Grice e Casalegno: l’implicatura
conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia linguistica del
Novecento – scuola di Torino – filosofia torinese –filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I
like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating Griice, or me,
is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,, “more than a
translation, he provided a correction – and he tried to prove that Cassiodoro
was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to ‘translate’ Grice –
let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to ‘re-interpret’
Grice, if a re-interpretation is needed!”
Si
laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a
Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della
filosofia analitica, quali il concetto di verità, la teoria degli insiemi,
l'epistemologia della testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere:
“Alle origini della semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio:
un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci); “Brevissima
introduzione alla filosofia del linguaggio, Carocci, Verità e significato. Scritti di filosofia
del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla,
D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei
plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come
interpretare l'argomento antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le
proprietà modali della verità: problemi e punti di vista, in Logica e teologia
(Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di asseribilità, in Modi
dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e riferimento, in Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica.
Casalegno, il maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni,
Corriere della Sera, Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P.
Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di).
Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento
oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello
Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri
di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia
di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica
del linguaggio. I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui C., Frascolla,
Iacona, Paganini e Santambrogio. I testi antologizzati consentono al
lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e
problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi
decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei
curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e
i concetti chiave che emergono dalla sua opera. Apre il classico Senso e
significato di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi Le
descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite),
Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche
filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Quine, Nomi e
riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Putnam,
Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di Grice,
Dispute metafisiche intorno al realismo, di Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Chomsky. versazione – afferma Grice - è
un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono. Introduzione alla filosofia del linguaggio C. Significato
e condizioni di verità. Prendiamo in considerazione un’idea del primo
Wittgenstein: “Comprendere una proposizione vuole dire sapere che accada
se essa è vera” (Tractatus). Poiché comprendere una proposizione equivale a
conoscerne il significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del
significato si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana? Un modo può essere questo: usiamo il
linguaggio per descrivere la realtà. Una
proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale,
della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata
altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le
circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata,
dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera.
Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo
conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’. Evitiamo di fraintendere.
Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal
sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le
due cose. Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere le
condizioni di verità di una proposizione equivalga
a sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera. La
tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua
conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa
elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si
possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci,
concentriamoci su alcune di queste. Le obiezioni possono essere,
principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una
proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere
l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del
significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità
sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che
il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme
determinato di condi-zioni di verità. Al termine ‘proposizione’
preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso
del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano
‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione
e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false. La prima
obiezione si basa sull’ovvia constatazione che esistono
espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e
alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente
attribuibili condizioni di verità. Ci sono
espressioni sintatticamente ben formate che
non sono frasi complete, parole singole o espressioni
come ‘valigia pesante’. Che queste espressioni
abbiano un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni
di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In secondo luogo, ci
sono frasi complete come le interrogative e le imperative.
Inevitabilmente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte
di espressioni deve ricorre a nozioni diverse da quella di
verità. Sembra dunque impossibile che
proprio su questa nozione si fondi tutta quanta una
teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler
dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica
nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale.
Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono
enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle parole
singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci
serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non
fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un
significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in
cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla,
equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle
frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile
spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più
in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non
presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare
appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo
vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH).
Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si
riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra capacità di capire e di
usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra
capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si
sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci riporta,
ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto
semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente:
queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono in modo
ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la
domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle
interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o
un’affermazione, e delle frasi imperative.
La centralità della nozione di verità
sembra così essere confermata. Della seconda
obiezioni esistono più varianti, potremmo
perciò formularla come segue. Concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il
linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di
informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria.
Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati
possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi
in modo esclusivo sul loro ruolo di veicoli di informazione, ci si
condanna ad offrire del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del
resto anche se si è interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la
realtà, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono
assai più complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai
ridursi al proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo
sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo, delle
informazioni di cui i nostri interlocutori già dispongono, delle loro
aspettative ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del
discorso, violando le quali ciò che diciamo potrebbe non esser compreso o
risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In secondo
luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito come
qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto
informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro condizioni di
verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che si contemplano
gl’enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può avere
l’impressione che sia così. Ciò che si può comunicare con un dato enunciato
varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa
obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmatica, una
distinzione che risale a un saggio di Morris, secondo il quale lo studio di una
lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti:
sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in
quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e dal loro uso, la
semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si
può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire,
confonde semantica e pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler dire che
questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il
problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla
pragmatica sia giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le
condizioni di verità da altre dimensione del linguaggio rispecchi
un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, identifichi un
livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica
feconda. Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono
tenuti a rendere conto di tutti gl’usi possibili del linguaggio. Si è tenuti a
rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gl’usi linguistici del
linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo
convincerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che
la conoscenza delle condizioni di verità degl’enunciati svolga
un ruolo essenziale anche quando sono coinvolti fattori
che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è
legittimo distinguere semantica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la
pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gl’enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo Questa pagina
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l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai
elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da
parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione
rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”.
Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi sono
“costituenti psichici”. Usando le parole di
Wittgenstein si può continuare a dire, come
faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire
che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della
proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la
proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel caso del
linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa
esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è
logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente
così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del
pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben
altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche
filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare
del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e
dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si
riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono
immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una
proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in
quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il
pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù
della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una
“legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori
notizie. Una proposizione che rispecchi fedelmente la struttura
del pensiero espresso è detta da Wittgen-stein “completamente
analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna
ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere
esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia
logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge
dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che
sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si
fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che
ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime
i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione
logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […]
Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi
di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa
concezione della filosofia resterà per lo più immutata. I nomi che
figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti
di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano
l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai
nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati
in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso
comune è il requisito della semplicità. L’oggetto
deve essere semplice, ma di questa semplicità il
Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in
parte la genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione
ricorrente di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire
degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli
oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”;
“Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso
dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora
impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo
presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I)
Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che
figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue
dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi
potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia
che ad un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. 5 stato di
cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione
rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”.
Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagine vera e propria che è
il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta
in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso
una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce
ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero espresso è detta da Wittgen-stein
“completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del
pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito
in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio
ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della
filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e
delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma
insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra
logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il
linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della
filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una
dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni
filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il
Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più
immutata. I nomi che figurano in una proposizione completamente
analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non
identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e
quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere semplice,
ma di questa semplicità il Tractatus non da’ neanche un esempio.
Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus, si
scopre che una preoccupazione ricorrente di Wittgenstein era proprio
quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione
esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché ne avesse in
mente esempi specifici, bensì sulla base di considerazioni logiche
astratte e generali. In effetti un’argomentazione vera e propria
Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là
affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del
mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una
sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra
proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del
mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein
vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia
senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto.
Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione
elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità
complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un dato nome
corrisponda davvero qualcosa. Un’entità complessa consta di entità
più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale
correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che
una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P
figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo
sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa, e quindi che P ha
senso, solo se fossimo sicuri che C esiste: in altri termini, solo se
sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi
costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein,
“l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione
vera”. Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no
deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza
di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una
proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di
un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non
potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non
saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.
Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono
corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. In questo ragionamento, la
corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere
con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui
esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per
quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il
mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli
oggetti”. La proposizione non è dunque un’immagine vera e propria: la sua
struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti
ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco
sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a
Wittgenstein interessa. Questo però non implica che sia priva di senso. Grazie
alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo
adeguatamente bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del
tutto diversa: a proposizioni completamente analizzate. Si può finalmente
comprendere perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di
tipo descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto
attraverso una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di
cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un
fatto contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne
costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che
istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione
dell’oggetto stesso. Vediamo ora cosa Wittgenstein
sostiene riguardo le proposizioni complesse. La
sua idea è che le proposizioni complesse
siano funzioni di verità delle proposizioni
elementari che figurano come loro costituenti. Supponiamo che
le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano
P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a
dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità
di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per
visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita
per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni
costituenti, Wittgenstein propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole
di verità’. Tavola di verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T
(1). Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione
(inclusiva): Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come
sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di
un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra
riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P ∨
Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo
autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa
differenza tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici.
Per Frege ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di
verità a valori di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti).
Frege avrebbe dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un
modo per descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i
connettivi non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è
che esso consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o
false dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le
proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per
Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi. A queste
considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la
concezione wittgensteiniana della logica. Né Frege né Russell avevano
saputo spiegare che cosa contraddistingue una proposizione logica da una
proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di
Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al
valore di verità di una pro-posizione complessa come
determinato dai valori di verità dei suoi costituenti
elementari, si può constare che ci sono due casi limite: quello in
cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione
complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità
dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la
chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’. Ciò che
Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero
di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una
proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per
via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice
nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il
loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del
linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni. Avevamo detto che il
senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione
rappresenta. Alle proposizioni complesse questa nozione di senso
non può essere applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è
una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa
ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha
ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di
verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa
dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò
che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle
combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per
le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
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devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO”
di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA
E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x
descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione
della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI
LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI
VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE
LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es:
l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI
VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E
NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI
UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La
luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI
VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO
COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo
della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi
è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE
DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI
DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi
complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI
INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI
VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche
nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE
NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X
UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo
atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN
TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando
dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che
possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della
costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI:
studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: - conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di
mezzo 2. QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti 4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla
nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato=
riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna +
alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es:
Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME
SINGOLARE es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità
di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni
hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =
E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO
CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI
AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE
QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morris= lo
studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto
tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE
CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può
fare,dei loro impegni concreti*GRICE: -conversazione = ATTIVITA’
COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo
QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce
alla nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato =
riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna
+ alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi
propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York
*descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di
Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi
differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato
in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione= E’
SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE
EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone,
Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine
Putnam FREGE, “SENSO E SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI
SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del
CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE
CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO
OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI
(INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI
VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e
INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI
DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO /
SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa
sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato,
non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni
student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le
IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può
rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne
resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle
espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è
possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se
non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni
caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa
risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative
ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è
sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando
l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per
cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti
per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio
appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di
vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo
sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise
di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. -
le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a
sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte
solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano
CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si
basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciate quindi
non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben
formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la
prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex.
“Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa
obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la
nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono
enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in
cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la
NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV
nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si
può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può
convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed
imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere
il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno.
OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente
per un’analisi adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione
sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si
decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per
concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare
impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista
le cose sono molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre
tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di
costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le
CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto
informativo degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta
stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due
opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV
che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di
una lingua si compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA
che riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi
concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e
PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione.
Qualcuno potrebbe ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il
problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo
due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del
linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la
pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce
dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una
conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga
a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant):
CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA
QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate.
FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE
CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed
ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica
e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo
punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di
GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i
partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ:
fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ:
non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI:
dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo. parlare
in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo Stefano
Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.
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