pagani- S. D’Agostino-P. Bettineschi, La metafisica in
Italia tra le due guerre, Enciclopedia italiana Treccani, Roma. Stavru A., Das Schöpferische
und das Göttliche: zur Frage der humanistischen Überlieferung bei G. und Otto,
in Art, Intellectual Politics. Aa
diachronic perspective, Brill, Leiden; Cacciatore G., In dialogo con Vico,
Edizioni di Storia e letteratura, Roma Di
Somma A., La Hora de Pan en Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit
Sudamerika de G. in AA. VV, Magister et discipuli. Filosofìa, historia,
politica y cultura, Penguin Random House, Bogotà; Ead., “Meditazioni
sudamericane”: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di G., in “Studi
Interculturali”, Ead., La realtà umana tra disvelamento e fondazione:
l’incidenza di Vico e Leopardi nell’antropologia di G,, in cds in ISPF Lab
Ead., Il ruolo di Platone nell’onto-antropologia di G,, in cds in A. Muni (a
cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina mentis, Ead.,
Traduzione di E. G., Der italienische Schopenhauer, in AA. VV., Schopenhauer im
Denken der Gegenwart, Piper, München Lo Schopenhauer italiano, in cds in
“Archivio di Storia della cultura”; G. in München. Aspekte von Werk und
Wirkung, Atti del Convegno svoltosi a Monaco, in cds per l’editore Fink. Ernesto
Grassi. Grassi. Keywords: la metafora inaudita, metafora, Vico, Ovidio -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grassi e Grice: Grice e Grassi, il Vico di Grassi: metafora
come implicatura” – The Swimming-Pool Library.
No comments:
Post a Comment